DIRITTI Rebiya Kadeer: «Terrorista io?» Sessantatré anni, i capelli bianchi, lunghi, raccolti, l’aspetto esile, Rebiya Kadeer mostra la for- . All’accusa di Pechino di essere una terrorista, la leader degli uighuri rispon- de indignata: «Non sono una terrorista, malgrado il governo cinese mi abbia definito tale. cono lo stesso di Sua Santità, il Dalai Lama, perché lotta per il Tibet. che battermi pacificamente per la sopravvivenza degli uighuri, una delle popolazioni turcofone più antiche del mondo, che oggi rischia di . di Alessandra Garusi Ap Photo / Keystone / S. Di Nolfi scomparire». 132 . east . europe and asia strategies . . Di- Non faccio nient’altro le regole della giustizia. E un sistema senza giustizia è un sistema senza speranza. La giustizia, la pace e la prosperità possono essere raggiunte solo attraverso il rispetto dei diritti umani. Capire questa situazione è nell’interesse dell’Occidente e degli altri investitori stranieri in Cina. Altrimenti rischiano di perdere tutto il loro denaro, come è accaduto a me». Fino al 1997 Rebiya era una donna d’affari di successo, esibita da Pechino come una cittadina uighura capace di lavorare in armonia con le autorità cinesi. Aveva iniziato aprendo delle lavanderie, che nel tempo sono diventate Una bimba appartenente alla minoranza uighura passa in prossimità delle forze di sicurezza cinesi in una strada di Urumqi, in Cina. S ono una donna di umili origini, nata in un piccolo villaggio fra le miniere d’oro dei monti Altai nel bacino del fiume Tarim (Xinjiang, Asia centrale). La mia terra è un punto di incontro fra etnie diverse, dove l’Europa s’incontra con l’Asia e la Russia, lungo l’antica Via della Seta. Da 6mila anni questa è la patria della minoranza pacifica degli uighuri, circa 20 milioni di persone sparse su tutto il pianeta e oggi private di ogni forma di indipendenza culturale, economica e religiosa. Sto parlando e lottando a nome loro: voglio essere la madre di tutti gli uighuri, la medicina che li cura, il pezzo di stoffa con cui si possono asciugare le lacrime, il mantello con cui possono proteggersi dalla pioggia. Il mio nome è Rebiya Kadeer». Questo nome – proprio come quello del Dalai Lama per il Tibet – turba i sogni di Wen Jiabao. È il nuovo “nemico pubblico numero uno” di Pechino, una “pericolosa terrorista”. Diversamente la pensano Human Rights Watch e la Fondazione norvegese per i diritti umani, Rafto, che l’hanno premiata durante la sua detenzione nelle carceri cinesi. Sessantatré anni, i capelli bianchi, lunghi, raccolti, l’aspetto esile, ma la forza di un drago. Questa sarebbe una terrorista? La sua smentita arriva secca come l’affondo di una spada: «Non sono una terrorista, malgrado il governo cinese mi abbia definito così. Dicono lo stesso di Sua Santità, il Dalai Lama, perché lotta per il Tibet. Non faccio nient’altro che battermi pacifica- « Rebiya Kadeer, politica cinese naturalizzata statunitense, Ap Photo / E. Dalziel za di un drago. mente per la sopravvivenza degli uighuri, una delle popolazioni turcofone più antiche del mondo, che oggi rischia di scomparire». E aggiunge: «Lo Xinjiang è talmente inquinato che la tubercolosi è diventata la principale causa di morte; uomini e animali sono fuggiti a causa della siccità sempre crescente e del deserto che avanza. Gli effetti dell’inquinamento ambientale prodotto dalla Cina hanno creato un allarme mondiale». Dragon fighter. One Woman’s Epic Struggle for Peace with China, la biografia scritta con la collaborazione della giornalista tedesca Alexandra Cavelius, è un libro esplosivo. A proposito del boom economico cinese, ad esempio, la Kadeer dice: «Quello che Pechino non rivela all’esterno è che il suo successo non avviene secondo attiva nella difesa dei diritti umani e della comunità uighura della regione nordoccidentale dello Xinjiang, nella Repubblica popolare cinese. numero 37 . luglio 2011 . 133 P er prima cosa il governo cinese tentò di recidere il legame fra gli uighuri e la religione musulmana, forse intuendone la forza. Nelle carceri cinesi i prigionieri politici sono costretti a ripetere questo ritornello: “Dio non esiste”. «Ancor oggi la pratica dell’Islam è fortemente ristretta dalle autorità cinesi», racconta Rebiya. «Costoro controllano tutte le moschee, ne vietano l’accesso, puniscono severamente chi si rifiuta di bere o di mangiare durante il Ramadan». Eppure quello degli uighuri è un Islam moderato, che ha poco o nulla in comune con quello praticato nei Paesi arabi musulmani. «Anche noi siamo vittime dell’11 settembre», dice la Kadeer dal proprio ufficio di Washington, proprio perché la Cina in quella occasione riuscì a insinuarsi nella “guerra al terrore” dell’amministrazione Bush. E gli attivisti per l’autonomia dell’Est Turkistan furono bollati come “esponenti dell’islamismo radicale”, legati a doppio filo ad al Qaeda. All’epoca anche Rebiya era detenuta e ricorda: «Eravamo in 64, compresa la sottoscritta; dopo l’attentato alle Torri, ne arrivarono altri 30 di prigionieri politici». 134 . east . europe and asia strategies Da Bush a Obama la virata è stata netta. «L’attuale presidente americano è molto preoccupato della situazione dei diritti umani in Cina», conferma la Kadeer. «Ne ha parlato sia pubblicamente che privatamente durante la visita di Hu Jintao alla Casa Bianca lo scorso gennaio». Ma nemmeno in America la situazione è sicura: oltre un migliaio di agenti segreti sarebbero stati mandati negli Stati Uniti soltanto per neutralizzare gli attivisti per i diritti umani. La stessa Kadeer ha subito un primo tentativo di assassinio il 19 maggio 2006. Rischia di essere uccisa ogni giorno, in qualsiasi momento. Ma lei non ha paura. Dice: «Ho toccato la mano dell’angelo della morte così tante volte: sì, i miei telefoni sono controllati anche qui in America; sì, mi tengono costantemente d’occhio; sì, sono minacciata anche qui». Riguardo le continue minacce di morte, tuttavia, è fatalista. Risponde serafica: «I gave myself to the care of God». Inshallah. Quando si riesce a sopravvivere quasi sei anni nella prigione di Beijing Street, due dei quali in isolamento, in condizioni che è eufemistico definire “brutali”, si diventa quasi invincibili. «Il carcere mi ha reso forte», ammette la stessa Rebiya. «Ogni giorno acquisto sempre più forza». Nell’oscurità totale della sua minuscola cella, per non impazzire, lei parlava ai suoi figli, discuteva col marito Sidik Rouzi (dissidente politico uighuro, imprigionato per otto anni e oggi rifugiato negli Stati Uniti, NdR), ma soprattutto rivolgeva domande a Dio. I n uno di quei terribili luoghi di detenzione, oggi, ci sono due dei suoi figli: Alim, condannato a sette anni e Ablikim, a nove. Mentre la figlia Rushengül è agli arresti domiciliari. Entrambe le condanne sono arrivate il giorno dopo l’elezione della Kadeer alla carica di presidente del Congresso mondiale uighuro. «È vergognoso», commenta Rebiya. «La Cina è il solo Paese al mondo che punisce i figli per le colpe dei loro genitori». E aggiunge piano: «Non è mai stato facile, né mai lo sarà, essere la madre di tutti gli uighuri». Da quando è nata, la sua famiglia le ha ripetuto questo mantra: “Tu non ci appartieni; appartieni invece all’intero popolo degli uighuri”. E così è stato. «Per i miei connazionali esigo i diritti umani fondamentali: questo è il nostro obiettivo. Tutto il resto si svilupperà a partire da lì». Continua: «Stiamo combattendo una battaglia difficile contro un avversario forte. Vogliamo che Wang Lequan, l’ex segretario del Partito comunista cinese nello Xinjiang, Kadeer è stata eletta presidente del Congresso mondiale uighuro nel 2006. venga giudicato da un tribunale penale internazionale per i massacri commessi contro gli uighuri il 5 luglio 2009». Rebiya Kadeer fa nomi e cognomi. Non ha paura di niente. E a differenza del Dalai Lama – di cui condivide pienamente l’approccio nonviolento e pacifico – si capisce quanto la sua pazienza sia limitata. «Non aspetterò cinquant’anni», dice senza mezzi termini. Un giorno la figlia Akida le ha chiesto: «I nonni sono scappati, tu sei scappata, noi siamo scappati... Quanto continuerà così?» La vita è adesso. E adesso è difficile, se non impossibile, per un uighuro ottenere un passaporto in Cina. Un uomo o una donna che desiderino recarsi all’estero, devono essere qualificati come “puliti”. Nella prospettiva cinese ciò significa che la sua famiglia non deve aver mai avuto coinvolgimenti politici. A volte i funzionari dell’An Chuan Ting (i servizi segreti cinesi) controllano indietro fino a quattro generazioni. Di conseguenza ci sono molti uighuri negli Stati Uniti che sul piano privato sostengono la Kadeer e la sua causa, ma non lo farebbero mai in pubblico. Vivono nella paura oggi, come in passato. Vogliono rimanere “puliti”. Altrimenti li rispediranno a casa. Proprio là Rebiya vuole tornare, ma da donna libera, da una che ha vinto. Quando le si chiede una previsione riguardo al futuro, assicura: «Credo che tornerò nella mia terra. Per tutta la vita mi sono sempre lasciata guidare dai sentimenti. Perciò mi fido di ciò che sento. Quando ho sentito di farcela, ce l’ho sempre fatta: ho sentito per molto tempo che la nazione degli uighuri, un giorno, sarebbe stata indipendente, libera, democratica, non settaria, multiculturale». Quando era piccola, il pa- Ap Photo / M. Graham un impero da 30 milioni di dollari. Faceva inoltre parte della Conferenza politica consultiva del popolo, uno dei “club” in cui siedono i migliori per il regime cinese. Dopo un massacro di uighuri nel 1997, tuttavia, qualcosa cambiò per sempre: iniziò a protestare. Finita in carcere nel 1999 per aver rivelato “segreti di Stato” a una potenza straniera (stava per entrare in un hotel dove avrebbe dovuto incontrare una delegazione del Congresso Usa, NdR), la Kadeer trascorse sei anni in carcere prima di essere liberata nel 2005, a poche ore dall’arrivo in Cina di Condoleezza Rice. Il regime voleva offrire un gesto di distensione al segretario di Stato americano, e quella donna sembrava del tutto innocua. Da allora però Rebiya, che è madre di undici figli e ha numerosi nipoti, è diventa un’implacabile attivista per i diritti del suo popolo. Nessun altro uighuro ha sperimentato la patria da così tante prospettive diverse: da bambina rifugiata, da povera casalinga, da multimiliardaria, da alto funzionario della Conferenza politica consultiva del popolo, da prigioniera politica per molti anni, da dissidente politica in esilio. Rebiya Kadeer aveva un anno quando i comunisti, sotto Mao Zedong, si presero la sua terra il 1° ottobre 1949. Un anno dopo, il 7 ottobre 1950, fu la volta del Tibet. Nel ‘49 nella sua terra viveva un milione di cinesi; oggi sono otto milioni. dre le raccontava sempre la storia di una formichina che aveva suscitato lo stupore e l’ammirazione di un uccello, essendo riuscita ad attraversare distanze enormi: «Ognuno di noi ha il potere di svelare i segreti del mondo, finché abbiamo il coraggio e la fiducia in noi stessi». Dopo un attimo di silenzio il padre aggiungeva con voce grave: «Nessun ostacolo è insormontabile. Nessuno scopo è troppo nobile». Per questa ragione difficilmente qualcuno potrà fermare Rebiya Kadeer. . numero 37 . luglio 2011 . 135