Citazioni presentate durante le lezioni del Corso di Storia contemporanea
- Triennale 2014-15
Queste sono le citazioni integrali di documenti, brani letterari, memorie, informazioni supplementari che
ripercorrono il corso dell’a.a. 2014-15
Tahar Ben Jelloun: il narratore
“Il narratore, seduto sulla stuoia con le gambe ripiegate nella posizione del sarto, tirò fuori da una cartella un
grande quaderno e lo mostrò all’uditorio.
Il segreto è qui, intessuto di sillabe e di immagini. Me lo affidò proprio prima di morire. Mi fece giurare di
non aprirlo prima che fossero trascorsi quaranta giorni dalla sua morte, il tempo di morire del tutto, quaranta
giorni di lutto per noi e di viaggio nelle tenebre della terra per lui. L'ho aperto la notte del quarantunesimo
giorno. Sono stato inondato dal profumo del paradiso, un profumo cosi forte che per poco non ne rimanevo
soffocato. Ho letto la prima frase e non ho capito niente. Ho letto il secondo paragrafo e non ho capito
niente. Ho letto la prima pagina e ne sono stato illuminato. Lacrime stupefatte colavano incontenibili sulle
mie guance. Avevo le mani sudate; il sangue non circolava in modo naturale. In quel momento ho saputo di
essere in possesso di un libro raro, il libro del segreto, attraversato d'impeto da una vita breve e intensa,
scritto nella notte della lunga prova, conservato sotto grandi pietre e protetto dall'angelo della maledizione.
Questo libro, amici, non può essere fatto circolare, né dato a chicchessia. Non può essere letto da spiriti
innocenti. La luce che emana abbaglia e acceca gli occhi che vi si posano inavvertitamente, senza essere stati
preparati. Questo libro io l'ho letto e decifrato per spiriti di quel genere. Non potrete avervi accesso senza
passare attraverso alle mie notti e al mio corpo. Io stesso sono questo libro. Sono diventato il libro del
segreto; ho pagato con la vita per leggerlo. Arrivato alla fine, dopo mesi di insonnia, ho sentito che il libro si
incarnava in me, perché quello è il mio destino. Per raccontarvi questa storia non avrò nemmeno bisogno di
aprire il quaderno, intanto perché ne ho imparato a memoria ogni passo, e poi per prudenza. Tra poco, brava
gente, il giorno si lascerà scivolare nelle tenebre; io mi ritroverò solo con il libro e voi soli con l'impazienza.
Sbarazzatevi della febbre malsana che accende i vostri sguardi. Siate pazienti, scavate insieme con me la
galleria della domanda e sappiate aspettare, non tanto le mie frasi - che sono vuote - quanto il canto che si
leverà lentamente dal mare e verrà per iniziarvi sulla strada del libro all'ascolto del tempo e di quanto il
tempo sa fare in frantumi. Sappiate anche che il libro ha sette porte, aperte in un muro dello spessore di
almeno due metri e alto come almeno tre uomini aitanti e vigorosi. Vi darò io, una dopo l'altra, le chiavi per
aprire tutte quelle porte. In verità già possedete quelle chiavi, ma non lo sapete; e se anche lo sapeste, non
sareste in grado, di farle girare e ancora meno, sapreste sotto quale pietra tombale sotterrarle.
Per ora ne sapete abbastanza. Credo sia meglio che ci lasciamo prima che il tramonto incendi il cielo.
Tornate domani, se per caso il libro del segreto non vi abbandona”.
Brano tratto da Tahar Ben Jelloun, Creatura di sabbia.
Malika Mokeddem: la donna dai tatuaggi scuri
“La donna dai tatuaggi scuri si chiamava Zohra. L'esiliata dal tempo aveva un incomparabile dono di
narratrice. La sua voce grave infondeva vita alle parole. Attrici vere, le parole di Zohra duellavano l'una con
l'altra nella sua bocca, soggiogavano gli astanti e li trascinavano nella loro scia, verso gli antenati nomadi.
Sulla loro sella, si scopriva un mondo in cui la povertà si ammantava sempre di maestà e dignità. Un mondo
la cui dismisura non aveva altro fine che va quello di inculcare la modestia. Una modestia di cui il deserto
portava il sigillo: la sua nudità, la sua aridità. Dondolano dolcemente il busto avanti e indietro, come per
cullare i suoi ricordi, la donna diceva: «Sedetevi, su! Rilassatevi. Gustate un bicchiere di tè alla menta. E
soprattutto, mettetevi comodi. Vi porto a fare un viaggio. Io mi sento, ora, la stessa età dei miei racconti. Ho
la testa imbottita di parole, pesante d'immagini. Le parole e i ricordi che si trascinano dietro non hanno tutti
lo stesso volume, né lo stesso peso. Alcuni si svuotano, si raggrinziscono, si seccano e cadono rapidamente
sul piatto dell'oblio. Alleggeriscono la partenza dal passato. Memoria e oblio sono i due piatti di una stessa
bilancia. Vivono e si nutrono l'uno a spese dell'altro. Le parole... possono essere pungenti, inacidite, una
vertigine, una danza, oppure trilli nelle nostre teste, come il volo di una moltitudine di yu-yu serafini.
Talvolta portano voci amate e coccolano il ricordo nel morbido tessuto della loro nenia. Le parole... Alcune
fluttuano e scintillano come miriadi di stelle. Altre sono frammenti di sole, abbagliano i nostri pensieri, e
allora i nostri cuori si avventurano fuori dai sentieri monotoni. Altre ancora sono violente, come portate
senza tregua da un terribile vento di sabbia. Turbinano in noi e ci sferzano la memoria. Oppure, sono un
pesante fardello. La morte, come una pressa soffocante, comprime la vita. Vorrei dirvi il peso delle parole.
Vorrei sfogarmi prima del grande sonno. Raccontare, è un nobile compito. Devo adempierlo con onore.
Bisogna che i nostri figli e i nostri nipoti sappiano dove sono le loro radici, bisogna che se le portino in testa
per poterle a loro volta comunicare. La coscienza della loro identità deve irraggiarsi da essi con forza. È cosi
che si perpetua il cammino degli uomini, di generazione in generazione. Ma il narratore è anche un artista.
Allora, quando il quotidiano è arido e senza fremiti, egli mischia ai racconti una dose di fiaba e di magia.
Offre il sogno insieme al bicchiere di tè. In questo qualche foglia di menta, in quello una girandola di luce,
una zaffata di profumo soave in più; l’aroma, il sapore e il cielo. Un prestigiatore che soffia sulle Il spiegate
dell'evasione”.
Brano tratto da Malika Mokeddem, Gente in cammino
Gerusalemme secondo Giabra Ibrahim Giabra
“Conosci Gerusalemme? Forse eri piccolo quando il mostro sionista ha inghiottito la più bella metà della più
bella città del mondo. Gerusalemme è assolutamente la più bella città del mondo. Si dice che fu costruita su
sette colline. Non so se le sue colline siano sette, ma io sono salito su tutte le sue colline, e sono sceso da
tutti i suoi pendii, tra case di pietra bianca, rosata e rossa, simili a castelli che vanno su e giù insieme alle
strade che salgono e scendono, come gemme sparse sull'abito di Dio, gemme che mi ricordano i fiori. Mi
ricordo la primavera, mi ricordo lo splendore azzurro, del cielo dopo le piogge primaverili e la primavera a
Gerusalemme era proprio la primavera perché la vedevi insediarsi nella città come la nuova scenografia di
un regista. Le colline, aride in inverno, diventavano improvvisamente verdi davanti ai tuoi occhi e perfino la
tua piccola casa diroccata sulla curva della strada, là dove le pietre sono trascurate dall'epoca ottomana e
dove l'albero è morto, sente la primavera. I fiori sono come gli occhi dei bambini, spuntano tra le pietre
stesse, intorno al tronco sterile, vecchio e solitario. Per questo la notte suscita in me i ricordi di
Gerusalemme, e io mi rattristo, mi arrabbio e piango”.
Brano tratto da Giabra Ibrahim Giabra, La nave
Gerusalemme secondo Theodor Herzl (1898)
“Quando mi ricorderò di te nei tempi a venire, o Jer, non sarà con piacere… i depositi di 2000 anni di
disumanità, di intolleranza e di brutture ingombrano le stradine puzzolenti”. Davanti al uro del pianto non
ho avuto “nessuna emozione profonda”…”Quanta superstizione e quanto fanatismo da tutte le parti” … “ La
città vecchia non la vorrei nemmeno se me la regalassero…”
….Io farei piazza pulita di tutto ciò che è non è sacro, costruirei case per gli operai fuori città, svuoterei e
abbatterei queste sporche tane da topi, brucerei tutte le rovine non sacre e sposterei i bazar altrove. Poi,
conservando quanto più possibile del vecchio stile architettonico, costruirei attorno ai luoghi sacri una nuova
città ariosa, confortevole e adeguatamente provvista di fogne”
Da I diari completi di Theodore Herzl
Io amo il Mediterraneo perché è il mare della Palestina…
“Questo mare azzurro risplende, indifferente, inerme, lo so, perché pensa di congiungere le civiltà del
mondo sulle sue rive. Ma esso lambisce anche le nostre coste che lo rendono così lucente e così bello. Io
amo il Mediterraneo, e navigo su questo mare, perché è il mare della Palestina, il mare di Giaffa e di Haifa,
il mare delle alture occidentali di Gerusalemme e dei suoi villaggi. Se sali sulle alture di Gerusalemme e
guardi verso occidente non sai dove finisce la terra e dove comincia il mare e dove i due si incontrano, con il
cielo. E tutti e tre si compenetrano, si confondono e si assomigliano. Questo azzurro è l'unica cosa che
addolcisce la mia lontananza. È come se io, tramite il mare, fossi di nuovo in contatto con la mia terra, come
se tornassi all'Invaso del Sultano, e vedessi che si è allargato e si è esteso ed è straripato, in corsi d'acqua e
rapide cascate”.
Brano tratto da Giabra Ibrahim Giabra, La nave
La creazione di una nuova capitale e lo splendore di Baghdad
Lo storico e teologo persiano Al-Tabari descrive la visita del Califfo Mansur al sito della futura città di
Baghdad:
“… egli arrivò nella zona del ponte e compì l'attraversamento nel luogo che oggi è Qasr al-Salam. Poi
recitò la preghiera pomeridiana. Era estate, e nel sito del palazzo vi era allora la chiesa di un sacerdote.
Egli trascorse colà la notte, e si ridestò il mattino seguente dopo avere trascorso la notte più dolce e
serena di questo mondo. Si alzò in piedi, e tutto quello che vedeva gli dava soddisfazione. Allora disse:
«È questo il luogo su cui edificherò. Le merci possono giungere qui attraverso l'Eufrate, il Tigri, ed una
rete di canali. Solamente un luogo come questo sostenterà l'esercito e le masse del popolo», Così egli ne
tracciò lo schema ed assegnò fondi per la sua costruzione, e posò di sua mano il primo mattone, dicendo
«Nel nome di Dio, e sia lode a Lui. La terra è di Dio; Egli consente di ereditarne a colui che Egli vuole tra
i Suoi servi, e ciò che ne risulta è per coloro che Lo temono» poi egli disse: «Costruite, e che Dio vi
benedica!».
Baghdad era situata in un punto in cui il Tigri e l'Eufrate scorrevano l'uno vicino all'altro, e in cui un
sistema di canali aveva dato origine a una ricca campagna che poteva produrre cibo per una grande città
ed entrate per il governo; si trovava su strade strategiche che conducevano in Iran e oltre, nonché alla
Jazira nel nord dell'Iraq, dove si produceva il grano, ed alla Siria e all'Egitto, dove permanevano forti i
gruppi fedeli agli Umayyadi. Trattandosi di una città nuova, i sovrani potevano essere liberi dalle
pressioni esercitate dagli abitanti arabi musulmani di Kufa e Bàssora. Conformandosi ad una lunga
tradizione, secondo la quale i sovrani del Vicino Oriente si tenevano separati da coloro su cui
dominavano, la città venne progettata in modo da esprimere lo splendore e l'inaccessibilità del sovrano.
Al centro, sulla riva occidentale deI Tigri, si trovava la «cittadella» formata da palazzo, caserme e sedi
dell'amministrazione; i mercati e i quartieri residenziali stavano all'esterno.
Nella descrizione che egli fa del ricevimento di un'ambasceria bizantina da parte del Califfo al-Muqtadir
nel 917, lo storico di Baghdad, al-Khatib al-Baghdadi (1002-1071), evoca lo splendore della corte e il suo
cerimoniale. Dopo essere stati introdotti al cospetto del califfo, vennero condotti, dietro suo ordine, a
visitare il palazzo: i saloni, i cortili, i giardini; soldati, eunuchi, ciambellani e paggi; stanze ricolme di
tesori, elefanti bardati di broccato di seta blu pavone. Nella Stanza dell'Albero, essi videro un albero, che
si erge al centro di una grande vasca circolare piena di acqua limpida. L'albero ha diciotto rami, ed ogni
ramo ha parecchie fronde, su cui sono posati uccelli di ogni genere, grandi e piccoli, d'oro e d'argento. La
maggior parte dei rami di questo albero sono d'argento, ma ve ne sono alcuni d'oro, e si protendono
nell'aria sorreggendo foglie di diversi colori. Le foglie dell'albero si muovono quando soffia il vento,
mentre gli uccelli cinguettano e cantano”.
Brano tratto da Albert Hourani, Storia dei popoli arabi
La Gerusalemme della gente
“Tutto quello che il mondo conosce, riguardo a Gerusalemme, è il potere dei suoi simboli. Per esempio, la
Cupola della Roccia: chi la vede, pensa di aver visto tutto. La Gerusalemme che il mondo conosce è la capitale
delle religioni, della politica, dei conflitti. Al mondo non interessa la nostra Gerusalemme, quella della gente.
La Gerusalemme delle case, delle strade lastricate e dei mercati popolari, la Gerusalemme della facoltà araba,
delle scuole Rashidiyya e ‘Omariyyah. La Gerusalemme dei facchini e delle guide turistiche che conoscono, di
ogni lingua, lo stretto necessario che gli consente di guadagnarsi un pasto quotidiano. Il mercato dell’olio, gli
antiquari, i venditori di madreperla e di dolci al sesamo. La biblioteca, il dottore, l’architetto e il sarto di abiti
per le spose che hanno una ricca dote. La stazione degli autobus che trabocca ogni giorno di gente venuta dai
villaggi vicini a vendere e comprare. La Gerusalemme del formaggio bianco, dell’olio, delle olive e del timo,
dei cesti dei fichi, delle collane, della pelletteria e di via Salah al-Din. La suora nostra vicina e il suo vicino. Il
muezzin che aveva sempre fretta. I rami di palma in tutte le strade durante la Domenica delle Palme, la
Gerusalemme delle piante nelle case, dei viali lastricati e dei vicoli coperti. La Gerusalemme della biancheria
stesa ad asciugare. Questa è la città dei nostri cinque sensi, dei nostri corpi e della nostra infanzia. La
Gerusalemme in cui camminavamo senza far troppo caso alla sua sacralità, perché vivevamo lì. E lei era noi.
Passeggiavamo, oppure camminavamo in fretta con indosso i nostri sandali, oppure con le scarpe nere o
marroni. Ci piaceva discutere sul prezzo con il proprietario del negozio, quando compravamo i vestiti nuovi per
la festa. Facevamo acquisti durante il Ramadan, quando pretendevamo di osservare il digiuno e, nello stesso
tempo, provavamo un piacere segreto e se il nostro corpo di adolescenti sfiorava quello delle ragazze alla
vigilia di Pasqua. Condividevamo con loro l’oscurità della chiesa del Santo Sepolcro e, con loro, portavamo i
bianchi ceri che la illuminavano. Questa è la Gerusalemme ordinaria. La città dei piccoli istanti che abbiamo
immediatamente dimenticato perché non avevamo bisogno di ricordarli, perché erano così normali, come
l’acqua è l’acqua e la luce è la luce. Tuttavia appena ci è sfuggita dalle mani, è salita in cielo ed è diventata un
simbolo”.
Mourid Barghuti, Ho visto Ramallah
Costantin François de Chassebeuf, detto Volney
“… progettai dunque di compiere un viaggio. Restava da deciderne la scena; la volevo nuova, o almeno
brillante. Il mio paese e gli Stati vicini mi sembravano troppo conosciuti, o troppo facili da conoscere;
l'America nascente e i selvaggi mi tentavano; altre considerazioni mi indussero infine a scegliere l'Asia;
soprattutto la Siria e l'Egitto.
In quelle regioni - mi dicevo - ha avuto origine la maggior parte delle idee che ci governano; da quelle terre
si sono diffuse le concezioni religiose che tanto fortemente hanno influito sulla nostra morale pubblica e
privata, sulle nostre leggi, su tutta la nostra legislazione sociale. Sarà dunque interessante conoscere i luoghi
in cui tali idee sono sorte, gli usi e i costumi su cui si fondavano, lo spirito e il carattere dei popoli che le
hanno consacrate. Sarà interessante vedere fino a che punto quello spirito, quei costumi, quelle usanze si
siano alterati o conservati; esaminare quali possano essere state le influenze del clima, gli effetti del
governo, le cause di certe abitudini: in una parola, giudicare dalla situazione attuale la situazione di un
tempo”.
Brano tratto da C.F. de Chassebeuf, Voyage en Egypte et en Syrie, pendant le années 1783, 1784 et 1785, Parmentier Libraire,
Paris 1825
La spedizione napoleonica…… commenti vari…
Testimonianza dello storico Jabarti:
“Se qualche musulmano veniva da loro allo scopo di esaminarli, essi non gli impedivano di penetrare nei
loro luoghi più cari… e se trovavano in lui qualche brama o desiderio di conoscenza essi gli mostravano la
loro amicizia e amore per lui, e gli facevano vedere ogni genere di disegni e cartine, e animali e uccelli e
piante, e storie degli antichi e delle nazioni e racconti dei profeti […]. Io mi recai spesso da loro, ed essi mi
mostrarono tutto ciò”.
Brano tratto da A.Hourani, Storia dei popoli arabi, Mondadori, Milano 1998
Dichiarazione di Jean-Baptiste-Joseph Fourier, segretario dell'Institut d’Egypte:
“Posto tra Africa e Asia, facilmente raggiungibile dall'Europa, l'Egitto occupa il centro dell'antico
continente. Questa terra evoca solo ricordi grandiosi; è la patria delle arti e conserva innumerevoli
monumenti; i templi più importanti e i palazzi un tempo abitati dai sovrani esistono tuttora, nonostante il
fatto che i meno antichi tra questi edifici furono terminati prima della guerra di Troia, Omero, Licurgo,
Salone, Pitagora e Platone, tutti si recarono in Egitto per studiare le scienze, la teologia, le leggi. Alessandro
vi fondò una città opulenta, che a lungo ha mantenuto la propria supremazia commerciale, e che ha visto
Pompeo, Cesare, Marco Antonio e Augusta decidere tra loro il fato di Roma e quello del mondo intero. Si
può dunque dire che sia proprio di questo paese attrarre l'attenzione dei principi illustri, che governano il
destino delle nazioni.
Nessuna nazione, né in Occidente né in Asia, ha mai raggiunto una potenza considerevole senza volgersi di
conseguenza verso l’Egitto, considerandolo in un certo senso una preda a lei naturalmente destinata!”.
Brano tratto da Description de l’Egypte, Préface historique, in E.W. Said, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente,
Feltrinelli, Milano 2001
Victor Hugo, Lui:
Au Nil je le retrouve encore
L'Égypte resplendit des feux de son aurore;
Son astre impérial se lève à l’orient.
Vainqueur, enthousiaste, éclatant de prestiges,
prodige, il étonna la terre des prodiges …
Les vieux scheiks vénéraient l'émir jeune et prudent;
Le peuple redoutait ses armes inouïes
sublime il apparut aux tribus éblouies
comme un Mahomet d'occident.
Brano tratto da E.Said, L’Orientalismo…cit
Chateaubriand: il dispotismo
Il malgoverno come pretesto per l’intervento: “Gerusalemme è lasciata a un governatore pressoché
indipendente, a un mufti e a un qadi che possono fare impunemente tutto il male che loro aggrada, salvo fare
poi i conti con il pascià. Si sa che il governatore, il giudice e tutti quelli che a loro piace delegare hanno il
diritto di togliere agli uomini la proprietà e la vita. La sola cosa che si capisce in questo paese è che si
potranno ricevere 300 colpi di bastone e che verrà tagliata la testa. Un atto di ingiustizia che una ingiustizia
più grande. Se si spoglia un contadino, bisognerà anche spogliare il vicino; perché per ottenere dal pascià
l’impunità per il primo, bisogna averne un secondo per soddisfare la cupidigia del padrone.
[…] Si potrebbe credere che il pascià nel giro nel suo pascialato porti un rimedio a questi mali e ascolti le
lamentele: lo stesso pascià è il più grande flagello, e gli abitanti di Gerusalemme temono il suo arrivo come
quello di un nemico: fuggono nelle montagne, chiudono i loro negozi, fingono di essere morenti sui loro
giacigli, si nascondono nei sotterranei fino a che il flagello sia passato”.
[…] Il pascià dopo aver sottratto tutto quello che ha potuto a Gerusalemme, parte per continuare il suo giro.
Ma per non pagare le guardie della città, e sotto pretesto della carovana della Mecca, porta con se tutti i suoi
soldati. Il governatore resta solo con una mezza dozzina di sbirri che non sarebbero sufficienti alla polizia
della città, e a maggior ragione al paese. L’anno passato, fu lui stesso obbligato a nascondersi a casa sua per
sfuggire alle bande di ladri che oltrepassavano la notte le mura della città e che favoriti da un compare
all’interno, incominciarono a saccheggiare Gerusalemme.
[…] Appena il pascià se ne andò, un’altra disgrazia cominciò. I villaggi in rovina e senza la protezione dei
soldati, si sollevarono; si attaccarono gli uni agli altri per soddisfare le vendette ereditarie, dei partiti dei
capi, e infine per evitarer di essere spogliati. Non si può più passare sui sentieri senza pagare un pedaggio e
senza trattare. L’agricoltura muore: i contadini vedono la notte estirpare le vigne e tagliare gli olivi da parte
del loro nemico. La miseria aumenta con le sue devastazioni. L’anno successivo il pascià ritorna: esige gli
stessi tributi in un paese dove gli uomini sono diminuiti, e la miseria aumentata. Bisogna allora che raddoppi
l’oppressione, che stermini interi villaggi. Poco a poco il deserto si estende, la desolazione della Giudea
aumenta: non si vedono più che villaggi e villaggi alla porta dei quali sono immensi cimiteri, dove i morti
sono ben più numerosi dei vivi: ogni anno vede estinguersi una famiglia, e nel giro di qualche anno non resta
più che un cimitero le cui pietre sepolcrali si confondono con le rocce”.
R. Chateaubriand, L’itinearario da Parigi a Gerusalemme, 1811
Volney: il dispotismo in Turchia
“Giudicate dunque quali possono essere gli effetti di un simile regime, giudicate gli abusi di un potere
illimitato in mano a potenti che non conoscono né la sofferenza, né la pietà, a parvenus avidi di godere e
fieri di comandare e a subalterni bramosi di far carriera; e giudicate, di conseguenza, se certi scrittori
speculativi abbiano avuto ragione di affermare che il dispotismo in Turchia non è quel gran male che si
pensa, in quando essendo accentrato nella persona del sovrano, non deve pesare che sui grandi che lo
circondano! Probabilmente, come dicono i turchi, la sciabola del sultano non si abbassa fino alla polvere, ma
questa sciabola egli la depone nelle mani del visir, che l’affida al pascià, il quale la passa al mutassallim,
all’aga, e così via fino all’ultimo suddito; in tal modo quella sciabola può raggiungere tutti e decapitare
anche le teste più umili
Volney, Viaggio in Egitto e i Siria, Longanesi, Milano 1974, p.412
L’abito della donna egiziana
È abitudine della donna egiziana “indossare un paio di pantaloni molto grandi e sborsati, di broccato o di
satin, o spesso di seta color ciliegia brillante. I pantaloni sono allacciati sopra al ginocchio e scendono a
sbuffo fino a terra e hanno l’aspetto quasi di una sottana rigonfia. Sopra ai pantaloni porta una camicia di
seta d’organza, trasparente, dalle maniche lunghe le quali, come l’orlo del collo, sono ricamate in oro e seta
a vivaci colori. L’orlo conferisce alla camicia la foggia di una specie di tunica appoggiata su pantaloni con
un effetto grazioso. Sopra indossa un abito lungo di seta, aperto davanti e sui lati. L’usanza impone che
questo abito sia, seppur di poco, più lungo della donna che l’indossa, così che le tre strisce in cui è diviso
possano toccare appena il terreno quando la donna calza un paio di alti zoccoli di legno che si usano per il
bagno, ma che risuonano spesso in tutta la casa. Le strisce degli zoccoli che fasciano il piede sono molto
elaborate e talora sono ornate di diamanti. L’abito ha maniche piuttosto strette e abbastanza lunghe da
raggiungere terra. Non attorno alla vita, ma appoggiato sui fianchi ha un ampio scialle di cashemere e la
grazia dell’insieme dipende dal modo in cui esso viene portato. D’inverno sopra questi capi di vestiario
indossa un abito lungo di panno o di velluto, oppure di lana d’angora”
Brano tratto da A Brilli, Il viaggio in oriente, Il Mulino, Bologna 2009
Il beduino secondo gli occidentali
Diversi sono i sentimenti che il beduino suscita nei viaggiatori occidentali, diversi e spesso contradditori.
Ecco alcuni esempi.
Disprezzo
Mandelville (1670-1773) “gli arabi detti beduini sono malvagi, sleali, di natura maledetta”
- Jacques de Villamont (1560-1625) denunciava le loro deplorevoli abitudini: “prendono tante donne
quante ne vogliono senza ripudiarne nessuna, annotava proprio sul cammino di Gerusalemme”; e
come se questo non fosse di per sé sufficiente a screditarli aggiungeva: “gli uni davanti agli altri
commettono sodomia con gli uomini e con le bestie”.
“Capre dall’aspetto siriano” era uno degli epiteti usati da Twain
-
“Orde di ladri”, li aveva invece definiti Bunel
“arabi selvaggi” o ancora “fanatici selvaggi”, e “predatori beduini” erano infine definiti nei rapporti
dei consoli
Spesso le dichiarazioni erano contraddittorie: mentre nel XIX sec. Baldensperger sottolineava la loro
abitudine alla poligamia e la rivalità tra le mogli, Landrieux, affermava che “non hanno che una donna”, e,
aggiungeva, “si dice che la rispettino”.
Marc Twain “Eccoli infine i figli del deserto liberi e selvaggi che, in groppa ai loro splendidi sauri arabi,
sfrecciano come il vento nella piana, quelli di cui tanto si era letto e che tanto avevamo desiderato di vedere
[…] straccioni ambulanti. Una pura millanteria”. “Sauri arabi, ossuti e scheletrici come un ictiosauro in un
museo, gibbosi e spigolosi come dromedari: […] vedere dal vivo un vero figlio del deserto significa
spogliarlo per sempre di ogni romanticismo, vederne il prode destriero è esserne presi dal desiderio
caritatevole di strappare via i finimenti per lasciare che cada a terra in pezzi”.
“Potrei poi accennare qui al fatto che durante tutta la nostra escursione non si vide un beduino che fosse uno,
il che dimostra che non avevamo bisogno di una guardia araba più di quanto abbisognassimo di un paio di
stivaletti di cuoio verniciato o di un paio di candidi guanti di capretto. I beduini che con tanta ferocia
avevano attaccato le altre comitive in realtà erano stati riuniti da nessun altro se non dalle guardie arabe delle
comitive stesse, che da Gerusalemme li avevano convocati a ricoprire l’incarico di beduini a tempo. Alla
fine della battaglia, tutti assieme si riunirono sotto gli occhi dei pellegrini, pranzarono, si divisero il bakshish
estorto nel momento del pericolo e infine scortarono in città la compagnia a cavallo. Questa fastidiosa
guardia araba è una istituzione di mutuo profitto creata di concerto dagli sceicchi e dai beduini: così si dice,
e non v’è dubbio che in ciò ci sia molto di vero”.
Curzon: “Non aveva mai immaginato che nulla di così simile ad un animale selvaggio potesse esistere in
forma umana”, Gerico. “Un gentleman inglese, con cilindro, tight e fazzoletto nero e stivali, con guanti e
una piccola canna in mano, era uno stile di persona talmente diverso da un arabo beduino che io potevo con
difficoltà concepire la possibilità che si trattasse solo di specie diverse dello stesso animale”.
Beduino è anche l’altro che ciascuno nasconde in sé. E incarna l’idea di libertà
Il “terzo stadio dell’evoluzione umana” li aveva ad esempio definiti Rousseau, quello stadio in cui
l’individuo assomiglia “à l’homme de nature”, nomade ma già sulla strada della socializzazione; e molti
avevano proseguito il discorso, facendo dei popoli nomadi il contro-modello sul quale proiettare tutti i valori
associati alla spontaneità naturale in opposizione ad un’Europa ormai imprigionata nelle proprie
abitudini e convenzioni.
La tradizione del dualismo psicologico di Diderot, che enfatizzava l’immagine ambivalente del beduino,
facendo del nomadismo la “metafora dell’uomo come essere instabile”, incarnando nel beduino quell’altro
che ciascuno nasconde dentro di sé.
Nella maggior parte dei casi comunque il beduino era considerato parte di quell’Oriente immobile,
rimasto invariato dai tempi biblici, a cominciare dalla lingua che parla: “La lingua dei beduini ha subito
pochi cambiamenti negli ultimi tremila anni, e i loro costumi sono rimasti gli stessi”, spiega nel 1901 il
reverendo John Zeller. Per lui i beduini erano “interessanti poiché Abramo era un nomade come loro, e
così gli Israeliti nel deserto e per alcuni tempi dopo la conquista di Cana”. E come gli antichi patriarchi, i
beduini erano combattenti e poeti, e nelle loro poesie come nelle loro gesta, riflettevano la grandezza e
l’asprezza desolata e selvaggia del deserto, “col fuoco della passione e la profondità dei sentimenti”.
Napoleone e il governatore di Acri
… In piedi sulla sommità dei bastioni, Ahmed, il pascià che comanda la città osserva con un sorriso beffardo
quest’esercito che si prepara a sfidarlo. Nel suo cuore, non c’è apprensione. Non il minimo timore. È che
questo vecchio schiavo di Ali bey ne ha viste ben altre.
Stabilitosi a Saint-Jean-d’Acre da 14 anni, ha fatto di questa città la prima della costa. Vi ha fatto scavare
strade, costruire moschee e fontane, piantare aranceti ed erigere un acquedotto che passa per essere una delle
meraviglie della regione. Niente e nessuno gli porterà via Akka.
Invece di spaventarlo, le notizie che gli sono giunte sul massacro di Jaffa non hanno fatto che attizzare in lui
un certo interesse per il generale francese; come un sentimento complice. Da troppo tempo lo si accusava,
lui Ahmed, di essere un personaggio crudele, di provare un piacere sadico davanti alla sofferenza.
Nemici, sudditi, servitori, reclusi nel suo harem, nulla è al riparo dalle sue fantasie sanguinarie. Non gli si
aveva forse affibbiato il soprannome di el-Djezzar – il macellaio? Ecco perché, informato degli eventi di
Jaffa, si era accontentato di sorridere a suo agio, contento di sapere che questo generale che si apprestava a
dargli battaglia avrebbe potuto essere suo gemello. E anche perché, quando Abuonaparte gli aveva fato
pervenire una proposta di negoziato, non aveva provato il minimo scrupolo a far tranciare la testa del
messaggero e a rispedirla al suo capo”.
G.Sinoué, L’egyptienne
I Parigini e la cultura occidentale secondo Rifa'a al-Tahtawi
“I Parigini si distinguono nel popolo del cristianesimo per l'acutezza del loro intelletto, per la precisione
della loro comprensione, e l'immersione della loro mente in materie profonde... essi non sono prigionieri
della tradizione, ma amano sempre sapere l'origine delle cose e le prove di esse. Anche la gente comune sa
leggere e scrivere, e si addentra come gli altri in argomenti importanti, ogni uomo secondo la propria
capacità... Fa parte della natura dei Francesi l'essere curiosi ed entusiasti di tutto ciò che è nuovo, e l'amare il
mutamento e l'alterazione nelle cose, in particolare negli abiti... Il cambiamento e il capriccio fanno parte
della loro natura; essi cambieranno immediatamente dalla gioia alla tristezza, o dalla serietà allo scherzo o
viceversa, così che in un giorno un uomo farà ogni genere di cose contraddittorie. Ma tutto ciò si ritrova
nelle piccole questioni; nelle grandi cose, le loro opinioni politiche non cambiano; ogni uomo rimane nelle
sue convinzioni ed opinioni... Essi sono più prossimi all'avarizia che alla generosità... Essi negano i
miracoli, e credono che non sia possibile infrangere le leggi della natura, e che le religioni siano giunte per
dirigere l'uomo verso le opere buone ... ma tra le loro turpi credenze vi è questa, che l'intelletto e la virtù dei
loro saggi siano più grandi dell'intelligenza dei profeti”.
Brano tratto da Albert Hourani, Storia dei popoli arabi, cit.
Torino secondo Mohammad Bayram V, nobile viaggiatore tunisino
Mohammad Bayram V, viaggiatore tunisino, in Italia e a Torino nel 1875: “In questa città [Torino] c’è un
grande fiume, e a vederlo, fuori città, è incantevole. Nelle vicinanze, su una delle sue sponde, c’è un grande
parco pubblico e una collina dove ci sono ristoranti c’è un grande parco pubblico e una collina dove ci sono
sale ristoranti, caffè e il castello del re, che è molto bello, grande e spazioso, elegante nelle sue decorazioni
in oro e in altri colori. Dentro ci sono i mobili e tutto quanto è necessario. Questa città era la capitale del
regno sardo, che poi ha conquistato tutta l’Italia che di recente si è riunita sotto il suo re.
C’è anche una grande biblioteca, e quando vi sono entrato ho capito la grande differenza fra gli abitanti di
questo paese e gli abitanti di Napoli. Nella seconda città, quando sono entrato in biblioteca, non vi ho
trovato che poche persone in tutto, mentre qui, quando sono entrato in biblioteca, l’ho trovata colma di un
centinaio di uomini e qualche donna, ognuno intento alla lettura di un libro, e non si sentiva alcun rumore,
soltanto bisbigli per non disturbare. C’è chi legge, chi copia e chi riflette, con il libro fra le mani. Ho saputo
che gli abitanti di questa città sono più istruiti e che il sapere vi è più diffuso. I libri della biblioteca sono più
numerosi di quanti ne abbia visti in precedenza e ci sono anche copie del Corano in eleganti calligrafie
persiane, dorate ed estremamente raffinate, che sono riposte in teche con la facciata e il coperchio in vetro,
chiuse a chiave per proteggerle, e nessuno può aprirle tranne l’addetto, una volta accertato a chi debba
mostrarle. [Quelle teche] mi sono state aperte e ne sono stato onorato”.
Brano tratto da A.Medici, Città italiane sulla via della Mecca, Harmattan
Lo spirito delle crociate. Testimonianze
“Una reputazione terribile aveva preceduto questi guerrieri vestiti di corazze. Circolavano voci spaventose di
atti di cannibalismo ad Antiochia, e i barbari cristiani provenienti dall’Europa erano diventati noti per la loro
spietatezza e per il loro fanatismo religioso”.
K.Armstrong, Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam, Mondadori, Milano 1999
Per tre giorni i crociati massacrarono sistematicamente circa trentamila abitanti di Gerusalemme: “Uccisero
tutti i saraceni e i turchi che trovarono…. Uccisero tutti, uomini e donne”
Brano tratto da De Gesta Francorum et aliorum Hierosolimitanorum ("Le Gesta dei Franchi e degli altri pellegrini a
Gerusalemme"), cronaca in latino della prima crociata, di autore anonimo
“Chiunque fosse entrato per primo in una casa, ricco o povero che fosse, non era sfidato da nessun altro
guerriero franco. Egli avrebbe occupato e posseduto la casa o il palazzo e qualunque cosa vi avesse trovato
come se fosse stato suo”
Brano tratto da Fulcherio di Chartres, Historia Hierosolymitana, cappellano dell’esercito
Le strade erano inondate di sangue … “Si vedevano mucchi di teste, di mani di piedi…
Se dirò la verità, essa supererà la vostra capacità di credervi. E quindi vi basti questo: nel tempio e nel
portico di Salomone si cavalcava nel sangue fino alle ginocchia e alle briglie. Senza dubbio, fu una
punizione divina giusta e splendida il fatto che questo luogo fosse riempito del sangue dei non credenti,
poiché per tanto tempo aveva sofferto dei loro atti blasfemi….
Questo giorno, io dico, sarà famoso per tutte le età future, in quanto ha trasformato le nostre fatiche e le
nostre sofferenze in gioia ed esultanza: questo giorno, io dico, rappresenta la giustificazione di tutta la
cristianità, l’umiliazione del paganesimo, la rinascita della fede. Questo è il giorno voluto dal Signore,
rallegriamoci quindi in gioia e siamo contenti, in quanto in questo giorno il Signore si è rivelato al suo
popolo e lo ha benedetto”.
Raimondo di Aguilers, testimone oculare, citato da K. Armstrong, Gerusalemme, cit.
L’Illuminismo ebraico secondo Salomon Maimon
Dalla autobiografia intellettuale di Salomon Maimon, ebreo polacco. Anno 1793
“Gli argomenti di cui tratta il Talmud, con l’eccezione di quelli relativi alla giurisprudenza, sono aridi e per
lo più incomprensibili a un ragazzo –le norme del sacrificio, della purificazione, delle carni proibite, dei
banchetti e così via. Per esempio: quanti peli bianchi può avere una vacca rossa restando tale? Quale genere
di scabbia richiede questa o quella purificazione? Di sabato è consentito uccidere un pidocchio o una pulce?
Si confrontino queste gloriose dispute, che vengono ammannite ai giovani costringendoli a scervellarsi fino
alla nausea, con la storia, nella quale gli eventi naturali sono illustrati in forma istruttiva e gradevole, e con
la conoscenza della struttura del mondo, mediante la quale il nostro sguardo sulla natura si amplia e
l’universo tutto è ridotto a sistema ben ordinato: certamente la mia preferenza apparirà giustificata”.
Come il giornale ‘La Croix’ parlava degli Ebrei anche prima del caso Dreyfus
“Gli Ebrei sono il nemico, questo è il grido cristiano dal Golgota ai giorni nostri”
Padre Bailly, da ‘La Croix’ agosto 1889, p. 79
“C’è l’Ebreo che ha condannato il Cristo, che ha gridato: ‘Che il sangue del giusto ricada su di noi e sui
nostri figli’, che ha inventato il Talmud e cresciuto i suoi nelle tradizioni talmudiche.
Di questo Ebreo troverete dappertutto la mano, nelle casse dello Stato come in quelle delle famiglie. Per lui
rubare ad un cristiano è cosa buona, e guai al cristiano che ricorre ai suoi servigi...
Ingegnoso, intelligente, si insinua dappertutto e dappertutto fomenta l’odio per il Cristo; possiede tutto l’oro
del mondo e, con l’aiuto di esso, con la franca massoneria della quale è l’anima, con la stampa che finanzia,
ha scombussolato le societá cristiane e perseguito con accanimento la Chiesa ed il Papa.
Questo Ebreo... è il nemico”
Padre Picard, da ‘La Croix’, 10 maggio 1884, p. 79-80
“Non é forse tempo, ci diceva di recente un ufficiale generale, che i Francesi stiano tra loro, vivendo in pace
e che gli Ebrei vengano espulsi?
Un uomo di cuore ci scrive: non sarebbe forse necessario fare una petizione che firmerebbero tutti i Francesi
che vogliono sbarazzarsi del giogo che li opprime e chiedere al parlamento:
1) che gli Ebrei, non potendo avere due nazionalitá, riprendano in Francia la status di stranieri;
2) che gli stranieri che turbano la pace del paese, che agitano le diverse classi di cittadini le une contro le
altre, seminando odio e divisione, siano espulsi dalla Francia.
Il mezzo piú razionale sembra essere il referendum. Si vedrá piú in lá se la Francia vorrá essere ebrea e si
lascierá governare da Israele, o se vorrá ridiventare padrona di sé stessa”
Padre Bailly, da ‘La Croix’, 23 otobre 1890
“Oggigiorno, la giustizia [...] ha dei dati precisi su ogni genere di operazione della ‘giuderia’ [...] in ogni
affare spregevole ella puó dire: ‘Vi sono tali Ebrei’. Dunque nulla di piú facile che operare una buona
pulizia.”
‘La Croix’, 8 dicembre 1894
Estratti di “La Croix” et les juifs, Pierre Sorlin, edizioni Grasset 1967
Il futuro stato ebraico secondo Theodor Herzl
Il progetto
“Tutto il progetto, nella sua forma fondamentale, è infinitamente semplice e tale occorre che sia, se deve
essere capito da tutti.
Ci venga data la sovranità su di un pezzo della superficie terrestre sufficiente a soddisfare i nostri giusti
bisogni, tutto il resto ce lo procureremo da soli.
Il sorgere di un nuovo stato sovrano non è niente di ridicolo o di impossibile. Lo abbiamo già constatato con
i nostri occhi in tempi recenti, per popolazioni in cui non prevale il ceto medio come da noi, ma che sono
invece più povere, meno istruite e perciò più deboli. I governi dei paesi dove dilaga l'antisemitismo sono
vivamente interessati a concederci la sovranità.
Per realizzare questo compito, semplice in linea di principio, ma complicato nell'esecuzione, vengono creati
due grossi organismi: la Society of Jews e la Jewish Company.
Ciò che la Society of Jews ha elaborato sul piano scientifico e politico viene poi concretamente realizzato
dalla Jewish Company.
La Jewish Company si occupa di liquidare tutti gli interessi patrimoniali degli ebrei che si dispongono a
partire, ed organizza nel nuovo paese le strutture necessarie allo sviluppo dell’economia”.
Palestina o Argentina?
“È da preferire la Palestina o l'Argentina? La Society prenderà ciò che le verrà dato, tenendo conto della
pubblica opinione del popolo ebraico. La Society verificherà entrambe le cose.
L'Argentina è uno dei paesi più ricchi di risorse naturali della terra, dotata di enormi distese, scarsa
popolazione e clima temperato. La repubblica argentina sarebbe molto interessata a cederci una parte del suo
territorio. L'attuale infiltrazione ebraica ha prodotto solo irritazione; bisognerebbe informare l'Argentina
sulla sostanziale differenza della nuova immigrazione ebraica.
La Palestina è la nostra patria storica, che ci resterà sempre nel cuore. Questo nome da solo sarebbe un
segnale di adunata straordinariamente toccante per il nostro popolo. Se Sua Maestà il Sultano ci concedesse
la Palestina, ci potremmo impegnare, per sdebitarci, a risistemare le finanze della Turchia. In favore
dell'Europa costruiremmo là una parte del vallo per difenderci dall'Asia, costituendo così un avamposto della
cultura contro la barbarie. Come stato neutrale resteremmo in rapporto con tutta l'Europa, che dovrebbe
garantire la nostra esistenza. Per i luoghi santi della cristianità si potrebbe trovare una forma di diritto
internazionale, per garantirne la extraterritorialità. Costituiremmo la guardia d'onore intorno ai luoghi santi e
ci renderemmo garanti, a prezzo dalla nostra stessa vita, dell'adempimento di questo dovere. Questa guardia
d'onore sarebbe il grande simbolo per la soluzione della questione ebraica dopo diciotto secoli di
sofferenza”.
Brano tratto da T. Herzl, Lo stato ebraico, Il Melangolo, Genova 1992
Herzl e la questione ebraica
“La questione ebraica continua ad esistere. Sarebbe follia negarlo. Esiste ovunque viva un certo numero di
ebrei. Dove non esiste ancor, arriverà con la migrazione degli ebrei. Noi ci trasferiamo, naturalmente, nei
luoghi in cui non siamo perseguitati; ma assai presto, la nostra presenza genera persecuzione. Ciò è vero in
ogni paese, e rimarrà vero anche nei paesi più civili – la Francia non fa eccezione – finché la questione
ebraica non trovi una soluzione politica”.
Articolo pubblicato sul settimanale londinese “The Jewish Chronicle”
Herzl, ebrei uniti loro malgrado
“Siamo un unico popolo: i nostri nemici hanno fatto di noi una unità loro malgrado, come spesso avviene
nella storia. La sofferenza ci tiene assieme e, uniti, scopriamo la nostra forza. Sì, siamo sufficientemente
forti da formare uno stato; e uno stato modello”.
Articolo pubblicato sul settimanale londinese “The Jewish Chronicle”
Leib Levin: “Meglio l’America”
Judah Leib Levin, ebreo, poeta e socialista proveniente dalla Prussia orientale, nel 1881 scrisse:
“In Terra Santa il nostro sogno sarebbe stato bel lungi dal realizzarsi, saremmo diventati gli schiavi del
sultano e del pascià. Come qui, avremmo portato un pesante fardello nel bel mezzo di un selvaggio popolo
del deserto, animati dalla remota speranza che forse, se fossimo aumentati bastevolmente di numero, dopo
molti anni, saremmo potuti diventare un altro piccolo principato finalmente in grado di realizzare, in una
estrema utopia, il proprio destino. In America, però, il nostro sogno è più prossimo a realizzarsi e la speranza
di raggiungere l’indipendenza e di condurre la nostra vita conformemente alle nostre credenze e alle nostre
inclinazioni non sarebbero rinviate alle calende greche. L’eloquenza della bibbia, lo spettacolo miserevole
dell’orbata figlia di Sion, le emozioni suscitate dalle nostre antiche memorie, parlano all’unisono a favore
della terra d’Israele. La vita agiata raccomanda, invece, l’America. Voi sapete, cari fratelli, che molti
bramano la Terra Santa, ma io so che un numero ancora maggiore s’incanalerà per l’America”.
Una terra senza un popolo per un popolo senza terra
I sionisti propagavano nel mondo l’idea di “una terra senza un popolo per un popolo senza terra”, uno slogan
coniato da Israel Zangwill, un famoso scrittore anglo-ebraico, ritenuto uno dei primi organizzatori del
movimento sionista in Inghilterra. Nel 1914 sarebbe stato Charles Weizmann, che sarebbe stato il primo
presidente dello stato di Israele a sostenere che “nella sua fase iniziale, il Sionismo venne concepito dai suoi
pionieri come un movimento completamente dipendente da fattori meccanici: c'è un paese a cui capita di
chiamarsi Palestina, una terra senza un popolo, e dall'altra, c’è il popolo ebraico , che non ha una terra. Che
altro è necessario, allora, se non inserire la gemma nell'anello, per unire questo popolo a questo paese? I
proprietari del paese (i Turchi) devono, pertanto, essere persuasi e convinti che questo matrimonio è
vantaggioso, non solo per il popolo ebraico e per il paese, ma anche per loro stessi”.
Nel 1930 lo stesso Waeizmann avrebbe scritto: “nessun uomo politico può ignorare il fatto che la
Transgiordania è legalmente parte della Palestina… che in razza, lingua e cultura il suo popolo è
indistinguibile dagli arabi della Palestina occidentale; che è separato dalla Palestina occidentale solo da una
stretta striscia; che questa era stata pensata come una riserva araba, e che sarebbe stato facile per i senza
terra arabi o per i contadini delle aree più congestionate di emigrare in Transgiordania così come migrare da
una parte della Palestina occidentale ad un’altra”.
Nur Masala, Expulsion of the Palestinians. The concept of “transfer” in Zionist Political Thought, 1882-1848, Institute for
Palestine Studies, 1992
McMahon -Hussein Correspondence 1915-1916
Letters passed between Sir Henry McMahon, British High Commissioner in Cairo, and Sherif Hussein of
Mecca from July 1915 to March 1916. Hussein offered Arab help in the war against the Turks if Britain
would support the principle of an independent Arab state. 7he most important letter is that of 24 October
1915, from McMahon to Hussein:
I regret that you should have received from my last letter the impression that I regarded the question of limits
and boundaries with coldness and hesitation; such was not the case, but it appeared to me that the time had
not yet come when that question could be discussed in a conclusive manner. 1 have realized, however, from
your last letter that you regard this question as one of vital and urgent importance. 1 have, therefore, lost no
time in informing the Government of Great Britain of the contents of your letter, and it is with great pleasure
that I communicate to you on their behalf the following statement, which 1 am confident you will receive
with satisfaction.
The two districts of Mersina and Alexandretta and portions of Syria lying to the west of the districts of
Damascus, Homs, Hama and Aleppo cannot be said to be purely Arab, and should be excluded from the
limits demanded.
With the above modification, and without prejudice to, our existing treaties with Arab chiefs, we accept
those limits.
As for those regions lying within those frontiers wherein Great Britain is free to, act without detriment to the
interest of her ally, France, 1 am empowered in the name of the Government of Great Britain to give the
following assurances and make the following reply to your letter:
1. Subject to the above modifications, Great Britain is prepared to recognize and support the independence
of the Arabs in all the regions within the limits demanded by the Sherif of Mecca.
2. Great Britain will guarantee the Holy Places against all external aggression and will recognize their
inviolability.
3. When the situation admits, Great Britain will give to the Arabs her advice and will assist them to establish
what may appear to be the most suitable forms of government in those various territories.
4. On the other hand, it is understood that the Arabs have decided to seek the advice and guidance of Great
Britain only, and that such European advisers and officials as may be required for the formation of a sound
form of administration will be British.
5. With regard to the vilayets of Baghdad and Basra, the Arabs will recognize that the established position
and interests of Great Britain necessitate special administrative arrangements in order to secure these
territories from foreign aggression, to promote the welfare of the local populations and to safeguard our
mutual economic interests.
I am convinced that this declaration will assure you beyond all possible doubt of the sympathy of Great
Britain towards the aspirations of her friends the Arabs and will result in a firm and lasting alliance, the
immediate results of which will be the expulsion of the Turks from the Arab countries and the freeing, f the
Arab peoples form the Turkish yoke, which for so many years has pressed heavily upon them [...].
Da Sir Henry McMahon, Alto Commissario del governo inglese al Cairo, a Sherif Hussein de La
Mecca
24 ottobre 1915
Mi dispiace che abbiate ricevuto dalla mia ultima lettera l'impressione che io abbia considerato la questione
dei confini con freddezza ed esitazione; non è cosi.
Ma mi sembra che non sia ancora venuto il tempo in cui questa questione possa essere discussa in modo
definitivo. Mi sono reso conto tuttavia, dalla vostra ultima lettera che voi considerate questa questione fra
quelle urgenti e di vitale importanza.
Perciò non ho perso tempo e ho informato il governo inglese dei contenuti della vostra lettera ed è con
grande piacere che posso comunicarle le seguenti decisioni, che, sono sicuro, voi riceverete con
soddisfazione.
I due distretti di Mersina e Alessandretta e la parte di Siria che giace a Ovest del distretto di Damasco,
Homs, Hama e Aleppo non può essere definito esclusivamente arabo, e dovrebbe quindi essere escluso dai
confini richiesti.
Con le modificazioni sopraindicate, e senza pregiudicare gli accordi esistenti con i capi arabi, noi accettiamo
questi confini.
Per quanto riguarda quelle regioni che si estendono all'interno di quelle frontiere in cui la gran Bretagna è
libera di agire senza danneggiare gli interessi del suo alleato, la Francia, io sono autorizzato in nome del
Governo inglese di darvi le seguenti assicurazioni e di fare le seguenti repliche alla vostra lettera.
1. Con le modificazioni sopraindicate, la Gran Bretagna è disposta a riconoscere e a sostenere
l'indipendenza degli Arabi in tutte le regioni all'interno dei confini richiesti dallo Sherif de La Mecca
2. La Gran Bretagna garantirà i Luoghi Santi contro le aggressioni esterne riconoscerà la loro
inviolabilità 3. Quando la situazione lo consentirà, la Gran Bretagna darà agli Arabi-i suoi consigli e li assisterà
nell'instaurare quelle forme di governo che appariranno essere la più adatta in ciascuno dei diversi
territori.
4. D'altro lato, è sottinteso che gli Arabi hanno deciso di cercare i consigli e la guida soltanto della Gran
Bretagna, e che nel caso si volessero richiede e istruttori e ufficiali europei per la formazione di una
equilibrata forma amministrativa, questi saranno inglesi
5. Per quanto riguarda le wilaya di Baghdad e di Bassora, gli Arabi, riconosceranno che le posizioni
fissate e gli interessi dell'Inghilterra rendono necessarie soluzioni amministrative specifiche per
rendere sicuri questi territori dalle aggressioni straniere, per promuovere il benessere della
popolazione locale e per salvaguardare i reciproci interessi economici.
Sono persuaso che questa dichiarazione vi rassicurerà al di là di ogni possibile dubbio sulla comprensione
della Gran Bretagna rispetto alle aspirazione dei suoi fratelli arabi e produrrà una solida e durevole alleanza,
il cui risultato immediato sarà l'espulsione .dei turchi dai paesi arabi e la liberazione dei popoli arabi dal
giogo turco che per troppi anni li ha pesantemente schiacciati [...]
Art. 22 dell’Atto costitutivo della Società Nazioni
“Per quanto riguarda colonie e territori che, in seguito all’ultima guerra, hanno cessato di essere sottoposti
alla sovranità di Stati che in precedenza li governavano, e che non sono in grado di far fronte da soli alle
difficili condizioni del mondo moderno, si può applicare il principio che il benessere e lo sviluppo di tali
popoli dia luogo a un sacro impegno di civilizzazione e che le garanzie per la realizzazione di tale impegno
siano contenute in una patto. Il metodo migliore per realizzare praticamente questo principio sarà deciso
dalle nazioni avanzate che, per risorse, esperienza e posizione geografica, possono assolvere nel modo
migliore a questa responsabilità”.
Per quanto riguardava in particolare le ex-province arabe della parte asiatica dell’impero ottomano:
“Alcune comunità già appartenenti all’impero turco hanno raggiunto un certo livello di sviluppo, talché la
loro esistenza in quanto stati indipendenti può essere riconosciuta in via provvisoria e subordinatamente
all’assistenza di una potenza mandataria finché non siano in grado di reggersi in maniera autonoma. Le
preferenze delle comunità devono essere un principio da prendersi in considerazione in fase di scelta della
potenza mandataria”.
Raccomandazioni finali della Commissione King-Crane
Nel marzo del 1919 il Presidente Wilson diede incarico agli americani Henry King e Charles Crane di
compiere un’inchiesta nei Paesi arabi staccati dalla Turchia. I due commissari giunsero a Giaffa il 10
giugno, visitarono la regione, tornarono a Parigi nell’agosto e il 28 agosto 1919 presentarono la loro
relazione al segretario della Delegazione statunitense per la Conferenza di pace. La relazione fu tenuta
segreta fino al 1922.
1. I commissari incominciarono il loro studio sul sionismo con l’animo predisposto in suo favore, ma gli
attuali eventi in Palestina, uniti con la forza dei principi generali proclamati dagli alleati e accettate dai
Siriani, li hanno spinti a fare la raccomandazione qui esposta.
2. I membri della Commissione furono abbondantemente forniti di materiale relativo al programma sionista
della commissione sionista di Palestina; udirono in colloqui molte cose riguardanti le colonie sioniste e le
loro aspirazioni e videro personalmente una parte di quanto è stato compiuto. Trovarono molto da approvare
nelle aspirazioni e nei piani dei sionisti, apprezzarono caldamente la dedizione di molti colonizzatori e il
loro successo nel sormontare con metodi moderni tanti ostacoli naturali.
3. La Commissione riconobbe pure che ai Sionisti è stato dato dagli Alleati definitivo incoraggiamento con
la spesso citata Dichiarazione Balfour e con la sua approvazione da parte degli altri rappresentanti degli
Alleati. Se tuttavia si aderisce strettamente ai termini della Dichiarazione Balfour - cioè di favorire “lo
stabilimento in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico”, “essere chiaramente inteso che nulla
sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non giudaiche esistenti in Palestina”
– non si può dubitare che il programma sionista estremista debba venire di molto modificato. Poiché lo
stabilire una sede nazionale per il popolo ebraico non equivale a trasformare la Palestina in uno stato
ebraico; né la creazione di un simile stato ebraico può essere compiuta senza gravissima offesa ai diritti
civili e religiosi delle comunità non giudaiche esistenti in Palestina durante i colloqui dei membri della
Commissione con rappresentanti ebrei venne fuori ripetutamente che i sionisti miravano praticamente ad una
completa spogliazione degli attuali abitanti non ebrei in Palestina, mediante varie forme di acquisti. Si deve
osservare pure che il sentimento contrario al programma sionista non è limitato alla éalestina, ma è molto
largamente condiviso dalle popolazioni di tutta la Siria, come i nostri colloqui hanno chiaramente assodato,
più del 72% -1350 in tutto- di tutte le richieste dell’intera Siria era diretto contro il programma sionista. Due
sole richieste – quelle per una Siria unita e per l’indipendenza - sono state più largamente sostenute. Questo
generale sentimento fu regolarmente espresso dal Congresso Generale Siriano nella settima, ottava e decima
risoluzione della sua dichiarazione.
La Conferenza di Pace non dovrebbe chiudere gli occhi di fronte al fatto che il sentimento antisionista è
inteso in Siria e Palestina e non può essere deriso alla leggera. Nessuno degli ufficiali britannici, consultati
da commissari, credeva che il programma sionista potesse essere eseguito altrimenti che con la forza delle
armi. Gli ufficiali generalmente pensavano che una forza non inferiore ai 50.000 soldati sarebbe stata
necessaria, anche soltanto per iniziare il programma. Quiesto di per sé mostra all’evidenza come le
popolazioni non ebraiche della Palestina e della Siria sentano fortemente l’ingiustizia del programma
sionista. Decisioni che richiedano eserciti per essere eseguite sono talora necessarie, ma certamente non
debbono essere prese alla leggera per favorire una vera ingiustizia. Infatti la pretesa iniziale, spesso
sottoposta dai rappresentanti sionisti, che essi hanno un “diritto” sulla Palestina, basato su una occupazione
di duemila anni fa, può difficilmente essere presa in seria considerazione”.
I sogni non passano in eredità: nei kibbutzim
“in assefà si decide tutto o quasi (una volta si decidevano anche i nomi dei figli): si vota una volta all’anno
per eleggere le varie cariche, si decide sui turni di lavoro, a che ora i bambini devono andare a casa dei
genitori e a che ora devono tornare a mangiare e dormire nelle loro case. Cosa si semina e come si spendono
i guadagni se ci sono, e come si costruiscono le case nuove e per chi. Insomma si discute e si decide della
vita di tutti e di ciascuno. Se poi a qualcuno non vanno a genio le decisioni prese, può sempre invocare un
appello, ma una volta sola”
[…]
“abbiamo costruito una serie di pollai per accogliere i pulcini e spedire i pollastri ogni tre mesi alla
macelleria regionale, creata in questi anni nel centro di zona. Ogni tere mesi si devono caricare di notte, nel
giro di una settimana, 80.000 pollastri in certe gabbiette piene di spigoli che se ti cascano sui piedi sono
guai seri. In compenso alla fine del carico le donne che lavorano in pollaio preparano una lauta cena a base
di polli e frittate e si torna a casa alle due del mattino (per riprendere il lavoro normale alle 6,30) stanchi ma
sazi per una settimana”
[…]
“Anni dopo verranno creati centri per la lavorazione degli agrumi, del cotone, delle patate e questo centro
regionale diventerà un piccolo impero economico, diretto das persone dei vari kibutzim, alcuni preparati e
onesti, altri un poi’ meno. Le conseguenze si sentiranno negli anni ’80 quando verranno fuori magagne di
ogni genere, investimenti eccessivi per sviluppare linee di produzione carenti o addirittura inutili, ci saranno
crack economici e i kibutzim dovranno addossarsi parti non indifferenti di debiti”
[…]
“La nuova parola d’ordine è: basta con l’ambiente protettivo in cui la comunità cerca di soddisfare tutti i
bisogni del singolo. È arrivato il momento, nell’era dei telefoni e delle televisioni private, che ognuno pensi
a se stesso, in nome di una rinnovata libertà. Si possono eliminare molte commissioni e servizi e indirizzare
sempre più manodopera alla produzione. Avremo più soldi, che ci divideremo in parti uguali, e se rimarremo
con meno servizi avremo però maggiori disponibilità di spendere questi soldi come ciascuno crede meglio” […]
“la storia di Ruchama in questi ultimi tre anni è simile a quella di una trentina di altri kibutzim. Crisi
economica, crisi di valori, nuove iniziative andate male oppure industrie che non sono state più in grado di
mantenere il passo con la concorrenza. Liti interne tra fazioni diverse (in alcuni kibutzim si è arrivati a
citazioni in tribunale). Molti dei giovani di più valore hanno scelto di far carriera e soldi in città, lasciando in
kibbutz un vuoto pauroso di dirigenti”
[…]
“Io sono nato in una casa con telefono, radio, servizi e bagno – servito da una cameriera e accompagnato a
scuola dall’attendente di mio padre ufficiale di carriera). Sono arrivato a Ruchamam 50 anni fa e ho
aspettato 11 anni per avere gabinetto e doccia in casa e altri 20 per il telefono. Ho cambiato diversi posti di
lavoro, e non sempre mi ci sono trovato bene, non sempre sono andato d’accordo con tutti, e tuttavia è stato
appassionante lottare giorno per giorno per creare una società diversa da quella lasciata in Italia, cercando
con ostinazione di adattare la realtà e di tradurre in fatti concreti l’aspirazione ad una comunità più giusta e
umana […]
È del tutto naturale che le giovani generazioni cerchino nuove vie.
I sogni non passano in eredità a nessuno. Mi dispiace solo di constatare che nella generazione che ci segue è
difficile trovare un comune denominatore: mi sembra che manchi loro la possibilità di stabilire una via di
condotta comune. Ma forse è proprio questo che vogliono: ognuno per se stesso!”
Israel De Benedetti, I sogni non passano in eredità, edizioni Giuntina
Il velo e la condizione femminile
“con il crollo del tetto della Palestina nel 1948, anche il velo finì di cadere dal volto della donna di Nablus
che aveva lottato a lungo per liberarsi della mal’ah, il tradizionale e spesso velo nero che le copriva dalla
testa alle caviglie. Ma tutto questo aveva richiesto ben 30 anni: negli anni 20 si era sbarazzata della tannurah
lunga e ampia, e l’aveva sostituita con un soprabito nero o marrone, o di un altro colore sobrio. Agli inizi
degli anni 40 si era liberata del manto che la copriva dalla testa fino alla vita, e a metà sempre degli anni 40
il mandil, il velo nero, divenne trasparente. Nella metà degli anni 50, poi, il velo fu abbandonato
definitivamente e apparve la bellezza dei volti testimoniare con pudore la grazia di Dio”
Fadwa Tuqan, in Isabella Camera d’Afflitto, Cento anni di cultura palestinese, Carocci, Roma 2007, p.30
Voci di intellettuali palestinesi nel periodo del mandato inglese
Khalil Sakakini: “Spetta al popolo prendere coscienza del fatto che possiede una terra e una lingua. Chi
vuole ucciderlo occupa la sua terra e taglia la sua lingua; ed è proprio quello che i sionisti vogliono fare alla
nostra nazione”
Tawfiq Kan’an: “E’ abbastanza realistico riscontrare come tutti gli arabi, musulmani o cristiani, beduini o
urbanizzati, analfabeti o istruiti, avvertano questa politica come una profonda ingiustizia e una tirannia che
minaccia la loro esistenza. E noi cristiani o arabi palestinesi, che per la maggior parte abbiamo studiato
presso le scuole britanniche, noi che più di tutti i palestinesi ci siamo sentiti vicini al popolo e alla letteratura
britannica, oggi siamo quelli che più detestano e avversano la politica della Gran Bretagna, contraria allo
stesso cristianesimo”
Isabella Camera d’Afflitto, Cento anni di cultura palestinese, Carocci, Roma 2007
Gli anni Trenta a Gerusalemme secondo Ibrahim Souss
“La primavera del 1934 era stata particolarmente dolce. Gerusalemme viveva al ritmo tranquillo
dell'Oriente, lontana dall’agitazione che regnava in Europa. Nelle viuzze della città, il tempo sembrava
essersi fermato. Gli effluvi del caffè turco che fuoriuscivano dalle rivendite, le grida dei bambini che
scendevano precipitosamente per le scalinate, il richiamo del muezzin mischiato al suono delle
campane del Santo Sepolcro, sembrava che nulla, fin dalla notte dei tempi, fosse riuscito a turbare la
serenità della città. Quanto alle pattuglie dei soldati inglesi, che occupavano il paese dalla fine della
Grande Guerra, quasi facevano parte del paesaggio, su questa terra tante volte conquistata. A volte,
svoltando da una viuzza, si scorgevano i loro caschi rotondi ricoperti di tela color kaki.
La famiglia Abdelhamid viveva qui da sempre, proprio all'esterno della porta di Giaffa, in un vecchio
edificio di Gaza Street, una di quelle costruzioni dalle finestre strette dove, anche in piena estate,
regna una piacevole frescura. Qui erano cresciuti i due figli di Mohammad e Nijmeh Abdelhamid, il
cui il primogenito, Bahgat, aveva già dodici anni.
Lo sciopero del 1936. L'ordine di sciopero fu massicciamente osservato. In qualche giorno, la città fu
paralizzata. Mohammad Abdelhamid chiuse la saracinesca della sua libreria e sospese le ordinazioni.
All'inizio, l'esercito inglese si limitò a osservare, con il distacco sprezzante tipico delle truppe
coloniali. Negli occhi degli ufficiali di Sua Maestà si leggeva un'immensa incomprensione mischiata
al fastidio. Con quale diritto questi indigeni turbavano l'ordine pubblico? Ma quando compresero che
lo sciopero si prolungava, gli inglesi all'improvviso cambiarono atteggiamento. Le azioni punitive si
moltiplicarono; Gerusalemme fu di nuovo in preda alla violenza cieca. Occorreva che gli insorti
riprendessero il lavoro, e per riuscirci gli inglesi conoscevano un solo mezzo: la forza.
Un giorno, mentre tornava a casa attraverso le strade deserte, Mohammad ascoltò brandelli di una
conversazione fra due sottufficiali.
«La carota non serve a nulla» diceva l'uno ridendo. «Questi primati capiscono solamente il bastone»
«Fra dieci giorni tutto sarà rientrato nell’ordine» rispose l'altro.
Un coprifuoco permanente aveva trasformato le strade di Gerusalemme, un tempo formicolanti di
persone, in uno strano deserto dove transitavano figure furtive. Nei suk vuoti, persistevano ancora
l'odore delle spezie, del caffè e quello, più forte, del rigagnolo nauseabondo che scorreva in mezzo alle
stradine. Ma dietro le saracinesche le merci marcivano, senza possibilità di essere conservate. I piccoli
commercianti, che rischiavano la rovina, intaccavano i loro modesti risparmi per mantenere le
famiglie”.
Brani tratti da I.Souss, Le rondini di Gerusalemme, Giovanni Tranchida Editore, Milano 2002
L’eccidio di Deir Yasin secondo Salwa Salem
“Sento raccontare di eccidi, morti, terrore, paura, racconti macabri, disperati. La gente parla di Deir Yasin e
di altri massacri. Deir Yasin è un villaggio che è stato attaccato e trecento dei suoi abitanti, vecchi, donne e
bambini, sono stati violentati e uccisi. Si racconta del massacro con grande terrore. Altoparlanti per le strade
invitano la popolazione a mettersi al sicuro: "Cercare di andar via, portate lontano le vostre famiglie, noi
siamo i vostri amici, noi siamo i vostri capi, noi vi aiuteremo a tornare alle vostre case e a mettere ordine
nella città ... ". Si scoprì più tardi che erano messaggi delle bande ebraiche che si spacciavano per i leader
arabi e cercavano così di far evacuare la gente come se fosse per poco tempo, una cosa provvisoria. Dagli
aeroplani cade su di noi una pioggia di volantini: "Andate via, uscite dalle vostre case, se no farete la fine di
Deir Yasin ... ". L'orribile massacro di Deir Yasin era stato voluto e compiuto da Begin, uno dei leader del
sionismo in Palestina in quel momento, e dalle bande ebraiche. Proprio Begin, in un suo libro ha scritto: "Se
non ci fosse stato Dèir Yasìn, non ci sarebbe stato Israele", perché quel massacro terrorizzò la gente e la
spinse ad allontanarsi dalle proprie case.
Si racconteranno storie accadute a parenti, a amici. Un bambino è morto al seno di sua madre perché lei lo
ha stretto troppo e lo ha soffocato. Altre madri colte dal terrore durante un incendio o un bombardamento,
hanno preso dal letto un cuscino credendo di prendere il figlio, accorgendosi tropo tardi dell’errore. Racconti
di disperazione: madri che diventano pazze perché si sentono responsabili della morte dei loro figli”.
Brano tratto da S. Salem Con il vento nei capelli, Giunti, Firenze 1998
Gli orfani di Deir Yassin
“Il 9 aprile 1948, non appena una pausa dei combattimenti glielo permise, Hind si recò nella Città Vecchia,
invitata dal governatore a una riunione sull’emergenza profughi. Attraversò la porta di Erode, e percorrendo
le strette vie notò che poche bancarelle spoglie avevano preso il posto della consueta e vivace confusione dei
suq carichi di verdure e spezie, che diffondevano nell’aria i profumi intensi della menta, del cumino e del
cardamomo, e che abbagliavano con i colori accesi delle arance e dei limoni.
Un’atmosfera tetra aleggiava sulla città. Nei quartieri ebraici i saluti erano meno calorosi del solito e i
passanti evitavano di incrociare gli sguardi. Nei quartieri arabi il disagio era ancor più palpabile, e il canto
del muezzin risuonava più come un lamento di dolore, che come il solito gioioso invito alla preghiera.
Nei pressi del Santo sepolcro, Hind si imbatté in un gruppo di bambini. Erano una cinquantina circa, alcuni
seduti sul bordo del marciapiede, appoggiati gli uni agli altri, altri immobili sul ciglio della strada, come in
attesa di qualcuno. Avvicinandosi notò che i più piccoli erano scalzi, piangevano e avevano le guance
sporche di fango e i capelli impastati di polvere. Hind chiese spiegazioni alla bambina più grande, che
dimostrava all’incirca dodici anni, indossava pantaloni strappati e una camicia con le maniche sdrucite.
“Dove sono i vostri genitori? E cosa ci fate qui in mezzo alla strada?”
“Ci hanno lasciato qui” rispose la ragazzina, le lacrime trattenute a stento.
“Come ti chiami”, le chiese Hind, sedendosi accanto a lei.
“Zeina” rispose la bambina fra i singhiozzi.
Zeina raccontò a Hind di aver udito spari per tutta la notte nel proprio villaggio, Deir Yassin, e di aver visto
le case andare a fuoco, anche la propria. Aveva cercato i genitori urlando fra le lacrime, ma il rumore degli
spari era troppo forte. Così si era nascosta. La mattina, improvvisamente, alcuni uomini armati l’avevano
presa e portata nella piazza centrale. Lì c’erano altri bambini, nessuno della sua classe. Li avevano fatti
salire su un camion, tutti insieme. Poi li avevano scaricati lì, senza dire una parola.
“Zeina, aspettami qui” disse Hind con un tono rassicurante accarezzandole i capelli appiccicati sulla fronte
“devo parlare con una persona, torno subito”.
Brano tratto da R. Jebreal, La strada dei fiori di Miral, Rizzoli, Milano 2004, (p.20-21)
Dichiarazione della Fondazione dello Stato d'Israele
In Eretz Israel è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha
vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al
mondo l'eterno Libro dei Libri.
Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e
non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica.
Spinti da questo attaccamento storico e tradizionale, gli ebrei aspirarono in ogni successiva generazione a
tornare e stabilirsi nella loro antica patria; e nelle ultime generazioni ritornarono in massa. Pionieri, ma'apilim e
difensori fecero fiorire i deserti, rivivere la loro lingua ebraica, costruirono villaggi e città e crearono una
comunità in crescita, che controllava la propria economia e la propria cultura, amante della pace e in grado di
difendersi, portando i vantaggi del progresso a tutti gli abitanti del paese e aspirando all'indipendenza
nazionale.
Nell'anno 5657 (1897), alla chiamata del precursore della concezione d'uno Stato ebraico Theodor Herzl, fu
indetto il primo congresso sionista che proclamò il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale del suo
paese. Questo diritto fu riconosciuto nella dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e riaffermato col
Mandato della Società delle Nazioni che, in particolare, dava sanzione internazionale al legame storico tra il
popolo ebraico ed Eretz Israel [Terra d'Israele] e al diritto del popolo ebraico di ricostruire il suo focolare
nazionale. La Shoà [catastrofe] che si è abbattuta recentemente sul popolo ebraico, in cui milioni di ebrei in
Europa sono stati massacrati, ha dimostrato concretamente la necessità di risolvere il problema del popolo
ebraico privo di patria e di indipendenza, con la rinascita dello Stato ebraico in Eretz Israel che spalancherà le
porte della patria a ogni ebreo e conferirà al popolo ebraico la posizione di membro a diritti uguali nella
famiglia delle nazioni.
I sopravvissuti all'Olocausto nazista in Europa, così come gli ebrei di altri paesi, non hanno cessato di emigrare
in Eretz Israel, nonostante le difficoltà, gli impedimenti e i pericoli e non hanno smesso di rivendicare il loro
diritto a una vita di dignità, libertà e onesto lavoro nella patria del loro popolo. Durante la seconda guerra
mondiale, la comunità ebraica di questo paese diede il suo pieno contributo alla lotta dei popoli amanti della
libertà e della pace contro le forze della malvagità nazista e, col sangue dei suoi soldati e il suo sforzo bellico, si
guadagnò il diritto di essere annoverata fra i popoli che fondarono le Nazioni Unite.
Il 29 novembre 1947, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che esigeva la
fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel. L'Assemblea Generale chiedeva che gli abitanti di Eretz Israel
compissero loro stessi i passi necessari da parte loro alla messa in atto della risoluzione. Questo riconoscimento
delle Nazioni Unite del diritto del popolo ebraico a fondare il proprio Stato è irrevocabile. Questo diritto è il
diritto naturale del popolo ebraico a essere, come tutti gli altri popoli, indipendente nel proprio Stato sovrano.
Quindi noi, membri del Consiglio del Popolo, rappresentanti della Comunità Ebraica in Eretz Israel e del
Movimento Sionista, siamo qui riuniti nel giorno della fine del Mandato Britannico su Eretz Israel e, in virtù
del nostro diritto naturale e storico e della risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
dichiariamo la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel, che avrà il nome di Stato d'Israele.
Decidiamo che, con effetto dal momento della fine del Mandato, stanotte, giorno di sabato 6 di Iyar 5708, 15
maggio 1948, fino a quando saranno regolarmente stabilite le autorità dello Stato elette secondo la Costituzione
che sarà adottata dall'Assemblea costituente eletta non più tardi del 1 ottobre 1948, il Consiglio del Popolo
opererà come provvisorio Consiglio di Stato, e il suo organo esecutivo, l'Amministrazione del Popolo, sarà il
Governo provvisorio dello Stato ebraico che sarà chiamato Israele.
Lo Stato d'Israele sarà aperto per l'immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo
del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto
dai profeti d'Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza
distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di
cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Lo
Stato d'Israele sarà pronto a collaborare con le agenzie e le rappresentanze delle Nazioni Unite per
l'applicazione della risoluzione dell'Assemblea Generale del 29 novembre 1947 e compirà passi per realizzare
l'unità economica di tutte le parti di Eretz Israel.
Facciamo appello alle Nazioni Unite affinché assistano il popolo ebraico nella costruzione del suo Stato e
accolgano lo Stato ebraico nella famiglia delle nazioni. Facciamo appello - nel mezzo dell'attacco che ci viene
sferrato contro da mesi - ai cittadini arabi dello Stato di Israele affinché mantengano la pace e partecipino alla
costruzione dello Stato sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le
sue istituzioni provvisorie e permanenti.
Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello
affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua
terra. Lo Stato d'Israele è pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio
Oriente intero.
Facciamo appello al popolo ebraico dovunque nella Diaspora affinché si raccolga intorno alla comunità ebraica
di Eretz Israel e la sostenga nello sforzo dell'immigrazione e della costruzione e la assista nella grande impresa
per la realizzazione dell'antica aspirazione: la redenzione di Israele.
Confidando nell'Onnipotente, noi firmiamo questa Dichiarazione in questa sessione del Consiglio di Stato
provvisorio, sul suolo della patria, nella città di Tel Aviv, oggi, vigilia di sabato 5 Iyar 5708, 14 maggio 1948
Josef Weitz e la pulizia etnica programmata
Josef Weitz si occupò del progetto ufficioso di trasferimento di palestinesei suggerito dalla Commissione
Peel
Nel 1947 fu Direttore del Dipartimento della terra del Fondo Nazionale ebraico
Nel 1948-9 capo del Comitato per il trasferimento, ufficioso fino all’agosto del 1948, ufficiale dopo.
Nell’aprile del 48 si espresse a favore della creazione di un organismo che “diriga la guerra dello yishuv
con l’obiettivo di espellere quanti più arabi è possibile dalle nostre regioni”
E il 18 aprile del ’48 scrisse: “Ho compilato una lista di villaggi arabi dei quali penso che debbano essere
ripuliti al fine di rendere omogenee le zone ebraiche. Allo stesso modo, ho preparato una lista di posti che
devono essere colonizzati dagli ebrei”
Dal diario di Josef Weitz. Pagina scritta il 20 dic 1940: “Fra di noi deve essere chiaro che non c’è spazio
nel paese per due popoli […]. Dopo che gli arabi saranno trasferiti, il paese sarà ampio e spazioso per noi;
con gli arabi presenti, il paese resterà piccolo e ristretto […]. La sola soluzione è la terra d’Israele, o almeno
la terra occidentale di Israele, senza gli arabi. Non c’è spazio per un compromesso su questo punto […].
Occorre continuare ad acquistare terra […] ma tutto questo non porterà ad uno stato. Non c’è altro modo che
trasferire gli arabi da qui ai paesi vicini, trasferirli tutti, eccetto forse per gli arabi di Betlemme, Nazareth e
Gerusalemme vecchia. Non un solo villaggio deve restare, non una sola tribù. Il trasferimento deve essere
diretto verso l’Iraq, la Siria e anche la Transgiordania. Per questo scopo, si troverà il denaro, anche tanto
denaro. E solo allora il paese sarà in grado di assorbire milioni di nostri fratelli e il problema ebraico cesserà
di esistere. Non c’è altra soluzione”.
J.Weitz, Diary, Central Zionist Archives
Diventare profughi
“Quando andammo via da Giaffa diretti ad Akko la tragedia non si era ancora compiuta. Ci sentivamo come
quelli che ogni anni vanno a fare le vacanze in un’altra città.[…]
Quella notte tuttavia , qualcosa si cominciò a delineare: e la mattina, quando gli ebrei presero a ritirarsi tra
minacce e fumi d’ira, un grande camion si fermò davanti alla porta di casa. Un ammasso di semplici cose
per dormire venne scaraventato sul camion, di qua e di là, con movimenti rapidi e febbrili […] tuo padre
spinse dentro il camion te e i tuoi fratelli in mezzo ai bagagli, infine mi prese dal mio angolo, mi alzò in alto
e mi fece salire sopra al tetto della cabina di guida. Lì trovai seduto, tranquillo, mio fratello Riad. Prima che
mi sistemassi più comodamente, il camion si era già messo in moto, e la mia amata Akko spariva poco a
poco dietro le curve della strada a Ra’s al-Naqura […]
Quando in lontananza si cominciò a intravedere Ra’s al-Naqura, rannuvolata sullo sfondo azzurro
dell’orizzonte, il camion si fermò. Le donne si fecero largo tra i bagagli, scesero e si diressero verso un
contadino accovacciato davanti a una cesta di arance. Ne presero alcune e il loro pianto arrivò fino a noi. Mi
sembrò chiaro allora che le arance dovevano essere qualcosa di molto caro e che questi grandi frutti lucidi
rappresentavano per tutti noi qualcosa di molto prezioso. Le donne portarono sul camion la frutta che
avevano comprato. Tuo padre scese anche lui dal suo posto accanto all’autista. Allungò una mano e prese
un’arancia che cominciò a contemplare in silenzio, poi scoppiò in un pianto dirotto come un bambino
disperato.
[…] tua madre, sempre in silenzio, guardava ancora le arance, mentre negli occhi di tuo padre luccicavano
tutte le piante di arancio che stava lasciando agli ebrei. Tutte le piante di arancio da lui comprate, una per
una, sembravano scolpite nel suo volto e luccicavano nelle lacrime che non riuscì a trattenere di fronte
all’ufficiale del posto di guardia.
In serata, quando arrivammo a Saida, eravamo diventati profughi”
Brano tratto da G. Kanafani, La terra delle arance tristi…
… come Efrat Koshen occupò la casa di Said…
“… il 29 aprile [era la] data in cui uno dell’Hagana, accompagnato da un altro più anziano, che di faccia
assomigliava a un pollo, aveva spalancato la porta della casa di Said facendo strada a Efrat Kosher e a sua
moglie, immigrati dalla Polonia, per introdurli in quella che sarebbe diventata, da quel giorno, la casa data
loro in affitto dall’Ufficio per i beni dei proprietari assenti di Haifa.
Efrat Koshen era arrivato ad Haifa tramite l’Agenzia ebraica, alla quale si era rivolto insieme alla moglie, un
mattino di marzo, dopo esser sceso dalla nave su cui si era imbarcato in un porto italiano. Era partito da
Varsavia con una piccola carovana ai primi di novembre del 1947, poi li avevano sistemati per un po’ di
tempo in una casa della periferia di quella città italiana, che all’epoca era attraversata da un traffico
straordinario. Ai primi di marzo era stato trasferito ad Haifa per mare, insieme ad altri uomini e donne.
Le sue carte erano tutte in regola; un piccolo autocarro l’aveva trasportato con le sue poche cose attraverso il
porto chiassoso, pieno di soldati inglesi, di operai arabi e di merci, per le strade di Haifa piene di tensione. In
mezzo all’echeggiare di spari intermittenti, fino a Hadar, dove gli avevano assegnato una stanzetta in un
edificio gremito di persone [chiamato l’albergo degli immigrati]. [….]
Quando i responsabili dell’Agenzia ebraica si accorsero dai suoi documenti che non aveva figli, gli offrirono
una casa proprio ad Haifa, come concessione speciale, a parte che adottasse un bambino.
Per Efrat fu una sorpresa meravigliosa perché desiderava ardentemente adottare un bambino […].
E fu così che giovedì 29 aprile 1948, accompagnati da un impiegato dell’agenzia ebraica che di faccia
assomigliava a un pollo, Efrat Kosher e sua moglie Miriam entrarono nella casa di Said, portando con sé un
bambino di cinque mesi”
Brano tratto da G. Kanafani, Ritorno ad Haifa, Rispostes, Roma 1985
La percezione della Nakbah
Scrittori, giornalisti, poeti… tutti hanno riflettuto su quella tragedia immensa che fu la naqba. Ecco alcune
delle loro considerazioni.
Rula Jebreal: “è la catastrofe, il disastro, l’apocalisse. È la creazione dello stato di israele in Palestina, è la
dispersione del nostro popolo, la nostra diaspora. È difficile da spiegare, ma è qualcosa che ogni palestinese
si sente dentro, come una ferita insanabile, come un cortocircuito nella nostra storia”(R. Jeabral, La strada
dei fiori di Miral, cit.)
Mahamud Darwish: “I Palestinesi “continuarono a nascere senza motivo, a crescere senza motivo, a
ricordare senza motivo e ad essere assediati senza motivo. Conoscono tutti la storia, una storia che somiglia
ad un incidente cosmico, a una catastrofe naturale. Però, hanno letto molto nel libro dei loro corpi e delle
loro tende; hanno letto il loro essere discriminati, hanno letto i proclami nazionalisti, hanno letto le
pubblicazioni dell’UNRWA, hanno letto le fruste della polizia. Hanno continuato a crescere e a moltiplicarsi
dietro la barriera del campo profughi e dei centri di detenzione. Hanno letto la storia delle roccaforti e delle
fortezze costruite dagli invasori per eternare i loro nomi in una terra che non è loro, come per alterare
l’identità delle pietre e delle arance” (M. Darwish, Una memoria per l’oblio, cit.)
Edward Said: “Ciò che mi commuove profondamente e mi sgomenta, oggi, è la portata della dispersione
vissuta da familiari e amici della quale fui testimone sostanzialmente ignaro e inconsapevole nel 1848. Al
Cairo notavo spesso la tristezza e la disperazione sulla faccia e nella vita di persone che in Palestina avevo
conosciuto come normali e spesso prosperi borghesi, ma non avevo gli strumenti per comprendere la
tragedia che li aveva colpiti e per collegare tra di loro i frammentari racconti di ciò che era avvenuto in
Palestina […]. Tutto il parentado sembrava aver rinunciato per sempre alla Palestina, che diventò un posto
dove non saremmo più tornati, sempre più raramente nominato, fonte di nostalgia struggente, ma muta”
(E. Said, Sempre nel posto sbagliato, cit.)
Giabra Ibrahim Giabra: “Il senso di smarrimento in un esule è diverso da tutti gli altri sensi di
smarrimento; è la sensazione di aver smarrito una parte del proprio io interiore,. Della propria essenza
interiore. Un esule si sente incompleto, anche se ha a portata di mano, fisicamente, tutto quello che può
desiderare. È ossessionato dall’idea che solo il ritorno in patria potrebbe liberarlo da tale sensazione, porre
fine alla perdita, reintegrare l’io interiore” (L’esule palestinese come scrittore, in I. Camera d’Afflitto, Cento
anni di cultura palestinese, Carocci, Torino 2007, p.81)
Samira Azzam: “Una anziana donna fa un disagevole viaggio in taxi dal Libano nella speranza di rivedere
la figlia rimasta in Israele, e racconta la sua vita a uno spazientito tassista:
“Noi abitavamo a Giaffa. La conosci Giaffa? La nostra casa si trova a Darg al-Qala’. Avevamo un aranceto
dai frutti dolci che splendevano come l’oro. Eravamo gente per bene. La nostra casa era molto ospitale, mio
marito era mukhtar […]. Io questo viaggio non lo faccio per capriccio. Se fosse necessario andrei a piedi
senza perdermi. Se tu fossi un genitore sapresti cosa vuol dire l’ansia delle madri. Non c’è niente di più caro
di un figlio se non il figlio di tuo figlio. Il mio cuore sta volando e l’unica cosa che ora desidero è che questa
nottata passi presto. Poi cercherò un’altra macchina che mi porti a Gerusalemme, e un autista bravo come te.
Abbraccerò mia figlia Marie, senza stancarmi di tenermela vicina, e non la smetterò di farle domande fino a
quando mi si seccherà la saliva. Le chiederò di Giaffa, chissà, forse lei ci sarà stata … E la nostra casa? Ci
sarà ancora? … E la nostra gente? Chi è rimasto e chi se n’è andato? … E il nostro aranceto? Le avrà gustate
ancora quelle arance? E la chiesa? Ci sarà sempre Padre Ibrahim?... E i nostri amici? Sara, Umm Giamil e
Marianna… saranno ancora vive? La vecchia incominciò a raccontare la storia di sara, di Umm Giamil e di
Marianna…”
Brano tratto da I. Camera d’Afflitto, Cento anni di cultura palestinese, Carocci, Torino 2007
Alla porta di Mandelbaum
“[…] Ti consiglierei di non venire alla porta di Mandelbaum con i bambini. E non perché queste case
distrutte e deserte possono spingerli a cercarci dentro la “lampada magica” e la “grotta di Aladino”, e
neanche perché quelle treccioline sulle tempie li possono indurre a far domande provocatorie, mettendoti in
imbarazzo, ma perché sulla strada per la porta di Mandelbaum passano senza interruzione macchine che
sfrecciano a velocità europea, provenienti sia “dalla parte di là” sia “dalla parte di qua”. Sono lussuose
macchine americane e i passeggeri sono persone eleganti con colletti inamidati e camicie colorate, oppure
con divise militari cucite per essere macchiate con gocce di whisky piuttosto che di sangue.
Sono le macchine degli uomini dell'armistizio, delle commissioni di controllo, delle Nazioni Unite, degli
ambasciatori degli stati occidentali e dei loro consoli, delle loro mogli e dei cuochi delle loro mogli, dei loro
barmen, delle loro belle e delle amiche delle loro belle. Si fermano per un attimo sulla “porta di qua”, giusto
il tempo di uno scambio di battute - con la massima gentilezza e civiltà – tra l’autista e il “poliziotto di qua”,
poi attraversano la “terra di nessuno” per fermarsi ancora un momento sulla “porta di là” e scambiare il
saluto con il “poliziotto di là” e - con la massima gentilezza e civiltà - scambiare pacchetti di sigarette,
barzellette e altro. Qui si vede il vero conflitto israelo-giordano (o giordano-israeliano, anche il contrario va
bene).
Questa gente non ha niente a che vedere con la legge della morte: chi esce di qua non ci ritorna più! E
neanche con la legge del paradiso: chi entra qui non esce più. Il signor ispettore può pranzare al Filadelfia di
Amman e cenare all’Eden di Gerusalemme, settore israeliano, ma il suo sorriso educato non lo abbandonerà
né all'andata né al ritorno!
Quando mia sorella si mise a supplicare il soldato fermo sulla “porta di qua” di lasciarla accompagnare sua
madre fino alla porta giordana, il soldato le disse: “E proibito, signora!”
“Ma se vedo tutti quegli stranieri che entrano ed escono come se fossero a casa loro, per non dire altro!”
“Signora, - rispose il poliziotto - chiunque può entrare e uscire attraverso queste due porte, tranne la gente
del posto. Vi prego di allontanarvi dalla strada, è una strada pubblica e c'è molto traffico."
Poi irruppe la conversazione per scambiare qualche parola con i passeggeri di una macchina (in uscita o in
entrata?). Scherzarono con lui e lui scherzò con loro. Ma noi non capimmo la battuta”.
Brano tratto da E. Habibi, La porta di Mandelbaum, in I. Camera d’Afflitto, Narratori arabi del Novecento, Bompiani, Milano
1994
Le colonie israeliane secondo Murid al-Barghuthi
“Una cosa è sentir parlare degli insediamenti, un’altra vederli con i propri occhi.
Le statistiche non hanno senso. Tutte le conferenze, i discorsi, le proposte, le condanne, le giustificazioni, le
mappe dei negoziati e i pretesti dei negoziatori, tutto quello che abbiamo sentito o letto sugli insediamenti
non serve a niente. Bisogna vederli con i propri occhi.
Costruzioni di pietra bianca disposte una accanto all'altra, ad anelli concentrici sul pendio di una collina.
Stabili nella loro posizione. Alcune costruzioni sono edifici a più piani, altre villette con i tetti spioventi.
Questo è quanto si riesce a vedere a una certa distanza.
Come sono le loro vite lì dentro?
Chi sono gli abitanti di questi insediamenti? Dove si trovavano prima di essere portati qui? I loro bambini
giocano a pallone dietro quei muri? Gli uomini e le donne fanno l'amore dietro quelle finestre? Fanno
l'amore con le pistole accanto? Con i fucili carichi appoggiati alle pareti delle camere da letto?
In televisione li vediamo sempre armati.
Hanno davvero paura di noi, o siamo noi ad aver paura di loro? Quando sentite qualcuno pronunciare da una
tribuna l'espressione «smantellare gli insediamenti» fatevi una bella risata. Non sono fortezze da bambini
fatte con il Lego o il Meccano. Quello è Israele. Quella è l'idea, l'ideologia, la geografia, un imbroglio, una
delle tante trovate di Israele. Quello era il luogo che ci apparteneva e che hanno fatto loro. Gli insediamenti
sono le loro scritture nella loro forma originaria. Sono la loro Terra Promessa. Sono la nostra assenza. Gli
insediamenti sono la diaspora palestinese .
I negoziatori di Oslo dovevano ignorare la vera natura degli insediamenti quando hanno firmato gli accordi!
Guardando dal finestrino destro dell'auto, ti meravigli che la stretta lingua d'asfalto che stavi percorrendo si
sia trasformata in una bella strada larga e scorrevole. L’asfalto brilla, si divide, sale verso una collina con
case di lusso, e allora capisci che porta a un insediamento.
Dopo un po' guardi a sinistra e vedi un altro insediamento e un' altra bella strada. Poi ne vedi un terzo, un
quarto, un decimo e così via”.
Brano tratto da M.al-Barghuthi Ho visto Ramallah, ILISSO, Nuoro 2005
17 luglio 1968 - Risoluzione del Consiglio Nazionale Palestinese
La Palestina e' la patria del popolo arabo palestinese; e' parte indivisibile della nazione araba, di cui il
popolo palestinese e' parte integrante.
La Palestina, entro i limiti che aveva ai tempi del Mandato Britannico, e' un'indivisibile' unità territoriale.
Il popolo palestinese possiede il diritto legale sulla sua terra ed ha il diritto di determinare il suo destino
dopo la liberazione del suo paese secondo i suoi desideri e secondo la sua esclusiva volonta'.
L'identità palestinese e' una caratteristica genuina, essenziale ed inerente; essa e' trasmessa dai genitori ai
figli. L'occupazione sionista e la dispersione del popolo arabo palestinese, attraverso le tragedie accadute,
non gli hanno fatto perdere la sua identità palestinese e la sua appartenenza alla comunità palestinese.
I palestinesi sono il popolo che risiedeva normalmente in Palestina fino al 1947, senza alcuna differenza
tra coloro che furono sradicati e coloro che vi restarono. Tutti quelli nati, dopo tale data, da padre
palestinese - dentro la Palestina o fuori di essa - sono palestinesi.
Gli ebrei che risiedevano normalmente in Palestina prima dell'invasione sionista saranno considerati
palestinesi.
Che ci sia una comunità palestinese che ha legami materiali, spirituali e storici con la Palestina e' un fatto
indisputabile. E' dovere nazionale formare gli individui palestinesi in maniera rivoluzionaria araba.
Dovranno essere adottati tutti i mezzi di informazione e di educazione affinche' i palestinesi siano istruiti
sul loro paese nella maniera piu' profonda possibile, sia materiale che spirituale. Essi devono prepararsi
per la lotta armata ed essere pronti a sacrificare il loro benessere e la loro vita per la liberazione della loro
patria.
La fase storica che i palestinesi stanno vivendo e' quella della lotta nazionale (watani) per la liberazione
della Palestina. Di conseguenza sono secondari i conflitti tra le varie forze nazionaliste, i quali dovrebbero
cessare per il bene del conflitto tra le forze del sionismo e dell'imperialismo da un lato ed il popolo
palestinese dall'altro. Su queste basi le masse palestinesi, sia quelle che risiedono all'interno della patria
che quelle della diaspora, costituiscono - sia come organizzazioni che come individui - un solo fronte
nazionale che lotta unito per la liberazione della Palestina.
La lotta armata e' il solo mezzo per liberare la patria. Essa e' la strategia globale e non solo una fase tattica.
Il popolo palestinese asserisce la sua assoluta determinazione e ferma risolutezza a continuare la lotta
armata affinche' mediante una rivoluzione popolare esso riesca a liberare il suo paese ed a farvi ritorno.
Esso reclama altresi' il suo diritto ad una normale vita in Palestina e ad esercitare il diritto
all'autodeterminazione ed alla sovranità su di essa.
Le azioni di commando costituiscono il nucleo della lotta popolare di liberazione nazionale. [...]Essa
richiede il raggiungimento dell'unità della lotta nazionale tra i differenti gruppi del popolo palestinese, e
tra questo e le masse arabe.
I palestinesi avranno tre motti: unità nazionale (wataniya), mobilitazione nazionale (qawmiyyah) e
liberazione.
Il popolo palestinese crede nell'unità araba. Per poter contribuire al raggiungimento di quest'obiettivo,
nell'attuale fase della sua lotta, esso deve comunque salvaguardare la sua identità palestinese e sviluppare
la sua coscienza nazionale, opponendosi ai piani che mirano alla sua dissoluzione.
Il destino della nazione araba, e la stessa esistenza araba, dipendono dal destino della causa palestinese.
Questa interdipendenza deve spingere le masse arabe ad appoggiare la lotta di liberazione palestinese. Il
popolo palestinese rappresenta l'avanguardia nella realizzazione di questo obiettivo sacrosanto.
La liberazione della Palestina e' un dovere nazionale ed essa deve mirare a respingere l'aggressione
sionista ed imperialista contro la patria araba. La responsabilità assoluta di cio' ricade su tutto il popolo
arabo, di cui i palestinesi rappresentano l'avanguardia. [...]
La liberazione della Palestina, da un punto di vista spirituale, garantirà alla Terra Santa un'atmosfera di
sicurezza e tranquillità, che sarà in grado di salvaguardare i luoghi santi del paese e garantire libertà di
culto e di visita a tutti, senza discriminazione di razza, colore, lingua o religione. Per questo, il popolo
palestinese cerca il supporto di tutte le forze spirituali del mondo.
La liberazione della Palestina, da un punto di vista umano, ridarà ad ogni individuo palestinese la sua
dignità, libertà, orgoglio. Per questo, il popolo palestinese cerca il supporto di tutti coloro che credono
nella dignità dell'uomo e nella sua liberta'.
La liberazione della Palestina, da un punto di vista internazionale, e' un'azione difensiva resa necessaria
dal principio dell'auto-difesa. Per questo, il popolo palestinese, desideroso dell'amicizia con tutti i popoli,
chiede il sostegno delle nazioni amanti della libertà e della pace per restaurare i suoi legittimi diritti in
Palestina, per ristabilire pace e sicurezza nel paese, e per restituirgli il diritto di esercitare la sovranità
nazionale nella sua terra.
La spartizione della Palestina del 1947 e la creazione dello stato d'Israele sono atti totalmente illegali, non
importa quanto tempo sia trascorso, perche' contrari alla volontà del popolo palestinese ed al suo naturale
diritto sulla sua terra, e contrari ai principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, in particolare al diritto
dei popoli all'auto-determinazione.
La Promessa di Balfour, il Mandato Britannico in Palestina e tutto cio' che e' stato costruito su di essi e'
considerato nullo ed illecito. I proclami di legami storici e religiosi degli ebrei con la Palestina sono
incompatibili con i fatti storici e con la reale concezione della nazione. Il Giudaismo, essendo una
religione, non e' una nazionalità indipendente e gli ebrei non costituiscono una singola nazione con una
identità propria, poiche' essi sono cittadini degli stati a cui appartengono.
Il popolo palestinese, che si identifica nella rivoluzione popolare, rifiuta tutte le soluzioni che non mirino
alla liberazione totale della Palestina e tutte le proposte che mirino alla liquidazione del problema
palestinese o alla sua internazionalizzazione.
Il Sionismo e' un movimento politico organicamente associato all'imperialismo internazionale ed
antagonista di tutti i movimenti di liberazione mondiali. E' razzista e fanatico di natura, aggressivo,
espansionista e colonialista negli obiettivi e prevaricatore nei metodi. Israele e' lo strumento del
movimento sionista, ed e' la base geografica dell'imperialismo mondiale posto strategicamente nel mezzo
del mondo arabo per frustrarne le aspirazioni all'unità, alla liberazione, al progresso. Israele e' una fonte
costante di minacce alla pace in Medioriente ed in tutto il mondo. Poiche' la liberazione della Palestina
mira alla distruzione dei principi del sionismo e contribuirà, in questo modo, al raggiungimento della pace
in Medioriente, il popolo palestinese chiede il supporto di tutte le forze progressiste e pacifiche del mondo
e le invita, senza preclusioni di affiliazioni e credenze, ad offrire il massimo aiuto e supporto alla giusta
lotta palestinese per la liberazione nazionale.
La richiesta di sicurezza e pace, come quella di diritti e giustizia, necessita che tutti gli stati considerino il
sionismo un movimento illegittimo, lo rendano fuorilegge e ne ostacolino le azioni sicche' possano essere
preservate le relazioni amichevoli tra i popoli e salvaguardata la lealtà dei cittadini verso le loro rispettive
patrie.
Il popolo palestinese crede nei principi della giustizia, della libertà, della sovranità nazionale, dell'autodeterminazione e della dignità umana, e nel diritto di tutti i popoli ad esercitarli.
Il popolo palestinese asserisce la genuinità e l'indipendenza della sua rivoluzione nazionale e rifiuta tutte
le forme di intervento, subordinazione e protettorato.
Il popolo palestinese possiede il fondamentale diritto legale di liberare la sua terra. Il popolo palestinese
determina le sue attitudini verso gli stati e le forze sulla base della posizione che essi adottano verso la
rivoluzione palestinese che ha il compito di realizzare gli obiettivi del popolo palestinese.
I combattenti della guerra di liberazione sono il nucleo dell'esercito popolare che e' la forza di difesa del
popolo palestinese.
L'Organizzazione [per la Liberazione della Palestina] avrà una bandiera, un patto d'alleanza ed un inno.
Tutto sarà deciso in accordo ad uno speciale regolamento.
Il regolamento, che sarà conosciuto come Costituzione dell'Organizzazione per la Liberazione della
Palestina, sarà annesso a questa Carta. Esso sancirà il modo in cui l'Organizzazione, i suoi organi e le
istituzioni, dovranno essere costituiti, le rispettive competenze di ciascuno e i suoi obblighi secondo la
Carta.
Questa Carta non sarà emendata se non attraverso il voto di una maggioranza composta dai due terzi dei
membri totali del Congresso Nazionale dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina durante una
speciale sessione riunita a tale scopo.
La Torah ci impone di essere giusti
Discorso del Rabbino Mordechi Weberman per la manifestazione della Coalizione Palestinese per il Diritto di
Ritorno - 26 luglio 2002 - davanti al Consolato Israeliano
"Ci sono che ci chiedono il perché della nostra partecipazione al corteo dei palestinesi. Perché manifestiamo
con la bandiera palestinese in mano? Perché sosteniamo la causa palestinese? “Siete ebrei!” ci dicono, cosa
state facendo ?
E la nostra risposta è molto semplice.
È precisamente perché siamo ebrei che stiamo manifestando con i palestinesi, alzando in mano la bandiera
palestinese. È proprio perché siamo ebrei che stiamo chiedendo il ritorno dei palestinesi alle loro case e la
restituzione delle loro proprietà!
Sì, la nostra Torah ci obbliga ad essere giusti. Siamo obbligati a perseguire la giustizia. E cosa c'è di più
ingiusto del programma del movimento sionista, in atto da un secolo, di invadere le terre di un altro popolo, di
espellere la gente ed espropriarla dei suoi beni.
I primi sionisti hanno dichiarato di essere un popolo senza terra, diretto verso una terra senza popolo. A parole,
un'impresa innocente. Ma le parole erano totalmente e profondamente false.
La Palestina era una paese appartenente ad un popolo. Un popolo che stava sviluppando una consapevolezza
nazionale. Per noi non vi è alcun dubbio che se i profughi ebrei fossero arrivati in Palestina non con l'intenzione
di dominare, non con l'intenzione di crearvi uno Stato degli Ebrei, non con l'intenzione di espropriare, non con
l'intenzione di spogliare i palestinesi dai loro diritti fondamentali, essi sarebbero stati i benvenuti dei
palestinesi, godendo della stessa ospitalità che popoli musulmani avevano offerto agli ebrei durante il corso
della storia. E in tale caso, saremmo vissuti insieme come ebrei e musulmani sino vissuti insieme in
precedenza, in pace ed armonia.
Amici musulmani e palestinesi nel mondo, Vi prego di ascoltare il nostro messaggio.
Ci sono ebrei in questo mondo che sostengono la Vostra causa. E quando diciamo di sostenere la Vostra causa,
non ci riferiamo ad alcun piano di spartizione come quello proposto nel 1947 dall'ONU che non aveva alcun
diritto di farlo.
Quando diciamo di sostenere la Vostra causa non intendiamo i progetti di spartire la Cisgiordania e di tagliarla
in pezzi, come fu proposto da Barak a Camp David e non ci riferiamo alle proposte di offrire giustizia per meno
del 10% dei profughi.
Noi intendiamo niente meno che la restituzione della Palestina intera, Gerusalemme inclusa, alla sovranità dei
palestinesi !
A questo punto, principi di equità richiedono che saranno i palestinesi a decidere se gli ebrei e quanti di loro
rimarranno nel Paese.
Questa è l'unica strada che potrà condurre ad una vera riconciliazione.
Ma noi andiamo oltre. Noi riteniamo che non sarà sufficiente riconsegnare le terre ai loro proprietari legittimi.
Non ce la caveremo con questo.
Occorre chiedere scusa al popolo palestinese, in modo chiaro e preciso. Il sionismo Vi ha fatto un torto. Il
sionismo Vi ha rubato le Vostre case. Il sionismo Vi ha rubato la Vostra terra.
Facendo queste dichiarazioni, noi dichiariamo davanti al mondo che siamo il popolo della Torah, che la nostra
religione ci obbliga ad essere onesti e a comportarci con equità, ad essere giusti, fare del bene ed essere gentili.
Abbiamo partecipato a centinaia di manifestazioni a favore dei palestinesi durante gli anni passati ed ovunque
andiamo, gli organizzatori ed i partecipanti ci salutano con il consueto calore dell'ospitalità orientale. Che
atroce bugia dire che i palestinesi in particolare ed i musulmani in generale avrebbero in odio gli ebrei ! Voi
odiate l'ingiustizia, non gli ebrei.
Non abbiate paura, amici miei. Il male non potrà trionfare per molto tempo. L'incubo sionista si sta per finire.
Si è consumato. Le sue recenti brutalità sono il rantolo del malato terminale.
Noi e Voi vivremo ancora quando arriverà il giorno che ebrei e palestinesi si abbracceranno, per celebrare la
pace, sotto la bandiera palestinese a Gerusalemme.
Ed infine, quando il Redentore dell'umanità sarà arrivato, le sofferenze di oggi saranno dimenticate da molto
tempo, rimosse dalle benedizioni del presente".
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