LA LUNGA MARCIA DEGLI UIGURI DI REBIYA KADEER
Martedì 21 Luglio 2009 14:30
di Giuseppe Zaccagni
Quella leggendaria di Mao Tze Tung cominciò nell’ottobre del 1934. Per 10mila chilometri le
forze rivoluzionarie cinesi si spostarono dal Kiangsi alla regione dello Shaanxi settentrionale.
Qui, una volta arrivati, i comunisti si stabilirono nella città di Yen-an, dove Mao fissò il suo
quartier generale dando vita ad una nuova repubblica comunista. Ora a muoversi, invece,
saranno gli uiguri (un’agguerrita minoranza di musulmani sui circa 20 milioni esistenti in tutta la
Cina) che rifiutano il potere di Pechino. E questo vuol dire che, dopo i tibetani, si apre un nuovo
banco di prova per Hu Jintao. Siamo nella regione autonoma dello Xinijang, dove
un’avanguardia di circa 200 uiguri (l'etnia musulmana maggioritaria nella regione) forte dei suoi
legami con l’estero, protesta nel quartiere musulmano d’Urumqi contro la polizia cinese, posta
in difesa di un quartiere dove risiede la popolazione d’etnia Han (maggioritaria). I manifestanti
hanno armi improvvisate, come pugnali legati a bastoni, tubi e pietre con cui si trovano a
fronteggiare cordoni di polizia e militari. Si registrano scontri quotidiani e in questa lotta emerge
sempre più un leader degli uiguri. E’ una donna e si chiama Rebiya Kadeer ed è la presidente
del Consiglio mondiale degli uiguri (Cmo). E’ candidata al Premio Nobel per la pace; vive in
esilio negli Stati Uniti e recentemente in Italia è uscito il suo libro “La guerriera gentile”. Ed è lei
che, chiedendo che gli Usa si pronuncino sui fatti di sangue avvenuti nello Xinijang, fornisce alla
stampa dati impressionanti sulla repressione attuata dal governo di Pechino. Si parla di 400
vittime. E in un appello al mondo Rebiya Kadeer annuncia: “Il popolo uiguro e quello tibetano
sono uniti dallo stesso dolore". Ma è il fattore economico che esplode in primo piano.
Ci sono, nelle posizioni delle popolazioni che fanno capo ad Urumqi, precise ragioni
d’attrazione economica esterna, verso le repubbliche centroasiatiche ex sovietiche. Le
rivendicazioni assumono sempre più una dimensione secessionista e si sommano ad affinità
etniche delle popolazioni originarie della regione, uiguri, kazaki e tagiki. Molti di loro durante la
rivoluzione culturale passarono semplicemente dall’altra parte del confine, dove la loro origine
veniva rispettata e non era, come in Cina, motivo di gravi discriminazioni e persecuzioni. Ora è
chiaro che dinanzi ai nuovi fatti di repressione e di sconvolgimenti etnici, la Cina si trova in una
situazione d’estremo rischio proprio nella provincia dello Xinijang (quella che fu definita
“Regione autonoma” alla fine della lunga marcia di Mao) che non ha ancora ottenuto
quell’indipendenza che era stata promessa.
La Regione – con 1660 chilometri quadrati di deserti e un’altra vasta area divisa tra steppe e
praterie a ridosso del Taklamakan e del Tien Shan – vede la presenza della forte etnia uigura.
Si tratta di un popolo di stirpe turca, che discende dagli antichi Juan e, si dice, dallo stesso
Attila. Qui, nello Xinijang di oggi, convivono etnie turche, mongole, turcomanne, zingari e
mancia: tutti affini per lingua e cultura. Un crogiuolo di razze che, quando arrivarono i cinesi e i
russi a dividersi l’Asia centrale – separando il Turkestan orientale degli uiguri dal Turkestan
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occidentale, dalle repubbliche del Kasachstan, del Tagikistan e della Kirgizia – si ritrovarono
disperse e disposte sempre a compiere ogni sforzo pur di ritrovare quell’unità calpestata.
Non è un caso ora se le popolazioni turche di religione musulmana dello Xinijang si riferiscono
sempre al vecchio modello d’indipendenza nazionale che avevano conosciuto un tempo. Il
processo – tra l’altro – ha trovato un’accelerazione con il crollo dell’Unione Sovietica, quando le
repubbliche asiatiche hanno rivendicato ed ottenuto la piena indipendenza da Mosca. Ed è
questo quello che vogliono oggi gli uiguri. I quali, avendo anche scoperto il petrolio nel bacino
del Tarim e approfittando della maggiore facilità delle comunicazioni con Astana (la capitale del
Kasachstan, un tempo chiamata Alma-Ata) vista l’assurdità di alcune regole centralistiche
cinesi, spingono l’intera regione ad una crescente distanza da Pechino.
Intanto la guerriglia in atto – nel quadro di un rimescolamento degli stati nazionali - è
strisciante ed estremamente pericolosa per la Cina. Tanto più che quanto avviene nello Xinijang
non può essere catalogato come una crisi periferica. Qui siamo al centro di una impressionante
evoluzione geopolitica. Ma la dirigenza cinese respinge decisamente ogni processo innovativo.
E ne ha dato prova già l’anno scorso, mostrando anche una certa indifferenza di fronte alle
rivolte tibetane.
Ma ora, in conseguenza delle nuove rivolte, Pechino rivela una crisi di nervosismo. Ne è la
prova il rientro improvviso di Hu Jin Tao dal vertice dell’Aquila e le sue accuse contro quelle
forze straniere che “tentano di interferire nella vita cinese”. Risposta questa più che mai diretta
alle posizioni espresse da Obama, con il conseguente raffreddamento delle relazioni tra
Washington e Pechino.
Sono tutti, questi, sintomi della psicosi uigura. E sono quelli che affliggono le autorità cinesi,
come avvenne nel 1997, quando nella città di Yining, al confine con il Kasachstan, scoppiarono
gravi tumulti anticinesi. Tutti episodi di tensione in una delle regioni-chiave della Cina, le cui
prime manifestazioni violente risalivano al 1953, fino alla recrudescenza significativa del 5 aprile
1990 con la dichiarazione della jihad e la rivolta popolare a Baren, vicino a Kashgar, domata
dalla mobilitazione di 200 mila soldati cinesi, con un migliaio di morti uiguri, nove centri
completamente distrutti e diecimila arresti. Un focolaio d’incendio che appare oggi sotto
controllo, ma che è ben lungi dall’essere spento, come dimostra anche la condanna di 29
“separatisti” islamici del Xinijang (27 uiguri e 2 kazaki), resa nota il 22 gennaio scorso dalle
autorità cinesi.
Detto questo è anche vero che agli osservatori occidentali il rilievo geopolitico del Xinijang
tende a sfuggire. Da una parte, non si riesce a capire come uno Stato potente e civilizzato
come la Cina si dedichi all’oppressione di un popolo - gli uiguri - che, insieme a mongoli e
tibetani, costituisce uno dei tre grandi gruppi etnici minoritari del paese; dall’altra, può sembrare
innaturale che 7 milioni di “non cinesi” (nel senso di non appartenenti all’etnia dominante han),
che beneficiano di un’autonomia su una regione vasta come Italia, Francia, Spagna e Germania
messe insieme - con proprio governo centrale e con propri rappresentanti nel parlamento
centrale - debbano darsi al terrorismo. Le stesse posizioni ufficiali non aiutano a capire e
dimostrano, tra l’altro, una terribile miopia politica. I cinesi non discutono neppure: il Xinijang è
Cina. E il fatto che sia abitato da oltre 7 milioni di “non cinesi” è irrilevante, dato che la Cina è
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uno Stato multietnico.
Gli uiguri, abitanti autoctoni del Xinijang, dal canto loro, discutono ancora meno: siamo stati
per secoli indipendenti e adesso siamo dominati dai cinesi. Mediare non sembra possibile,
anche perché uiguri e cinesi si lanciano accuse pesanti come macigni: i cinesi sono accusati di
genocidio, pulizia etnica, sfruttamento delle risorse uigure e discriminazione razziale; gli uiguri
indipendentisti sono bollati come terroristi. Le radici dello scontro, pertanto, sono geopolitiche,
economiche, strategiche; affondano – nel quadro di un contesto sociale - nella storia delle
rispettive etnie e civiltà.
Ma nella vicenda cinese di oggi incombe sempre l’altra area di crisi: il Tibet. L’unica regione
dove esiste compiutamente un movimento indipendentista, dove le spinte secessioniste sono
palesi e determinate e dove si ritrovano motivi per argomentare l’indipendenza o, almeno, una
forte autonomia della regione. Ma questi “argomenti” si scontrano con un’altrettanto determinata
volontà di Pechino di mantenere il fermo controllo sul “tetto del mondo”, piattaforma strategica
sul subcontinente indiano. Inoltre, proprio l’ostinazione del movimento indipendentista, ha fatto
sì che Pechino lasciasse la provincia sostanzialmente chiusa ai contatti con i paesi di confine.
Eppure, mentre la cultura spinge il Tibet fuori della Cina, l’economia lo risucchia ben dentro il
ventre commerciale cinese.
L’unità dell’intero paese è, quindi, in pericolo. E gli ultimi avvenimenti sono interpretati in molti
ambienti delle diplomazie asiatiche come il segnale che confermerebbe la possibilità di
un’ipotetica esplosione della Cina, non diversa da quella verificatasi nell’ex Unione Sovietica.
Vuol dire, questo, che siamo (forse e purtroppo) all’inizio di una nuova e lunga marcia opposta a
quella organizzata da Mao. E al posto del “grande timoniere” si presenta Rebiya Kadeer. Con
l'Occidente che fa da sponsor.
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