SECONDO INCONTRO METODOLOGICO
Storia delle idee e interdisciplinarità
Giovani studiosi a confronto
Torino, 15/05/2012
Marco Menin
(Università di Torino)
“QUI FERA L’HISTOIRE DES LARMES?”
Emozioni e morale nel Settecento francese
a partire da Rousseau
L’obiettivo del mio intervento è duplice. Innanzitutto, mi propongo d’indagare il rapporto che sus siste tra la storia delle idee e la “teoria delle emozioni” (chiarirò nell’immediato prosieguo che
cosa si possa intendere con tale espressione) nello studio di uno specifico periodo storico, cioè il
Settecento francese, mettendo in luce quali possano essere – all’interno di una prospettiva interdisciplinare – gli elementi peculiari della storia delle idee stessa. Per provare a fare emergere tale
aspetto, nonché per evitare di rimanere impigliato in una riflessione troppo generale e generica,
mi soffermerò su un elemento specifico e preponderante del clima emotivo settecentesco, vale a
dire la centralità che in esso assunse il pianto. Nel periodo compreso tra l’inizio del diciottesimo
secolo e lo scoppio della Rivoluzione francese, efficacemente definito da William Reddy «the Flowering of Sentimentalism»1, si assiste infatti allo sviluppo e all’affermazione perentoria di un
nuovo codice estetico-morale incentrato sull’esasperazione dell’emozione e su un uso apertamente iperbolico delle lacrime: esse diventano in tale prospettiva non solo segno e codice di una sensi bilità elitaria condivisa, la cui nobiltà finisce con il soppiantare le differenze di condizione sociale,
ma anche il termometro dell’emotività stessa, poiché la loro effusione certifica l’autenticità della
passione provata.
William M. Reddy, Te Navigation of Feeling. A Framework for the History of Emotions, Cambridge University
Press, Cambridge 2001, p. 141.
1
1
In un secondo momento, proverò a mettere in luce la validità di quanto sostenuto attraverso
un’analisi puntuale del ruolo che le lacrime ricoprono all’interno dell’opera di Jean-Jacques Rous seau, pensatore che ha avuto senza dubbio un ruolo storicamente determinante nella definizione
del moderno concetto di emozione. Mi propongo in particolar modo di fare emergere come la
scarsa attenzione che la critica rousseauiana ha a lungo prestato alla questione delle lacrime, soprattutto in una prospettiva filosofica, sia imputabile – da un lato – all’assenza di una riflessione
metodologica autenticamente interdisciplinare e – dall’altro (e come inevitabile conseguenza del
primo aspetto) – a una settorializzazione e a una specializzazione esasperata dei contributi.
1. Storia dell’emozione e storia delle idee
In un articolo pioneristico intitolato La Sensibilité et l’histoire: Comment reconstituer la vie affective
d’autrefois?, pubblicato nel 1941, Lucien Febvre metteva in luce la necessità d’indagare la "storicità" della sensibilità e delle sue espressioni, le quali «non sono mai dei dati immutabili, bensì delle
manifestazioni storiche del genio umano in una determinata epoca e sotto l’influsso di determina te circostanze che non si ripresenteranno mai più» 2. In tale prospettiva l’emozione sembra poter
diventare oggetto della storia delle idee in quanto fenomeno storico, pur conservando – per lo
stesso motivo – un residuo ineliminabile di opacità. Nel caso specifico del Settecento francese,
inoltre, la ricostruzione del clima emozionale pare complicata ulteriormente dalla complessa autorappresentazione che ne venne data già all’epoca. Il tentativo di comprendere che cosa sia la
sensibilità e quali siano le sue caratteristiche peculiari si può considerare infatti come uno dei
grandi temi d’indagine di tutta la cultura settecentesca, in grado di lambire trasversalmente i più
diversi ambiti del sapere, sino a far confluire nella concezione della vita affettiva numerose stratificazioni disciplinari e “pressioni” concettuali talvolta contrastanti.
Proprio a causa di questa complessità che la caratterizza intrinsecamente, la storia delle emozioni e della sensibilità è stata a lungo negletta. Fino agli anni sessanta del secolo scorso, come ha
avuto modo di constatare Robert Mandrou richiamandosi apertamente agli studi di Lucien Febvre,
non fu infatti intrapresa alcuna riflessione sistematica sulla sensibilità 3. La situazione è radicalmente mutata negli ultimi decenni, che hanno segnato al contrario un crescente interesse per la
cultura (e il culto) della sensibilità settecentesca, mettendone altresì in luce le feconde ricadute
nei più diversi campi del sapere: dalla filosofia agli studi letterari, dalla fisiologia alla storia del costume4. Questo rinato interesse è coinciso con l’ascesa – soprattutto nel mondo anglosassone –
Lucien Febvre, La Sensibilité et l’histoire: Comment reconstituer la vie afective d’autrefois?, «Annales d’histoire
sociale», 3, 1941, pp. 5-20 (qui p. 13).
3
Cfr. Robert Mandrou, Introduction à la France moderne. Essai de psycologie historique, Albin Michel, Paris 1961, p.
383. Gli unici contributi specifci sulla sensibilità furono a lungo l’articolo di Arthur M. Wilson Jr., Sensibility in
France in the Eighteenth Century. A Study in Word History, «French Qaterly», 13, 1931, n. 1, pp. 35-46 e la
monumentale monografa di Pierre Trahard, Les maîtres de la sensibilité française au 18e siècle: 1715-1789, Boivin, Paris
1931-1933, 4 voll.
4
Rinviamo in particolar modo agli studi di Frank Baasner, Der Begrif “sensibilité” im 18. Jahrhundert. Aufstieg und
Niedergand eines Ideals, Carl Winter, Heidelberg 1988; Id., Te Changing Meaning of “Sensibilité”: 1654 till 1704,
«Studies in Eighteenth-Century Culture», 15, 1986, pp. 77-96. Per indicazioni sulla leteratura più recente cfr. Gerhard
Sauder, voce «Sensibilité», in Dictionnaire européen des Lumières, a cura di M. Delon, P.U.F., Paris 1997, pp. 985-990;
La sensibilité dans la litérature française au XVIII e siècle, a cura di F. Piva, Schena, Didier Erudition, Fasano-Paris 1998;
Jessica Riskin, Science in the Age of Sensibility: Te Sentimental Empiricists of the Frenc Enlightenment, University Of
Chicago Press, Chicago 2002; Stephen Gaukroger, Te Collapse of Mecanism and the Rise of Sensibility: Science and the
2
2
della cosiddetta “teoria delle emozioni”, la quale si propone apertamente di superare le frontiere
interdisciplinari e i pregiudizi implicati da tali frontiere (primo tra tutti l’opposizione tra emozione biologica e culturale), per integrare i risultati ottenuti dalle scienze sociali con quelli della psicologia cognitiva e delle neuroscienze: accanto agli studi di William Reddy, generalmente considerato il fondatore di tale approccio metodologico, vale la pena ricordare gli studi di Daniel Gross
(2006) e Jerome Kagan (2007) 5.
A questa rinascita degli studi sui temi dell’emozione, sia sul versante umanistico sia su quello
scientifico, che promette scoperte affascinanti anche se lungi dall’essere definitive, non è tuttavia
coinciso – come ha osservato Tom Lutz – un interesse altrettanto spiccato per il pianto: «Non esi ste forse un’attività umana altrettanto fondamentale che abbia ricevuto un’attenzione così scarsa
e superficiale. Ci sono decine di opere sull’effetto comico per ogni libro sul pianto» 6. Per quel concerne la “storia delle lacrime” sembra insomma ancora valida sotto molti aspetti l’acuta osservazione fatta da Roland Barthes nei Fragments d’un discours amoureux del 1977, da cui ho tratto il titolo del mio intervento. In una voce di questo paradossale “vocabolario” delle figure che si ripresentano nel discorso dell’innamorato, intitolata significativamente «elogio delle lacrime», Barthes
sottolinea con forza la necessità di far rientrare a pieno titolo le lacrime nel dominio di un com plessivo discorso antropologico, non considerandole più semplicisticamente come un dato fisiologico immutabile, ma come un fenomeno storico e culturale:
Chi scriverà la storia delle lacrime? In quali società, in quali epoche si è pianto? Da
quando gli uomini (e non le donne) hanno smesso di piangere? Perché a un certo momento la “sensibilità” è tornata ad essere “sensibileria”?7.
Questi interrogativi fanno emergere con particolare lucidità, dal punto di vista della metodologia, la necessità di portare avanti l’analisi delle lacrime in una duplice prospettiva: da un lato si
tratterà d’inscrivere il problema in una cornice ideologica, e dunque storicamente e culturalmente determinata; dall’altro di cogliere l’ineliminabile elemento assiologico e morale che caratterizza il pianto, espressione per eccellenza della vita emotiva.
La prima lacuna, cioè l’assenza di una storia delle lacrime, è stata almeno in parte colmata dalla
pubblicazione di due celebri monografie: l’Histoire des larmes. XVIIIe-XIXe siècles di Anne Vincent-Buffault del 19868 e la già menzionata Crying. The Cultural and Natural History of Tears di Tom
Lutz, edita nel 19999. Il primo studio, condotto in un’ottica eminentemente storiografica, è incentrato sul tentativo di mostrare come la relazione tra l’aspetto privato e quello pubblico del pianto
muti nel corso dei due secoli presi in esame in concomitanza con una diversa concezione delle
“frontiere corporali” e della loro permeabilità. Una particolare attenzione è inoltre concessa al
periodo della Rivoluzione francese, momento che rappresenta il vero punto di snodo, a livello di
Shaping of Modernity, 1680-1760, Oxford University Press, Oxford 2011.
5
Daniel M. Gross, Te Secret History of Emotion: From Aristotle’s Rhetoric to Modern Brain Science, University of
Chicago Press, Chicago 2006; Jerome Kagan, What is Emotion?: History, Measures, and Meanings, Yale University Press,
Yale 2007. Cfr. inoltre Reading the Early Modern Passions. Essays in the Cultural History of Emotion, a cura di G. Kern
Paster, K. Rowe e M. Floyd-Wilson, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004.
6
Tom Lutz, Crying. Te Cultural and Natural History of Tears, W.W. Norton, New York 1999, p. 26; trad. it. Storia
delle lacrime: aspeti naturali e culturali del pianto, Feltrinelli, Milano 2002, p. 17.
7
Roland Barthes, Fragments d’un discours amoureux, Seuil, Paris 1977, poi in Œuvres complètes, Seuil, Paris 19931995, 3 voll., vol. III, p. 627 (trad. it. Einaudi, Torino 1979, p. 159).
8
Anne Vincent-Buffault, Histoire des larmes. XVIIIe-XIXe siècles, Rivages, Paris 1986.
9
Cfr. supra, nota 6.
3
rappresentazione sociale, tra l’esibizione delle lacrime che caratterizza il secondo Settecento e la
loro “irreggimentazione” tipica del diciannovesimo secolo. La monografia della Vincent-Buffault,
che rimane sicuramente un punto di partenza imprescindibile per qualsiasi studio che voglia occuparsi della rappresentazione delle emozioni tra Sette e Ottocento, sembra tuttavia presentare
un limite piuttosto evidente nella prospettiva della storia delle idee: pur avendo il merito di prendere in considerazione un gran numero di opere appartenenti a differenti registri testuali (dai ro manzi alle corrispondenze, dalle opere teatrali a quelle teoriche), la studiosa finisce con il disinteressarsi (e si tratta di una scelta lecita nella prospettiva della storia dei costumi) della specificità
letteraria dei documenti analizzati, per concentrarsi su una ricostruzione generale.
Lo stesso metodo “estensivo”, ma condotto agli estremi, caratterizza anche il lavoro di Tom
Lutz, il quale rappresenta un grandioso affresco degli aspetti naturali e culturali del pianto che
hanno caratterizzato la storia umana, dalle prime testimonianze (i “testi di Ras Shamra” del XIV
secolo a. C.) sino alla moderna dacriologia. Tale lavoro, che intreccia sapientemente spunti di riflessione riconducibili ai campi del sapere più diversi – dalla psicologia all’antropologia, dalla fisiologia alla letteratura e alla filosofia – non può tuttavia per la sua stessa vocazione ricostruire
compiutamente né un determinato contesto culturale, né un determinato periodo storico. Il Settecento francese rimane in particolar modo piuttosto in ombra, mentre una maggiore attenzione
è concessa al mondo anglosassone.
Un approccio “intensivo”, incentrato al contrario proprio su un’indagine del pathos nel diciottesimo secolo, è stato messo in pratica da Anne Coudreuse nel suo saggio Le goût des larmes au
XVIIIe siècle10, pubblicato nello stesso anno dell’opera di Lutz. Se lo studioso americano aveva scelto
d’inserire il discorso delle lacrime in una prospettiva volutamente interdisciplinare, l’opera della
Coudreuse si propone d’analizzare la retorica del pathos «da un punto di vista strettamente letterario»11, partendo da una rigorosa analisi linguistica e stilistica di testi compresi tra il 1707 (prima
rappresentazione alla Comedie Française dell’Atrée et Thyeste di Crébillon padre, emblema
dell’apoteosi dell’“eroe piangente” nel teatro settecentesco) e il 1792 (prima rappresentazione al
Teatro del Marais della Mère coupable di Beaumarchais). Pur ricostruendo la peculiare estetica
dell’epoca che, basandosi su un mélange di generi e di forme poté attribuire un nuovo statuto letterario al corpo, questo saggio adotta un punto di vista estremamente selettivo, che finisce con il
trascurare la letteratura filosofico-teorica e ignorare completamente quella scientifica.
Proprio l’assenza di studi che mettano in luce il legame reciproco tra la concezione fisiologica e
quella morale delle lacrime nel Settecento sembra la lacuna più evidente nell’esigua (se paragonata alla pervasività della questione del pianto) letteratura critica dedicata all’argomento, che pare
rendere ancor oggi attuale l’appello lanciato da Barthes più di trent’anni fa sulla necessità di comprendere il valore assiologico delle lacrime. Ciò non significa, naturalmente, che la questione non
sia mai stata affronta nella prospettiva della storia delle idee, ma essa è stata trattata tuttavia per
lo più marginalmente, tra le righe d’interpretazioni collettive dedicate ad altre problematiche.
Chiari riferimenti al valore etico delle lacrime sono infatti rintracciabili in tutti i più importanti
studi dedicati al pensiero francese settecentesco: da quello di Daniel Mornet sul “romanticismo”
del diciottesimo secolo a quello di Paul Trahard sulla sensibilità, da quello di Jean Ehrard sulla nozione di natura a quello di Robert Mauzi sull’idea di felicità 12. Nonostante la varietà di spunti di ri10
Anne Coudreuse, Le goût des larmes au XVIIIe siècle, P.U.F., Paris 1999.
Ivi, p. 3.
12
Cfr. Daniel Mornet, Le romantisme au XVIIIe siècle, Paris 1912; rist. anastatica Slatkine, Genève 2000; Paul Trahard,
Les maîtres de la sensibilité française au 18 e siècle: 1715-1789, cit.; Jean Ehrard, L’idée de nature en France dans la première moitié
11
4
flessione che tali interpretazioni offrono, è innegabile la mancanza di uno studio sistematico incentrato sul valore etico del pianto.
Un’analisi più approfondita della “morali delle lacrime” settecentesche – nella prospettiva della storia delle idee – presenta a mio modo di vedere almeno tre risvolti di notevole interesse in
grado di apportare qualche elemento di originalità nell’attuale panorama degli studi della “teoria
dell’emozione”. Innanzitutto una simile indagine consente di affrontare da un punto di vista differente e inusuale uno dei problemi centrali dell’etica settecentesca, cioè la questione del fondamento della morale13. Una costruzione etica incentrata sulle lacrime implica infatti non soltanto
un confronto con una generica “morale del sentimento”, basata sul primato della componente
istintuale, ma anche un ripensamento della teoria delle passioni e del loro uso sociale. Sottraendosi a una banale e stereotipata opposizione tra ragione e passione, le lacrime possono infatti forgiare il soggetto, sino a diventare un vero e proprio strumento di dominio interpersonale o addirittura politico. Alla lacrima “virtuosa” e spontanea fa infatti da contrappunto la lacrima “insincera” o l’uso tattico (e dunque perfettamente razionale) del pianto, che condusse sul finire del diciottesimo secolo a delle vere e proprie costruzioni di consapevole immoralisme (basti pensare a
Sade o a Choderlos de Laclos).
Da questo lavoro di storicizzazione e contestualizzazione della dimensione assiologia del pianto sembra possibile trarre preziose indicazioni per una chiarificazione del linguaggio filosofico
dell’epoca, soprattutto per quel che concerne uno dei suoi aspetti fondamentali: la descrizione
della sensibilità. Questa nozione che – coerentemente con l’enciclopedismo e con l’ésprit systématique settecentesco – si formò gradualmente a partire dall’interrelazione tra pensiero filosofico, letterario e scientifico, trovò nelle lacrime una sua espressione privilegiata: esse, infatti, paiono rendere conto con particolare efficacia dei rapporti tra corpo e anima, sensazione e sentimento.
Infine, l’analisi della morale della lacrime consente di far luce su un ulteriore aspetto non an cora adeguatamente approfondito nell’ambito della storia delle idee: la circolarità tra il pensiero
medico e quello filosofico14. La nuova dottrina della sensibilità, che racchiude nel nesso tra i fenomeni psichici quelli fisici la complessità e il mistero dell’essere umano, conduce inevitabilmente a
un assottigliamento del confine tra il “medico” e il “filosofo”, sino a condurre a una parziale sovrapposizione (anche nei casi più inaspettati, come ad esempio in Rousseau) tra queste due figure. Alla luce di questa “medicalizzazione” del pensiero sembra inoltre possibile comprendere più a
fondo l’interesse per tutte le forme “patologiche” di sensibilità 15 – dall’eccesso di lacrime alla loro
assenza – così in voga nella letteratura dell’epoca.
2. Lacrime e normatività dell’emozione in Rousseau
du XVIIIe siècle, S.E.V.P.E.N., Paris 1963; rist. Albin Michel, Paris 1994; Robert Mauzi, L’idée du bonheur dans la littérature et
la pensée françaises au XVIIIe siècle, Colin, Paris 1960.
13
Cfr. Morale et vertu au siècle des Lumières, a cura di H. Plard, Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles
1986; Jacques Domenech, L’éthique des Lumières. Les fondements de la morale dans la philosophie française du XVIII ème
siècle, Vrin, Paris 1989; Id., voce «Vertu», in Dictionnaire européen des Lumières, cit., pp. 1085-1088.
14
Sulla circolarità tra pensiero filosofico e medico cfr. Peter Gay, The Enlightenment as Medicine and as Cure, in The
Age of Enlightenment: Studies presented to Theodore Besterman, a cura di W. H. Barber, St. Andrews University Publications,
Edinburgh 1967, pp. 375-386; poi in The Enlightenment: an Interpretation, Knopf, New York 1967-1969, 2 voll., vol. II, The
Science of Freedom, pp. 12-23; Paul Astruc, Les sciences médicales et leurs représentations dans l’“Encyclopédie”, «Revue
d’histoire des sciences», 4, 1951, pp. 359-368.
15
Cfr. Anne C. Vila, Enlightenment and Pathology, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1998.
5
Nonostante il panorama della letteratura critica rousseauiana sia sterminato e lo slancio della
ricerca stia accelerando ulteriormente, sino alla vertigine, in occasione del tricentenario della nascita, lo studio dell’emotività (e delle lacrime in particolare) nell’opera del Ginevrino sembra un
terreno d’analisi ancora sorprendentemente inesplorato, almeno in una prospettiva interdisciplinare. Questa lacuna è imputabile principalmente a due motivi: in primo luogo all’esasperata specializzazione dei contributi che è derivata dalla sovrabbondanza di letteratura critica appena ricordata e, in secondo luogo e per quel che concerne più da vicino la storia delle idee, da quello che
è stato definito efficacemente da Robert Solomon il “pregiudizio anti-sentimentalistico”, che
spinge a guardare con diffidenza, o al limite con una sorta di benevola condiscendenza, ogni co struzione filosofica che pretenda di fondare l’azione morale sulla spontaneità e sull’autenticità
dell’emozione16. Nel panorama di studi italiano degli ultimi decenni, dominato per lo più da una
sorta di démontage settoriale dell’opera rousseauiana, tale pregiudizio si è esplicato con particolare forza nell’identificazione, tanto netta quanto ingiustificata, tra il Rousseau filosofo e il Rousseau pensatore politico.
Un’analisi più approfondita della problematica dell’emozione consente al contrario di mettere
in luce non solo la profonda unità dell’opera del Ginevrino, inesaustamente ribadita dallo stesso
autore, ma anche la necessità di utilizzare una prospettiva interdisciplinare. L’emotività umana si
caratterizza infatti, agli occhi di Rousseau, per un’intrinseca duplicità, la cui origine deve essere
ricercata, più ancora che nelle misteriose e spesso conflittuali relazioni tra l’anima e il corpo, a
lungo illustrate nella Profession de foi, nell’abissale scarto che sussiste tra l’homme de la nature e
l’homme de l’homme. L’emozione si afferma solo con l’uscita dalla condizione originaria, che sancisce al contempo l’accesso dell’individuo all’umanità intesa nel senso più alto (morale e sociale) del
termine. Essa, pur essendo certamente un fatto d’interiorità, un’«agitation interne» (OC I, 109417)
che pervade tutto l’essere, non è mai una questione puramente autoreferenziale, in quanto presuppone da parte del soggetto quel riconoscimento dell’alterità (sia nei confronti dell’ambiente
circostante, sia degli altri individui) che è premessa indispensabile per la conquista della coscienza di sé, preclusa all’uomo originario. La possibilità di provare un’emozione implica insomma uno
sviluppo ormai avanzato della dialettica tra bisogni e desideri che, attraverso l’eccedenza dei primi sui secondi resa possibile dalla memoria e dall’immaginazione, fa emergere nello stesso momento la dimensione passionale e quella razionale, destinate poi a potenziarsi vicendevolmente.
Questo legame inscindibile tra bisogni fisiologici, passionali e sociali – illustrato con penetrazione nella seconda parte del Discours sur l’inégalité – consente di comprendere la viva attenzione
che Rousseau dedica al pianto, che è per lui la manifestazione privilegiata e preponderante
dell’emotività sin a partire dalla rappresentazione autobiografica: «Pochi uomini hanno pianto
più di me, pochi hanno versato più lacrime nella loro vita» (OC I, 103). Egli attribuisce infatti alle
lacrime una sorta di “esemplarità” non solo a livello simbolico, ma anche a livello antropologico:
se risulta facilmente comprensibile il particolare fascino, estetico e letterario, che le lacrime (oggetti trasparenti che si manifestano scomparendo e scorrendo) dovettero esercitare su di una coscienza che non smise mai di ricercare un’adesione al reale intuitiva e totale, rifiutando la scissione tra essere e apparire, ben più complessa, ma al tempo stesso proficua, appare una loro analisi
alla luce della questione dell’influenza delle emozioni sulla condotta umana. In tale prospettiva,
16
Cfr. Robert C. Salomon, In Defense of Sentimentality, «Philosophy and Literature», 14, 1990, pp. 304-323; Id., In
Defense of Sentimentality: Te Passionate Life, Oxford University Press, Oxford 2004.
17
Tute le citazioni sono trate da Jean-Jacques Rousseau, Œuvres complètes, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond,
Gallimard, Paris 1959-1995, 5 voll. [nel prosieguo OC seguito dal numero romano del volume].
6
infatti, le lacrime si rivelano uno strumento privilegiato per comprendere più a fondo – da un lato
– quel nesso tra sensibilità e moralità che spinse Rousseau a inserire le emozioni nel cuore della
sua riflessione etica e – dall’altro lato – per mostrare l’originalità della sua posizione rispetto alla
voga coeva del sentimentalismo e del “moralisme larmoyant”.
L’essenza spuria delle lacrime rispecchia la complessa genesi dell’emozione, sospesa inevitabilmente tra l’immediatezza naturale e l’artificio culturale, tra il processo fisiologico e la norma morale. Questa ambivalenza emerge con nettezza se si prova a ripercorrere la “storia” del pianto nel
passaggio dallo stato di natura alla società civile. L’uomo di natura, che non prova alcuna emozione che travalichi la necessità dell’autoconservazione fisica, non piange o, per meglio dire, le sue
non sono vere e proprie lacrime. Rousseau sembra accettare e utilizzare infatti implicitamente in
tutta la sua opera la distinzione tra lacrime somatiche e lacrime emotive, pur non differenziando
sempre con nettezza a livello semantico tra “pleurs” e “larmes”18. Le prime sono un semplice prodotto fisiologico, imputabile alla reazione meccanica del corpo a uno stimolo esterno; si tratta
delle lacrime del “buon selvaggio” che, a causa della sua incapacità di prevedere il futuro, si ritro va privo di un giaciglio dove dormire (OC III, 144) o di quelle del neonato (il quale vive a sua volta
in una condizione pre-morale) che esprime per loro tramite i propri bisogni vitali. (Cfr. OC IV, 261).
Le seconde sono le lacrime propriamente dette; esse, pur dipendendo inevitabilmente anche
dall’organizzazione fisiologica, sono preminentemente espressione della dimensione spirituale,
che si dispiega per loro tramite nell’esteriorità. Intese in questo senso, esse sono da considerarsi
come una specifica qualità umana, che segna un importante discrimine tra la fase pre-morale e
l’accesso dell’individuo alla sua piena umanità: «Da quelle lacrime, che credevamo così poco degne d’attenzione, nascono i primi rapporti dell’uomo con tutto ciò che lo circonda» ( OC IV, 286).
Una simile distinzione tra lacrime “fisiche” e “morali” (o somatiche ed emotive che dir si voglia) sembra così riconducibile, in ultima istanza, alla natura ambivalente della sensibilità, illustrata con chiarezza nel secondo Dialogue. Accanto a «una sensibilità fisica e organica che, puramente passiva, pare non avere altro fine che la conservazione del corpo […] attraverso il piacere e
il dolore», viene infatti qui individuata un’altra sensibilità «attiva e morale che è la facoltà di lega re le nostre affezioni a degli esseri che ci sono estranei» (OC I, 805). Questi due aspetti della medesima facoltà sono identificati rispettivamente con la sensazione, che accomuna l’uomo agli altri
animali, e con il sentimento, che si afferma solo con lo sviluppo della dimensione politica e mora le. Si tratta di una distinzione di generi, ma non di essenze, che complica notevolmente l’analisi
delle lacrime, e dell’emozione tout court, rispetto al paradigma cartesiano, ancora estremamente
influente nella seconda metà del Settecento.
Per Descartes, infatti, le emozioni sono semplici affezioni, cioè modificazioni passive causate
nell’anima dal movimento di quelle forze meccaniche che sono gli spiriti vitali. La loro funzione
naturale, resa possibile dalla mediazione della ghiandola pineale, è quella d’incitare l’anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni che servono a conservare il corpo. Per questo la tristezza e la
gioia, che avvertono rispettivamente delle cose nocive e utili all’autoconservazione, sono le emozioni fondamentali; esse, componendosi con le altre quattro emozioni semplici e primitive (la meQesta distinzione era stata approfondita e a lungo descrita, nella seconda metà del ’600, dal medico Marin
Cureau de la Chambre, che ne fece la base della sua (estremamente complessa) tassomia del pianto: «Tute le lacrime
sono pianti (toutes les Larmes sont des Pleurs), ma non tuti i pianti sono lacrime». Marin Cureau de la Chambre, Les
Caractères des Passions. Dernier Volume. Où il est traité de la Nature, des Causes & des Efets des Larmes, de la Crainte,
du Désespoir, Antoine Michel, Amsterdam 1663, p. 14. Sulla concezione seicentesca delle lacrime cfr. Sheila Page
Bayne, Tears and Weeping: an Aspect of Emotional Climate Refected in Seventeenth-Century Frenc Literature, Gunter
Narr Verlag, Tübingen 1981, in particolare pp. 85-90.
18
7
raviglia, l’amore, l’odio e il desiderio) originano qualsiasi espressione della sfera emotiva. In un si mile sistema di “psicologia fisiologica” la trattazione delle lacrime non può che risultare marginale e, in ogni caso, esclusivamente somatica. In un breve articolo delle Passions de l’âme, intitolato
De l’origine des larmes, esse vengono spiegate all’interno della mera res extensa: «Come il sudore non
è formato se non dai vapori che, uscendo dalle altre parti del corpo, si convertono in acqua alla
superficie, così le lacrime si formano dai vapori che escono dagli occhi» 19.
Una simile concezione del pianto viene completamente ribaltata da Rousseau. Il piangere, da
semplice epifenomeno del meccanismo fisiologico, da manifestazione bruta dell’emozione, diventa per lui espressione della complessità della vita interiore e segno dell’azione delle emozioni sul
corpo e sull’anima. Questo meccanismo viene illustrato, sempre nei Dialogues, in una pagina nella
quale Rousseau mette in luce la perfetta assonanza che regna tra le emozioni di Jean-Jacques e la
loro manifestazione fisiologica: «Gli affetti ai quali egli è più incline si distinguono persino per
certi indizi fisici. Per poco che sia commosso, i suoi occhi s’inumidiscono all’istante. Tuttavia mai
il solo dolore gli fece versare una lacrima, mentre ogni sentimento tenero e dolce o grande e nobi le, la cui verità giunga al suo cuore, gliene fa scorrere molte. Non potrebbe piangere se non per tenerezza o ammirazione» (OC I, 825).
Si tratta di un passo estremamente importante, poiché esplicita le due caratteristiche essenziali del pianto “morale”. Le lacrime che scaturiscono dal sentimento sono innanzitutto immediate e
involontarie, come ha modo di constatare anche Julie: «Delle lacrime involontarie sgorgano dai
miei occhi» (OC II, 88)20. Esse non seguono l’emozione o ne sono semplicemente uno strumento,
come vorrebbe Cartesio, ma ne rappresentano l’essenza stessa. Per questo motivo il pianto non è
mai originato dal semplice dolore fisico, la cui portata è al contrario sempre minimizzata sia sul
piano teorico sia su quello autobiografico, quanto piuttosto da una vibrazione della sensibilità
morale: «L’ho visto appassionarsi anche, e spesso fino alle lacrime, per le cose buone e belle che lo
colpivano, per le meraviglie della natura, le opere degli uomini, le virtù, il talento, le belle arti e,
in generale, tutto ciò che ha in sè un carattere di forza, di grazia o di verità degno di commuovere
un animo sensibile» (OC I, 803). La stessa “illuminazione di Vincennes”, che segna l’inizio della sua
speculazione filosofica attraverso la visione di «un altro mondo morale» (OC I, 1041), si caratterizza come un esempio paradigmatico di tale meccanismo:
All’improvviso la mia mente è abbagliata da mille luci; una folla di idee feconde si
presentarono tutte insieme con una forza e una confusione tali da provocare in me un
turbamento inesprimibile; sono preso dalle vertigini dell’ebbrezza. Una violenta palpitazione mi opprime, solleva il mio petto; non potendo più respirare camminando, mi
lascio cadere sotto un albero del viale, e qui trascorro una mezz’ora in un’agitazione
tale che, rialzandomi, vidi la giacca bagnata di lacrime versate senza accorgermene
(cfr. OC I, 1135)21.
La seconda caratteristica delle lacrime, e si tratta nuovamente di un ribaltamento della posizio ne dell’autore delle Passions de l’âme, è il loro “altruismo”, cioè la loro completa estraneità a qual19
754.
René Descartes, Les passions de l’âme, art. 128, in Œuvres et letres, a cura di A. Bridoux, Gallimard, Paris 1952, p.
La stessa esperienza è descrita da Claire: «Ho cominciato a piangere senza sapere il perché» (OC II, 620).
L’esperienza dell’illuminazione di Vincennes è raccontata in diversi luoghi e ogni volta si ripresenta l’analogia
tra il profondo sconvolgimento morale e quello fsico, descrito in termini di “agitazione” e “delirio” (OC I, 351, 828829 e 1041).
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siasi istanza egoistica. Se per Descartes l’emozione concerne l’anima solo per il suo rapporto con il
corpo, in Rousseau essa è affrancata grazie al sentimento, per quanto mai scissa, dalla dimensione
della necessità fisica (la “sensation”) che caratterizza inevitabilmente la sensibilità umana. Non è
infatti il dolore, o un qualsivoglia stimolo corporeo, che ci induce a piangere, ma sono la tenerezza
e la generosità; non è la propria sofferenza a far inumidire gli occhi, ma la consapevolezza (o lo
spettacolo) della sofferenza altrui. Il pianto, insomma, è frutto non dell’amour de soi, ma della pitié
che, almeno nel secondo Discours, viene presentata come un principio istintuale, anteriore alla ragione (cfr. OC III, 126). Questo vago movimento, ancora legato alla sensibilità passiva, deve tuttavia
essere innalzato a un livello pienamente morale, venendo cioè liberamente rielaborato in termini
sentimentali, sino a diventare uno slancio cosciente verso l’alterità. Tale “metamorfosi” della pietà nel «primo sentimento relativo che tocca il cuore dell’uomo secondo l’ordine naturale» è descritta nell’Émile: «Per diventare sensibile e pietoso, il bambino deve sapere che esistono esseri simili a lui, che sopportano ciò che egli stesso ha sopportato, che provano dolori che egli stesso ha
provato». Anche in questo caso sono le lacrime a segnare il pieno accesso alla moralità: prima di
aver compreso la pietà, infatti, il fanciullo sarà completamente estraneo all’«arte di simulare la
tristezza», né avrà «fatto finta di piangere» (OC IV, 505).
L’introduzione della questione della “finta lacrima”, cioè dell’emozione simulata, consente di
mettere in luce un’ulteriore specificazione della concezione rousseauiana del pianto, che si rivela
fondamentale per marcare la sua distanza da qualsiasi forma di sentimentalismo ingenuo. Si è visto come la complessità delle lacrime sia riconducibile, a un primo livello, alla loro ambivalenza,
imputabile ai due differenti generi di sensibilità: quella passiva e fisica (sensazione) e quella attiva
e morale (sentimento), che coesistono inevitabilmente nell’essere umano. Il riconoscimento della
categoria del sentimento come principio autonomo delle emozioni consente a Rousseau di attribuire loro un ruolo determinante nella condotta morale dell’uomo, rovesciando la prospettiva
cartesiana – e, più in generale, stoica – secondo cui la forza dell’anima consisterebbe proprio nel
vincere le emozioni e arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano. Una simile mossa
teorica s’inserisce tuttavia in una linea di pensiero consolidata, che va da Pascal ai moralisti francesi (La Rochefoucauld, Vauvenargues) e inglesi (Shafthesbury), e non pare di per sé sufficiente a
render conto dell’originalità della posizione del Ginevrino.
La complessità delle lacrime non si esaurisce tuttavia nell’ambivalenza tra il pianto somatico e
quello emotivo – destinata a diventare un Leitmotiv di tutta la letteratura sentimentale del secondo Settecento francese –, ma implica, a un secondo livello, un’ambiguità del pianto emotivo stesso,
che riguarda una tensione, tipicamente rousseauiana, completamente interna alla sensibilità morale. Sempre nei Dialogues è infatti delineata la distinzione tra una «sensibilità positiva» che «deriva immediatamente dall’amor di sé» ed «è un puro affare di sentimento in cui la riflessione non
c’entra per nulla» e una «sensibilità negativa», diretta espressione di quella degenerazione
dell’amour de soi che è l’amour propre: «Ma non appena questo amore assoluto degenera in amor
proprio, e in rivalità comparativa, ecco che produce la sensibilità negativa; appena, infatti, si
prende l’abitudine di misurarsi con gli altri e di uscire da se stessi per assegnarsi il primo e il mi glior posto, è impossibile non provare avversione per tutto ciò che ci supera, che ci diminuisce,
che ci comprime, che, essendo qualcosa, ci impedisce di essere tutto» (OC I, 805)22. Da qui la dicotomia tra le lacrime virtuose, che conducono al riconoscimento di sé attraverso la riconoscenza verAnche nell’Émile vengono condannate «tute le passioni ripugnanti e crudeli che non soltanto annullano, per
così dire, la sensibilità, ma la rendono addiritura negativa, causando il tormento di chi le prova» (OC IV, 506).
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so il prossimo e attraverso la consapevolezza di una comune umanità, e le lacrime immorali, che
esprimono al contrario l’affermazione di uno slancio egoistico. Se le prime sono lacrime “trasparenti”, che sgorgano spontaneamente e immediatamente dal cuore, le seconde sono prive di un
vero referente nell’interiorità, e finiscono con il configurarsi come un’emozione falsata dalla dénaturation o, peggio, come un’emozione puramente esteriore e mimata.
Per questo motivo Rousseau non esita a condannare con durezza qualsiasi uso “strategico”
delle lacrime23, che le trasforma più o meno apertamente in uno strumento per affermare il proprio potere sugli altri. Alla luce di questa distinzione sembra inoltre possibile comprendere la veemenza con cui egli attacca il teatro, sul cui palco si riproducono i segni esteriori delle emozioni
senza che i commedianti provino in realtà alcun sentimento corrispondente. Costoro originano
«un’emozione passeggera e vana, che non dura più dell’illusione che l’ha prodotta; un resto di
sentimento naturale soffocato subito dalle passioni; una pietà sterile che si accontenta di qualche
lacrima ma non ha mai prodotto il minimo atto di umanità» (OC V, 23).
Questa constatazione che il pianto, da apice della presenza a sé e agli altri, possa trasformarsi
in un mero artificio culturale, in un codice convenzionale da utilizzare a proprio piacimento, è la
conferma decisiva di come l’accesso dell’individuo all’emozione non sia di per sé sufficiente a garantirne la bontà e la legittimità. Proprio una simile consapevolezza giustifica, da un lato, la cen tralità che Rousseau attribuisce all’emozione nella definizione dell’umanità, a tal punto da non
esitare a connotare l’esistenza stessa in chiave “sentimentale” 24 e, dall’altro, marca con nettezza la
sua distanza da un acritico “culto” dell’emozione o dal cieco abbandono all’«onanisme sentimental»25, che divenne al contrario la cifra caratteristica di tutte quelle forme espressive (dalla comédie larmoyante al romanzo femminile) che rappresentarono una volgarizzazione della filosofia dei
sentimenti morali26. Proprio in quanto scaturita dalla perfettibilità umana, l’emozione potrà infatti essere, come tutte le espressioni della vita civile, buona o cattiva. Essa non sarà, al contrario
dell’innocenza dell’uomo di natura, data una volta per tutte, ma dovrà essere “conquistata” attraverso un vero e proprio apprendistato della sensibilità.
La società moderna, come ha modo di constatare Saint-Preux quando si reca per la prima volta
a Parigi, simbolo per eccellenza della dénaturation sociale, non riconosce tuttavia i diritti della sensibilità, che viene al contrario completamente soffocata dall’universale trionfo del “paraître”:
«Poiché tutto non è che vana apparenza, e tutto cambia a ogni istante, non ho tempo di essere
emozionato da nulla» (OC II, 245).
L’insistenza di Rousseau sulla divergenza tra lacrime virtuose e lacrime immorali, nonché la
sua volontà di ricondurre le seconde esclusivamente alla dégénération (storica e accidentale, e non
essenziale alla natura umana), pare giustificata alla luce della determinante funzione direttiva che
egli attribuisce alle emozioni nella condotta umana. Si può infatti sostenere che è proprio l’ambi guità delle vere lacrime, che conservano l’innocenza naturale innalzandola alla moralità civile, a
salvare l’emotività dal discredito in cui la questione della simulazione parrebbe gettarla di primo
acchito; la stessa obiezione, al contrario, non può trovare contraddittorio sulla base della semplice
constatazione di una sua ambivalenza costitutiva. La critica più ricorrente mossa a qualsiasi teoria
23
Cfr. Jean-Jacques Roubine, La stratégie des larmes au XVIIe siècle, «Littérature», 9, 1973, pp. 56-73.
«Per noi esistere equivale a sentire; la nostra sensibilità è incontestabilmente anteriore alla nostra intelligenza, e
abbiamo avuto sentimenti prima di avere idee» (OC IV, 600).
25
André Monglond, Le préromantisme français, Corti, Paris 1965, 2 voll., vol. II, p. 318.
26
Cfr. William M. Reddy, Te Navigation of Feeling. A Framework for the History of Emotions, cit., pp. 161-172; Anne
Coudreuse, Le goût des larmes au XVIIIe siècle, cit., pp. 55-125.
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filosofica che pretenda d’individuare nelle emozioni il fondamento di una posizione morale consiste proprio nell’insinuare il sospetto sul carattere circostanziale e convenzionale dell’emozione
stessa. Essa, in ultima istanza, resterebbe legata sempre a una singola occorrenza che non permetterebbe la costruzione di un modello morale generalizzabile. In una simile prospettiva l’emozione
può ambire tutt’al più a una funzione morale subordinata e provvisoria in qualità di surrogato,
sensibile e biologico, della ragione. Tale obiezione viene a cadere, o per lo meno perde gran parte
della propria pregnanza, all’interno della concezione della sensibilità di Rousseau che, intrecciando inscindibilmente sensazione e sentimento, organizzazione fisiologica e ordine morale, gli consente di sostenere senza contraddizione la singola occorrenza dell’emozione (legata inevitabilmente alla sua ambivalenza) e la sua validità universale (che discende invece dall’ambiguità della
sensibilità attiva e morale, intesa nella sua declinazione positiva).
L’emozione diventa così l’essenza di qualsiasi relazione autenticamente morale tra gli indivi dui, in quanto consente di manifestare all’esterno la propria interiorità: «Niente lega maggiormente i cuori che la dolcezza di piangere insieme» (OC I, 529). In tale prospettiva, le lacrime si possono considerare come la forma più efficace di comunicazione, la cui sincerità si oppone alla fragilità delle parole, a volte ambigue e spesso menzognere. Diversamente dalla false emozioni, che
possono tutt’al più condurre a uno sporadico plaisir, le vere lacrime, di cui non si può in alcun
modo disporre, ma che si possono soltanto offrire o ricevere, consentono all’individuo di accedere
a un bonheur pieno e permanente, a una forma di elevazione morale che, come aveva acutamente
osservato La Fontaine, innalza l’individuo al di sopra della sua condizione umana per avvicinarlo a
quella divina: «I mortali sono mortali quando piangono dei loro mali; ma quando piangono dei do lori altrui sono simili a degli dei»27.
27
Jean de La Fontaine, Les amours de Psyché et de Cupidon, in Œuvres complètes, a cura di J. Marmier, Seuil, Paris 1965,
p. 425.
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