MATERIALI E TECNOLOGIE ODONTOSTOMATOLOGICHE a cura dei Docenti di Materiali Dentari e Tecnologie Protesiche e di Laboratorio delle Università Italiane Referente di Disciplina ARIESDUE Giuseppe Spoto ARIESDUE ARIESDUE MATERIALI E TECNOLOGIE ODONTOSTOMATOLOGICHE MATERIALI E TECNOLOGIE ODONTOSTOMATOLOGICHE MATERIALI E TECNOLOGIE ODONTOSTOMATOLOGICHE AGGIORNAMENTO LUGLIO 2013 a cura dei Docenti di Materiali Dentari e Tecnologie Protesiche e di Laboratorio delle Università Italiane Referente di Disciplina Giuseppe Spoto › › › Brescia Corrado Paganelli, Giorgio Gastaldi Cagliari Gloria Denotti Chieti Giuseppe Spoto, Antonio Scarano, Morena Petrini, Maurizio Ferrante › › › › › Ferrara Santo Catapano, Nicola Mobilio Foggia Lorenzo Lo Muzio L’Aquila Mario Baldi Messina Domenico Cicciù Milano-Bicocca Marco Baldoni, Dorina Lauritano, Alessandro Leonida, Salvatore Longoni › › Milano S. Raffaele Enrico Gherlone, Loris Prosper Napoli Federico II Alberto Laino, Roberto De Santis, Antonio Gloria, Fernando Zarone, Roberto Sorrentino › › › › › › Pavia Paolo Menghini, Giuseppe Merlati Piemonte Orientale Carmen Mortellaro Politecnica delle Marche Francesco Sampalmieri, Andrea Santarelli Roma Cattolica del Sacro Cuore Francesco Somma, Luca Marigo Roma Sapienza Licia Manzon Roma Tor Vergata Saverio Giovanni Condò, Loredana Cerroni, Guido Pasquantonio, Roberta Condò › › › Sassari Edoardo Baldoni, Massimo Corigliano Siena Marco Ferrari, Cecilia Goracci Torino Gianmario Schierano, Roberto Perotti, Carlo Mazzucco, Antonino Castronovo Trieste Elettra Dorigo De Stefano, Lorenzo Breschi, Milena Cadenaro Verona Daniele De Santis ARIESDUE › › ARIESDUE © copyright 2013 Collegio dei Docenti di Odontoiatria Viale Regina Elena 287/A Roma Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o conservata in un sistema di recupero o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi sistema elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, registrazioni o altro, senza una autorizzazione scritta da parte del Collegio dei Docenti di Odontoiatria. Nel volume non sono indicati tutti i nomi commerciali dei materiali e dei prodotti riportati. Il lettore può essere certo che autori, curatore ed editore hanno fatto il possibile per garantire che ogni riferimento sia conforme allo stato delle conoscenze al momento della pubblicazione del libro. Editore Ariesdue srl Via Airoldi, 11 22060 Carimate (CO) Italia tel. +39 (031) 79.21.35 www.ariesdue.it Inserito online nel mese di settembre 2013 PRESENTAZIONE La buona accoglienza dispensata al volume dedicato ai Materiali ed alle Tecnologie Odontostomatologiche, ci ha spinto a continuare, migliorare ed approfondire il programma di Disciplina. Questo libro è dedicato al Prof. Mario Baldi, recentemente scomparso, ma ancora vivo nei nostri cuori. Egli ha lavorato attivamente e diligentemente alla prima edizione del libro, a questo aggiornamento e al volume per gli Igienisti Dentali. La sua professionalità ed i suoi insegnamenti continueranno ad essere pietre miliari di questo libro. Una seconda dedica va alla Prof. Elettra Dorigo De Stefano, primo Docente di Materiali Dentari, Past President del Collegio dei Docenti di Odontoiatria, sotto il cui Patrocinio è iniziato il nostro Progetto. I suoi consigli sono stati, e lo sono ancora, fondamentali per la sua produzione Collegiale. Il carisma e la dedizione della Prof. Dorigo per la Disciplina sono di esempio per tutte le generazioni future che intendano intraprendere la carriera accademica. Ventuno sedi universitarie hanno aderito a questo progetto ed hanno collaborato attivamente fornendo ciascuna il suo materiale didattico. Il risultato è questo aggiornamento che presto diventerà nuovo volume che rimane sotto il Patrocinio del Presidente del Collegio dei Docenti, Prof. Antonella Polimeni. Il mio ringraziamento va, altresì, alla Prof. Livia Ottolenghi per il supporto sempre costante e concreto in tutte le decisioni adottate. Mi auguro che il volume possa essere di aiuto a quanti iniziano lo studio dei Materiali Dentari e delle Tecnologie Protesiche di Laboratorio, i suggerimenti e le critiche degli studenti e dei colleghi consentano di introdurre ulteriori integrazioni e miglioramenti così come ad esempio è stato fatto nell’attuale aggiornamento dal Dott. Claudio Agostinelli e dal Dott. Paolo Trentini. Giuseppe Spoto Referente della Disciplina Materiali Dentari e Tecnologie Protesiche di Laboratorio INDICE AGGIORNAMENTO LUGLIO 2013 CAPITOLO 10 MATERIALI PER LA TERAPIA PROTESICA Approfondimento Le saldature e cenni di elettroerosione 10.3.8 Ceramiche gold standard 10.3.8.1 Ceramiche vetrose 10.3.8.2 Ceramiche a base di disilicato di litio 10.3.8.3 Ceramiche ad elevata resistenza infiltrate con vetro 10.3.8.4 Ceramiche a base di allumina 10.3.8.5 Ceramiche a base di zirconia Approfondimento CAD-CAM CAPITOLO 6 MATERIALI PER LA PREVENZIONE DELLE PATOLOGIE E DEI DANNI DENTARI 6.1.8 I sigillanti Bibliografia capitolo 6 Bibliografia capitolo 10 CAPITOLO 11 MATERIALI PER LA TERAPIA IMPLANTARE 11.5 Elettrosaldatura endorale Bibliografia capitolo 11 CAPITOLO 7 MATERIALI PER LA TERAPIA CONSERVATIVA 7.1.9 Cementi e materiali da sottofondo 7.1.9.1 Cementi per l’odontoiatria conservativa 7.1.9.2 Materiali protettivi di sottofondo 7.1.9.3 Cementi canalari 7.1.9.4 Cementi all’ossido di zinco e eugenolo (ZOE) 7.1.9.5 Cementi all’acido orto-etossibenzoico (EBA) 7.1.9.6 Cementi a base di acido fosforico 7.1.9.7 Cementi al fosfato di zinco 7.1.9.8 Cementi al silicato 7.1.9.9 Cementi a base di acidi polialchenoici 7.1.9.10 Cementi policarbossilati 7.1.9.11 Cementi vetroionomerici 7.1.9.12 Cementi vetroionomerici modificati con resina 7.1.9.13 Compomeri 7.1.9.14 Cementi a base resinosa CAPITOLO 15 NUOVE TECNOLOGIE 15.4 Scaler sonici ed ultrasonici 15.4.1 Considerazioni cliniche Bibliografia capitolo 15 CAPITOLO 23 ASPETTI GIURIDICI 23.6 Normativa e radioprotezione in odontoiatria 23.6.1 Esercente e responsabile dell’impianto radiologico 23.6.2 Prescrivente e specialista 23.6.2.1 Procedura amministrativa 23.6.2.2 Elenco degli obblighi relativi all’applicazione dei Decreti Legislativi 187/00 e 241/00 Approfondimento Le proprietà ideali dei cementi odontoiatrici Bibliografia capitolo 7 Bibliografia capitolo 23 CAPITOLO 24 MATERIALI PER LO SBIANCAMENTO DENTALE 24.1 Lo sbiancamento 24.2 Il trattamento professionale 24.2.1 Detersione professionale delle superfici dentali 24.2.2 Lo sbiancamento professionale 24.2.2.1 Il perossido di idrogeno 24.2.2.2 Il perossido di carbamide 24.2.2.3 Gli effetti collaterali 24.2.2.4 Metodi per accelerare il processo di sbiancamento 24.3 Lo sbiancamento dei denti non vitali 24.4 Lo sbiancamento domiciliare 24.5 I trattamenti fai-da-te 24.5.1 Dentifrici sbiancanti 24.5.2 Collutori sbiancanti 24.5.3 Fili interdentali, spazzolini e gomme da masticare 24.5.4 Strisce sbiancanti (whitening strips) Bibliografia capitolo 24 GLOSSARIO Ringraziamenti CAPITOLO 6 MATERIALI PER LA PREVENZIONE DELLE PATOLOGIE E DEI DANNI DENTARI trollare l’inizio della polimerizzazione e di avere quindi un tempo di applicazione maggiore rispetto a quelli autopolimerizzabili, in cui l’indurimento inizia subito dopo la miscelazione. Inoltre, quelli attivati chimicamente possono presentare maggiori porosità dovute all’inglobamento di bolle durante la miscelazione ed essere più disomogenei di quelli fotopolimerizzabili. I sigillanti possono essere anche suddivisi in base al colore del materiale, classificandoli in sigillanti traspa- FIG. 4 Dente isolato con diga di gomma. 6.1.8 I sigillanti I sigillanti per fossette e fessure o sigillanti occlusali sono materiali che vengono posizionati in corrispondenza dei solchi e fossette occlusali al fine di creare una barriera protettiva contro i batteri cariogeni e i substrati alimentari. Più dell’80% delle carie si localizza infatti a livello delle anfrattuosità delle superfici occlusali dei molari, dove la complessa morfologia e soprattutto la presenza di solchi profondi e stretti impedisce la penetrazione delle setole dello spazzolino e quindi un’adeguata detersione. I primi materiali sigillanti sono stati introdotti a metà degli anni 60 ed erano a base di cianoacrilati, in seguito abbandonati perché soggetti a fenomeni di degradazione nel cavo orale e sostituiti da materiali a base di Bis-GMA (ottenuto dalla reazione del Bisfenolo A con il glicidilmetacrilato). Ancora oggi i sigillanti resinosi contenenti Bis-GMA ed altri monomeri diluenti come il TEG-DMA (trietilenglicol-dimetacrilato) rappresentano i materiali per sigillatura più utilizzati. Si tratta di materiali fluidi a bassa viscosità, che penetrano nelle fessure occlusali e aderiscono allo smalto dentario, preventivamente mordenzato con acido ortofosforico, con un legame di tipo micromeccanico. I sigillanti possono essere classificati in base a diverse caratteristiche. Una prima classificazione li divide in sigillanti autopolimerizzabili e fotopolimerizzabili. I primi sono forniti sotto forma di due componenti da miscelare subito prima dell’uso, uno contenente il perossido di benzoile quale iniziatore e l’altro un’amina terziaria quale attivatore. I secondi, invece, contengono un fotoiniziatore (comunemente il canforochinone, ma altri fotoiniziatori possono essere presenti in associazione o in alternativa a questa molecola), che viene attivato dall’esposizione alla luce visibile, utilizzando una lampada fotopolimerizzatrice con un picco di emissione di circa 470-480 nm. I materiali più utilizzati sono oggi quelli fotopolimerizzabili perché consentono di con- FIG. 5 Detersione dello smalto mediante spazzolino montato su micromotore utilizzando acqua e pomice o una pasta da profilassi senza fluoro. FIG. 6 Asciugatura della superficie dentale. FIG. 7 FIG. 10 FIG. 8 Abbondante Fotopolimerizzazione del sigillante per i tempi indicati dal produttore. Mordenzatura con acido ortofosforico al 35-37% per 15-30 secondi. risciacquo con rimozione del gel mordenzante. Applicazione del sigillante sul dente. FIG. 11 FIG. 12 Superficie occlusale sigillata. FIG. 9 Superficie occlusale mordenzata ed asciugata. FIG. 13 Estensione della sigillatura. renti, colorati e opachi. I sigillanti opachi contengono generalmente diossido di titanio. Il vantaggio dei sigillanti colorati e opachi è quello di essere maggiormente distinguibili rispetto allo smalto circostante, facilitandone l’applicazione e permettendo il monitoraggio dell’integrità e dell’adattamento marginale nel tempo. Recentemente sono stati anche sviluppati sigillanti che cambiano colore durante la polimerizzazione (ad esempio da rosa a bianco), con l’intento di renderli più visi- bili durante l’applicazione. Un’altra classificazione viene fatta in base al contenuto di riempitivo (filler): si distinguono infatti sigillanti riempiti e non riempiti. Il motivo alla base dell’aggiunta dei filler è il tentativo di migliorare le proprietà meccaniche e la resistenza all’usura di questi materiali. Tuttavia, la necessità di avere un materiale sufficientemente fluido per potere penetrare nei solchi e nelle fossette occlusali fa sì che il contenuto di riempitivi sia sempre comunque molto più basso di un materiale composito da restauro, anche di tipo flow. In ogni caso le evidenze cliniche sembrano dimostrare che entrambi i tipi di sigillanti sono efficaci. Sono stati anche proposti sigillanti con riempitivi contenenti fluoro, allo scopo di aumentarne l’azione anticarie. Questi riempitivi possono essere sia sali di fluoro aggiunti alla resina non polimerizzata che composti fluorati legati chimicamente alla resina. Il rilascio di fluoro dai materiali resinosi è tuttavia limitato e in ogni caso comporta una perdita delle proprietà meccaniche del materiale. Allo scopo di sfruttare la capacità di rilascio di fluoro, in alternativa ai sigillanti resinosi, è stato proposto l’utilizzo dei cementi vetroionomerici. Questi materiali, però, presentano una percentuale di ritenzione molto più bassa rispetto ai sigillanti resinosi (3-7% a tre anni contro il 74-95% dei materiali a base resinosa). Trovano comunque indicazione nei casi in cui la sigillatura sia fortemente consigliata e in presenza di un campo operatorio non perfettamente isolabile (ad esempio molari non completamente erotti di soggetti molto cariorecettivi). Viste le loro caratteristiche di fluidità, anche i compositi e i compomeri di tipo flowable sono stati proposti per l’esecuzione delle sigillature. La loro percentuale di riempitivo è però superiore rispetto a quella dei sigillanti convenzionali e pertanto la loro penetrazione nei solchi è inferiore. Inoltre, a causa della maggiore viscosità, non riescono a creare un legame micromeccanico adeguato con lo smalto mordenzato e richiedono quindi l’utilizzo preliminare di sistemi adesivi. Queste caratteristiche li rendono più adeguati alla realizzazione di restauri microinvasivi, in presenza di solchi pigmentati o con segni di carie inziale, sottoposti ad ameloplastica preventiva con una fresa a fiamma o con tecniche di abrasione ad aria. L’efficacia dei sigillanti nella prevenzione della carie è ampiamente dimostrata: la riduzione della carie nei denti sottoposti a sigillatura rispetto a quelli non sigillati è dell’87% a 12 mesi e del 60% a 48-54 mesi. Malgrado ciò, alla luce dei notevoli miglioramenti delle strategie di prevenzione degli ultimi anni e all’aumento del numero di soggetti caries-free, gli orientamenti attuali sono indirizzati verso l’applicazione dei sigillanti non in tutti i pazienti, ma nei soli soggetti cariorecettivi e con solchi profondi, valutando l’esperienza pregressa di carie del paziente e il livello di attività cariosa. Poiché il rischio di carie sembra essere maggiore nel periodo successivo all’eruzione, i sigillanti dovrebbero essere applicati il più precocemente possibile dopo la comparsa nel cavo orale, tenendo conto, tuttavia, che la cariorecettività di un paziente può cambiare nel corso della vita in relazione a modificate abitudini alimentari e di igiene o a causa di patologie concomitanti. L’efficacia dei sigillanti è condizionata dall’integrità del materiale. Per questo motivo i sigillanti, una volta applicati, devono essere sottoposti a controlli regolari per verificarne la durata ed essere riapplicati in caso di perdita o di usura. La causa principale di fallimento a breve termine è rappresentata dal distacco del materiale dovuto a una tecnica di applicazione inadeguata, in particolar modo a un campo operatorio non perfettamente isolato. I fallimenti a lungo termine, invece, sono per lo più dovuti a fenomeni di usura. La tecnica di applicazione prevede l’adeguato isolamento del campo operatorio con diga di gomma, la detersione dello smalto con una coppetta di gomma o spazzolino montato su micromotore utilizzando acqua e pomice o una pasta da profilassi senza fluoro, un abbondante risciacquo e asciugatura della superficie, la mordenzatura con acido ortofosforico al 35-37% per 1530 secondi seguita nuovamente da abbondante risciacquo e asciugatura dello smalto, l’applicazione del sigillante e la sua fotopolimerizzazione per i tempi indicati dal produttore. Deve quindi essere valutata l’integrità marginale della sigillatura e la presenza di interferenze occlusali che, ove presenti, saranno eliminate con una fresa in pietra di Arkansas. Bibliografia › › › › › › › Ahovuo-Saloranta A, Hiiri A, Nordblad A, Mäkelä M, Worthington HV. Pit and fissure sealants for preventing dental decay in the permanent teeth of children and adolescents. Cochrane Database Syst Rev. 2008 Oct 8;(4):CD001830. Anusavice K. Phillips’ Science of Dental Materials (11th Edition). St. Louis: Elsevier Health Sciences, 2003. Avinash J, Marya CM, Dhingra S, Gupta P, Kataria S, Meenu, Bhatia HP. Pit and Fissure Sealants: An Unused Caries Prevention Tool. J Oral Health Comm Dent 2010; 4(1):1-6. Azarpazhooh A, Main PA. Pit and fissure sealants in the prevention of dental caries in children and adolescents: a systematic review. J Can Dent Assoc 2008;74(2):171-7. Beauchamp J, Caufield PW, Crall JJ, Donly K, Feigal R, Gooch B, Ismail A, Kohn W, Siegal M, Simonsen R. Evidence-based clinical recommendations for the use of pit-and-fissure sealants: a report of the American Dental Association Council on Scientific Affairs. J Am Dent Assoc 2008;139(3):257-68. Locker D, Jokovic A, Kay EJ. Prevention. Part 8: The use of pit and fissure sealants in preventing caries in the permanent dentition of children. Br Dent J 2003;195(7):375-8. McCabe JF, Walls A. Applied Dental Materials (9th Edition). Oxford: Blackwell Publishing Ltd; 2008. CAPITOLO 7 MATERIALI PER LA TERAPIA CONSERVATIVA procede all’eliminazione dei tessuti cariosi fino ad avere cavità idonee alla ricostruzione dell’elemento stesso. Per effettuare i restauri conservativi si possono utilizzare materiali di vario genere. Individuiamo dei materiali di sottofondo che hanno una funzione di protezione della vitalità dell’elemento dentario, materiali per otturazioni permanenti e materiali per otturazioni provvisorie. 7.1.9.2 Materiali protettivi di sottofondo 7.1.9 Cementi e materiali da sottofondo Il termine cemento indica diversi tipi di materiali con differenti caratteristiche utilizzate nella pratica clinica. Gli ambiti di utilizzo dei cementi per uso odontoiatrico possono essere così rappresentati: › protezione della polpa dentaria (materiali protettivi da sottofondo); › cementi canalari; › otturazioni permanente o provvisoria di cavità; › cementazione di intarsi, corone, ponti, bande ortodontiche. 7.1.9.1 Cementi per l’odontoiatria conservativa L’odontoiatria conservativa si occupa della diagnosi e delle terapie degli elementi dentari affetti da malattia cariosa e delle varie patologie che possono colpire i tessuti duri del dente (fig. 7). In odontoiatria ricostruttiva si FIG. 7 Rappresentazione schematica di un elemento dentario cariato. Le proprietà ideali di un materiale da sottofondo adatto a isolare una cavità preparata per un procedimento restaurativo sono le seguenti: › capacità di protezione della polpa da stress chimici, elettrici e termici; › solidità necessaria a supportare le forze sviluppate durante le procedure di otturazione e condensazione di materiali; › proprietà favorenti la mineralizzazione dentinale; › radiopacità. I materiali di sottofondo possono essere classificati secondo questo schema. › Vernici. Sono resine sintetiche in soluzione con solventi organici che, una volta applicati sulla dentina la rivestono come un film che ostruisce il tubulo dentinale. Formano una membrana semipermeabile di 2-5 micron di spessore. La vernice più frequentemente utilizzata è la coppale, resina sintetica di nitrato di cellulosa in soluzione con solventi organici (cloroformio, acetone, benzene, toluene, acetato di amile, etere). Non possono essere utilizzate al di sotto di cementi all’idrossido di calcio in quanto renderebbero nulla l’azione di mineralizzazione sulla dentina da parte di questi cementi; non possono essere posizionate a contatto diretto con materiali da otturazione a base di compositi, in quanto il film andrebbe ad interferire con i componenti del composito rendendo imperfetta la polimerizzazione. › Basi. In genere sono cementi dentali le cui caratteristiche fisico-chimiche li rendono idonei a sostituire la dentina rimossa nella preparazione della cavità. Le basi o cementi di sottofondo sono tutti quei materiali che si possono utilizzare nelle cavità dove residua uno spessore dentinale molto sottile. I principali tipi di cementi da sottofondo sono i seguenti: • cementiall’idrossidodicalcio; • cementiall’ossidodizinco-eugenoloemodificanti con resine o acido 2-etossibenzoico; • cementialfosfatozinco; • cementipolicarbossilici; • cementivetroionomerici. I cementi all’idrossido di calcio sono un insieme di sostanze in cui l’idrossido di calcio costituisce la porzione predominante. Generalmente viene commercializzato sotto forma di due paste che devono essere miscelate. Quando le due paste vengono messe a contatto l’ossido di zinco e il disacilato del 2,3-butilenglicole interagiscono formando un complesso chelato dello zinco. Tale reazione determina FIG. 10 Polpa esposta a seguito di frattura. FIGG. 8, 9 Cementi all’idrossido di calcio utilizzati come sottofondo per la protezione della polpa. › › › rapidamente nella massa compattezza e resistenza alla pressione. I cementi all’idrossido di calcio raggiungono una resistenza alla compressione di circa 20 MPa; questa caratteristica fa sì che siano preferiti nei restauri con amalgama in quanto durante la fase di condensazione bisogna utilizzare una discreta forza di compressione (figg. 8, 9). I cementi all’idrossido di calcio vengono pertanto utilizzati per protezione della polpa dentaria quando lo stato di dentina residua è molto sottile oppure quando vi è esposizione pulpare. Nel primo caso si parla di incappucciamento indiretto; nel secondo caso si definisce incappucciamento diretto con idrossido di calcio. Incappucciamento indiretto. Dopo aver accuratamente asportato la dentina cariata dalla cavità si procede posizionando un sottile strato di cemento all’idrossido di calcio a protezione della dentina stessa. Sopra a questo strato viene pennellata una vernice all’idrossido di calcio e come ultimo strato si pone un cemento tipo EBA (ossido di zinco-acido2-etossibenzoico). Con questi materiali si cerca di stimolare la neoformazione di dentina. Incappucciamento diretto. In questa situazione clinica, che si presenta frequentemente a seguito di traumi dentali e conseguente esposizione della polpa si può tentare di mantenere la vitalità della polpa. Questo è possibile quando non è completata la crescita della radice. La procedura consiste nell’applicare sulla parte di dentina un sottile strato di cemento idrossido di calcio, un isolante di cavità e un cemento all’ossido di zinco-eugenolo. Si potranno programmare dei controlli periodici per valutare l’evoluzione della terapia (fig. 10). Liner. Sono quei materiali che associano all’azione delle vernici altre proprietà derivabili dall’inserimento nella formulazione di componenti con varie azioni specifiche, in special modo idrossido di calcio, eventualmente associato a ossido di zinco, eugenolo, FIG. 11 Vernice Copalite usata a protezione della dentina. fluoruro con azione anticarie. Sono comunemente definiti liner, si presentano sotto forma di pasta fluida che indurisce grazie all’azione di catalizzatori che ne determinano la compatezza (fig. 11). 7.1.9.3 Cementi canalari I cementi canalari sono costituiti per la maggior parte da ossido di zinco e eugenolo con presenza di piccole quantità di vari tipi di medicamenti come ad esempio: paraformaldeide, cortisone, dijodiotimolo e altri componenti. Esistono comunque anche cementi canalari privi di eugenolo che basano la loro reazione di presa sulla presenza di un acido organico a catena lunga che si lega con l’ossido di zinco o di bismuto (figg. 12, 13). Le caratteristiche principali di un cemento endodontico sono le seguenti: › capacità di aderire sia alla dentina che al cono di guttaperca; FIG. 12 Cemento canalare a base di ZOE. FIG. 13 Cemento canalare a base di Zoe senza formaldeide. › › › › › › tempo di presa sufficiente affinché si possano eseguire le procedure di condensazione della guttaperca; coefficiente di dilatazione e di contrazione non influenti; scarsa o nulla riassorbibilità; possibilità di essere rimossi in caso di ritrattamento del canale. biocompatibilità; radiopacità. FIG. 14 Cemento ZOE per otturazioni resina. 7.1.9.4 Cementi all’ossido di zinco e eugenolo (ZOE) In questo gruppo di cementi abbiamo un ampio numero di prodotti in cui la formulazione è caratterizzata da due componenti principali: l’ossido di zinco e l’eugenolo. I componenti della polvere in questo tipo di cemento sono: ossido di zinco al 90% (rappresenta la componente basica debole), ossido di magnesio al 9% (riempitivo), e acetato di zinco al 5% (catalizzatore accelerante). I componenti del liquido sono l’eugenolo nella misura del 95% (componente acido debole), e olio di oliva al 5% (modulatore della viscosità). Il complesso interno zinco-eugenolo ha l’aspetto di un gel che al momento della cristallizzazione incorpora una parte della polvere di ossido di zinco formando una massa solida e resistente. Questa reazione è molto veloce in soluzione acquosa, e molto lenta in eugenolo poiché l’ossido di zinco è poco solubile in questa sostanza e dissocia pochi ioni Zn+ necessari a formare il complesso stabile. La tracce di acqua presenti nell’eugenolo e nell’ambiente atmosferico trasformano inizialmente l’ossido di zinco in idrossido il quale successivamente reagisce con l’eugenolo con una reazione più veloce liberando acqua. La presenza di acetato di zinco, un sale più solubile dell’ossido di zinco, serve per fornire ioni zinco alla soluzione e creare un ambiente ionico favorevole alla dissociazione dell’ossido stesso. È necessario che la reazione non avvenga troppo velocemente per garantire una buona qualità del cemento. La presenza di acqua o umidità durante la fase di impasto fa accelerare la reazione, così come il calore; pertanto bisogna utilizzare piastre di vetro da impasto fredde ed avere l’accortezza di tenere chiusi ermeticamente i contenitori dei componenti del cemento all’ossido di zinco. Indicazione d’uso dei cementi ZOE Poiché sono in grado di costituire una efficace barriera termica, avendo un coefficiente di diffusione termica simile alla dentina, sono utilizzati per i restauri in amalgama. È preferibile non utilizzarli con resine composite in quanto interferiscono con la polimerizzazione e ne alterano il colore. La presenza di eugenolo determina una discreta attività antibatterica e lenitiva anestetica sulle terminazioni cellulari della polpa e della dentina. I cementi all’ossido di zinco eugenolo presentano però, scarsa resistenza alla compressione (figg. 14, 15). Secondo la classificazione ADA distinguiamo i cementi all’ossido di zinco eugenolo in quattro gruppi: i gruppi FIG. 15 Cemento ZOE rinforzato con resina. FIG. 16 Cemento ZOE. FIG. 17 Cemento all’ossido di zinco privo di eugenolo. FIG. 18 Cemento ZOE usato come sottofondo e isolante termico. I e il II sono utilizzati come cementi per corone, mentre i III e IV come cementi da sottofondo. Classificazione ADA n°30: Tipo I: cementi temporanei per corone/ponti di resina o metallo provvisori o definitivi (figg. 16, 17); › Tipo II: cementi definitivi per corone/ ponti definitivi; › Tipo III: cemento di sottofondo con caratteristiche di isolante termico in otturazioni definitive e come materiale per otturazioni provvisorie (fig. 18); › Tipo IV componente di isolanti chimici di cavità. Nell’utilizzo dei cementi all’ossido di zinco eugenolo, › per ottenere i risultati terapeutici desiderati bisogna: › utilizzare tecniche corrette nella preparazione di cavità assicurandosi di creare le dovute geometrie ritentive; › assicurasi di avere, prima di condensare il materiale d’otturazione, un adeguato spessore e di aver raggiunto un sufficiente indurimento del cemento da sottofondo; › esercitare una pressione di condensazione e di modellazione sopportabile dai cementi di sottofondo. 7.1.9.5 Cementi all’acido orto-etossibenzoico (EBA) FIG. 19 Cementi zincofosfatici usati come cementi di fissaggio e materiali per ricostruzioni provvisorie. Sono dei cementi all’ossido di zinco eugenolo modificati dalla presenza di silice e acido orto-etossibenzoico. Queste sostanze permettono una seconda reazione dell’ossido di zinco formando un composto che, indurito, presenta caratteristiche di maggior resistenza alla compressione. Nella formulazione di questi tipi di cementi la parte in polvere è costituita da: ossido di zinco nella misura del 60%, silice per il 35%, colofonia idrogenata al 5% (riduce la solubilità). La parte liquida è costituita da: 35% di eugenolo (acido debole) 62,5% acido orto-etossibenzoico (acido forte). Anche in questo tipo di cemento la reazione di presa è data dalla formazione di un complesso chelato tra acido orto-etossibenzoico e ossido di zinco. La caratteristica di questi cementi EBA consiste nell’essere più resistenti alla compressione e di aver una minore solubilità in acqua. Trovano utilizzo come sottofondi per amalgami, come materiali per otturazioni provvisorie e per la cementazione di manufatti protesici. In commercio si trovano anche altri tipi di cementi ossido di zinco eugenolo modificati e rinforzati con resine acriliche per aumentarne la resistenza alla compressione e diminuirne il grado di solubilità. Per quanto riguarda le procedure di lavorazione valgono le stesse raccomandazioni fatte per gli ZOE. acidità, irritanti per la polpa dentaria. Quando vengono utilizzati come sottofondi è bene associarli con dei protettivi della polpa come ad esempio dei liner o un cemento all’ossido di calcio. Anche se il tempo di presa dei cementi al fosfato di zinco è intorno ai 4-8 minuti, la massima resistenza alla compressione, compresa tra gli 80 Mpa e i 140 Mpa avviene dopo 24 ore; pertanto quando vengono utilizzati con i materiali di otturazione in amalgama, la loro resistenza alla compressione è vicina alla pressione che viene utilizzata per la condensazione dell’amalgama. In questi casi bisogna assicurarsi che sia passato tempo utile affinché il cemento abbia raggiunto una resistenza sufficiente a sopportare la pressione di condensazione dell’amalgama (fig. 19). I cementi al fosfato di zinco sono utilizzati come fondini di piccole e medie cavità sotto otturazioni in amalgama. Sono anche utilizzati per la cementazione di intarsi, corone e bande ortodontiche. Esistono anche dei cementi al fosfato di zinco modificati che presentano caratteristiche particolari: › cementi con fluoruro di stagno: sviluppano maggior potere anti-cariogeno ma presentano maggior solubilità e una minore resistenza; › cementi al rame dove il 20% di ossido di zinco è stato sostituito da ossido rameico di color nero o da ossido rameoso di color rosso. La loro caratteristica è di avere attività batterio-statica e anti-cariogena. 7.1.9.6 Cementi a base di acido fosforico 7.1.9.8 Cementi al silicato I cementi a base di acido solforico sono dei materiali che si utilizzano prevalentemente come cementi di sottofondo, in cui la reazione di presa avviene tra l’acido fosforico e uno o più ossidi basici. In funzione del tipo di ossido presente nella formulazione distinguiamo i seguenti materiali: › cementi al fosfato di zinco; › cementi al silicato; › cementi silico-fosfatici. Di questi solo il cemento al fosfato di zinco trova applicazione come sottofondo nelle cavità delle preparazioni conservative. Sono dei cementi che sono apparsi nel mondo odontoiatrico agli inizi del secolo scorso con la funzione di materiale per restauri estetici. Hanno assolto questo compito fino alla comparsa dei cementi vetroionomerici negli anni ‘70. 7.1.9.7 Cementi al fosfato di zinco Si presentano sotto forma di polvere e di liquido da miscelare al momento dell’uso. Questi cementi, avendo un pH compreso tra 2 e 4, presentano caratteristiche di 7.1.9.9 Cementi a base di acidi polialchenoici Tutti i cementi a base acidi polialchenoici presentano la caratteristica di far presa attraverso la reazione di un acido organico con ossido di zinco o con alluminosilicato. Si conoscono due classi di questi cementi: › policarbossilati › vetroionomerici. 7.1.9.10 Cementi policarbossilati Sono dei materiali costituiti da una polvere e un liquido FIG. 20 Cementi policarbossilati per cementazioni di ponti, corone e bande ortodontiche. con una formulazione che mira a creare una forma di adesione chimica tra il materiale da restauro e la struttura dell’elemento dentario. Nella formulazione polvereliquido abbiamo come costituenti della polvere: ossido di zinco come base principale del cemento nella misura del 65%, ossido di calcio e idrossido di magnesio nella misura del 20% come componente basico e fluoruri di Sn, Ca, Na, nella misura del 10% con la funzione di anti-cariogeni; i costituenti del liquido sono acido poliacrilico acquoso come componente acida nella misura del 40% e acqua. I cementi policarbossilici formano dei legami chimici con lo smalto e la dentina legando ioni positivi bivalenti di calcio con i gruppi acidi presenti nelle catene dell’acido poliacrilico (fig. 20). I cementi policarbossilati trovano questi tipi di impiego: › sottofondi per cavità; › cementazione di corone oro-resina e oro-ceramica; › fissaggio di bande per le proprietà di legame forte. 7.1.9.11 Cementi vetroionomerici I moderni cementi dentali si basano su una scoperta avvenuta a metà del diciannovesimo secolo. Da allora, la costante ricerca scientifica in questo ambito ha consentito all’industria di proporre materiali sempre più sofisticati. Nel 1856, Sorel presentò una formulazione per un cemento a base di cloruro di magnesio. Questo diede il via a diversi studi, ricerche e sviluppo di prodotti che portarono negli anni ‘20 alla determinazione di tre categorie principali di cementi: i cementi al fosfato di zinco, quelli all’ossido di zinco ed eugenolo e i cementi silicati. Nel 1966, D.C. Smith introdusse un’altra classe di cementi, nei quali il liquido dei cementi al fosfato di zinco veniva sostituito con acido poliacrilico acquoso. Definito cemento carbossilato, questo prodotto aprì la strada ai materiali autoadesivi. Sulla base di questi sviluppi, Wilson introdusse nel 1969 la classe dei cementi vetroionomerici. Il primo cemento vetroionomerico, ASPA (Alumino-Silicate-Poly-Acrylate), venne presentato negli anni Settanta ed era formulato aggiungendo acido poliacrilico come componente liquido da aggiungere alla polvere di silicato. Questi cementi trovano oggi le loro principali applicazioni in ortodonzia per la cementazione di bande ortodontiche ed in protesi per la cementazione di definitiva dei manufatti protesici. Nel corso degli anni i CVI hanno subìto miglioramenti sia dal punto di vista chimico che meccanico e questo ha portato ad una sempre maggiore applicabilità. CVI modificati tramite aggiunta di una matrice resinosa sono utilizzati in odontoiatria conservativa nel trattamento delle carie al terzo cervicale (Classe 5 secondo Black), nelle sigillature dei solchi dello smalto, come materiale da build-up e come materiale da sottofondo cavitario. La caratteristica principale di questi cementi è la capacità di rilasciare fluoro prevenendo quindi la formazione di carie secondarie. I cementi vetroionomerici sono stati classificati in autoindurenti, convenzionali e in CVI fotopolimerizzabili. Attualmente possiamo disporre di questi tipi di cementi: › CVI convenzionali o autoindurenti (bi-componenti); › CVI modificanti come resina (bi-componenti); › resine composite modificate con poliacidi (bi-componenti); › compomeri (mono-componenti); › compomeri a bassa viscosità. Composizione chimica I cementi vetroionomerici vengono forniti sotto forma di polvere e liquido oppure come polvere da miscelare con l’acqua. Diversi prodotti sono invece forniti in capsule predosate. La polvere è rappresentata da un vetro, il fluoroamminosilicato di calcio, ed è composta da particelle di circa 20 micron di diametro ottenute mediante un processo di calcinazione a freddo. il liquido è invece costituito da una soluzione acquosa di polimeri e copolimeri dell’acido poliacrilico. Il liquido tipico è una soluzione in acqua di circa il 50% di acido poliacrilico e del suo copolimero acido itaconico (peso molecolare medio 10.000) nel rapporto 2:1. L’acido itaconico riduce la viscosità del liquido ed inibisce la gelificazione provocata dal legame idrogeno intermolecolare. In alcuni prodotti l’acido poliacrilico è contenuto nella polvere. I liquidi di questi prodotti possono essere acqua o una soluzione diluita di acido tartarico in acqua. La reazione di presa è di tipo acido-base. La miscelazione della polvere con il liquido porta con sé le seguenti reazioni: › gli ioni idrogeno provenienti dai gruppi carbossilici contenuti nell’acido poliacrilico aggrediscono la superficie delle particelle di polvere, spostando i Ca++, Al+++ e Na+, che a loro volta combinandosi con in silicati di alluminio, formano un gel di silice idrata; › i cationi Ca++ e Al+++, precedentemente spostati, associati a complessi fluorati, si trasferiscono nella fase gelificata, nella quale legano tra loro le catene dell’acido poliacrilico, utilizzando legami salino-metallici e dando luogo alla solidificazione del gel. Questa ultima reazione di presa si attiva in due tempi. Dapprima gli ioni calcio bivalenti, avendo la necessità di saturare due sole valenze, si combinano con l’acido poliacrilico, generando un primo addensamento del cemento che permette la manipolazione e l’introduzione del materiale in cavità. In un secondo tempo anche gli ioni di alluminio trivalente si combinano, realizzando il completo indurimento del cemen- to. Tuttavia, mentre la prima fase reattiva tra Ca+ e due gruppi COO- si completa in 3 ore, la saturazione degli ioni Al+ non si conclude prima di 24 ore. In definitiva, a solidificazione avvenuta, si produce un agglomerato di particelle, circondate da un gel di silicati inglobati in una matrice polimerica nella quale i legami intermolecolare tra le molecole dell’acido poliacrilico sono realizzate dalla combinazione dei gruppi COO-,Ca++ e Al+++. I CVI hanno presentano le seguenti caratteristiche: › liberano fluoro nell’ambiente circostante con azione anticarie esercitando un’azione batteriostatica o battericida; › creano un legame inattaccabile dagli acidi organici prodotti dalla placca batterica grazie all’adesione di natura chimica tra la matrice e le particelle di riempitivo; › riducono la mobilità delle molecole polimeriche dell’acido poliacrilico e perciò anche la diffusibilità attraverso il tessuto dentinale grazie ai solidi legami con le particelle di polvere; › presentano Ph è meno acido rispetto a quello dei cementi al silicato e di altri cementi per uso odontoiatrico; › presentano gruppi carbossilici in grado di chelare gli ioni calcio dell’idrossipatite della dentina e dello smalto, producendo un legame con la struttura dentale; › presentano un ottimo seal marginale. Caratteristiche chimiche Adesività I CVI non presentano particolari proprietà adesive. Il legame con la dentina è frutto dell’interazione tra gruppi carbossilici e calcio dentinale e di un meccanismo di interazione ionica di tipo di bipolare tra gruppi carbossilici dell’acido poliacrilico e gruppi NH2 contenuti nel collagene dentinale. L’adesività dei CVI ai tessuti dentinali può essere incrementata trattando la superficie di smalto o dentina con condizionatori, come ad esempio l’acido poliacrilico. Sono sconsigliati acidi forti come l’acido ortofosforico in quanto la dentina andrebbe incontro ad una notevole esposizione di fibre collagene senza cristalli di idrossiapatite interposti. L’utilizzo dell’acido poliacrilico oltre ad incrementare la bagnabilità della superficie dentaria permette garantisce l’attivazione degli ioni calcio e fosfato della dentina aumentando lo scambio ionico con le componenti contenute nel cemento. Il legame ai tessuti dentari risulta pertanto essere di natura esclusivamente chimica. La capacità di assorbimento dell’acqua è una caratteristica costante di tutti i polimeri con legami polari. È particolarmente significativa per i compositi nei quali induce un aumento dimensionale più o meno marcato. L’assorbimento d’acqua è del tutto trascurabile per i CVI (fig. 21). Rilascio di fluoro Il rilascio di fluoro da parte di questi materiali è legato FIG. 21 Cemento vetroionomerico per fissaggio di ponti e corone. alla presenza di diversi composti inglobati nella polvere del cemento. Il fluoro si presenta sottoforma di alluminofluoridi solubili i cui ioni vengono liberati non appena il cemento viene esposto in ambiente acquoso. Il rilascio di fluoro sembra essere più marcato nella settimana per poi decrescere progressivamente nel tempo pur mantenendo livelli tali da garantire un continuo effetto preventivo nei confronti dell’insorgere di carie secondarie. L’azione del fluoro si esplica prevalentemente attraverso due meccanismi: da un lato il rilascio si ha la trasformazione dell’idrossiapatite in fluoroidrossiapatite, un composto più stabile e meno solubile in ambiente acido, dall’altro il fluoro esercita un azione inibitoria sulla cuticola dello smalto facendo venire meno la sua azione chemiotattica. 7.1.9.12 Cementi vetroionomerici modificati con resina Negli anni, sul mercato sono stati introdotti anche gli ionomeri ibridi (chiamati anche vetroionomeri modificati con resine). Questi composti nascono dalla necessità di migliorare alcune proprietà meccaniche dei CVI classici e combinare le proprietà dei CVI classici con la tecnologia delle resine metacriliche. Il loro indurimento si realizza grazie ad una reazione acido-base del vetroionomero ed alla polimerizzazione auto o fotoindurente dei gruppi metacrilici laterali. Il monomero in essi contenuto è l’HEMA e la fotopolimerizzazione è resa possibilie da un fotoiniziatore, il camforochinone. I CVI modificati sono forniti sotto forma di polvere più liquido ed in formulazione auto o fotoindurente. La reazione di presa è data, oltre che dalla reazione acido-base, dalla reazione di polimerizzazione metacrilica propria delle resine stessa. Sono indicati per la cementazione definitiva di corone in metallo-ceramica, ponti, inlay, onlay e corone, cementazione di perni e cementazione di dispositivi ortodontici. Ulteriori destinazioni d’uso sono come base per build-up, come liner o basi per cavità, come restauro provvisorio, per cementazione di restauri in ceramica e per il trattamento delle carie del terzo cervicale. Questi materiali sono meno solubili in ambiente acquoso rispetto ai CVI classici. I CVI modificati con resina sono più facili da utilizzare rispetto ai CVI classici. La loro attivazione attraverso fotopolimerizzazione permette inoltre un tempo di lavorazione più lungo e un indurimento più rapido. Anche le altre proprietà meccaniche risultano essere migliorate se confrontate con quelle dei vetroionomeri classici. L’adesione dei cementi vetroionomerici modificati con resina si realizza attraverso la creazione di uno strato ibrido non presente nei CVI classici. Il rilascio di ioni fluoro sembra essere uguale o leggermente maggiore rispetto a quello dei CVI e possono essere “ricaricati” attraverso somministrazioni topiche, ad esempio attraverso l’utilizzo di un dentifricio, di fluoro. Presentano basse proprietà estetiche e pertanto il loro utilizzo è sconsigliato nei settori frontali del cavo orale. 7.1.9.13 Compomeri Sono un gruppo recente di materiali per restauri estetici derivanti dalla prevalente combinazione della matrice di resine composite con il riempitivo dei CVI. La composizione dei compomeri è sostanzialmente simile a una resina composita. La componente vetrionomerica è rappresentata da riempitivo vetroso e da gruppi carbossilici che intervengono nell’incrementare il processo di indurimento soltanto quanto il compomero, già indurito attraverso la fotopolimerizzazione, assorbe acqua dall’ambiente orale. I compomeri dovrebbero avere le caratteristiche positive sia dei CVI sia delle resine composite. Queste caratteristiche possono essere così elencate: › biocompatibilità; › adesione chimica alle strutture dentali; › rilascio di ioni fluoruro nell’ambiente circostante; › capacità di agire come uno strato isolante elastico in grado di attenuare e disperdere gli stress meccanici e termici cui l’otturazione può essere sottoposta; › prevenzione o comunque riduzione dell’infiltrazione marginale. 7.1.9.14 Cementi a base resinosa La sempre maggiore necessità di ottenere un’adesione duratura ed efficace dei manufatti protesici ha portato negli ultimi anni allo sviluppo di cementi a base resinosa. La regola primaria da seguire quando si utilizza questa tipologia di cemento è quella di mantenere quanto più possibile la preparazione dell’elemento a livello dello smalto così da sfruttare al meglio il loro potenziale adesivo. L’adesione di questi cementi al substrato dentale si realizza previa mordenzatura dell’elemento con acido ortofosforico cui fanno seguito i passaggi adesivi tipici dei materiali compositi. I cementi resinosi possono essere forniti sotto forma di polvere e liquido, di due paste o di due liquidi viscosi ed in base alla loro reazione di polimerizzazione vengono classificati in autopolimerizzabili, fotopolimerizzabili e auto-fotopolimerizzabili (duali). In funzione della tipologia di polimerizzazione il tempo di presa varia notevolmente; nei composti fotopolimerizzabili il tempo di indurimento può essere gestito in modo più mirato rispetto a quelli autopolimerizzabili. Questi cementi presentano inoltre una bassa solubilità, ma un elevato assorbimento d’acqua. Questi cementi possono essere utilizzati con diverse tipologie di materiali protesici: l’adesione su ceramica si realizza grazie ad un preventivo condizionamento con acido fluoridrico al 10%, l’adesione ad altri materiali resinosi si ottiene con diverse metodiche tra cui la silanizzazione o la mordenzatura, ma la metodica migliore prevede la sabbiatura del manufatto protesico con particelle di ossido di silicio ed infine l’adesione ai metalli si ottiene previa silanizzazione del metallo del manufatto protesico. Un altro settore dell’odontoiatria in cui questi cementi trovano applicazione è l’ortodonzia dove vengono utilizzati per la cementazione delle bande ortodontiche, ma in questo settore i materiali di elezione restano i cementi vetroionomerici che grazie al continuo rilascio di ioni fluoro possono prevenire l’insorgenza di carie nei pazienti pediatrici. APPROFONDIMENTO Le proprietà ideali dei cementi odontoiatrici Il materiale da cementazione svolge un ruolo importante per quanto riguarda la durata e la resa funzionale del manufatto restaurativo che deve fissare, tanto che l’impiego o la manipolazione errati di un cemento possono compromettere definitivamente la precisione e la prognosi della riabilitazione effettuata. Le proprietà ideali di un cemento vengono analizzate secondo differenti proprietà: meccanico-fisiche, biologiche, di lavoro, estetiche. Proprietà meccanico-fisiche Bassa solubilità nei fluidi orali Una bassa solubilità è il criterio fondamentale per evitare la dissoluzione nei fluidi orali, comportamento potenzialmente molto pericoloso per la prognosi del restauro in quanto la perdita del film di cemento al margine lascerebbe lo spazio per l’infiltrazione di batteri orali nell’interfaccia restauro-dente, con probabile conseguente carie secondaria. Quest’ultima rappresenta una causa molto frequente dei fallimenti protesici. Elevata resistenza meccanica a compressione e trazione I carichi masticatori sugli elementi dentali naturali e quindi anche su quelli protesizzati possono essere di intensità e direzione differenti. Non cedere alle forze compressive e resistere alle forze dislocanti da parte del materiale da fissaggio può migliorare grandemente la prognosi del trattamento restaurativo e riabilitativo dentale. Ridotto spessore del film Riuscire a ottenere uno spessore ridotto del film di materiale da cementazione polimerizzato è un requisito fondamentale durante la cementazione di restauri che hanno raggiunto un buon livello di precisione marginale. Conoscere comunque gli spessori dei materiali da cementazione che si utilizzano è un aspetto importante al fine di valutare la quantità di spaziatore da indicare al laboratorio durante le fasi di realizzazione del restauro indiretto. Lo spessore del film può anche essere condizionato dalla manipolazione e dalla miscelazione. La specifica ADA n. 8 e la specifica ADA/AN- SI n. 96 prevedono uno spessore massimo del materiale da cementazione di 25 micron. Buona adesione ai tessuti mineralizzati del dente e al restauro protesico. L’adesione ai tessuti duri del dente oggi riveste un ruolo fondamentale nei restauri diretti, e sempre più si stanno sviluppando tecniche adesive per ottenere un legame tra il cemento e i tessuti duri del dente, i materiali da restauro usati per ricostruire i monconi nonché il substrato interno del restauro protesico. Spesso servono passaggi di condizionamento per ottimizzare l’adesione, quindi uno degli obiettivi della ricerca è quello di ottenere, se possibile, legami adesivi sempre più elevati con passaggi sempre più semplificati. L’ottenimento di questi risultati permette di avere preparazioni dentali più conservative e generalmente poco ritentive. Basso assorbimento d’acqua La stabilità dimensionale è una caratteristica fondamentale per la preservazione del sigillo restauro-dente a opera del cemento. Un fattore che potrebbe giocare un ruolo molto negativo è l’assorbimento d’acqua, ad esempio il contatto con i fluidi orali da parte del cemento marginale. È quindi importante che i cementi odontoiatrici presentino un assorbimento di acqua e fluidi in genere quasi nullo. Proprietà biologiche Atossicità e capacità isolante per l’organo pulpare I restauri protesici indiretti su elementi dentali mantenuti vitali sono sempre più frequenti, coerentemente con un approccio che, fatte salve le caratteristiche di ripristino funzionale e buona garanzia prognostica, ricerca la maggiore conservazione possibile di tessuto sano. Sempre più importanza riveste quindi l’assoluta atossicità nei confronti dell’organo pulpare sia durante la reazione di presa del cemento sia una volta terminata la reazione di polimerizzazione dello stesso. Carioresistenza e bassa solubilità Le lesioni cariose secondarie sul margine di unione tra restauro e dente sono una delle più comuni cause di fallimento della riabilitazione stessa. Ai fini di evitare questa eventualità si ritiene fondamentale che il cemento non si presti a una facile dissoluzione in ambiente orale, specialmente sul margine protesico dove lascerebbe spazio a contaminazione batterica e a una possibile lesione cariosa. Inoltre, la capacità di rilasciare sostanze in grado di rimineralizzare i tessuti duri del dente, come ad esempio il fluoro, rappresenta un’ottima via per offrire una certa carioresistenza al cemento adesivo. Oltre ad alcuni materiali, come i cementi vetroionomerici, che offrono naturalmente il rilascio di fluoro, anche ad alcuni cementi resinosi è stata aggiunta questa proprietà. Proprietà di lavorazione Tempo di presa adeguato La reazione di presa di un cemento, grazie alla quale avviene il completo indurimento del materiale, prevede una prima fase in cui il cemento viene lavorato e messo in condizione di essere attivato e di reagire, la fase di lavorazione, a cui segue l’indurimento vero e proprio che è rappresentato dalla reazione di presa. Nei cementi resinosi la reazione di presa corrisponde alla reazione di polimerizzazione. È importante che il tempo di lavorazione del cemento sia adeguato per permetterne la manipolazione, prima che sia posizionato per la fissazione all’interno del cavo orale. La miscelazione manuale richiede un tempo minimo che varia a seconda del materiale, ma oggigiorno, considerate le troppe variabili che si possono verificare durante la procedura manuale, si preferisce generalmente una miscelazione meccanica, con applicatori che contengono quantità di materiale predosato e che offrono una modalità di miscelazione corretta e predicibile. Anche le caratteristiche del materiale sembrano essere migliori con una tecnica di miscelazione meccanica. Proprietà estetiche Il materiale da cementazione svolge un ruolo importante anche nell’estetica finale del restauro: tanto più il restauro sarà traslucente tanto più sarà visibile la cromaticità del cemento. L’approccio alla scelta della colorazione del cemento in questi casi può essere differente: si possono utilizzare un materiale neutro, che non abbia grandi interferenze di colore con il restauro soprastante, oppure cementi con differenti colorazioni e che già durante la prova prevedono l’utilizzo di materiali appositi, detti try-in, per la simulazione del risultato finale dopo la cementazione. Stabilità cromatica Per effetto della polimerizzazione o anche a causa dell’invecchiamento, il materiale da cementazione può subire delle variazioni di colore. Nel caso di un restauro traslucente, come ad esempio una ceramica a base vetrosa o una resina composita, questa evenienza potrebbe compromettere parzialmente il risultato ottenuto. Diventa necessario quindi che il materiale in questione abbia un’ottima stabilità cromatica. Radiopacità La radiopacità è una caratteristica molto importante per controllare radiograficamente eventuali eccedenze di cemento rimaste in prossimità della zona marginale, soprattutto quando essa si trova in zona subgengivale. Quindi in conclusione un cemento ideale dovrebbe: › avere capacità di esplicare un’adesione stabile tra materiali diversi; › avere un’adeguata resistenza alla flessione e alla compressione; › avere una sufficiente resistenza alla frattura per evitare il distacco del restauro a causa di fratture coesive o dell’interfaccia; › avere proprietà di fluidità per una facile applicazione; › formare una pellicola sufficientemente sottile e di adeguata viscosità; › essere stabile nel cavo orale; › essere biocompatibile. Problematiche pratiche A seconda degli scopi per cui sono stati sviluppati i cementi utilizzati in odontoiatria abbiamo visto che questi possiedono caretteristiche peculiari. A livello di salute parodontale è importante che i cementi utilizzati nella fissazione di manufatti protesici vengano accuratamente rimossi attraverso l’utilizzo di strumenti manuali e filo interdentale. La permanenza di residui seppur minimi a livello parodontale o peri-implantare può infatti portare nel primo caso allo sviluppo di un’infiammazione a livello gengivale con possibile evoluzione verso un difetto parodontale infraosseo, mentre nel secondo caso si potrà avere l’insorgenza di un difetto peri-implantare di entità variabile. E’ quindi compito dell’igienista dentale verificare durante le sedute di igiene professionale l’eventuale presenza di problematiche legate alla presenza di residui di cemento e qualora queste fossero presenti far presente il problema all’odontoiatra di riferimento che tramite l’esecuzione di esami radiografici valuterà l’eventuale compromissione dei tessuti di sostegno. Per quanto riguarda invece le problematiche pedodontiche più frequenti può essere utile, in presenza di restauri in cemento vetroionomerico o nei pazienti sottoposti a terapia ortodontica in cui le bande siano cementate con CVI, somministrare topicamente del fluoro per sfruttare al meglio l’effetto ricarica di questi materiali. Infine è importante prestare attenzione alla presenza di restauri di classe 5 secondo Black poiché qualora questi presentassero dei sovracontorni, durante le manovre di levigatura radicolare potrebbero andare incontro a distacco. BIBLIOGRAFIA › › Abdelaziz KM, Al-Qahtani NM, Al-Shehri AS, Abdelmoneam AM. Bonding quality of contemporary dental cements to sandblasted esthetic crown copings*. J Investig Clin Dent. 2012 May;3(2):142-7. Abo T, Uno S, Yoshiyama M, Yamada T, Hanada N. Microtensile bond strength of selfadhesive luting cements to ceramics. Int J Dent. 2012;2012:278623. › › › › › › › › › › › › › › › › › › › › Abou-Madina MM, Özcan M, Abdelaziz KM. 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APPROFONDIMENTO Le saldature e cenni di elettroerosione Con il termine saldatura si intende la giunzione stabile e rigida, mediante l’azione del calore, di parti metalliche di protesi o di apparecchiature ortodontiche. Le giunzioni metalliche possono essere suddivise in due gruppi: › saldature eterogene, quando l’unione fra le parti avviene per mezzo di un metallo o lega da apporto, detto saldame; › saldature autogene, quando la saldatura si realizza senza metallo da apporto, cioè con il materiale componente le parti stesse da unire, o con l’uso di un metallo dello stesso tipo di quello delle parti da collegare. L’elettroerosione è una tecnologia di lavorazione che utilizza le capacità erosive delle scariche elettriche. Saldatura eterogena (con metallo da apporto) Prevede l’uso di una lega per saldatura, di un fondente, di un antifondente e del calore; se la temperatura utilizzata durante la procedura è inferiore ai 425° si parla di “saldatura”, se è superiore ai 425° il termine più corretto è “brasatura” (figg. 19, 20). Il saldame (lega per saldatura) Requisiti ideali del saldame: › resistenza alla corrosione ed all’ossidazione da parte dei fluidi orali; › intervallo di fusione inferiore a quello della lega da saldare in modo che questa non fonda durante la procedura; › colore simile a quello della lega da unire. La differenza di colore è essenzialmente una questione estetica, però un’eccessiva discrepanza può indicare che la composi- FIG. 20 Saldatura eterogena di dispositivo ortodontico. zione delle leghe è molto diversa; bassa tensione superficiale: cioè facilità a scorrere fluidamente sulle superfici da saldare; › resistenza meccanica e durezza pari a quelle della lega da unire in modo da evitare rotture durante le forze masticatorie (la saldatura non deve essere un punto di debolezza); › assenza di disomogeneità superficiali, che comportano corrosione ed ossidazione, solitamente dovute ad errori tecnici. I saldami si dividono in due gruppi: morbidi e duri. Quelli morbidi sono leghe a base di stagno e piombo che, grazie al loro basso intervallo di fusione (circa 260°), vengono utilizzati con semplici strumenti come “ferro da saldatura”. Hanno buone caratteristiche meccaniche, ma la loro scarsa resistenza alla corrosione li rende inadatti all’uso in campo odontoiatrico. I saldami duri hanno temperature di fusione più elevate e presentano una maggiore durezza e resistenza alla trazione; per fonderli vengono utilizzati: cannello a gas, forno elettrico od altre apparecchiature atte al riscaldamento. I saldami duri utilizzati in campo odontoiatrico sono di due tipi: d’oro e d’argento. I primi (saldami a base d’oro) (fig. 21) sono leghe composte da oro, argento e rame con piccole quantità di stagno › FIG. 21 Saldame a base d’oro. FIG. 22 Saldame a base d’argento. FIG. 23 Applicazione del fondente (prima della saldatura). FIG. 24 Fondente a base di fluoruri per saldature su acciaio e leghe cromo-cobalto. e zinco. La composizione varia notevolmente da lega a lega. La quantità d’oro può variare dal 45 al 81% in peso, l’argento dall’8 al 37%, il rame dal 7 al 20%. Lo stagno e lo zinco, di norma intorno al 2-3%, vengono aggiunti per ridurre la temperatura di fusione ed aumentare la scorrevolezza. L’argento abbassa l’intervallo di fusione ed aumenta lo scorrimento. Il rame e l’argento insieme danno il colore simile a quello delle leghe da saldare. La temperatura di fusione dei saldami, inferiore a quella delle leghe da lavorazione e da colata, è più bassa per quelle con minor contenuto d’oro. L’intervallo di fusione varia da 745° a 870° C a seconda di quale lega si utilizzi. La resistenza alla trazione dei saldami a base d’oro è simile a quella delle leghe auree di tipo III secondo la classificazione A.D.A. I saldami duri a base d’argento (fig. 22) vengono usati per saldare l’ acciaio inossidabile e le leghe non nobili. Essi contengono argento dal 46 al 60% in peso, rame (15-30%) e zinco (15-20%),vengono inoltre aggiunte piccole quantità di stagno, cadmio o fosforo allo scopo di ridurre la temperatura di fusione. Queste leghe hanno un intervallo di fusione inferiore rispetto a quello dei saldami a base d’oro, che varia da 629°- per quelle che contengono cadmio - a 651° gradi C per quelle che ne sono prive. La mancanza di metalli nobili diminuisce la resistenza, nel tempo, alla corrosione ed ossidazione. Queste leghe sono utilizzate soprattutto in Ortodonzia per saldare elementi d’acciaio. I fondenti (flux) I fondenti vengono utilizzati per eliminare gli ossidi metallici presenti sulle superfici da saldare, per impedire l’ossidazione alle alte temperature del saldame e delle parti da unire (nel corso del riscaldamento) ed infine per facilitare lo scorrimento del saldame liquefatto diminuendo la sua tensione superficiale (fig. 23). Il componente principale è il borace (tetraborato di sodio) insieme all’acido borico, alla silice, alla polvere di carbone e al fluoruro di potassio. La funzione del borace è quella di reagire chimicamente con gli ossidi metallici e scioglierli dissolvendoli; l’acido borico diminuisce la temperatura di fusione del fondente e ne facilita lo scorrimento sulle superfici da saldare; la silice aumenta la viscosità del prodotto; la polvere di carbone sviluppando CO2 aiuta a sciogliere gli ossidi. I fluoruri, ben attivi nell’eliminare gli ossidi di cromo, sono presenti nei fondenti utilizzati per saldare gli acciai inossidabili e le leghe cromo-cobalto (fig. 24). FIG. 25 Fondente in pasta. FIG. 26 Modello in materiale refrattario con struttura per protesi fissa da saldare. FIG. 27 Applicazione del saldame durante la saldatura con cannello a gas propano/ossigeno. FIG. 28 Protesi fissa saldata. I fondenti sono disponibili in forma semi-liquida, pasta od in polvere. I più utilizzati sono quelli in pasta (fig. 25), costituiti per un terzo da fondente e per due terzi da vaselina. Quelli in polvere vengono per lo più utilizzati per le colate e le fusioni. devono essere unite, mediante sabbiatura con polvere di Al2O3 da 50/60µm. Gli antifondenti (antiflux) Per delimitare la zona della saldatura e per evitare che il saldame finisca in punti indesiderati si può utilizzare un materiale antifondente (antiflux) che deve essere applicato sulle superfici da unire prima di utilizzare il fondente ed il saldame. Il più comune è la grafite, cioè una matita con mina morbida, con la quale si “mascherano” (proteggono) le superfici che non devono essere saldate. Qualora si debbano eseguire riscaldamenti prolungati ad alta temperatura è preferibile utilizzare, come antifondente, l’ossido di ferro (rosso) od il carbonato di calcio (bianchetto) in soluzione acquosa od alcolica. È opportuno ricordare che alcune sostanze, come ad es. la cera, le resine acriliche od il grasso delle mani, possono agire da antifondenti ostacolando la distribuzione omogenea del flux sulle superfici. Per questo motivo prima di eseguire una saldatura è necessario pulire accuratamente le parti, che Tecniche di saldatura In campo odontoiatrico si utilizzano principalmente due tecniche di saldatura: a mano libera o con rivestimento. La saldatura a mano libera si usa soprattutto in ortodonzia per unire tra loro due fili o per assemblare le parti metalliche (in acciaio) degli apparecchi: le parti da saldare sono tenute a contatto manualmente, senza ausili meccanici, mentre si applica il flux, il calore ed il saldame. La saldatura con rivestimento è utilizzata in protesi: le parti da unire vengono immobilizzate su un modello ottenuto colando un rivestimento specifico per saldatura (fig. 26); dopo aver inserito il flux nella fessura di saldatura il modello viene pre-riscaldato in forno ad una temperatura tra i 480° ed i 600° C per circa 10 minuti, quindi si applica la fiamma (il calore) ed il saldame (fig. 27). A saldatura ultimata Tylman e Malone consigliano un graduale raffreddamento della giunzione metallica, prima di rimuovere il rivestimento, al fine di ottenere la massima durezza del metallo di apporto con minor deformazione (fig. 28). Secondo Leinfelder e. Lemons, FIG. 30 Particolare della zona riducente (zona blu scuro) della fiamma. FIG. 29 Bombole gas propano/ossigeno utilizzate per saldare. invece, il modello in materiale refrattario deve essere lasciato raffreddare sul banco per circa 5 minuti e poi immerso in acqua; secondo questi autori l’immediata immersione dopo la saldatura può causare distorsioni, invece il raffreddamento a temperatura ambiente senza immersione in acqua può provocare un eccessivo indurimento del saldame che diventa fragile. In entrambe le tecniche il calore è di solito prodotto da un cannello a gas propano mescolato con aria compressa od ossigeno (fig. 29) sfruttando la zona riducente o deossidante della fiamma, cioè quella colorata in blu scuro (fig. 30). Questa zona contiene idrogeno (H) non bruciato il quale a contatto con un ossido si combina con esso lasciando la superficie del metallo priva di ossidazioni. È opportuno non utilizzare l’estremità terminale della fiamma, nella quale la combustione è completa, e se utilizzata causa l’ossidazione del metallo. Un altro elemento importante è la distanza tra le strutture da saldare: uno spazio troppo ampio o una eccessiva vicinanza possono compromettere l’operazione; l’ideale è una distanza uniforme, tra 0,05 e 0,2 mm a pareti parallele, corrispondente all’incirca allo spessore di due fogli di carta. Saldature autogene Le saldature autogene sono anche definite saldature per fusione. Esse vengono eseguite portando a fusione le parti che devono essere collegate. L’esecuzione di queste saldature può essere effettuata senza apporto di metallo o con apporto di metallo della stessa natura di quello da saldare. Come metallo d’apporto è possibile preparare, con l’utilizzo della tecnica a cera persa, delle bacchette della stessa natura del metallo da saldare. Queste saldature sono impiegate per eseguire collegamenti, aggiunte e riparazioni sia di protesi dentarie fisse e rimovibili. Le tecniche con le quali vengono eseguite sono: › saldatura TIG, › saldatura al plasma, › puntatura, › saldatura laser. Saldatura TIG TIG (Tungsten Inert Gas) è un procedimento di saldatura ad arco infusibile di tungsteno con gas inerte, generalmente Argon o Elio usati separatamente o miscelati. Con questa tecnica il riscaldamento delle parti da saldare avviene tramite un arco elettrico che si forma tra un elettrodo di tungsteno e le parti stesse che sono avvolte dal gas inerte. L’elettrodo di tungsteno è detto infusibile perché non fonde durante la saldatura e si consuma molto lentamente (in campo non dentale vengono impiegati elettrodi fusibili). L’attrezzatura è composta dalle seguenti parti: torcia TIG, saldatrice, bombola di gas inerte. L’operatore impugna la torcia nella quale si trova l’elettrodo di tungsteno circondato da un condotto collegato alla saldatrice, attraverso il quale passa il gas. Dalla saldatrice diparte un secondo cavo che si collega ai pezzi in lavorazione, chiudendo il circuito elettrico, consente l’instaurarsi dell’arco elettrico. La saldatura viene eseguita in seguito alla formazione dell’arco elettrico tra l’estremità dell’elettrodo di tungsteno e le parti da saldare. Il gas avvolgendo la zona da saldare la protegge dall’ ossidazione. L’arco elettrico porta ad elevata temperatura le parti da saldare dilatandole a tal punto che nella fase di raffreddamento si uniscono. FIG. 31 Puntatrice. FIG. 32 Tecnica di puntatura. Saldatura al plasma mentre l’elettrodo funge da catodo, si forma un arco plasma con una concentrazione di calore che può raggiungere anche i 30.000 °C. È un procedimento di saldatura ad arco e può essere considerata un perfezionamento del sistema a TIG. La saldatura al plasma in campo dentale viene realizzata tramite degli impianti formati dalle seguenti parti: › torcia microplasma; › saldatrice dalla quale parte il cavo di collegamento alla torcia che contiene il condotto elettrico, il condotto per il gas plasmogeno, il condotto per il gas protettivo e il condotto per il liquido di raffreddamento per la torcia stessa. Da tale apparecchio inoltre si diparte il cavo di collegamento ai pezzi da saldare per la chiusura del circuito elettrico; › impianto di raffreddamento per la torcia tramite il quale viene inviato a quest’ultima attraverso la saldatrice, un idoneo liquido di raffreddamento; › bombola di gas plasmogeno costituito da Argon, Elio, Azoto e Idrogeno impiegati da soli o miscelati tra loro. Per plasma si intende un gas portato ad una temperatura elevata tale da far ionizzare gli atomi che lo costituiscono. Tali atomi quindi, si scindono in elettroni (ioni negativi) e ioni positivi cessando di essere elettricamente neutri; › bombola di gas di protezione, generalmente Argon con il 2/8% di Idrogeno. Nella saldatura al plasma si ottiene la fusione localizzata dei pezzi da saldare grazie al riscaldamento generato da un arco plasma che scocca tra un elettrodo infusibile di tungsteno ed i pezzi stessi. L’arco plasma è costituito dal gas plasmogeno che viene trasformato in plasma dalla torcia microplasma che contiene l’elettrodo di tungsteno. Dalla torcia fuoriesce un gas protettivo che protegge dall’ossidazione dell’aria i pezzi metallici da collegare. Avvicinando il pezzo da saldare che funge da anodo Puntatura Gli apparecchi per effettuare la puntatura vengono denominati puntatrici (fig. 31). Sono costituiti da: › trasformatore che converte la corrente da intensità debole e alto voltaggio, ad intensità elevata (può raggiungere i 18000 A) e basso voltaggio (2/8 Volt); › temporizzatore, che determina un passaggio di corrente anche per tempi brevissimi; › due elettrodi, di materiale ad elevata (per esempio rame) conducibilità termica ed elettrica a corpo cilindrico ed a punta tronco-conica o sferica, tra i quali vengono posizionati i pezzi da saldare (fig. 32). Questa saldatura viene utilizzata per saldare fogli di lamiere, in campo odontoiatrico trova impiego prevalentemente per la costruzione di strutture ortodontiche : “puntatura” di attacchi o cannule su bande. Per ottenere la fusione sotto pressione delle parti da unire si sfrutta l’effetto Joule. Fenomeno che determina, nel tempo, la fusione della parte da saldare, in quanto meno conduttrice rispetto alla elevata quantità di corrente erogata dagli elettrodi. La produzione di calore (Q) avviene in tutti i conduttori ed è direttamente proporzionale alla resistenza (R) del mezzo conduttore, per il quadrato dell’intensità (I)1 della corrente che attraversa il conduttore e al tempo applicato (t): Q = R . I2 . t Essendo presente tra le superfici da saldare e gli elettrodi uno strato di aria che determina una notevole resistenza elettrica all’attraversamento della corrente, si FIG. 33 Saldatrice laser. FIG. 34 Saldatura mediante laser. verifica un notevole effetto Joule. L’effetto Joule è di intensità elevata tra le due superfici da saldare in quanto tra esse è maggiore lo strato d’aria. In tale zona si raggiungerà una maggiore temperatura che porterà alla fusione dei due pezzi che si uniscono ottenendo una saldatura puntiforme senza apporto di metallo. Per ottenere una corretta puntatura il tempo deve essere molto ridotto per evitare la dispersione termica che si può produrre nel metallo. al neodimio o rubino sintetico) oppure un gas (anidride carbonica, elio, neon) o un liquido (il materiale attivo è presente in soluzione). La saldatrice laser dentale è costituita dalle seguenti parti: › generatore laser in cui il materiale attivo viene stimolato tramite un opportuno sistema di eccitazione, in grado di fornire al materiale attivo l’energia richiesta per l’emissione della luce laser; › sistema di focalizzazione costituito da un sistema ottico che permette di ottenere un’area di piccole dimensioni in uscita dal generatore, nella quale si concentra tutta la potenza del fascio laser; › sistema di alimentazione per il gas protettivo; › stereomicroscopio per la corretta collocazione del punto in cui deve essere eseguita la saldatura. › apparecchiature varie per alimentazione elettrica, raffreddamento, regolazioni ecc. (fig. 33). La saldatrice viene opportunamente regolata rispetto alla lega da saldare i cui pezzi vengono accostati e portati sotto lo stereomicroscopio. Tramite quest’ultimo, i pezzi vengono collocati in corrispondenza della traiettoria del fascio laser. Abbassando un pedale si attiva dapprima il getto di gas protettivo, quindi l’impulso laser. Quest’ultimo è di durata molto breve e fonde localmente in un’area molto ristretta le parti accostate, le quali dilatandosi si uniscono, e con il successivo raffreddamento rimangono collegate. Questo procedimento viene definito “punto di saldatura”. Le parti vengono spostate leggermente e si invia un secondo impulso in prossimità del precedente e così via sino al completamento della saldatura. La velocità della saldatura raggiunge i 20-30 cm/minuto con una profondità di penetrazione di circa 2 mm (fig. 34). La saldatura al laser offre grossi vantaggi legati al fatto che rende possibili saldature tra leghe preziose e non Saldatura al laser Uno dei più moderni apparecchi realizzati dalla tecnologia, per effettuare saldature, è l’apparecchio laser. Laser è l’acronimo di “Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation”, amplificazione di luce mediante emissione stimolata dalla radiazione” Il raggio laser luminoso passa attraverso l’asse geometrico di un rubino che lo concentra rendendolo monocromatico, coerente proiettandolo nella zona interessata. È costituito da un fascio di radiazioni elettromagnetiche identiche, collimate l’una con l’altra in modo da essere parallele nella loro direzione di propagazione. Esistono due tipi di generatori di raggi laser: › ad impulsi, tipo Nd-YAG (Neodymium-doped Yttrium Alluminium Garnet) usato per applicazioni industriali, ma sconsigliato nell’uso odontoiatrico perché determina porosità nelle saldature; › tipo CW Nd-YAG (Continuos Wave Neodymium-doped Alluminium Garnet) ad emissione continua, sicuramente da preferire in odontoiatria. Inoltre a seconda della natura del materiale attivo i laser possono essere classificati in laser allo stato solido, laser a gas, laser a stato liquido. Il materiale attivo può essere una sostanza solida (vetro FIG. 35 Macchinario per elettroerosione. FIG. 36 Tecnica di elettroerosione. Si può notare l’olio dielettrico di preziose, determina un aumento della durezza e resistenza della zona saldata, riduce il calore nelle zone prossime alla saldatura, offre una maggior precisione rispetto ai metodi tradizionali e in caso di lega non nobile al Cromo-cobalto (Cr-Co), riduce i tempi di realizzazione della saldatura. Per queste ragioni ha maggior possibilità di sostituire, nei laboratori odontotecnici, le tecniche di saldatura tradizionali. alla forma dell’elettrodo. La scelta del materiale dell’elettrodo e il controllo delle caratteristiche delle scariche permettono di ottenere che l’erosione dell’elettrodo (usura dell’utensile) sia molto minore dell’erosione del pezzo (lavorazione). Man mano che il pezzo viene eroso, l’elettrodo viene fatto avanzare, fino al completamento della lavorazione. Durante la lavorazione, l’elettrodo non entra mai in contatto con il pezzo; ciò creerebbe un cortocircuito invece delle scintille che sono la causa dell’erosione. La tecnica dell’elettroerosione viene distinta in tre metodi, dettati dall’utilizzo: › “a filo” per tagliare i metalli; › “a tuffo” per forare, mediante forme tridimensionali non cilindriche; › “a tuffo e rotazione” per creare fori cilindrici. In odontotecnica viene utilizzato il sistema a tuffo per realizzare chiavistelli protesici, attacchi di precisione e per la passivazione di fusioni in implantoprotesi. La metodica a tuffo e rotazione viene utilizzata per la realizzazione di fori calibrati per l’applicazione di perni frizionante. Cenni di elettroerosione Nel 1700 Sir Joseph Priestij grande osservatore della natura e dei fenomeni naturali, dall’osservazione dei fulmini intuì l’elettroerosione naturale. Iniziò, quindi, a studiare il fenomeno della scarica elettrica e il suo effetto erosivo sui conduttori metallici. All’inizio degli anni ’50 i fratelli russi Boris e Natalya Lazarenko realizzarono la prima macchina ad erosione elettronica. Negli anni a seguire l’evoluzione della tecnologia e l’avvento dell’informatica hanno permesso di creare macchine per elettroerosione sempre più sofisticate. Da molti anni viene utilizzata nell’industria degli utensili e degli stampi e ormai da diverso tempo, è entrata in uso anche in campo odontoiatrico (fig. 35). L’elettroerosione può essere definita come un processo di rimozione del metallo per mezzo di un elettrodo che produce scintille in un campo magnetico. L’elettrodo (positivo) lavora sull’oggetto così che ogni scintilla asporta, come se fosse un minutissimo tagliente, un truciolo microscopico a forma di sfera. La zona del materiale sottoposta ad impulsi di corrente brevi e concentrati, viene distrutta localmente: questo fenomeno viene definito “effetto elettroerosivo”. Il pezzo viene eroso in modo complementare rispetto raffreddamento. Fenomeno dell’elettroerosione Un modello termoelettrico è stato proposto per spiegare come agiscono calore ed elettricità per rimuovere particelle di metallo in modo estremamente preciso. La lavorazione viene eseguita in condizioni adeguatamente controllate per mezzo di un olio fluido denominato olio dielettrico (fig. 36). Le funzioni di quest’ultimo sono: conduttore, refrigerante, isolante e di asporto delle particelle di metallo prodotte dalle scintille. La prima fase dell’elettroerosione inizia con l’aumento del voltaggio applicato all’elettrodo e avvicinando l’elet- FIG. 37 Aumentando il voltaggio il fluido dielettrico si decompone in particelle ionizzate che si dirigono verso la parte del campo elettrico che presenta intensità più elevata (punto più vicino tra l’elettrodo e il pezzo metallico da lavorare); di norma l’elettrodo è positivo ed il pezzo da lavorare negativo. La forte intensità del campo elettrico accelera alcuni elettroni del pezzo che attraversano il dielettrico, questo genera un effetto a cascata che frantuma l’isolamento del dielettrico stesso proprio in corrispondenza del punto dove il campo elettrico è più elevato. Si crea così un canale a bassa resistenza dove la corrente elettrica può passare. trodo stesso al pezzo metallico da lavorare. All’aumentare del voltaggio si genera un campo elettrico di elevata intensità nella zona prossima tra elettrodo e pezzo da lavorare. Contemporaneamente l’olio dielettrico si decompone in particelle ionizzate che sono attratte nella zona in cui l’intensità del campo elettrico è massima. Le particelle accumulandosi superano l’effetto isolante del fluido dielettrico dando origine ad un flusso di corrente, il voltaggio diminuisce ed aumenta il calore (fig. 37). Tra elettrodo e pezzo da lavorare si forma un canale costituito da materiale (fluido dielettrico, frustoli) termovaporizzato il cui accumulo dà origine ad una bolla di vapore (fig. 38). La corrente aumenta creando nel canale un intenso campo elettromagnetico costituito da ioni che ostacolano l’espansione della bolla di vapore verso l’esterno (fig. 39). Quando il flusso di corrente ed il voltaggio si sono stabilizzati ed il calore e la pressione all’interno della bolla hanno raggiunto i valori massimi, si ha la vaporizzazione della parte del pezzo metallico da lavorare. A ciclo terminato il flusso di corrente il voltaggio e la temperatura si riducono drasticamente dando origine all’esplosione della bolla di vapore con eliminazione dei residui (sfridi) di lavorazione e di piccole parti di residui fusi (sfridi). Ciò che rimane della bolla sale sulla superficie del flui- FIG. 38 A voltaggio massimo le particelle ionizzate formano un canale dove il campo elettrico è più forte, riuscendo a superare l’effetto isolante del liquido dielettrico e stabilendo una corrente (formazione del flusso di corrente con aumento del calore e diminuzione del voltaggio). Stabilizzata la corrente, la diminuzione del voltaggio e l’aumento del calore danno origine alla formazione di una bolla di vapore. La bolla aumenta all’interno del sistema, formando un canale composto da fluido dielettrico termovaporizzato. Quando l’elettrodo e pezzo sono vicini, tra i due si innescano delle scariche (scintille) che erodono il pezzo metallico in modo complementare rispetto alla forma dell’elettrodo. La scelta del materiale dell’elettrodo e il controllo delle caratteristiche delle scariche fanno si che l’erosione dell’elettrodo sia minore dell’erosione del pezzo. Man mano che il pezzo viene eroso, l’elettrodo viene fatto avanzare, fino al completamento della lavorazione. Durante la lavorazione, l’elettrodo non entra mai in contatto con il pezzo; ciò creerebbe un cortocircuito invece delle scintille che sono la causa dell’erosione. FIG. 39 L’aumento dell’intensità del campo elettromagnetico riduce l’espansione della bolla. Corrente e voltaggio sono stabilizzati, calore e pressione raggiungono livelli massimi. Parte del pezzo da lavorare è vaporizzata dalla corrente intensa, la restante parte del metallo resta allo stato fuso tenuto in sede dalla pressione della bolla. Il termine del ciclo corrisponde ad una rapida diminuzione del voltaggio, del flusso di corrente e della temperatura causando l’esplosione della bolla, espulsione del metallo fuso ed eliminazione dei residui del fluido dielettrico. FIG. 41 A FIG. 40 Ciò che resta della bolla di vapore sale sulla superficie del fluido dielettrico e il metallo espulso forma delle minuscole sfere disperse nel liquido di raffreddamento. do dielettrico (fig. 40). La superficie del pezzo lavorato viene raffreddata dal fluido dielettrico che elimina anche i residui presenti. Si noti che per ogni singola fase si attua una sola sequenza di scintille indipendentemente dalla grandezza dell’elettrodo, la durata della scarica è di circa un milionesimo di secondo mentre la temperatura degli elettrodi raggiunge i 4000 °C con una profondità di penetrazione di circa 1 mm/ora. L’elettrodo è fondamentale nel determinare la velocità e la precisione del processo di elettroerosione. Gli elettrodi possono essere in metallo e in grafite. La scelta del materiale dell’elettrodo si basa su diversi fattori: velocità di rimozione del metallo, resistenza all’usura, finitura superficiale, lavorabilità, costo. FIG. 41 B Vantaggi La tecnica elettroerosiva offre molteplici vantaggi. La durezza del metallo risulta ininfluente in quanto è un processo termico. Si può applicare ad oggetti con caratteristiche fisico-chimiche simili in quanto non essendo presenti forze meccaniche non si verificano distorsioni. È una tecnica indicata per tutti i metalli conduttori di elettricità e per leghe metalliche sia vili che preziose, oltre che il titanio. Permette l’eliminazione della corrosione da contatto galvanico favorendo così una maggiore biocompatibilità. È possibile eseguire il processo elettroerosivo anche dopo che la struttura metallica è stata ceramizzata (figg. 41 A-D). FIGG. 41 A-C Esempi di strutture ottenute tramite il processo di elettroerosione. FIG. 41 D Particolare della struttura implantoprotesica elettroerosa. FIG. 41 C FIG. 41 D Consente la creazione di forme, superfici, angoli, cavità di eccezionale precisione e perfettamente rifinite, non ottenibili con i comuni strumenti rotanti. La precisione di erosione è di 2,5 µm, le superfici che si ottengono sono lisce e prive di sbavature. Svantaggi Gli svantaggi sono la lentezza nella lavorazione e un elevato costo. Applicazioni cliniche L’elettroerosione permette di realizzare, attraverso la sottrazione di metallo, attacchi di precisione direttamente da una monofusione, inoltre utilizzando il metodo di saldatura autogeno (laser e plasma) per l’assemblaggio, potremo ottenere protesi combinate e strutture su impianti in un unico metallo. L’elettroerosione è una tecnica che permette di ottenere una buona precisione in implantoprotesi. Uno studio effettuato da Acocella et al, riferisce che la tecnica elettroerosiva annulla le imprecisioni tra struttura metallica e pilastri protesici implantari rendendo più passivo il sistema. Secondo questo lavoro il tasso di sopravvivenza a quattro anni degli impianti che supportano una struttura metallica elettroerosa è del 99,5%. Bibliografia › › › › › › › › › › › Acocella A, Ercoli C, Geminiani A, Feng C, Billi M, Acocella G, Giannini D, Sacco R. Clinical Evaluation of Immediate Loading of Electroeroded Screw-Retained Titanium Fixed Prostheses Supported by Tilted Implant: A Multicenter Retrospective Study. Clinical Implant Dentistry and Related Research 2012;14(1):98-108. Brockhurst P.J., Pham H.L. Orthodontic silver brazing alloys, Aust Orthod J. 1989 Oct11(2):96-9. Byrne G. Soldering in Prostodontics – An overview, part I. Journal of Prostodontics 2011;20(3):233-243. Pieroni E. Materiali per la protesi dentaria. In: Materiali dentari. cap VII. Rimini: Maggioli Ed; 1982. p. 153. Simionato F. Saldatura dei metalli e materiali relativi. In: Scienza dei materiali dentali, volume secondo. cap XVIII. Padova: Ed. Piccin Nuova Libraria; 1996. pp 581-590. Aronna G. Materiali da laboratorio. In: Materiali dentari. cap III. Napoli: Ed: Libreria Martinucci 1983. pp. 170-174. Pappalardo G. Metalli. In: Manuale di materiali dentali. cap X. Catania: Ed: Cooperativa Universitaria Libraria Catanese; 1984. pp. 237-250. 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Dental Labor 1997; IV: 327-336. CAPITOLO 10 MATERIALI PER LA TERAPIA PROTESICA 10.3.8 Ceramiche gold standard Sin dall’introduzione delle procedure di cottura della ceramica su metallo (porcelain-fused-to-metal o PFM) verso la metà del secolo scorso, i restauri in metallo-ceramica hanno rappresentato e rappresentano tuttora il “gold standard” di riferimento in odontoiatria protesica, grazie alle ottimali proprietà meccaniche, al soddisfacente rendimento estetico ed all’adattamento marginale ed interno pienamente rispondente ai parametri internazionali di accettabilità clinica. Inoltre, nel corso dei decenni, le corone singole ed i ponti in metallo-ceramica sono divenuti sempre più utilizzati in ambito protesico in virtù della predicibilità intraorale che ha fatto registrare risultati clinici ottimali in diversi studi scientifici a lungo termine, dell’accuratezza delle convenzionali tecniche di fusione e dell’incidenza trascurabile di reazioni avverse causate da metalli nobili. Ciò nonostante, le procedure di laboratorio che riguardano il rivestimento dei modellati in cera e la fusione delle leghe metalliche coinvolgono un gran numero di variabili tecniche, passaggi operativi e cicli di cottura che rendono la qualità del prodotto finale altamente operatore-sensibile. Inoltre, la struttura metallica e lo strato di ceramica opacizzante necessaria al suo mascheramento rappresentano un limite per il raggiungimento di un risultato estetico ottimale, dal momento che, ostacolando il passaggio della luce, annullano gli effetti di traslucenza, in particolar modo quando la protesi deve riprodurre un croma dentario piuttosto chiaro; pertanto, a differenza dei tessuti dentari che presentano un elevato grado di traslucenza, i restauri in metallo-ceramica possono solo assorbire o riflettere la luce incidente. A ciò si aggiunga che, da un punto di vista economico, il costo dei metalli preziosi è sensibilmente aumentato negli ultimi anni. Alla luce di quanto sopra esposto, sin dall’introduzione in odontoiatria delle corone a giacca in sola ceramica verso la fine del XIX secolo, le ceramiche integrali prive di struttura metallica di supporto sono state considerate i materiali da restauro più promettenti, in virtù dei notevoli vantaggi protesici: estetica ottimale, stabilità cromatica, elevata biocompatibilità, scarsa ritenzione di placca ed assorbimento di fluidi, elevata durezza superficiale, ottima resistenza all’usura, bassa conduttività termica ed inerzia chimica. Tuttavia, le prime ceramiche integrali incontrarono una certa riluttanza da parte dei clinici nell’utilizzo routinario a causa di fattori che ne limitavano la predicibilità e la longevità cliniche, legati per lo più ad una limitata resistenza strutturale di tali materiali: fragilità, scarsa resistenza alla trazione, limitata resistenza alla frattura, facilità della propagazione dei microcracks, scarso adattamento marginale e limitata riparabilità. Negli ultimi 30 anni, la crescente richiesta da parte dei pazienti di restauri ad elevato rendimento estetico ha portato allo sviluppo di innovativi materiali in ceramica integrale, le cui caratteristiche meccaniche sono state notevolmente migliorate dalle aziende produttrici, così da limitare l’incidenza delle complicanze meccaniche ed incrementare la longevità dei manufatti. In alcuni casi, tuttavia, la pressione commerciale delle industrie ed il crescente entusiasmo nella comunità odontoiatrica per gli indubbi vantaggi estetici dei nuovi materiali hanno condotto alla precoce introduzione nel mercato di materiali inaffidabili e dalle performances insoddisfacenti, non testati a sufficienza nelle fasi preliminari di post-produzione, che hanno fatto registrare un elevato numero di insuccessi clinici. Ad oggi, esiste in letteratura un ampio numero di studi e dati scientifici che hanno analizzato le proprietà meccaniche e cliniche delle ceramiche integrali, facendo luce sulle indicazioni e controindicazioni di tali materiali e fornendo valide informazioni in merito all’affidabilità dei relativi sistemi di produzione. Una ceramica integrale ideale per l’utilizzo in protesi dentaria dovrebbe coniugare caratteristiche estetiche eccellenti, quali traslucenza e colore naturale simile a quello di un elemento dentario, con proprietà meccaniche ottimali, come buona resistenza a flessione (σ) ed a frattura e limitata propagazione dei microcracks in condizioni di carico funzionale e parafunzionale, in modo da garantire una appropriata longevità intraorale. Purtroppo, ad oggi, nessuna delle ceramiche integrali disponibili per uso odontoiatrico risponde a tutti questi requisiti e, parimenti, nessuno di tali materiali trova indicazione universale sia nei settori anteriori che in quelli posteriori. sInnanzitutto, va sottolineato che non tutte le ceramiche dentali mostrano caratteristiche estetiche similmente favorevoli: attualmente, si riscontra una proporzione pressochè inversa tra le proprietà ottiche e le caratteristiche meccaniche di tali materiali. 10.3.8.1 Ceramiche vetrose Le ceramiche feldspatiche mostrano generalmente un’estetica eccellente insieme ad una ottimale biocompatibilità ed una soddisfacente resistenza meccanica a compressione; tuttavia, tali ceramiche si fratturano facil- FIG. 45 Faccette in ceramica feldspatica: FIG. 46 Faccette in ceramica feldspatica: FIG. 47 Faccette in ceramica feldspatica: FIG. 48 Faccette in ceramica feldspatica: visione postoperatoria degli elementi 11 e 21 restaurati con faccette adesive in ceramica feldspatica. FIG. 49 Faccette in pressoceramica: visione preoperatoria degli elementi 11 e 21 interessati da infrazioni e fratture coesive dello smalto e malposizionati. FIG. 50 Faccette in pressoceramica: visione FIG. 51 Faccette in pressoceramica: visione palatale dei manufatti protesici sul modello di lavoro. FIG. 52 Faccette in pressoceramica: visione postoperatoria degli elementi 11 e 21 restaurati con faccette adesive in ceramica pressata. visione preoperatoria degli elementi 11 e 21 interessati da severe erosioni dello smalto. visione vestibolare dei manufatti protesici. mente se sottoposte a carichi di taglio, a causa della loro scarsa resistenza tensile. Un primo tentativo di rinforzare le ceramiche feldspatiche fu effettuato con successo verso la metà degli anni ’60 da McLean e Hughes che introdussero fino al 50% di polvere di alluminio nelle ceramiche dentali, rinforzandole notevolmente. Attualmente, le migliori proprietà estetiche sono ancora appannaggio delle ceramiche vetrose, che mostrano un’ottimale trasmissione della luce, elevata traslucenza e colore naturale, molto simile agli elementi dentari anche per croma molto chiari (figg. 45-48). Le prime ceramiche a base vetrosa, come il Dicor (Dentsply, USA), oggi non più disponibile sul mercato, ottennero un successo limi- visione palatale dei manufatti protesici. vestibolare dei manufatti protesici sul modello di lavoro. tato a causa di percentuali di sopravvivenza modeste; diversamente, le ceramiche vetrose rinforzate con leucite (IPS Empress, Ivoclar Vivadent, Liechtenstein) sono state ampiamente apprezzate ed utilizzate per più di 20 anni in virtù delle eccellenti caratteristiche estetiche. Nei blocchetti di Empress, cristalli di leucite delle dimensioni di pochi micron vengono inseriti in una matrice vetrosa; successivamente, il modellato in cera del restauro viene rivestito e fuso mentre la ceramica vetrosa viene pressata nello stampo ad elevata temperatura, secondo una lavorazione denominata “hot pressed” (figg. 49-52). A causa dei valori di resistenza a flessione piuttosto limitati (σ=100-120 MPa), le ceramiche rinforzate con cristalli di leucite trovano indicazione solo nei settori anteriori ad elevato impatto estetico, per la realizzazione di corone singole e faccette. Studi a lungo termine (fino ad 11 anni di follow-up) su corone singole in IPS Empress hanno riportato tassi di sopravvivenza pari al 98,9% nei settori anteriori e dell’84,4% in quelli posteriori. Per quanto concerne le faccette, l’IPS Empress ha fatto registrare percentuali di successo del 98,8% a 6 anni, paragonabili agli ottimi risultati riscontrati per le faccette in ceramica feldspatica (91%-94% a 12 anni). 10.3.8.2 Ceramiche a base di disilicato di litio FIG. 53 Faccette in disilicato di litio: visione pre-operatoria degli elementi 11, 12, 21 e 22 interessati da ipoplasia dello smalto, trattati con pregressi restauri incongrui in resina composita e malposizionati. Un miglioramento significativo nelle prestazioni cliniche delle ceramiche integrali è stato ottenuto con le ceramiche vetrose a base di disilicato di litio rivestite con ceramiche da stratificazione contenenti fluoroapatite, come l’IPS Empress 2 (Ivoclar Vivadent, Liechetenstein) (figg. 53-55). Tali ceramiche presentano una resistenza alla flessione nettamente superiore rispetto alle precedenti (350 MPa) ed un rendimento estetico molto naturale, grazie all’elevata traslucenza. Grazie a tali proprietà, le ceramiche vetrose a base di disilicato di litio sono state proposte per la realizzazione di corone singole con esclusione dei settori molari (figg. 56, 57) e di ponti a corta travata (fino a 3 elementi) nei settori anteriori. Negli ultimi anni, inoltre, le proprietà sia meccaniche che ottiche di tali ceramiche sono state ulteriormente migliorate con implementazioni tecnologiche nei processi di produzione che hanno portato all’introduzione sul mercato dell’IPS e.max Press (Ivoclar Vivadent, Liechetenstein). Dopo 5 anni di funzione clinica, sono state riportate elevate percentuali di successo dal 95% al 100% per le corone singole; risultati meno confortanti e molto più discordanti, invece, sono stati riscontrati per i ponti in IPS Empress 2, con tassi di sopravvivenza variabili tra il 50% ed il 93% a 2 anni ed del 70% dopo 5 anni. FIG. 54 Faccette in disilicato di litio: preparazione minimamente invasiva per faccette in ceramica. FIG. 55 Faccette in disilicato di litio: visione post-operatoria degli elementi 11, 12, 21 e 22 restaurati con faccette adesive in disilicato di litio. FIG. 56 Corone in disilicato di litio: visione pre-operatoria di dentatura FIG. 57 Corone in disilicato di litio: visione post-operatoria degli elementi 11, 12, 13, 21, 22 e 23 restaurati con corone singole in disilicato di litio (faccette in ceramica feldspatica sul gruppo frontale inferiore). interessata da severa fluorosi con pigmentazioni brune e trattata con pregressi restauri incongrui in resina composita. 10.3.8.3 Ceramiche ad elevata resistenza infiltrate con vetro Un ulteriore miglioramento nelle proprietà meccaniche dei restauri in ceramica integrale è stato ottenuto con l’introduzione dei sistemi ceramici infiltrati con vetro ad elevata resistenza, sviluppati nei tardi anni ’80 con la creazione di In-Ceram Alumina, In-Ceram Spinell ed In-Ceram Zirconia (Vita Zahnfabrik, Germania). Tutti questi ossidi ceramici permettono di realizzare di strutture protesiche ad elevata stabilità per corone singole e ponti di 3 elementi mediante la tecnica definita “slip-casting”: una miscela semiliquida contenente ossidi metallici fino all’80% in peso, quali Al2O3 (In-Ceram Alumina), MgAl2O4 (In-Ceram Spinell) ed Al2O3 + ZrO2 (In-Ceram Zirconia), viene sinterizzata su un modello refrattario, creando una cappetta in ossido ceramico poroso che viene sottoposta ad un ulteriore ciclo di cottura con infiltrazione di vetro di lantano. Mediante tale lavorazione, la resistenza alla flessione e la robustezza del framework risultano significativamente aumentate: il vetro infiltrato colma le microporosità della matrice, riducendo il rischio di microcracks. Infine, il materiale da rivestimento estetico, quale una ceramica feldspatica, viene stratificato a copertura della struttura protesica. L’In-Ceram Alumina (con una resistenza alla flessione pari a circa 350-500 MPa) è stata disponibile sul mercato per circa 20 anni, riscontrando il favore dei clinici per il buon connubio tra proprietà meccaniche e caratteristiche estetiche. Studi con follow-up variabili tra 3 e 7 anni, hanno riportato percentuali di sopravvivenza di corone singole in In-Ceram Alumina tra il 94% ed il 99,1%, con complicanze meccaniche più frequenti nei settori posteriori (chipping, fratture a tutto spessore). Una tendenza analoga è stata riscontrata dopo 3 anni di funzione clinica per i ponti posteriori di 3 elementi in In-Ceram Alumina, che hanno fatto registrare una sopravvivenza dell’83% mostrando prevalentemente fratture a livello dei connettori, rispetto a quelli cementati nei settori anteriori, che hanno fatto registrare una sopravvivenza del 100%. Studi con periodi osservazionali di maggior durata hanno mostrato percentuali di sopravvivenza pari al 73,9% a 5 anni e dell’88% a 10 anni per i ponti di 3 elementi in InCeram Alumina. L’In-Ceram Spinell è caratterizzata da valori di resistenza alla flessione lievemente inferiori (350-400 MPa) rispetto alle altre ceramiche ad infiltrazione vetrosa ma presenta migliori proprietà ottiche, quali elevata traslucenza ed eccellente diffusione della luce. Il suo impiego è stato limitato alle corone singole nei settori anteriori con buone percentuali di sopravvivenza (97,5% dopo 5 anni). L’In-Ceram Zirconia è una ceramica vetro-infiltrata alluminosa rinforzata con zirconia (ZTA), in cui, per la prima volta, l’ossido di zirconio è stato utilizzato in una ceramica dentale; come riportato in seguito, grazie alla sua natura metastabile, la zirconia è un materiale ceramico ad elevate prestazioni. I nuclei ad alta resistenza sono costituiti per il 67% in peso da ossido di alluminio e per il restante 33% da 12mol% ossido di zirconio parzialmente stabilizzato con cerio, in modo che i cristalli di zirconia (dimen- sione ~ 1 µm) siano immersi in una matrice alluminosa, creando una struttura ad elevata tenacità e resistenza alla flessione (σ=400-800 MPa). Eventuali microcracks all’interno del materiale possono innescare una trasformazione del reticolo cristallino della zirconia definita “transformation toughening” (irrobustimento da trasformazione), in modo che l’estremità di una cricca tenda a propagarsi nella matrice alluminosa circondata dai cristalli di zirconia trasformati. La ZTA può essere fabbricata con due differenti processi: la lavorazione meccanica allo stato verde (soft machining), che prevede la fresatura industriale di blocchi ceramici parzialmente sinterizzati, e lo slip-casting. Quest’ultima tecnica offre il vantaggio di contrazioni più limitate ma presenta maggiori porosità e minori proprietà meccaniche rispetto alla zirconia tetragonale policristallina parzialmente stabilizzata con Ittrio (3Y-TZP), che rappresenta, ad oggi, la ceramica a base di zirconia più resistente e comunemente utilizzata. Inoltre, la stabilizzazione con ossido di cerio fornisce una migliore stabilità termica e resistenza alla degradazione a bassa temperatura (Low Temperature Degradation o LTD) rispetto all’Y-TZP. Secondo le indicazioni dei produttori, la ZTA è indicata per ponti di 3 elementi nei settori posteriori (percentuale di sopravvivenza a 3 anni del 94,5%) ma mostra intensa opacità e bassa traslucenza. Sebbene fornisca un valido effetto di mascheramento in presenza di denti scuri o macchiati, la ZTA non è indicata nei casi ad elevata valenza estetica. 10.3.8.4 Ceramiche a base di allumina Oltre all’infiltrazione vetrosa mediante slip-casting, un’altra tecnica di produzione dei restauri alluminosi è la processazione industriale mediante CAD-CAM (Computer Aided Design-Computer Aided Machining) di blocchi di allumina pura densamente sinterizzata (Procera AllCeram, Nobel Biocare AB, Goteborg Sweden), introdotta negli anni ’90 ed utilizzata per la fabbricazione di corone singole (figg. 58, 59) e ponti anteriori fino a 3 elementi. Il core di Procera AllCeram è realizzato per mezzo della compattazione industriale di polvere di ossido di alluminio puro su un modello refrattario e sovradimensionato dell’elemento da protesizzare ottenuto a partire da una scansione del modello di lavoro realizzato nel laboratorio odontotecnico. Successivamente, l’allumina così compattata viene fresata mediante macchinari a controllo numerico che sagomano la superficie esterna del core, poi sinterizzato ad elevata densità. Il prodotto finito è una struttura in ceramica integrale senza leucite, costituita per il 99.9% da allumina policristallina, rivestita con ceramica feldspatica a basso punto di fusione. I cores in Procera AllCeram sono caratterizzati da una maggiore resistenza alla flessione rispetto alla ceramica alluminosa pre-sinterizzata ed infiltrata con vetro; ciò giustifica le buone caratteristiche meccaniche e l’elevata resistenza a frattura, mantenendo una buona traslucenza ed opalescenza. Per quanto riguarda l’adattamento marginale, i gaps registrati sono compresi tra FIG. 58 Corone singole in allumina: visione preoperatoria di elemento 11 con pregresso restauro protesico incongruo ed elemento 21 interessato da discromia con necessità di copertura coronale completa a seguito di terapia endodontica. FIG. 59 Corone singole in allumina: visione postoperatoria degli elementi 11 e 21 protesizzati con corone singole in allumina-ceramica. 60 e 80 µm, dimostrando una precisione protesica clinicamente accettabile ed una valida integrità marginale. Recenti studi hanno mostrato che l’utilizzo di cemento resinoso con corone singole in Procera AllCeram si associa ad una minore percentuale di complicazioni meccaniche sia su denti che su impianti, con tassi cumulativi di sopravvivenza e successo pari rispettivamente al 95,2% e 90,9% dopo 6 anni di funzione. Altri autori hanno osservato microinfiltrazioni quando le strutture in ossido di alluminio vengono sabbiate e silanizzate prima della cementazione. Negli ultimi anni diversi studi hanno riportato buoni risultati clinici con corone singole in allumina policristallina sinterizzata. Sono stati registrati tassi cumulativi di sopravvivenza del 97,7% e 93,5% e percentuali cumulative di successo del 97,7% e 92,2% rispettivamente dopo 5 e 10 anni. Un recente studio retrospettivo su corone singole in allumina ha riportato, nei settori estetici, tassi di successo del 100% su denti naturali e del 98.3% su impianti dopo 4 anni di funzione nei settori posteriori, invece, sono state riscontrate percentuali di sopravvivenza del 98,8% a 7 anni. Da questi dati, si può dedurre che le corone in allumina Procera AllCeram possono rappresentare soluzioni cliniche affidabili e ad alta resistenza nei settori anteriori, sia su denti che su impianti, prevalentemente in condizioni ad elevato stress nelle quali le tradizionali ceramiche vetrose più traslucenti ed estetiche potrebbero fallire. Al contrario, alcune critiche sono state sollevate riguardo l’utilizzo clinico delle faccette realizzate in allumina policristallina ad alta densità. Uno studio con Analisi tridimensionale agli Elementi Finiti (FEA) è stato condotto al fine di valutare il comportamento biomeccanico di faccette in ceramica feldspatica rispetto a quelle in allumina; i risultati hanno mostrato differenti performances in termini di deformazioni elastiche e distribuzione degli stress, in base alle quali le ceramiche feldspatiche hanno simulato meglio le caratteristiche biomeccaniche dello smalto naturale. Di contro, l’allumina resiste in maniera significativa alle deformazioni ma determina elevate concentrazioni di stress a livello dell’interfaccia adesiva, influenzando negativamente le performances cliniche dell’agente adesivo e del cemento resinoso, con elevato rischio di fallimento dell’adesione. Un altro svantaggio per l’utilizzo di tale ceramica per la realizzazione di faccette è che l’allumina densamente sinterizzata non è mordenzabile e la predicibilità dell’adesione ai tessuti dentari rimane, ad oggi, controversa. 10.3.8.5 Ceramiche a base di zirconia Sin da quando è stata introdotto in Odontoiatria, il biossido di zirconio policristallino (zirconia) è risultato particolarmente interessante in Protesi, grazie alle sue eccellenti proprietà meccaniche ed estetiche in confronto alla metallo-ceramica. La zirconia è chimicamente un ossido e tecnologicamente un materiale ceramico, non solubile in acqua, non citotossico e che non favorisce l’adesione batterica, minore rispetto a quella su titanio, come dimostrato in studi sia in vitro che in vivo; inoltre, mostra una favorevole radiopacità ed una ridotta suscettibilità alla corrosione. La zirconia pura è polimorfica ed allotropica alla pressione ambientale, presentando tre forme cristallografiche a differenti temperature: cubica (c) (da 2680ºC, il punto di fusione, a 2370ºC), tetragonale (t) (da 2370ºC a 1170ºC) e monoclina (m) (da 1170ºC a temperatura ambiente). Dopo la sinterizzazione industriale del materiale, nella fase di raffreddamento, si verifica una trasformazione spontanea dalla fase (t) alla più stabile fase (m), con un incremento volumetrico dei cristalli pari al 4-5% , con la generazione di stress compressivi all’interno del materiale. A partire dagli anni ’30, tale comportamento è stato interpretato come una potenziale proprietà clinicamente vantaggiosa della zirconia. Quando è legata con altri ossidi “cubici” come MgO, CaO, Y2O3 e CeO2 (cosiddetti “stabilizzatori”), la trasformazione di fase può essere impedita, mantenendo così i cristalli di zirconia nella loro forma tetragonale o cubica a temperatura ambiente, in uno stato termodinamicamente stabile. Questa proprietà è la ragione principale per cui la ricerca biomedica nel corso degli ultimi anni ha focalizzato in maniera crescente la sua attenzione sulla zirconia, visto che può indurre un notevole incremento nella resistenza alla frattura del materiale ritardando (ma non impedendo) la propagazione di un microcrack. All’apice di una cricca, infatti, gli stress tensili determinano la suddetta trasformazione cristallina dalla fase stabilizzata (t) alla fase (m); il conseguente aumento di volume dei cristalli nella zona della microfrattura determina un favorevole stress compressivo interno al materiale che agisce come limitatore della microfrattura. Tale meccanismo, definito “phase transformation toughening” (PTT), spiega perché la zirconia presenti i più elevati valori di resistenza alla flessione ed alla frattura tra le ceramiche integrali. A temperatura ambiente, la trasformazione da tetragonale a monoclina è un processo irreversibile; ciò significa che, una volta realizzatosi, l’effetto che impedisce la propagazione della cricca non può essere sfruttato per limitare altre fratture. Riscaldando il materiale ad una temperatura compresa tra 900º e 1000ºC per un breve periodo di tempo, il processo diviene reversibile; in questo caso, la transizione di fase da monoclina a tetragonale, invece che utilizzare nuovamente i cristalli per un’ulteriore trasformazione e riparazione delle cricche, determina un rilassamento degli stress compressivi a livello della superficie, riducendo, tuttavia, la resistenza del materiale. Da ciò si deduce che le elevate temperature di cottura della ceramica feldspatica di rivestimento del core in zirconia possono rappresentare un fattore di rischio per l’innesco della suddetta PTT. Le dimensioni dei cristalli influiscono sensibilmente sul comportamento della zirconia: maggiori sono le temperature ed i tempi di sinterizzazione, maggiori saranno le dimensioni medie dei cristalli. La dimensione critica dei cristalli è circa 1 µm: al di sopra di queste dimensioni, la zirconia è maggiormente predisposta ad una PTT spontanea a causa della minore stabilità, mentre una minore dimensione dei grani rende la zirconia meno suscettibile a questo fenomeno, sebbene al di sotto di 0,2 µm la PTT non si verifichi e la resistenza alla frattura della zirconia diminuisca. Di conseguenza, le procedure di sinterizzazione devono essere rigorosamente controllate nel corso dell’intero processo di produzione dal momento che influenzano la dimensione dei cristalli, incidendo fortemente sulle proprietà meccaniche e sulla stabilità della zirconia. Sebbene esistano diversi materiali contenenti zirconia, ad oggi sono tre i sistemi ceramici a base di zirconia utilizzati e validati per applicazioni dentali. Due di questi sono materiali bifasici, ossia la ceramica alluminosa infiltrata con vetro e rinforzata con zirconia (ZTA) e la zirconia parzialmente rinforzata con magnesio (Mg-PSZ); il materiale maggiormente utilizzato, tuttavia, è un materiale monofasico, definito zirconia policristallina tetragonale parzialmente stabilizzata con ittrio (3Y-TZP). Zirconia parzialmente rinforzata con magnesio (Mg-PSZ) La microstruttura della Mg-PSZ consta di gruppi di cristalli tetragonali nel contesto di una matrice di zirconia cubica stabilizzata. L’agente stabilizzante aggiunto è il MgO (8-10 mol%). Riguardo alle applicazioni dentali, a parte alcune eccezioni (Denzir-M, Dentronic AB), questo materiale non è stato ampiamente utilizzato né ha incontrato un’ampia popolarità a causa di svariati svantaggi, quali notevole porosità, cristalli di grandi dimensioni (30-60 µm), bassa stabilità, tendenza all’usura e, soprattutto, scarse proprietà meccaniche, specialmente se paragonate a quelle della 3Y-TZP. Zirconia policristallina tetragonale parzialmente stabilizzata con ittrio (3Y-TZP) Tale tipo di zirconia è costituito da cristalli metastabili, in forma (t) e stabilizzati dall’aggiunta di 3mol% di ossido di ittrio (Y2O3). Questo materiale policristallino mostra scarsa porosità ed alta densità. Ad oggi, rappresenta il tipo di zirconia maggiormente utilizzato per applicazioni dentali. Proprietà meccaniche della zirconia Le proprietà meccaniche della zirconia sono state ampiamente analizzate sia su corone singole che su ponti di 3 e 4 unità, con dati eterogenei a causa delle differenti condizioni sperimentali e misurazioni. È stato dimostrato che le proprietà meccaniche della zirconia sono superiori rispetto a quelle delle altre ceramiche per uso dentale, con una resistenza alla frattura di 6-10 MPa/ m1/2, una resistenza alla flessione di 900-1200 MPa ed una resistenza alla compressione di 2000 MPa. Sono stati registrati carichi di frattura compresi tra 706 N, 2000 N e 4100 N, maggiori rispetto ad allumina e disilicato di litio, nonché superiori alle forze medie di masticazione umana, confermando una resistenza clinicamente soddisfacente per tali restauri. L’“invecchiamento” della zirconia La degradazione a bassa temperatura (Low Temperature Degradation, LTD) o “invecchiamento” (aging) della zirconia è un processo ben noto e strettamente correlato alla PTT. Tale fenomeno consiste in una spontanea trasformazione dei cristalli dalla fase tetragonale alla fase stabile monoclina in assenza di qualsiasi stress meccanico; ciò determina la diminuzione delle proprietà fisiche del materiale ed espone la zirconia al rischio di fallimento spontaneo. Gli stress meccanici e l’umidità accelerano la LTD; altri fattori che influenzano questo processo sono: temperatura, dimensione dei grani, difetti di superficie, tecniche di lavorazione, percentuale e distribuzione degli ossidi stabilizzatori. Sebbene la LTD debba essere considerata un fattore di rischio per i fallimenti protesici, ad oggi non è stata dimostrata una diretta correlazione negli studi clinici. Anche se gli effetti della LTD su restauri dentali in zirconia non sono stati ancora esaminati nel lungo termine, l’invecchiamento è considerato come fattore di degra- dazione delle proprietà meccaniche del materiale, quali insorgenza di microcricche, diminuzione della resistenza, aumento dell’usura ed irruvidimento superficiale. Una ricerca in vitro su ponti di 3 unità in zirconia, prima e dopo l’esposizione ad un processo di invecchiamento artificiale attraverso l’utilizzo di un simulatore di masticazione, corrispondente a una funzione clinica di 5 anni (circa 1.200.000 cicli di fatica termo meccanica in ambiente liquido), ha mostrato una significativa riduzione dei carichi di frattura di tutti i campioni, benchè sempre al di sopra dei valori clinicamente accettabili. Benché non esista ancora univocità di pareri in proposito, non è consigliabile lasciare la zirconia priva di rivestimento ceramico a livello dei versanti gengivali dei restauri, dal momento che ciò, esponendo la zirconia direttamente ai fluidi salivari, potrebbe accelerarne l’invecchiamento. Procedure di fabbricazione Le armature dentali in zirconia CAD/CAM possono essere realizzate secondo due differenti tecniche: fresatura di blocchi di zirconia presinterizzata (soft machining) o completamente sinterizzata (hard machining). Il processo di lavorazione soft machining è il più diffuso sistema di fabbricazione per la 3Y-TZP, basato sulla fresatura di blocchi grezzi presinterizzati che sono successivamente completamente sinterizzati allo stadio finale. Tali blocchi di zirconia presinterizzata, definita anche allo “stato verde” (green state), vengono prodotti compattando polveri di zirconia attraverso un processo isostatico a freddo; ciò determina una porosità molto limitata (20-30 nm) ed una distribuzione abbastanza omogenea delle componenti all’interno del materiale grezzo. La lavorazione della zirconia ad un’adeguata temperatura di sinterizzazione è un fattore cruciale poiché questo parametro influisce su durezza, lavorabilità e ruvidità dei blocchi grezzi. Da un punto di vista di produzione, durezza e lavorabilità si comportano come fattori opposti: un’adeguata durezza è necessaria per manipolare i blocchi grezzi di 3Y-TZP in modo sicuro, ma al contempo, se eccessiva, risulta dannosa per un’appropriata lavorabilità. Inoltre, più elevate sono le temperature di pre-sinterizzazione, maggiore sarà la ruvidità superficiale del materiale. A seguito di una scansione del moncone o di un modellato in cera o resina, sofisticati softwares CAD progettano un’armatura virtuale sovradimensionata per compensare la successiva contrazione da sinterizzazione della zirconia. Successivamente, attraverso una procedura di fresatura CAM, viene realizzata la struttura fisica del materiale grezzo. Infine, viene effettuata la sinterizzazione ad alta temperatura: il core di zirconia acquisisce le sue proprietà meccaniche e subisce una contrazione volumetrica lineare pari a circa il 25%, raggiungendo le dimensioni finali. Tale processo permette di produrre armature molto stabili in zirconia tetragonale con superfici virtualmente libere dalla fase monoclina. Tuttavia, una certa quantità di zirconia cubica può essere presente a causa di una distribuzione non omogenea di ossido di ittrio. La fase cubica è più ric- ca di ossidi stabilizzatori rispetto ai cristalli tetragonali circostanti e questo può influenzare negativamente la stabilità del materiale. Di contro, nel processo di lavorazione definito hard machining, i blocchi di 3Y-TZP vengono dapprima densamente sinterizzati attraverso un processo a caldo con pressione isostatica: ad alte temperature (1400º1500ºC) ed elevate pressioni in un ambiente saturo di gas inerti, vengono sinterizzati blocchi molto duri, densi ed omogenei di zirconia interamente sinterizzata, da cui si ottengono armature già nelle dimensioni finali, utilizzando sistemi di fresatura molto potenti e resistenti con frese diamantate abrasive. Rimane ancora controverso il dibattito su quale tecnica di produzione sia più appropriata per ottenere migliori risultati. Il principale svantaggio del soft machining è la compensazione della contrazione da sinterizzazione dell’armatura alla quota di espansione programmata dal software. Tuttavia, diversi studi in vitro hanno confermato un’elevata resistenza alla frattura ed alla flessione utilizzando differenti tecniche di produzione con pressione isostatica sia a caldo che a freddo. E’ indubbio che, paragonata con il processo di lavorazione allo stato verde, la procedura di hard machining è più dispendiosa e richiede sistemi di fresatura molto potenti e resistenti all’usura. I blocchi interamente sinterizzati di 3Y-TZP sono più duri e meno lavorabili di quelli presinterizzati, rendendo il tempo di fresatura più lungo ed il processo di lavorazione più costoso. Dal punto di vista operativo, inoltre, fresare i blocchi grezzi di zirconia interamente sinterizzata in spessori sottili è molto difficile e può comportare risultati non predicibili. Infine, è stato dimostrato che la lavorazione di questi blocchi può introdurre diversi tipi di microcricche e difetti di superficie, in dipendenza di vari fattori, come la dimensione dei grani della fresa diamantata e la velocità di rotazione: frese a grana fine determinano un danno più “duttile” paragonate con le fratture “fragili” dovute alle frese a grana grossa, mentre la fresatura ad alta velocità permette di ridurre la forza applicata al blocco e diminuire le dimensioni e la profondità dei difetti di superficie. In ogni caso, vi è un elevato livello di evidenza che tutti i trattamenti di superficie, come la fresatura e la sabbiatura, determinano degli stress che inducono un certo grado di trasformazione (t) > (m) della superficie della zirconia prima dell’utilizzo clinico, influenzando negativamente la longevità dei restauri in zirconia. La fresatura della superficie può determinare difetti profondi che riducono la tenacità e la resistenza del materiale; inoltre, l’esposizione all’umidità intraorale dei difetti di macchinazione industriale può avere ulteriori effetti sfavorevoli, quali un precoce invecchiamento della zirconia. Le strutture prodotte dal processo di hard machining mostrano, in genere, una quota considerevole di zirconia monoclina, con una conseguente aumentata suscettibilità alla LTD ed alla formazione di microcricche di superficie, ottenendo come risultato un materiale meno stabile. Tuttavia, poiché non vi è standardizzazione dei trattamenti utilizzati, è molto difficile comparare i risultati degli studi che hanno analizzato i trattamenti di superficie della zirconia. Le procedure di lavorazione soft machining offrono una stabilità più predicibile delle armature, almeno in assenza di danni superficiali successivi alla sinterizzazione (come, ad esempio, i ritocchi occlusali). Un’ulteriore fattore di rischio nell’induzione della LTD è l’accumulo di stress residui, come quelli che si creano quando la zirconia è cotta ad alte temperature e poi rapidamente raffreddata o quando viene utilizzato un materiale ceramico di rivestimento con un coefficiente di espansione termica (CET) dissimile da quello del core. Inoltre, la presenza di cristalli cubici di grandi dimensioni, generati da cotture ad alta temperatura, è sfavorevole per la resistenza della zirconia alla LTD ed all’invecchiamento. Negli ultimi anni, è stato proposto l’impiego dell’ossido di cerio a concentrazioni maggiori rispetto a quello di ittrio come stabilizzatore della zirconia ad uso dentale. In condizioni sperimentali analoghe ed a seguito di termociclaggio, la zirconia parzialmente stabilizzata con ossido di cerio (Ce-TZP) ha mostrato migliore stabilità termica e resistenza alla LTD rispetto alla Y-TZP, nonchè resistenza alla flessione più spiccata prima dell’insorgenza di fratture. Il principale svantaggio che ha, finora, limitato l’utilizzo di questo stabilizzatore nella pratica dentale è il colore giallo-marrone. In merito allo spessore delle strutture in zirconia, la maggior parte delle aziende produttrici concorda nel considerare 0,5 mm lo spessore minimo per prevenire deformazioni del core. La forma e lo spessore delle armature dovrebbero essere ottimizzati ed individualizzati per ottenere uno spessore uniforme della ceramica di rivestimento, fornendo un appropriato supporto per quest’ultima mediante modellazioni anatomiche del core. Un altro parametro determinante nella definizione delle proprietà meccaniche dei ponti a base di zirconia riguarda la forma e le dimensioni dei connettori protesici. Le fratture indotte sperimentalmente in vitro sono state spesso associate all’altezza insufficiente dei connettori, che rappresentano un locus minoris resistentiae sotto carico dal momento che congiungono gli elementi pilastro ed i pontics privi di supporto primario. La resistenza alla flessione di una struttura protesica deve essere sufficientemente elevata da sopportare i carichi occlusali, durante i quali i connettori sono sottoposti a stress di taglio altamente deleteri per i materiali ceramici; ne consegue che le dimensioni dei connettori risultano fondamentali per il successo clinico a lungo termine delle protesi in zirconia. Tuttavia, spesso tali dimensioni, in particolare l’altezza, risultano limitata per la presenza sul versante gengivale dei tessuti molli parodontali. Pur non essendo presenti in letteratura evidenze scientifiche univoche in merito alle dimensioni ideali dei connettori in zirconia, alcuni studi in vitro raccomandano diametri minimi di circa 3,0-6,0 mm per ponti di 3 unità, 4,0-6,0 mm per ponti di 4 unità e 5,0- 6,0 mm per ponti di 5 unità; tali dati trovano riscontro nelle indicazioni fornite dalle aziende produttrici. Inoltre, la presenza di angoli acuti a livello delle embrasures gengivali rappresentano aree di concentrazione di stress, influenzando negativamente la resistenza a frattura delle protesi in ceramica integrale; pertanto, le embrasures gengivali dovrebbero avere un raggio quanto più ampio possibile a livello dei connettori. Precisione dell’adattamento La precisione dei restauri in zirconia dipende da vari fattori, quali i sistemi di fabbricazione, le caratteristiche individuali delle protesi (lunghezza delle travate, configurazione del core), la qualità della ceramizzazione di rivestimento e l’influenza dell’aging. Per quanto riguarda i restauri in 3Y-TZP prodotti con soft machining, la precisa compensazione numerica richiesta da tale sistema relativa alla contrazione da sinterizzazione è un fattore cruciale per la precisione, strettamente dipendente anche dalla composizione ed omogeneità dei blocchi grezzi di zirconia presinterizzata. Per quanto concerne le corone singole, le strutture in zirconia mostrano un’elevata precisione di adattamento, compresa tra 0 e 74 µm. Di contro, non è facile comparare i dati relativi alla precisione marginale dei ponti in zirconia, a causa dell’eterogeneità dei dati in vitro ed in vivo presenti in letteratura: sono stati utilizzati campioni non cementati o cementati con differenti tipi di cemento, così come campioni ottenuti mediante impronte tradizionali piuttosto che con scansioni ottiche. Ne deriva un’ampia variabilità numerica, con valori di gap marginale assoluto compresi tra 9,0 e 148,8 µm, con un valore medio di 73,8 µm. Maggiori discrepanze sono state riscontrate a livello del gap interno (la distanza interna misurata tra la struttura in zirconia ed il moncone protesico), comprese tra 68,8 e 215 µm in direzione occlusale e tra 52,3 e 192 µm in direzione assiale. In un recente studio in vitro sono stati evidenziati valori minori di apertura marginale in presenza di preparazioni a lama di coltello (feather-edge, 87±10 µm) rispetto a quelli riscontrati in presenza di mini-chamfer (114±11 µm), preparazione a spalla (114±16 µm) e linea di finitura a chamfer (114±14 µm); tuttavia, a causa dei limiti del disegno sperimentale in vitro e delle limitazioni meccaniche delle preparazioni a lama di coltello, gli autori sconsigliano l’impiego clinico di tale disegno marginale nella realizzazione di corone in zirconia. E’ stata, inoltre, evidenziata una correlazione tra la lunghezza delle travate di ponti in zirconia e l’adattamento marginale, dal momento che quanto più è ampia la distanza tra i monconi, tanto più elevate sono le discrepanze marginali evidenziate. Inoltre, anche la forma del core ha mostrato una relazione con la precisione marginale: configurazioni dei pontics in linea retta sono risultate più precise rispetto a disegni protesici con armature curvilinee. Secondo alcuni studi, in presenza di geometrie protesiche complesse, il processo di lavorazione hard machining rappresenta il sistema di fabbricazione più predicibile in termini di adattamento marginale. Per quanto riguarda la stratificazione della ceramica di rivestimento, il suo effetto sulla precisione finale rimane un argomento ancora molto controverso. In merito alle tecniche di fabbricazione industriale, alcuni studi hanno evidenziato minori discrepanze marginali con il processo di hard machining mentre altre analisi non hanno riscontrato alcuna differenza tra fresatura hard e soft. Inoltre, recenti ricerche hanno dimostrato che i sistemi CAD-CAM producono strutture con minori discrepanze marginali; di contro, altri studi non hanno evidenziato alcuna differenza tra procedure CAD-CAM, in cui la progettazione è effettuata tramite software, e la processazione solo CAM, in cui la geometria del restauro viene ottenuta attraverso la scansione delle superfici interne ed esterne di armature fisiche modellate in cera o in resina. Infine, analisi di carico a fatica hanno dimostrato che le sollecitazioni termiche e masticatorie non influiscono sull’adattamento marginale delle strutture in zirconia; parimenti, l’invecchiamento della zirconia non sembra inficiare la stabilità e l’integrità marginale del materiale a lungo termine. Si può concludere che la maggior parte dei sistemi di fabbricazione della zirconia attualmente disponibili forniscono gaps marginali ed interni clinicamente accettabili; tuttavia, è stata evidenziata un’ampia variabilità legata all’utilizzo di diversi sistemi di produzione e di materiali. Studi clinici e sperimentali sulla zirconia Nell’ultima decade, l’interesse crescente nei confronti della zirconia come materiale dentale per corone e ponti ha portato alla realizzazione di numerose sperimentazioni cliniche finalizzate alla definizione delle percentuali di successo e sopravvivenza di tali restauri. Molti studi hanno esaminato i risultati clinici dei ponti nei settori posteriori mentre soltanto poche analisi hanno preso in esame le corone singole e gli abutments implantari; ad oggi, è disponibile un solo studio riguardo a ponti in zirconia supportati da impianti. Benchè i dati attualmente disponibili siano piuttosto limitati, la zirconia appare una valida opzione per la realizzazione di corone singole sia nei settori anteriori (figg. 60-63) che in quelli posteriori (figg. 64-67), con risultati clinici paragonabili ai tradizionali restauri in metalloceramica. Le corone singole in zirconia hanno mostrato percentuali di successo del 93% dopo un periodo di osservazione di 2 anni, con risposta tissutale molto favorevole. Analogamente, dopo 3 anni di impiego clinico, la medesima tipologia di restauro con un campione di 204 elementi singoli ha fatto registrare un tasso di sopravvivenza del 93%; in questo studio specifico, è stato riscontrato il 16% di complicanze (6% decementazione, 2.5% estrazione del dente pilastro, 5% dolore persistente, 2% chipping della ceramica di rivestimento). Differentemente, numerosi studi hanno analizzato il comportamento dei ponti in zirconia, in particolare nei settori posteriori (figg. 68-71), riportando risultati clinici piuttosto favorevoli; analogamente a quanto riportato in letteratura per i ponti in metallo-ceramica, sono stati evi- FIG. 60 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione preoperatoria di elemento 11 con protesi incongrua ed elemento 12 discromico. FIG. 61 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione vestibolare dei manufatti sul modello di lavoro. FIG. 62 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione palatale dei manufatti sul modello di lavoro. FIG. 63 Corone singole in zirconia nei settori anteriori: visione postoperatoria degli elementi 11 e 12 protesizzati con corone singole in zirconia-ceramica. FIG. 64 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: visione preoperatoria di elemento 14 con necessità di copertura coronale completa a seguito di terapia endodontica. FIG. 68 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: core in zirconia di protesi parziale fissa. FIG. 65 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: preparazione di FIG. 69 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: prova intraorale del core in zirconia. FIG. 66 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: prova intrarorale FIG. 70 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: prova intraorale del core in zirconia. elemento 14 per corona in ceramica integrale. della struttura in zirconia. FIG. 67 Corone singole in zirconia nei settori posteriori: visione postoperatoria dell’elemento 14 protesizzato con corona singola in zirconia ceramica. FIG. 71 Protesi parziale fissa a corta travata in zirconia: visione postoperatoria degli elementi 45, 46 e 47 protesizzati con protesi parziale fissa in zirconiaceramica. denziati fallimenti dovuti sia a complicanze biologiche, come carie secondarie, sia a problemi tecnici, come le fratture del core o i chipping della ceramica di rivestimento. Inoltre, sono state pubblicate revisioni sistematiche della letteratura sulle percentuali di sopravvivenza di corone e ponti in ceramica integrale paragonate a quelle dei restauri in metallo-ceramica, riportando, dopo 5 anni di osservazione, tassi di sopravvivenza del 95,6% per le protesi in metallo-ceramica e del 93,3% per i restauri in ceramica integrale, tra cui le protesi in zirconia hanno mostrato le migliori performances cliniche, risultando i sistemi in ceramica integrale più affidabili. La zirconia è interessata, in genere, solo da cricche o scheggiature della ceramica di rivestimento mentre nelle altre tipologie di restauro in ceramica integrale sono state sovente osservate fratture del core. Da quanto sopra riportato, si deduce che è estremamente difficile effettuare una comparazione sistematica su base scientifica dei risultati dei diversi studi sperimentali e clinici sui restauri in zirconia, a causa delle differenze nelle metodologie di ricerca, nei parametri di valutazione, nelle tecniche di produzione e nella durata dei periodi di osservazione. Dopo 2 anni di funzione, una recente ricerca clinica sui ponti in zirconia ha riportato un tasso di sopravvivenza del 100%. Dopo 3 anni di osservazione, la quasi totalità degli studi ha riportato risultati clinici soddisfacenti per i ponti in zirconia, con percentuali di fallimento tra 0 e 4,8%, mostrando una promettente affidabilità di questi restauri. Dopo 4 anni di utilizzo clinico, i tassi di fallimento aumentano lievemente fino a valori compresi tra 4% e 6%. Dopo 5 anni di funzione, ponti in zirconia di 3-5 elementi hanno fatto registrare percentuali cumulative di sopravvivenza compresietra 74% e 100%. In conclusione, nella maggior parte degli studi clinici sono stati osservati tassi di successo molto positivi, con una buona predicibilità prospettica dei ponti in zirconia nel medio termine. Le complicanze meccaniche correlate a questa tipologia di restauro sono prevalentemente le fratture del core, lo scheggiamento della ceramica di rivestimento e la perdita di ritenzione. Per quanto concerne le fratture del core, sono state evidenziate in soli 5 studi, 3 su ponti, 1 su corone singole ed 1 su ponti supportati da restauri di tipo inlay. La percentuale delle fratture della struttura in zirconia è compresa tra 3% e 10% e questi dati sembrano indicare una forte correlazione con la geometria della protesi, dal momento che il maggior numero di fratture è stato registrato a carico dei ponti supportati da inlays. Se ne deduce che le fratture del core possono essere considerate eventi poco frequenti; quando si verificano, sono interessati soprattutto i connettori di ponti a lunga travata ed i monconi dei secondi molari. Al contrario, il chipping (frattura coesiva superficiale) della ceramica di rivestimento è riportata come la complicanza meccanica più frequente a carico delle protesi in zirconia, soprattutto a livello dei denti posteriori e indipendentemente dal tipo di restauro. Dopo 5 anni di utilizzo clinico, i ponti in zirconia di 3-5 unità posteriori supportati da denti naturali hanno mostrato la carie secondaria come causa più comune di fallimento biologico, interessando il 21,7% dei restauri, mentre il chipping della ceramica di rivestimento si è verificato nel 15,2% delle protesi. In uno studio condotto su ponti in zirconia a supporto implantare, la percentuale di chipping è risultata ancora più elevata, raggiungendo il 54% dopo un anno di funzione. Ad oggi, il chipping della ceramica di rivestimento su restauri in zirconia è stato riportato in percentuali comprese tra 0% e 54% dopo 2 anni di osservazione, dato meno favorevole rispetto ai restauri in metallo-ceramica per i quali si riscontra una percentuale di protesi non interessate da chipping del 98% dopo 5 anni; il tasso di insuccesso per la metallo-ceramica raggiunge il 4-6% dopo 10 anni. La percentuale di rischio stimato per anno di chipping per i restauri in ceramica integrale è del 2,92%. Tuttavia, va sottolineato che, nella maggior parte dei casi, le fratture coesive della ceramica di rivestimento non compromettono la funzione, essendo riparabili mediante lucidatura intraorale della superficie del restauro o mediante riparazione con resina composita. Solo in casi limitati di chipping maggiori o in zona estetica, i restauri richiedono una sostituzione completa. Anche in caso di chipping della ceramica di rivestimento, l’esposizione del core in zirconia appare una evenienza piuttosto infrequente e comunque non verificabile clinicamente ad occhio nudo. Benché i siti dove si verifica più frequentemente siano i secondi molari ed i connettori mandibolari posteriori, a causa della concentrazione di forze masticatorie più intense, il chipping può essere evidenziato anche in aree non sottoposte a carico. Le cause del chipping sono riconducibili per lo più alle caratteristiche della ceramica di rivestimento, benchè altri fattori correlati siano la geometria protesica, il rapporto tra spessore del core e della ceramica di rivestimento e l’architettura della struttura. Una geometria non ben progettata del core può non fornire un supporto adeguato ed uniforme alla ceramica di rivestimento, divenendo un fattore causale del chipping. Così come nei restauri in metallo-ceramica, il core dei ponti in zirconia dovrebbe essere modellato anatomicamente, in modo da assicurare un supporto per la ceramica di rivestimento ottimale, sfruttando le capacità di resistenza ai carichi compressivi e limitando i più dannosi stress di tensione. Pertanto, la geometria delle strutture in zirconia dovrebbe essere funzionale alle esigenze di stratificazione del laboratorio odontotecnico e non dovrebbe essere progettata secondo l’ormai superato concetto di spessore uniforme della zirconia. Come riportato in precedenza, i minus ed i danni di superficie possono rappresentare un punto di innesco per le fratture. Recenti studi frattografici hanno dimostrato che il chipping della ceramica può avere origine dalla ruvidità occlusale, possibile conseguenza dell’incorporazione di bolle d’aria durante la stratificazione della ceramica di rivestimento o di danni causati da rifiniture occlusali. Talvolta possono verificarsi anche delaminazioni spontanee della ceramica, causate dal fallimento dell’interfaccia adesiva tra core in zirconia e ceramica di rivestimento; tuttavia, tali complicanze possono essere evidenziate soltanto mediante esami microscopici. Ciò nonostante, la maggior parte degli autori è scettica rispetto a tale possibilità, dal momento che la forza di legame tra la zirconia e le ceramiche di rivestimento dedicate è maggiore rispetto alla forza coesiva delle ceramiche stesse. La formazione di cricche nel contesto della ceramica di rivestimento è un fenomeno multifattoriale a cui possono concorrere differenze nel CET tra core e ceramica, contrazione della ceramica a seguito della cottura, aree di porosità, difetti del rivestimento, scarsa bagnabilità della ceramica sul core, supporto inadeguato delle armature, sovraccarico e fatica. Benchè la natura del legame tra zirconia e ceramica non sia stata ancora completamente chiarita e i parametri di compatibilità non siano ancora stati caratterizzati definitivamente, il CET sembra giocare un ruolo cruciale nel fenomeno del chipping. Sono oggi disponibili ceramiche da rivestimento dedicate per la zirconia con CET compatibili con quelli del core in ceramica integrale, al fine di ridurre le complicanze meccaniche. In accordo con un principio che è stato ampiamente applicato in protesi tradizionale nella produzione di restauri in metallo-cermica, una piccola, controllata discrepanza tra il CET della zirconia e quello della ceramica di rivestimento è un parametro necessario per la buona riuscita del restauro; il CET della ceramica estetica, infatti, deve risultare leggermente inferiore a quello del core, in modo che la ceramica si contragga sviluppando una lieve forza compressiva che riduce il rischio di sviluppo di cricche ed incrementa la forza di legame all’armatura. Allo stesso tempo, lo sviluppo di eventuali stress residui deve essere controllato, al fine di prevenire l’insorgenza di forze di tensione sfavorevoli e limitare i rischi di chipping della ceramica; ciò viene ottenuto riducendo il gradiente di raffreddamento dopo l’ultima cottura e glasatura della ceramica. Presumibilmente, altri fattori possono essere coinvolti nella genesi del chipping, benchè non tutti siano stati ancora sufficientemente analizzati: stress di tensione concentrati all’interfaccia tra zirconia e ceramica, processi chimici (la dissoluzione dei materiali refrattari come la zirconia indotta dai vetri di silicato contenuti nelle ceramiche di rivestimento), trasformazioni di fase della superficie (legati all’impoverimento di ossidi stabilizzatori determinato dall’usura funzionale o da riparazioni della ceramica). Questi ed altri possibili fattori concomitanti necessitano di ulteriori studi al fine di comprenderne appieno la natura, l’impatto clinico e la possibilità di prevenire i chipping della ceramica su corone e ponti in zirconia. La perdita di ritenzione dei restauri è stata descritta come una possibile complicanza indipendentemente dal tipo di cemento, in particolare in presenza di ponti in zirconia; ciò nonostante, in tutte le sperimentazioni cliniche in cui si è verificata la decementazione di un restauro in zirconia, la complicanza è stata risolta semplicemente ricementando il manufatto. Il rischio stimato per anno di perdita di ritenzione per le protesi in ceramica integrale è stato riportato intorno allo 0,47%. Al contrario, fratture non riparabili causate da decementazione sono state osservate solo in alcuni ponti ritenuti da inlays cementati con cementi resinosi. Nessuna delle sperimentazioni cliniche citate prende in considerazione il bruxismo, giacchè questa parafunzione rientra spesso tra i criteri di esclusione degli studi controllati; di conseguenza, dl momento che non sono state ad oggi analizzate in alcuno studio, le parafunzioni dovrebbero essere considerate come una controindicazione relativa per i restauri in zirconia. Sebbene sia stato dimostrato che, tra i materiali restaurativi privi di metallo, la zirconia mostri le più valide proprietà meccaniche, dal punto di vista clinico, i ponti in zirconia a lunga travata rimangono ad oggi non validati scientificamente: 5 unità rappresentano l’estensione massima per una buona predicibilità nel medio termine. Riguardo alle protesi più estese, saranno necessari ulteriori studi con periodi di osservazione più lunghi al fine di ricavare solide linee guida, benchè alcune aziende produttrici suggeriscano e supportino la tecnologia per la realizzazione di restauri full-arch. Va sottolineato che solo un numero limitato di sperimentazioni cliniche hanno analizzato l’influenza delle estensioni protesiche (cantilever) sulla predicibilità clinica dei ponti in zirconia. Benchè non sia stato individuato un nesso di causalità diretta tra le presenza dei cantilevers ed un aumentato rischio di fallimento protesico, come per la protesi tradizionale i cantilevers in zirconia andrebbero evitati, in particolare nei settori distali. Sulla base dei risultati di test in vitro a fatica con termociclaggio, la Y-TZP ha presentato un’aspettativa di longevità paragonabile a quella delle protesi in metalloceramica, con una buona predicibilità di funzione fino a 20 anni. Ciò nonostante, i fenomeni del chipping e dell’invecchiamento sembrano avere effetti più deleteri sulla zirconia rispetto ai restauri in metallo-ceramica. Pertanto, ulteriori studi clinici con periodi di osservazione prolungati saranno necessari per valutare in modo esauriente il comportamento clinico e l’affidabilità della zirconia nel lungo termine. Come ultima nota, bisogna tenere in considerazione che, negli ultimi anni, c’è stato un interesse crescente nei confronti della zirconia per la realizzazione di riabilitazioni a supporto implantare. La maggior parte delle aziende implantari fornisce abutments in zirconia CADCAM. Ad oggi, i pochi lavori pubblicati in letteratura mostrano risultati promettenti e risposte favorevoli dei tessuti duri e molli dopo 4 anni di osservazione. Non è stata descritta alcuna frattura degli abutments mentre sono stati evidenziati alcuni svitamenti. Sono stati riportati tassi di sopravvivenza del 100% per abutments singoli in zirconia su impianti dopo un follow-up di 3 anni. Tuttavia, come stabilito in una recente consen- maniera controllata le indicazioni ed i limiti di utilizzo degli abutments in zirconia. Analogamente, le evidenze scientifiche attualmente disponibili non sono sufficienti a stabilire la validità a lungo termine dei restauri CAD-CAM in ceramica integrale a supporto implantare, in particolare per tipologie quali ponti a lunga travata e restauri full-arch (figg. 72-74). APPROFONDIMENTO FIG. 72 Restauro di tipo full-arch in zirconia: visione preoperatoria di edentulia completa mandibolare trattata con impianti osteointegrati. FIG. 73 Restauro di tipo full-arch in zirconia: prova intraorale della struttura full-arch in zirconia. FIG. 74 Restauro di tipo full-arch in zirconia: visione postoperatoria di edentulia completa mandibolare riabilitata con restauro a supporto implantare di tipo full-arch in zirconia-ceramica. sus conference, il periodo medio di osservazione clinica per gli abutments in ceramica è di 3,7 anni mentre per i monconi implantari in metallo è di 4,8 anni; ad oggi, pertanto, i dati non sono sufficienti per definire in CAD-CAM Con il termine CAD-CAM ci si riferisce all’impiego congiunto e integrato di sistemi software per la progettazione (Computer-Aided Design, CAD) e fabbricazione assistita dal computer (Computer-Aided Manufacturing, CAM). Il sistema è composto da due apparecchi: il CAD, la cui parte principale è costituita dallo scanner, che esegue la lettura delle forme per mezzo di un sensore tattile, ottico o laser, e il CAM, che riceve le informazioni elaborate dal programma 3D del CAD, sulla base delle quali muove il suo sistema di fresatura seguendo il percorso atto a produrre la struttura progettata. In odontotecnica la tecnologia CAD-CAM permette, attraverso uno scanner 3D la lettura del modello di un moncone naturale ricavato dall’impronta fornita dall’ Odontoiatra (del dente preparato) o di Abutment (moncone/i implantare) realizzati in titanio (generalmente) oppure in acciaio chirurgico, oro, o in casi con problematiche estetiche (settori anteriori) con allumina o con i nuovi materiali quali lo Zirconio (ossido di zirconio rinforzato con Ittrio). Effettuata la lettura, attraverso il software del computer vengono elaborati i dati ed inviati alla macchina utensile CAM che estrude dal pieno la cappetta o il ponte del materiale scelto per la ricostruzione protesica. Terminate le lavorazioni CAD-CAM si procede alla consegna della struttura allo studio clinico per la prova sul paziente cui segue la presa del colore (fotografia digitale) e viene tutto rimandato nel laboratorio odontotecnico per il completamento con la ceramica. I limiti di un sistema CAM sono legati al fatto che le strutture si ottengono per mezzo di strumenti rotanti, la cui forma e dimensione risultano determinanti. La preparazione dei monconi da parte del clinico deve adattarsi a tali limiti, eliminando gli spigoli vivi e prediligendo i chamfer lunghi rispetto a quelli profondi, che risulterebbero più difficili da fresarsi e, in alcune situazioni, da leggersi. Slip casting Lo slip casting è una tecnica di formatura di materiali ceramici risalente al XVIII Secolo. Questa tecnica ha un’importanza strategica soprattutto nella lavorazione dei ceramici tradizionali (sanitari, bomboniere…). È una metodologia semplice ed economica di formatura di ceramici avanzati di forma complessa. Si tratta di un processo di formatura per colaggio di una sospensione ceramica, consiste › SLIP › › FILTER › PLASTER › › FIG. 75 Slip casting. nel riempire uno stampo poroso, tipicamente in gesso, con uno sospensione (slip o slurry) ceramica, successivamente il materiale consolida, si ritira e si distacca dallo stampo. L’acqua è rimossa dalla sospensione attraverso l’azione capillare esercitata dallo stampo poroso, le particelle ceramiche restano così compattate sulla superficie dello stampo formando un oggetto solido (fig. 75). Qualora si volesse realizzare un oggetto pieno è necessario rabboccare lo slip nello stampo, man mano che l’acqua è drenata, fino ad ottenere il completo riempimento dello stesso con un materiale che è risulterà solido e completamente pieno. › › › › › › › › Bibliografia › › › › › › › › › › Abduo J, Lyons K, Swain M. Fit of zirconia fixed partial denture: a systematic review. J Oral Rehabil. 2010 Nov;37(11):866-76. Aboushelib MN, Kleverlaan CJ, Feilzer AJ. Effect of zirconia type on its bond strength with different veneer ceramics. J Prosthodont 2008;17:401–8. Al-Amleh B, Lyons K, Swain M. Clinical trials in zirconia: a systematic review. J Oral Rehabil 2010;37:641–52. Al-Dohan HM, Yaman P, Dennison JB, Razzoog ME, Lang BR. Shear strength of coreveneer interface in bi-layered ceramics. J Prosthet Dent 2004;91:349–55. Anderson RJ, Janes GR, Sabella LR, Morris HF. 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La saldatura si ottiene utilizzando un’apparecchiatura di ultima generazione considerata evoluzione della saldatrice endorale messa a punto dal professor Mondani già negli anni ‘70. FIG. 11 Questo diagramma stabilità secondaria stabilità con splint elettrosaldato mostra la stabilità implantare nelle settimane seguenti l’inserzione dell’impianto. Tra la seconda e la terza settimana gli impianti singoli sono caratterizzati dalla diminuzione della stabilità primaria e l’incremento di quella secondaria. La presenza di uno splint elettrosaldato, consente, invece, di ottenere una stabilità implantare costante per tutta la fase di guarigione. stabilità (percentuale) 100 75 50 25 0 0 1 2 3 4 5 tempo (settimane) 6 7 8 FIG. 13 Saldatura endorale della barra sugli abutment. FIG. 12 Elettrosaldatura del filo all’abutment. FIG. 14 Abutment solidalizzati. FIG. 16 Solidalizzazione dei monconi da impronta. FIG. 15 Provvisorio, confezionato sugli abutment solidalizzati e applicato nella stessa giornata. FIG. 17 Impronta a “cucchiaio aperto”. Si tratta di una saldatrice costituita da un corpo macchina, da un pedale di comando del circuito elettrico e da una pinza da saldatura. Il processo di saldatura è di tipo elettrico e di tipo autogeno. Il titanio viene sincristallizzato, “fuso”, nel punto di contatto tra la barra e l’impianto (sistema monofase) ovvero tra la barra e l’abutment (sistema bifasico). L’energia contenuta nei condensatori viene trasferita sugli elettrodi della pinza, che blocca a contatto le superfici dei due elementi da saldare. La corrente elettrica di grande intensità in un periodo di tempo di 3-4 millisecondi, scalda il metallo sino al punto di fusione, realizzando il giunto saldato. Questa fase avviene sotto abbondante irrigazione con spray di acqua (fig. 15). Nel punto di saldatura, pur essendo la temperatura circa di 1600 °C, non vi è trasmissione termica, sia per scarsa conducibilità da parte del metallo saldato, sia perché il calore viene dissipato dal rame della pinza. L’assoluta affidabilità del sistema suggerisce altre forme di utilizzo, quali il rilievo di impronte su impianti, di massima precisione e stabilità dimensionale (a cucchiaio aperto) (figg. 16 e 17) o per solidarizzare due o più impianti che non hanno stabilità primaria sufficiente per il carico protesico, attraverso le sole viti di guarigione (figg. 18). FIG. 18 Solidalizzazione di tre impianti sulle viti di “guarigione”. Bibliografia › › Apolloni M. Atlante pratico di implantologia dentale. Milano: Edi Ermes; 1989. Bedini R, De Angelis G, Di Cinto G. Valutazione del trattamento superficiale sulle prestazioni meccaniche a fatica di impianti in titanio plasma sprayed e titanio sabbiato e mordenzato. Rapporti ISTISAN 01/15, 2001:27. › › › › › › › › › › › › › › › › › › › Cochran DL, Schenk RK, Lussi A, Buser D. Bone response to unloaded and loaded titanium implants with a sandblasted and acid-etched surface: a histometric study in the canine mandible. Biomed mater Res 1998;40:1-11. Dal Carlo L. Las numerosas aplicaciones de la soldadora intra-oral de Mondani. 17 anos de experiencia clinica. Rev Esp Odontoestomatologica de Implantes 2006;14(1):23-34. Dal Carlo L. Tecnica di protesi fissa su barra saldata nelle contenzioni definitive. Doctor Os 2004 Giu;15(6):637. Garbaccio D. La vite autofilettante bicorticale: principi biomeccanici, tecnica chirurgica e risultati clinici. Dental Cadmos 1981;49(6):19-31. Hruska AR, Borrelli P. Fusioni in titanio. Passato, presente, futuro. Il Dentista Moderno 1991;8:1495-508. Hruska AR. La saldatura intraorale del titanio puro. Quintess Int Ed Ital 1988;10:48. Hruska AR. Welding implants in mouth. J Oral Implant 1989;XV(3)198-203. Manenti PA. Bicorticalismo in implantologia. Atti del XXVI Congresso Internazionale GISI (Impianti e Trapianti dentari). Bologna, 7-8-9 giugno 1996. pp 155-7. Mondani PL, Mondani PM. La saldatrice elettrica intraorale di Pierluigi Mondani. Principi, evoluzione e spiegazione della saldatura per sincristallizzazione. Riv Odontostomatol Implantoprotesi 1982;4:28-32. Muratori G. Gilet implant system and intraoral-welding. J Oral Implant 1989;XV(3). Nardone M, Vannini F. Implantologia emergente elettrosaldata:metodica, materiali e clinica. Doctor Os 2008 Giu; XIX (6): 641-648. Pasqualini ME, Mangini F, Colombo A, Rossi F. Stabilizzazione di impianti emergenti a carico immediato. Saldatrice endorale. Dental Cadmos 2001;9:67. Passler K. Il titanio nelle protesi odontoiatriche. Dental Labor 1991;I:439-46. Passler K. La fusione dentale in titanio. Premesse, tecnologia e valutazione dei materiali. Quintessenze Odont 1991;12:30. Romeo E, Camandona M et al. Il titanio in protesi. Dental Cadmos 1997; 19:40-6. 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La loro azione si esplica attraverso la produzione di microvibrazioni che urtano e rimuovono il tartaro sotto l’azione refrigerante dell’acqua. Gli ablatori sonici sono turbine ad aria che operano a basse frequenze (2-6 kHz) con range compreso tra 3.000 ed 8.000 cicli al secondo (Cps). Il movimento che si crea è solitamente orbitale e gli effetti sulle radici dentali variano in base al puntale utilizzato. Questi ablatori emettono un rumore ad alta intensità causato dal rilascio di aria a pressione necessaria per il movimento della punta. Gli ablatori ad ultrasuoni si basano su generatori che convertono l’energia elettrica in onde ultrasoniche attraverso il fenomeno piezoelettrico o la magnetostrizione. Operano a frequenze comprese tra 25 e 42 kHz. Esistono differenze nella rimozione del tartaro dai denti negli ablatori sonici ed ultrasonici. Gli scaler ultrasonici, infatti, rimuovono i depositi attraverso tre meccanismi: › azione oscillante della punta; › effetto cavitazionale: gli ultrasuoni determinano all’interno del liquido di irrigazione la formazione di bollicine d’aria caratterizzate da una violenta oscillazione; esse in seguito vanno incontro ad una successiva implosione, generando un’onda d’urto ad alta energia; › microonde acustiche: agiscono principalmente vicino alla punta dello scaler. Esistono due tipi di ablatori ultrasonici: › magnetostrittivi; › piezoelettrici. Le unità magnetostrittive operano tra 18000 e 45000 FIG. 22 Puntali ultrasonici con la relativa chiave di fissaggio. FIG. 23 Diversi tipi di puntali ultrasonici. FIG. 24 Puntale ultrasonico montato sull’apposito manipolo. Cps quando è applicata una corrente elettrica ad un cavo arrotolato all’interno del manipolo e si crea un campo magnetico intorno ad un trasduttore a barra, determinandone la sua costrizione. Una corrente alternata causa un campo magnetico alternato, provocando la vibrazione della punta con un movimento ellittico. Le unità piezoelettriche operano in un range compreso tra 25000 e 50000 Cps e si basano sulle variazioni dimensionali di cristalli alloggiati nel manipolo, determinate dal passaggio di energia elettrica. La vibrazione risultante è principalmente di tipo lineare. 15.4.1 Considerazioni cliniche Lo scaler ad ultrasuoni è uno strumento fondamentale nel campo della parodontologia, ma sono necessarie delle considerazioni da seguire nell’utilizzo: › per eliminare i problemi da surriscaldamento bisogna utilizzare lo strumento con movimenti rapidi ed associare sempre irrigazione uguale o superiore a 20 ml/min; › non utilizzare lo strumento con la punta perpendicolare alle superfici dentarie per evitare di danneggiarne la struttura; › la cavitazione può danneggiare le piastrine e potenzialmente può determinare la morte della polpa, nonostante in vivo non vi siano rischi significativi; › l’azione prolungata di un ablatore ad ultrasuoni potrebbe alterare, secondo alcuni studi ancora in corso, l’apporto ematico e nervoso delle dita dell’operatore; › l’operatore dovrebbe indossare mascherine e camici protettivi per ridurre il rischio di contaminazione da parte dell’aerosol che si produce durante l’utilizzo di ultrasuoni; › il rumore prodotto durante l’utilizzo potrebbe determinare temporanee alterazioni dell’udito sia nell’operatore che nel paziente; › come tutti i dispositivi elettrici (per esempio localizzatore apicale, test di vitalità elettrico ecc.), anche gli scaler ad ultrasuoni potrebbero interferire con il funzionamento dei pacemaker; in particolare l’utilizzo di ultrasuoni magnetostrittivi dovrebbe essere evitata in questi pazienti. Bibliografia Paragrafo 15.4 › › › › Akesson I, Lundborg G, Horstmann V, Skerfving S. Neuropathy in female dental personnel exposed to high frequency vibrations. Occup Environ Med. 1995 Feb;52(2):116-23. American Academy of Periodontology. Sonic and ultrasonic scalers in periodontics. J Periodontol 2000;71:1792-1801. NON TROVATO IN MED LINE Arabaci T, Ciçek Y, Canakçi CF. Sonic and ultrasonic scalers in periodontal treatment: a review. Int J Dent Hyg. 2007 Feb;5(1):2-12. Review. Busslinger A, Lampe K, Beuchat M, Lehmann B. A comparative in vitro study of a magnetostrictive and a piezoelectric ultrasonic scaling instrument. J Clin Periodontol. 2001 Jul;28(7):642-9. › › › › › › › › › › › › › Harrel SK, Barnes JB, Rivera-Hidalgo F. Aerosol and splatter contamination from the operative site during ultrasonic scaling. J Am Dent Assoc. 1998 Sep;129(9):1241-9. Jotikasthira NE, Lie T, Leknes KN. Comparative in vitro studies of sonic, ultrasonic and reciprocating scaling instruments. 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CAPITOLO 23 ASPETTI GIURIDICI › › 23.6 Normativa e radioprotezione in odontoiatria Gli obblighi di radioprotezione (sorveglianza fisica e controllo di qualità) che derivano dalla detenzione ed uso di apparecchiature radiologiche negli studi odontoiatrici, in quanto sorgenti di radiazioni ionizzanti ,sono stati precisati nel D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230 e successivamente nel D.Lgs 187/2000 nella parte relativa alla radioprotezione dei pazienti. Il primo gennaio 2001 lo stesso decreto è diventato operativo, relativamente alla protezione dei pazienti, alle dosi somministrate, alla garanzia di qualità, e ai controlli dei relativi apparecchi RX,unitamente al D.Lgs 187/2000 sulla protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti. Applicazioni › › › › Esposizione di soggetti per diagnostica o trattamento medico Esposizione di soggetti nell’ambito della sorvegliana sanitaria professionale o di programmi di screening sanitario Esposizione per partecipazione volontaria a programmi di ricerca medica o biomedica,in campo diagnostico o terapeutico o in ambito medico-legale Esposizione di soggetti che volontariamente e coscientemente, al di fuori della loro occupazione, assistono e confortano persone sottoposte a esposizioni mediche. Attori › › › Paziente Esercente (chi ha la responsabilità dell’impresa) Esperto in Fisica Medica (esperto nella fisica e nella tecnologia delle radiazioni, agisce e consiglia sulla dosimetria ,sull’impiego e ottimizzazione delle tecniche, sulla garanzia di qualità) Responsabile dell’impianto radiologico (medico specialista in Radiodiagnostica, Radioterapia o Medicina Nucleare). L’Odontoiatra può essere individuato come responsabile se egli è l’Esercente dell’impianto Specialista (odontoiatra) Note per lo Specialista › Le esposizioni alle radiazioni ionizzanti debbono essere mantenute al livello più basso ragionevolmente ottenibile, in relazione alle esigenze diagnostiche ed ai vantaggi terapeutici che ne possono derivare per il paziente esposto. › Particolare cautela va riservata nei casi in cui gli accertamenti radiologici riguardano donne fertili e pazienti pediatrici › È vietato in particolare l’impiego di radiazioni ionizzanti a scopo diagnostico che comporti l’esposizione dell’embrione o del feto nelle donne in stato di gravidanza dichiarata Responsabilità dello Specialista › Obbligo di una accurata anamnesi allo scopo di conoscere un eventuale stato di gravidanza nelle donne › Scelta delle metodologie e delle tecniche più idonee ad ottenere il maggior beneficio clinico con il minor rischio individuale per sé e per il paziente › Valutazione di tecniche sostitutive non basate su radiazioni ionizzanti › Ricerca di informazioni diagnostiche e documentazione pregressa onde evitare esposizioni non necessarie Articolo 61 D.Lgs. 230/1995 Obblighi dei datori di lavoro, dirigenti e preposti 1. I datori di lavoro ed i dirigenti che rispettivamente eserciscono e dirigono le attività disciplinate dal presente decreto ed i preposti che vi sovraintendono devono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, attuare le cautele di protezione e di sicurezza previste dal presente capo e dai provvedimenti emanati in applicazione di esso. 2. I datori di lavoro, prima dell’inizio delle attività di cui al comma 1, debbono acquisire da un esperto qualificato di cui all’articolo 77 una relazione scritta contenente le valutazioni e le indicazioni di radioprotezione inerenti alle attività stesse. A tal fine i datori di lavoro forniscono all’esperto qualificato i dati, gli elementi e le informazioni necessarie. La relazione costituisce il documento di cui all’articolo 4, comma 2, del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, per gli aspetti concernenti i rischi da radiazioni ionizzanti. 3. Sulla base delle indicazioni della relazione di cui al comma 2, e successivamente di quelle di cui all’articolo 80, i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti devono in particolare: a) provvedere affinché gli ambienti di lavoro in cui sussista un rischio da radiazioni vengano, nel rispetto delle disposizioni contenute nel decreto di cui all’articolo 82, individuati, delimitati,segnalati, classificati in zone e che l’accesso ad essi sia adeguatamente regolamentato. b) provvedere affinché i lavoratori interessati siano classificati ai fini della radioprotezione nel rispetto delle disposizioni contenute nel decreto di cui all’articolo 82. c) predisporre norme interne di protezione e sicurezza adeguate al rischio di radiazioni e curare che copia di dette norme sia consultabile nei luoghi frequentati dai lavoratori, ed in particolare nelle zone controllate; d) fornire ai lavoratori, ove necessari, i mezzi di sorveglianza dosimetrica e di protezione, in relazione ai rischi cui sono esposti; e) rendere edotti i lavoratori, nell’ambito di un programma di formazione finalizzato allar adioprotezione, in relazione alle mansioni cui essi sono addetti, dei rischi specifici cui sono esposti, delle norme di protezione sanitaria, delle conseguenze derivanti dalla mancata osservanza delle prescrizioni mediche, delle modalità di esecuzione del lavoro e delle norme interne di cui alla lettera c); f) provvedere affinché i singoli lavoratori osservino le norme interne di cui alla lettera c), usino i mezzi di cui alla lettera d) ed osservino le modalità di esecuzione del lavoro di cui alla lettera e); g) provvedere affinché siano apposte segnalazioni che indichino il tipo di zona, la natura delle sorgenti ed i relativi tipi di rischio e siano indicate, mediante appositi contrassegni, le sorgenti di radiazioni ionizzanti, fatta eccezione per quelle non sigillate in corso di manipolazione; h) fornire al lavoratore esposto i risultati delle valutazioni di dose effettuate dall’esperto qualificato, che lo riguardino direttamente, nonché assicurare l’accesso alla documentazione di sorveglianza fisica di cui all’articolo 81 concernente il lavoratore stesso. Articolo 68, D.Lgs. 230/1995 Obblighi dei lavoratori 1. I lavoratori devono: a) osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro o dai suoi incaricati, ai fini della protezione individuale e collettiva e della sicurezza, a seconda delle mansioni alle quali sono addetti; b) usare secondo le specifiche istruzioni i dispositivi di sicurezza, i mezzi di protezione e di sorveglianza dosimetrica predisposti o forniti dal datore di lavoro; c) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei dispositivi e dei mezzi di sicurezza, di protezione e di sorveglianza dosimetrica, nonché le eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza; d) non rimuovere né modificare, senza averne ottenuto l’autorizzazione, i dispositivi, e gli altri mezzi di sicurezza, di segnalazione, di protezione e di misurazione; e) non compiere, di propria iniziativa, operazioni o manovre che non sono di loro competenza o che possono compromettere la protezione e la sicurezza; f) sottoporsi alla sorveglianza medica ai sensi del presente decreto. 2. I lavoratori che svolgono, per più datori di lavoro, attività che li espongano al rischio da radiazioni ionizzanti, devono rendere edotto ciascun datore di lavoro delle attività svolte presso gli altri, ai fini di quanto previsto al precedente articolo 66. Analoga dichiarazione deve essere resa per eventuali attività pregresse. I lavoratori esterni sono tenuti ad esibire il libretto personale di radioprotezione all’esercente le zone controllate prima di effettuare le prestazioni per le quali sono stati chiamati. Articolo 69, D.Lgs. 230/1995 Disposizioni particolari per le lavoratrici 1. Ferma restando l’applicazione delle norme speciali concernenti la tutela delle lavoratrici madri, le donne gestanti non possono svolgere attività in zone classificate o, comunque,attività che potrebbero esporre il nascituro ad una dose che ecceda 1 mSv durante il periodo della gravidanza. 2. È fatto obbligo alle lavoratrici di notificare al datore di lavoro il proprio stato di gestazione, non appena accertato. 3. È altresì vietato adibire le donne che allattano ad attività comportanti un rischio di contaminazione. Estratto dal D.Lgs 26 maggio 2000 n. 187 1. Soggetti, funzioni e responsabilità Il D. Lgs. 187/2000 individua i seguenti soggetti cui attribuisce responsabilità e compiti: - l’esercente; - il responsabile dell’impianto radiologico; - lo specialista; - il prescrivente; - l’esperto in fisica medica; - il tecnico sanitario dì radiologia medica; - l’esperto qualificato. Tali figure sono in larga parte sovrapponibili a quelle già individuate dalla precedente normativa; le novità principali riguardano: 1. la figura del medico specialista, che viene definita all’art. 2, comma 2, lettera f, ed è riferita al medico chirurgo o all’odontoiatra che ha titolo per assumere la responsabilità clinica per le esposizioni mediche individuali. Pertanto sono specialisti il radiologo, il radioterapista, il medico nucleare, il medico chirurgo, in possesso di una specifica specializzazione, che svolge attività radiodiagnostica complementare all’esercizio clinico e,come già detto, l’odontoiatra; l’art. 7, commi 3 e 4, indica i requisiti di formazione neces- sari; 2. la figura dell’esperto in fisica medica, che sostituisce quella del “fisico specialista” e viene definita all’art. 2, comma 1, lettera i; l’art. 7, comma 5, indica le professionalità che, oltre al laureato in fisica in possesso di specializzazione in Fisica Sanitaria, possono svolgere le attività di competenza dell’esperto in fisica medica. Le principali novità e le funzioni identificate c/o modificate con il D. Lgs. 187/2000, rispetto al regime precedente, sono le seguenti: a) viene maggiormente specificata l’applicazione alla tutela del paziente dei principi fondamentali della radioprotezione (giustificazione e ottimizzazione) e si introducono: - le procedure da seguire e i vincoli di dose per coloro che assistono e confortano persone sottoposte ad esposizioni mediche (cfr. allegato I); - i livelli diagnostici di riferimento (LDR) al fine dì ottimizzare l’esecuzione degli esami radiodiagnostici (cfr. allegato II); - le procedure di giustificazione ed ottimizzazione delle attività di ricerca scientifica comportante esposizioni a radiazioni ionizzanti (cfr. allegato III); b) la responsabilità relativa alla protezione del paziente nelle indagini diagnostiche e nelle prestazioni terapeutiche è posta in capo al medico, nella veste di responsabile dell’impianto radiologico, di specialista e, limitatamente alla applicazione del principio di giustificazione, di prescrivente; c) la formazione in materia di radioprotezione del paziente viene ricondotta nell’ambito della formazione continua di cui al D. Lgs. 502/92 e successive modifiche e integrazioni, e viene estesa, oltre che ai medici, a tutto il personale che opera in ambiti professionali direttamente connessi all’esposizione medica (art. 7, comma 8), che appare identificabile in: - esperti in fisica medica (art. 7, comma 5); - tecnici sanitari di radiologia medica ed infermieri (art. 5, comma 3); - esperti qualificati (art. 7, comma 13). Si rammenta che il D. Lgs. 229/1999 (recante modifiche al D. Lgs. 502/92) prevede all’art. 16-quater che la partecipazione alla attività di formazione continua costituisca requisito indispensabile per svolgere attività professionale, in qualità di dipendente o libero professionista, per conto delle aziende ospedaliere, delle università, delle unità sanitarie locali e delle strutture sanitarie private. In attesa di specifiche direttive regionali in attuazione dell’art. 7 comma 10 il personale sopraddetto è invitato a partecipare a specifiche azioni formative promosse e realizzate in materia; d) il controllo di qualità sulle apparecchiature radiologiche previsto dalla normativa precedente viene sostituito dal programma di garanzia della qualità (art. 8, comma 2), di cui il controllo di qualità è solo un aspetto, e ciò anche ai fini della verifica della rispondenza a criteri di accettabilità delle attrezzature e dei sistemi comunque correlati all’erogazione della prestazione diagnostica o terapeutica. Quanto sopra è compito assegnato al responsabile dell’impianto radiologico, che si avvale allo scopo delle competenze specifiche dell’esperto in fisica medica e, per l’effettuazione dei controlli di qualità, dello stesso esperto in fisica medica oppure, se espressamente incaricato di ciò, del tecnico sanitario di radiologia medica o dell’esperto qualificato; e) nell’allegato V sono contenuti i criteri specifici di accettabilità delle attrezzature radiologiche, l’adeguamento delle attrezzature a tali criteri è compito assegnato al responsabile dell’impianto radiologico e all’esercente (art. 8, comma 5); f) viene introdotto il divieto di effettuare esami fluoroscopici senza dispositivo di controllo automatico del rateo di dose (AEC - Automatic Exposure Control) se non limitatamente a casi giustificati da esigenze diagnostiche e/o terapeutiche (art. 8, comma 7). In base al combinato disposto dell’art. 3, commi 1 e 2, e dell’art. 4, comma 1, viene confermato il divieto di utilizzo di apparecchi per schermografia per esami radiologici del torace, in quanto non rispondente al principio di giustificazione: infatti l’esposizione ottimizzata, in tale procedura diagnostica, può essere ottenuta utilizzando attrezzature e procedure che comportano minor dose nell’effettuazione dell’esame radiologico del torace; g) nell’allegato VI sono fornite alcune raccomandazioni al fine di raggiungere una particolare protezione nell’effettuazione di interventi diagnostici o terapeutici durante la gravidanza e l’allattamento; h) si sancisce l’obbligo di registrare singolarmente le indagini e i trattamenti con radiazioni ionizzanti, attribuendolo al responsabile dell’impianto radiologico ed all’esercente; ciò assume rilievo anche ai fini della valutazione delle dosi alla popolazione che viene posta in carico alle Regioni (art. 12). Nei paragrafi che seguono si evidenziano alcune specifiche responsabilità per i soggetti definiti dalla normativa in esame nonché i nuovi adempimenti introdotti. 23.6.1 Esercente e responsabile dell’impianto radiologico Compete innanzitutto all’esercente l’identificazione del responsabile dell’impianto radiologico (art. 5, comma 5), che deve essere per ogni impianto uno specialista in radiodiagnostica o in radioterapia o in medicina nucleare, e può essere lo stesso esercente qualora questo sia abilitato a svolgere direttamente l’indagine clinica (art. 2, comma 2, lettera b). Nel caso delle strutture dei Servizio Sanitario Regionale (S.S.R.) è opportuno che il Direttore Generale incarichi con proprio atto il responsabile dell’impianto radiologico, individuabile diregola nel Direttore della Unità Operativa presso la quale sono impiegate le attrezzature radiologiche, Spetta all’esercente l’informazione rispetto al potenziale pericolo per l’embrione o il feto irradiati o per il lattante, nel caso di somministrazione di radiofarmaci alla madre, l’informazione deve esplicitamente invitare la paziente a comunicare allo specialista lo stato di gravidanza, certa o presunta, o l’eventuale situazione di allattamento (art. 10, comma 5). Compete all’esercente l’adozione degli interventi correttivi da intraprendere in caso di segnalazione di malfunzionamenti, da parte del responsabile dell’impianto radiologico (art. 6 comma 5 - allegato II). Tali interventi possono spaziare dall’effettuazione di interventi manutentivi, che correggano eventuali condizioni dì malfunzionamento, alla messa fuori uso dell’apparecchiatura. Altra specifica responsabilità dell’esercente è quella di tenere aggiornato l’inventario delle attrezzature radiologiche (art, 8, comma 1, lett. b). È inoltre necessario che l’esercente dia disposizioni affinché nella formulazione dei capitolati di acquisto si tenga conto del fatto che, ai sensi dell’art. 8, comma 8, un’attrezzatura radiodiagnostica di nuova installazione deve essere munita, quando fattibile, di un dispositivo che informi lo specialista circa la quantità di radiazioni ionizzanti prodotte dall’attrezzatura nel corso della procedura medico - radiologica. Si ritiene altresì necessario che, ai fini della conformità delle attrezzature ai criteri di accettabilità, in tutti i capitolati di acquisto delle attrezzature oggetto del decreto (accessori compresi) venga inserito un esplicito riferimento relativo alla conformità con quanto indicato nell’allegato V Compete all’esercente congiuntamente al responsabile dell’impianto radiologico provvedere affinché le indagini ed i trattamenti con radiazioni ionizzanti vengano registrati singolarmente, anche in forma sintetica (art. 12, comma 1); si segnala a tale proposito che l’obbligo di registrazione non riguarda solo le procedure di radiodiagnostica specialistica, di radioterapia e di medicina nucleare, per le quali tale registrazione normalmente viene già effettuata, ma anche per le esposizioni dovute all’esercizio di attività radiologiche complementari (chirurgiche, ortopediche, cardiologiche, odontoiatriche, ecc.). Compete al responsabile dell’impianto radiologico la definizione di protocolli scritti di riferimento per ciascuna attrezzatura radiologica (art. 6 comma 2) in relazione a ciascun tipo di pratica radiologica standardizzata ai sensi dell’art. 6 comma 1. Spetta al responsabile dell’impianto radiologico la definizione di programmi di garanzia della qualità con la necessaria collaborazione dell’esperto in fisica medica. Secondo le norme di buona tecnica requisito di qualunque programma di garanzia della qualità è la sua documentabilità: è pertanto fondamentale che il responsabile dell’impianto radiologico, con la necessaria collaborazione dell’esperto in fisica medica, allestisca un manuale di qualità dell’Unità Operativa. 23.6.2 Prescrivente e specialista Novità di particolare rilievo, come già accennato, è il fatto che il medico prescrivente partecipi insieme allo specialista al principio di giustificazione (art. 3,comma 5); va peraltro rilevato che le modalità con cui tale collaborazione si deve esplicare non risultano ancora definite, in attesa che il Ministero della Sanità adotti le linee guida di cui all’art. 6, comma 1. Attività di vigilanza La nuova normativa conferma che la vigilanza in materia di protezione del paziente sottoposto ad esami e trattamenti medici con l’impiego di radiazioni ionizzanti spetta in via esclusiva alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale (art. 13). 23.6.2.1 Procedura amministrativa Il primo atto dell’odontoiatra che intenda utilizzare un apparecchio radiologico (tubo radiogeno) in suo possesso è quello di incaricare un esperto qualificato della sorveglianza fisica e del controllo di qualità (art. 77, D.Lgs. 230/1995). La nomina deve essere comunicata all’Ispettorato provinciale del lavoro competente per territorio, allegando la dichiarazione di accettazione dell’incarico da parte dell’Esperto Qualificato ,che deve risultare iscritto all’elenco nominativo istituito presso l’Ispettorato medico centrale del lavoro. L’esperto qualificato, in base alle valutazioni relative all’entità di rischio, fornisce quindi all’odontoiatra una relazione scritta, contenente le valutazioni e le indicazioni di radioprotezione inerenti l’attività radiodiagnostica, specificando: › il benestare sui progetti di installazione del radiografico; › l’esito della prima verifica; › l’individuazione e la classificazione delle zone ove sussiste rischio di radiazioni; › la classificazione dei lavoratori addetti (per l’attività nello studio odontoiatrico saranno classificati come “non esposti”); › la frequenza delle valutazioni di sorveglianza fisica; › tutti i provvedimenti di cui ritenga necessaria l’adozione, al fine di assicurare la sorveglianza fisica. Sulla base di queste indicazioni, il titolare dello studio odontoiatrico provvederà ai necessari adempimenti, e in particolare egli dovrà: › assicurare che gli ambienti in cui sussista un rischio da radiazioni vengano individuati, delimitati, classificati e segnalati; › verificare che la classificazione dei lavoratori (associati, collaboratori) non differisca da quella di lavoratori “non esposti”; › predisporre norme interne di protezione e sicurezza adeguate al rischio (di solito fornite dall’esperto stesso); curare che copia di dette norme sia consultabile nei luoghi frequentati dai lavoratori, in particolare nelle zone sorvegliate, e provvedere affinché vengano osservate; › assicurarsi che siano indicate, mediante appositi contrassegni, le sorgenti di radiazioni ionizzanti. Questi adempimenti vengono solitamente predisposti e attuati direttamente dagli esperti qualificati, a eccezione del controllo sull’osservanza delle norme interne da parte dei lavoratori. Poiché l’attività radiodiagnostica propria dell’odontoiatra consente di classificare i dipendenti come lavoratori non esposti (ovvero suscettibili di ricevere una dose annuale inferiore ai limiti fissati per le persone del pubblico), l’odontoiatra è dispensato dalla sorveglianza medica e dosimetrica sui dipendenti. La dose ricevuta dagli operatori può essere valutata sulla scorta dei risultati della sorveglianza ambientale. Altri adempimento cui è obbligato il possessore del tubo radiogeno sono: › comunicare alla Azienda USL competente per territorio4 la detenzione dell’apparecchio radiografico, indicando il tipo di apparecchiatura posseduta e le finalità della detenzione (attività radiodiagnostica complementare all’esercizio clinico dell’odontoiatria); › pagare il premio assicurativo INAIL facendo apposita denuncia all’ufficio competente per territorio entro 30 giorni dall’inizio dell’esercizio(art.2, DPR n.1055/1960), al fine di assicurarne la copertura assicurativa obbligatoria (art.5, Legge n.93/1958). (NB: va comunicata anche e la sua eventuale dismissione). Nella lettera devono essere riportati: data collaudo generatore (installazione apparecchio) e numero matricola (N. unico identificativo apparecchio) oltre alla marca e modello. La documentazione, tenuta a cura dell’esperto qualificato incaricato per conto dell’odontoiatra, deve essere così conservata: › per almeno 5 anni dalla data di compilazione i verbali di verifica periodica, con le valutazioni delle zone sorvegliate e della dose ricevuta dai lavoratori (non esposti) in essi contenute; › sino a 5 anni dalla cessazione dall’attività radiodiagnostica la relazione relativa all’entità di rischio e all’esame preventivo dei progetti (relazione iniziale) e delle eventuali modifiche di installazione. In caso di cessazione definitiva dall’attività professionale, i documenti predetti devono essere consegnati entro 6 mesi all’Ispettorato provinciale del lavoro competente per territorio che ne assicurerà la conservazione. NB: Tutti gli oneri economici derivanti dalla sorveglianza fisica della radioprotezione, recita la legge, sono a carico dell’odontoiatra. La vigilanza sull’applicazione delle disposizioni che disciplinano l’uso delle radiazioni ionizzanti in campo medico è di competenza esclusiva degli organi del servizio sanitario nazionale competenti per territorio (ASL). Il controllo di qualità deve essere effettuato per opera del fisico sanitario o dell’esperto qualificato su specifico incarico scritto (contratto) del titolare dello studio. Le prove idonee a verificare le prestazioni funzionali di un ’apparecchiatura sono classificate in tre tipologie: a) prova di accettazione e di collaudo: all’atto di installazione (nuovi radiografici) o dopo l’apporto di importanti modifiche; b) prova di verifica o di stato: per verificare il livello di funzionamento dell’apparecchiatura in rapporto alla funzione che deve svolgere (apparecchi in uso); c) prova di mantenimento o di costanza:per verificare periodicamente il corretto funzionamento, attraverso singoli test (controlli periodici). Il risultato delle prove di partenza servirà per valutare lo stato di funzionamento e affidabilità dell’apparecchiatura, al fine di programmare i successivi controlli periodici e la loro cadenza. Infatti, su questa base l’esperto qualificato predispone un protocollo per il tipo di apparecchiatura posseduta dall’odontoiatra che preveda quali parametri verificare, le procedure e la periodicità dei controlli (con cadenza perlomeno annuale/biennale). Dell’esito del controllo verrà, di volta in volta, redatto apposito verbale (da archiviare). 23.6.2.2 Elenco degli obblighi relativi all’applicazione dei Decreti Legislativi 187/00 e 241/00 1) Comunicazione preventiva di pratiche: chiunque intende intraprendere una pratica (cioè un’attività che può aumentare l’esposizione degli individui alle radiazioni ionizzanti) comportante la detenzione di apparecchi RX deve darne comunicazione 30 giorni prima dell’inizio della detenzione alle seguenti autorità: - Comando Provinciale dei VV.FF. - Organi del Servizio Sanitario Nazionale - Direzione Provinciale del lavoro, se vi è personale dipendente o equiparato - Agenzia Regionale per l’Ambiente (ARPA). La comunicazione deve contenere l’indicazione dei mezzi di protezione posti in atto. In pratica,occorre allegare ad essa la relazione preventiva che il datore di lavoro deve acquisire dall’E.Q. ai sensi dell’art. 61 del D.Lgs 230/95, e che costituisce anche il documento di cui all’art. 4, comma 8, del D.lgs. 626/94. Essa sostituisce la Denuncia di detenzione dei nuovi apparecchi RX, che doveva essere effettuata entro 10 giorni dalla data di entrata in possesso. 2) Il Registro delle valutazioni di radioprotezione, così come le eventuali schede dosimetriche,non devono più essere vidimati dalla Direzione Provinciale del lavoro. 3) Sono introdotti: livelli diagnostici di riferimento (LDR), da verificare ogni due anni a cura del Responsabile delle attrezzature, con lo scopo di ottimizzare le prestazioni. I livelli diagnostici da usare come riferimento sono indicati nelle linee guide proposte dall’allegato II al D.Lgs. 187/2000. 4) Sugli apparecchi radiologici devono essere presenti i contrassegni (trifoglio nero su fondo giallo) indicanti la sorgente di radiazioni ionizzanti. 5) Sul lato esterno di ciascuna delle porte di accesso ai locali con gli apparecchi RX deve essere presente il cartello di segnalazione con la classificazione di radioprotezione (trifoglio e scritta “Zona Sorvegliata” o, più raramente, “Zona Controllata”). 6) Il Medico Responsabile delle apparecchiature radiologiche può essere lo stesso Dentista, a patto che ne sia anche l’esercente e che sia abilitato a svolgere direttamente l’indagine clinica. In caso contrario, occorrerebbe incaricare un Medico Radiologo. Vecchi e nuovi compiti del Responsabile › Predisporre e provvedere a che siano intrapresi adeguati programmi di garanzia della qualità,compreso il controllo della qualità, e di valutazione della dose somministrata ai pazienti. › Provvedere a che siano effettuate prove di accettazione prima dell’entrata in uso delle attrezzature radiologiche e, quindi, prove di funzionamento, sia ad intervalli regolari che dopo ogni intervento importante di manutenzione. › Predisporre, avvalendosi dell’incaricato dell’esecuzione dei controlli di qualità, il protocollo di esecuzione delle prove necessarie ad esprimere il giudizio di idoneità. › Esprimere il giudizio di idoneità all’uso clinico delle attrezzature in base ai risultati delle prove e dei controlli effettuati. › Procedere, alla verifica biennale dei livelli diagnostici di riferimento (LDR) indicati per gli esami del cranio nell’allegato II° al D.Lgs 187/00, e annotare su apposito registro i risultati della verifica. › Segnalare all’esercente l’eventuale necessità di adottare gli interventi correttivi o quelli necessari ad ovviare agli inconvenienti, compreso quello di mettere fuori servizio le attrezzature. › Registrare e conservare, per almeno 5 anni, i dati relativi ai programmi, ai controlli e alle prove di cui sopra, anche su supporto informatico. In tal caso deve essere garantita la permanenza delle registrazioni, anche mediante la duplicazione del supporto. › Provvedere, insieme all’esercente, per quanto di rispettiva competenza, ai fini della valutazione delle dosi alla popolazione, a che le indagini con radiazioni ionizzanti siano registrate singolarmente, anche in forma sintetica e su supporto informatico. Da quanto precede risulta evidente che la responsabilità dei tipi di controlli scelti, delle procedure adottate per l’esecuzione dei controlli e dei giudizi finali sono completamente a carico del Responsabile dell’impianto radiologico. 7) L’esercente delle strutture ove si svolgono indagini con raggi X deve assicurarsi che vengano esposti, ai fini di una protezione particolare durante la gravidanza, avvisi atti a segnalare il potenziale pericolo per l’embrione ed il feto. Tali avvisi devono inoltre invitare esplicitamente la paziente a comunicare allo specialista lo stato di gravidanza certa o presunta (art.10, c. 5, D.Lgs. 1987/00). In ogni caso, lo specialista deve sempre effettuare una accurata anamnesi allo scopo di sapere se la donna è in stato di gravidanza (art. 10, c.1. D.Lgs, 1987/00). Documentazione di legge I nuovi obblighi di registrazione introdotti comportano un aumento nel numero dei registri: quelli della radioprotezione devono sempre avere pagine legate e numerate, per gli altri non vi sono indicazioni precise. In sintesi, si dovrebbero avere i seguenti documenti. › Registro delle valutazioni di radioprotezione: fino ad esaurimento rimane in uso quello attuale. › Registro dei protocolli e dei controlli di qualità e dei protocolli e delle prove di accettazione e di funzionamento. › Registro dei programmi di garanzia della qualità. › Registro delle verifiche biennali dei livelli diagnostici di riferimento (escluse radiografie endorali). › Registro delle singole indagini radiologiche, anche in forma sintetica. In alcuni casi è possibile la registrazione su supporto magnetico, in duplice copia. Formazione (Art. 7 del D.Lgs. 187/00) Il personale che opera in abiti professionali direttamente connessi con l’esposizione medica deve seguire corsi di formazione con periodicità quinquennale, nell’ambito della formazione continua di cui al D.Lgs. 502/92. È previsto un programma in materia di radioprotezione. ORGANISMI INTERNAZIONALI CHE “normano” nell’ambito delle radiazioni ionizzanti: › ICRP - Interantional Commission om Radiation Protection › ICRU - Interantional Commission on Radiological Units and Measurements › ISO - International Organization for Standardization › IEC - International Electrotechnical Commisison › UN - NAZIONI UNITE (ONU) › UNSCEAR - Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation › IAEA - International Atomic Energy Agency › WHO - Word Health Organization › FAO - Food and Agriculture Organization › WMO - Word Meteorological Organization › ILO - International Labour Organization › CE - COMUNITA’ EUROPEA › OECD - Organization for Economic Cooperation and Development › EURATOM - European Atomic Energy Community9 › ESPR - European Society for Radiation Protection › OAS - Organization of American States › IRPA - International Radiation Protection Association › BEIR - committee on Biolobical Effects of Ionizing Radiation (Board on Radiation effects Research Commission on Life Sciences National Research Council) Organismi che normano nel campo della Radioprotezione: › ICRP International Commission on Radiological Protection › Direttive agli stati membri CEE Comunità Europea › Leggi e decreti STATO e REGIONI › Decreti Presidente Repubblica, Decreti ministeriali. › Circolari ministeriali MINISTERI, ENEA-APAT, SSN › Organi di vigilanza Dir. Igiene e Sanità Pubblica APSS › Norme tecnico-industriali UNI, CEE, DIN … › Prescrizioni autorizzative AUTORITÀ COMPETENTE della COMUNITÀ EUROPEA, dell’ENERGIA ATOMICA (CEFEA o EURATOM) del 25 marzo 1957. L’EURATOM nel 1971 (comprensiva di CEE e CECA). Successivamente la Comunità si allargava con l’ingresso di nuovi Paesi. Nel 1992, in virtù del trattato di Maastricht assumeva la denominazione di UNIONE EUROPEA comprensiva di 15 Paesi. Nel maggio 2004 la Comunità si è allargata a 25 Paesi. Bibliografia › › › › › › › D.Lgs.17 marzo 1995 ,n.230 D.Lgs 187/2000 Bollettino ANDI n.2 della Sezione Provinciale di Torino. Anno 2001. Direttiva 2003/122/CE DLgs 06/0/06 DLg 81/2008 n.52 SOFTEC Technology & Research srl - via Stracciari, 2 - 40141 Bologna CAPITOLO 24 MATERIALI PER LO SBIANCAMENTO DENTALE FIG. 1 Discromia dentale post eruttiva da trauma dell’elemento 2.1 e presenza di una ricostruzione incongrua in materiale composito. 24.1 Lo sbiancamento Il colore di un dente è influenzato dalla colorazione intrinseca del dente stesso e dalla presenza di macchie estrinseche che si possono formare sulla superficie dei denti. La diffusione e l’assorbimento della luce all’interno dello smalto e della dentina danno luogo al colore intrinseco dei denti e poiché lo smalto è relativamente traslucido, le proprietà della dentina possono svolgere un ruolo importante nel determinane il colore. Le macchie estrinseche tendono a formarsi in aree dell’elemento dentario che sono meno accessibili agli spazzolini e all’azione abrasiva di un dentifricio, e sono spesso causate dal fumo, dall’assunzione di alimenti ricchi di tannino e dall’uso di alcuni agenti cationici quali la clorexidina, o da sali di metalli quali stagno e ferro. Secondo un articolo di Nathoo pubblicato nel 1997 è possibile classificare le pigmentazioni del dente in estrinseche ed intrinseche. Le discromie estrinseche sono causate da pigmentazioni depositate sulla superficie del dente e vengono a loro volta suddivise in tre sottogruppi: › tipo-N1 in cui il cromogeno si lega alla superficie del dente favorendo la formazione di una pigmentazione con la stessa colorazione del cromogeno stesso (cibi e bevande come carote, rape rosse, liquirizia, caffè, vino rosso, tè ecc); › tipo-N2 in cui il cromogeno cambia colore dopo essersi depositato sull’elemento, questo cambiamento cromatico può essere causato da una modificazione di tipo chimico (macchie giallastre situate nelle aree interprossimali dei denti); › tipo-N3 sono quelle che si formano a causa di reazioni chimiche che determinano la discolorazione di sostanze, inizialmente incolori, depositate sulla superficie dell’elemento dentario (clorexidina, cibi ad elevato contenuto di carboidrati, floruro stannoso). Le discromie intrinseche sono causate dalla presenza della pigmentazione all’interno dello smalto e/o della dentina e possono essere suddivise a seconda del perio- do di azione della noxa patogena in pre e post eruttive: › tetracicline, fluorosi, disordini ematologici e anomalie di struttura quali amelogenesi e dentinogenesi imperfetta sono tutti agenti che possono causare discromie intrinseche pre eruttive; › traumi, terapie endodontiche incongrue e invecchiamento possono causare discromie intrinseche posteruttive (fig. 1). I metodi per la rimozione delle discromie dentarie sono molteplici. Gli approcci possono diversificarsi a seconda della natura della discromia, dal suo grado e dalle condizioni dell’elemento dentario (sano, vitale, non vitale, cariato, ricostruito): possiamo distinguere gli approcci domiciliari da quelli professionali. Per il trattamento domiciliare sul mercato sono disponibili una notevole quantità di agenti sbiancanti da usare nelle pratiche di igiene orale quotidiano, quali dentifrici, colluttori, fili interdentali e spazzolini sbiancanti, gomme da masticare e specifici prodotti per lo sbiancamento domiciliare di denti vitali, mentre per il trattamento professionale gli approcci sono distinti in detersione professionale della superficie dentale, sbiancamento professionale di denti vitali e non vitali, ricopertura degli elementi dentari con dispositivi conservativi o protesici (ricostruzioni in composito, faccette e corone). 24.2 Il trattamento professionale 24.2.1 Detersione professionale delle superfici dentali Le sedute di igiene professionale sono delle tecniche di sbiancamento di tipo meccanico: l’uso di sostanze abrasive contenute nelle paste profilattiche e la detartrasi stessa sono in grado di prevenire l’accumulo di pigmentazioni e di rimuovere le macchie discromiche estrinseche che sono presenti sulla superficie dentale (tartaro, placca, nicotina ecc.) 24.2.2 Lo sbiancamento professionale Lo sbiancamento professionale è una procedura di tipo chimico che sfrutta le proprietà di particolari principi attivi. Normalmente viene eseguita utilizzando agenti sbiancanti con concentrazioni elevate per disgregare i gruppi cromogeni responsabili della pigmentazione dentaria, rendendo la superficie dei denti più bianca. Con lo sbiancamento professionale i denti possono essere sbiancati con successo utilizzando agenti sbiancanti (perossido di idrogeno, perossido di carbamide, acido borico, solfato di sodio) altamente concentrati (30-35%) (fig. 2). Le procedure alla poltrona sembrano rappresentare una valida alternativa alle applicazioni domiciliari soprattutto nel caso di macchie molto intense, denti singoli decolorati, mancanza di compliance del paziente o, se viene richiesta, per una soluzione rapida del problema. Il trattamento professionale può essere applicato anche come una sorta di terapia di attacco, in modo da avviare il processo di sbiancamento che può essere proseguito dal paziente con le tecniche domiciliari. In genere, una singola seduta di sbiancamento non è sufficiente per ottenere risultati ottimali. Ciò significa che la procedura deve essere ripetuta più volte durante un appuntamento o anche negli appuntamenti successivi che sono necessari per ottenere i risultati ottimali sperati. FIG. 2 Sbiancamento professionale con prodotto a base di perossido di idrogeno al 35%. I composti sbiancanti possono essere suddivisi in base al loro meccanismo di azione in ossidanti e riducenti. Gli ossidanti a loro volta vengono distinti in: › diretti (perossido di idrogeno), in cui la scissione del componente determina la liberazione dell’ossigeno che è responsabile dell’azione sbiancate; › indiretti come il cloro il quale, reagendo con l’acqua, forma acido cloridrico ed ossigeno. Gli agenti riducenti, oggi poco utilizzati, sono costituiti da una miscela di acido borico e solfato di sodio. Tale miscela libera acido solforoso che, avendo una notevole affinità per l’ossigeno, sottrae quest’ultimo alla sostanza colorata che viene così decomposta. Gli attuali sistemi per lo sbiancamento professionale dei denti sono basati principalmente sugli agenti di tipo ossidante come il perossido di idrogeno e uno dei suoi precursori, il perossido di carbamide. Queste molecole determinano uno sbiancamento dei cromogeni all’interno della dentina, riducendo così il colore del corpo dentale e sono spesso usati in combinazione con un agente attivante come il calore, la luce o il laser. Tali agenti possono essere applicati esternamente ai denti (sbiancamento dei denti vitali) o internamente (sbiancamento dei denti non vitali). 24.2.2.1 Il perossido di idrogeno Il perossido di idrogeno o acqua ossigenata (H2O2) è un agente ossidante che si presenta sotto forma di un liquido incolore con un sapore amaro. Grazie alle sue proprietà, è impiegato per un ampio numero di applicazioni a livello industriale. Ad esempio, viene utilizzato come sostanza sbiancante per decolorare tessuti, capelli, pellicce e alimenti; è impiegato nel trattamento di depurazione delle acque, come disinfettante e nella distillazione del vino. In virtù delle sue proprietà sbiancanti, il perossido di idrogeno è un composto che viene ampiamente utilizzato per la produzione dei numerosi prodotti indicati per lo sbiancamento dentale. Il meccanismo d’azione del perossido di idrogeno Il perossido di idrogeno è un composto chimico inorganico contenente il gruppo caratteristico formato da due atomi di ossigeno uniti da un legame covalente semplice (legame O-O): in soluzione è un composto instabile e si decompone liberando ossigeno gassoso secondo la seguente reazione: 2H2O2 FIG. 3 Stesso caso della figura 1 dopo aver effettuato lo sbiancamento professionale ed aver sostituito la vecchia ricostruzione. 2H2O + O2 La sua forma più stabile, ottenuta grazie all’aggiunta di agenti chelanti che sono in grado di legare gli ioni metallici liberi, risulta essere quella indissociata. Il pH ideale per ottenere la migliore efficacia di questo agente ossidante è quello basico, con valori che oscillano da 9,5 a 10,8, poichè a questo livello di pH si ottiene durante la ionizzazione del perossido di idrogeno il maggior numero di radicali liberi, che aumentano l’effetto sbiancante. Grazie alla microporosità presenti sulla superficie dello smalto che si prolungano negli spazi interprismatici, l’ossigeno libero, sprigionato dalla scissione del perossido, penetra nella struttura porosa fino a raggiungere la giunzione amelodentinale, agendo sui gruppi cromofori annidiati all’interno della struttura dentaria. L’ossigeno libero e i suoi radicali rappresentano l’agente ossidante, che è in grado di rimuovere la materia inorganica libera dal dente, senza andare a dissolvere la matrice dello smalto, e che riesce a convertire le discromie dentali in tonalità più chiare. Le molecole del pigmento subiscono un processo di decomposizione che avviene grazie alla rottura dei doppi legami da parte dell’ossigeno che le scompone in particelle più semplici e incolori che, grazie alla maggiore solubilità vengono facilmente eliminate attraverso il lavaggio. La progressione del processo di sbiancamento porta ad un processo di saturazione, la superficie dello smalto si satura di agente sbiancante, per cui l’effetto del trattamento sbiancante arriva ad esaurirsi: è a questo punto che si deve terminare lo sbiancamento per evitare di causare danni alla superficie dentale. 24.2.2.2 Il perossido di carbamide Il perossido di carbamide (NH2-CO-NH2) è un agente organico con proprietà ossidanti, che risulta essere composto da perossido di idrogeno e urea; il perossido di carbamide al 10% viene degradato per una quota del 3% in perossido di idrogeno e del 7% in perossido di urea. L’urea mantiene il pH intorno a valori pari a 6,5-6,8, riducendo il rischio di dissoluzione dello smalto, mentre il perossido di idrogeno, grazie al suo basso peso molecolare, attraversa lo smalto e dissociandosi determina la liberazione di ossigeno. Il meccanismo di azione di questo composto è analogo a quello del perossido di idrogeno, la differenza viene evidenziata dalla presenza di urea che è responsabile dell’effetto antiplacca. L’urea, infatti, si scinde in anidride carbonica ed ammoniaca secondo la seguente formula CO(NH2)2 + H2O CO2 + 2NH3 determinando un aumento del pH che ostacola la formazione della placca stessa. Differentemente dal perossido di idrogeno, il perossido di carbamide, grazie alla sua proprietà di rilasciare urea risulta essere un prodotto molto più stabile e duraturo nel tempo. È un prodotto che si è dimostrato efficace anche nel trattamento dei denti non vitali. Alcuni prodotti sbiancanti possono contenere polimeri dell’acido poliacrilico, come il Carbopol, che hanno lo scopo di aumentare la viscosità del gel che viene applicato sulla superficie dentale. Queste sostanze determinano un rallentamento e un controllo del rilascio di ossigeno e aumentano l’aggressività del prodotto sulle superfici dentarie grazie alla loro azione inibitrice esercitata sulle perossidasi salivari che sono enzimi antago- nisti del meccanismo sbiancante del perossido di idrogeno. 24.2.2.3 Gli effetti collaterali I possibili effetti collaterali di un trattamento sbiancante professionale sono i seguenti. › Sensibilità dentale: gli agenti ossidanti determinano una maggiore presenza delle porosità sulla superficie dello smalto che sono responsabili della sensibilità dentale post-operatoria che è variabile da persona a persona e da prodotto a prodotto, è quasi sempre reversibile entro i 2-3 giorni dalla fine del trattamento ed è comunque controllabile dall’operatore odontoiatrico anche durante il corso del trattamento stesso. Il trattamento sbiancante in alcuni casi può portare ad una riduzione della microdurezza dello smalto che, tuttavia, grazie ad un processo di rimineralizzazione, torna alle condizioni iniziali. I principi attivi degli agenti sbiancanti sono responsabili delle alterazioni dello smalto che si verificano dopo un trattamento professionale: inizialmente si pensava che queste alterazione fossero imputabili alla forte acidità del prodotto, invece con studi successivi si è scoperto che la causa sono le elevate concentrazione del prodotto che possono portare alterazione morfologiche all’interno dello smalto, non solo in superficie ma anche in profondità. I radicali liberi, attivi contro le molecole pigmentanti, non presentando specificità d’azione possono danneggiare anche la componente organica dello smalto, aumentando la permeabilità della superficie dentale che permette all’urea di penetrare (in percentuali molto basse) e causare la denaturazione delle proteine strutturali. › Sensibilità dentale elevata: questa si verifica se sono presenti molte otturazioni sui denti a contatto con il prodotto sbiancante a causa di una penetrazione più profonda degli agenti ossidanti all’interno dell’elemento dentario. L’azione dell’ossigeno libero sul collagene pulpare determina un lento rilascio di agenti dell’infiammazione che sono responsabili dell’ipersensibilità dentinale. › Irritazione dei tessuti molli: per poter effettuare un trattamento sbiancante è necessario isolare il campo operatorio per proteggere la mucosa gengivale: a tal fine sono disponibili prodotti come la diga di gomma e la diga liquida che permettono di isolare i denti e impediscono al materiale di venire a contatto direttamente con i tessuti molli. Questo permette di evitare la formazione di lesioni orali che danno sensazioni di bruciore, gusto sgradevole e irritazione gengivale più o meno acute. › Impossibilità di effettuare restauri adesivi subito dopo il trattamento: la presenza di radicali liberi residui sulla superficie del dente influenza in maniera negativa il legame adesivo. Per questo motivo è opportuno aspettare almeno due settimane dalla fine del trattamento per ottenere un legame adesivo clinicamente accettabile. 24.2.2.4 Metodi per accelerare il processo di sbiancamento Per accelerare il processo di sbiancamento l’agente sbiancante può essere attivato attraverso l’aumento di temperatura. Principalmente, l’applicazione di una fonte di calore, o di una luce o del laser è usata per aumentare la temperatura dell’agente sbiancante applicato alla superficie del dente. Da un punto di vista scientifico, i dati relativi ai meccanismi di azione e all’efficacia del laser, della luce e del calore sull’attivazione dei sistemi sbiancanti per uso dentale sono ancora limitati. La termocatalisi Il rilascio di radicali ossidrile del perossido viene accelerato da un aumento della temperatura secondo la seguente equazione: H2O2 + 211 kJ / mol 2HO- Ciò significa che per ogni aumento di temperatura di 10°C la velocità di scissione del perossido di idrogeno in ioni ossidrile aumenta di un fattore di 2,2, determinando l’efficacia del trattamento sbiancante. Tuttavia, l’intervallo utile per un aumento di temperatura è limitato a causa delle possibilità di danneggiare la polpa dentaria. Se la luce viene applicata su un prodotto sbiancante, come un gel sbiancante, una piccola frazione viene assorbita e la sua energia viene convertita in calore. Molto probabilmente, questo è il principale meccanismo di azione di tutte le procedure di sbiancamento fotoattivabili. Al fine di aumentare l’assorbimento della luce e, di conseguenza, la conversione in calore, alcuni prodotti sbiancanti vengono mescolati con coloranti specifici, ad esempio carotene. Il colore rosso-arancio del carotene aumenta l’assorbimento della luce blu. Al fine di aumentare l’assorbimento di luce rossa e infrarossa, possono essere aggiunte piccole particelle di silice in scala nanometrica, che conferiscono a questi prodotti un aspetto bluastro. La fotolisi Il rilascio di radicali idrossili può essere aumentato anche attraverso l’eccitazione diretta della luce (fotolisi). L’energia necessaria può essere fornita da una luce ad alta frequenza, corrispondente ad una lunghezza d’onda di circa 248 nm. Per una migliore sicurezza delle procedure di sbiancamento fotoattivabile, la sorgente luminosa utilizzata è un fattore importante. Sul mercato sono attualmente disponibili una notevole varietà di lampade per la fotoattivazione dei prodotti sbiancanti che differiscono notevolmente: › Alogena (600 mW); › Plasma-Arc-Xeno (1500-1930 mW); › Alogena ad alta intensità (1000 mW); › LED (300-400 mW); › LED + Alogena (40-450 mW). La maggior parte delle lampade commercializzate per l’uso con i sistemi di sbiancamento fotoattivabili sono lampade per la fotopolimerizzazione della resina che in alcuni casi hanno una impostazione supplementare per sbiancare (modalità sbiancamento). I sistemi luminosi che sono specificamente progettati per le procedure di sbiancamento sono costruite in modo tale che il fascio di emissione di luce possa colpire e illuminare più denti, ad esempio l’intero arco dentale. Il meccanismo d’azione dei sistemi laser offerti per scopi di sbiancamento dipende dalla lunghezza d’onda, dalla potenza della radiazione e dalla modalità di impulso, se prevista. I sistemi laser per lo sbiancamento di solito prevedono un manipolo che espande il raggio laser in modo tale che il fascio laser non viene utilizzato a focalizzato su un unico punto. Con l’espansione del raggio laser, la luce laser si diffonde sulla superficie di più denti. Di conseguenza, alcune proprietà tipiche di questo sofisticato strumento vengono perse, ma il rischio di danneggiamento dei tessuti è ridotto. Il potenziale aumento dell’efficacia del gel sbiancante mediante l’attivazione con la luce non è ancora ben documentato. Tuttavia, le pubblicazioni più recenti indicano che il beneficio dell’uso aggiuntivo di lampade, sistemi laser e fonti di calore è limitato. Inoltre è stato dimostrato che l’utilizzo di questi coadiuvanti per le procedure di sbiancamento porta ad un aumento della temperatura all’interno della camera pulpare con possibili formazioni di danni irreversibili e conseguente perdita della vitalità del dente. 24.3 Lo sbiancamento dei denti non vitali La causa più comune che determina la discolorazione dei denti non vitali è l’emorragia della polpa che si verifica dopo un trauma o dopo un trattamento di pulpectomia. Il sangue entra nei tubuli dentinali e poi si decompone. Questo porta ad un deposito di cromogeni derivati dalla degradazione sanguigna, come emosiderina, emine, ematina, e ematoidina. Allo stesso modo, la necrosi pulpare può dar luogo a prodotti cromogeni che derivano sia dalla degradazione del sangue sia dalla degradazione delle proteine del tessuto pulpare, anche esse responsabili della formazione di agenti cromogeni. Anche la calcificazione della polpa provoca lo scolorimento dentale attraverso l’obliterazione dei tubuli dentinali e l’accumulo di dentina terziaria, ma il dente rimane vitale. Questo processo si verifica spesso a seguito di traumi. Un certo numero di interventi dentali possono causare lo scolorimento interno. Se il tessuto pulpare non viene completamente rimosso durante il trattamento endodontico, il tessuto rimanente può portare alla decolorazione. Gli irriganti canalari, i materiali per il riempimento endodontico (endomethazone e pasta iodoformica) e altri materiali da restauro (amalgama d’argento) possono causare variazioni del colore dentale. La combinazione degli irriganti canalari che contengono ipoclorito di sodio (anche a basse concentrazioni) e clorexidina porta alla precipitazione di cromogeni bru- no-rossastri all’interno dei tubuli dentinali. Per evitare questa reazione, si consiglia di eseguire un’irrigazione finale di ipoclorito di sodio o di acqua distillata. Le tecniche più popolari per lo sbiancamento dei denti non vitali sono: › lo sbiancamento ambulante (walking bleaching); › lo sbiancamento interno ed esterno (inside/outside bleaching) Lo sbiancamento ambulante è una tecnica, introdotta per la prima volta da Spasser nel 1961, che prevede l’inserimento del perborato di sodio miscelato con acqua in una pasta all’interno della cavità pulpare. Prima di inserire il gel sbiancante a base di perossido di idrogeno o di carbamide al 10 o al 35%, è opportuno assicurarsi che la cavità di accesso sia pulita e priva di ogni residuo, inoltre bisogna isolare e proteggere l’endodonto da possibili infiltrazioni, per diminuire il rischio di riassorbimento radicolare. Questo è possibile posizionando sul fondo della cavità pulpare un cemento (ossifosfato di zinco, vetroionomero). Tale strato di cemento sarà posizionato al di sotto della giunzione amelocementizia in modo che il prodotto sbiancante agisca anche a livello dei tubuli dentinali che hanno origine più bassa. Una volta posizionato il materiale sbiancante, si chiude il dente tramite un’otturazione provvisoria. Dopo alcuni giorni (3-7 giorni), il risultato sbiancante viene esaminato e, se necessario, l’agente sbiancante viene nuovamente inserito nella cavità di accesso fino ad ottenere il risultato sperato. La tecnica dello sbiancamento interno ed esterno, descritta per la prima volta da Settembrini nel 1997, come suggerisce il nome, prevede l’applicazione dell’agente sbiancante sia sulle superfici esterne sia su quelle interne del dente. La cavità di accesso viene realizzata come nella tecnica dello sbiancamento ambulante e protetta in maniera analoga per garantire un corretto sigillo endodontico. Il gel sbiancante, dopo un tempo di applicazione di 15-20 minuti durante il quale viene mosso, viene risciacquato e la procedura viene ripetuta se necessario per ottenere il risultato desiderato. La tecnica termocatalitica e concentrazioni elevate degli agenti sbiancanti dovrebbero essere evitate, in quanto ciò può aumentare il rischio di riassorbimento radicolare. I pazienti devono essere informati circa la scarsa prevedibilità di successo dello sbiancamento e il rischio di recidiva. 24.4 Lo sbiancamento domiciliare Con sbiancamento domiciliare si intendono tutte le tecniche che prevedono l’utilizzo da parte del paziente di sostanze che abbiano proprietà sbiancanti (figg. 4- 9). I prodotti che generalmente vengono utilizzati per queste procedure, sono dei gel a base di perossido di carbamide a basse concentrazioni (10, 15 o 20%). La concentrazione più utilizzata è quella al 10% perché presenta la maggior efficacia con i minori effetti collaterali, diminuendo al minimo episodi di ipersensibilità FIG. 4 Mascherine per lo sbiancamento domiciliare. FIG. 5 Lieve discromia dentale generalizzata. FIG. 6 Applicazione della mascherina. dentinale. Questi prodotti, forniti in pasta o in gel contenuto in siringa vengono consegnati al paziente insieme ad una mascherina personalizzata dove verranno applicati. Tale mascherina dovrà essere portata dal paziente per un tempo variabile secondo il prodotto usato e la sua concentrazione. 24.5 I trattamenti fai-da-te 24.5.1 Dentifrici sbiancanti FIG. 7 Rimozione della mascherina. FIG. 8 Dopo la rimozione della mascherina rimane una striscia contenente l’agente sbiancante a basse concentrazioni. I dentifrici che sostengono di avere proprietà sbiancanti rappresentano circa il 40-50% dei prodotti presenti sul mercato e raramente contengono perossido di idrogeno o di carbamide o qualsiasi altro tipo di agente sbiancante. La loro capacità di rimuovere le macchie è legata esclusivamente alla quantità di abrasivi contenuti nella loro formulazione, che è maggiore di quella presente nelle normali paste dentifricie. Sono prodotti che rimuovono solo le pigmentazioni superficiali estrinseche. Ovviamente, l’abrasività di questo tipo di dentifrici, che sono oggi formulati per un uso quotidiano, deve essere sempre tale da evitare un’usura eccessiva dello smalto e della dentina. Anche se i dentifrici sbiancanti possono prevenire la formazione di macchie estrinseche sulla superficie dentale, l’effetto sbiancante ottenuto con questi prodotti non sembra essere clinicamente significativo se paragonati con gli agenti sbiancanti professionali o domiciliari a base di perossido di idrogeno o di carbamide. 24.5.2 Collutori sbiancanti I collutori sbiancanti sono apparsi recentemente sul mercato e i produttori pubblicizzano la loro capacità i combattere la placca e la formazione di macchie sulle superfici dentarie. Generalmente, è presente una bassa concentrazione di perossido di idrogeno (1,5%) e l’esametafosfato di sodio può essere incluso nella formulazione per proteggere la superficie dei denti dal deposito di nuove macchie. 24.5.3 Fili interdentali, spazzolini e gomme da masticare FIG. 9 Stesso caso della figura 4 dopo sbiancamento domiciliare. Recentemente, i produttori di prodotti per l’igiene orale hanno sviluppato altri metodi con presunte proprietà sbiancanti. Il filo interdentale sbiancante è stato introdotto per promuovere la riduzione delle macchie intorno alle aree interprossimali e subgengivali. La capacità di rimuovere le macchie è associata alla presenza di silice nella composizione, che promuove una abrasione superficiale durante l’applicazione nella regione interdentale. Tuttavia, nessuna relazione clinica è attualmente disponibile per confrontare l’efficacia di questi dispositivi con quelli non sbiancanti. Gli spazzolini manuali o elettrici, oltre ad essere utilizzati per le manovre di igiene orale domiciliare, possono essere utilizzati anche per mantenere l’effetto sbiancante o prevenire le macchie estrinseche dopo trattamenti di sbiancamento. Una capacità migliore di mantenimento dell’effetto sbiancante è stata riportata per gli spazzolini elettrici rispetto a quelli manuali. Le gomme da masticare con esametafosfato di sodio (4,0-7,5%) sono state introdotte come prodotti sbiancanti per uso domestico con la pretesa di impedire la formazione di macchie estrinseche sui denti. Uno studio del 2006 ha evidenziato come l’uso di una gomma da masticare contenente esametafosfato può determinare una riduzione della formazione di macchie rispetto ad una gomma normale. Bibliografia 24.5.4 Strisce sbiancanti (whitening strips) › Le whitening strips sono state create per evitare l’uso di mascherine preformate sulla bocca del paziente. Le strisce contenenti agenti sbiancanti aderiscono ai denti anteriori e rilasciano il principio attivo durante periodi di tempo relativamente brevi (da 5 a 60 minuti), e possono essere applicate una volta o due volte al giorno. Il principio attivo è il perossido di idrogeno in basse concentrazioni (da 5 a 14%). Studi hanno dimostrato che vi è un aumento dell’effetto sbiancante quando le strisce sono utilizzate per 28 giorni rispetto ai 14 giorni, e che l’effetto sbiancante può essere mantenuta per circa 2 anni. Nonostante l’effetto sbiancante sia ottimale, la sensibilità dei denti è più pronunciata di quella osservata quando vengono utilizzate le mascherine preformate. L’apparente vantaggio di questi prodotti è soprattutto nel costo, ovviamente più basso rispetto alle tecniche professionali, e la maggiore facilità nel reperirli, infatti si possono trovare nei supermercati, nelle farmacie e su internet. Nonostante questi vantaggi, sono prodotti che vengono utilizzati da parte del paziente senza alcun controllo da parte dell’odontoiatra o dell’igienista e quindi rischiano di non essere adeguati alle loro esigenze. Il paziente infatti può non essere a conoscenza di determinate patologie presenti nel suo cavo orale (recessioni, abrasioni, carie, ricostruzioni in composito) che possono compromettere sia la salute dei suoi denti sia il risultato estetico finale. Talvolta si assiste ad uno sbiancamento parziale di taluni elementi proprio a causa di una patologia sopra elencata. › › › › › › › › › › › › › › › › › › › › › › › › › Arens D. The role of bleaching in esthetics. Dent Clin North Am 1989;33:319–336. Attin T, Kielbassa AM, Schwanenberg M, Hellwig E. Effect of fluoride treatment on remineralization of bleached enamel. J Oral Rehabil. 1997 Apr;24(4):282-6. Basrani B R, Manek S, Sodhi R N, Fillery E, Manzur A: Interaction between sodium hypochlorite and chlorhexidine gluconate. 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Tramite il processo di puntatura è possibile aggiungere ad una banda tutta una serie di componenti accessori , tra cui i cleats linguali ed i tubulari. La scelta della banda dipende, quindi dalla tecnica ortodontica che si intende utilizzare. Bite (dall’inglese=morso): presidio terapeutico-diagnostico utilizzato principalmente in gnatologia. Esistono diverse tipologie di bite, ciascuna prodotta con diverse metodiche atte a esaudire le diverse funzioni richieste al dispositivo stesso. La funzionalità del bite si esplica nel momento in cui, posizionato tra le arcate dentarie, ne consente di modificare i rapporti. Boxaggio: rappresenta l’inscatolamento dell’impronta, che può essere effettuato anche con fogli di cera. Il boxaggio è uno dei passaggi necessari al fine di ottenere un modello in gesso preciso. C Calcinabile: materiale che sottoposte ad elevate temperature, Colatura (dei modelli): fase di realizzazione dei modelli. Consiste nel colare il materiale gessoso all’interno dell impronte, in modo da ottenere una copia in positivo delle arcate dentarie. va incontro a completa evaporazione, senza lasciare tracce e residui nella massa refrattaria. Sia la cera, sia le resine del tipo duralay sono materiali calcinabili. Calcinazione: trattamento termico eseguito mediante riscaldamento ad elevata temperatura (5001000°C) su alcune sostanze specialmente carbonati ed idrossidi, allo scopo di eliminarne completamente la porzione volatile (H2O e CO2) ed ottenere un prodotto solido (generalmente ossido). Cappetta: nelle corone in metalloceramica la cappetta è l’anima in metallo della ricostruzione protesica sopra la quale sarà successivamente cotta la porcellana. Carta da articolazione: sottile pellicola colorata che consente l’identificazione dei punti di contatto occlusali e di diagnosticare eventuali precontatti. E’ presente in commercio in diversi spessori standardizzati, facilmente riconoscibili da un relativo codicecolore. Ceratura diagnostica: modellazione in cera del futuro manufatto protesico. Consente al clinico una migliore pianificazione del piano di trattamento ed al Corona Corona (anatomica) è la parte del dente ricoperta dallo smalto; è separata dalla radice per mezzo di un colletto ristretto. › Corona (clinica) rappresenta la parte visibile del dente all’interno del cavo orale (la porzione esterna alla gengiva). › Corona protesica: è un restauro che sostituisce l’ intera corona naturale del dente ripristinandone le funzioni. › Corona telescopica: particolare corona protesica composta da una parte primaria, perfettamente conica, su cui si inserisce una parte secondaria che risulta assicurata alla prima per frizione o tramite interposizione del cemento. › F Faccetta: ricostruzione indiretta del versante vestibolare dei denti del sestante anteriore, applicata generalmente per fini estetici. Film (pellicola): sottile strato di una sostanza I Impianto (dentale): dispositivo biocompatibile e biofunzionale inglobato nel tessuto osseo al fine di sostenere una protesi fissa o rimovibile. Intarsio: restauro indiretto che riproduce parzialmente (in modo più o meno esteso) l’anatomia dentale. M Marginatura: preparazione di rifinitura del margine di chiusura della protesi fissa. Margine di chiusura: termine comunemente utilizzato per indicare i margini cervicali (bordi) degli elementi protesici fissi situati sui pilastri. Overdenture: protesi totale munita di dispositivi di ancoraggio che ne permettono la connessione a dispositivi ritentivi (attacchi), a loro volta connessi ad impianti osteointegrati o a radici residue. Perno di colata: nella tecnica della fusione a cera persa, il perno di colata è quella struttura in materiale calcinabile, che connette il manufatto in cera al cono di colata. Una volta calcinati sia il perno che il manufatto stesso, all’interno del refrattario, resteranno le loro impronte in negativo, che accoglieranno la lega fusa fusa. P Ponte: dispositivo protesico fisso che, cementato su almeno due pilastri, naturali o implantari, è in grado di sostenere due o più corone protesiche. Protesi dentaria: dispositivo artificiale che consente di sostituire i denti naturali perduti in seguito a traumi o malattie. La sua funzione non è soltanto estetica, ma anche anatomica e funzionale. Protesi provvisoria: dispositivo protesico applicato in attesa della preparazione della protesi definitiva. Normalmente è prodotto in resina. Nei casi in cui debba essere portata per un periodo più lungo (dopo interventi parodontali o di implantologia) può contenere al suo interno un’armatura di lega seminobile o oro, rivestito di resina. È importante che il provvisorio non vada a ledere la gengiva e che ci siano spazi interdentali adeguati al mantenimento dell’igiene. Protesi scheletrata: Protesi dentale rimovibile che si ancora sugli elementi dentari residui tramite ganci fusi in metallo o attacchi. S Sottosquadro: incavo profondo che forma un angolo acuto con il piano costituito dal fondo dell’opera. Sovracontorno: debordamento tra due superfici contigue. RINGRAZIAMENTI Si ringraziano: › › › › › › › › dottor Claudio Agostinelli Emiliano Armellin Luigi Baldi, laboratorio Wisildent maestro odontotecnico Valerio Burello architetto Laura Lo Cigno, per la realizzazione dei disegni Approfondimento “Le saldature” (cap. 10) Piero Pesce, laboratorio Ceramic-ap dottor Paolo Trentini dottor Domenico Vitale