MATERIALI E TECNOLOGIE ODONTOSTOMATOLOGICHE
a cura dei
Docenti di Materiali Dentari
e Tecnologie Protesiche
e di Laboratorio delle Università Italiane
Referente di Disciplina
ARIESDUE
Giuseppe Spoto
ARIESDUE
ARIESDUE
MATERIALI E TECNOLOGIE ODONTOSTOMATOLOGICHE
MATERIALI E TECNOLOGIE
ODONTOSTOMATOLOGICHE
MATERIALI E TECNOLOGIE
ODONTOSTOMATOLOGICHE
AGGIORNAMENTO
LUGLIO 2013
a cura dei Docenti di Materiali Dentari e Tecnologie Protesiche
e di Laboratorio delle Università Italiane
Referente di Disciplina
Giuseppe Spoto
›
›
›
Brescia
Corrado Paganelli, Giorgio Gastaldi
Cagliari
Gloria Denotti
Chieti
Giuseppe Spoto, Antonio Scarano, Morena Petrini,
Maurizio Ferrante
›
›
›
›
›
Ferrara
Santo Catapano, Nicola Mobilio
Foggia
Lorenzo Lo Muzio
L’Aquila
Mario Baldi
Messina
Domenico Cicciù
Milano-Bicocca
Marco Baldoni, Dorina Lauritano, Alessandro Leonida,
Salvatore Longoni
›
›
Milano S. Raffaele
Enrico Gherlone, Loris Prosper
Napoli Federico II
Alberto Laino, Roberto De Santis, Antonio Gloria,
Fernando Zarone, Roberto Sorrentino
›
›
›
›
›
›
Pavia
Paolo Menghini, Giuseppe Merlati
Piemonte Orientale
Carmen Mortellaro
Politecnica delle Marche
Francesco Sampalmieri, Andrea Santarelli
Roma Cattolica del Sacro Cuore
Francesco Somma, Luca Marigo
Roma Sapienza
Licia Manzon
Roma Tor Vergata
Saverio Giovanni Condò, Loredana Cerroni, Guido Pasquantonio,
Roberta Condò
›
›
›
Sassari
Edoardo Baldoni, Massimo Corigliano
Siena
Marco Ferrari, Cecilia Goracci
Torino
Gianmario Schierano, Roberto Perotti, Carlo Mazzucco,
Antonino Castronovo
Trieste
Elettra Dorigo De Stefano, Lorenzo Breschi, Milena Cadenaro
Verona
Daniele De Santis
ARIESDUE
›
›
ARIESDUE
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Collegio dei Docenti di Odontoiatria
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Italia
tel. +39 (031) 79.21.35
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Inserito online nel mese di settembre 2013
PRESENTAZIONE
La buona accoglienza
dispensata al volume dedicato
ai Materiali ed alle Tecnologie
Odontostomatologiche, ci ha
spinto a continuare, migliorare
ed approfondire il programma di
Disciplina.
Questo libro è dedicato al Prof.
Mario Baldi, recentemente
scomparso, ma ancora vivo nei
nostri cuori. Egli ha lavorato
attivamente e diligentemente
alla prima edizione del libro,
a questo aggiornamento e al
volume per gli Igienisti Dentali.
La sua professionalità ed i suoi
insegnamenti continueranno ad
essere pietre miliari di questo
libro.
Una seconda dedica va alla Prof.
Elettra Dorigo De Stefano, primo
Docente di Materiali Dentari,
Past President del Collegio dei
Docenti di Odontoiatria, sotto il
cui Patrocinio è iniziato il nostro
Progetto. I suoi consigli sono stati,
e lo sono ancora, fondamentali
per la sua produzione Collegiale.
Il carisma e la dedizione della
Prof. Dorigo per la Disciplina
sono di esempio per tutte le
generazioni future che intendano
intraprendere la carriera
accademica.
Ventuno sedi universitarie hanno
aderito a questo progetto ed
hanno collaborato attivamente
fornendo ciascuna il suo materiale
didattico.
Il risultato è questo aggiornamento
che presto diventerà nuovo
volume che rimane sotto
il Patrocinio del Presidente del
Collegio dei Docenti,
Prof. Antonella Polimeni.
Il mio ringraziamento va, altresì,
alla Prof. Livia Ottolenghi per
il supporto sempre costante e
concreto in tutte le decisioni
adottate.
Mi auguro che il volume possa
essere di aiuto a quanti iniziano
lo studio dei Materiali Dentari
e delle Tecnologie Protesiche
di Laboratorio, i suggerimenti
e le critiche degli studenti e
dei colleghi consentano di
introdurre ulteriori integrazioni
e miglioramenti così come ad
esempio è stato fatto nell’attuale
aggiornamento dal
Dott. Claudio Agostinelli e dal
Dott. Paolo Trentini.
Giuseppe Spoto
Referente della Disciplina Materiali Dentari
e Tecnologie Protesiche di Laboratorio
INDICE
AGGIORNAMENTO
LUGLIO 2013
CAPITOLO 10
MATERIALI PER LA TERAPIA
PROTESICA
Approfondimento
Le saldature e cenni di elettroerosione
10.3.8 Ceramiche gold standard
10.3.8.1 Ceramiche vetrose
10.3.8.2 Ceramiche a base di disilicato di litio
10.3.8.3 Ceramiche ad elevata resistenza infiltrate
con vetro
10.3.8.4 Ceramiche a base di allumina
10.3.8.5 Ceramiche a base di zirconia
Approfondimento
CAD-CAM
CAPITOLO 6
MATERIALI PER LA PREVENZIONE
DELLE PATOLOGIE E DEI DANNI DENTARI
6.1.8 I sigillanti
Bibliografia capitolo 6
Bibliografia capitolo 10
CAPITOLO 11
MATERIALI PER LA TERAPIA IMPLANTARE
11.5 Elettrosaldatura endorale
Bibliografia capitolo 11
CAPITOLO 7
MATERIALI PER LA TERAPIA
CONSERVATIVA
7.1.9 Cementi e materiali da sottofondo
7.1.9.1 Cementi per l’odontoiatria conservativa
7.1.9.2 Materiali protettivi di sottofondo
7.1.9.3 Cementi canalari
7.1.9.4 Cementi all’ossido di zinco e eugenolo (ZOE)
7.1.9.5 Cementi all’acido orto-etossibenzoico (EBA)
7.1.9.6 Cementi a base di acido fosforico
7.1.9.7 Cementi al fosfato di zinco
7.1.9.8 Cementi al silicato
7.1.9.9 Cementi a base di acidi polialchenoici
7.1.9.10 Cementi policarbossilati
7.1.9.11 Cementi vetroionomerici
7.1.9.12 Cementi vetroionomerici modificati
con resina
7.1.9.13 Compomeri
7.1.9.14 Cementi a base resinosa
CAPITOLO 15
NUOVE TECNOLOGIE
15.4 Scaler sonici ed ultrasonici
15.4.1 Considerazioni cliniche
Bibliografia capitolo 15
CAPITOLO 23
ASPETTI GIURIDICI
23.6 Normativa e radioprotezione in odontoiatria
23.6.1 Esercente e responsabile dell’impianto radiologico
23.6.2 Prescrivente e specialista
23.6.2.1 Procedura amministrativa
23.6.2.2 Elenco degli obblighi relativi
all’applicazione dei Decreti Legislativi 187/00 e 241/00
Approfondimento
Le proprietà ideali dei cementi odontoiatrici
Bibliografia capitolo 7
Bibliografia capitolo 23
CAPITOLO 24
MATERIALI PER LO SBIANCAMENTO
DENTALE
24.1 Lo sbiancamento
24.2 Il trattamento professionale
24.2.1 Detersione professionale delle superfici dentali
24.2.2 Lo sbiancamento professionale
24.2.2.1 Il perossido di idrogeno
24.2.2.2 Il perossido di carbamide
24.2.2.3 Gli effetti collaterali
24.2.2.4 Metodi per accelerare il processo di
sbiancamento
24.3 Lo sbiancamento dei denti non vitali
24.4 Lo sbiancamento domiciliare
24.5 I trattamenti fai-da-te
24.5.1 Dentifrici sbiancanti
24.5.2 Collutori sbiancanti
24.5.3 Fili interdentali, spazzolini e gomme da masticare
24.5.4 Strisce sbiancanti (whitening strips)
Bibliografia capitolo 24
GLOSSARIO
Ringraziamenti
CAPITOLO 6
MATERIALI PER
LA PREVENZIONE
DELLE PATOLOGIE
E DEI DANNI
DENTARI
trollare l’inizio della polimerizzazione e di avere quindi un tempo di applicazione maggiore rispetto a quelli
autopolimerizzabili, in cui l’indurimento inizia subito
dopo la miscelazione. Inoltre, quelli attivati chimicamente possono presentare maggiori porosità dovute
all’inglobamento di bolle durante la miscelazione ed essere più disomogenei di quelli fotopolimerizzabili.
I sigillanti possono essere anche suddivisi in base al
colore del materiale, classificandoli in sigillanti traspa-
FIG. 4 Dente isolato
con diga di gomma.
6.1.8
I sigillanti
I sigillanti per fossette e fessure o sigillanti occlusali
sono materiali che vengono posizionati in corrispondenza dei solchi e fossette occlusali al fine di creare una
barriera protettiva contro i batteri cariogeni e i substrati alimentari. Più dell’80% delle carie si localizza infatti
a livello delle anfrattuosità delle superfici occlusali dei
molari, dove la complessa morfologia e soprattutto la
presenza di solchi profondi e stretti impedisce la penetrazione delle setole dello spazzolino e quindi un’adeguata detersione.
I primi materiali sigillanti sono stati introdotti a metà
degli anni 60 ed erano a base di cianoacrilati, in seguito
abbandonati perché soggetti a fenomeni di degradazione nel cavo orale e sostituiti da materiali a base di
Bis-GMA (ottenuto dalla reazione del Bisfenolo A con
il glicidilmetacrilato). Ancora oggi i sigillanti resinosi
contenenti Bis-GMA ed altri monomeri diluenti come il
TEG-DMA (trietilenglicol-dimetacrilato) rappresentano
i materiali per sigillatura più utilizzati. Si tratta di materiali fluidi a bassa viscosità, che penetrano nelle fessure
occlusali e aderiscono allo smalto dentario, preventivamente mordenzato con acido ortofosforico, con un
legame di tipo micromeccanico.
I sigillanti possono essere classificati in base a diverse
caratteristiche. Una prima classificazione li divide in sigillanti autopolimerizzabili e fotopolimerizzabili. I primi
sono forniti sotto forma di due componenti da miscelare subito prima dell’uso, uno contenente il perossido
di benzoile quale iniziatore e l’altro un’amina terziaria
quale attivatore. I secondi, invece, contengono un fotoiniziatore (comunemente il canforochinone, ma altri
fotoiniziatori possono essere presenti in associazione
o in alternativa a questa molecola), che viene attivato
dall’esposizione alla luce visibile, utilizzando una lampada fotopolimerizzatrice con un picco di emissione
di circa 470-480 nm. I materiali più utilizzati sono oggi
quelli fotopolimerizzabili perché consentono di con-
FIG. 5 Detersione
dello smalto mediante
spazzolino montato
su micromotore
utilizzando acqua e
pomice o una pasta
da profilassi senza
fluoro.
FIG. 6 Asciugatura
della superficie
dentale.
FIG. 7
FIG. 10
FIG. 8 Abbondante
Fotopolimerizzazione
del sigillante per i
tempi indicati dal
produttore.
Mordenzatura con
acido ortofosforico al
35-37% per 15-30
secondi.
risciacquo con
rimozione del gel
mordenzante.
Applicazione del
sigillante sul dente.
FIG. 11
FIG. 12 Superficie
occlusale sigillata.
FIG. 9 Superficie
occlusale mordenzata
ed asciugata.
FIG. 13 Estensione
della sigillatura.
renti, colorati e opachi. I sigillanti opachi contengono
generalmente diossido di titanio. Il vantaggio dei sigillanti colorati e opachi è quello di essere maggiormente
distinguibili rispetto allo smalto circostante, facilitandone l’applicazione e permettendo il monitoraggio
dell’integrità e dell’adattamento marginale nel tempo.
Recentemente sono stati anche sviluppati sigillanti che
cambiano colore durante la polimerizzazione (ad esempio da rosa a bianco), con l’intento di renderli più visi-
bili durante l’applicazione.
Un’altra classificazione viene fatta in base al contenuto
di riempitivo (filler): si distinguono infatti sigillanti riempiti e non riempiti. Il motivo alla base dell’aggiunta
dei filler è il tentativo di migliorare le proprietà meccaniche e la resistenza all’usura di questi materiali. Tuttavia, la necessità di avere un materiale sufficientemente
fluido per potere penetrare nei solchi e nelle fossette
occlusali fa sì che il contenuto di riempitivi sia sempre
comunque molto più basso di un materiale composito
da restauro, anche di tipo flow. In ogni caso le evidenze
cliniche sembrano dimostrare che entrambi i tipi di sigillanti sono efficaci.
Sono stati anche proposti sigillanti con riempitivi contenenti fluoro, allo scopo di aumentarne l’azione anticarie. Questi riempitivi possono essere sia sali di fluoro aggiunti alla resina non polimerizzata che composti
fluorati legati chimicamente alla resina. Il rilascio di
fluoro dai materiali resinosi è tuttavia limitato e in ogni
caso comporta una perdita delle proprietà meccaniche
del materiale.
Allo scopo di sfruttare la capacità di rilascio di fluoro,
in alternativa ai sigillanti resinosi, è stato proposto l’utilizzo dei cementi vetroionomerici. Questi materiali,
però, presentano una percentuale di ritenzione molto
più bassa rispetto ai sigillanti resinosi (3-7% a tre anni
contro il 74-95% dei materiali a base resinosa). Trovano
comunque indicazione nei casi in cui la sigillatura sia
fortemente consigliata e in presenza di un campo operatorio non perfettamente isolabile (ad esempio molari
non completamente erotti di soggetti molto cariorecettivi).
Viste le loro caratteristiche di fluidità, anche i compositi e i compomeri di tipo flowable sono stati proposti
per l’esecuzione delle sigillature. La loro percentuale di
riempitivo è però superiore rispetto a quella dei sigillanti convenzionali e pertanto la loro penetrazione nei
solchi è inferiore. Inoltre, a causa della maggiore viscosità, non riescono a creare un legame micromeccanico
adeguato con lo smalto mordenzato e richiedono quindi l’utilizzo preliminare di sistemi adesivi. Queste caratteristiche li rendono più adeguati alla realizzazione di
restauri microinvasivi, in presenza di solchi pigmentati
o con segni di carie inziale, sottoposti ad ameloplastica
preventiva con una fresa a fiamma o con tecniche di
abrasione ad aria.
L’efficacia dei sigillanti nella prevenzione della carie è ampiamente dimostrata: la riduzione della carie
nei denti sottoposti a sigillatura rispetto a quelli non
sigillati è dell’87% a 12 mesi e del 60% a 48-54 mesi.
Malgrado ciò, alla luce dei notevoli miglioramenti delle
strategie di prevenzione degli ultimi anni e all’aumento del numero di soggetti caries-free, gli orientamenti
attuali sono indirizzati verso l’applicazione dei sigillanti
non in tutti i pazienti, ma nei soli soggetti cariorecettivi e con solchi profondi, valutando l’esperienza pregressa di carie del paziente e il livello di attività cariosa.
Poiché il rischio di carie sembra essere maggiore nel
periodo successivo all’eruzione, i sigillanti dovrebbero
essere applicati il più precocemente possibile dopo la
comparsa nel cavo orale, tenendo conto, tuttavia, che la
cariorecettività di un paziente può cambiare nel corso
della vita in relazione a modificate abitudini alimentari e
di igiene o a causa di patologie concomitanti.
L’efficacia dei sigillanti è condizionata dall’integrità del
materiale. Per questo motivo i sigillanti, una volta applicati, devono essere sottoposti a controlli regolari per
verificarne la durata ed essere riapplicati in caso di perdita o di usura. La causa principale di fallimento a breve
termine è rappresentata dal distacco del materiale dovuto a una tecnica di applicazione inadeguata, in particolar modo a un campo operatorio non perfettamente
isolato. I fallimenti a lungo termine, invece, sono per lo
più dovuti a fenomeni di usura.
La tecnica di applicazione prevede l’adeguato isolamento del campo operatorio con diga di gomma, la
detersione dello smalto con una coppetta di gomma o
spazzolino montato su micromotore utilizzando acqua
e pomice o una pasta da profilassi senza fluoro, un abbondante risciacquo e asciugatura della superficie, la
mordenzatura con acido ortofosforico al 35-37% per 1530 secondi seguita nuovamente da abbondante risciacquo e asciugatura dello smalto, l’applicazione del sigillante e la sua fotopolimerizzazione per i tempi indicati
dal produttore. Deve quindi essere valutata l’integrità
marginale della sigillatura e la presenza di interferenze
occlusali che, ove presenti, saranno eliminate con una
fresa in pietra di Arkansas.
Bibliografia
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Ahovuo-Saloranta A, Hiiri A, Nordblad A, Mäkelä M, Worthington HV. Pit and fissure
sealants for preventing dental decay in the permanent teeth of children and adolescents.
Cochrane Database Syst Rev. 2008 Oct 8;(4):CD001830.
Anusavice K. Phillips’ Science of Dental Materials (11th Edition). St. Louis: Elsevier
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preventing caries in the permanent dentition of children. Br Dent J 2003;195(7):375-8.
McCabe JF, Walls A. Applied Dental Materials (9th Edition). Oxford: Blackwell Publishing
Ltd; 2008.
CAPITOLO 7
MATERIALI
PER LA TERAPIA
CONSERVATIVA
procede all’eliminazione dei tessuti cariosi fino ad avere cavità idonee alla ricostruzione dell’elemento stesso.
Per effettuare i restauri conservativi si possono utilizzare
materiali di vario genere. Individuiamo dei materiali di
sottofondo che hanno una funzione di protezione della
vitalità dell’elemento dentario, materiali per otturazioni
permanenti e materiali per otturazioni provvisorie.
7.1.9.2 Materiali protettivi di sottofondo
7.1.9 Cementi e materiali da sottofondo
Il termine cemento indica diversi tipi di materiali con
differenti caratteristiche utilizzate nella pratica clinica.
Gli ambiti di utilizzo dei cementi per uso odontoiatrico
possono essere così rappresentati:
› protezione della polpa dentaria (materiali protettivi
da sottofondo);
› cementi canalari;
› otturazioni permanente o provvisoria di cavità;
› cementazione di intarsi, corone, ponti, bande ortodontiche.
7.1.9.1 Cementi per l’odontoiatria conservativa
L’odontoiatria conservativa si occupa della diagnosi e
delle terapie degli elementi dentari affetti da malattia
cariosa e delle varie patologie che possono colpire i tessuti duri del dente (fig. 7). In odontoiatria ricostruttiva si
FIG. 7 Rappresentazione schematica di un elemento dentario cariato.
Le proprietà ideali di un materiale da sottofondo adatto
a isolare una cavità preparata per un procedimento restaurativo sono le seguenti:
› capacità di protezione della polpa da stress chimici,
elettrici e termici;
› solidità necessaria a supportare le forze sviluppate
durante le procedure di otturazione e condensazione di materiali;
› proprietà favorenti la mineralizzazione dentinale;
› radiopacità.
I materiali di sottofondo possono essere classificati secondo questo schema.
› Vernici. Sono resine sintetiche in soluzione con solventi organici che, una volta applicati sulla dentina la
rivestono come un film che ostruisce il tubulo dentinale. Formano una membrana semipermeabile di 2-5
micron di spessore. La vernice più frequentemente
utilizzata è la coppale, resina sintetica di nitrato di
cellulosa in soluzione con solventi organici (cloroformio, acetone, benzene, toluene, acetato di amile,
etere). Non possono essere utilizzate al di sotto di
cementi all’idrossido di calcio in quanto renderebbero nulla l’azione di mineralizzazione sulla dentina da
parte di questi cementi; non possono essere posizionate a contatto diretto con materiali da otturazione
a base di compositi, in quanto il film andrebbe ad interferire con i componenti del composito rendendo
imperfetta la polimerizzazione.
› Basi. In genere sono cementi dentali le cui caratteristiche fisico-chimiche li rendono idonei a sostituire
la dentina rimossa nella preparazione della cavità. Le
basi o cementi di sottofondo sono tutti quei materiali che si possono utilizzare nelle cavità dove residua
uno spessore dentinale molto sottile. I principali tipi
di cementi da sottofondo sono i seguenti:
• cementiall’idrossidodicalcio;
• cementiall’ossidodizinco-eugenoloemodificanti con resine o acido 2-etossibenzoico;
• cementialfosfatozinco;
• cementipolicarbossilici;
• cementivetroionomerici.
I cementi all’idrossido di calcio sono un insieme
di sostanze in cui l’idrossido di calcio costituisce la
porzione predominante. Generalmente viene commercializzato sotto forma di due paste che devono
essere miscelate. Quando le due paste vengono
messe a contatto l’ossido di zinco e il disacilato del
2,3-butilenglicole interagiscono formando un complesso chelato dello zinco. Tale reazione determina
FIG. 10 Polpa
esposta a seguito di
frattura.
FIGG. 8, 9
Cementi all’idrossido
di calcio utilizzati
come sottofondo per
la protezione della
polpa.
›
›
›
rapidamente nella massa compattezza e resistenza
alla pressione. I cementi all’idrossido di calcio raggiungono una resistenza alla compressione di circa
20 MPa; questa caratteristica fa sì che siano preferiti
nei restauri con amalgama in quanto durante la fase
di condensazione bisogna utilizzare una discreta forza di compressione (figg. 8, 9).
I cementi all’idrossido di calcio vengono pertanto
utilizzati per protezione della polpa dentaria quando lo stato di dentina residua è molto sottile oppure quando vi è esposizione pulpare. Nel primo caso
si parla di incappucciamento indiretto; nel secondo caso si definisce incappucciamento diretto con
idrossido di calcio.
Incappucciamento indiretto. Dopo aver accuratamente asportato la dentina cariata dalla cavità si procede posizionando un sottile strato di cemento all’idrossido di calcio a protezione della dentina stessa.
Sopra a questo strato viene pennellata una vernice
all’idrossido di calcio e come ultimo strato si pone
un cemento tipo EBA (ossido di zinco-acido2-etossibenzoico). Con questi materiali si cerca di stimolare
la neoformazione di dentina.
Incappucciamento diretto. In questa situazione
clinica, che si presenta frequentemente a seguito di
traumi dentali e conseguente esposizione della polpa si può tentare di mantenere la vitalità della polpa. Questo è possibile quando non è completata la
crescita della radice. La procedura consiste nell’applicare sulla parte di dentina un sottile strato di cemento idrossido di calcio, un isolante di cavità e un
cemento all’ossido di zinco-eugenolo. Si potranno
programmare dei controlli periodici per valutare l’evoluzione della terapia (fig. 10).
Liner. Sono quei materiali che associano all’azione
delle vernici altre proprietà derivabili dall’inserimento nella formulazione di componenti con varie azioni
specifiche, in special modo idrossido di calcio, eventualmente associato a ossido di zinco, eugenolo,
FIG. 11 Vernice
Copalite usata a
protezione della
dentina.
fluoruro con azione anticarie. Sono comunemente
definiti liner, si presentano sotto forma di pasta fluida che indurisce grazie all’azione di catalizzatori che
ne determinano la compatezza (fig. 11).
7.1.9.3 Cementi canalari
I cementi canalari sono costituiti per la maggior parte
da ossido di zinco e eugenolo con presenza di piccole
quantità di vari tipi di medicamenti come ad esempio:
paraformaldeide, cortisone, dijodiotimolo e altri componenti. Esistono comunque anche cementi canalari
privi di eugenolo che basano la loro reazione di presa
sulla presenza di un acido organico a catena lunga che
si lega con l’ossido di zinco o di bismuto (figg. 12, 13).
Le caratteristiche principali di un cemento endodontico sono le seguenti:
› capacità di aderire sia alla dentina che al cono di guttaperca;
FIG. 12 Cemento
canalare a base di
ZOE.
FIG. 13 Cemento
canalare a base
di Zoe senza
formaldeide.
›
›
›
›
›
›
tempo di presa sufficiente affinché si possano eseguire le procedure di condensazione della guttaperca;
coefficiente di dilatazione e di contrazione non influenti;
scarsa o nulla riassorbibilità;
possibilità di essere rimossi in caso di ritrattamento
del canale.
biocompatibilità;
radiopacità.
FIG. 14 Cemento
ZOE per otturazioni
resina.
7.1.9.4 Cementi all’ossido di zinco
e eugenolo (ZOE)
In questo gruppo di cementi abbiamo un ampio numero di prodotti in cui la formulazione è caratterizzata
da due componenti principali: l’ossido di zinco e l’eugenolo. I componenti della polvere in questo tipo di
cemento sono: ossido di zinco al 90% (rappresenta la
componente basica debole), ossido di magnesio al 9%
(riempitivo), e acetato di zinco al 5% (catalizzatore accelerante). I componenti del liquido sono l’eugenolo
nella misura del 95% (componente acido debole), e olio
di oliva al 5% (modulatore della viscosità). Il complesso
interno zinco-eugenolo ha l’aspetto di un gel che al momento della cristallizzazione incorpora una parte della
polvere di ossido di zinco formando una massa solida
e resistente. Questa reazione è molto veloce in soluzione acquosa, e molto lenta in eugenolo poiché l’ossido
di zinco è poco solubile in questa sostanza e dissocia
pochi ioni Zn+ necessari a formare il complesso stabile. La tracce di acqua presenti nell’eugenolo e nell’ambiente atmosferico trasformano inizialmente l’ossido
di zinco in idrossido il quale successivamente reagisce
con l’eugenolo con una reazione più veloce liberando
acqua. La presenza di acetato di zinco, un sale più solubile dell’ossido di zinco, serve per fornire ioni zinco alla
soluzione e creare un ambiente ionico favorevole alla
dissociazione dell’ossido stesso. È necessario che la reazione non avvenga troppo velocemente per garantire
una buona qualità del cemento. La presenza di acqua o
umidità durante la fase di impasto fa accelerare la reazione, così come il calore; pertanto bisogna utilizzare
piastre di vetro da impasto fredde ed avere l’accortezza
di tenere chiusi ermeticamente i contenitori dei componenti del cemento all’ossido di zinco.
Indicazione d’uso dei cementi ZOE
Poiché sono in grado di costituire una efficace barriera
termica, avendo un coefficiente di diffusione termica
simile alla dentina, sono utilizzati per i restauri in amalgama. È preferibile non utilizzarli con resine composite
in quanto interferiscono con la polimerizzazione e ne
alterano il colore. La presenza di eugenolo determina
una discreta attività antibatterica e lenitiva anestetica
sulle terminazioni cellulari della polpa e della dentina. I
cementi all’ossido di zinco eugenolo presentano però,
scarsa resistenza alla compressione (figg. 14, 15).
Secondo la classificazione ADA distinguiamo i cementi
all’ossido di zinco eugenolo in quattro gruppi: i gruppi
FIG. 15 Cemento
ZOE rinforzato con
resina.
FIG. 16 Cemento
ZOE.
FIG. 17 Cemento
all’ossido di zinco
privo di eugenolo.
FIG. 18 Cemento
ZOE usato come
sottofondo e isolante
termico.
I e il II sono utilizzati come cementi per corone, mentre
i III e IV come cementi da sottofondo.
Classificazione ADA n°30:
Tipo I: cementi temporanei per corone/ponti di resina o metallo provvisori o definitivi (figg. 16, 17);
› Tipo II: cementi definitivi per corone/ ponti definitivi;
› Tipo III: cemento di sottofondo con caratteristiche
di isolante termico in otturazioni definitive e come
materiale per otturazioni provvisorie (fig. 18);
› Tipo IV componente di isolanti chimici di cavità.
Nell’utilizzo dei cementi all’ossido di zinco eugenolo,
›
per ottenere i risultati terapeutici desiderati bisogna:
› utilizzare tecniche corrette nella preparazione di cavità assicurandosi di creare le dovute geometrie ritentive;
› assicurasi di avere, prima di condensare il materiale
d’otturazione, un adeguato spessore e di aver raggiunto un sufficiente indurimento del cemento da
sottofondo;
› esercitare una pressione di condensazione e di modellazione sopportabile dai cementi di sottofondo.
7.1.9.5 Cementi all’acido orto-etossibenzoico
(EBA)
FIG. 19 Cementi
zincofosfatici usati
come cementi di
fissaggio
e materiali per
ricostruzioni
provvisorie.
Sono dei cementi all’ossido di zinco eugenolo modificati dalla presenza di silice e acido orto-etossibenzoico.
Queste sostanze permettono una seconda reazione
dell’ossido di zinco formando un composto che, indurito, presenta caratteristiche di maggior resistenza alla
compressione. Nella formulazione di questi tipi di cementi la parte in polvere è costituita da: ossido di zinco
nella misura del 60%, silice per il 35%, colofonia idrogenata al 5% (riduce la solubilità). La parte liquida è costituita da: 35% di eugenolo (acido debole) 62,5% acido
orto-etossibenzoico (acido forte). Anche in questo tipo
di cemento la reazione di presa è data dalla formazione
di un complesso chelato tra acido orto-etossibenzoico
e ossido di zinco. La caratteristica di questi cementi EBA
consiste nell’essere più resistenti alla compressione e
di aver una minore solubilità in acqua. Trovano utilizzo
come sottofondi per amalgami, come materiali per otturazioni provvisorie e per la cementazione di manufatti protesici. In commercio si trovano anche altri tipi di
cementi ossido di zinco eugenolo modificati e rinforzati
con resine acriliche per aumentarne la resistenza alla
compressione e diminuirne il grado di solubilità. Per
quanto riguarda le procedure di lavorazione valgono le
stesse raccomandazioni fatte per gli ZOE.
acidità, irritanti per la polpa dentaria. Quando vengono utilizzati come sottofondi è bene associarli con dei
protettivi della polpa come ad esempio dei liner o un
cemento all’ossido di calcio. Anche se il tempo di presa
dei cementi al fosfato di zinco è intorno ai 4-8 minuti,
la massima resistenza alla compressione, compresa tra
gli 80 Mpa e i 140 Mpa avviene dopo 24 ore; pertanto
quando vengono utilizzati con i materiali di otturazione in amalgama, la loro resistenza alla compressione
è vicina alla pressione che viene utilizzata per la condensazione dell’amalgama. In questi casi bisogna assicurarsi che sia passato tempo utile affinché il cemento
abbia raggiunto una resistenza sufficiente a sopportare
la pressione di condensazione dell’amalgama (fig. 19).
I cementi al fosfato di zinco sono utilizzati come fondini
di piccole e medie cavità sotto otturazioni in amalgama. Sono anche utilizzati per la cementazione di intarsi, corone e bande ortodontiche. Esistono anche dei
cementi al fosfato di zinco modificati che presentano
caratteristiche particolari:
› cementi con fluoruro di stagno: sviluppano maggior
potere anti-cariogeno ma presentano maggior solubilità e una minore resistenza;
› cementi al rame dove il 20% di ossido di zinco è stato
sostituito da ossido rameico di color nero o da ossido rameoso di color rosso. La loro caratteristica è di
avere attività batterio-statica e anti-cariogena.
7.1.9.6 Cementi a base di acido fosforico
7.1.9.8 Cementi al silicato
I cementi a base di acido solforico sono dei materiali
che si utilizzano prevalentemente come cementi di sottofondo, in cui la reazione di presa avviene tra l’acido
fosforico e uno o più ossidi basici. In funzione del tipo
di ossido presente nella formulazione distinguiamo i
seguenti materiali:
› cementi al fosfato di zinco;
› cementi al silicato;
› cementi silico-fosfatici.
Di questi solo il cemento al fosfato di zinco trova applicazione come sottofondo nelle cavità delle preparazioni conservative.
Sono dei cementi che sono apparsi nel mondo odontoiatrico agli inizi del secolo scorso con la funzione di
materiale per restauri estetici. Hanno assolto questo
compito fino alla comparsa dei cementi vetroionomerici negli anni ‘70.
7.1.9.7 Cementi al fosfato di zinco
Si presentano sotto forma di polvere e di liquido da miscelare al momento dell’uso. Questi cementi, avendo
un pH compreso tra 2 e 4, presentano caratteristiche di
7.1.9.9 Cementi a base di acidi polialchenoici
Tutti i cementi a base acidi polialchenoici presentano la
caratteristica di far presa attraverso la reazione di un acido organico con ossido di zinco o con alluminosilicato.
Si conoscono due classi di questi cementi:
› policarbossilati
› vetroionomerici.
7.1.9.10 Cementi policarbossilati
Sono dei materiali costituiti da una polvere e un liquido
FIG. 20 Cementi
policarbossilati per
cementazioni di
ponti, corone e bande
ortodontiche.
con una formulazione che mira a creare una forma di
adesione chimica tra il materiale da restauro e la struttura dell’elemento dentario. Nella formulazione polvereliquido abbiamo come costituenti della polvere: ossido
di zinco come base principale del cemento nella misura
del 65%, ossido di calcio e idrossido di magnesio nella misura del 20% come componente basico e fluoruri
di Sn, Ca, Na, nella misura del 10% con la funzione di
anti-cariogeni; i costituenti del liquido sono acido poliacrilico acquoso come componente acida nella misura
del 40% e acqua. I cementi policarbossilici formano dei
legami chimici con lo smalto e la dentina legando ioni
positivi bivalenti di calcio con i gruppi acidi presenti
nelle catene dell’acido poliacrilico (fig. 20).
I cementi policarbossilati trovano questi tipi di impiego:
› sottofondi per cavità;
› cementazione di corone oro-resina e oro-ceramica;
› fissaggio di bande per le proprietà di legame forte.
7.1.9.11 Cementi vetroionomerici
I moderni cementi dentali si basano su una scoperta avvenuta a metà del diciannovesimo secolo. Da allora, la
costante ricerca scientifica in questo ambito ha consentito all’industria di proporre materiali sempre più sofisticati. Nel 1856, Sorel presentò una formulazione per
un cemento a base di cloruro di magnesio. Questo diede il via a diversi studi, ricerche e sviluppo di prodotti
che portarono negli anni ‘20 alla determinazione di tre
categorie principali di cementi: i cementi al fosfato di
zinco, quelli all’ossido di zinco ed eugenolo e i cementi
silicati. Nel 1966, D.C. Smith introdusse un’altra classe
di cementi, nei quali il liquido dei cementi al fosfato di
zinco veniva sostituito con acido poliacrilico acquoso.
Definito cemento carbossilato, questo prodotto aprì la
strada ai materiali autoadesivi. Sulla base di questi sviluppi, Wilson introdusse nel 1969 la classe dei cementi
vetroionomerici. Il primo cemento vetroionomerico,
ASPA (Alumino-Silicate-Poly-Acrylate), venne presentato negli anni Settanta ed era formulato aggiungendo
acido poliacrilico come componente liquido da aggiungere alla polvere di silicato. Questi cementi trovano
oggi le loro principali applicazioni in ortodonzia per la
cementazione di bande ortodontiche ed in protesi per
la cementazione di definitiva dei manufatti protesici.
Nel corso degli anni i CVI hanno subìto miglioramenti
sia dal punto di vista chimico che meccanico e questo
ha portato ad una sempre maggiore applicabilità. CVI
modificati tramite aggiunta di una matrice resinosa
sono utilizzati in odontoiatria conservativa nel trattamento delle carie al terzo cervicale (Classe 5 secondo
Black), nelle sigillature dei solchi dello smalto, come
materiale da build-up e come materiale da sottofondo
cavitario. La caratteristica principale di questi cementi
è la capacità di rilasciare fluoro prevenendo quindi la
formazione di carie secondarie.
I cementi vetroionomerici sono stati classificati in autoindurenti, convenzionali e in CVI fotopolimerizzabili.
Attualmente possiamo disporre di questi tipi di cementi:
› CVI convenzionali o autoindurenti (bi-componenti);
› CVI modificanti come resina (bi-componenti);
› resine composite modificate con poliacidi (bi-componenti);
› compomeri (mono-componenti);
› compomeri a bassa viscosità.
Composizione chimica
I cementi vetroionomerici vengono forniti sotto forma
di polvere e liquido oppure come polvere da miscelare
con l’acqua. Diversi prodotti sono invece forniti in capsule predosate.
La polvere è rappresentata da un vetro, il fluoroamminosilicato di calcio, ed è composta da particelle di circa
20 micron di diametro ottenute mediante un processo
di calcinazione a freddo. il liquido è invece costituito da
una soluzione acquosa di polimeri e copolimeri dell’acido poliacrilico. Il liquido tipico è una soluzione in acqua
di circa il 50% di acido poliacrilico e del suo copolimero acido itaconico (peso molecolare medio 10.000) nel
rapporto 2:1. L’acido itaconico riduce la viscosità del
liquido ed inibisce la gelificazione provocata dal legame idrogeno intermolecolare. In alcuni prodotti l’acido
poliacrilico è contenuto nella polvere. I liquidi di questi
prodotti possono essere acqua o una soluzione diluita
di acido tartarico in acqua. La reazione di presa è di tipo
acido-base.
La miscelazione della polvere con il liquido porta con sé
le seguenti reazioni:
› gli ioni idrogeno provenienti dai gruppi carbossilici
contenuti nell’acido poliacrilico aggrediscono la superficie delle particelle di polvere, spostando i Ca++,
Al+++ e Na+, che a loro volta combinandosi con in
silicati di alluminio, formano un gel di silice idrata;
› i cationi Ca++ e Al+++, precedentemente spostati, associati a complessi fluorati, si trasferiscono nella fase
gelificata, nella quale legano tra loro le catene dell’acido poliacrilico, utilizzando legami salino-metallici
e dando luogo alla solidificazione del gel. Questa
ultima reazione di presa si attiva in due tempi. Dapprima gli ioni calcio bivalenti, avendo la necessità di
saturare due sole valenze, si combinano con l’acido
poliacrilico, generando un primo addensamento del
cemento che permette la manipolazione e l’introduzione del materiale in cavità. In un secondo tempo
anche gli ioni di alluminio trivalente si combinano,
realizzando il completo indurimento del cemen-
to. Tuttavia, mentre la prima fase reattiva tra Ca+ e
due gruppi COO- si completa in 3 ore, la saturazione degli ioni Al+ non si conclude prima di 24 ore.
In definitiva, a solidificazione avvenuta, si produce
un agglomerato di particelle, circondate da un gel di
silicati inglobati in una matrice polimerica nella quale i legami intermolecolare tra le molecole dell’acido
poliacrilico sono realizzate dalla combinazione dei
gruppi COO-,Ca++ e Al+++.
I CVI hanno presentano le seguenti caratteristiche:
› liberano fluoro nell’ambiente circostante con azione
anticarie esercitando un’azione batteriostatica o battericida;
› creano un legame inattaccabile dagli acidi organici
prodotti dalla placca batterica grazie all’adesione di
natura chimica tra la matrice e le particelle di riempitivo;
› riducono la mobilità delle molecole polimeriche
dell’acido poliacrilico e perciò anche la diffusibilità
attraverso il tessuto dentinale grazie ai solidi legami
con le particelle di polvere;
› presentano Ph è meno acido rispetto a quello dei cementi al silicato e di altri cementi per uso odontoiatrico;
› presentano gruppi carbossilici in grado di chelare
gli ioni calcio dell’idrossipatite della dentina e dello
smalto, producendo un legame con la struttura dentale;
› presentano un ottimo seal marginale.
Caratteristiche chimiche
Adesività
I CVI non presentano particolari proprietà adesive. Il
legame con la dentina è frutto dell’interazione tra gruppi carbossilici e calcio dentinale e di un meccanismo di
interazione ionica di tipo di bipolare tra gruppi carbossilici dell’acido poliacrilico e gruppi NH2 contenuti nel
collagene dentinale. L’adesività dei CVI ai tessuti dentinali può essere incrementata trattando la superficie di
smalto o dentina con condizionatori, come ad esempio
l’acido poliacrilico. Sono sconsigliati acidi forti come
l’acido ortofosforico in quanto la dentina andrebbe
incontro ad una notevole esposizione di fibre collagene senza cristalli di idrossiapatite interposti. L’utilizzo
dell’acido poliacrilico oltre ad incrementare la bagnabilità della superficie dentaria permette garantisce l’attivazione degli ioni calcio e fosfato della dentina aumentando lo scambio ionico con le componenti contenute
nel cemento. Il legame ai tessuti dentari risulta pertanto essere di natura esclusivamente chimica.
La capacità di assorbimento dell’acqua è una caratteristica costante di tutti i polimeri con legami polari. È
particolarmente significativa per i compositi nei quali
induce un aumento dimensionale più o meno marcato. L’assorbimento d’acqua è del tutto trascurabile per
i CVI (fig. 21).
Rilascio di fluoro
Il rilascio di fluoro da parte di questi materiali è legato
FIG. 21 Cemento
vetroionomerico per
fissaggio di ponti e
corone.
alla presenza di diversi composti inglobati nella polvere del cemento. Il fluoro si presenta sottoforma di alluminofluoridi solubili i cui ioni vengono liberati non
appena il cemento viene esposto in ambiente acquoso.
Il rilascio di fluoro sembra essere più marcato nella settimana per poi decrescere progressivamente nel tempo
pur mantenendo livelli tali da garantire un continuo effetto preventivo nei confronti dell’insorgere di carie secondarie. L’azione del fluoro si esplica prevalentemente
attraverso due meccanismi: da un lato il rilascio si ha la
trasformazione dell’idrossiapatite in fluoroidrossiapatite, un composto più stabile e meno solubile in ambiente acido, dall’altro il fluoro esercita un azione inibitoria
sulla cuticola dello smalto facendo venire meno la sua
azione chemiotattica.
7.1.9.12 Cementi vetroionomerici modificati
con resina
Negli anni, sul mercato sono stati introdotti anche gli
ionomeri ibridi (chiamati anche vetroionomeri modificati con resine). Questi composti nascono dalla necessità di migliorare alcune proprietà meccaniche dei
CVI classici e combinare le proprietà dei CVI classici
con la tecnologia delle resine metacriliche. Il loro indurimento si realizza grazie ad una reazione acido-base
del vetroionomero ed alla polimerizzazione auto o fotoindurente dei gruppi metacrilici laterali. Il monomero
in essi contenuto è l’HEMA e la fotopolimerizzazione
è resa possibilie da un fotoiniziatore, il camforochinone. I CVI modificati sono forniti sotto forma di polvere
più liquido ed in formulazione auto o fotoindurente.
La reazione di presa è data, oltre che dalla reazione acido-base, dalla reazione di polimerizzazione metacrilica
propria delle resine stessa. Sono indicati per la cementazione definitiva di corone in metallo-ceramica, ponti,
inlay, onlay e corone, cementazione di perni e cementazione di dispositivi ortodontici. Ulteriori destinazioni
d’uso sono come base per build-up, come liner o basi
per cavità, come restauro provvisorio, per cementazione di restauri in ceramica e per il trattamento delle carie
del terzo cervicale. Questi materiali sono meno solubili
in ambiente acquoso rispetto ai CVI classici. I CVI modificati con resina sono più facili da utilizzare rispetto
ai CVI classici. La loro attivazione attraverso fotopolimerizzazione permette inoltre un tempo di lavorazione più lungo e un indurimento più rapido. Anche le
altre proprietà meccaniche risultano essere migliorate
se confrontate con quelle dei vetroionomeri classici.
L’adesione dei cementi vetroionomerici modificati con
resina si realizza attraverso la creazione di uno strato
ibrido non presente nei CVI classici. Il rilascio di ioni
fluoro sembra essere uguale o leggermente maggiore
rispetto a quello dei CVI e possono essere “ricaricati”
attraverso somministrazioni topiche, ad esempio attraverso l’utilizzo di un dentifricio, di fluoro. Presentano
basse proprietà estetiche e pertanto il loro utilizzo è
sconsigliato nei settori frontali del cavo orale.
7.1.9.13 Compomeri
Sono un gruppo recente di materiali per restauri estetici derivanti dalla prevalente combinazione della matrice di resine composite con il riempitivo dei CVI. La
composizione dei compomeri è sostanzialmente simile
a una resina composita. La componente vetrionomerica è rappresentata da riempitivo vetroso e da gruppi
carbossilici che intervengono nell’incrementare il processo di indurimento soltanto quanto il compomero,
già indurito attraverso la fotopolimerizzazione, assorbe
acqua dall’ambiente orale. I compomeri dovrebbero
avere le caratteristiche positive sia dei CVI sia delle resine composite. Queste caratteristiche possono essere
così elencate:
› biocompatibilità;
› adesione chimica alle strutture dentali;
› rilascio di ioni fluoruro nell’ambiente circostante;
› capacità di agire come uno strato isolante elastico in
grado di attenuare e disperdere gli stress meccanici
e termici cui l’otturazione può essere sottoposta;
› prevenzione o comunque riduzione dell’infiltrazione marginale.
7.1.9.14 Cementi a base resinosa
La sempre maggiore necessità di ottenere un’adesione
duratura ed efficace dei manufatti protesici ha portato
negli ultimi anni allo sviluppo di cementi a base resinosa. La regola primaria da seguire quando si utilizza questa tipologia di cemento è quella di mantenere quanto
più possibile la preparazione dell’elemento a livello dello smalto così da sfruttare al meglio il loro potenziale
adesivo. L’adesione di questi cementi al substrato dentale si realizza previa mordenzatura dell’elemento con
acido ortofosforico cui fanno seguito i passaggi adesivi
tipici dei materiali compositi.
I cementi resinosi possono essere forniti sotto forma di
polvere e liquido, di due paste o di due liquidi viscosi
ed in base alla loro reazione di polimerizzazione vengono classificati in autopolimerizzabili, fotopolimerizzabili
e auto-fotopolimerizzabili (duali).
In funzione della tipologia di polimerizzazione il tempo
di presa varia notevolmente; nei composti fotopolimerizzabili il tempo di indurimento può essere gestito in
modo più mirato rispetto a quelli autopolimerizzabili.
Questi cementi presentano inoltre una bassa solubilità,
ma un elevato assorbimento d’acqua. Questi cementi
possono essere utilizzati con diverse tipologie di materiali protesici: l’adesione su ceramica si realizza grazie
ad un preventivo condizionamento con acido fluoridrico al 10%, l’adesione ad altri materiali resinosi si ottiene con diverse metodiche tra cui la silanizzazione o la
mordenzatura, ma la metodica migliore prevede la sabbiatura del manufatto protesico con particelle di ossido
di silicio ed infine l’adesione ai metalli si ottiene previa
silanizzazione del metallo del manufatto protesico.
Un altro settore dell’odontoiatria in cui questi cementi
trovano applicazione è l’ortodonzia dove vengono utilizzati per la cementazione delle bande ortodontiche,
ma in questo settore i materiali di elezione restano i
cementi vetroionomerici che grazie al continuo rilascio
di ioni fluoro possono prevenire l’insorgenza di carie
nei pazienti pediatrici.
APPROFONDIMENTO
Le proprietà ideali dei cementi odontoiatrici
Il materiale da cementazione svolge un ruolo importante per quanto riguarda la durata e la resa funzionale
del manufatto restaurativo che deve fissare, tanto che
l’impiego o la manipolazione errati di un cemento possono compromettere definitivamente la precisione e la
prognosi della riabilitazione effettuata.
Le proprietà ideali di un cemento vengono analizzate
secondo differenti proprietà: meccanico-fisiche, biologiche, di lavoro, estetiche.
Proprietà meccanico-fisiche
Bassa solubilità nei fluidi orali
Una bassa solubilità è il criterio fondamentale per evitare la dissoluzione nei fluidi orali, comportamento
potenzialmente molto pericoloso per la prognosi del
restauro in quanto la perdita del film di cemento al
margine lascerebbe lo spazio per l’infiltrazione di batteri orali nell’interfaccia restauro-dente, con probabile
conseguente carie secondaria. Quest’ultima rappresenta una causa molto frequente dei fallimenti protesici.
Elevata resistenza meccanica a compressione
e trazione
I carichi masticatori sugli elementi dentali naturali e quindi anche su quelli protesizzati possono essere di intensità e direzione differenti. Non cedere alle forze compressive e resistere alle forze dislocanti da parte del materiale
da fissaggio può migliorare grandemente la prognosi del
trattamento restaurativo e riabilitativo dentale.
Ridotto spessore del film
Riuscire a ottenere uno spessore ridotto del film di materiale da cementazione polimerizzato è un requisito
fondamentale durante la cementazione di restauri che
hanno raggiunto un buon livello di precisione marginale. Conoscere comunque gli spessori dei materiali da
cementazione che si utilizzano è un aspetto importante
al fine di valutare la quantità di spaziatore da indicare al
laboratorio durante le fasi di realizzazione del restauro
indiretto. Lo spessore del film può anche essere condizionato dalla manipolazione e dalla miscelazione. La
specifica ADA n. 8 e la specifica ADA/AN- SI n. 96 prevedono uno spessore massimo del materiale da cementazione di 25 micron.
Buona adesione ai tessuti mineralizzati del dente
e al restauro protesico.
L’adesione ai tessuti duri del dente oggi riveste un ruolo
fondamentale nei restauri diretti, e sempre più si stanno sviluppando tecniche adesive per ottenere un legame tra il cemento e i tessuti duri del dente, i materiali
da restauro usati per ricostruire i monconi nonché il
substrato interno del restauro protesico. Spesso servono passaggi di condizionamento per ottimizzare l’adesione, quindi uno degli obiettivi della ricerca è quello di
ottenere, se possibile, legami adesivi sempre più elevati
con passaggi sempre più semplificati. L’ottenimento di
questi risultati permette di avere preparazioni dentali
più conservative e generalmente poco ritentive.
Basso assorbimento d’acqua
La stabilità dimensionale è una caratteristica fondamentale per la preservazione del sigillo restauro-dente
a opera del cemento. Un fattore che potrebbe giocare
un ruolo molto negativo è l’assorbimento d’acqua, ad
esempio il contatto con i fluidi orali da parte del cemento marginale. È quindi importante che i cementi
odontoiatrici presentino un assorbimento di acqua e
fluidi in genere quasi nullo.
Proprietà biologiche
Atossicità e capacità isolante per l’organo pulpare
I restauri protesici indiretti su elementi dentali mantenuti vitali sono sempre più frequenti, coerentemente
con un approccio che, fatte salve le caratteristiche di
ripristino funzionale e buona garanzia prognostica, ricerca la maggiore conservazione possibile di tessuto
sano. Sempre più importanza riveste quindi l’assoluta
atossicità nei confronti dell’organo pulpare sia durante
la reazione di presa del cemento sia una volta terminata
la reazione di polimerizzazione dello stesso.
Carioresistenza e bassa solubilità
Le lesioni cariose secondarie sul margine di unione tra
restauro e dente sono una delle più comuni cause di
fallimento della riabilitazione stessa. Ai fini di evitare
questa eventualità si ritiene fondamentale che il cemento non si presti a una facile dissoluzione in ambiente
orale, specialmente sul margine protesico dove lascerebbe spazio a contaminazione batterica e a una possibile lesione cariosa.
Inoltre, la capacità di rilasciare sostanze in grado di rimineralizzare i tessuti duri del dente, come ad esempio
il fluoro, rappresenta un’ottima via per offrire una certa
carioresistenza al cemento adesivo. Oltre ad alcuni materiali, come i cementi vetroionomerici, che offrono naturalmente il rilascio di fluoro, anche ad alcuni cementi
resinosi è stata aggiunta questa proprietà.
Proprietà di lavorazione
Tempo di presa adeguato
La reazione di presa di un cemento, grazie alla quale
avviene il completo indurimento del materiale, prevede
una prima fase in cui il cemento viene lavorato e messo
in condizione di essere attivato e di reagire, la fase di
lavorazione, a cui segue l’indurimento vero e proprio
che è rappresentato dalla reazione di presa. Nei cementi resinosi la reazione di presa corrisponde alla reazione di polimerizzazione. È importante che il tempo di
lavorazione del cemento sia adeguato per permetterne la manipolazione, prima che sia posizionato per la
fissazione all’interno del cavo orale. La miscelazione
manuale richiede un tempo minimo che varia a seconda del materiale, ma oggigiorno, considerate le troppe
variabili che si possono verificare durante la procedura
manuale, si preferisce generalmente una miscelazione
meccanica, con applicatori che contengono quantità
di materiale predosato e che offrono una modalità di
miscelazione corretta e predicibile. Anche le caratteristiche del materiale sembrano essere migliori con una
tecnica di miscelazione meccanica.
Proprietà estetiche
Il materiale da cementazione svolge un ruolo importante anche nell’estetica finale del restauro: tanto più
il restauro sarà traslucente tanto più sarà visibile la
cromaticità del cemento. L’approccio alla scelta della
colorazione del cemento in questi casi può essere differente: si possono utilizzare un materiale neutro, che
non abbia grandi interferenze di colore con il restauro
soprastante, oppure cementi con differenti colorazioni
e che già durante la prova prevedono l’utilizzo di materiali appositi, detti try-in, per la simulazione del risultato
finale dopo la cementazione.
Stabilità cromatica
Per effetto della polimerizzazione o anche a causa
dell’invecchiamento, il materiale da cementazione può
subire delle variazioni di colore. Nel caso di un restauro
traslucente, come ad esempio una ceramica a base vetrosa o una resina composita, questa evenienza potrebbe compromettere parzialmente il risultato ottenuto.
Diventa necessario quindi che il materiale in questione
abbia un’ottima stabilità cromatica.
Radiopacità
La radiopacità è una caratteristica molto importante
per controllare radiograficamente eventuali eccedenze
di cemento rimaste in prossimità della zona marginale,
soprattutto quando essa si trova in zona subgengivale.
Quindi in conclusione un cemento ideale dovrebbe:
› avere capacità di esplicare un’adesione stabile tra
materiali diversi;
› avere un’adeguata resistenza alla flessione e alla
compressione;
› avere una sufficiente resistenza alla frattura per evitare il distacco del restauro a causa di fratture coesive o
dell’interfaccia;
› avere proprietà di fluidità per una facile applicazione;
› formare una pellicola sufficientemente sottile e di
adeguata viscosità;
› essere stabile nel cavo orale;
› essere biocompatibile.
Problematiche pratiche
A seconda degli scopi per cui sono stati sviluppati i cementi utilizzati in odontoiatria abbiamo visto che questi
possiedono caretteristiche peculiari. A livello di salute
parodontale è importante che i cementi utilizzati nella
fissazione di manufatti protesici vengano accuratamente rimossi attraverso l’utilizzo di strumenti manuali e filo
interdentale. La permanenza di residui seppur minimi a
livello parodontale o peri-implantare può infatti portare
nel primo caso allo sviluppo di un’infiammazione a livello gengivale con possibile evoluzione verso un difetto parodontale infraosseo, mentre nel secondo caso si
potrà avere l’insorgenza di un difetto peri-implantare di
entità variabile. E’ quindi compito dell’igienista dentale
verificare durante le sedute di igiene professionale l’eventuale presenza di problematiche legate alla presenza
di residui di cemento e qualora queste fossero presenti
far presente il problema all’odontoiatra di riferimento
che tramite l’esecuzione di esami radiografici valuterà
l’eventuale compromissione dei tessuti di sostegno.
Per quanto riguarda invece le problematiche pedodontiche più frequenti può essere utile, in presenza
di restauri in cemento vetroionomerico o nei pazienti
sottoposti a terapia ortodontica in cui le bande siano
cementate con CVI, somministrare topicamente del
fluoro per sfruttare al meglio l’effetto ricarica di questi
materiali. Infine è importante prestare attenzione alla
presenza di restauri di classe 5 secondo Black poiché
qualora questi presentassero dei sovracontorni, durante le manovre di levigatura radicolare potrebbero andare incontro a distacco.
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CAPITOLO 10
MATERIALI
PER LA TERAPIA
PROTESICA
FIG. 19 Saldatura eterogena di protesi fissa.
APPROFONDIMENTO
Le saldature e cenni di elettroerosione
Con il termine saldatura si intende la giunzione stabile e
rigida, mediante l’azione del calore, di parti metalliche di
protesi o di apparecchiature ortodontiche. Le giunzioni
metalliche possono essere suddivise in due gruppi:
› saldature eterogene, quando l’unione fra le parti avviene per mezzo di un metallo o lega da apporto,
detto saldame;
› saldature autogene, quando la saldatura si realizza
senza metallo da apporto, cioè con il materiale componente le parti stesse da unire, o con l’uso di un metallo dello stesso tipo di quello delle parti da collegare.
L’elettroerosione è una tecnologia di lavorazione che utilizza le capacità erosive delle scariche elettriche.
Saldatura eterogena (con metallo da apporto)
Prevede l’uso di una lega per saldatura, di un fondente, di
un antifondente e del calore; se la temperatura utilizzata
durante la procedura è inferiore ai 425° si parla di “saldatura”, se è superiore ai 425° il termine più corretto è “brasatura” (figg. 19, 20).
Il saldame (lega per saldatura)
Requisiti ideali del saldame:
› resistenza alla corrosione ed all’ossidazione da parte
dei fluidi orali;
› intervallo di fusione inferiore a quello della lega da saldare in modo che questa non fonda durante la procedura;
› colore simile a quello della lega da unire. La differenza
di colore è essenzialmente una questione estetica, però
un’eccessiva discrepanza può indicare che la composi-
FIG. 20 Saldatura eterogena di dispositivo ortodontico.
zione delle leghe è molto diversa;
bassa tensione superficiale: cioè facilità a scorrere fluidamente sulle superfici da saldare;
› resistenza meccanica e durezza pari a quelle della lega
da unire in modo da evitare rotture durante le forze
masticatorie (la saldatura non deve essere un punto di
debolezza);
› assenza di disomogeneità superficiali, che comportano
corrosione ed ossidazione, solitamente dovute ad errori tecnici.
I saldami si dividono in due gruppi: morbidi e duri.
Quelli morbidi sono leghe a base di stagno e piombo
che, grazie al loro basso intervallo di fusione (circa 260°),
vengono utilizzati con semplici strumenti come “ferro da
saldatura”. Hanno buone caratteristiche meccaniche, ma
la loro scarsa resistenza alla corrosione li rende inadatti
all’uso in campo odontoiatrico.
I saldami duri hanno temperature di fusione più elevate e
presentano una maggiore durezza e resistenza alla trazione; per fonderli vengono utilizzati: cannello a gas, forno
elettrico od altre apparecchiature atte al riscaldamento.
I saldami duri utilizzati in campo odontoiatrico sono di
due tipi: d’oro e d’argento.
I primi (saldami a base d’oro) (fig. 21) sono leghe composte da oro, argento e rame con piccole quantità di stagno
›
FIG. 21 Saldame a base d’oro.
FIG. 22 Saldame a base d’argento.
FIG. 23 Applicazione del fondente (prima della saldatura).
FIG. 24 Fondente a base di fluoruri per saldature su acciaio e leghe
cromo-cobalto.
e zinco. La composizione varia notevolmente da lega a
lega. La quantità d’oro può variare dal 45 al 81% in peso,
l’argento dall’8 al 37%, il rame dal 7 al 20%. Lo stagno e lo
zinco, di norma intorno al 2-3%, vengono aggiunti per ridurre la temperatura di fusione ed aumentare la scorrevolezza. L’argento abbassa l’intervallo di fusione ed aumenta
lo scorrimento. Il rame e l’argento insieme danno il colore
simile a quello delle leghe da saldare. La temperatura di
fusione dei saldami, inferiore a quella delle leghe da lavorazione e da colata, è più bassa per quelle con minor contenuto d’oro. L’intervallo di fusione varia da 745° a 870° C a
seconda di quale lega si utilizzi. La resistenza alla trazione
dei saldami a base d’oro è simile a quella delle leghe auree
di tipo III secondo la classificazione A.D.A.
I saldami duri a base d’argento (fig. 22) vengono usati per
saldare l’ acciaio inossidabile e le leghe non nobili. Essi
contengono argento dal 46 al 60% in peso, rame (15-30%)
e zinco (15-20%),vengono inoltre aggiunte piccole quantità di stagno, cadmio o fosforo allo scopo di ridurre la temperatura di fusione. Queste leghe hanno un intervallo di
fusione inferiore rispetto a quello dei saldami a base d’oro,
che varia da 629°- per quelle che contengono cadmio - a
651° gradi C per quelle che ne sono prive. La mancanza
di metalli nobili diminuisce la resistenza, nel tempo, alla
corrosione ed ossidazione. Queste leghe sono utilizzate
soprattutto in Ortodonzia per saldare elementi d’acciaio.
I fondenti (flux)
I fondenti vengono utilizzati per eliminare gli ossidi metallici presenti sulle superfici da saldare, per impedire l’ossidazione alle alte temperature del saldame e delle parti da
unire (nel corso del riscaldamento) ed infine per facilitare
lo scorrimento del saldame liquefatto diminuendo la sua
tensione superficiale (fig. 23).
Il componente principale è il borace (tetraborato di sodio) insieme all’acido borico, alla silice, alla polvere di
carbone e al fluoruro di potassio.
La funzione del borace è quella di reagire chimicamente
con gli ossidi metallici e scioglierli dissolvendoli; l’acido
borico diminuisce la temperatura di fusione del fondente
e ne facilita lo scorrimento sulle superfici da saldare; la silice aumenta la viscosità del prodotto; la polvere di carbone
sviluppando CO2 aiuta a sciogliere gli ossidi. I fluoruri, ben
attivi nell’eliminare gli ossidi di cromo, sono presenti nei
fondenti utilizzati per saldare gli acciai inossidabili e le leghe cromo-cobalto (fig. 24).
FIG. 25 Fondente in pasta.
FIG. 26 Modello in materiale refrattario con struttura per protesi fissa da
saldare.
FIG. 27 Applicazione del saldame durante la saldatura con cannello a gas
propano/ossigeno.
FIG. 28 Protesi fissa saldata.
I fondenti sono disponibili in forma semi-liquida, pasta
od in polvere. I più utilizzati sono quelli in pasta (fig. 25),
costituiti per un terzo da fondente e per due terzi da vaselina. Quelli in polvere vengono per lo più utilizzati per le
colate e le fusioni.
devono essere unite, mediante sabbiatura con polvere di
Al2O3 da 50/60µm.
Gli antifondenti (antiflux)
Per delimitare la zona della saldatura e per evitare che il
saldame finisca in punti indesiderati si può utilizzare un
materiale antifondente (antiflux) che deve essere applicato sulle superfici da unire prima di utilizzare il fondente
ed il saldame. Il più comune è la grafite, cioè una matita
con mina morbida, con la quale si “mascherano” (proteggono) le superfici che non devono essere saldate. Qualora si debbano eseguire riscaldamenti prolungati ad alta
temperatura è preferibile utilizzare, come antifondente,
l’ossido di ferro (rosso) od il carbonato di calcio (bianchetto) in soluzione acquosa od alcolica. È opportuno ricordare che alcune sostanze, come ad es. la cera, le resine
acriliche od il grasso delle mani, possono agire da antifondenti ostacolando la distribuzione omogenea del flux
sulle superfici. Per questo motivo prima di eseguire una
saldatura è necessario pulire accuratamente le parti, che
Tecniche di saldatura
In campo odontoiatrico si utilizzano principalmente due
tecniche di saldatura: a mano libera o con rivestimento.
La saldatura a mano libera si usa soprattutto in ortodonzia per unire tra loro due fili o per assemblare le parti
metalliche (in acciaio) degli apparecchi: le parti da saldare sono tenute a contatto manualmente, senza ausili meccanici, mentre si applica il flux, il calore ed il saldame.
La saldatura con rivestimento è utilizzata in protesi: le
parti da unire vengono immobilizzate su un modello
ottenuto colando un rivestimento specifico per saldatura (fig. 26); dopo aver inserito il flux nella fessura di
saldatura il modello viene pre-riscaldato in forno ad una
temperatura tra i 480° ed i 600° C per circa 10 minuti,
quindi si applica la fiamma (il calore) ed il saldame (fig.
27). A saldatura ultimata Tylman e Malone consigliano
un graduale raffreddamento della giunzione metallica,
prima di rimuovere il rivestimento, al fine di ottenere
la massima durezza del metallo di apporto con minor
deformazione (fig. 28). Secondo Leinfelder e. Lemons,
FIG. 30 Particolare della zona riducente (zona blu scuro) della fiamma.
FIG. 29 Bombole gas propano/ossigeno utilizzate per saldare.
invece, il modello in materiale refrattario deve essere
lasciato raffreddare sul banco per circa 5 minuti e poi
immerso in acqua; secondo questi autori l’immediata
immersione dopo la saldatura può causare distorsioni,
invece il raffreddamento a temperatura ambiente senza
immersione in acqua può provocare un eccessivo indurimento del saldame che diventa fragile.
In entrambe le tecniche il calore è di solito prodotto
da un cannello a gas propano mescolato con aria compressa od ossigeno (fig. 29) sfruttando la zona riducente o deossidante della fiamma, cioè quella colorata in
blu scuro (fig. 30). Questa zona contiene idrogeno (H)
non bruciato il quale a contatto con un ossido si combina con esso lasciando la superficie del metallo priva
di ossidazioni. È opportuno non utilizzare l’estremità
terminale della fiamma, nella quale la combustione è
completa, e se utilizzata causa l’ossidazione del metallo.
Un altro elemento importante è la distanza tra le strutture da saldare: uno spazio troppo ampio o una eccessiva vicinanza possono compromettere l’operazione;
l’ideale è una distanza uniforme, tra 0,05 e 0,2 mm a
pareti parallele, corrispondente all’incirca allo spessore
di due fogli di carta.
Saldature autogene
Le saldature autogene sono anche definite saldature
per fusione.
Esse vengono eseguite portando a fusione le parti che
devono essere collegate. L’esecuzione di queste saldature può essere effettuata senza apporto di metallo o
con apporto di metallo della stessa natura di quello da
saldare. Come metallo d’apporto è possibile preparare,
con l’utilizzo della tecnica a cera persa, delle bacchette
della stessa natura del metallo da saldare.
Queste saldature sono impiegate per eseguire collegamenti, aggiunte e riparazioni sia di protesi dentarie
fisse e rimovibili.
Le tecniche con le quali vengono eseguite sono:
› saldatura TIG,
› saldatura al plasma,
› puntatura,
› saldatura laser.
Saldatura TIG
TIG (Tungsten Inert Gas) è un procedimento di saldatura ad arco infusibile di tungsteno con gas inerte, generalmente Argon o Elio usati separatamente o miscelati.
Con questa tecnica il riscaldamento delle parti da saldare avviene tramite un arco elettrico che si forma tra un
elettrodo di tungsteno e le parti stesse che sono avvolte
dal gas inerte. L’elettrodo di tungsteno è detto infusibile perché non fonde durante la saldatura e si consuma
molto lentamente (in campo non dentale vengono impiegati elettrodi fusibili). L’attrezzatura è composta dalle seguenti parti: torcia TIG, saldatrice, bombola di gas
inerte. L’operatore impugna la torcia nella quale si trova l’elettrodo di tungsteno circondato da un condotto
collegato alla saldatrice, attraverso il quale passa il gas.
Dalla saldatrice diparte un secondo cavo che si collega
ai pezzi in lavorazione, chiudendo il circuito elettrico,
consente l’instaurarsi dell’arco elettrico.
La saldatura viene eseguita in seguito alla formazione
dell’arco elettrico tra l’estremità dell’elettrodo di tungsteno e le parti da saldare. Il gas avvolgendo la zona
da saldare la protegge dall’ ossidazione. L’arco elettrico
porta ad elevata temperatura le parti da saldare dilatandole a tal punto che nella fase di raffreddamento si
uniscono.
FIG. 31 Puntatrice.
FIG. 32 Tecnica di puntatura.
Saldatura al plasma
mentre l’elettrodo funge da catodo, si forma un arco
plasma con una concentrazione di calore che può raggiungere anche i 30.000 °C.
È un procedimento di saldatura ad arco e può essere
considerata un perfezionamento del sistema a TIG. La
saldatura al plasma in campo dentale viene realizzata
tramite degli impianti formati dalle seguenti parti:
› torcia microplasma;
› saldatrice dalla quale parte il cavo di collegamento
alla torcia che contiene il condotto elettrico, il condotto per il gas plasmogeno, il condotto per il gas
protettivo e il condotto per il liquido di raffreddamento per la torcia stessa. Da tale apparecchio inoltre si diparte il cavo di collegamento ai pezzi da saldare per la chiusura del circuito elettrico;
› impianto di raffreddamento per la torcia tramite il
quale viene inviato a quest’ultima attraverso la saldatrice, un idoneo liquido di raffreddamento;
› bombola di gas plasmogeno costituito da Argon,
Elio, Azoto e Idrogeno impiegati da soli o miscelati
tra loro.
Per plasma si intende un gas portato ad una temperatura elevata tale da far ionizzare gli atomi che lo
costituiscono. Tali atomi quindi, si scindono in elettroni (ioni negativi) e ioni positivi cessando di essere
elettricamente neutri;
› bombola di gas di protezione, generalmente Argon
con il 2/8% di Idrogeno.
Nella saldatura al plasma si ottiene la fusione localizzata
dei pezzi da saldare grazie al riscaldamento generato da
un arco plasma che scocca tra un elettrodo infusibile di
tungsteno ed i pezzi stessi.
L’arco plasma è costituito dal gas plasmogeno che viene trasformato in plasma dalla torcia microplasma che
contiene l’elettrodo di tungsteno.
Dalla torcia fuoriesce un gas protettivo che protegge
dall’ossidazione dell’aria i pezzi metallici da collegare.
Avvicinando il pezzo da saldare che funge da anodo
Puntatura
Gli apparecchi per effettuare la puntatura vengono denominati puntatrici (fig. 31). Sono costituiti da:
› trasformatore che converte la corrente da intensità
debole e alto voltaggio, ad intensità elevata (può raggiungere i 18000 A) e basso voltaggio (2/8 Volt);
› temporizzatore, che determina un passaggio di corrente anche per tempi brevissimi;
› due elettrodi, di materiale ad elevata (per esempio
rame) conducibilità termica ed elettrica a corpo cilindrico ed a punta tronco-conica o sferica, tra i quali
vengono posizionati i pezzi da saldare (fig. 32).
Questa saldatura viene utilizzata per saldare fogli di lamiere, in campo odontoiatrico trova impiego prevalentemente per la costruzione di strutture ortodontiche :
“puntatura” di attacchi o cannule su bande.
Per ottenere la fusione sotto pressione delle parti da
unire si sfrutta l’effetto Joule. Fenomeno che determina, nel tempo, la fusione della parte da saldare, in
quanto meno conduttrice rispetto alla elevata quantità
di corrente erogata dagli elettrodi. La produzione di calore (Q) avviene in tutti i conduttori ed è direttamente
proporzionale alla resistenza (R) del mezzo conduttore,
per il quadrato dell’intensità (I)1 della corrente che attraversa il conduttore e al tempo applicato (t):
Q = R . I2 . t
Essendo presente tra le superfici da saldare e gli elettrodi uno strato di aria che determina una notevole resistenza elettrica all’attraversamento della corrente, si
FIG. 33 Saldatrice laser.
FIG. 34 Saldatura mediante laser.
verifica un notevole effetto Joule.
L’effetto Joule è di intensità elevata tra le due superfici
da saldare in quanto tra esse è maggiore lo strato d’aria.
In tale zona si raggiungerà una maggiore temperatura
che porterà alla fusione dei due pezzi che si uniscono
ottenendo una saldatura puntiforme senza apporto di
metallo. Per ottenere una corretta puntatura il tempo
deve essere molto ridotto per evitare la dispersione termica che si può produrre nel metallo.
al neodimio o rubino sintetico) oppure un gas (anidride carbonica, elio, neon) o un liquido (il materiale attivo è presente in soluzione).
La saldatrice laser dentale è costituita dalle seguenti
parti:
› generatore laser in cui il materiale attivo viene stimolato tramite un opportuno sistema di eccitazione,
in grado di fornire al materiale attivo l’energia richiesta per l’emissione della luce laser;
› sistema di focalizzazione costituito da un sistema
ottico che permette di ottenere un’area di piccole
dimensioni in uscita dal generatore, nella quale si
concentra tutta la potenza del fascio laser;
› sistema di alimentazione per il gas protettivo;
› stereomicroscopio per la corretta collocazione del
punto in cui deve essere eseguita la saldatura.
› apparecchiature varie per alimentazione elettrica,
raffreddamento, regolazioni ecc. (fig. 33).
La saldatrice viene opportunamente regolata rispetto
alla lega da saldare i cui pezzi vengono accostati e portati sotto lo stereomicroscopio. Tramite quest’ultimo,
i pezzi vengono collocati in corrispondenza della traiettoria del fascio laser. Abbassando un pedale si attiva
dapprima il getto di gas protettivo, quindi l’impulso laser. Quest’ultimo è di durata molto breve e fonde localmente in un’area molto ristretta le parti accostate, le
quali dilatandosi si uniscono, e con il successivo raffreddamento rimangono collegate. Questo procedimento
viene definito “punto di saldatura”. Le parti vengono
spostate leggermente e si invia un secondo impulso in
prossimità del precedente e così via sino al completamento della saldatura.
La velocità della saldatura raggiunge i 20-30 cm/minuto
con una profondità di penetrazione di circa 2 mm (fig.
34).
La saldatura al laser offre grossi vantaggi legati al fatto
che rende possibili saldature tra leghe preziose e non
Saldatura al laser
Uno dei più moderni apparecchi realizzati dalla tecnologia, per effettuare saldature, è l’apparecchio laser.
Laser è l’acronimo di “Light Amplification by Stimulated
Emission of Radiation”, amplificazione di luce mediante
emissione stimolata dalla radiazione”
Il raggio laser luminoso passa attraverso l’asse geometrico di un rubino che lo concentra rendendolo monocromatico, coerente proiettandolo nella zona interessata.
È costituito da un fascio di radiazioni elettromagnetiche
identiche, collimate l’una con l’altra in modo da essere
parallele nella loro direzione di propagazione.
Esistono due tipi di generatori di raggi laser:
› ad impulsi, tipo Nd-YAG (Neodymium-doped Yttrium Alluminium Garnet) usato per applicazioni
industriali, ma sconsigliato nell’uso odontoiatrico
perché determina porosità nelle saldature;
› tipo CW Nd-YAG (Continuos Wave Neodymium-doped Alluminium Garnet) ad emissione continua, sicuramente da preferire in odontoiatria.
Inoltre a seconda della natura del materiale attivo i laser
possono essere classificati in laser allo stato solido, laser a gas, laser a stato liquido.
Il materiale attivo può essere una sostanza solida (vetro
FIG. 35 Macchinario per elettroerosione.
FIG. 36 Tecnica di elettroerosione. Si può notare l’olio dielettrico di
preziose, determina un aumento della durezza e resistenza della zona saldata, riduce il calore nelle zone
prossime alla saldatura, offre una maggior precisione rispetto ai metodi tradizionali e in caso di lega non nobile
al Cromo-cobalto (Cr-Co), riduce i tempi di realizzazione della saldatura.
Per queste ragioni ha maggior possibilità di sostituire,
nei laboratori odontotecnici, le tecniche di saldatura
tradizionali.
alla forma dell’elettrodo.
La scelta del materiale dell’elettrodo e il controllo delle
caratteristiche delle scariche permettono di ottenere
che l’erosione dell’elettrodo (usura dell’utensile) sia
molto minore dell’erosione del pezzo (lavorazione).
Man mano che il pezzo viene eroso, l’elettrodo viene
fatto avanzare, fino al completamento della lavorazione. Durante la lavorazione, l’elettrodo non entra mai in
contatto con il pezzo; ciò creerebbe un cortocircuito
invece delle scintille che sono la causa dell’erosione.
La tecnica dell’elettroerosione viene distinta in tre metodi, dettati dall’utilizzo:
› “a filo” per tagliare i metalli;
› “a tuffo” per forare, mediante forme tridimensionali
non cilindriche;
› “a tuffo e rotazione” per creare fori cilindrici.
In odontotecnica viene utilizzato il sistema a tuffo per
realizzare chiavistelli protesici, attacchi di precisione e
per la passivazione di fusioni in implantoprotesi.
La metodica a tuffo e rotazione viene utilizzata per la
realizzazione di fori calibrati per l’applicazione di perni
frizionante.
Cenni di elettroerosione
Nel 1700 Sir Joseph Priestij grande osservatore della
natura e dei fenomeni naturali, dall’osservazione dei
fulmini intuì l’elettroerosione naturale. Iniziò, quindi, a
studiare il fenomeno della scarica elettrica e il suo effetto erosivo sui conduttori metallici.
All’inizio degli anni ’50 i fratelli russi Boris e Natalya
Lazarenko realizzarono la prima macchina ad erosione
elettronica.
Negli anni a seguire l’evoluzione della tecnologia e l’avvento dell’informatica hanno permesso di creare macchine per elettroerosione sempre più sofisticate.
Da molti anni viene utilizzata nell’industria degli utensili e degli stampi e ormai da diverso tempo, è entrata in
uso anche in campo odontoiatrico (fig. 35).
L’elettroerosione può essere definita come un processo
di rimozione del metallo per mezzo di un elettrodo che
produce scintille in un campo magnetico.
L’elettrodo (positivo) lavora sull’oggetto così che ogni
scintilla asporta, come se fosse un minutissimo tagliente, un truciolo microscopico a forma di sfera.
La zona del materiale sottoposta ad impulsi di corrente
brevi e concentrati, viene distrutta localmente: questo
fenomeno viene definito “effetto elettroerosivo”.
Il pezzo viene eroso in modo complementare rispetto
raffreddamento.
Fenomeno dell’elettroerosione
Un modello termoelettrico è stato proposto per spiegare come agiscono calore ed elettricità per rimuovere
particelle di metallo in modo estremamente preciso.
La lavorazione viene eseguita in condizioni adeguatamente controllate per mezzo di un olio fluido denominato olio dielettrico (fig. 36).
Le funzioni di quest’ultimo sono: conduttore, refrigerante, isolante e di asporto delle particelle di metallo
prodotte dalle scintille.
La prima fase dell’elettroerosione inizia con l’aumento
del voltaggio applicato all’elettrodo e avvicinando l’elet-
FIG. 37 Aumentando il voltaggio il fluido dielettrico si decompone in
particelle ionizzate che si dirigono verso la parte del campo elettrico che
presenta intensità più elevata (punto più vicino tra l’elettrodo e il pezzo
metallico da lavorare); di norma l’elettrodo è positivo ed il pezzo da lavorare
negativo. La forte intensità del campo elettrico accelera alcuni elettroni del
pezzo che attraversano il dielettrico, questo genera un effetto a cascata che
frantuma l’isolamento del dielettrico stesso proprio in corrispondenza del
punto dove il campo elettrico è più elevato. Si crea così un canale a bassa
resistenza dove la corrente elettrica può passare.
trodo stesso al pezzo metallico da lavorare.
All’aumentare del voltaggio si genera un campo elettrico di elevata intensità nella zona prossima tra elettrodo
e pezzo da lavorare. Contemporaneamente l’olio dielettrico si decompone in particelle ionizzate che sono
attratte nella zona in cui l’intensità del campo elettrico
è massima.
Le particelle accumulandosi superano l’effetto isolante del fluido dielettrico dando origine ad un flusso di
corrente, il voltaggio diminuisce ed aumenta il calore
(fig. 37).
Tra elettrodo e pezzo da lavorare si forma un canale costituito da materiale (fluido dielettrico, frustoli) termovaporizzato il cui accumulo dà origine ad una bolla di
vapore (fig. 38).
La corrente aumenta creando nel canale un intenso
campo elettromagnetico costituito da ioni che ostacolano l’espansione della bolla di vapore verso l’esterno
(fig. 39).
Quando il flusso di corrente ed il voltaggio si sono stabilizzati ed il calore e la pressione all’interno della bolla
hanno raggiunto i valori massimi, si ha la vaporizzazione della parte del pezzo metallico da lavorare.
A ciclo terminato il flusso di corrente il voltaggio e la
temperatura si riducono drasticamente dando origine
all’esplosione della bolla di vapore con eliminazione dei
residui (sfridi) di lavorazione e di piccole parti di residui fusi (sfridi).
Ciò che rimane della bolla sale sulla superficie del flui-
FIG. 38 A voltaggio massimo le particelle ionizzate formano un canale
dove il campo elettrico è più forte, riuscendo a superare l’effetto isolante del
liquido dielettrico e stabilendo una corrente (formazione del flusso di corrente
con aumento del calore e diminuzione del voltaggio). Stabilizzata la corrente, la
diminuzione del voltaggio e l’aumento del calore danno origine alla formazione
di una bolla di vapore. La bolla aumenta all’interno del sistema, formando un
canale composto da fluido dielettrico termovaporizzato. Quando l’elettrodo e pezzo
sono vicini, tra i due si innescano delle scariche (scintille) che erodono il pezzo
metallico in modo complementare rispetto alla forma dell’elettrodo. La scelta del
materiale dell’elettrodo e il controllo delle caratteristiche delle scariche fanno si
che l’erosione dell’elettrodo sia minore dell’erosione del pezzo. Man mano che il
pezzo viene eroso, l’elettrodo viene fatto avanzare, fino al completamento della
lavorazione. Durante la lavorazione, l’elettrodo non entra mai in contatto con il
pezzo; ciò creerebbe un cortocircuito invece delle scintille che sono la causa
dell’erosione.
FIG. 39 L’aumento dell’intensità del campo elettromagnetico riduce
l’espansione della bolla. Corrente e voltaggio sono stabilizzati, calore e pressione
raggiungono livelli massimi. Parte del pezzo da lavorare è vaporizzata dalla
corrente intensa, la restante parte del metallo resta allo stato fuso tenuto in sede
dalla pressione della bolla.
Il termine del ciclo corrisponde ad una rapida diminuzione del voltaggio, del flusso
di corrente e della temperatura causando l’esplosione della bolla, espulsione del
metallo fuso ed eliminazione dei residui del fluido dielettrico.
FIG. 41 A
FIG. 40 Ciò che resta della bolla di vapore sale sulla superficie del fluido
dielettrico e il metallo espulso forma delle minuscole sfere disperse nel
liquido di raffreddamento.
do dielettrico (fig. 40).
La superficie del pezzo lavorato viene raffreddata dal
fluido dielettrico che elimina anche i residui presenti.
Si noti che per ogni singola fase si attua una sola sequenza di scintille indipendentemente dalla grandezza
dell’elettrodo, la durata della scarica è di circa un milionesimo di secondo mentre la temperatura degli elettrodi raggiunge i 4000 °C con una profondità di penetrazione di circa 1 mm/ora.
L’elettrodo è fondamentale nel determinare la velocità
e la precisione del processo di elettroerosione.
Gli elettrodi possono essere in metallo e in grafite. La
scelta del materiale dell’elettrodo si basa su diversi fattori: velocità di rimozione del metallo, resistenza all’usura, finitura superficiale, lavorabilità, costo.
FIG. 41 B
Vantaggi
La tecnica elettroerosiva offre molteplici vantaggi.
La durezza del metallo risulta ininfluente in quanto è un
processo termico. Si può applicare ad oggetti con caratteristiche fisico-chimiche simili in quanto non essendo
presenti forze meccaniche non si verificano distorsioni.
È una tecnica indicata per tutti i metalli conduttori di
elettricità e per leghe metalliche sia vili che preziose,
oltre che il titanio. Permette l’eliminazione della corrosione da contatto galvanico favorendo così una maggiore
biocompatibilità.
È possibile eseguire il processo elettroerosivo anche
dopo che la struttura metallica è stata ceramizzata (figg.
41 A-D).
FIGG. 41 A-C Esempi di strutture ottenute tramite il processo di
elettroerosione. FIG. 41 D Particolare della struttura implantoprotesica
elettroerosa.
FIG. 41 C
FIG. 41 D
Consente la creazione di forme, superfici, angoli, cavità
di eccezionale precisione e perfettamente rifinite, non
ottenibili con i comuni strumenti rotanti.
La precisione di erosione è di 2,5 µm, le superfici che si
ottengono sono lisce e prive di sbavature.
Svantaggi
Gli svantaggi sono la lentezza nella lavorazione e un elevato costo.
Applicazioni cliniche
L’elettroerosione permette di realizzare, attraverso la
sottrazione di metallo, attacchi di precisione direttamente da una monofusione, inoltre utilizzando il metodo di saldatura autogeno (laser e plasma) per l’assemblaggio, potremo ottenere protesi combinate e
strutture su impianti in un unico metallo.
L’elettroerosione è una tecnica che permette di ottenere una buona precisione in implantoprotesi.
Uno studio effettuato da Acocella et al, riferisce che la
tecnica elettroerosiva annulla le imprecisioni tra struttura metallica e pilastri protesici implantari rendendo
più passivo il sistema. Secondo questo lavoro il tasso di
sopravvivenza a quattro anni degli impianti che supportano una struttura metallica elettroerosa è del 99,5%.
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CAPITOLO 10
MATERIALI
PER LA TERAPIA
PROTESICA
10.3.8 Ceramiche gold standard
Sin dall’introduzione delle procedure di cottura della ceramica su metallo (porcelain-fused-to-metal o PFM) verso la metà del secolo scorso, i restauri in metallo-ceramica hanno rappresentato e rappresentano tuttora il “gold
standard” di riferimento in odontoiatria protesica, grazie
alle ottimali proprietà meccaniche, al soddisfacente rendimento estetico ed all’adattamento marginale ed interno pienamente rispondente ai parametri internazionali
di accettabilità clinica. Inoltre, nel corso dei decenni, le
corone singole ed i ponti in metallo-ceramica sono divenuti sempre più utilizzati in ambito protesico in virtù della predicibilità intraorale che ha fatto registrare risultati
clinici ottimali in diversi studi scientifici a lungo termine,
dell’accuratezza delle convenzionali tecniche di fusione
e dell’incidenza trascurabile di reazioni avverse causate
da metalli nobili.
Ciò nonostante, le procedure di laboratorio che riguardano il rivestimento dei modellati in cera e la fusione
delle leghe metalliche coinvolgono un gran numero di
variabili tecniche, passaggi operativi e cicli di cottura che
rendono la qualità del prodotto finale altamente operatore-sensibile. Inoltre, la struttura metallica e lo strato di
ceramica opacizzante necessaria al suo mascheramento
rappresentano un limite per il raggiungimento di un risultato estetico ottimale, dal momento che, ostacolando
il passaggio della luce, annullano gli effetti di traslucenza,
in particolar modo quando la protesi deve riprodurre un
croma dentario piuttosto chiaro; pertanto, a differenza
dei tessuti dentari che presentano un elevato grado di
traslucenza, i restauri in metallo-ceramica possono solo
assorbire o riflettere la luce incidente. A ciò si aggiunga
che, da un punto di vista economico, il costo dei metalli
preziosi è sensibilmente aumentato negli ultimi anni.
Alla luce di quanto sopra esposto, sin dall’introduzione
in odontoiatria delle corone a giacca in sola ceramica verso la fine del XIX secolo, le ceramiche integrali prive di
struttura metallica di supporto sono state considerate i
materiali da restauro più promettenti, in virtù dei notevoli vantaggi protesici: estetica ottimale, stabilità cromatica, elevata biocompatibilità, scarsa ritenzione di placca
ed assorbimento di fluidi, elevata durezza superficiale,
ottima resistenza all’usura, bassa conduttività termica ed
inerzia chimica. Tuttavia, le prime ceramiche integrali incontrarono una certa riluttanza da parte dei clinici nell’utilizzo routinario a causa di fattori che ne limitavano la
predicibilità e la longevità cliniche, legati per lo più ad
una limitata resistenza strutturale di tali materiali: fragilità, scarsa resistenza alla trazione, limitata resistenza alla
frattura, facilità della propagazione dei microcracks, scarso adattamento marginale e limitata riparabilità.
Negli ultimi 30 anni, la crescente richiesta da parte dei
pazienti di restauri ad elevato rendimento estetico ha
portato allo sviluppo di innovativi materiali in ceramica
integrale, le cui caratteristiche meccaniche sono state
notevolmente migliorate dalle aziende produttrici, così
da limitare l’incidenza delle complicanze meccaniche ed
incrementare la longevità dei manufatti. In alcuni casi,
tuttavia, la pressione commerciale delle industrie ed il
crescente entusiasmo nella comunità odontoiatrica per
gli indubbi vantaggi estetici dei nuovi materiali hanno
condotto alla precoce introduzione nel mercato di materiali inaffidabili e dalle performances insoddisfacenti,
non testati a sufficienza nelle fasi preliminari di post-produzione, che hanno fatto registrare un elevato numero
di insuccessi clinici.
Ad oggi, esiste in letteratura un ampio numero di studi e
dati scientifici che hanno analizzato le proprietà meccaniche e cliniche delle ceramiche integrali, facendo luce
sulle indicazioni e controindicazioni di tali materiali e
fornendo valide informazioni in merito all’affidabilità dei
relativi sistemi di produzione.
Una ceramica integrale ideale per l’utilizzo in protesi
dentaria dovrebbe coniugare caratteristiche estetiche
eccellenti, quali traslucenza e colore naturale simile a
quello di un elemento dentario, con proprietà meccaniche ottimali, come buona resistenza a flessione (σ) ed a
frattura e limitata propagazione dei microcracks in condizioni di carico funzionale e parafunzionale, in modo da
garantire una appropriata longevità intraorale. Purtroppo, ad oggi, nessuna delle ceramiche integrali disponibili
per uso odontoiatrico risponde a tutti questi requisiti e,
parimenti, nessuno di tali materiali trova indicazione universale sia nei settori anteriori che in quelli posteriori.
sInnanzitutto, va sottolineato che non tutte le ceramiche
dentali mostrano caratteristiche estetiche similmente favorevoli: attualmente, si riscontra una proporzione pressochè inversa tra le proprietà ottiche e le caratteristiche
meccaniche di tali materiali.
10.3.8.1 Ceramiche vetrose
Le ceramiche feldspatiche mostrano generalmente
un’estetica eccellente insieme ad una ottimale biocompatibilità ed una soddisfacente resistenza meccanica a
compressione; tuttavia, tali ceramiche si fratturano facil-
FIG. 45 Faccette in ceramica feldspatica:
FIG. 46 Faccette in ceramica feldspatica:
FIG. 47 Faccette in ceramica feldspatica:
FIG. 48 Faccette in ceramica feldspatica:
visione postoperatoria degli elementi 11 e 21
restaurati con faccette adesive in ceramica
feldspatica.
FIG. 49 Faccette in pressoceramica: visione
preoperatoria degli elementi 11 e 21 interessati
da infrazioni e fratture coesive dello smalto e
malposizionati.
FIG. 50 Faccette in pressoceramica: visione
FIG. 51 Faccette in pressoceramica: visione
palatale dei manufatti protesici sul modello di
lavoro.
FIG. 52 Faccette in pressoceramica: visione postoperatoria
degli elementi 11 e 21 restaurati con faccette adesive in
ceramica pressata.
visione preoperatoria degli elementi 11 e 21
interessati da severe erosioni dello smalto.
visione vestibolare dei manufatti protesici.
mente se sottoposte a carichi di taglio, a causa della loro
scarsa resistenza tensile. Un primo tentativo di rinforzare le ceramiche feldspatiche fu effettuato con successo
verso la metà degli anni ’60 da McLean e Hughes che
introdussero fino al 50% di polvere di alluminio nelle ceramiche dentali, rinforzandole notevolmente.
Attualmente, le migliori proprietà estetiche sono ancora appannaggio delle ceramiche vetrose, che mostrano
un’ottimale trasmissione della luce, elevata traslucenza e
colore naturale, molto simile agli elementi dentari anche
per croma molto chiari (figg. 45-48). Le prime ceramiche
a base vetrosa, come il Dicor (Dentsply, USA), oggi non
più disponibile sul mercato, ottennero un successo limi-
visione palatale dei manufatti protesici.
vestibolare dei manufatti protesici sul modello di
lavoro.
tato a causa di percentuali di sopravvivenza modeste;
diversamente, le ceramiche vetrose rinforzate con leucite (IPS Empress, Ivoclar Vivadent, Liechtenstein) sono
state ampiamente apprezzate ed utilizzate per più di 20
anni in virtù delle eccellenti caratteristiche estetiche. Nei
blocchetti di Empress, cristalli di leucite delle dimensioni di pochi micron vengono inseriti in una matrice vetrosa; successivamente, il modellato in cera del restauro
viene rivestito e fuso mentre la ceramica vetrosa viene
pressata nello stampo ad elevata temperatura, secondo
una lavorazione denominata “hot pressed” (figg. 49-52).
A causa dei valori di resistenza a flessione piuttosto limitati (σ=100-120 MPa), le ceramiche rinforzate con
cristalli di leucite trovano indicazione solo nei settori
anteriori ad elevato impatto estetico, per la realizzazione di corone singole e faccette. Studi a lungo termine
(fino ad 11 anni di follow-up) su corone singole in IPS
Empress hanno riportato tassi di sopravvivenza pari al
98,9% nei settori anteriori e dell’84,4% in quelli posteriori. Per quanto concerne le faccette, l’IPS Empress ha
fatto registrare percentuali di successo del 98,8% a 6
anni, paragonabili agli ottimi risultati riscontrati per le
faccette in ceramica feldspatica (91%-94% a 12 anni).
10.3.8.2 Ceramiche a base di disilicato di litio
FIG. 53 Faccette in disilicato di litio: visione pre-operatoria degli elementi
11, 12, 21 e 22 interessati da ipoplasia dello smalto, trattati con pregressi
restauri incongrui in resina composita e malposizionati.
Un miglioramento significativo nelle prestazioni cliniche delle ceramiche integrali è stato ottenuto con le
ceramiche vetrose a base di disilicato di litio rivestite
con ceramiche da stratificazione contenenti fluoroapatite, come l’IPS Empress 2 (Ivoclar Vivadent, Liechetenstein) (figg. 53-55). Tali ceramiche presentano una
resistenza alla flessione nettamente superiore rispetto
alle precedenti (350 MPa) ed un rendimento estetico
molto naturale, grazie all’elevata traslucenza. Grazie a
tali proprietà, le ceramiche vetrose a base di disilicato
di litio sono state proposte per la realizzazione di corone singole con esclusione dei settori molari (figg. 56,
57) e di ponti a corta travata (fino a 3 elementi) nei
settori anteriori. Negli ultimi anni, inoltre, le proprietà
sia meccaniche che ottiche di tali ceramiche sono state
ulteriormente migliorate con implementazioni tecnologiche nei processi di produzione che hanno portato
all’introduzione sul mercato dell’IPS e.max Press (Ivoclar Vivadent, Liechetenstein). Dopo 5 anni di funzione
clinica, sono state riportate elevate percentuali di successo dal 95% al 100% per le corone singole; risultati
meno confortanti e molto più discordanti, invece, sono
stati riscontrati per i ponti in IPS Empress 2, con tassi di
sopravvivenza variabili tra il 50% ed il 93% a 2 anni ed
del 70% dopo 5 anni.
FIG. 54 Faccette in disilicato di litio: preparazione minimamente invasiva
per faccette in ceramica.
FIG. 55 Faccette in disilicato di litio: visione post-operatoria degli elementi
11, 12, 21 e 22 restaurati con faccette adesive in disilicato di litio.
FIG. 56 Corone in disilicato di litio: visione pre-operatoria di dentatura
FIG. 57 Corone in disilicato di litio: visione post-operatoria degli elementi
11, 12, 13, 21, 22 e 23 restaurati con corone singole in disilicato di litio
(faccette in ceramica feldspatica sul gruppo frontale inferiore).
interessata da severa fluorosi con pigmentazioni brune e trattata con
pregressi restauri incongrui in resina composita.
10.3.8.3 Ceramiche ad elevata resistenza infiltrate
con vetro
Un ulteriore miglioramento nelle proprietà meccaniche
dei restauri in ceramica integrale è stato ottenuto con
l’introduzione dei sistemi ceramici infiltrati con vetro ad
elevata resistenza, sviluppati nei tardi anni ’80 con la creazione di In-Ceram Alumina, In-Ceram Spinell ed In-Ceram
Zirconia (Vita Zahnfabrik, Germania). Tutti questi ossidi
ceramici permettono di realizzare di strutture protesiche
ad elevata stabilità per corone singole e ponti di 3 elementi mediante la tecnica definita “slip-casting”: una miscela
semiliquida contenente ossidi metallici fino all’80% in
peso, quali Al2O3 (In-Ceram Alumina), MgAl2O4 (In-Ceram
Spinell) ed Al2O3 + ZrO2 (In-Ceram Zirconia), viene sinterizzata su un modello refrattario, creando una cappetta in
ossido ceramico poroso che viene sottoposta ad un ulteriore ciclo di cottura con infiltrazione di vetro di lantano.
Mediante tale lavorazione, la resistenza alla flessione e la
robustezza del framework risultano significativamente
aumentate: il vetro infiltrato colma le microporosità della matrice, riducendo il rischio di microcracks. Infine, il
materiale da rivestimento estetico, quale una ceramica
feldspatica, viene stratificato a copertura della struttura
protesica. L’In-Ceram Alumina (con una resistenza alla
flessione pari a circa 350-500 MPa) è stata disponibile sul
mercato per circa 20 anni, riscontrando il favore dei clinici
per il buon connubio tra proprietà meccaniche e caratteristiche estetiche. Studi con follow-up variabili tra 3 e 7
anni, hanno riportato percentuali di sopravvivenza di corone singole in In-Ceram Alumina tra il 94% ed il 99,1%,
con complicanze meccaniche più frequenti nei settori
posteriori (chipping, fratture a tutto spessore). Una tendenza analoga è stata riscontrata dopo 3 anni di funzione
clinica per i ponti posteriori di 3 elementi in In-Ceram
Alumina, che hanno fatto registrare una sopravvivenza
dell’83% mostrando prevalentemente fratture a livello dei
connettori, rispetto a quelli cementati nei settori anteriori, che hanno fatto registrare una sopravvivenza del 100%.
Studi con periodi osservazionali di maggior durata hanno
mostrato percentuali di sopravvivenza pari al 73,9% a 5
anni e dell’88% a 10 anni per i ponti di 3 elementi in InCeram Alumina.
L’In-Ceram Spinell è caratterizzata da valori di resistenza
alla flessione lievemente inferiori (350-400 MPa) rispetto
alle altre ceramiche ad infiltrazione vetrosa ma presenta migliori proprietà ottiche, quali elevata traslucenza ed
eccellente diffusione della luce. Il suo impiego è stato limitato alle corone singole nei settori anteriori con buone
percentuali di sopravvivenza (97,5% dopo 5 anni).
L’In-Ceram Zirconia è una ceramica vetro-infiltrata alluminosa rinforzata con zirconia (ZTA), in cui, per la prima
volta, l’ossido di zirconio è stato utilizzato in una ceramica
dentale; come riportato in seguito, grazie alla sua natura
metastabile, la zirconia è un materiale ceramico ad elevate prestazioni. I nuclei ad alta resistenza sono costituiti
per il 67% in peso da ossido di alluminio e per il restante
33% da 12mol% ossido di zirconio parzialmente stabilizzato con cerio, in modo che i cristalli di zirconia (dimen-
sione ~ 1 µm) siano immersi in una matrice alluminosa,
creando una struttura ad elevata tenacità e resistenza
alla flessione (σ=400-800 MPa). Eventuali microcracks
all’interno del materiale possono innescare una trasformazione del reticolo cristallino della zirconia definita
“transformation toughening” (irrobustimento da trasformazione), in modo che l’estremità di una cricca tenda a
propagarsi nella matrice alluminosa circondata dai cristalli di zirconia trasformati. La ZTA può essere fabbricata
con due differenti processi: la lavorazione meccanica allo
stato verde (soft machining), che prevede la fresatura industriale di blocchi ceramici parzialmente sinterizzati, e
lo slip-casting. Quest’ultima tecnica offre il vantaggio di
contrazioni più limitate ma presenta maggiori porosità e
minori proprietà meccaniche rispetto alla zirconia tetragonale policristallina parzialmente stabilizzata con Ittrio
(3Y-TZP), che rappresenta, ad oggi, la ceramica a base di
zirconia più resistente e comunemente utilizzata. Inoltre,
la stabilizzazione con ossido di cerio fornisce una migliore stabilità termica e resistenza alla degradazione a bassa temperatura (Low Temperature Degradation o LTD)
rispetto all’Y-TZP. Secondo le indicazioni dei produttori,
la ZTA è indicata per ponti di 3 elementi nei settori posteriori (percentuale di sopravvivenza a 3 anni del 94,5%)
ma mostra intensa opacità e bassa traslucenza. Sebbene
fornisca un valido effetto di mascheramento in presenza
di denti scuri o macchiati, la ZTA non è indicata nei casi ad
elevata valenza estetica.
10.3.8.4 Ceramiche a base di allumina
Oltre all’infiltrazione vetrosa mediante slip-casting, un’altra tecnica di produzione dei restauri alluminosi è la processazione industriale mediante CAD-CAM (Computer
Aided Design-Computer Aided Machining) di blocchi di
allumina pura densamente sinterizzata (Procera AllCeram, Nobel Biocare AB, Goteborg Sweden), introdotta
negli anni ’90 ed utilizzata per la fabbricazione di corone
singole (figg. 58, 59) e ponti anteriori fino a 3 elementi.
Il core di Procera AllCeram è realizzato per mezzo della
compattazione industriale di polvere di ossido di alluminio puro su un modello refrattario e sovradimensionato dell’elemento da protesizzare ottenuto a partire
da una scansione del modello di lavoro realizzato nel
laboratorio odontotecnico. Successivamente, l’allumina così compattata viene fresata mediante macchinari a
controllo numerico che sagomano la superficie esterna
del core, poi sinterizzato ad elevata densità. Il prodotto
finito è una struttura in ceramica integrale senza leucite, costituita per il 99.9% da allumina policristallina,
rivestita con ceramica feldspatica a basso punto di fusione. I cores in Procera AllCeram sono caratterizzati
da una maggiore resistenza alla flessione rispetto alla
ceramica alluminosa pre-sinterizzata ed infiltrata con
vetro; ciò giustifica le buone caratteristiche meccaniche
e l’elevata resistenza a frattura, mantenendo una buona
traslucenza ed opalescenza. Per quanto riguarda l’adattamento marginale, i gaps registrati sono compresi tra
FIG. 58 Corone singole in allumina: visione preoperatoria di elemento 11 con
pregresso restauro protesico incongruo ed elemento 21 interessato da discromia
con necessità di copertura coronale completa a seguito di terapia endodontica.
FIG. 59 Corone singole in allumina: visione postoperatoria degli elementi 11 e
21 protesizzati con corone singole in allumina-ceramica.
60 e 80 µm, dimostrando una precisione protesica clinicamente accettabile ed una valida integrità marginale.
Recenti studi hanno mostrato che l’utilizzo di cemento
resinoso con corone singole in Procera AllCeram si associa ad una minore percentuale di complicazioni meccaniche sia su denti che su impianti, con tassi cumulativi di sopravvivenza e successo pari rispettivamente
al 95,2% e 90,9% dopo 6 anni di funzione. Altri autori
hanno osservato microinfiltrazioni quando le strutture
in ossido di alluminio vengono sabbiate e silanizzate
prima della cementazione.
Negli ultimi anni diversi studi hanno riportato buoni
risultati clinici con corone singole in allumina policristallina sinterizzata. Sono stati registrati tassi cumulativi
di sopravvivenza del 97,7% e 93,5% e percentuali cumulative di successo del 97,7% e 92,2% rispettivamente
dopo 5 e 10 anni. Un recente studio retrospettivo su
corone singole in allumina ha riportato, nei settori estetici, tassi di successo del 100% su denti naturali e del
98.3% su impianti dopo 4 anni di funzione nei settori
posteriori, invece, sono state riscontrate percentuali di
sopravvivenza del 98,8% a 7 anni.
Da questi dati, si può dedurre che le corone in allumina
Procera AllCeram possono rappresentare soluzioni cliniche affidabili e ad alta resistenza nei settori anteriori, sia
su denti che su impianti, prevalentemente in condizioni
ad elevato stress nelle quali le tradizionali ceramiche vetrose più traslucenti ed estetiche potrebbero fallire. Al
contrario, alcune critiche sono state sollevate riguardo
l’utilizzo clinico delle faccette realizzate in allumina policristallina ad alta densità. Uno studio con Analisi tridimensionale agli Elementi Finiti (FEA) è stato condotto al
fine di valutare il comportamento biomeccanico di faccette in ceramica feldspatica rispetto a quelle in allumina; i risultati hanno mostrato differenti performances in
termini di deformazioni elastiche e distribuzione degli
stress, in base alle quali le ceramiche feldspatiche hanno
simulato meglio le caratteristiche biomeccaniche dello
smalto naturale. Di contro, l’allumina resiste in maniera significativa alle deformazioni ma determina elevate
concentrazioni di stress a livello dell’interfaccia adesiva,
influenzando negativamente le performances cliniche
dell’agente adesivo e del cemento resinoso, con elevato
rischio di fallimento dell’adesione.
Un altro svantaggio per l’utilizzo di tale ceramica per la
realizzazione di faccette è che l’allumina densamente
sinterizzata non è mordenzabile e la predicibilità dell’adesione ai tessuti dentari rimane, ad oggi, controversa.
10.3.8.5 Ceramiche a base di zirconia
Sin da quando è stata introdotto in Odontoiatria, il biossido di zirconio policristallino (zirconia) è risultato particolarmente interessante in Protesi, grazie alle sue eccellenti proprietà meccaniche ed estetiche in confronto
alla metallo-ceramica.
La zirconia è chimicamente un ossido e tecnologicamente un materiale ceramico, non solubile in acqua,
non citotossico e che non favorisce l’adesione batterica, minore rispetto a quella su titanio, come dimostrato in studi sia in vitro che in vivo; inoltre, mostra una
favorevole radiopacità ed una ridotta suscettibilità alla
corrosione.
La zirconia pura è polimorfica ed allotropica alla pressione ambientale, presentando tre forme cristallografiche a differenti temperature: cubica (c) (da 2680ºC, il
punto di fusione, a 2370ºC), tetragonale (t) (da 2370ºC
a 1170ºC) e monoclina (m) (da 1170ºC a temperatura
ambiente). Dopo la sinterizzazione industriale del materiale, nella fase di raffreddamento, si verifica una trasformazione spontanea dalla fase (t) alla più stabile fase
(m), con un incremento volumetrico dei cristalli pari al
4-5% , con la generazione di stress compressivi all’interno del materiale. A partire dagli anni ’30, tale comportamento è stato interpretato come una potenziale proprietà clinicamente vantaggiosa della zirconia. Quando
è legata con altri ossidi “cubici” come MgO, CaO, Y2O3
e CeO2 (cosiddetti “stabilizzatori”), la trasformazione di
fase può essere impedita, mantenendo così i cristalli di
zirconia nella loro forma tetragonale o cubica a temperatura ambiente, in uno stato termodinamicamente stabile. Questa proprietà è la ragione principale per cui la
ricerca biomedica nel corso degli ultimi anni ha focalizzato in maniera crescente la sua attenzione sulla zirconia, visto che può indurre un notevole incremento nella
resistenza alla frattura del materiale ritardando (ma non
impedendo) la propagazione di un microcrack. All’apice di una cricca, infatti, gli stress tensili determinano la
suddetta trasformazione cristallina dalla fase stabilizzata (t) alla fase (m); il conseguente aumento di volume
dei cristalli nella zona della microfrattura determina un
favorevole stress compressivo interno al materiale che
agisce come limitatore della microfrattura. Tale meccanismo, definito “phase transformation toughening”
(PTT), spiega perché la zirconia presenti i più elevati
valori di resistenza alla flessione ed alla frattura tra le
ceramiche integrali.
A temperatura ambiente, la trasformazione da tetragonale a monoclina è un processo irreversibile; ciò significa che, una volta realizzatosi, l’effetto che impedisce la
propagazione della cricca non può essere sfruttato per
limitare altre fratture. Riscaldando il materiale ad una
temperatura compresa tra 900º e 1000ºC per un breve periodo di tempo, il processo diviene reversibile; in
questo caso, la transizione di fase da monoclina a tetragonale, invece che utilizzare nuovamente i cristalli per
un’ulteriore trasformazione e riparazione delle cricche,
determina un rilassamento degli stress compressivi a livello della superficie, riducendo, tuttavia, la resistenza
del materiale. Da ciò si deduce che le elevate temperature di cottura della ceramica feldspatica di rivestimento del core in zirconia possono rappresentare un fattore di rischio per l’innesco della suddetta PTT.
Le dimensioni dei cristalli influiscono sensibilmente sul
comportamento della zirconia: maggiori sono le temperature ed i tempi di sinterizzazione, maggiori saranno le
dimensioni medie dei cristalli. La dimensione critica dei
cristalli è circa 1 µm: al di sopra di queste dimensioni, la
zirconia è maggiormente predisposta ad una PTT spontanea a causa della minore stabilità, mentre una minore
dimensione dei grani rende la zirconia meno suscettibile a questo fenomeno, sebbene al di sotto di 0,2 µm
la PTT non si verifichi e la resistenza alla frattura della
zirconia diminuisca. Di conseguenza, le procedure di
sinterizzazione devono essere rigorosamente controllate nel corso dell’intero processo di produzione dal
momento che influenzano la dimensione dei cristalli,
incidendo fortemente sulle proprietà meccaniche e sulla stabilità della zirconia.
Sebbene esistano diversi materiali contenenti zirconia,
ad oggi sono tre i sistemi ceramici a base di zirconia utilizzati e validati per applicazioni dentali. Due di questi
sono materiali bifasici, ossia la ceramica alluminosa infiltrata con vetro e rinforzata con zirconia (ZTA) e la zirconia parzialmente rinforzata con magnesio (Mg-PSZ);
il materiale maggiormente utilizzato, tuttavia, è un materiale monofasico, definito zirconia policristallina tetragonale parzialmente stabilizzata con ittrio (3Y-TZP).
Zirconia parzialmente rinforzata con magnesio
(Mg-PSZ)
La microstruttura della Mg-PSZ consta di gruppi di cristalli tetragonali nel contesto di una matrice di zirconia
cubica stabilizzata. L’agente stabilizzante aggiunto è il
MgO (8-10 mol%). Riguardo alle applicazioni dentali, a
parte alcune eccezioni (Denzir-M, Dentronic AB), questo materiale non è stato ampiamente utilizzato né ha
incontrato un’ampia popolarità a causa di svariati svantaggi, quali notevole porosità, cristalli di grandi dimensioni (30-60 µm), bassa stabilità, tendenza all’usura e,
soprattutto, scarse proprietà meccaniche, specialmente
se paragonate a quelle della 3Y-TZP.
Zirconia policristallina tetragonale parzialmente
stabilizzata con ittrio (3Y-TZP)
Tale tipo di zirconia è costituito da cristalli metastabili, in forma (t) e stabilizzati dall’aggiunta di 3mol% di
ossido di ittrio (Y2O3). Questo materiale policristallino
mostra scarsa porosità ed alta densità. Ad oggi, rappresenta il tipo di zirconia maggiormente utilizzato per applicazioni dentali.
Proprietà meccaniche della zirconia
Le proprietà meccaniche della zirconia sono state ampiamente analizzate sia su corone singole che su ponti
di 3 e 4 unità, con dati eterogenei a causa delle differenti condizioni sperimentali e misurazioni. È stato dimostrato che le proprietà meccaniche della zirconia sono
superiori rispetto a quelle delle altre ceramiche per uso
dentale, con una resistenza alla frattura di 6-10 MPa/
m1/2, una resistenza alla flessione di 900-1200 MPa ed
una resistenza alla compressione di 2000 MPa. Sono stati registrati carichi di frattura compresi tra 706 N, 2000
N e 4100 N, maggiori rispetto ad allumina e disilicato di
litio, nonché superiori alle forze medie di masticazione
umana, confermando una resistenza clinicamente soddisfacente per tali restauri.
L’“invecchiamento” della zirconia
La degradazione a bassa temperatura (Low Temperature Degradation, LTD) o “invecchiamento” (aging)
della zirconia è un processo ben noto e strettamente
correlato alla PTT. Tale fenomeno consiste in una spontanea trasformazione dei cristalli dalla fase tetragonale
alla fase stabile monoclina in assenza di qualsiasi stress
meccanico; ciò determina la diminuzione delle proprietà fisiche del materiale ed espone la zirconia al rischio
di fallimento spontaneo. Gli stress meccanici e l’umidità accelerano la LTD; altri fattori che influenzano questo
processo sono: temperatura, dimensione dei grani, difetti di superficie, tecniche di lavorazione, percentuale
e distribuzione degli ossidi stabilizzatori.
Sebbene la LTD debba essere considerata un fattore
di rischio per i fallimenti protesici, ad oggi non è stata
dimostrata una diretta correlazione negli studi clinici.
Anche se gli effetti della LTD su restauri dentali in zirconia non sono stati ancora esaminati nel lungo termine,
l’invecchiamento è considerato come fattore di degra-
dazione delle proprietà meccaniche del materiale, quali
insorgenza di microcricche, diminuzione della resistenza, aumento dell’usura ed irruvidimento superficiale.
Una ricerca in vitro su ponti di 3 unità in zirconia, prima
e dopo l’esposizione ad un processo di invecchiamento
artificiale attraverso l’utilizzo di un simulatore di masticazione, corrispondente a una funzione clinica di 5 anni
(circa 1.200.000 cicli di fatica termo meccanica in ambiente liquido), ha mostrato una significativa riduzione
dei carichi di frattura di tutti i campioni, benchè sempre
al di sopra dei valori clinicamente accettabili. Benché
non esista ancora univocità di pareri in proposito, non
è consigliabile lasciare la zirconia priva di rivestimento
ceramico a livello dei versanti gengivali dei restauri, dal
momento che ciò, esponendo la zirconia direttamente
ai fluidi salivari, potrebbe accelerarne l’invecchiamento.
Procedure di fabbricazione
Le armature dentali in zirconia CAD/CAM possono essere realizzate secondo due differenti tecniche: fresatura
di blocchi di zirconia presinterizzata (soft machining) o
completamente sinterizzata (hard machining).
Il processo di lavorazione soft machining è il più diffuso sistema di fabbricazione per la 3Y-TZP, basato sulla
fresatura di blocchi grezzi presinterizzati che sono successivamente completamente sinterizzati allo stadio finale. Tali blocchi di zirconia presinterizzata, definita anche allo “stato verde” (green state), vengono prodotti
compattando polveri di zirconia attraverso un processo
isostatico a freddo; ciò determina una porosità molto
limitata (20-30 nm) ed una distribuzione abbastanza
omogenea delle componenti all’interno del materiale
grezzo. La lavorazione della zirconia ad un’adeguata
temperatura di sinterizzazione è un fattore cruciale poiché questo parametro influisce su durezza, lavorabilità
e ruvidità dei blocchi grezzi. Da un punto di vista di
produzione, durezza e lavorabilità si comportano come
fattori opposti: un’adeguata durezza è necessaria per
manipolare i blocchi grezzi di 3Y-TZP in modo sicuro, ma al contempo, se eccessiva, risulta dannosa per
un’appropriata lavorabilità. Inoltre, più elevate sono le
temperature di pre-sinterizzazione, maggiore sarà la ruvidità superficiale del materiale.
A seguito di una scansione del moncone o di un modellato in cera o resina, sofisticati softwares CAD progettano un’armatura virtuale sovradimensionata per
compensare la successiva contrazione da sinterizzazione della zirconia. Successivamente, attraverso una
procedura di fresatura CAM, viene realizzata la struttura fisica del materiale grezzo. Infine, viene effettuata la
sinterizzazione ad alta temperatura: il core di zirconia
acquisisce le sue proprietà meccaniche e subisce una
contrazione volumetrica lineare pari a circa il 25%, raggiungendo le dimensioni finali. Tale processo permette
di produrre armature molto stabili in zirconia tetragonale con superfici virtualmente libere dalla fase monoclina. Tuttavia, una certa quantità di zirconia cubica
può essere presente a causa di una distribuzione non
omogenea di ossido di ittrio. La fase cubica è più ric-
ca di ossidi stabilizzatori rispetto ai cristalli tetragonali
circostanti e questo può influenzare negativamente la
stabilità del materiale.
Di contro, nel processo di lavorazione definito hard
machining, i blocchi di 3Y-TZP vengono dapprima densamente sinterizzati attraverso un processo a caldo
con pressione isostatica: ad alte temperature (1400º1500ºC) ed elevate pressioni in un ambiente saturo di
gas inerti, vengono sinterizzati blocchi molto duri, densi ed omogenei di zirconia interamente sinterizzata, da
cui si ottengono armature già nelle dimensioni finali,
utilizzando sistemi di fresatura molto potenti e resistenti con frese diamantate abrasive.
Rimane ancora controverso il dibattito su quale tecnica
di produzione sia più appropriata per ottenere migliori
risultati. Il principale svantaggio del soft machining è
la compensazione della contrazione da sinterizzazione
dell’armatura alla quota di espansione programmata dal
software. Tuttavia, diversi studi in vitro hanno confermato un’elevata resistenza alla frattura ed alla flessione
utilizzando differenti tecniche di produzione con pressione isostatica sia a caldo che a freddo.
E’ indubbio che, paragonata con il processo di lavorazione allo stato verde, la procedura di hard machining
è più dispendiosa e richiede sistemi di fresatura molto potenti e resistenti all’usura. I blocchi interamente
sinterizzati di 3Y-TZP sono più duri e meno lavorabili
di quelli presinterizzati, rendendo il tempo di fresatura
più lungo ed il processo di lavorazione più costoso. Dal
punto di vista operativo, inoltre, fresare i blocchi grezzi di zirconia interamente sinterizzata in spessori sottili
è molto difficile e può comportare risultati non predicibili. Infine, è stato dimostrato che la lavorazione di
questi blocchi può introdurre diversi tipi di microcricche e difetti di superficie, in dipendenza di vari fattori,
come la dimensione dei grani della fresa diamantata e
la velocità di rotazione: frese a grana fine determinano
un danno più “duttile” paragonate con le fratture “fragili” dovute alle frese a grana grossa, mentre la fresatura
ad alta velocità permette di ridurre la forza applicata al
blocco e diminuire le dimensioni e la profondità dei difetti di superficie. In ogni caso, vi è un elevato livello di
evidenza che tutti i trattamenti di superficie, come la
fresatura e la sabbiatura, determinano degli stress che
inducono un certo grado di trasformazione (t) > (m)
della superficie della zirconia prima dell’utilizzo clinico,
influenzando negativamente la longevità dei restauri in
zirconia.
La fresatura della superficie può determinare difetti
profondi che riducono la tenacità e la resistenza del
materiale; inoltre, l’esposizione all’umidità intraorale
dei difetti di macchinazione industriale può avere ulteriori effetti sfavorevoli, quali un precoce invecchiamento della zirconia. Le strutture prodotte dal processo di
hard machining mostrano, in genere, una quota considerevole di zirconia monoclina, con una conseguente
aumentata suscettibilità alla LTD ed alla formazione di
microcricche di superficie, ottenendo come risultato un materiale meno stabile. Tuttavia, poiché non vi
è standardizzazione dei trattamenti utilizzati, è molto
difficile comparare i risultati degli studi che hanno analizzato i trattamenti di superficie della zirconia. Le procedure di lavorazione soft machining offrono una stabilità più predicibile delle armature, almeno in assenza di
danni superficiali successivi alla sinterizzazione (come,
ad esempio, i ritocchi occlusali).
Un’ulteriore fattore di rischio nell’induzione della LTD
è l’accumulo di stress residui, come quelli che si creano quando la zirconia è cotta ad alte temperature e
poi rapidamente raffreddata o quando viene utilizzato
un materiale ceramico di rivestimento con un coefficiente di espansione termica (CET) dissimile da quello
del core. Inoltre, la presenza di cristalli cubici di grandi
dimensioni, generati da cotture ad alta temperatura, è
sfavorevole per la resistenza della zirconia alla LTD ed
all’invecchiamento.
Negli ultimi anni, è stato proposto l’impiego dell’ossido
di cerio a concentrazioni maggiori rispetto a quello di
ittrio come stabilizzatore della zirconia ad uso dentale. In condizioni sperimentali analoghe ed a seguito di
termociclaggio, la zirconia parzialmente stabilizzata con
ossido di cerio (Ce-TZP) ha mostrato migliore stabilità
termica e resistenza alla LTD rispetto alla Y-TZP, nonchè
resistenza alla flessione più spiccata prima dell’insorgenza di fratture. Il principale svantaggio che ha, finora,
limitato l’utilizzo di questo stabilizzatore nella pratica
dentale è il colore giallo-marrone.
In merito allo spessore delle strutture in zirconia, la
maggior parte delle aziende produttrici concorda nel
considerare 0,5 mm lo spessore minimo per prevenire deformazioni del core. La forma e lo spessore delle
armature dovrebbero essere ottimizzati ed individualizzati per ottenere uno spessore uniforme della ceramica
di rivestimento, fornendo un appropriato supporto per
quest’ultima mediante modellazioni anatomiche del
core.
Un altro parametro determinante nella definizione
delle proprietà meccaniche dei ponti a base di zirconia riguarda la forma e le dimensioni dei connettori
protesici. Le fratture indotte sperimentalmente in vitro
sono state spesso associate all’altezza insufficiente dei
connettori, che rappresentano un locus minoris resistentiae sotto carico dal momento che congiungono gli
elementi pilastro ed i pontics privi di supporto primario. La resistenza alla flessione di una struttura protesica deve essere sufficientemente elevata da sopportare i
carichi occlusali, durante i quali i connettori sono sottoposti a stress di taglio altamente deleteri per i materiali
ceramici; ne consegue che le dimensioni dei connettori
risultano fondamentali per il successo clinico a lungo
termine delle protesi in zirconia. Tuttavia, spesso tali
dimensioni, in particolare l’altezza, risultano limitata
per la presenza sul versante gengivale dei tessuti molli parodontali. Pur non essendo presenti in letteratura
evidenze scientifiche univoche in merito alle dimensioni ideali dei connettori in zirconia, alcuni studi in vitro
raccomandano diametri minimi di circa 3,0-6,0 mm per
ponti di 3 unità, 4,0-6,0 mm per ponti di 4 unità e 5,0-
6,0 mm per ponti di 5 unità; tali dati trovano riscontro
nelle indicazioni fornite dalle aziende produttrici. Inoltre, la presenza di angoli acuti a livello delle embrasures gengivali rappresentano aree di concentrazione di
stress, influenzando negativamente la resistenza a frattura delle protesi in ceramica integrale; pertanto, le embrasures gengivali dovrebbero avere un raggio quanto
più ampio possibile a livello dei connettori.
Precisione dell’adattamento
La precisione dei restauri in zirconia dipende da vari
fattori, quali i sistemi di fabbricazione, le caratteristiche
individuali delle protesi (lunghezza delle travate, configurazione del core), la qualità della ceramizzazione di rivestimento e l’influenza dell’aging. Per quanto riguarda i
restauri in 3Y-TZP prodotti con soft machining, la precisa
compensazione numerica richiesta da tale sistema relativa alla contrazione da sinterizzazione è un fattore cruciale per la precisione, strettamente dipendente anche
dalla composizione ed omogeneità dei blocchi grezzi di
zirconia presinterizzata.
Per quanto concerne le corone singole, le strutture in
zirconia mostrano un’elevata precisione di adattamento,
compresa tra 0 e 74 µm. Di contro, non è facile comparare i dati relativi alla precisione marginale dei ponti in zirconia, a causa dell’eterogeneità dei dati in vitro ed in vivo
presenti in letteratura: sono stati utilizzati campioni non
cementati o cementati con differenti tipi di cemento, così
come campioni ottenuti mediante impronte tradizionali
piuttosto che con scansioni ottiche. Ne deriva un’ampia
variabilità numerica, con valori di gap marginale assoluto
compresi tra 9,0 e 148,8 µm, con un valore medio di 73,8
µm. Maggiori discrepanze sono state riscontrate a livello
del gap interno (la distanza interna misurata tra la struttura in zirconia ed il moncone protesico), comprese tra
68,8 e 215 µm in direzione occlusale e tra 52,3 e 192 µm
in direzione assiale.
In un recente studio in vitro sono stati evidenziati valori
minori di apertura marginale in presenza di preparazioni
a lama di coltello (feather-edge, 87±10 µm) rispetto a
quelli riscontrati in presenza di mini-chamfer (114±11
µm), preparazione a spalla (114±16 µm) e linea di finitura a chamfer (114±14 µm); tuttavia, a causa dei limiti
del disegno sperimentale in vitro e delle limitazioni meccaniche delle preparazioni a lama di coltello, gli autori
sconsigliano l’impiego clinico di tale disegno marginale
nella realizzazione di corone in zirconia.
E’ stata, inoltre, evidenziata una correlazione tra la lunghezza delle travate di ponti in zirconia e l’adattamento
marginale, dal momento che quanto più è ampia la distanza tra i monconi, tanto più elevate sono le discrepanze marginali evidenziate. Inoltre, anche la forma del core
ha mostrato una relazione con la precisione marginale:
configurazioni dei pontics in linea retta sono risultate
più precise rispetto a disegni protesici con armature curvilinee. Secondo alcuni studi, in presenza di geometrie
protesiche complesse, il processo di lavorazione hard
machining rappresenta il sistema di fabbricazione più
predicibile in termini di adattamento marginale.
Per quanto riguarda la stratificazione della ceramica di
rivestimento, il suo effetto sulla precisione finale rimane
un argomento ancora molto controverso.
In merito alle tecniche di fabbricazione industriale, alcuni studi hanno evidenziato minori discrepanze marginali
con il processo di hard machining mentre altre analisi
non hanno riscontrato alcuna differenza tra fresatura
hard e soft. Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato
che i sistemi CAD-CAM producono strutture con minori
discrepanze marginali; di contro, altri studi non hanno
evidenziato alcuna differenza tra procedure CAD-CAM,
in cui la progettazione è effettuata tramite software, e la
processazione solo CAM, in cui la geometria del restauro viene ottenuta attraverso la scansione delle superfici
interne ed esterne di armature fisiche modellate in cera
o in resina.
Infine, analisi di carico a fatica hanno dimostrato che le
sollecitazioni termiche e masticatorie non influiscono
sull’adattamento marginale delle strutture in zirconia;
parimenti, l’invecchiamento della zirconia non sembra
inficiare la stabilità e l’integrità marginale del materiale
a lungo termine.
Si può concludere che la maggior parte dei sistemi di
fabbricazione della zirconia attualmente disponibili forniscono gaps marginali ed interni clinicamente accettabili; tuttavia, è stata evidenziata un’ampia variabilità legata
all’utilizzo di diversi sistemi di produzione e di materiali.
Studi clinici e sperimentali sulla zirconia
Nell’ultima decade, l’interesse crescente nei confronti
della zirconia come materiale dentale per corone e ponti
ha portato alla realizzazione di numerose sperimentazioni cliniche finalizzate alla definizione delle percentuali
di successo e sopravvivenza di tali restauri. Molti studi
hanno esaminato i risultati clinici dei ponti nei settori
posteriori mentre soltanto poche analisi hanno preso in
esame le corone singole e gli abutments implantari; ad
oggi, è disponibile un solo studio riguardo a ponti in zirconia supportati da impianti.
Benchè i dati attualmente disponibili siano piuttosto limitati, la zirconia appare una valida opzione per la realizzazione di corone singole sia nei settori anteriori (figg.
60-63) che in quelli posteriori (figg. 64-67), con risultati clinici paragonabili ai tradizionali restauri in metalloceramica. Le corone singole in zirconia hanno mostrato
percentuali di successo del 93% dopo un periodo di osservazione di 2 anni, con risposta tissutale molto favorevole. Analogamente, dopo 3 anni di impiego clinico, la
medesima tipologia di restauro con un campione di 204
elementi singoli ha fatto registrare un tasso di sopravvivenza del 93%; in questo studio specifico, è stato riscontrato il 16% di complicanze (6% decementazione, 2.5%
estrazione del dente pilastro, 5% dolore persistente, 2%
chipping della ceramica di rivestimento).
Differentemente, numerosi studi hanno analizzato il
comportamento dei ponti in zirconia, in particolare nei
settori posteriori (figg. 68-71), riportando risultati clinici
piuttosto favorevoli; analogamente a quanto riportato in
letteratura per i ponti in metallo-ceramica, sono stati evi-
FIG. 60 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione preoperatoria di
elemento 11 con protesi incongrua ed elemento 12 discromico.
FIG. 61 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione vestibolare dei
manufatti sul modello di lavoro.
FIG. 62 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione palatale dei
manufatti sul modello di lavoro.
FIG. 63 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione postoperatoria
degli elementi 11 e 12 protesizzati con corone singole in zirconia-ceramica.
FIG. 64 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: visione
preoperatoria di elemento 14 con necessità di copertura coronale completa
a seguito di terapia endodontica.
FIG. 68 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: core in zirconia di
protesi parziale fissa.
FIG. 65 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: preparazione di
FIG. 69 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: prova intraorale del
core in zirconia.
FIG. 66 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: prova intrarorale
FIG. 70 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: prova intraorale del
core in zirconia.
elemento 14 per corona in ceramica integrale.
della struttura in zirconia.
FIG. 67 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: visione postoperatoria
dell’elemento 14 protesizzato con corona singola in zirconia ceramica.
FIG. 71 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: visione postoperatoria
degli elementi 45, 46 e 47 protesizzati con protesi parziale fissa in zirconiaceramica.
denziati fallimenti dovuti sia a complicanze biologiche,
come carie secondarie, sia a problemi tecnici, come le
fratture del core o i chipping della ceramica di rivestimento.
Inoltre, sono state pubblicate revisioni sistematiche della letteratura sulle percentuali di sopravvivenza di corone e ponti in ceramica integrale paragonate a quelle dei
restauri in metallo-ceramica, riportando, dopo 5 anni
di osservazione, tassi di sopravvivenza del 95,6% per le
protesi in metallo-ceramica e del 93,3% per i restauri in
ceramica integrale, tra cui le protesi in zirconia hanno
mostrato le migliori performances cliniche, risultando
i sistemi in ceramica integrale più affidabili. La zirconia
è interessata, in genere, solo da cricche o scheggiature
della ceramica di rivestimento mentre nelle altre tipologie di restauro in ceramica integrale sono state sovente
osservate fratture del core.
Da quanto sopra riportato, si deduce che è estremamente difficile effettuare una comparazione sistematica
su base scientifica dei risultati dei diversi studi sperimentali e clinici sui restauri in zirconia, a causa delle differenze nelle metodologie di ricerca, nei parametri di
valutazione, nelle tecniche di produzione e nella durata
dei periodi di osservazione. Dopo 2 anni di funzione,
una recente ricerca clinica sui ponti in zirconia ha riportato un tasso di sopravvivenza del 100%. Dopo 3 anni
di osservazione, la quasi totalità degli studi ha riportato
risultati clinici soddisfacenti per i ponti in zirconia, con
percentuali di fallimento tra 0 e 4,8%, mostrando una
promettente affidabilità di questi restauri. Dopo 4 anni
di utilizzo clinico, i tassi di fallimento aumentano lievemente fino a valori compresi tra 4% e 6%. Dopo 5 anni
di funzione, ponti in zirconia di 3-5 elementi hanno fatto registrare percentuali cumulative di sopravvivenza
compresietra 74% e 100%.
In conclusione, nella maggior parte degli studi clinici
sono stati osservati tassi di successo molto positivi, con
una buona predicibilità prospettica dei ponti in zirconia
nel medio termine.
Le complicanze meccaniche correlate a questa tipologia di restauro sono prevalentemente le fratture del
core, lo scheggiamento della ceramica di rivestimento
e la perdita di ritenzione.
Per quanto concerne le fratture del core, sono state evidenziate in soli 5 studi, 3 su ponti, 1 su corone singole ed 1 su ponti supportati da restauri di tipo inlay. La
percentuale delle fratture della struttura in zirconia è
compresa tra 3% e 10% e questi dati sembrano indicare
una forte correlazione con la geometria della protesi,
dal momento che il maggior numero di fratture è stato
registrato a carico dei ponti supportati da inlays. Se ne
deduce che le fratture del core possono essere considerate eventi poco frequenti; quando si verificano, sono
interessati soprattutto i connettori di ponti a lunga travata ed i monconi dei secondi molari.
Al contrario, il chipping (frattura coesiva superficiale)
della ceramica di rivestimento è riportata come la complicanza meccanica più frequente a carico delle protesi
in zirconia, soprattutto a livello dei denti posteriori e
indipendentemente dal tipo di restauro. Dopo 5 anni
di utilizzo clinico, i ponti in zirconia di 3-5 unità posteriori supportati da denti naturali hanno mostrato la
carie secondaria come causa più comune di fallimento
biologico, interessando il 21,7% dei restauri, mentre il
chipping della ceramica di rivestimento si è verificato
nel 15,2% delle protesi. In uno studio condotto su ponti in zirconia a supporto implantare, la percentuale di
chipping è risultata ancora più elevata, raggiungendo
il 54% dopo un anno di funzione. Ad oggi, il chipping
della ceramica di rivestimento su restauri in zirconia è
stato riportato in percentuali comprese tra 0% e 54%
dopo 2 anni di osservazione, dato meno favorevole rispetto ai restauri in metallo-ceramica per i quali si riscontra una percentuale di protesi non interessate da
chipping del 98% dopo 5 anni; il tasso di insuccesso per
la metallo-ceramica raggiunge il 4-6% dopo 10 anni. La
percentuale di rischio stimato per anno di chipping per
i restauri in ceramica integrale è del 2,92%. Tuttavia, va
sottolineato che, nella maggior parte dei casi, le fratture
coesive della ceramica di rivestimento non compromettono la funzione, essendo riparabili mediante lucidatura intraorale della superficie del restauro o mediante
riparazione con resina composita. Solo in casi limitati di
chipping maggiori o in zona estetica, i restauri richiedono una sostituzione completa.
Anche in caso di chipping della ceramica di rivestimento, l’esposizione del core in zirconia appare una evenienza piuttosto infrequente e comunque non verificabile clinicamente ad occhio nudo. Benché i siti dove si
verifica più frequentemente siano i secondi molari ed
i connettori mandibolari posteriori, a causa della concentrazione di forze masticatorie più intense, il chipping può essere evidenziato anche in aree non sottoposte a carico.
Le cause del chipping sono riconducibili per lo più alle
caratteristiche della ceramica di rivestimento, benchè
altri fattori correlati siano la geometria protesica, il rapporto tra spessore del core e della ceramica di rivestimento e l’architettura della struttura. Una geometria
non ben progettata del core può non fornire un supporto adeguato ed uniforme alla ceramica di rivestimento, divenendo un fattore causale del chipping. Così
come nei restauri in metallo-ceramica, il core dei ponti
in zirconia dovrebbe essere modellato anatomicamente, in modo da assicurare un supporto per la ceramica
di rivestimento ottimale, sfruttando le capacità di resistenza ai carichi compressivi e limitando i più dannosi
stress di tensione. Pertanto, la geometria delle strutture in zirconia dovrebbe essere funzionale alle esigenze
di stratificazione del laboratorio odontotecnico e non
dovrebbe essere progettata secondo l’ormai superato
concetto di spessore uniforme della zirconia.
Come riportato in precedenza, i minus ed i danni di
superficie possono rappresentare un punto di innesco
per le fratture. Recenti studi frattografici hanno dimostrato che il chipping della ceramica può avere origine
dalla ruvidità occlusale, possibile conseguenza dell’incorporazione di bolle d’aria durante la stratificazione
della ceramica di rivestimento o di danni causati da
rifiniture occlusali. Talvolta possono verificarsi anche
delaminazioni spontanee della ceramica, causate dal
fallimento dell’interfaccia adesiva tra core in zirconia
e ceramica di rivestimento; tuttavia, tali complicanze
possono essere evidenziate soltanto mediante esami
microscopici. Ciò nonostante, la maggior parte degli
autori è scettica rispetto a tale possibilità, dal momento
che la forza di legame tra la zirconia e le ceramiche di
rivestimento dedicate è maggiore rispetto alla forza coesiva delle ceramiche stesse.
La formazione di cricche nel contesto della ceramica di
rivestimento è un fenomeno multifattoriale a cui possono concorrere differenze nel CET tra core e ceramica,
contrazione della ceramica a seguito della cottura, aree
di porosità, difetti del rivestimento, scarsa bagnabilità
della ceramica sul core, supporto inadeguato delle armature, sovraccarico e fatica. Benchè la natura del legame tra zirconia e ceramica non sia stata ancora completamente chiarita e i parametri di compatibilità non
siano ancora stati caratterizzati definitivamente, il CET
sembra giocare un ruolo cruciale nel fenomeno del
chipping. Sono oggi disponibili ceramiche da rivestimento dedicate per la zirconia con CET compatibili con
quelli del core in ceramica integrale, al fine di ridurre le
complicanze meccaniche. In accordo con un principio
che è stato ampiamente applicato in protesi tradizionale nella produzione di restauri in metallo-cermica, una
piccola, controllata discrepanza tra il CET della zirconia
e quello della ceramica di rivestimento è un parametro
necessario per la buona riuscita del restauro; il CET della ceramica estetica, infatti, deve risultare leggermente
inferiore a quello del core, in modo che la ceramica si
contragga sviluppando una lieve forza compressiva che
riduce il rischio di sviluppo di cricche ed incrementa la
forza di legame all’armatura. Allo stesso tempo, lo sviluppo di eventuali stress residui deve essere controllato, al fine di prevenire l’insorgenza di forze di tensione
sfavorevoli e limitare i rischi di chipping della ceramica;
ciò viene ottenuto riducendo il gradiente di raffreddamento dopo l’ultima cottura e glasatura della ceramica.
Presumibilmente, altri fattori possono essere coinvolti
nella genesi del chipping, benchè non tutti siano stati
ancora sufficientemente analizzati: stress di tensione
concentrati all’interfaccia tra zirconia e ceramica, processi chimici (la dissoluzione dei materiali refrattari
come la zirconia indotta dai vetri di silicato contenuti
nelle ceramiche di rivestimento), trasformazioni di fase
della superficie (legati all’impoverimento di ossidi stabilizzatori determinato dall’usura funzionale o da riparazioni della ceramica). Questi ed altri possibili fattori
concomitanti necessitano di ulteriori studi al fine di
comprenderne appieno la natura, l’impatto clinico e la
possibilità di prevenire i chipping della ceramica su corone e ponti in zirconia.
La perdita di ritenzione dei restauri è stata descritta
come una possibile complicanza indipendentemente
dal tipo di cemento, in particolare in presenza di ponti
in zirconia; ciò nonostante, in tutte le sperimentazioni
cliniche in cui si è verificata la decementazione di un restauro in zirconia, la complicanza è stata risolta semplicemente ricementando il manufatto. Il rischio stimato
per anno di perdita di ritenzione per le protesi in ceramica integrale è stato riportato intorno allo 0,47%. Al
contrario, fratture non riparabili causate da decementazione sono state osservate solo in alcuni ponti ritenuti
da inlays cementati con cementi resinosi.
Nessuna delle sperimentazioni cliniche citate prende in
considerazione il bruxismo, giacchè questa parafunzione rientra spesso tra i criteri di esclusione degli studi
controllati; di conseguenza, dl momento che non sono
state ad oggi analizzate in alcuno studio, le parafunzioni
dovrebbero essere considerate come una controindicazione relativa per i restauri in zirconia.
Sebbene sia stato dimostrato che, tra i materiali restaurativi privi di metallo, la zirconia mostri le più valide proprietà meccaniche, dal punto di vista clinico, i ponti in
zirconia a lunga travata rimangono ad oggi non validati
scientificamente: 5 unità rappresentano l’estensione
massima per una buona predicibilità nel medio termine. Riguardo alle protesi più estese, saranno necessari
ulteriori studi con periodi di osservazione più lunghi al
fine di ricavare solide linee guida, benchè alcune aziende produttrici suggeriscano e supportino la tecnologia
per la realizzazione di restauri full-arch.
Va sottolineato che solo un numero limitato di sperimentazioni cliniche hanno analizzato l’influenza delle
estensioni protesiche (cantilever) sulla predicibilità
clinica dei ponti in zirconia. Benchè non sia stato individuato un nesso di causalità diretta tra le presenza
dei cantilevers ed un aumentato rischio di fallimento
protesico, come per la protesi tradizionale i cantilevers
in zirconia andrebbero evitati, in particolare nei settori
distali.
Sulla base dei risultati di test in vitro a fatica con termociclaggio, la Y-TZP ha presentato un’aspettativa di
longevità paragonabile a quella delle protesi in metalloceramica, con una buona predicibilità di funzione fino
a 20 anni. Ciò nonostante, i fenomeni del chipping e
dell’invecchiamento sembrano avere effetti più deleteri sulla zirconia rispetto ai restauri in metallo-ceramica.
Pertanto, ulteriori studi clinici con periodi di osservazione prolungati saranno necessari per valutare in
modo esauriente il comportamento clinico e l’affidabilità della zirconia nel lungo termine.
Come ultima nota, bisogna tenere in considerazione
che, negli ultimi anni, c’è stato un interesse crescente
nei confronti della zirconia per la realizzazione di riabilitazioni a supporto implantare. La maggior parte delle
aziende implantari fornisce abutments in zirconia CADCAM. Ad oggi, i pochi lavori pubblicati in letteratura
mostrano risultati promettenti e risposte favorevoli dei
tessuti duri e molli dopo 4 anni di osservazione. Non
è stata descritta alcuna frattura degli abutments mentre sono stati evidenziati alcuni svitamenti. Sono stati
riportati tassi di sopravvivenza del 100% per abutments
singoli in zirconia su impianti dopo un follow-up di 3
anni. Tuttavia, come stabilito in una recente consen-
maniera controllata le indicazioni ed i limiti di utilizzo
degli abutments in zirconia. Analogamente, le evidenze scientifiche attualmente disponibili non sono sufficienti a stabilire la validità a lungo termine dei restauri
CAD-CAM in ceramica integrale a supporto implantare,
in particolare per tipologie quali ponti a lunga travata e
restauri full-arch (figg. 72-74).
APPROFONDIMENTO
FIG. 72 Restauro di tipo full-arch in zirconia: visione preoperatoria di edentulia
completa mandibolare trattata con impianti osteointegrati.
FIG. 73 Restauro di tipo full-arch in zirconia: prova intraorale della struttura
full-arch in zirconia.
FIG. 74 Restauro di tipo full-arch in zirconia: visione postoperatoria di
edentulia completa mandibolare riabilitata con restauro a supporto implantare di
tipo full-arch in zirconia-ceramica.
sus conference, il periodo medio di osservazione clinica per gli abutments in ceramica è di 3,7 anni mentre
per i monconi implantari in metallo è di 4,8 anni; ad
oggi, pertanto, i dati non sono sufficienti per definire in
CAD-CAM
Con il termine CAD-CAM ci si riferisce all’impiego congiunto e integrato di sistemi software per la progettazione
(Computer-Aided Design, CAD) e fabbricazione assistita
dal computer (Computer-Aided Manufacturing, CAM). Il
sistema è composto da due apparecchi: il CAD, la cui
parte principale è costituita dallo scanner, che esegue la
lettura delle forme per mezzo di un sensore tattile, ottico o laser, e il CAM, che riceve le informazioni elaborate
dal programma 3D del CAD, sulla base delle quali muove il suo sistema di fresatura seguendo il percorso atto a
produrre la struttura progettata. In odontotecnica la tecnologia CAD-CAM permette, attraverso uno scanner 3D
la lettura del modello di un moncone naturale ricavato
dall’impronta fornita dall’ Odontoiatra (del dente preparato) o di Abutment (moncone/i implantare) realizzati in
titanio (generalmente) oppure in acciaio chirurgico, oro,
o in casi con problematiche estetiche (settori anteriori)
con allumina o con i nuovi materiali quali lo Zirconio (ossido di zirconio rinforzato con Ittrio). Effettuata la lettura,
attraverso il software del computer vengono elaborati i
dati ed inviati alla macchina utensile CAM che estrude dal
pieno la cappetta o il ponte del materiale scelto per la ricostruzione protesica. Terminate le lavorazioni CAD-CAM
si procede alla consegna della struttura allo studio clinico
per la prova sul paziente cui segue la presa del colore (fotografia digitale) e viene tutto rimandato nel laboratorio
odontotecnico per il completamento con la ceramica. I limiti di un sistema CAM sono legati al fatto che le strutture
si ottengono per mezzo di strumenti rotanti, la cui forma
e dimensione risultano determinanti. La preparazione dei
monconi da parte del clinico deve adattarsi a tali limiti,
eliminando gli spigoli vivi e prediligendo i chamfer lunghi
rispetto a quelli profondi, che risulterebbero più difficili
da fresarsi e, in alcune situazioni, da leggersi.
Slip casting
Lo slip casting è una tecnica di formatura di materiali ceramici risalente al XVIII Secolo. Questa tecnica ha un’importanza strategica soprattutto nella lavorazione dei ceramici
tradizionali (sanitari, bomboniere…). È una metodologia
semplice ed economica di formatura di ceramici avanzati di forma complessa. Si tratta di un processo di formatura per colaggio di una sospensione ceramica, consiste
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SLIP
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FILTER
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PLASTER
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FIG. 75 Slip casting.
nel riempire uno stampo poroso, tipicamente in gesso,
con uno sospensione (slip o slurry) ceramica, successivamente il materiale consolida, si ritira e si distacca dallo
stampo. L’acqua è rimossa dalla sospensione attraverso
l’azione capillare esercitata dallo stampo poroso, le particelle ceramiche restano così compattate sulla superficie
dello stampo formando un oggetto solido (fig. 75). Qualora si volesse realizzare un oggetto pieno è necessario
rabboccare lo slip nello stampo, man mano che l’acqua è
drenata, fino ad ottenere il completo riempimento dello
stesso con un materiale che è risulterà solido e completamente pieno.
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CAPITOLO 11
MATERIALI
PER LA TERAPIA
IMPLANTARE
stabilità primaria
stabilità totale
11.5
Elettrosaldatura endorale
L’“elettrosaldatura” endorale è una sistematica che consente di solidalizzare a fini protesici, attraverso la saldatura con un “filo” o “barra” di titanio, impianti endossei sia
di tipo monofasico (unico corpo) sia bifasici (che necessitano di un moncone o abutment) (figg. 11-14).
Detto sistema permette l’applicazione, laddove esistano le condizioni ossee necessarie, di una protesi fissa
provvisoria, nella stessa seduta chirurgica e il mantenimento nel tempo della stabilità implantare. Il beneficio
che ne consegue, per il paziente, è una buona estetica
e una funzione masticatoria sin dalle prime ore dall’intervento.
La saldatura si ottiene utilizzando un’apparecchiatura di
ultima generazione considerata evoluzione della saldatrice endorale messa a punto dal professor Mondani già
negli anni ‘70.
FIG. 11 Questo diagramma
stabilità secondaria
stabilità con splint elettrosaldato
mostra la stabilità implantare nelle
settimane seguenti l’inserzione
dell’impianto. Tra la seconda e
la terza settimana gli impianti
singoli sono caratterizzati dalla
diminuzione della stabilità primaria
e l’incremento di quella secondaria.
La presenza di uno splint
elettrosaldato, consente, invece, di
ottenere una stabilità implantare
costante per tutta la fase di
guarigione.
stabilità (percentuale)
100
75
50
25
0
0
1
2
3
4
5
tempo (settimane)
6
7
8
FIG. 13 Saldatura endorale della barra sugli abutment.
FIG. 12 Elettrosaldatura del filo all’abutment.
FIG. 14 Abutment solidalizzati.
FIG. 16 Solidalizzazione dei monconi da impronta.
FIG. 15 Provvisorio, confezionato sugli abutment solidalizzati e applicato
nella stessa giornata.
FIG. 17 Impronta a “cucchiaio aperto”.
Si tratta di una saldatrice costituita da un corpo macchina, da un pedale di comando del circuito elettrico e da
una pinza da saldatura.
Il processo di saldatura è di tipo elettrico e di tipo autogeno. Il titanio viene sincristallizzato, “fuso”, nel punto
di contatto tra la barra e l’impianto (sistema monofase)
ovvero tra la barra e l’abutment (sistema bifasico).
L’energia contenuta nei condensatori viene trasferita
sugli elettrodi della pinza, che blocca a contatto le superfici dei due elementi da saldare. La corrente elettrica di grande intensità in un periodo di tempo di 3-4
millisecondi, scalda il metallo sino al punto di fusione,
realizzando il giunto saldato. Questa fase avviene sotto
abbondante irrigazione con spray di acqua (fig. 15).
Nel punto di saldatura, pur essendo la temperatura
circa di 1600 °C, non vi è trasmissione termica, sia per
scarsa conducibilità da parte del metallo saldato, sia
perché il calore viene dissipato dal rame della pinza.
L’assoluta affidabilità del sistema suggerisce altre forme di utilizzo, quali il rilievo di impronte su impianti, di
massima precisione e stabilità dimensionale (a cucchiaio aperto) (figg. 16 e 17) o per solidarizzare due o più
impianti che non hanno stabilità primaria sufficiente
per il carico protesico, attraverso le sole viti di guarigione (figg. 18).
FIG. 18 Solidalizzazione di tre impianti sulle viti di “guarigione”.
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CAPITOLO 15
NUOVE
TECNOLOGIE
FIG. 21 Esempio di dispositivo ultrasonico.
15.4 Scaler sonici ed ultrasonici
Gli ablatori sonici ed ultrasonici sono dei dispositivi
versatili per le procedure di igiene orale professionale.
A seconda delle diverse esigenze cliniche è infatti possibile scegliere tra diversi tipi di puntali (figg. 21-23),
che si avvitano facilmente sul manipolo (fig. 24). La loro
azione si esplica attraverso la produzione di microvibrazioni che urtano e rimuovono il tartaro sotto l’azione
refrigerante dell’acqua.
Gli ablatori sonici sono turbine ad aria che operano
a basse frequenze (2-6 kHz) con range compreso tra
3.000 ed 8.000 cicli al secondo (Cps). Il movimento che
si crea è solitamente orbitale e gli effetti sulle radici
dentali variano in base al puntale utilizzato. Questi ablatori emettono un rumore ad alta intensità causato dal
rilascio di aria a pressione necessaria per il movimento
della punta.
Gli ablatori ad ultrasuoni si basano su generatori che
convertono l’energia elettrica in onde ultrasoniche attraverso il fenomeno piezoelettrico o la magnetostrizione. Operano a frequenze comprese tra 25 e 42 kHz.
Esistono differenze nella rimozione del tartaro dai denti
negli ablatori sonici ed ultrasonici.
Gli scaler ultrasonici, infatti, rimuovono i depositi attraverso tre meccanismi:
› azione oscillante della punta;
› effetto cavitazionale: gli ultrasuoni determinano
all’interno del liquido di irrigazione la formazione di
bollicine d’aria caratterizzate da una violenta oscillazione; esse in seguito vanno incontro ad una successiva implosione, generando un’onda d’urto ad alta
energia;
› microonde acustiche: agiscono principalmente vicino alla punta dello scaler.
Esistono due tipi di ablatori ultrasonici:
› magnetostrittivi;
› piezoelettrici.
Le unità magnetostrittive operano tra 18000 e 45000
FIG. 22 Puntali ultrasonici con la relativa chiave di fissaggio.
FIG. 23 Diversi tipi di puntali ultrasonici.
FIG. 24 Puntale ultrasonico montato sull’apposito manipolo.
Cps quando è applicata una corrente elettrica ad un
cavo arrotolato all’interno del manipolo e si crea un
campo magnetico intorno ad un trasduttore a barra,
determinandone la sua costrizione. Una corrente alternata causa un campo magnetico alternato, provocando
la vibrazione della punta con un movimento ellittico.
Le unità piezoelettriche operano in un range compreso tra 25000 e 50000 Cps e si basano sulle variazioni
dimensionali di cristalli alloggiati nel manipolo, determinate dal passaggio di energia elettrica. La vibrazione
risultante è principalmente di tipo lineare.
15.4.1 Considerazioni cliniche
Lo scaler ad ultrasuoni è uno strumento fondamentale
nel campo della parodontologia, ma sono necessarie
delle considerazioni da seguire nell’utilizzo:
› per eliminare i problemi da surriscaldamento bisogna utilizzare lo strumento con movimenti rapidi ed
associare sempre irrigazione uguale o superiore a 20
ml/min;
› non utilizzare lo strumento con la punta perpendicolare alle superfici dentarie per evitare di danneggiarne la struttura;
› la cavitazione può danneggiare le piastrine e potenzialmente può determinare la morte della polpa, nonostante in vivo non vi siano rischi significativi;
› l’azione prolungata di un ablatore ad ultrasuoni potrebbe alterare, secondo alcuni studi ancora in corso,
l’apporto ematico e nervoso delle dita dell’operatore;
› l’operatore dovrebbe indossare mascherine e camici
protettivi per ridurre il rischio di contaminazione da
parte dell’aerosol che si produce durante l’utilizzo di
ultrasuoni;
› il rumore prodotto durante l’utilizzo potrebbe determinare temporanee alterazioni dell’udito sia nell’operatore che nel paziente;
› come tutti i dispositivi elettrici (per esempio localizzatore apicale, test di vitalità elettrico ecc.), anche
gli scaler ad ultrasuoni potrebbero interferire con
il funzionamento dei pacemaker; in particolare l’utilizzo di ultrasuoni magnetostrittivi dovrebbe essere
evitata in questi pazienti.
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CAPITOLO 23
ASPETTI
GIURIDICI
›
›
23.6 Normativa e radioprotezione
in odontoiatria
Gli obblighi di radioprotezione (sorveglianza fisica e
controllo di qualità) che derivano dalla detenzione ed
uso di apparecchiature radiologiche negli studi odontoiatrici, in quanto sorgenti di radiazioni ionizzanti ,sono
stati precisati nel D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230 e successivamente nel D.Lgs 187/2000 nella parte relativa alla
radioprotezione dei pazienti.
Il primo gennaio 2001 lo stesso decreto è diventato
operativo, relativamente alla protezione dei pazienti,
alle dosi somministrate, alla garanzia di qualità, e ai
controlli dei relativi apparecchi RX,unitamente al D.Lgs
187/2000 sulla protezione sanitaria della popolazione e
dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni
ionizzanti.
Applicazioni
›
›
›
›
Esposizione di soggetti per diagnostica o trattamento medico
Esposizione di soggetti nell’ambito della sorvegliana
sanitaria professionale o di programmi di screening
sanitario
Esposizione per partecipazione volontaria a programmi di ricerca medica o biomedica,in campo diagnostico o terapeutico o in ambito medico-legale
Esposizione di soggetti che volontariamente e coscientemente, al di fuori della loro occupazione, assistono e confortano persone sottoposte a esposizioni
mediche.
Attori
›
›
›
Paziente
Esercente (chi ha la responsabilità dell’impresa)
Esperto in Fisica Medica (esperto nella fisica e nella
tecnologia delle radiazioni, agisce e consiglia sulla
dosimetria ,sull’impiego e ottimizzazione delle tecniche, sulla garanzia di qualità)
Responsabile dell’impianto radiologico (medico specialista in Radiodiagnostica, Radioterapia o Medicina Nucleare). L’Odontoiatra può essere individuato
come responsabile se egli è l’Esercente dell’impianto
Specialista (odontoiatra)
Note per lo Specialista
› Le esposizioni alle radiazioni ionizzanti debbono essere mantenute al livello più basso ragionevolmente
ottenibile, in relazione alle esigenze diagnostiche ed
ai vantaggi terapeutici che ne possono derivare per il
paziente esposto.
› Particolare cautela va riservata nei casi in cui gli accertamenti radiologici riguardano donne fertili e pazienti pediatrici
› È vietato in particolare l’impiego di radiazioni ionizzanti a scopo diagnostico che comporti l’esposizione
dell’embrione o del feto nelle donne in stato di gravidanza dichiarata
Responsabilità dello Specialista
› Obbligo di una accurata anamnesi allo scopo di conoscere un eventuale stato di gravidanza nelle donne
› Scelta delle metodologie e delle tecniche più idonee
ad ottenere il maggior beneficio clinico con il minor
rischio individuale per sé e per il paziente
› Valutazione di tecniche sostitutive non basate su radiazioni ionizzanti
› Ricerca di informazioni diagnostiche e documentazione pregressa onde evitare esposizioni non necessarie
Articolo 61 D.Lgs. 230/1995
Obblighi dei datori di lavoro, dirigenti e preposti
1. I datori di lavoro ed i dirigenti che rispettivamente eserciscono e dirigono le attività disciplinate dal
presente decreto ed i preposti che vi sovraintendono devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni
e competenze, attuare le cautele di protezione e di
sicurezza previste dal presente capo e dai provvedimenti emanati in applicazione di esso.
2. I datori di lavoro, prima dell’inizio delle attività di cui
al comma 1, debbono acquisire da un esperto qualificato di cui all’articolo 77 una relazione scritta contenente le valutazioni e le indicazioni di radioprotezione inerenti alle attività stesse. A tal fine i datori
di lavoro forniscono all’esperto qualificato i dati, gli
elementi e le informazioni necessarie. La relazione
costituisce il documento di cui all’articolo 4, comma
2, del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626,
per gli aspetti concernenti i rischi da radiazioni ionizzanti.
3. Sulla base delle indicazioni della relazione di cui al
comma 2, e successivamente di quelle di cui all’articolo 80, i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti
devono in particolare:
a) provvedere affinché gli ambienti di lavoro in cui
sussista un rischio da radiazioni vengano, nel rispetto delle disposizioni contenute nel decreto di
cui all’articolo 82, individuati, delimitati,segnalati,
classificati in zone e che l’accesso ad essi sia adeguatamente regolamentato.
b) provvedere affinché i lavoratori interessati siano
classificati ai fini della radioprotezione nel rispetto delle disposizioni contenute nel decreto di cui
all’articolo 82.
c) predisporre norme interne di protezione e sicurezza adeguate al rischio di radiazioni e curare che
copia di dette norme sia consultabile nei luoghi
frequentati dai lavoratori, ed in particolare nelle
zone controllate;
d) fornire ai lavoratori, ove necessari, i mezzi di sorveglianza dosimetrica e di protezione, in relazione
ai rischi cui sono esposti;
e) rendere edotti i lavoratori, nell’ambito di un programma di formazione finalizzato allar adioprotezione, in relazione alle mansioni cui essi sono
addetti, dei rischi specifici cui sono esposti, delle
norme di protezione sanitaria, delle conseguenze
derivanti dalla mancata osservanza delle prescrizioni mediche, delle modalità di esecuzione del
lavoro e delle norme interne di cui alla lettera c);
f) provvedere affinché i singoli lavoratori osservino
le norme interne di cui alla lettera c), usino i mezzi di cui alla lettera d) ed osservino le modalità di
esecuzione del lavoro di cui alla lettera e);
g) provvedere affinché siano apposte segnalazioni
che indichino il tipo di zona, la natura delle sorgenti ed i relativi tipi di rischio e siano indicate,
mediante appositi contrassegni, le sorgenti di radiazioni ionizzanti, fatta eccezione per quelle non
sigillate in corso di manipolazione;
h) fornire al lavoratore esposto i risultati delle valutazioni di dose effettuate dall’esperto qualificato,
che lo riguardino direttamente, nonché assicurare
l’accesso alla documentazione di sorveglianza fisica di cui all’articolo 81 concernente il lavoratore
stesso.
Articolo 68, D.Lgs. 230/1995
Obblighi dei lavoratori
1. I lavoratori devono:
a) osservare le disposizioni impartite dal datore di
lavoro o dai suoi incaricati, ai fini della protezione
individuale e collettiva e della sicurezza, a seconda
delle mansioni alle quali sono addetti;
b) usare secondo le specifiche istruzioni i dispositivi
di sicurezza, i mezzi di protezione e di sorveglianza dosimetrica predisposti o forniti dal datore di
lavoro;
c) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al
dirigente o al preposto le deficienze dei dispositivi e dei mezzi di sicurezza, di protezione e di sorveglianza dosimetrica, nonché le eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza;
d) non rimuovere né modificare, senza averne ottenuto l’autorizzazione, i dispositivi, e gli altri mezzi
di sicurezza, di segnalazione, di protezione e di
misurazione;
e) non compiere, di propria iniziativa, operazioni o
manovre che non sono di loro competenza o che
possono compromettere la protezione e la sicurezza;
f) sottoporsi alla sorveglianza medica ai sensi del
presente decreto.
2. I lavoratori che svolgono, per più datori di lavoro,
attività che li espongano al rischio da radiazioni ionizzanti, devono rendere edotto ciascun datore di
lavoro delle attività svolte presso gli altri, ai fini di
quanto previsto al precedente articolo 66. Analoga
dichiarazione deve essere resa per eventuali attività
pregresse. I lavoratori esterni sono tenuti ad esibire
il libretto personale di radioprotezione all’esercente
le zone controllate prima di effettuare le prestazioni
per le quali sono stati chiamati.
Articolo 69, D.Lgs. 230/1995
Disposizioni particolari per le lavoratrici
1. Ferma restando l’applicazione delle norme speciali
concernenti la tutela delle lavoratrici madri, le donne
gestanti non possono svolgere attività in zone classificate o, comunque,attività che potrebbero esporre
il nascituro ad una dose che ecceda 1 mSv durante il
periodo della gravidanza.
2. È fatto obbligo alle lavoratrici di notificare al datore
di lavoro il proprio stato di gestazione, non appena
accertato.
3. È altresì vietato adibire le donne che allattano ad attività comportanti un rischio di contaminazione.
Estratto dal D.Lgs 26 maggio 2000 n. 187
1. Soggetti, funzioni e responsabilità
Il D. Lgs. 187/2000 individua i seguenti soggetti cui
attribuisce responsabilità e compiti:
- l’esercente;
- il responsabile dell’impianto radiologico;
- lo specialista;
- il prescrivente;
- l’esperto in fisica medica;
- il tecnico sanitario dì radiologia medica;
- l’esperto qualificato.
Tali figure sono in larga parte sovrapponibili a quelle già
individuate dalla precedente normativa; le novità principali riguardano:
1. la figura del medico specialista, che viene definita
all’art. 2, comma 2, lettera f, ed è riferita al medico
chirurgo o all’odontoiatra che ha titolo per assumere
la responsabilità clinica per le esposizioni mediche
individuali. Pertanto sono specialisti il radiologo, il
radioterapista, il medico nucleare, il medico chirurgo, in possesso di una specifica specializzazione, che
svolge attività radiodiagnostica complementare all’esercizio clinico e,come già detto, l’odontoiatra; l’art.
7, commi 3 e 4, indica i requisiti di formazione neces-
sari;
2. la figura dell’esperto in fisica medica, che sostituisce
quella del “fisico specialista” e viene definita all’art. 2,
comma 1, lettera i; l’art. 7, comma 5, indica le professionalità che, oltre al laureato in fisica in possesso di
specializzazione in Fisica Sanitaria, possono svolgere
le attività di competenza dell’esperto in fisica medica.
Le principali novità e le funzioni identificate c/o modificate con il D. Lgs. 187/2000, rispetto al regime
precedente, sono le seguenti:
a) viene maggiormente specificata l’applicazione alla
tutela del paziente dei principi fondamentali della
radioprotezione (giustificazione e ottimizzazione)
e si introducono:
- le procedure da seguire e i vincoli di dose per
coloro che assistono e confortano persone sottoposte ad esposizioni mediche (cfr. allegato I);
- i livelli diagnostici di riferimento (LDR) al fine
dì ottimizzare l’esecuzione degli esami radiodiagnostici (cfr. allegato II);
- le procedure di giustificazione ed ottimizzazione delle attività di ricerca scientifica comportante esposizioni a radiazioni ionizzanti (cfr.
allegato III);
b) la responsabilità relativa alla protezione del paziente nelle indagini diagnostiche e nelle prestazioni terapeutiche è posta in capo al medico, nella
veste di responsabile dell’impianto radiologico, di
specialista e, limitatamente alla applicazione del
principio di giustificazione, di prescrivente;
c) la formazione in materia di radioprotezione del
paziente viene ricondotta nell’ambito della formazione continua di cui al D. Lgs. 502/92 e successive
modifiche e integrazioni, e viene estesa, oltre che
ai medici, a tutto il personale che opera in ambiti
professionali direttamente connessi all’esposizione medica (art. 7, comma 8), che appare identificabile in:
- esperti in fisica medica (art. 7, comma 5);
- tecnici sanitari di radiologia medica ed infermieri (art. 5, comma 3);
- esperti qualificati (art. 7, comma 13).
Si rammenta che il D. Lgs. 229/1999 (recante modifiche al D. Lgs. 502/92) prevede all’art. 16-quater
che la partecipazione alla attività di formazione
continua costituisca requisito indispensabile per
svolgere attività professionale, in qualità di dipendente o libero professionista, per conto delle
aziende ospedaliere, delle università, delle unità
sanitarie locali e delle strutture sanitarie private.
In attesa di specifiche direttive regionali in attuazione dell’art. 7 comma 10 il personale sopraddetto è invitato a partecipare a specifiche azioni
formative promosse e realizzate in materia;
d) il controllo di qualità sulle apparecchiature radiologiche previsto dalla normativa precedente
viene sostituito dal programma di garanzia della qualità (art. 8, comma 2), di cui il controllo di
qualità è solo un aspetto, e ciò anche ai fini della
verifica della rispondenza a criteri di accettabilità
delle attrezzature e dei sistemi comunque correlati all’erogazione della prestazione diagnostica
o terapeutica. Quanto sopra è compito assegnato al responsabile dell’impianto radiologico, che
si avvale allo scopo delle competenze specifiche
dell’esperto in fisica medica e, per l’effettuazione
dei controlli di qualità, dello stesso esperto in fisica medica oppure, se espressamente incaricato
di ciò, del tecnico sanitario di radiologia medica o
dell’esperto qualificato;
e) nell’allegato V sono contenuti i criteri specifici di
accettabilità delle attrezzature radiologiche, l’adeguamento delle attrezzature a tali criteri è compito assegnato al responsabile dell’impianto radiologico e all’esercente (art. 8, comma 5);
f) viene introdotto il divieto di effettuare esami fluoroscopici senza dispositivo di controllo automatico del rateo di dose (AEC - Automatic Exposure
Control) se non limitatamente a casi giustificati
da esigenze diagnostiche e/o terapeutiche (art. 8,
comma 7). In base al combinato disposto dell’art.
3, commi 1 e 2, e dell’art. 4, comma 1, viene confermato il divieto di utilizzo di apparecchi per
schermografia per esami radiologici del torace,
in quanto non rispondente al principio di giustificazione: infatti l’esposizione ottimizzata, in tale
procedura diagnostica, può essere ottenuta utilizzando attrezzature e procedure che comportano
minor dose nell’effettuazione dell’esame radiologico del torace;
g) nell’allegato VI sono fornite alcune raccomandazioni al fine di raggiungere una particolare protezione nell’effettuazione di interventi diagnostici o
terapeutici durante la gravidanza e l’allattamento;
h) si sancisce l’obbligo di registrare singolarmente le
indagini e i trattamenti con radiazioni ionizzanti,
attribuendolo al responsabile dell’impianto radiologico ed all’esercente; ciò assume rilievo anche
ai fini della valutazione delle dosi alla popolazione
che viene posta in carico alle Regioni (art. 12).
Nei paragrafi che seguono si evidenziano alcune specifiche responsabilità per i soggetti definiti dalla normativa in esame nonché i nuovi adempimenti introdotti.
23.6.1 Esercente e responsabile dell’impianto
radiologico
Compete innanzitutto all’esercente l’identificazione del
responsabile dell’impianto radiologico (art. 5, comma
5), che deve essere per ogni impianto uno specialista in
radiodiagnostica o in radioterapia o in medicina nucleare, e può essere lo stesso esercente qualora questo sia
abilitato a svolgere direttamente l’indagine clinica (art.
2, comma 2, lettera b).
Nel caso delle strutture dei Servizio Sanitario Regionale
(S.S.R.) è opportuno che il Direttore Generale incarichi
con proprio atto il responsabile dell’impianto radiologico, individuabile diregola nel Direttore della Unità Operativa presso la quale sono impiegate le attrezzature radiologiche, Spetta all’esercente l’informazione rispetto
al potenziale pericolo per l’embrione o il feto irradiati
o per il lattante, nel caso di somministrazione di radiofarmaci alla madre, l’informazione deve esplicitamente
invitare la paziente a comunicare allo specialista lo stato
di gravidanza, certa o presunta, o l’eventuale situazione
di allattamento (art. 10, comma 5).
Compete all’esercente l’adozione degli interventi correttivi da intraprendere in caso di segnalazione di malfunzionamenti, da parte del responsabile dell’impianto
radiologico (art. 6 comma 5 - allegato II). Tali interventi
possono spaziare dall’effettuazione di interventi manutentivi, che correggano eventuali condizioni dì malfunzionamento, alla messa fuori uso dell’apparecchiatura.
Altra specifica responsabilità dell’esercente è quella di
tenere aggiornato l’inventario delle attrezzature radiologiche (art, 8, comma 1, lett. b).
È inoltre necessario che l’esercente dia disposizioni affinché nella formulazione dei capitolati di acquisto si
tenga conto del fatto che, ai sensi dell’art. 8, comma 8,
un’attrezzatura radiodiagnostica di nuova installazione
deve essere munita, quando fattibile, di un dispositivo
che informi lo specialista circa la quantità di radiazioni
ionizzanti prodotte dall’attrezzatura nel corso della procedura medico - radiologica. Si ritiene altresì necessario
che, ai fini della conformità delle attrezzature ai criteri di accettabilità, in tutti i capitolati di acquisto delle
attrezzature oggetto del decreto (accessori compresi)
venga inserito un esplicito riferimento relativo alla conformità con quanto indicato nell’allegato V Compete
all’esercente congiuntamente al responsabile dell’impianto radiologico provvedere affinché le indagini ed
i trattamenti con radiazioni ionizzanti vengano registrati singolarmente, anche in forma sintetica (art. 12,
comma 1); si segnala a tale proposito che l’obbligo di
registrazione non riguarda solo le procedure di radiodiagnostica specialistica, di radioterapia e di medicina
nucleare, per le quali tale registrazione normalmente
viene già effettuata, ma anche per le esposizioni dovute
all’esercizio di attività radiologiche complementari (chirurgiche, ortopediche, cardiologiche, odontoiatriche,
ecc.).
Compete al responsabile dell’impianto radiologico la
definizione di protocolli scritti di riferimento per ciascuna attrezzatura radiologica (art. 6 comma 2) in relazione a ciascun tipo di pratica radiologica standardizzata ai sensi dell’art. 6 comma 1.
Spetta al responsabile dell’impianto radiologico la definizione di programmi di garanzia della qualità con la
necessaria collaborazione dell’esperto in fisica medica.
Secondo le norme di buona tecnica requisito di qualunque programma di garanzia della qualità è la sua
documentabilità: è pertanto fondamentale che il responsabile dell’impianto radiologico, con la necessaria
collaborazione dell’esperto in fisica medica, allestisca
un manuale di qualità dell’Unità Operativa.
23.6.2 Prescrivente e specialista
Novità di particolare rilievo, come già accennato, è il
fatto che il medico prescrivente partecipi insieme allo
specialista al principio di giustificazione (art. 3,comma
5); va peraltro rilevato che le modalità con cui tale collaborazione si deve esplicare non risultano ancora definite, in attesa che il Ministero della Sanità adotti le linee
guida di cui all’art. 6, comma 1.
Attività di vigilanza
La nuova normativa conferma che la vigilanza in materia di protezione del paziente sottoposto ad esami e
trattamenti medici con l’impiego di radiazioni ionizzanti spetta in via esclusiva alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale (art. 13).
23.6.2.1 Procedura amministrativa
Il primo atto dell’odontoiatra che intenda utilizzare un
apparecchio radiologico (tubo radiogeno) in suo possesso è quello di incaricare un esperto qualificato della
sorveglianza fisica e del controllo di qualità (art. 77,
D.Lgs. 230/1995).
La nomina deve essere comunicata all’Ispettorato provinciale del lavoro competente per territorio, allegando
la dichiarazione di accettazione dell’incarico da parte dell’Esperto Qualificato ,che deve risultare iscritto
all’elenco nominativo istituito presso l’Ispettorato medico centrale del lavoro.
L’esperto qualificato, in base alle valutazioni relative
all’entità di rischio, fornisce quindi all’odontoiatra una
relazione scritta, contenente le valutazioni e le indicazioni di radioprotezione inerenti l’attività radiodiagnostica, specificando:
› il benestare sui progetti di installazione del radiografico;
› l’esito della prima verifica;
› l’individuazione e la classificazione delle zone ove
sussiste rischio di radiazioni;
› la classificazione dei lavoratori addetti (per l’attività
nello studio odontoiatrico saranno classificati come
“non esposti”);
› la frequenza delle valutazioni di sorveglianza fisica;
› tutti i provvedimenti di cui ritenga necessaria l’adozione, al fine di assicurare la sorveglianza fisica.
Sulla base di queste indicazioni, il titolare dello studio
odontoiatrico provvederà ai necessari adempimenti, e
in particolare egli dovrà:
› assicurare che gli ambienti in cui sussista un rischio
da radiazioni vengano individuati, delimitati, classificati e segnalati;
› verificare che la classificazione dei lavoratori (associati, collaboratori) non differisca da quella di lavoratori “non esposti”;
› predisporre norme interne di protezione e sicurezza
adeguate al rischio (di solito fornite dall’esperto stesso); curare che copia di dette norme sia consultabile
nei luoghi frequentati dai lavoratori, in particolare
nelle zone sorvegliate, e provvedere affinché vengano osservate;
› assicurarsi che siano indicate, mediante appositi
contrassegni, le sorgenti di radiazioni ionizzanti.
Questi adempimenti vengono solitamente predisposti
e attuati direttamente dagli esperti qualificati, a eccezione del controllo sull’osservanza delle norme interne da
parte dei lavoratori.
Poiché l’attività radiodiagnostica propria dell’odontoiatra consente di classificare i dipendenti come lavoratori non esposti (ovvero suscettibili di ricevere una
dose annuale inferiore ai limiti fissati per le persone del
pubblico), l’odontoiatra è dispensato dalla sorveglianza
medica e dosimetrica sui dipendenti. La dose ricevuta
dagli operatori può essere valutata sulla scorta dei risultati della sorveglianza ambientale.
Altri adempimento cui è obbligato il possessore del
tubo radiogeno sono:
› comunicare alla Azienda USL competente per territorio4 la detenzione dell’apparecchio radiografico,
indicando il tipo di apparecchiatura posseduta e le
finalità della detenzione (attività radiodiagnostica
complementare all’esercizio clinico dell’odontoiatria);
› pagare il premio assicurativo INAIL facendo apposita denuncia all’ufficio competente per territorio
entro 30 giorni dall’inizio dell’esercizio(art.2, DPR
n.1055/1960), al fine di assicurarne la copertura assicurativa obbligatoria (art.5, Legge n.93/1958). (NB:
va comunicata anche e la sua eventuale dismissione).
Nella lettera devono essere riportati: data collaudo generatore (installazione apparecchio) e numero matricola (N. unico identificativo apparecchio) oltre alla marca
e modello.
La documentazione, tenuta a cura dell’esperto qualificato incaricato per conto dell’odontoiatra, deve essere
così conservata:
› per almeno 5 anni dalla data di compilazione i verbali di verifica periodica, con le valutazioni delle zone
sorvegliate e della dose ricevuta dai lavoratori (non
esposti) in essi contenute;
› sino a 5 anni dalla cessazione dall’attività radiodiagnostica la relazione relativa all’entità di rischio e
all’esame preventivo dei progetti (relazione iniziale)
e delle eventuali modifiche di installazione.
In caso di cessazione definitiva dall’attività professionale, i documenti predetti devono essere consegnati entro 6 mesi all’Ispettorato provinciale del lavoro competente per territorio che ne assicurerà la conservazione.
NB: Tutti gli oneri economici derivanti dalla sorveglianza fisica della radioprotezione, recita la legge,
sono a carico dell’odontoiatra.
La vigilanza sull’applicazione delle disposizioni che disciplinano l’uso delle radiazioni ionizzanti in campo medico è di competenza esclusiva degli organi del servizio
sanitario nazionale competenti per territorio (ASL). Il
controllo di qualità deve essere effettuato per opera del
fisico sanitario o dell’esperto qualificato su specifico incarico scritto (contratto) del titolare dello studio.
Le prove idonee a verificare le prestazioni funzionali di
un ’apparecchiatura sono classificate in tre tipologie:
a) prova di accettazione e di collaudo: all’atto di installazione (nuovi radiografici) o dopo l’apporto di importanti modifiche;
b) prova di verifica o di stato: per verificare il livello di
funzionamento dell’apparecchiatura in rapporto alla
funzione che deve svolgere (apparecchi in uso);
c) prova di mantenimento o di costanza:per verificare
periodicamente il corretto funzionamento, attraverso singoli test (controlli periodici).
Il risultato delle prove di partenza servirà per valutare lo
stato di funzionamento e affidabilità dell’apparecchiatura, al fine di programmare i successivi controlli periodici e la loro cadenza.
Infatti, su questa base l’esperto qualificato predispone
un protocollo per il tipo di apparecchiatura posseduta
dall’odontoiatra che preveda quali parametri verificare,
le procedure e la periodicità dei controlli (con cadenza
perlomeno annuale/biennale).
Dell’esito del controllo verrà, di volta in volta, redatto
apposito verbale (da archiviare).
23.6.2.2 Elenco degli obblighi relativi
all’applicazione dei Decreti Legislativi
187/00 e 241/00
1) Comunicazione preventiva di pratiche: chiunque intende intraprendere una pratica (cioè un’attività che
può aumentare l’esposizione degli individui alle radiazioni ionizzanti) comportante la detenzione di apparecchi RX deve darne comunicazione 30 giorni prima dell’inizio della detenzione alle seguenti autorità:
- Comando Provinciale dei VV.FF.
- Organi del Servizio Sanitario Nazionale
- Direzione Provinciale del lavoro, se vi è personale
dipendente o equiparato
- Agenzia Regionale per l’Ambiente (ARPA).
La comunicazione deve contenere l’indicazione dei
mezzi di protezione posti in atto. In pratica,occorre
allegare ad essa la relazione preventiva che il datore di lavoro deve acquisire dall’E.Q. ai sensi dell’art.
61 del D.Lgs 230/95, e che costituisce anche il documento di cui all’art. 4, comma 8, del D.lgs. 626/94.
Essa sostituisce la Denuncia di detenzione dei nuovi
apparecchi RX, che doveva essere effettuata entro 10
giorni dalla data di entrata in possesso.
2) Il Registro delle valutazioni di radioprotezione, così
come le eventuali schede dosimetriche,non devono
più essere vidimati dalla Direzione Provinciale del
lavoro.
3) Sono introdotti: livelli diagnostici di riferimento
(LDR), da verificare ogni due anni a cura del Responsabile delle attrezzature, con lo scopo di ottimizzare
le prestazioni. I livelli diagnostici da usare come riferimento sono indicati nelle linee guide proposte
dall’allegato II al D.Lgs. 187/2000.
4) Sugli apparecchi radiologici devono essere presenti i
contrassegni (trifoglio nero su fondo giallo) indicanti
la sorgente di radiazioni ionizzanti.
5) Sul lato esterno di ciascuna delle porte di accesso ai
locali con gli apparecchi RX deve essere presente il
cartello di segnalazione con la classificazione di radioprotezione (trifoglio e scritta “Zona Sorvegliata”
o, più raramente, “Zona Controllata”).
6) Il Medico Responsabile delle apparecchiature radiologiche può essere lo stesso Dentista, a patto che ne
sia anche l’esercente e che sia abilitato a svolgere direttamente l’indagine clinica. In caso contrario, occorrerebbe incaricare un Medico Radiologo.
Vecchi e nuovi compiti del Responsabile
› Predisporre e provvedere a che siano intrapresi adeguati programmi di garanzia della qualità,compreso
il controllo della qualità, e di valutazione della dose
somministrata ai pazienti.
› Provvedere a che siano effettuate prove di accettazione prima dell’entrata in uso delle attrezzature radiologiche e, quindi, prove di funzionamento, sia ad
intervalli regolari che dopo ogni intervento importante di manutenzione.
› Predisporre, avvalendosi dell’incaricato dell’esecuzione dei controlli di qualità, il protocollo di esecuzione delle prove necessarie ad esprimere il giudizio
di idoneità.
› Esprimere il giudizio di idoneità all’uso clinico delle
attrezzature in base ai risultati delle prove e dei controlli effettuati.
› Procedere, alla verifica biennale dei livelli diagnostici
di riferimento (LDR) indicati per gli esami del cranio
nell’allegato II° al D.Lgs 187/00, e annotare su apposito registro i risultati della verifica.
› Segnalare all’esercente l’eventuale necessità di adottare gli interventi correttivi o quelli necessari ad ovviare agli inconvenienti, compreso quello di mettere
fuori servizio le attrezzature.
› Registrare e conservare, per almeno 5 anni, i dati relativi ai programmi, ai controlli e alle prove di cui sopra, anche su supporto informatico. In tal caso deve
essere garantita la permanenza delle registrazioni,
anche mediante la duplicazione del supporto.
› Provvedere, insieme all’esercente, per quanto di rispettiva competenza, ai fini della valutazione delle
dosi alla popolazione, a che le indagini con radiazioni ionizzanti siano registrate singolarmente, anche in
forma sintetica e su supporto informatico.
Da quanto precede risulta evidente che la responsabilità dei tipi di controlli scelti, delle procedure
adottate per l’esecuzione dei controlli e dei giudizi
finali sono completamente a carico del Responsabile
dell’impianto radiologico.
7) L’esercente delle strutture ove si svolgono indagini
con raggi X deve assicurarsi che vengano esposti,
ai fini di una protezione particolare durante la gravidanza, avvisi atti a segnalare il potenziale pericolo
per l’embrione ed il feto.
Tali avvisi devono inoltre invitare esplicitamente la
paziente a comunicare allo specialista lo stato di gravidanza certa o presunta (art.10, c. 5, D.Lgs. 1987/00).
In ogni caso, lo specialista deve sempre effettuare
una accurata anamnesi allo scopo di sapere se la
donna è in stato di gravidanza (art. 10, c.1. D.Lgs,
1987/00).
Documentazione di legge
I nuovi obblighi di registrazione introdotti comportano
un aumento nel numero dei registri: quelli della radioprotezione devono sempre avere pagine legate e numerate, per gli altri non vi sono indicazioni precise. In
sintesi, si dovrebbero avere i seguenti documenti.
› Registro delle valutazioni di radioprotezione: fino ad
esaurimento rimane in uso quello attuale.
› Registro dei protocolli e dei controlli di qualità e dei
protocolli e delle prove di accettazione e di funzionamento.
› Registro dei programmi di garanzia della qualità.
› Registro delle verifiche biennali dei livelli diagnostici
di riferimento (escluse radiografie endorali).
› Registro delle singole indagini radiologiche, anche in
forma sintetica.
In alcuni casi è possibile la registrazione su supporto
magnetico, in duplice copia.
Formazione (Art. 7 del D.Lgs. 187/00)
Il personale che opera in abiti professionali direttamente connessi con l’esposizione medica deve seguire corsi
di formazione con periodicità quinquennale, nell’ambito della formazione continua di cui al D.Lgs. 502/92. È
previsto un programma in materia di radioprotezione.
ORGANISMI INTERNAZIONALI CHE “normano”
nell’ambito delle radiazioni ionizzanti:
› ICRP - Interantional Commission om Radiation Protection
› ICRU - Interantional Commission on Radiological
Units and Measurements
› ISO - International Organization for Standardization
› IEC - International Electrotechnical Commisison
› UN - NAZIONI UNITE (ONU)
› UNSCEAR - Scientific Committee on the Effects of
Atomic Radiation
› IAEA - International Atomic Energy Agency
› WHO - Word Health Organization
› FAO - Food and Agriculture Organization
› WMO - Word Meteorological Organization
› ILO - International Labour Organization
› CE - COMUNITA’ EUROPEA
› OECD - Organization for Economic Cooperation and
Development
› EURATOM - European Atomic Energy Community9
› ESPR - European Society for Radiation Protection
› OAS - Organization of American States
› IRPA - International Radiation Protection Association
› BEIR - committee on Biolobical Effects of Ionizing
Radiation (Board on Radiation effects Research Commission on Life Sciences National Research Council)
Organismi che normano nel campo della Radioprotezione:
› ICRP International Commission on Radiological Protection
› Direttive agli stati membri CEE Comunità Europea
› Leggi e decreti STATO e REGIONI
› Decreti Presidente Repubblica, Decreti ministeriali.
› Circolari ministeriali MINISTERI, ENEA-APAT, SSN
› Organi di vigilanza Dir. Igiene e Sanità Pubblica APSS
› Norme tecnico-industriali UNI, CEE, DIN …
› Prescrizioni autorizzative AUTORITÀ COMPETENTE
della COMUNITÀ EUROPEA, dell’ENERGIA ATOMICA (CEFEA o EURATOM) del 25 marzo 1957. L’EURATOM nel 1971 (comprensiva di CEE e CECA). Successivamente la Comunità si allargava con l’ingresso
di nuovi Paesi. Nel 1992, in virtù del trattato di Maastricht assumeva la denominazione di UNIONE EUROPEA comprensiva di 15 Paesi. Nel maggio 2004 la
Comunità si è allargata a 25 Paesi.
Bibliografia
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D.Lgs.17 marzo 1995 ,n.230
D.Lgs 187/2000
Bollettino ANDI n.2 della Sezione Provinciale di Torino. Anno 2001.
Direttiva 2003/122/CE
DLgs 06/0/06
DLg 81/2008 n.52
SOFTEC Technology & Research srl - via Stracciari, 2 - 40141 Bologna
CAPITOLO 24
MATERIALI
PER LO
SBIANCAMENTO
DENTALE
FIG. 1 Discromia dentale post eruttiva da trauma dell’elemento 2.1
e presenza di una ricostruzione incongrua in materiale composito.
24.1
Lo sbiancamento
Il colore di un dente è influenzato dalla colorazione intrinseca del dente stesso e dalla presenza di macchie estrinseche che si possono formare sulla superficie dei denti.
La diffusione e l’assorbimento della luce all’interno dello
smalto e della dentina danno luogo al colore intrinseco dei
denti e poiché lo smalto è relativamente traslucido, le proprietà della dentina possono svolgere un ruolo importante
nel determinane il colore. Le macchie estrinseche tendono
a formarsi in aree dell’elemento dentario che sono meno
accessibili agli spazzolini e all’azione abrasiva di un dentifricio, e sono spesso causate dal fumo, dall’assunzione di alimenti ricchi di tannino e dall’uso di alcuni agenti cationici
quali la clorexidina, o da sali di metalli quali stagno e ferro.
Secondo un articolo di Nathoo pubblicato nel 1997
è possibile classificare le pigmentazioni del dente in
estrinseche ed intrinseche.
Le discromie estrinseche sono causate da pigmentazioni depositate sulla superficie del dente e vengono a
loro volta suddivise in tre sottogruppi:
› tipo-N1 in cui il cromogeno si lega alla superficie del
dente favorendo la formazione di una pigmentazione con la stessa colorazione del cromogeno stesso
(cibi e bevande come carote, rape rosse, liquirizia,
caffè, vino rosso, tè ecc);
› tipo-N2 in cui il cromogeno cambia colore dopo essersi depositato sull’elemento, questo cambiamento
cromatico può essere causato da una modificazione
di tipo chimico (macchie giallastre situate nelle aree
interprossimali dei denti);
› tipo-N3 sono quelle che si formano a causa di reazioni chimiche che determinano la discolorazione di
sostanze, inizialmente incolori, depositate sulla superficie dell’elemento dentario (clorexidina, cibi ad
elevato contenuto di carboidrati, floruro stannoso).
Le discromie intrinseche sono causate dalla presenza
della pigmentazione all’interno dello smalto e/o della
dentina e possono essere suddivise a seconda del perio-
do di azione della noxa patogena in pre e post eruttive:
› tetracicline, fluorosi, disordini ematologici e anomalie di struttura quali amelogenesi e dentinogenesi
imperfetta sono tutti agenti che possono causare discromie intrinseche pre eruttive;
› traumi, terapie endodontiche incongrue e invecchiamento possono causare discromie intrinseche posteruttive (fig. 1).
I metodi per la rimozione delle discromie dentarie
sono molteplici. Gli approcci possono diversificarsi a
seconda della natura della discromia, dal suo grado e
dalle condizioni dell’elemento dentario (sano, vitale,
non vitale, cariato, ricostruito): possiamo distinguere
gli approcci domiciliari da quelli professionali.
Per il trattamento domiciliare sul mercato sono disponibili una notevole quantità di agenti sbiancanti da usare
nelle pratiche di igiene orale quotidiano, quali dentifrici,
colluttori, fili interdentali e spazzolini sbiancanti, gomme
da masticare e specifici prodotti per lo sbiancamento
domiciliare di denti vitali, mentre per il trattamento professionale gli approcci sono distinti in detersione professionale della superficie dentale, sbiancamento professionale di denti vitali e non vitali, ricopertura degli elementi
dentari con dispositivi conservativi o protesici (ricostruzioni in composito, faccette e corone).
24.2
Il trattamento professionale
24.2.1 Detersione professionale delle
superfici dentali
Le sedute di igiene professionale sono delle tecniche
di sbiancamento di tipo meccanico: l’uso di sostanze
abrasive contenute nelle paste profilattiche e la detartrasi stessa sono in grado di prevenire l’accumulo di
pigmentazioni e di rimuovere le macchie discromiche
estrinseche che sono presenti sulla superficie dentale
(tartaro, placca, nicotina ecc.)
24.2.2 Lo sbiancamento professionale
Lo sbiancamento professionale è una procedura di tipo
chimico che sfrutta le proprietà di particolari principi
attivi. Normalmente viene eseguita utilizzando agenti
sbiancanti con concentrazioni elevate per disgregare
i gruppi cromogeni responsabili della pigmentazione
dentaria, rendendo la superficie dei denti più bianca.
Con lo sbiancamento professionale i denti possono essere sbiancati con successo utilizzando agenti sbiancanti
(perossido di idrogeno, perossido di carbamide, acido
borico, solfato di sodio) altamente concentrati (30-35%)
(fig. 2). Le procedure alla poltrona sembrano rappresentare una valida alternativa alle applicazioni domiciliari soprattutto nel caso di macchie molto intense, denti
singoli decolorati, mancanza di compliance del paziente
o, se viene richiesta, per una soluzione rapida del problema. Il trattamento professionale può essere applicato anche come una sorta di terapia di attacco, in modo
da avviare il processo di sbiancamento che può essere
proseguito dal paziente con le tecniche domiciliari. In
genere, una singola seduta di sbiancamento non è sufficiente per ottenere risultati ottimali. Ciò significa che la
procedura deve essere ripetuta più volte durante un appuntamento o anche negli appuntamenti successivi che
sono necessari per ottenere i risultati ottimali sperati.
FIG. 2 Sbiancamento professionale con prodotto a base di perossido di
idrogeno al 35%.
I composti sbiancanti possono essere suddivisi in base
al loro meccanismo di azione in ossidanti e riducenti.
Gli ossidanti a loro volta vengono distinti in:
› diretti (perossido di idrogeno), in cui la scissione del
componente determina la liberazione dell’ossigeno
che è responsabile dell’azione sbiancate;
› indiretti come il cloro il quale, reagendo con l’acqua,
forma acido cloridrico ed ossigeno.
Gli agenti riducenti, oggi poco utilizzati, sono costituiti
da una miscela di acido borico e solfato di sodio. Tale
miscela libera acido solforoso che, avendo una notevole affinità per l’ossigeno, sottrae quest’ultimo alla sostanza colorata che viene così decomposta.
Gli attuali sistemi per lo sbiancamento professionale
dei denti sono basati principalmente sugli agenti di
tipo ossidante come il perossido di idrogeno e uno dei
suoi precursori, il perossido di carbamide.
Queste molecole determinano uno sbiancamento dei
cromogeni all’interno della dentina, riducendo così il
colore del corpo dentale e sono spesso usati in combinazione con un agente attivante come il calore, la luce
o il laser. Tali agenti possono essere applicati esternamente ai denti (sbiancamento dei denti vitali) o internamente (sbiancamento dei denti non vitali).
24.2.2.1 Il perossido di idrogeno
Il perossido di idrogeno o acqua ossigenata (H2O2) è
un agente ossidante che si presenta sotto forma di un
liquido incolore con un sapore amaro. Grazie alle sue
proprietà, è impiegato per un ampio numero di applicazioni a livello industriale. Ad esempio, viene utilizzato come sostanza sbiancante per decolorare tessuti,
capelli, pellicce e alimenti; è impiegato nel trattamento
di depurazione delle acque, come disinfettante e nella
distillazione del vino. In virtù delle sue proprietà sbiancanti, il perossido di idrogeno è un composto che viene
ampiamente utilizzato per la produzione dei numerosi
prodotti indicati per lo sbiancamento dentale.
Il meccanismo d’azione del perossido di idrogeno
Il perossido di idrogeno è un composto chimico inorganico contenente il gruppo caratteristico formato da
due atomi di ossigeno uniti da un legame covalente
semplice (legame O-O): in soluzione è un composto
instabile e si decompone liberando ossigeno gassoso
secondo la seguente reazione:
2H2O2
FIG. 3 Stesso caso della figura 1 dopo aver effettuato lo sbiancamento
professionale ed aver sostituito la vecchia ricostruzione.
2H2O + O2
La sua forma più stabile, ottenuta grazie all’aggiunta di
agenti chelanti che sono in grado di legare gli ioni metallici liberi, risulta essere quella indissociata.
Il pH ideale per ottenere la migliore efficacia di questo
agente ossidante è quello basico, con valori che oscillano da 9,5 a 10,8, poichè a questo livello di pH si ottiene durante la ionizzazione del perossido di idrogeno il
maggior numero di radicali liberi, che aumentano l’effetto sbiancante.
Grazie alla microporosità presenti sulla superficie dello smalto che si prolungano negli spazi interprismatici,
l’ossigeno libero, sprigionato dalla scissione del perossido, penetra nella struttura porosa fino a raggiungere
la giunzione amelodentinale, agendo sui gruppi cromofori annidiati all’interno della struttura dentaria. L’ossigeno libero e i suoi radicali rappresentano l’agente
ossidante, che è in grado di rimuovere la materia inorganica libera dal dente, senza andare a dissolvere la matrice dello smalto, e che riesce a convertire le discromie
dentali in tonalità più chiare. Le molecole del pigmento
subiscono un processo di decomposizione che avviene
grazie alla rottura dei doppi legami da parte dell’ossigeno che le scompone in particelle più semplici e incolori
che, grazie alla maggiore solubilità vengono facilmente eliminate attraverso il lavaggio. La progressione del
processo di sbiancamento porta ad un processo di saturazione, la superficie dello smalto si satura di agente
sbiancante, per cui l’effetto del trattamento sbiancante
arriva ad esaurirsi: è a questo punto che si deve terminare lo sbiancamento per evitare di causare danni alla
superficie dentale.
24.2.2.2 Il perossido di carbamide
Il perossido di carbamide (NH2-CO-NH2) è un agente
organico con proprietà ossidanti, che risulta essere
composto da perossido di idrogeno e urea; il perossido di carbamide al 10% viene degradato per una quota
del 3% in perossido di idrogeno e del 7% in perossido
di urea. L’urea mantiene il pH intorno a valori pari a
6,5-6,8, riducendo il rischio di dissoluzione dello smalto, mentre il perossido di idrogeno, grazie al suo basso
peso molecolare, attraversa lo smalto e dissociandosi
determina la liberazione di ossigeno.
Il meccanismo di azione di questo composto è analogo
a quello del perossido di idrogeno, la differenza viene
evidenziata dalla presenza di urea che è responsabile
dell’effetto antiplacca. L’urea, infatti, si scinde in anidride carbonica ed ammoniaca secondo la seguente formula
CO(NH2)2 + H2O
CO2 + 2NH3
determinando un aumento del pH che ostacola la formazione della placca stessa.
Differentemente dal perossido di idrogeno, il perossido
di carbamide, grazie alla sua proprietà di rilasciare urea
risulta essere un prodotto molto più stabile e duraturo
nel tempo. È un prodotto che si è dimostrato efficace
anche nel trattamento dei denti non vitali.
Alcuni prodotti sbiancanti possono contenere polimeri
dell’acido poliacrilico, come il Carbopol, che hanno lo
scopo di aumentare la viscosità del gel che viene applicato sulla superficie dentale. Queste sostanze determinano un rallentamento e un controllo del rilascio di
ossigeno e aumentano l’aggressività del prodotto sulle
superfici dentarie grazie alla loro azione inibitrice esercitata sulle perossidasi salivari che sono enzimi antago-
nisti del meccanismo sbiancante del perossido di idrogeno.
24.2.2.3 Gli effetti collaterali
I possibili effetti collaterali di un trattamento sbiancante
professionale sono i seguenti.
› Sensibilità dentale: gli agenti ossidanti determinano
una maggiore presenza delle porosità sulla superficie
dello smalto che sono responsabili della sensibilità
dentale post-operatoria che è variabile da persona a
persona e da prodotto a prodotto, è quasi sempre reversibile entro i 2-3 giorni dalla fine del trattamento
ed è comunque controllabile dall’operatore odontoiatrico anche durante il corso del trattamento stesso.
Il trattamento sbiancante in alcuni casi può portare ad
una riduzione della microdurezza dello smalto che,
tuttavia, grazie ad un processo di rimineralizzazione, torna alle condizioni iniziali. I principi attivi degli
agenti sbiancanti sono responsabili delle alterazioni
dello smalto che si verificano dopo un trattamento
professionale: inizialmente si pensava che queste alterazione fossero imputabili alla forte acidità del prodotto, invece con studi successivi si è scoperto che
la causa sono le elevate concentrazione del prodotto
che possono portare alterazione morfologiche all’interno dello smalto, non solo in superficie ma anche
in profondità. I radicali liberi, attivi contro le molecole pigmentanti, non presentando specificità d’azione
possono danneggiare anche la componente organica
dello smalto, aumentando la permeabilità della superficie dentale che permette all’urea di penetrare (in
percentuali molto basse) e causare la denaturazione
delle proteine strutturali.
› Sensibilità dentale elevata: questa si verifica se sono
presenti molte otturazioni sui denti a contatto con il
prodotto sbiancante a causa di una penetrazione più
profonda degli agenti ossidanti all’interno dell’elemento dentario. L’azione dell’ossigeno libero sul collagene pulpare determina un lento rilascio di agenti
dell’infiammazione che sono responsabili dell’ipersensibilità dentinale.
› Irritazione dei tessuti molli: per poter effettuare un
trattamento sbiancante è necessario isolare il campo
operatorio per proteggere la mucosa gengivale: a tal
fine sono disponibili prodotti come la diga di gomma
e la diga liquida che permettono di isolare i denti e
impediscono al materiale di venire a contatto direttamente con i tessuti molli. Questo permette di evitare
la formazione di lesioni orali che danno sensazioni
di bruciore, gusto sgradevole e irritazione gengivale
più o meno acute.
› Impossibilità di effettuare restauri adesivi subito
dopo il trattamento: la presenza di radicali liberi residui sulla superficie del dente influenza in maniera
negativa il legame adesivo. Per questo motivo è opportuno aspettare almeno due settimane dalla fine
del trattamento per ottenere un legame adesivo clinicamente accettabile.
24.2.2.4 Metodi per accelerare il processo
di sbiancamento
Per accelerare il processo di sbiancamento l’agente
sbiancante può essere attivato attraverso l’aumento di
temperatura. Principalmente, l’applicazione di una fonte di calore, o di una luce o del laser è usata per aumentare la temperatura dell’agente sbiancante applicato alla
superficie del dente. Da un punto di vista scientifico, i
dati relativi ai meccanismi di azione e all’efficacia del
laser, della luce e del calore sull’attivazione dei sistemi
sbiancanti per uso dentale sono ancora limitati.
La termocatalisi
Il rilascio di radicali ossidrile del perossido viene accelerato da un aumento della temperatura secondo la seguente equazione:
H2O2 + 211 kJ / mol
2HO-
Ciò significa che per ogni aumento di temperatura di
10°C la velocità di scissione del perossido di idrogeno
in ioni ossidrile aumenta di un fattore di 2,2, determinando l’efficacia del trattamento sbiancante. Tuttavia,
l’intervallo utile per un aumento di temperatura è limitato a causa delle possibilità di danneggiare la polpa
dentaria.
Se la luce viene applicata su un prodotto sbiancante,
come un gel sbiancante, una piccola frazione viene assorbita e la sua energia viene convertita in calore. Molto
probabilmente, questo è il principale meccanismo di
azione di tutte le procedure di sbiancamento fotoattivabili. Al fine di aumentare l’assorbimento della luce e, di
conseguenza, la conversione in calore, alcuni prodotti
sbiancanti vengono mescolati con coloranti specifici,
ad esempio carotene. Il colore rosso-arancio del carotene aumenta l’assorbimento della luce blu. Al fine di
aumentare l’assorbimento di luce rossa e infrarossa,
possono essere aggiunte piccole particelle di silice in
scala nanometrica, che conferiscono a questi prodotti
un aspetto bluastro.
La fotolisi
Il rilascio di radicali idrossili può essere aumentato anche attraverso l’eccitazione diretta della luce (fotolisi).
L’energia necessaria può essere fornita da una luce ad
alta frequenza, corrispondente ad una lunghezza d’onda di circa 248 nm. Per una migliore sicurezza delle
procedure di sbiancamento fotoattivabile, la sorgente
luminosa utilizzata è un fattore importante. Sul mercato sono attualmente disponibili una notevole varietà di
lampade per la fotoattivazione dei prodotti sbiancanti
che differiscono notevolmente:
› Alogena (600 mW);
› Plasma-Arc-Xeno (1500-1930 mW);
› Alogena ad alta intensità (1000 mW);
› LED (300-400 mW);
› LED + Alogena (40-450 mW).
La maggior parte delle lampade commercializzate per
l’uso con i sistemi di sbiancamento fotoattivabili sono
lampade per la fotopolimerizzazione della resina che in
alcuni casi hanno una impostazione supplementare per
sbiancare (modalità sbiancamento). I sistemi luminosi
che sono specificamente progettati per le procedure di
sbiancamento sono costruite in modo tale che il fascio
di emissione di luce possa colpire e illuminare più denti, ad esempio l’intero arco dentale.
Il meccanismo d’azione dei sistemi laser offerti per scopi di sbiancamento dipende dalla lunghezza d’onda,
dalla potenza della radiazione e dalla modalità di impulso, se prevista. I sistemi laser per lo sbiancamento
di solito prevedono un manipolo che espande il raggio
laser in modo tale che il fascio laser non viene utilizzato
a focalizzato su un unico punto. Con l’espansione del
raggio laser, la luce laser si diffonde sulla superficie di
più denti. Di conseguenza, alcune proprietà tipiche di
questo sofisticato strumento vengono perse, ma il rischio di danneggiamento dei tessuti è ridotto.
Il potenziale aumento dell’efficacia del gel sbiancante
mediante l’attivazione con la luce non è ancora ben
documentato. Tuttavia, le pubblicazioni più recenti indicano che il beneficio dell’uso aggiuntivo di lampade,
sistemi laser e fonti di calore è limitato. Inoltre è stato dimostrato che l’utilizzo di questi coadiuvanti per le
procedure di sbiancamento porta ad un aumento della
temperatura all’interno della camera pulpare con possibili formazioni di danni irreversibili e conseguente perdita della vitalità del dente.
24.3
Lo sbiancamento dei denti non vitali
La causa più comune che determina la discolorazione
dei denti non vitali è l’emorragia della polpa che si verifica dopo un trauma o dopo un trattamento di pulpectomia. Il sangue entra nei tubuli dentinali e poi si decompone. Questo porta ad un deposito di cromogeni
derivati dalla degradazione sanguigna, come emosiderina, emine, ematina, e ematoidina. Allo stesso modo,
la necrosi pulpare può dar luogo a prodotti cromogeni
che derivano sia dalla degradazione del sangue sia dalla
degradazione delle proteine del tessuto pulpare, anche
esse responsabili della formazione di agenti cromogeni.
Anche la calcificazione della polpa provoca lo scolorimento dentale attraverso l’obliterazione dei tubuli dentinali e l’accumulo di dentina terziaria, ma il dente rimane vitale. Questo processo si verifica spesso a seguito di
traumi. Un certo numero di interventi dentali possono
causare lo scolorimento interno. Se il tessuto pulpare
non viene completamente rimosso durante il trattamento endodontico, il tessuto rimanente può portare
alla decolorazione. Gli irriganti canalari, i materiali per il
riempimento endodontico (endomethazone e pasta iodoformica) e altri materiali da restauro (amalgama d’argento) possono causare variazioni del colore dentale.
La combinazione degli irriganti canalari che contengono ipoclorito di sodio (anche a basse concentrazioni) e
clorexidina porta alla precipitazione di cromogeni bru-
no-rossastri all’interno dei tubuli dentinali. Per evitare
questa reazione, si consiglia di eseguire un’irrigazione
finale di ipoclorito di sodio o di acqua distillata.
Le tecniche più popolari per lo sbiancamento dei denti
non vitali sono:
› lo sbiancamento ambulante (walking bleaching);
› lo sbiancamento interno ed esterno (inside/outside
bleaching)
Lo sbiancamento ambulante è una tecnica, introdotta
per la prima volta da Spasser nel 1961, che prevede l’inserimento del perborato di sodio miscelato con acqua
in una pasta all’interno della cavità pulpare. Prima di inserire il gel sbiancante a base di perossido di idrogeno
o di carbamide al 10 o al 35%, è opportuno assicurarsi
che la cavità di accesso sia pulita e priva di ogni residuo,
inoltre bisogna isolare e proteggere l’endodonto da
possibili infiltrazioni, per diminuire il rischio di riassorbimento radicolare. Questo è possibile posizionando
sul fondo della cavità pulpare un cemento (ossifosfato
di zinco, vetroionomero). Tale strato di cemento sarà
posizionato al di sotto della giunzione amelocementizia in modo che il prodotto sbiancante agisca anche a
livello dei tubuli dentinali che hanno origine più bassa.
Una volta posizionato il materiale sbiancante, si chiude
il dente tramite un’otturazione provvisoria.
Dopo alcuni giorni (3-7 giorni), il risultato sbiancante
viene esaminato e, se necessario, l’agente sbiancante
viene nuovamente inserito nella cavità di accesso fino
ad ottenere il risultato sperato.
La tecnica dello sbiancamento interno ed esterno, descritta per la prima volta da Settembrini nel 1997, come
suggerisce il nome, prevede l’applicazione dell’agente
sbiancante sia sulle superfici esterne sia su quelle interne del dente. La cavità di accesso viene realizzata come
nella tecnica dello sbiancamento ambulante e protetta
in maniera analoga per garantire un corretto sigillo endodontico. Il gel sbiancante, dopo un tempo di applicazione di 15-20 minuti durante il quale viene mosso,
viene risciacquato e la procedura viene ripetuta se necessario per ottenere il risultato desiderato.
La tecnica termocatalitica e concentrazioni elevate degli
agenti sbiancanti dovrebbero essere evitate, in quanto
ciò può aumentare il rischio di riassorbimento radicolare. I pazienti devono essere informati circa la scarsa
prevedibilità di successo dello sbiancamento e il rischio
di recidiva.
24.4
Lo sbiancamento domiciliare
Con sbiancamento domiciliare si intendono tutte le tecniche che prevedono l’utilizzo da parte del paziente di
sostanze che abbiano proprietà sbiancanti (figg. 4- 9).
I prodotti che generalmente vengono utilizzati per
queste procedure, sono dei gel a base di perossido di
carbamide a basse concentrazioni (10, 15 o 20%). La
concentrazione più utilizzata è quella al 10% perché
presenta la maggior efficacia con i minori effetti collaterali, diminuendo al minimo episodi di ipersensibilità
FIG. 4 Mascherine per lo sbiancamento domiciliare.
FIG. 5 Lieve discromia dentale generalizzata.
FIG. 6 Applicazione della mascherina.
dentinale.
Questi prodotti, forniti in pasta o in gel contenuto in
siringa vengono consegnati al paziente insieme ad una
mascherina personalizzata dove verranno applicati.
Tale mascherina dovrà essere portata dal paziente per
un tempo variabile secondo il prodotto usato e la sua
concentrazione.
24.5
I trattamenti fai-da-te
24.5.1 Dentifrici sbiancanti
FIG. 7 Rimozione della mascherina.
FIG. 8 Dopo la rimozione della mascherina rimane una striscia contenente
l’agente sbiancante a basse concentrazioni.
I dentifrici che sostengono di avere proprietà sbiancanti rappresentano circa il 40-50% dei prodotti presenti
sul mercato e raramente contengono perossido di
idrogeno o di carbamide o qualsiasi altro tipo di agente
sbiancante. La loro capacità di rimuovere le macchie è
legata esclusivamente alla quantità di abrasivi contenuti
nella loro formulazione, che è maggiore di quella presente nelle normali paste dentifricie. Sono prodotti che
rimuovono solo le pigmentazioni superficiali estrinseche. Ovviamente, l’abrasività di questo tipo di dentifrici, che sono oggi formulati per un uso quotidiano, deve
essere sempre tale da evitare un’usura eccessiva dello
smalto e della dentina.
Anche se i dentifrici sbiancanti possono prevenire la
formazione di macchie estrinseche sulla superficie dentale, l’effetto sbiancante ottenuto con questi prodotti
non sembra essere clinicamente significativo se paragonati con gli agenti sbiancanti professionali o domiciliari
a base di perossido di idrogeno o di carbamide.
24.5.2 Collutori sbiancanti
I collutori sbiancanti sono apparsi recentemente sul
mercato e i produttori pubblicizzano la loro capacità i
combattere la placca e la formazione di macchie sulle
superfici dentarie. Generalmente, è presente una bassa
concentrazione di perossido di idrogeno (1,5%) e l’esametafosfato di sodio può essere incluso nella formulazione per proteggere la superficie dei denti dal deposito di nuove macchie.
24.5.3 Fili interdentali, spazzolini e gomme
da masticare
FIG. 9 Stesso caso della figura 4 dopo sbiancamento domiciliare.
Recentemente, i produttori di prodotti per l’igiene
orale hanno sviluppato altri metodi con presunte proprietà sbiancanti. Il filo interdentale sbiancante è stato
introdotto per promuovere la riduzione delle macchie
intorno alle aree interprossimali e subgengivali. La capacità di rimuovere le macchie è associata alla presenza
di silice nella composizione, che promuove una abrasione superficiale durante l’applicazione nella regione
interdentale. Tuttavia, nessuna relazione clinica è attualmente disponibile per confrontare l’efficacia di questi
dispositivi con quelli non sbiancanti.
Gli spazzolini manuali o elettrici, oltre ad essere utilizzati per le manovre di igiene orale domiciliare, possono
essere utilizzati anche per mantenere l’effetto sbiancante o prevenire le macchie estrinseche dopo trattamenti di sbiancamento. Una capacità migliore di mantenimento dell’effetto sbiancante è stata riportata per gli
spazzolini elettrici rispetto a quelli manuali.
Le gomme da masticare con esametafosfato di sodio
(4,0-7,5%) sono state introdotte come prodotti sbiancanti per uso domestico con la pretesa di impedire la
formazione di macchie estrinseche sui denti. Uno studio del 2006 ha evidenziato come l’uso di una gomma
da masticare contenente esametafosfato può determinare una riduzione della formazione di macchie rispetto ad una gomma normale.
Bibliografia
24.5.4 Strisce sbiancanti (whitening strips)
›
Le whitening strips sono state create per evitare l’uso
di mascherine preformate sulla bocca del paziente. Le
strisce contenenti agenti sbiancanti aderiscono ai denti
anteriori e rilasciano il principio attivo durante periodi
di tempo relativamente brevi (da 5 a 60 minuti), e possono essere applicate una volta o due volte al giorno.
Il principio attivo è il perossido di idrogeno in basse
concentrazioni (da 5 a 14%). Studi hanno dimostrato
che vi è un aumento dell’effetto sbiancante quando le
strisce sono utilizzate per 28 giorni rispetto ai 14 giorni, e che l’effetto sbiancante può essere mantenuta per
circa 2 anni. Nonostante l’effetto sbiancante sia ottimale, la sensibilità dei denti è più pronunciata di quella
osservata quando vengono utilizzate le mascherine
preformate. L’apparente vantaggio di questi prodotti
è soprattutto nel costo, ovviamente più basso rispetto
alle tecniche professionali, e la maggiore facilità nel reperirli, infatti si possono trovare nei supermercati, nelle
farmacie e su internet.
Nonostante questi vantaggi, sono prodotti che vengono
utilizzati da parte del paziente senza alcun controllo da
parte dell’odontoiatra o dell’igienista e quindi rischiano di non essere adeguati alle loro esigenze. Il paziente infatti può non essere a conoscenza di determinate
patologie presenti nel suo cavo orale (recessioni, abrasioni, carie, ricostruzioni in composito) che possono
compromettere sia la salute dei suoi denti sia il risultato
estetico finale. Talvolta si assiste ad uno sbiancamento
parziale di taluni elementi proprio a causa di una patologia sopra elencata.
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GLOSSARIO
paziente di effettuale una prevalutazione estetica.
Cilindro di fusione: dispositivo
che consente di effettuare la
fusione a “cera persa”, utilizzata in
odontotecnica per la produzione di
manufatti metallici.
Circolare (full arch): termine
colloquiale indicante una protesi
fissa in monofusione che riabilita
due quadranti (emiarcate)
B
Banda ortodontica: anello
metallico che viene adattato e
cementato ai denti. Tramite il
processo di puntatura è possibile
aggiungere ad una banda tutta una
serie di componenti accessori , tra
cui i cleats linguali ed i tubulari. La
scelta della banda dipende, quindi
dalla tecnica ortodontica che si
intende utilizzare.
Bite (dall’inglese=morso):
presidio terapeutico-diagnostico
utilizzato principalmente in
gnatologia. Esistono diverse
tipologie di bite, ciascuna prodotta
con diverse metodiche atte a
esaudire le diverse funzioni
richieste al dispositivo stesso. La
funzionalità del bite si esplica nel
momento in cui, posizionato tra
le arcate dentarie, ne consente di
modificare i rapporti.
Boxaggio: rappresenta
l’inscatolamento dell’impronta,
che può essere effettuato anche
con fogli di cera. Il boxaggio è
uno dei passaggi necessari al fine
di ottenere un modello in gesso
preciso.
C
Calcinabile: materiale che
sottoposte ad elevate temperature,
Colatura (dei modelli): fase di
realizzazione dei modelli. Consiste
nel colare il materiale gessoso
all’interno dell impronte, in modo
da ottenere una copia in positivo
delle arcate dentarie.
va incontro a completa
evaporazione, senza lasciare tracce
e residui nella massa refrattaria. Sia
la cera, sia le resine del tipo duralay sono materiali calcinabili.
Calcinazione: trattamento termico
eseguito mediante riscaldamento
ad elevata temperatura (5001000°C) su alcune sostanze
specialmente carbonati ed
idrossidi, allo scopo di eliminarne
completamente la porzione
volatile (H2O e CO2) ed ottenere
un prodotto solido (generalmente
ossido).
Cappetta: nelle corone in metalloceramica la cappetta è l’anima
in metallo della ricostruzione
protesica sopra la quale sarà
successivamente cotta la
porcellana.
Carta da articolazione:
sottile pellicola colorata che
consente l’identificazione dei
punti di contatto occlusali e di
diagnosticare eventuali precontatti.
E’ presente in commercio in diversi
spessori standardizzati, facilmente
riconoscibili da un relativo codicecolore.
Ceratura diagnostica:
modellazione in cera del futuro
manufatto protesico. Consente al
clinico una migliore pianificazione
del piano di trattamento ed al
Corona
Corona (anatomica) è la parte
del dente ricoperta dallo smalto;
è separata dalla radice per
mezzo di un colletto ristretto.
› Corona (clinica) rappresenta
la parte visibile del dente
all’interno del cavo orale (la
porzione esterna alla gengiva).
› Corona protesica: è un
restauro che sostituisce l’ intera
corona naturale del dente
ripristinandone le funzioni.
› Corona telescopica: particolare
corona protesica composta
da una parte primaria,
perfettamente conica, su cui si
inserisce una parte secondaria
che risulta assicurata alla
prima per frizione o tramite
interposizione del cemento.
›
F
Faccetta: ricostruzione indiretta
del versante vestibolare dei denti
del sestante anteriore, applicata
generalmente per fini estetici.
Film (pellicola): sottile strato di
una sostanza
I
Impianto (dentale): dispositivo
biocompatibile e biofunzionale
inglobato nel tessuto osseo al fine
di sostenere una protesi fissa o
rimovibile.
Intarsio: restauro indiretto che
riproduce parzialmente (in modo
più o meno esteso) l’anatomia
dentale.
M
Marginatura: preparazione di
rifinitura del margine di chiusura
della protesi fissa.
Margine di chiusura: termine
comunemente utilizzato per
indicare i margini cervicali (bordi)
degli elementi protesici fissi situati
sui pilastri.
Overdenture: protesi totale
munita di dispositivi di ancoraggio
che ne permettono la connessione
a dispositivi ritentivi (attacchi),
a loro volta connessi ad impianti
osteointegrati o a radici residue.
Perno di colata: nella tecnica
della fusione a cera persa, il perno
di colata è quella struttura in
materiale calcinabile, che connette
il manufatto in cera al cono di
colata.
Una volta calcinati sia il perno che
il manufatto stesso, all’interno
del refrattario, resteranno le
loro impronte in negativo, che
accoglieranno la lega fusa fusa.
P
Ponte: dispositivo protesico fisso
che, cementato su almeno due
pilastri, naturali o implantari, è
in grado di sostenere due o più
corone protesiche.
Protesi dentaria: dispositivo
artificiale che consente di sostituire
i denti naturali perduti in seguito a
traumi o malattie. La sua funzione
non è soltanto estetica, ma anche
anatomica e funzionale.
Protesi provvisoria: dispositivo
protesico applicato in attesa
della preparazione della protesi
definitiva. Normalmente è
prodotto in resina. Nei casi in
cui debba essere portata per un
periodo più lungo (dopo interventi
parodontali o di implantologia)
può contenere al suo interno
un’armatura di lega seminobile
o oro, rivestito di resina. È
importante che il provvisorio non
vada a ledere la gengiva e che ci
siano spazi interdentali adeguati al
mantenimento dell’igiene.
Protesi scheletrata: Protesi dentale
rimovibile che si ancora sugli
elementi dentari residui tramite
ganci fusi in metallo o attacchi.
S
Sottosquadro: incavo profondo
che forma un angolo acuto con
il piano costituito dal fondo
dell’opera.
Sovracontorno: debordamento tra
due superfici contigue.
RINGRAZIAMENTI
Si ringraziano:
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dottor Claudio Agostinelli
Emiliano Armellin
Luigi Baldi, laboratorio Wisildent
maestro odontotecnico Valerio Burello
architetto Laura Lo Cigno, per la realizzazione dei disegni Approfondimento “Le saldature” (cap. 10)
Piero Pesce, laboratorio Ceramic-ap
dottor Paolo Trentini
dottor Domenico Vitale
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ODONTOSTOMATOLOGICHE