Andrew Hopkins
Baldassare Longhena
1597-1682
fotografie di Alessandra Chemollo
219
capitolo V
Il prestigio del palazzo
Ornanda enim est dignitas domo, non ex domo tota quaerenda, nec
domo dominus, sed domino domus honestanda est *
(Cicerone, De Officiis, I, 139).
Nel XVII secolo, quando Longhena si trovò a progettare una serie di
palazzi per diversi committenti, era quasi inevitabile che in una città
come Venezia, così sensibile ai valori visivi, attraversata dal prestigioso Canal Grande con il suo susseguirsi di fastosi palazzi, la scelta
relativa all’ubicazione, alle dimensioni e alla scansione architettonica
potesse e volesse essere letta come una dichiarazione di intenti
sullo status e sulle ambizioni del proprietario così come li aveva interpretati l’architetto (fig. 219).
Di fatto, sin da quando Marino Contarini aveva commissionato la
Ca’ d’Oro nel 1422, la funzione di segnale di prestigio del palazzo veneziano era stata apertamente dichiarata, ed era esplicitamente ribadita da due cospicue iscrizioni: quella che Andrea Loredan (m.
1513) aveva ipocritamente posto sul suo palazzo, iniziato nel 1502 da
Mauro Codussi (1440 circa - 1504): Non Nobis Domini, Non Nobis, e
la più onesta dichiarazione di intenti espressa dal committente della
Ca’ Dario rivestita di marmi, iniziata nel 1487, Urbis Genio Iohannes
Darius1.
Il palazzo monumentale, finalizzato sia al prestigio del proprietario sia a quello della città, rispondeva all’esigenza di riconoscimento
del successo terreno attraverso la committenza di opere architettoniche. A ciò si associava spesso una vena di patriottismo, come
nel caso della Ca’ d’Oro, in cui venivano esplicitamente citate forme
architettoniche modellate su quelle del Palazzo Ducale. Alla metà
del XVI secolo, nei palazzi più ambiziosi come palazzo Grimani e palazzo Corner, rispettivamente di Sanmicheli e di Sansovino, la crescente monumentalità stessa diventava l’elemento chiave, seguendo l’esempio pionieristico di palazzo Loredan di Codussi2. Questa tendenza fu riconosciuta e illustrata nel 1581 da Francesco San-
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sovino, il quale scriveva: “volendo i nostri mostrare unione e parità
[…] edificarono […] le case tutte uguali in altezza. Ma cresciute poi
le ricchezze […] s’alzarono, e abbassarono secondo l’appetito de i
fabricanti”3.
Una tendenza opposta, instauratasi alla fine del XVI secolo, vide
un deliberato ritorno all’austerità e una rinuncia a forme prestigiose
nei palazzi: ne è un esempio quello sulle Fondamenta Nuove commissionato dal doge Leonardo Donà nel 15904. In seguito, si può constatare un’oscillazione tra magnificenza e austerità (spesso erroneamente identificati e contrapposti come valori romani e valori veneziani) nella scelta del linguaggio architettonico concordata da
committenti e artisti. Si possono individuare a questo riguardo due
fasi distinte. La prima è quella del rinnovamento di vecchi palazzi di
piccole dimensioni nella prima metà del XVII secolo. La seconda, subentrata alla metà del Seicento, è la fase della costruzione di nuovi
palazzi imponenti e monumentali che occupavano interi isolati. L’interpretazione del significato di questi palazzi è tuttavia ulteriormente complicata dal fatto che i loro committenti abbracciavano valori apparentemente contraddittori, come la frugalità in una cornice
di splendore, tanto spesso descritta dai visitatori in termini di ricchi
palazzi con tavole da poveri, o viceversa come splendore celato in
una cornice austera, con facciate sobrie e severe che racchiudevano
interni sontuosi5.
Longhena progettò circa otto palazzi, utilizzando in tutti un linguaggio architettonico attentamente equilibrato per esprimere prestigio e valori patriottici. Lette con attenzione, le facciate di questi
palazzi possono rivelarci molte cose sul modo in cui Longhena elaborava i suoi progetti e su ciò che intendeva esprimere per conto del
committente. Il suo primo palazzo è un esempio particolarmente
eloquente della attenta selezione di determinate forme architettoniche e della deliberata rinuncia ad altre, e rivela l’approccio utilizzato
da Longhena nel corso di tutta la sua carriera.
219 Palazzo Pesaro, Venezia, facciata
e il Canal Grande.
Giovanni Lollin (1552-1624) apparteneva a una famiglia di nobili
veneziani stabilitisi da tempo a Creta, ed era il fratello minore di Alvise (circa 1540-1625), vescovo di Belluno e importante studioso di
letteratura greca6. Senza dubbio Alvise, che soggiornava regolarmente con il fratello a Venezia, aveva un interesse di lunga data per
l’architettura, come indica una lettera del luglio 1611 che egli ricevette da Donato Morosini: “Accludo un disegno della facciata di
marmo già finita alla chiesa di San Giorgio Maggiore”7. Giovanni Lollin indubbiamente condivideva gli interessi del fratello, come dimostra la precoce committenza che affidò intorno al 1620 a Longhena,
all’epoca giovane architetto pressoché sconosciuto (fig. 220)8. È
probabile che i fratelli discutessero a lungo il progetto di una facciata
per il palazzo e, data la loro grande erudizione e la vasta biblioteca di
cui disponevano, non è inverosimile che prendessero in considerazione testi classici, come l’Etica di Aristotele, che contiene il seguente passo: “il dispendio si conviene a quanti hanno mezzi adeguati da cui partire […] perché tutte queste cose conferiscono grandezza e prestigio”, o ancora il De Officiis di Cicerone, in cui si esprimeva il calibrato giudizio secondo il quale la grandezza di una dimora deve essere commisurata a quella del proprietario9.
La scelta di Longhena da parte di Giovanni avvenne forse dietro
suggerimento del fratello, che aveva stretti contatti con i membri
della comunità greca a Venezia. Alvise era stato in corrispondenza
con Gabriele Seviros, arcivescovo di Filadelfia, il cui cenotafio nella
chiesa di San Giorgio dei Greci era stato eseguito da Longhena nel
1619 con una iscrizione di Alessandro Synklitikos, un altro amico. È
opportuno ricordare in proposito che Scamozzi aveva lavorato in
passato per la famiglia, progettando un colonnato dorico per la loggia del complesso Lollin a Quinto di Treviso sul fiume Sile10. Dati i rapporti tra Scamozzi e Longhena, è probabile che i fratelli Lollin conoscessero già quest’ultimo.
La costruzione del palazzo sul Canal Grande a San Vidal probabilmente cominciò nel 1621 o nel 1622, e proseguì per almeno un paio
d’anni dato che nel suo testamento del giugno 1623 Giovanni Lollin
descriveva i lavori in corso. Dopo la sua morte, alla fine di gennaio del
1623-24, e quella del fratello Alvise alla fine di marzo del 1625, il palazzo passò al cugino, Giovanni Giustinian (1606-32), che fu obbligato ad adottare il cognome dei Lollin, da cui la prima denominazione del palazzo11.
Dal momento che il progetto consisteva essenzialmente in una
nuova facciata aggiunta a un edificio preesistente, non avrebbe senso
cercare innovazioni radicali: Longhena conservò l’articolazione tripartita del pianterreno, incluso il lungo portego centrale che attraversa longitudinalmente il palazzo dall’ingresso sul Canal Grande al
cortile sul retro, configurazione ripetuta ai piani superiori. La facciata
attesta chiaramente la deliberata rinuncia da parte di Longhena a
forme architettoniche vistose in uso all’epoca, al fine di calibrare con
grande sensibilità il linguaggio impiegato, commisurandolo ai desideri
e alla posizione sociale del committente. Lo schema della facciata
conserva la tradizionale polifora centrale, il bugnato al pianoterra e la
chiave d’arco, ma Longhena tenne anche nel debito conto quattro recenti palazzi situati tra Rialto e San Vidal: palazzo Tiepolo (poi Coccina Papadopoli) di Giangiacomo de’ Grigi (attivo 1549-73), del 1560
circa, palazzo Mocenigo “Casa Nova”, costruito alla fine del XVI secolo
ma in seguito attribuito da Carlevarijs e altri a Palladio (fig. 221), palazzo Balbi del 1580 attribuito ad Alessandro Vittoria (1525 circa -
221
222
220 Palazzo Lollin a San Vidal,
Venezia, iniziato nel 1621 circa.
221 Palazzo Mocenigo “Casa Nova”
a San Samuele, Venezia, 1590 circa.
220
191
222 Alessandro Vittoria, palazzo
Balbi a San Tomà, Venezia, 1580.
223
1608) (fig. 222), e palazzo Contarini degli Scrigni, progettato da Scamozzi nel 1609 (fig. 224)12.
L’aspetto più notevole della facciata di palazzo Lollin è un’accentuata struttura a griglia ottenuta rinunciando deliberatamente agli
elementi tradizionali tipici della fine del XVI secolo presenti nei palazzi menzionati sopra. Ad esempio, nei palazzi Tiepolo e Balbi le singole lesene agli angoli della facciata restano isolate, in quanto le finestre dei due piani nobili non sono incorniciate da lesene. Anche
Longhena impiegò questo schema, ma anziché finestre quadre sormontate da elaborati frontoni aggettanti scelse finestre ad arco,
prendendo a modello quelle di palazzo Contarini degli Scrigni progettato da Scamozzi, che si aprono tra lesene ridossate alle paraste
laterali e racchiudono l’arco in una unità rettangolare saldamente
unita a parasta e capitello. Le due finestre ad arco su entrambi i lati
sono unite, ma nel contempo separate al livello delle imposte degli
archi che congiungono le lesene e corrispondono alla sommità delle
balaustre, le quali hanno anch’esse la funzione di definire una griglia fissa o una struttura compatta. La medesima funzione è assolta
dai tradizionali riquadri a specchio che occupano le porzioni di parete tra le finestre e che, come conci d’imposta, impediscono che le
finestre adiacenti diano l’impressione di fluttuare disancorate.
Gli archi delle finestre hanno un ruolo importante nel definire una
accentuata distribuzione verticale, e sono altresì fondamentali per le
sottili distinzioni e gerarchie delle forme orizzontali. L’ordine rustico
nettamente articolato del pianoterra fornisce una solida base alla
facciata, in cui ogni apertura è affiancata a una parasta, come le sei
severe finestre rettangolari e il secondo portale ad arco sulla destra,
un elemento asimmetrico incorporato con disinvoltura13. Per fortuna
di Longhena mancava qui un mezzanino, che avrebbe aumentato il
numero delle aperture dando luogo, come a palazzo Balbi, a un rapporto poco armonioso tra le finestre del pianterreno e quelle del
mezzanino. Utilizzando solo una cornice anziché una trabeazione tra
ciascun piano, Longhena incrementò invece la presenza del balcone
al fine di dare il giusto peso alle scansioni orizzontali della facciata.
Egli inventò il continuo-discontinuo di balcone e balaustra, dove i
balconi delle due finestre ai lati della serliana centrale continuano visivamente, e ne sembrano parte integrante, il balcone centrale aggettante, di cui formano i lati rientranti. In entrambi i piani nobili le
tre campate della serliana centrale sono strettamente affiancate con
due delle quattro finestre delle stanze laterali in modo che sembra
che appartenessero sia alla stanza centrale, sia a quelle laterali.
Longhena scelse altresì di non utilizzare finestrelle orizzontali
ovali per l’attico, prendendo così le distanze da una soluzione tipicamente cinquecentesca. Al loro posto, severe aperture rettangolari
creano un accentuato asse orizzontale nella facciata e corrispondono alle aperture squadrate del pianoterra, una soluzione che Longhena utilizzò nel corso di tutta la sua carriera, come dimostra il progetto del 1653 per un fabbricato a San Silvestro (fig. 225)14. Longhena subordinava così il pianterreno e l’attico ai due piani nobili,
dove stabiliva un’ulteriore, sottile gerarchia di forme architettoniche
– il che spiega la scelta di finestre ad arco. A differenza di finestre dotate di frontoni che entrano in competizione con la polifora centrale,
le aperture ad arco relativamente alte e strette di Longhena creano
una continuità con gli archi centrali più ampi, e sono nel contempo
subordinate ad essi. Al primo piano nobile un architrave collega i capitelli lungo l’intera facciata, cosicché la testa di chiave centrale più
193
224
225
223 Palazzo Lezze alla Misericordia,
Venezia, iniziato nel 1620 circa,
facciata da sinistra.
224 Vincenzo Scamozzi, palazzo
Contarini degli Scrigni a San Trovaso,
Venezia, 1609-16.
225 Baldassare Longhena, alzato
di un fabbricato a quattro piani,
1653 circa, penna, inchiostro bruno,
matita su carta, 280 × 439 mm
(Venezia, Archivio della Curia
Patriarcale, Carte d’Amministrazione,
serie 2a, b. 22).
grande sembra collegare questo arco direttamente alla cornice sovrastante, laddove le altre non oltrepassano la base dell’architrave
accentuando il loro ruolo subordinato e creando un crescendo di altezza dalle estremità al centro della facciata. Lo stesso vale per il secondo piano nobile, dove le aperture squadrate notevolmente più
tozze della serliana sono sormontate da incongrui festoni lussureggianti che contribuiscono allo status di questo piano senza porlo in
competizione con quello sottostante, e aggiungono un tocco festoso a questa facciata altrimenti sobria. L’equilibrio tra orizzontali
e verticali e la prosecuzione del rivestimento in pietra istriana oltre
la facciata sino alle prime campate delle mura laterali creano un effetto complessivo di sobria monumentalità, consona all’idea che
Lollin aveva del proprio status e, sorge il sospetto, della propria erudizione – una facciata dagli accenti nobili ma priva di qualsivoglia
ostentazione15.
Lo stesso approccio si osserva nel progetto di palazzo da Lezze,
iniziato anch’esso nel 1620 circa e situato sulle fondamenta della
Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, nel sestiere di Cannaregio (figg. 223, 227)16.
Il committente Giovanni da Lezze (1554-1625), la cui famiglia
aveva ricevuto il titolo di conti del Sacro Romano Impero nel XVI secolo e che fu considerato dogabile nel 1615 e di nuovo nel 1618, venendo eletto poi procuratore di San Marco de Ultra nel 1622, nel redigere il suo testamento alla fine di giugno del 1624 espresse la seguente volontà: “Item voglio et ordino, che la Casa grande della nostra habitazione in contrà di San Marcilian appresso la scuola
grande della Misericordia fabbricata da me et ridotta nel stato che al
presente si trova con spesa de ducati trenta quattro mille in circa
[…] resti et restar debbi sempre conditionata nelli miei figli, et debbi
servir per loro habitazione […] Item havendo io comprato la Casa da
Chà Contarini contigua alla nostra con l’intenzione di continuare la
facciata di detta Casa da me fabbricata, et con quell’ordine di Architettura fin sopra il cantone, come si è fatto sin hora di tutta la parte
di detta Casa”17.
Il fatto che da Lezze avesse già speso 34.000 ducati nel 1624 indica che la costruzione era già in fase avanzata, anche se per portarla a compimento si rendeva necessario acquistare un lotto di
terra adiacente, acquisto che non era ancora stato fatto quando il
committente morì nel 1625. Solo nel giugno del 1640 i membri della
vicina Scuola Grande discussero i termini di un accordo con i figli di
Giovanni, il senatore Andrea da Lezze (1577-1661) e Mattia da Lezze,
affinché potessero “terminar quanto occorre sopra la fabrica del loro
palazzo alla parte contigua di questa scola”18. Nel luglio del 1640 la
Scuola cedette “la casetta terrena incastrata nel Palazzo […] con il
suo ingresso, il quale per mezo d’un sottoportico sboccava sopra la
fondamenta della Misericordia, ove hora è la nuova giunta del palazzo” a condizione di non “allargarsi verso la scola oltre le mura vecchie d’essa casetta, ne alzare sopra d’essa la loro fabrica oltre il
primo piano”; successivamente, nello stesso mese fu concesso ai da
Lezze di “continuare la detta lor fabrica verso il campo di questo
luoco con le finestre et col pergolo [… et] far una porta, che guardi
sopra detto campo [... et] portarsi in fuora con l’incrostadura della
sua facciata”19.
Andrea da Lezze portò così a termine il palazzo come era stato
originariamente concepito dal padre e disegnato da Longhena sul
modello di palazzo Loredan a campo Santo Stefano – il più illustre
227
226
226 Palazzo Loredan in campo Santo
Stefano, Venezia, con le aggiunte
di Giovanni Grapiglia, 1618.
194
227 Palazzo Lezze alla Misericordia,
Venezia, facciata da destra, iniziata
nel 1640 circa.
229
228
228 Palazzo Lezze alla Misericordia,
Venezia, Casino sul rio.
196
229 Palazzo Widmann a San
Canciano, Venezia, iniziato nel 1627,
facciata.
231
230
198
230 231 Palazzo Belloni Battagia
a San Stae, Venezia, 1648-51, veduta
e particolare del piano nobile.
199
esempio di un tipo di palazzo non tradizionale, lungo e stretto con un
ingresso centrale e una facciata separata e indipendente su un
fianco (fig. 226)20. Come per il palazzo Lollin, Longhena progettò un
pianoterra bugnato, due piani nobili e un attico sormontato da una
cornice dentellata. Una serie di finestre quadre scandisce ancora
una volta gli assi orizzontali inferiori e superiori, mentre su entrambi
i piani nobili si aprono quindici strette finestre ad arco. Anche qui
Longhena rinunciò volutamente alla soluzione – usata da Scamozzi
per il palazzo Contarini degli Scrigni – di utilizzare lesene per incorniciare le finestre. Egli scelse invece di sfruttare il potenziale dei riquadri a specchio aggettanti in modo che assolvessero anche la funzione di pseudolesene, e in questo modo poté fare completamente a
meno di ordini architettonici, tranne che ai lati dell’apertura centrale,
eliminando con ciò il problema della presenza di lesene isolate anomale agli angoli di questa facciata molto allungata. Questa logica
spiega altresì la scelta di paraste lisce anziché bugnate per l’ingresso
al pianterreno, al fine di assicurare la loro identificazione con i piani
nobili e non con l’ordine rustico del pianoterra. La stretta facciata sul
fianco, costruita solo dopo il 1640, è contraddistinta dalla presenza
di lesene e balconi continui decorati con fregi araldici, e definisce
un poderoso angolo monumentale per questo palazzo, che era visto
da questa prospettiva da quanti arrivavano alla Scuola adiacente dal
centro della città. L’austera facciata di palazzo da Lezze aveva al suo
interno un cortile decorato con numerosi busti-ritratto di epoca romana allineati sulle pareti e rivolti all’esterno, verso il Casino sul rio
(figg. 227, 228)21.
Longhena progettò anche una facciata monumentale per il palazzo rinnovato da Giovanni Widmann (1571-1634) intorno al 1627
(fig. 229)22. Widmann discendeva da una ricca famiglia di commercianti austrotedeschi cui era stato conferito il patriziato nel 1514 dall’imperatore Mattia. Avendo concesso ingenti prestiti agli Asburgo,
nel 1540 i Widmann acquistarono il territorio e il titolo di conti di Ortenburg in Carinzia23. Giovanni era vissuto con la branca veneziana
della sua famiglia a partire dal 1586, e non appena poterono i suoi figli acquistarono il patriziato veneziano, nell’agosto del 1646, come
avevano già fatto prima di loro solo altre due famiglie, i Labia e i
Gozzi24. Widmann aveva affittato il palazzo da lui rinnovato situato
nella parrocchia di San Canciano dalla famiglia Serotti, e si decise ad
acquistarlo solo nel 1633, un anno prima di morire, lasciando in eredità ai sei figli l’enorme somma di 752.000 ducati 25. Questa situazione insolita, per cui un committente restaurava un palazzo preso
in affitto, è forse un segnale della fretta di affermare il proprio status
da parte delle famiglie in ascesa sociale, e dei significativi mutamenti
sociali che si andavano verificando a Venezia in quegli anni.
Il figlio di Giovanni, Ludovico (1611-59), che terminò l’edificio, si
servì di molti degli artisti cui era ricorso Longhena per i suoi progetti di prestigio: commissionò due grandi tele nel 1667-68 a Giovanni Coli e Filippo Gherardi per la villa di Bagnoli, acquistata nel
1656-59, dopo che i due artisti avevano realizzato i dipinti del soffitto per la biblioteca longheniana di San Giorgio Maggiore. Widmann commissionò inoltre dieci tele a Luca Giordano nel 1667-72,
mentre l’artista era impegnato a realizzare le pale d’altare per la
Salute26. L’attenta scelta di artisti affermati da parte di Ludovico testimonia forse la prudenza che gli aggregati si ritenevano in dovere
di dimostrare, come emerge già nella scelta da parte del padre di
un palazzo lontano dal Canal Grande, situato discretamente, quasi
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232
dimessamente, su uno stretto canale dove offriva vedute assai
meno spettacolari. La sobrietà della facciata dimostra l’attenta calibratura da parte del committente e dell’architetto di un linguaggio
consono allo status di Widmann, nobile ma non ancora membro del
patriziato veneziano.
Longhena progettò una facciata che assume una tranquilla preminenza in questo spazio ristretto. Egli utilizzò sistematicamente
aperture quadre per il pianterreno bugnato e per il mezzanino, in cui
spiccano quattro vistose volute forse ispirate all’esempio locale di
palazzo Pisani a Santo Stefano27. Nella loro plasticità scultorea tali
volute, che sottolineano le campate centrali, sono di grande effetto
specialmente viste di scorcio28. Conformemente ai principi architettonici di Longhena, qui la gerarchia delle finestre ai piani nobili è ancora più esplicita, in quanto solo l’arco centrale più ampio è unito
alla trabeazione e ha una testa in chiave. Le cornici orizzontali sono
più pronunciate in ragione delle trabeazioni continue tra i piani.
Il restauro in stile patrizio di un palazzo in affitto, effettuato da
Giovanni Widmann quasi vent’anni prima che i figli acquistassero il
patriziato veneziano, anticipa forse gli imminenti cambiamenti sociali che si verificheranno dopo il 1618, di cui la committenza di opere
architettoniche costituisce un segnale specifico. In una prospettiva
storica il significato dell’aggregazione del 1646 è stato ben analizzato da Alexander Cowan. Il patriziato urbano era l’istituzione sociale dominante a Venezia, e il suo carattere di casta chiusa finì per
conferire maggiore importanza all’ereditarietà come fonte di status
e come mezzo di trasmissione del potere da una generazione all’altra. Le estese reti di parentela che legavano tra loro le famiglie nobiliari ne garantivano l’omogeneità e la continuità, in quanto esse controllavano le più proficue e prestigiose fonti di ricchezza, come il
commercio d’oltre mare e la proprietà terriera, e detenevano le principali cariche politiche29. Fatta eccezione per trenta famiglie che acquistarono il patriziato nel 1381, dopo la guerra di Chioggia, la legge
che disciplinava l’aggregazione del 1646 fu la prima di questo genere, e attestava la combinazione di due tradizioni finanziarie: i contributi economici in tempo di guerra e la vendita delle cariche. Nel
1646 l’intenzione era quella di ammettere nel patriziato solo cinque
famiglie, ognuna delle quali avrebbe dovuto pagare 100.000 ducati,
ma alla fine, tra il 1646 e il 1668, si arrivò a un totale di settantanove
famiglie, principalmente cittadini, ma anche popolani, nobiltà della
terraferma, stranieri e discendenti di famiglie patrizie escluse dal Libro d’Oro30.
Acquistare il patriziato aveva significative conseguenze non solo
in termini sociali ma anche per quel che riguarda la committenza di
opere architettoniche, in quanto in teoria legittimava le famiglie aggregate di recente al patriziato a intraprendere la costruzione di palazzi fastosi come testimonianza del loro nuovo status. Tuttavia, poiché acquistare il patriziato costava l’enorme somma 100.000 ducati, queste famiglie in genere non iniziarono immediatamente a costruire palazzi, fatta eccezione per Bortolo Belloni il quale commissionò a Longhena il restauro della facciata del suo palazzo nel 1648
circa31. Solo negli anni settanta del Seicento i primi aggregati, i Labia,
costruirono il loro nuovo, imponente palazzo.
Senza dubbio consapevoli della loro nuova posizione sociale, i
nuovi nobili si avvalsero probabilmente di numerosi testi antichi e
moderni per giustificare la costruzione dei loro palazzi. Essi potevano appellarsi alla teoria della magnificenza di Aristotele, che san-
233
234
232 Luca Carlevarijs, Palazzo
Morosini [dal Giardin] a San Canciano
(distrutto), da Fabriche e vedute
di Venezia, 1703, incisione,
230 × 292 mm (BCV St. Gherro 379).
233 Vincenzo Coronelli, rio
con palazzo Morosini a Venezia (BCV).
234 Vincenzo Coronelli, cortile
di palazzo Morosini con l’ala a destra
opera di Longhena, 1709 circa,
incisione (BCV).
235
236
235 Antonio Visentini, palazzo
Morosini a Venezia, elevazione
della facciata del cortile verso
il campo (Londra, British Library).
201
236 Palazzo Giustinian-Lollin,
Venezia, cortile.
civa la legittimità sociale del consumo aristocratico e incitava addirittura a un maggior dispendio e a un adeguato sfoggio di ricchezza,
separando lusso e moralità. Ma si potevano invocare anche testi moderni quale il Cavalier compito di Torquato Alessandri, del 1609, in
cui si affermava che i segni distintivi di un gentiluomo italiano erano,
tra le altre cose, una casa ampia e ben arredata, e che l’acquisto e il
possesso di oggetti pregiati per il palazzo era indice di nobiltà più
delle genealogie non sempre cristalline di queste nuove famiglie32.
Naturalmente, questo “consumo vistoso” andava contro la tradizione della mediocritas veneziana, messa sempre più in questione
dai nobili del XVII secolo, specialmente a seguito del crescente interesse per gli ordini cavallereschi. Gli aggregati all’inizio apparivano
assai più attenti nel cercare di conservare un equilibrio tra il rispetto
delle obbligazioni sociali da un lato, e un esibizionistico consumo vistoso dall’altro. Essi tenevano senza dubbio presente l’osservazione
di Gasparo Contarini: “perché accade spesso che persone di umilissime origini, la feccia, divengano ricchi”33. Il disprezzo per i nuovi nobili anticipato da Contarini era ben noto ad Antonio Ottobon, il quale
spiegava al figlio Pietro, negli anni settanta del Seicento, che essi sarebbero stati guardati dall’alto in basso e disprezzati: “Il solo essere
huomo nuovo ti escluderà dai gradi supremi del governo, onde arrivato che sarai ad un certo termine troverai il Dragone vigile custode
del Vello d’Oro”34. L’antagonismo indubbiamente diffuso tra il patriziato nei confronti degli aggregati era testimoniato da un consistente numero di biografie condensate, commissionate da esponenti del patriziato per mettere a nudo le dubbie origini dei nuovi arrivati. Questo sentimento generalizzato era sintetizzato da Giuseppe
Bacco allorché osservava: “Io temo di più che il sordido abbia deturpato il nobile più di quanto il nobile abbia ingentilito l’incivile”35.
Se i Widmann erano conti del Sacro Romano Impero da oltre un
secolo quando Giovanni cominciò a rinnovare il suo palazzo, il giurista fiorentino Bortolo Belloni aveva acquistato il patriziato veneziano solo nel 1646, appena un paio d’anni prima di intraprendere il
rinnovamento della facciata del suo palazzo sul Canal Grande a San
Stae, nel 1648 circa (figg. 230, 231)36. Qui Longhena creò una serie
di assi orizzontali particolarmente accentuati, sottolineati dalle teste leonine al pianterreno, dal piano nobile aggettante e dalle trabeazioni37. Sormontato da un attico piuttosto alto, l’unico piano nobile è scandito da una serie di lesene corinzie scanalate in stile scamozziano. Frontoni spezzati e segmentati sono disposti solo una
campata sì e una no, incorniciando quindi cinque delle sette finestre, e unificando l’intera facciata attraverso un ritmo sincopato di
aperture sottolineate da stemmi e specchiature aggettanti nella seconda e nella ottava campata, e aperture prive di frontoni nella
quarta e nella sesta38. Una serie di apparenti incongruenze contribuisce all’equilibrio generale e alla qualità estetica della facciata: il
portale esageratamente alto dell’ingresso sormontato da un frontone triangolare crea un indispensabile asse verticale centrale al di
sotto del piano nobile, mentre nell’attico un riquadro centrale pieno
nella campata corrispondente sostituisce quella che sarebbe stata
una finestra orizzontale eccessivamente lunga. L’elaborato apparato scultoreo di questa fastosa facciata comprende anche stelle e
mezzelune in bassorilievo sul fregio della trabeazione: una deliberata risposta al palazzo Loredan di Codussi, che si trova quasi dirimpetto, con le sue decorazioni araldiche poste nell’altissima trabeazione che sormonta l’edificio.
202
237
239
238
237 238 Girolamo Soardi,
Palazzo Morosini [dal Giardin]
a San Canciano, piante del piano terra
e del secondo piano, 1772, penna,
inchiostro, acquerello su carta,
428 × 295 mm (BCV ms. PD 2795).
203
239 Palazzo Zane a Sant’Agostin,
Venezia, 1665-70.
Questa vistosa facciata suscitò due tipi di reazione: alcune famiglie di antica nobiltà, come i Bon e i Pesaro, risposero immediatamente commissionando palazzi altrettanto fastosi per surclassare i
nuovi arrivati, mentre l’approccio di altre famiglie, come i Morosini e
gli Zane, fu quello di ignorare deliberatamente i nuovi palazzi. Il ramo
di San Canciano della famiglia Morosini possedeva sei palazzi sul rio
Santi Apostoli, che vanno dalla calle del Traghetto alla calle del Forno
(figg. 232-235). Il patriarca di Venezia Gianfrancesco Morosini, per
il quale Longhena aveva già lavorato alla cattedrale, e suo fratello, il
procuratore Alvise (1605-52), commissionarono il restauro del
blocco dei palazzi sul rio nel 1646 circa, e poi quello dell’ala laterale
e del blocco prospiciente il campo, andati pressoché interamente distrutti intorno al 184039. Giustinian Martinioni osservava che il palazzo era “abitato da Giovanni et Agostino suoi nipoti […] nel quale
spiantato il giardino, che vi era, hanno coperto, e saleggiato il terreno
di mattoni ò pietre cotte, divise, con bene inteso disegno, in varie
forme, da fasce di marmo bianco, e ripartite: onde il giardino si è
cambiato in spazioso cortile, cinto da alte, e magnifiche fabbriche,
vedendosi da un lato un ordine continuato di stanze riccamente addobbate, et ornate di Eccellenti Pitture massime nelli soffitti, come
sono anco le Sale. La facciata sopra il canal è bella per l’insigni Pitture di Paolo Veronese, e vaga per l’architettura, e marmi, con Loggie, scolture et altri ornamenti interiori alla Romana”40.
Osservando l’incisione di Vincenzo Coronelli che riproduce il terzo
di questa serie di palazzi si vede come sulla facciata prospiciente il
rio Longhena si limitò ad aggiungere le tre campate a sinistra, con le
due logge trilobate e i balconi. Per la lunga ala laterale interna che
congiungeva il blocco sul rio e quello sul campo egli introdusse delle
infilate di otto stanze al primo e al secondo piano nobile (figg. 237,
238); dal portego si accedeva al cortile attraverso otto colonne libere di ordine rustico sormontate da un architrave, uno dei primi
esempi di questo tipo a Venezia (figg. 235, 236). Longhena dimostrò
la sua abilità nella facciata prospiciente il campo, dove ottenne una
chiara simmetria nonostante la pianta asimmetrica (fig. 232) utilizzando l’espediente di una falsa entrata. L’unico vero accesso al portego era situato nella quarta campata da sinistra della facciata a
nove campate. Tra i due portali inoltre Longhena collocò al mezzanino una finestra assai poco elegante, dimodoché dall’interno del
portego l’entrata reale risultava affiancata simmetricamente da due
finestre, corrispondenti alla terza e alla quinta campata, con l’indubbio vantaggio di raddoppiare le luci41. Longhena riprendeva inoltre il
sistema utilizzato da Scamozzi nel palazzo Contarini degli Scrigni,
consistente nel distribuire le finestre in modo più o meno equidistante per occultare la pianta non tradizionale, sicché l’estensione
del balcone del piano nobile dà l’impressione di un ampio salone
centrale, laddove il salone occupa solo tre delle cinque campate.
Questo sobrio palazzo senza ordini esterni è improntato alla discrezione, celando i tesori racchiusi al suo interno che furono descritti alla fine del Settecento dall’incisore Gherro: “è di una magnifica costruzione e assai vasto. Ha sopratutto un cortile con atrio coperto, sostenuto da colonne nel davanti, che, a mio credere, lo rende
in questa parte il più cospicuo ed il più maestoso di Venezia”42 (fig.
234). Gli animali esotici tenuti in cortile attiravano l’attenzione ancor
più dell’importante biblioteca del proprietario situata in una delle
nuove stanze progettate da Longhena, che la associò a una galleria.
Come ha messo in luce l’importante studio di Dorit Raines, collegare
240
242
241
240 Palazzo Zane, Venezia, 1665-70,
particolare della facciata.
204
241 Antonio Gaspari, planimetria
di palazzo Zane a Venezia, 1680 circa,
penna, inchiostro, grafite, acquerello
su carta, 816 × 410 mm (BCV RG III 8r).
205
242 Luca Carlevarijs, Veduta
del Casino Zanne sopra il giardino,
da Fabriche e vedute di Venezia,
1703, incisione, 206 × 290 mm
(BCV St. Gherro 313).
245
244
243
243 Palazzo Bon a San Barnaba,
Venezia, 1649-62, facciata.
244 Giovanni Antonio Battisti,
palazzo Bon, planimetria del piano
terra, 1770, penna, inchiostro,
acquerello su carta, 442 × 756 mm
(BCV St. Gherro 519).
206
245 Giovanni Antonio Battisti,
palazzo Bon, planimetria del piano
nobile, 1770, penna, inchiostro,
acquerello su carta, 444 × 752 mm
(BCV St. Gherro 520).
207
la biblioteca a una galleria nei palazzi era una tendenza che si andava affermando nel XVII secolo, attestata sia qui che nel palazzo
Loredan del 1646. La biblioteca acquistò inoltre un crescente valore
simbolico quale “emblema dell’erudizione attraverso la sua esposizione museale”. L’interno assumeva altresì una funzione di rappresentanza, in quanto una raccolta colpiva l’immaginazione non solo
per le belle legature, ma anche per il luogo stesso dove era ospitata.
Allestita all’interno di un palazzo “accanto alla galleria o abbellita con
bassorilievi, sculture, quadri” la biblioteca diventava parte di un vero
e proprio museo43.
La crescente importanza delle biblioteche nelle residenze dei nobili veneziani e l’affermarsi di una sempre maggiore specializzazione
dei tipi di stanze, con la creazione di singoli ambienti con funzioni
specifiche, portarono a collocare le biblioteche anche in hortum all’esterno del palazzo, come raccomandava Claude Clément nel suo
trattato del 1635. Il modello di questa peculiare soluzione per la biblioteca-museo era il casino veneziano, e il primo esempio a Venezia
fu la biblioteca di palazzo Zane, adiacente al casino nel giardino 44.
Sebbene fosse stata progettata da Antonio Gaspari, la biblioteca costituì la conclusione dei lavori di rinnovamento iniziati da Longhena
per Domenico Zane nel 1665 (fig. 242).
Al pari di palazzo Morosini, la nuova facciata commissionata da
Domenico Zane, pur scandita da teste di chiave esotiche, aveva un
carattere sobrio che contrastava con la ricchezza degli interni e delle
collezioni (figg. 239, 240)45. Il palazzo era situato all’angolo del rio
Sant’Agostin (San Stin), e Longhena dovette ancora una volta risolvere il problema di una pianta irregolare, in quanto le stanze d’angolo
avevano solo un’apertura sulla facciata principale e il portego e il salone centrale avevano un numero pari di aperture, ossia quattro (fig.
241). Due autentici ingressi sono posti asimmetricamente nel portego, ma sono affiancati simmetricamente da finestre all’esterno,
mentre il balcone e la polifora al primo piano nobile sono contraddistinti da quattro lesene ioniche inserite per dare l’impressione che la
seconda finestra da destra si apra effettivamente sulla stanza a destra anziché sul salone centrale. Come nel caso di palazzo Pesaro,
che esamineremo in seguito, la decisione di Longhena di impiegare
due portali ad arco gemelli per gli ingressi affiancati da coppie di finestre quadre fu condizionata dai sostegni strutturali preesistenti,
che era impossibile eliminare per ragioni pratiche. Le caratteristiche
teste di chiave qui e al piano nobile suggeriscono il lusso degli interni
di questo palazzo dalla facciata sobria, in cui la biblioteca di Gaspari
e l’adiacente Casino progettato da Domenico Rossi (1657-1737) presentavano e rappresentavano le possibilità di dilettarsi attraverso il
gioco e di istruirsi attraverso la lettura, i due passatempi che animavano la vita dei nobili veneziani nel XVII secolo (fig. 242)46.
Non era certo la modestia il carattere dominante delle importanti
committenze che Longhena si vide affidare alla fine degli anni quaranta del Seicento, quando fu incaricato di progettare i due palazzi
monumentali sul Canal Grande per illustri famiglie veneziane che
possono essere considerati una risposta alla pretenziosità degli aggregati del 1646. Se il palazzo di Giovanni Pesaro era destinato a diventare il più sfarzoso edificio del XVII secolo, quello progettato da
Longhena per la famiglia Bon, pur essendo altrettanto monumentale, offriva una curiosa mescolanza di elementi sobri e scenografici
in un assetto esterno quasi militaresco (fig. 243)47.
Ottaviano Bon ebbe un’illustre carriera, e fu tra le altre cose am-
246
248
249
247
246 Bottega di Longhena, progetto
per l’avancorpo di palazzo Bon,
1650 circa, penna, inchiostro nero,
grafite su carta, 500 × 750 mm
(BCV RG III 40).
208
247 Palazzo Bon, Venezia, particolare
della facciata.
209
248 249 Palazzo Bon, Venezia, fianco
e scorcio angolare.
250
251
252
250 251 Palazzo Bon, Venezia,
particolare della facciata e
dell’ingresso sul Canal Grande.
210
211
252 Palazzo Bon, Venezia,
veduta del portego.
253
basciatore in Spagna nel 1601-02, come documenta Alvise Lollin
nella sua biografia48. Le poche date sicure relative ai lavori che egli
fece eseguire nel palazzo di San Barnaba sono date da Giorgio Bellavitis, in particolare l’annotazione del maggio 1649 in cui si parla di
“refar un canton”, registrata negli archivi dei Giudici del Piovego esattamente il giorno dopo il ventiduesimo compleanno del figlio di Ottaviano, Filippo (1627-1712; figg. 243-262)49. Probabilmente il progetto di erigere un grandioso palazzo fu deciso di concerto da padre
e figlio, ma alla costruzione della facciata non può essere assegnata
una data precisa entro il periodo compreso tra il 1649 e il 1662, in
quanto l’unico documento rilevante è la dichiarazione di Filippo del
1662 relativa a “una casa posta in contrà di San Barnaba […] erano
due”50. Le concessioni dei Giudici del Piovego nel marzo e nel giugno
del 1667 documentano ulteriori acquisti di case e passaggi pubblici
verso il retro dell’isolato, l’ultimo dei quali ebbe luogo nel settembre
del 1667, con la seguente dichiarazione: “le case sono distrutte per
far nova Fabrica della sua casa Dominical”51.
Sebbene il disegno nella Raccolta Gaspari attribuito a Longhena
non sia autografo, fu sicuramente eseguito nella sua bottega, in
quanto presenta un’iscrizione di suo pugno sul verso. La paternità di
Longhena inoltre è dimostrata dai principi architettonici dell’edificio
stesso (fig. 246)52. Qui egli nascose volutamente la presenza dei due
piani inferiori sulla facciata bugnata in modo da esaltare l’aspetto
monumentale del palazzo. Un unico registro di finestre quadre con
massicce teste scolpite nelle chiavi è impostato su mensole fortemente aggettanti affiancate a protomi leonine (figg. 247-250). Ripetendo la disposizione del cortile dei palazzi Lollin e Morosini (figg.
235, 236), Longhena rinunciò qui per la prima volta esplicitamente
agli archi, impiegando invece per l’ingresso colonne libere bugnate
di ordine dorico affiancate da robuste paraste. Nell’atrio invece tornano gli archi, affacciati sul portego, creando un effetto trionfale che
ha il suo culmine nel singolo arco che incornicia lo scudo araldico
posto nella fontana del cortile (figg. 251-254). Con effetto scenografico simile a quello creato dalla loggia sotto la biblioteca di San Giorgio Maggiore, qui Longhena crea un vestibolo che si apre sul Canal
Grande e un trionfale schermo scenografico per l’ingresso sulla facciata al fine di armonizzarlo con quello sul retro, mentre le colonne libere a fianco del pozzo di luce consentono una copiosa illuminazione dei profondi spazi adiacenti del portego.
Il piano nobile conserva solo poche tracce della tripartizione tipicamente veneziana, in quanto le tre campate centrali sono solo leggermente più strette delle coppie di finestre ai lati. La facciata si presenta piuttosto come un continuum, soprattutto per il fatto che solo
agli angoli compaiono colonne binate. Le finestre seguono il modello
di quelle della Biblioteca sansoviniana. Come ha osservato Giandomenico Romanelli, il palazzo Bon ha un duplice carattere, in quanto
da un lato contribuisce a “riprendere e rinverdire la tradizione delle
monumentali sedi patrizie cinquecentesche, dall’altro lato a fissare i
canoni della modernità barocca nell’architettura civile veneziana postrinascimentale”53. I palazzi Bon e Pesaro sono edifici d’eccezione
sia per le dimensioni sia per il modo in cui Longhena li ha concepiti,
come enormi masse scultoree con una fila quasi continua di finestre
intervallate da ordini riccamente articolati. Come ha osservato Douglas Lewis, la disposizione degli interni indica come Longhena
avesse accuratamente studiato il susseguirsi di sale di rappresentanza e grandiosi scaloni per le occasioni cerimonali, sull’onda della
212
253 Palazzo Bon, Venezia, cortile.
213
254
255
254 255 Palazzo Bon, Venezia,
vedute del portego.
257
256
214
256 Palazzo Bon, Venezia, portale,
entrata sul rio.
215
257 Palazzo Bon, Venezia, cortile
verso il cielo.
259
258
216
258 259 Palazzo Bon, Venezia, portico
d’accesso allo scalone e particolare
delle teste.
crescente attenzione per un’etichetta sempre più complessa e per le
sue ramificazioni spaziali che si osservava all’epoca in tutta Italia
(figg. 256, 260)54.
Il progetto di Longhena prevedeva l’innovativa sequenza di due ingressi, uno dall’acqua e l’altro da terra, sul retro del palazzo: il primo
portava al portego collocato tra il pozzo di luce e il vestibolo dello
scalone, il secondo era un cortile a L in asse con la rampa inferiore
del grande scalone di rappresentanza. Sebbene gli studiosi abbiano
discusso a lungo la paternità del progetto dello scalone, si tratta certamente di un’opera di Longhena. Egli ne iniziò anche la costruzione
utilizzando le stesse austere fasce di pietra impiegate per lo scalone
dei Padri Somaschi, costruendo la parete perimetrale e i due riquadri
sulla parete centrale dello scalone prima che i lavori si fermassero,
evitando in tal modo i problemi legati agli ordini architettonici e all’incongruenza degli elementi decorativi incontrati a San Giorgio Maggiore (figg. 113, 260). La costruzione riprese negli anni cinquanta del
Settecento ad opera di Giorgio Massari, al quale si deve il rivestimento più elaborato sopra quello longheniano con pannellature che
si innestano negli scalini della rampa superiore (fig. 329).
La più importante opportunità di progettare un palazzo di grande
magnificenza fu offerta a Longhena da Giovanni Pesaro, il quale
commissionò lo spettacolare edificio che occupa l’intero isolato tra
il rio della Pergola e il rio delle due Torri a San Stae (figg. 263-288).
L’acquisto del terreno iniziò nell’agosto del 1551 con la vendita a Leonardo Pesaro della “Casa delle due Torri” affacciata sul Canal
Grande55. Una settantina d’anni dopo il vecchio palazzo non era più
adeguato all’accresciuto prestigio della famiglia Pesaro, e nel marzo
del 1616 Francesco Pesaro assieme alla madre Elena Soranzo e al
fratello Giovanni acquistò l’isolato adiacente appartenente ad Alvise
Morosini, con un altro portego e altre stanze56. Questo secondo edificio aveva la facciata sul rio delle due Torri, un ampio cortile con
pozzo centrale, rive d’approdo, piano nobile e piano sottotetto57. Nell’aprile del 1629 Francesco e Giovanni riuscirono a concludere per
2650 ducati l’acquisto dell’adiacente proprietà Trevisan, consistente
in due stanze sull’altro lato della corte, e successivamente diedero
inizio alla unificazione delle proprietà58. Non si trattava di un compito
facile, in quanto i piani superiori di queste case presentavano un dedalo di stanze collegate verticalmente attraverso scale interne, mentre mancavano rapporti organici tra le stanze sullo stesso piano
(figg. 265, 266).
Come osservava Peter Burke, all’epoca in cui commissionò il palazzo Giovanni aveva i tre requisiti fondamentali del successo: antichi natali, potere politico e ricchezza59. I primi membri illustri della famiglia avevano dato importanti contributi alla storia di Venezia nel
campo militare ed ecclesiastico: il capitano Benedetto Pesaro, la cui
tomba si trova sopra l’ingresso alla sagrestia della chiesa dei Frari, e
Jacopo Pesaro (1466-1547) vescovo di Pafo e Cipro e protettore di
Tiziano. Giovanni aveva già acquistato lustro nella vita politica della
Repubblica in qualità di ambasciatore a Parigi nel 1621, quando intervenne in merito al prospettato trattato franco-spagnolo sulla Valtellina e insistette per l’entrata in guerra, cosa che gli valse l’epiteto
di “Paladino di Guerra”60.
Ma quando fu avviato effettivamente il progetto? Alcuni studiosi
ipotizzano che i lavori fossero iniziati già nell’agosto del 1629,
quando Andrea Trevisan scriveva a Giovanni chiedendo che gli fosse
corrisposto un pagamento: “se bene lei hà anco fabricato sopra il
260
218
260 Palazzo Bon, Venezia, scalone,
iniziato da Baldassare Longhena
(la rampa più bassa) e completato
da Giorgio Massari (il rivestimento
più elaborato).
261
262
261 Palazzo Bon, Venezia, fontana
e stemma gentilizio.
219
262 Vincenzo Coronelli, Palazzo Bon
a San Barnaba, 1709 circa, incisione,
183 × 256 mm (BCV St. Cicogna 946).
263
264
220
263 Palazzo Pesaro a San Stae,
Venezia, 1661-82, facciata.
221
264 Antonio Gaspari, palazzo
Pesaro a Venezia, 1680 circa, sezione
longitudinale, penna, inchiostro,
grafite, acquerello su carta,
515 × 940 mm (BCV RG I 86).
267
266
265
222
265 266 Palazzo Pesaro a Venezia,
piante delle prime proposte
per il piano terra e il primo piano
(ASV Arch. Pesaro).
Entrambe le immagini sono
state ruotate di 180° per agevolare
il confronto con l’immagine
alla pagina successiva.
223
267 Antonio Gaspari, palazzo Pesaro
a Venezia, 1680 circa, planimetria,
penna, inchiostro, acquerello su carta,
530 × 912 mm (BCV RG III 23).
mio”61. Tuttavia questa sembra una datazione troppo precoce per
un progetto tanto ambizioso e dispendioso. Piuttosto, la descrizione di Martinioni del 1663 sembrerebbe indicare che la pianificazione e il progetto furono iniziati alla fine degli anni quaranta del
Seicento, e che i lavori furono continuati dopo la morte di Giovanni
nel 1659 dal nipote Leonardo. È del tutto possibile che la lettera
scritta da Longhena nel 1649, in cui faceva riferimento a suoi lavori
per la famiglia Pesaro, si riferisse di fatto al progetto per il palazzo
urbano. L’affermazione “Essendo stato in villa per servicio del Eccelentissimo Pesaro Procurator”, potrebbe allora significare che Longhena lavorava al progetto del palazzo in stretta collaborazione con
Giovanni immerso negli agi di una delle ville che i Pesaro possedevano nel Veneto62. In effetti, una datazione al 1649 si accorderebbe
perfettamente con il testamento di Giovanni, redatto il 19 agosto
1652 (e pubblicato alla sua morte il 1° ottobre 1659), in cui notificava il lascito per “la Casa Grande perché possa volendo aggiongere fabriche, et aumentar la bellezza, et grandezza della casa
come gli parerà”63.
La cronologia che proponiamo qui si basa sull’analisi dei disegni
esistenti, e può essere sintetizzata come segue: un gruppo di disegni nella Raccolta Gaspari documenta le intenzioni di Longhena per
il palazzo negli anni settanta del Seicento, e potrebbe anche documentare le sue idee originarie. Molti dei disegni in questione furono
eseguiti da Antonio Gaspari, probabilmente nel decennio in questione (RG III, 2; I, 86; III, 23) (figg. 264, 267); di questi uno in due
parti è un disegno autografo di Longhena con annotazioni di Gaspari
(RG I, 1) (figg. 269, 270). Un secondo gruppo di disegni documenta
le varie soluzioni di modifica per uno scalone collocato tra il portego
e il cortile (RG III, 30 a-c; II, 7) (figg. 268, 271, 272). Forse il più importante è il disegno di Gaspari (RG III, 23) (fig. 267), che sicuramente fu eseguito molto prima della morte di Longhena e sotto la
sua supervisione, in quanto mostra le pareti e le colonne portanti
preesistenti in acquerellature gialle, e spiega perché Longhena
avesse proposto soluzioni così insolite, come ad esempio le monumentali arcate gemelle degli ingressi e un tipo di scala con una
rampa ascendente in asse con il portego, con corridoi a destra e a sinistra che davano accesso al cortile sul retro: questo elemento rimpiazzava, sostanzialmente nella stessa posizione, un muro portante
che Longhena probabilmente riteneva necessario per la stabilità dell’edificio.
Occorre ricordare che Longhena si trovava a costruire un nuovo
palazzo partendo da una serie di fabbricati preesistenti che dovevano essere integrati per quanto possibile, senza soluzione di continuità, in un unico edificio senza procedere a demolizioni. La soluzione scelta dall’architetto è documentata anche in un prospetto
(RG III, 2; I, 86) (fig. 264) dal quale emerge uno dei problemi che egli
si trovò ad affrontare: poiché le rampe della scala sul retro del palazzo si addentravano parecchio nell’edificio, si veniva a creare uno
spazio aggiuntivo prospiciente il cortile che sarebbe stato molto luminoso, ma avrebbe ridotto la luce della scala stessa, come indica il
disegno di presentazione di Gaspari (RG II, 86), che aggiunge delle
ombre sia nella sezione longitudinale sia a sinistra nel prospetto
della scala. Invece, i due corridoi che attraversavano il pianterreno a
destra e a sinistra avrebbero ricevuto parecchia luce dal cortile. Qui
Longhena molto ingegnosamente chiuse in modo decorativo gli archi di ingresso dei due corridoi in modo da farli coincidere con gli ar-
224
272
271
268
269
270
271 Antonio Gaspari, palazzo Pesaro
a Venezia, post 1680, planimetria
degli scaloni con tre rampe parallele,
penna, inchiostro, acquerello su carta,
450 × 1100 mm (BCV RG III 30c ).
268 Antonio Gaspari, palazzo Pesaro
a Venezia, post 1680, sezione di
una proposta dello scalone, penna,
inchiostro, acquerello su carta,
430 × 910 mm (BCV RG II 7).
269 270 Baldassare Longhena,
palazzo Pesaro a Venezia, 1661
circa, profili della facciata, penna,
inchiostro, grafite su carta,
900 × 160 mm (BCV RG I 1a e 1b).
225
272 Antonio Gaspari, palazzo Pesaro
a Venezia, post 1680, planimetria
degli scaloni con rampe attorno
a un cortile, penna, inchiostro,
acquerello su carta, 450 × 1100 mm
(BCV RG III 30d).
273
chitravi inferiori alle estremità del cortile. Si trattava di una buona
soluzione, ma lo scalone non fu eseguito nel periodo in cui fu Longhena ad occuparsi dei lavori, e i proprietari del palazzo continuarono probabilmente a usare scale di servizio fino a quando non
prese avvio la seconda fase dei lavori, che cominciarono solo intorno
al 1700, in quanto Gaspari documenta una soluzione di questo tipo
nei suoi disegni successivi (RG II, 7) (fig. 268).
L’inserimento di due portali gemelli, che sembrano annullare la
presenza di un asse centrale nella facciata dell’edificio, ha dei precedenti in alcuni palazzi di epoca anteriore, come il palazzo Pisani Moretta e Ca’ Bernardo, nonché la Ca’ Dolfin di Sansovino. Si trattava di
una soluzione adottata spesso per residenze doppie, in cui due fratelli vivevano nello stesso palazzo in piani nobili separati64. Il ricorso
a una soluzione di questo tipo nel caso di palazzo Pesaro, tuttavia,
era imposto da due logiche diverse seppure correlate per l’interno e
per l’esterno.
I progetti di Longhena per palazzo Pesaro sono un trionfo di monumentalità, in cui l’elaborazione scultorea è saldata coerentemente
alle forme architettoniche e strutturali. Qualsiasi analisi dell’edificio
deve partire dagli angoli quasi invisibili della facciata, che rappresentano la “vera” porzione di parete in cui si incontrano la facciata anteriore e quelle laterali del palazzo (figg. 263, 276). Qui al livello del
tetto la cornice è leggermente rientrante per fissare tre punti che
rappresentano le due facciate aggettanti e la “vera” parete65. Sulla
struttura murale Longhena aggiunse al pianterreno un massiccio
bugnato a punta di diamante che corre lungo l’intera facciata, interrotto solo dalle aperture delle finestre quadre e dei monumentali
portali gemelli separati da una piccola nicchia cieca. Proprio quest’ultima consentiva a Longhena di inserire nella facciata i due giganteschi ingressi ad arco. Per la prima volta, al piano nobile Longhena estendeva il balcone lungo l’intera facciata, arretrando solo
leggermente i segmenti alle estremità immediatamente al di sotto
delle ultime coppie di colonne (fig. 276). Le tre campate centrali e gli
angoli del palazzo sono separati da colonne binate, cosicché viene
conservata la tradizionale divisione tripartita66. La ripresa di elementi
dalle finestre della biblioteca sansoviniana riafferma il carattere
squisitamente veneziano del palazzo, e lo stesso vale per il bugnato
a punta di diamante che riprende quello della Ca’ del Duca e l’esempio più vicino del palazzo di Caterina Corner della Regina, dirimpetto
a palazzo Pesaro, al quale quest’ultimo costituiva una sorta di risposta allo stesso modo in cui il palazzo Belloni era la risposta longheniana al palazzo Loredan.
La facciata sul rio, dietro l’angolo rivestito dal massiccio bugnato,
è al confronto più sobria, ma diventa un tenue baluginare di luci e ombre quando la si vede dal Canal Grande oppure dalla facciata posteriore del palazzo guardando verso il Canal Grande (figg. 276, 277). Il
carattere monumentale dell’androne dell’ingresso dall’acqua caratterizza anche l’imponente portego, vivamente illuminato dalle due
grandiose arcate dei portali d’ingresso. Il motivo di ciò si comprende
immediatamente allorché si accede all’interno, ornato da busti-ritratto posti su plinti ai lati delle finestre del mezzanino e investiti dalla
luce proveniente dall’ingresso dall’acqua e dal cortile sul retro (figg.
279-283). Le colonne libere binate di ordine rustico, che Longhena
aveva impiegato per l’ingresso dall’acqua e per il portego di palazzo
Bon, qui compaiono solo sulla facciata posteriore prospiciente il cortile al pianoterra, in quanto il portego è libero da sostegni interni. Qui
227
274
273 274 Palazzo Pesaro, Venezia,
particolare della facciata e veduta
panoramica.
276
275
228
275 276 Palazzo Pesaro, Venezia,
particolare della facciata e lato sul rio.
279
277
278
230
277 278 279 Palazzo Pesaro, Venezia,
vedute della facciata e lato sul rio
e dell’atrio verso il Canal Grande.
280
282
281
232
280 281 282 Palazzo Pesaro, Venezia,
vedute del portego e scorcio del cortile.
284
283
234
283 Palazzo Pesaro, Venezia, cortile.
285
235
284 285 Palazzo Pesaro, Venezia,
vedute dello scalone.
286
le colonne costituiscono la base di quella che potrebbe essere definita una parete “a finestra” che prospetta sul cortile, in quanto le colonne libere si ripetono in tutti i piani, assicurando una grande luminosità agli interni a tutti i livelli. Questa apertura contrasta nettamente con la tradizionale disposizione delle finestre nell’ala posteriore, che fu la prima ad essere completata (fig. 282). Altrettanto tradizionale fu la scelta finale di una scala collocata su un lato del palazzo: al portale monumentale affiancato da colonne e lesene scanalate e anellate segue un’austera scala a una rampa illuminata da un’unica finestra che ricorda le scale delle scuole grandi e indica in che
misura Longhena avesse attentamente studiato l’architettura di
Mauro Codussi. Per quanto riguarda la pianta interna, Longhena spostò i camini all’interno in modo da creare la sua parete-finestra a tutto
vetro, dando luogo a una ricca rete strutturale di elementi inseriti in
una griglia tridimensionale di pieni e vuoti, massa e movimento, parti
e controparti67. A differenza della scala, gli interni dovevano essere altrettanto elaborati quanto la facciata, a giudicare dall’unico soffitto
originale esistente nella stanza d’angolo – che fu completata nel 1682
– in legno naturale senza dorature con tele raffiguranti il trionfo della
casata dei Pesaro (fig. 286). Solo il primo piano nobile fu costruito e
parzialmente decorato prima della morte del committente e dell’architetto nel 1682 (fig. 287). Fu Gaspari successivamente a terminare
l’edificio con un monumentale secondo piano nobile e un attico, facendone il più imponente palazzo di Venezia.
L’architettura monumentale di palazzo Pesaro eclissava altri palazzi come quello dell’aggregato Bortolo Belloni, e può essere considerata il modo in cui Giovanni Pesaro “salutava” questi nuovi arrivati;
si trattava indubbiamente di una sorta di affermazione del proprio
status. Il periodo durante il quale Giovanni Pesaro intraprese la costruzione del suo esuberante palazzo segnò anche una serie di altri
trionfi personali, tra cui l’elezione a doge nel 1658, sull’onda del suo
successo politico ecclesiastico più significativo. Nel 1657, infatti, in
qualità di ex ambasciatore a Roma, approfittando di una serie fortunata di circostanze – la nomina di Bonifacio Carafa a nunzio nel
1655, seguita dall’elezione del doge filopapale Carlo Contarini (15801656) e dall’insediamento al seggio papale di Fabio Chigi – era riuscito a mediare un accordo in cui, in cambio della soppressione di
due conventi veneziani e della vendita dei loro beni a beneficio della
Repubblica, era stato concesso ai Gesuiti di far ritorno nei domini
della Serenissima68. Viene da chiedersi se Pesaro assistette con
maggior soddisfazione al ritorno dei Gesuiti in città oppure al trasferimento dei dipinti di Tiziano dalla chiesa gesuita di Santo Spirito,
dopo la sua soppressione, in quella nazionale della Salute alla quale,
tra l’altro, egli donò il suo trono ducale. La morte avvenuta nel 1659
impedì a Pesaro di assistere alla costruzione dei monumentali palazzi delle famiglie aggregate dei Labia e dei Grassi.
287
286 Palazzo Pesaro, Venezia, soffitto
ligneo nella stanza all’angolo sud-est
del palazzo, 1682.
236
237
287 Luca Carlevarijs, Palazzo Pesaro
sopra Canal Grande, da Fabriche
e vedute di Venezia, 1703, incisione,
213 × 301 mm (BCV St. Cicogna 1047).
*Difatti la dignità della persona deve trovare nella casa il suo
ornamento, ma non deve cercare in essa la sua prima e ultima
ragione. La casa non deve conferire decoro al padrone, bensì
il padrone alla casa.
288
1 Goldthwaite 1993; Thomson 1993, pp. 22-28, 161-163.
In generale si veda Bassi 1976; Elias 1980, pp. 31-67, Strutture
e significato delle abitazioni; Maretto 1992, pp. 190-212.
2 Howard 1975, pp. 132-146. Su palazzo Loredan (poi
Vendramin-Calergi, ora Casinò Municipale), si veda Puppi,
Olivato 1977, pp. 221-226, cat. 14; Morresi 2000, pp. 118-129.
3 Sansovino 1581, p. 382; Fortini Brown 2004, p. 41.
4 Tafuri 1985, pp. 284-286; Guerzoni 1999, p. 369, sulla
moderazione controriformistica attraverso la prudenza e la
parsimonia mediate dalla importante ma trascurata disciplina
dell’economia curtense. Burke 1974, p. 64, osservava che la
nota dominante dell’autocontrollo, il cosiddetto stile spagnolo,
esemplificato dalla frugalità, dalla serietà e dalla saggezza,
lasciò il posto alla metà del Seicento allo stile francese.
Sul lusso si veda Berry 1999; Fortini Brown 2004, p. 40, cita
Senofonte, il quale nell’Oeconomicus raccomandava che la
casa, quale simbolo più tangibile dell’identità e della continuità
della famiglia, doveva essere improntata all’equilibrio tra
comodità e decoro. Si veda anche Romano 1996.
5 Fortini Brown 2004, p. 5. Si veda anche Frigo 1985,
pp. 103-131, 133-149, in particolare p. 137, cit. di Vitruvio,
“Tre cose in ciascuna fabrica devono considerarsi, senza le
quali niuno edificio meriterà esser lodato: e queste sono l’utile,
o commodità, la perpetuità e la bellezza”, seguita da Palladio,
“a ciascun membro sarà dato luogo atto, sito accommodato,
non minore che la dignità si ricchiegga né maggiore che l’uso
si ricerchi”. Sullo splendore nascosto della sala dei banchetti
del Palazzo Ducale nel 1618 si veda Hopkins 2003, p. 402.
6 Lollin 1641, pp. 110-111; Canart 1970, pp. 553-561.
7 Cicogna 1834, IV, p. 402.
8 Palazzo Lollin: attualmente Fondazione Ugo e Olga Levi.
Attr.: Carlevarijs 1703, f. 66. Bibl.: Cicogna 1830, III, p. 403,
1834, IV, p. 159; Veludo 1847, II/2, p. 453; Zanotto 1856, p. 587;
Ricci 1857-59, p. 654; Mothes 1859-60, II, pp. 279, 283;
Fapanni 1874, pp. 15, 27; Tassini 1887, p. 347; Lorenzetti 1926,
p. 119; Fiocco 1929, p. 354; Semenzato 1954, pp. 10, 69; Bassi
1962, pp. 86-89; Cristinelli 1972, pp. 19-22; Lewis 1973a, p. 328;
Bassi 1976, pp. 104-109; Biadene 1982, p. 60; Lewis 1982, p. 24;
Puppi 1983, p. 1288 n. 69; Puppi 1983a, pp. 182-183; Frank
1988, p. 246; Lewis 1996, p. 627; Zanussi 2002, pp. 126-139
fig. 86; Frank 2004, pp. 120-122.
9 Fortini Brown 2004, pp. 125-128, 243-245. Per eruditi
e collezionisti negli anni sino al 1628 si veda Hochmann 1992.
Sui testi romani si veda Wallace-Hadrill 1988, pp. 44-45:
Catone, Agr. 3.3.; Plinio, Pan. 51.1; Varrone, RR. I. 13.6;
Cicerone, Pis. 48; Plinio, NH. XXXV.118; Cicerone, De officiis, I,
138-139. Sulla biblioteca di Lollin si veda Zorzi M. 1987, p. 339.
10 Sulla loggia demolita si veda Scamozzi 1615, VI, cap. 19,
p. 71, VIII, cap. 12, p. 311; Barbieri 1952, p. 185; Barbieri,
Beltramini 2003, p. 540.
11 Sul testamento del 25 giugno 1623, si veda ASV Notarile,
testamenti, atti Fabrizio Beacian, b. 57, n. 30, pubbl. in Puppi
1983, p. 1288; Puppi 1983a, pp. 182-183. Giovanni Giustinian“Lollin” era figlio di Francesco Giustinian e Francesca, l’unica
figlia di Giovanni Lollin: in proposito si veda Alpago-Novello
1934, pp. 199, 202, 211 che riporta il testamento di Alvise
del 9 novembre 1624 e menziona un catafalco eretto a Belluno.
ASV DP, Zustinian S. Vidal detti Lolini.
12 Bassi 1976, pp. 98-103, 124-130, 134-137, 140-145. Il palazzo
Mocenigo “Casa Vecchia” fu ricostruito all’inizio del Seicento
dal proto della famiglia Francesco Contin: Bassi 1982, p. 131.
288 Palazzo Pesaro, Venezia, facciata
laterale.
239
13 Carlevarijs 1703, f. 66, raffigura l’entrata dall’acqua a destra,
senza le aggiunte superiori successive, e gli scudi originali
del secondo piano nobile, sul significato del quale si veda
Fortini Brown 2004, p. 13.
14 Schulz 2004, pp. 90-92. Schulz 2005, pp. 403-417,
604-606.
15 Gran parte delle soluzioni compositive di Longhena
fu utilizzata da Piero Bettinelli nel 1638 per la facciata
del palazzo Tommaso Flangini sul Canal Grande a San Moisè:
si veda Bassi 1982, p. 127. Si veda anche Bassi 1990, pp. 170-174.
16 Attr.: Carlevarijs 1703, f. 97. Bibl.: Martinioni 1663, p. 393;
Moschini 1815, II/1, p. 34; Cicogna 1830, III, p. 403; Veludo
1847, II/2, p. 451; Zanotto 1856, p. 321; Ricci 1857-59, p. 654;
Mothes 1859-60, II, pp. 279, 283; Fontana 1865, pp. 305-308;
Fapanni 1874, pp. 15, 27; Tassini 1887, p. 387; Lorenzetti 1926,
p. 119; Fiocco 1929, p. 354; Semenzato 1954, pp. 10-11, 69;
Bassi 1962, pp. 136-137; Semenzato 1962, p. 190; Cristinelli
1972, pp. 75-81; Lewis 1973a, p. 328; Bassi 1976, pp. 282-285;
Biadene 1982, p. 64; Lewis 1982, p. 27; Frank 1988, p. 246;
Dario 1995, p. 169 n. 6; Lewis 1996, p. 627; Mason 1996,
pp. 76-85; Voltolina 1998, II, pp. 70-71, 199-200; Mason 1999,
pp. 71-95; Hopkins 2003, pp. 403-404.
17 ASV Notarile, testamenti, atti Fabrizio Beancian, b. 57/338,
pubblicato in Mason 1996, p. 83.
18 Il figlio di Giovanni, Andrea, che nel 1625 fu capitano
di Brescia dove commissionò il palazzo del Broletto, allevò i
due giovani pronipoti Francesco (m. 1655) e Priamo (1638-85)
che ricevettero in eredità il palazzo alla Misericorida e la villa
a Rovarè di San Biagio di Callalta vicino Treviso, realizzata da
Alfonso Moscatelli e Antonio Gaspari negli anni settanta del
Seicento; in proposito si veda appendice, p. 291 anno 1833.
19 ASV Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia,
reg. 170, cc. 23v-25r; Mason 1996, pp. 83-84.
20 Sul rinnovamento del palazzo Loredan a Santo Stefano
nel 1618, con l’aggiunta di una sala da ballo e una facciata
in marmo sul lato del campo si veda Albertini 1985, pp. 35-52;
Merkel 1985, pp. 53-71 esamina gli importanti arredi, compresi
i busti nel cortile e lo scalone, ed elenca le varie stanze, sulle
quali si veda anche Scamozzi 1615, p. 307. Longhena fu senza
dubbio influenzato dall’insolito scalone del palazzo quando
ideò quello di San Giorgio Maggiore.
21 Martinioni 1663, p. 393; Fortini Brown 2004, pp. 48-68,
evidenzia la grandiosità degli spazi esterni quali cortili
e giardini. John Dixon Hunt ha in preparazione un saggio
sui giardini veneziani.
22 Attr.: Carlevarijs 1703, f. 99. Bibl.: Moschini G.A. 1815,
1/2, p. 640; Cicogna 1830, III, p. 403; Veludo 1847, II/2, p. 454;
Ricci 1857-59, p. 654; Mothes 1859-60, II, pp. 279, 283; Fapanni
1874, pp. 15, 27; Lorenzetti 1926, pp. 119, 319; Fiocco 1929,
p. 354; Semenzato 1954, pp. 11, 69; Bassi 1962, p. 86; Cristinelli
1972, pp. 22-23; Lewis 1973a, p. 328; Bassi 1976, pp. 261-263;
Rösch-Widmann 1980; Biadene 1982, pp. 62-63; Lewis 1982,
p. 27; Frank 1988, p. 246; Magani 1989, pp. 13-18; Megna 1991,
pp. 277-278, 314; Lewis 1996, pp. 627-628; Frank 2004,
pp. 133-136.
23 ASV DP, “Widman a San Canzian”, Zuane (1571-1634)
che sposò Maria Ott ed ebbe sei figli: Z. Paolo I (1605-48),
Martino II (1609-72) contea di Ortenburgo, Lodovico I (1611-74)
contea di Ortenburgo, Bertoldo II (1613-38), Cristoforo (161570) fatto cardinale da Innocenzo X nel 1647, Davide (1619-59).
Sulla famiglia si veda Bertollo 1971; Concina, Padovan 1983;
Hunecke 1995, pp. 358, 362.
24 Cowan 1985, pp. 61-62; Hunecke 1995, pp. 357-358, da cui
è stato messo insieme un elenco dei committenti di Longhena:
famiglie veneziane cui era stata conferita la nobiltà prima
o al momento della Serrata del Maggior Consiglio: Basadonna,
Bon, Civran, Contarini, da Lezze, Marcello, Morosini, Pesaro,
Soranzo, Viaro, Zane, Giustinian; dopo la guerra di Chioggia
del 1381: Paruta, Vendramin; a seguito di annessioni del XIV
e del XV secolo: Battagia; aggregati nel 1646-69: Belloni,
Widmann; (aggregati nel 1684-1718: Rezzonico).
25 Sul testamento del 1630, si veda ASV Notarile, cancelliere
ducale Francesco Erizzo, b. 88, 1630, filza 3, “lascio un milione
e duecento mila ducati ai figlioli” [la cifra non corrisponde alla
somma documentata], con le seguenti istruzioni: “Et quando
venghi occasione, che detta casa si possi havere per prezzo
ragionevole sentirei che si comprasse”, cit. in Tassini 1879,
pp. 75-77; Bertollo 1971, pp. 1-2, 19-20.
26 Magani 1989a, pp. 11-13; Gullino 1994, pp. 427-428.
La villa e la chiesa di Bagnoli sono oggi attribuite a Gaspari;
la cappella della famiglia Widmann a San Massimo di
San Canciano è di Clemente Moli, si veda appendice, pp. 291,
292 rispettivamente anno 1929 e 1995.
27 Frank 2004, pp. 80-81.
28 I modelli di Longhena furono con tutta probabilità locali, ma
esistevano dei precedenti cinquecenteschi nell’Italia centrale:
ci limitiamo qui a ricordare il mezzanino degli Uffizi di Vasari,
a Firenze, e la sua base d’organo a Orvieto: cfr. Conforti 1993,
pp. 125-126, 160-190.
29 Cowan 1986, pp. 1-3.
30 Si veda Cowan 1986, pp. 65-67, 73.
31 Sulla famiglia Belloni di Firenze, ma originaria dell’Illiria e
con stretti legami con la curia si veda ASV DP, I, c. 453. Bortolo
prese in moglie Isabetta Rubini e il palazzo andò alla loro figlia
Laura; dopo il 1664 il palazzo fu acquistato da Lodovico
Battagia (1585-1683).
32 Guerzoni 1999, pp. 345, 360, che cita Capaccio 1620,
p. 273. Alessandri 1609, p. 89. Sigismondi 1604, p. 23.
Fraser-Jenkins 1970, pp. 162-170; Fortini Brown 2004, p. 21.
Ringrazio Guido Guerzoni per i preziosi suggerimenti.
Si veda anche le osservazioni in Botero 1598, p. 5, e l’edizione
del 1606, pp. 348-350, Della residenza della Nobiltà, in cui
si legge: “Fra l’altre cagioni, per le quali le Città d’Italia sono
per l’ordinario, maggiori […] non è di picciola importanza
questa, che in Italia i Gentilhuomini habitano nella Città […].
Hor la stanza de’ nobili nelle Città le rende più Illustri […]
perche un Barone spende molto più largamente, et per la
concorrenza, et per l’emulatione de gli altri, nella Città dove
vede, et è visto continuamente da persone honorate […]
ogn’un di loro vi fabricasse il suo palazzo, il che havendo essi
fatto l’uno à gara dell’altro, quella Città crebbe in poco tempo
grandemente […]. Et questa è la cagione, perche Venetia
crebbe notabilmente nel suo principio in poco tempo”.
33 Fortini Brown 2004, pp. 9-10, cit. Contarini 1544, il quale
anticipava anche il problema dei patrizi poveri e dei cittadini
ricchi che si sarebbe esacerbato nel XVII secolo, specialmente
dopo il 1646. Si veda Georgelin 1973, pp. 193-197; Burke 1974,
p. 102, mette in luce l’inflazione di onorificenze; Rapp 1976;
Rapp 1979, pp. 269-290; Cowan 1985, pp. 55-75; Bush 1988;
Donati 1988; Magani 1989; Raines 1991, pp. 827-847; Hunecke
1995; Sabbadini 1995, pp. 141-152, una parte del quale ha come
sottotitolo Il palazzo come simbolo di prestigio; Bellavitis A.
1996, pp. 255-278 “Mobilité sociale”: si poteva pagare per
diventare nobili, ma non si poteva comprare una carica se non
si era nobili; Frank 2002, pp. 81-87. In Quirini, Gradenigo 1761,
pp. 254-255, 258-268, 270-271, 313-316, risulta che i membri
di famiglie aggregate spesso diventavano subito cardinali –
forse dietro pagamento di una somma. Questo potrebbe
costituire un interessante campo di ricerca.
34 Cowan 1985, p. 66, che cita BMV Cod. It.VII, 2020 (=9148).
35 Cowan 1986, p. XIII; Guerzoni 1999, p. 363, osserva che
le leggi suntuarie furono approvate per impedire l’imitazione
dei comportamenti dei nobili da parte dei non nobili
(che certamente avevano i mezzi per farlo). Bacco 1856,
pp. 41-42, il quale notava che “In Venezia correva voce che
fosse più facile esser Cardinale che nobile veneziano, perché
più facile è riuscir cardinale che Papa, e per essere nobile
veneziano era necessario essere nipote del Papa”. Si veda
anche Romei 1591, p. 259 il quale metteva in luce il problema
opposto dei nobili poveri; Collurafi ed. 1633, cap. XVIII, “Delle
ricchezze necessarie al nobile”, pp. 109-115, in particolare
p. 109: “la povertà, come dice Plutarco, è a gli huomini un peso
grave, e nelle Republiche un morbo pericoloso [… Aristotele]
volle nell’huomo Politico […] le ricchezze […] à sostener con
240
honorevolezza tale i carichi, che nella persona privata la
dignità publica risplenda”; Cowan 1982, pp. 147-160; Guerzoni
1999, p. 363.
36 Attr.: Carlevarijs 1703. Bibl.: Martinioni 1663, p. 395;
Moschini G.A. 1815, II/2, p. 552; Cicogna 1834, III, p. 403;
Veludo 1847, II/2, p. 453; Zanotto 1856, p. 608; Ricci 1857-59,
p. 654; Mothes 1859-60, II, pp. 279, 282; Fapanni 1874, pp. 15,
27; Ebe 1901, p. 159; Lorenzetti 1926, pp. 119, 618; Fiocco 1929,
p. 354; Semenzato 1954, pp. 13, 70; Lewis 1973a, pp. 328-329;
Bassi 1976, p. 195; Biadene 1982, pp. 68-69; Lewis 1996,
pp. 628-629; Chiappini di Sorio 1999, p. 276; Frank 2004,
pp. 222-226.
37 Frank 2002, pp. 86-87. Nel 1650 il palazzo fu affittato
all’ambasciatore austriaco, il conte Umberto Czernin. Si veda
Martinioni 1663, p. 395.
38 Frank 1995, pp. 128-133, osserva giustamente
la derivazione di questo tipo di facciata dal palazzo Corner
a San Polo di Sanmicheli. Davies, Hemsoll 2004, pp. 203-210.
39 Attr.: Carlevarijs 1703, f. 98. Bibl.: Martinioni 1663, p. 391;
Tassini 1879, p. 170; Fiocco 1929, p. 354; Semenzato 1954,
pp. 11-12, 70; Semenzato 1962, p. 190; Bassi 1964a, pp. 31-39;
Lewis 1973a, p. 328; Bassi 1976, pp. 268-275; Biadene 1982,
pp. 65-67; Lewis 1982, p. 29; Zorzi A. 1984, pp. 300-302; Lewis
1996, p. 629; Frank 2004, pp. 319-324.
40 Martinioni 1663, p. 391. Sui pavimenti si veda Wolters 2000,
pp. 204-220.
41 Il doppio ingresso è simile a quello del vicino palazzo
Ruzzini a Santa Maria Formosa di Manopola, risalente all’inizio
del Seicento. Carlevarijs 1703, f. 99; Bassi 1962, pp. 55-56.
42 Sulla biblioteca durante la residenza di Giovanni (1633-82)
si veda Spon, Wheler 1678, p. 74; Moschini G.A. 1815, I, p. 639;
Tassini 1885, p. 126; Levi 1900, II, p. 227; Zorzi M. 1987, p. 342.
Raines 1998, p. 67. L’Accademia degli Industriosi fu insediata
nel palazzo alla fine del Seicento, e nel dicembre del 1709
Federico IV di Danimarca fu ospite d’onore a un ballo che
si diede nei suoi saloni. La descrizione di Pietro Gradenigo
(1695-1776) dell’ottobre 1759 è citata in Livan 1942, p. 43:
“Casa veramente bella, grande, maestosa, e comoda di pietre
cotte ben fasciate da marmi bianchi dove stava un giardino,
cambiato in spazioso cortile, cinto da alte, e magnifiche
muraglie laterali con ordine continuo di stanze soffittate
simili alle sale con eccellenti pitture”. Per il collezionismo di
oggetti esotici si veda il saggio pionieristico di Pomian 1982,
pp. 338-359, su Venezia si veda Pomian 1989.
43 Savini-Branca 1964, p. 118; Bassi 1976, p. 196; Raines 1998,
pp. 63-65 nn. 10-11.
44 Scamozzi 1615, III, p. 243; Clément 1635, p. 54; Bassi 1963,
pp. 58-59, e nn. 15-18. Raines 1998, pp. 63-65. Per la biblioteca
di palazzo Zane si veda Raines 1998, pp. 65-66; Zorzi M. 2001,
p. 345.
45 BCV, mss PD 1107, 1121, in particolare 1120, cc. 45, 47 con
la gara d’appalto autografa, “Laus Deo 1665 adi 20 Zugno”.
Pubbl. per la prima volta in Bassi 1961, pp. 155-164. Attr.:
Carlevarijs 1703, ff. 102-103. Bibl.: Lorenzetti 1926, pp. 119,
576-577; Fiocco 1929, p. 354; Semenzato 1954, pp. 12-13; Bassi
1961, pp. 155-164; Bassi 1962, pp. 141-144; Semenzato 1962,
p. 190; Lewis 1973a, p. 329; Bassi 1976, pp. 317-321; Biadene
1982, pp. 86-90; Lewis 1982, p. 24; Lewis 1996, p. 630; Bacchi
1999a, p. 25, osserva che Zane commissionò a Vittoria l’altare
di famiglia ai Frari; Frank 2004, pp. 343-398.
46 Zucchetta 1988, pp. 25-43; Frank 2002, pp. 85-87.
47 Attr.: Coronelli 1710. Bibl. Freschot 1707, III, p. 33: “De nos
jours Philippe Bon revêtu de la pourpre de Procurateur de
St Marc a fait bâtir le beau palais de St Thomas, qui fait une si
riche vue sur le grand Canal, et qu’on puet asseurer être digne
du sejour de quelque grand Prince que ce soit” (Attualmente
Philippe Bon, procuratore di San Marco, ha inaugurato il bel
palazzo di S. Thomas, che offre una veduta così splendida
sul Canal Grande, e si può affermare sia degno di ospitare
un grande principe)”. Moschini G.A. 1815, II/2, p. 535. Cicogna
1830, III, p. 403; Veludo 1847, II/2, p. 452; Zanotto 1856, p. 588;
Mothes 1859-60, II, pp. 279, 284; Fapanni 1874, pp. 15-16, 27;
Fiocco 1929, p. 354; Lorenzetti 1936; Semenzato 1954, pp. 3741, 69; Bassi 1962, pp. 146-154. Semenzato 1962, pp. 196-197;
Cristinelli 1972, pp. 102-113; Lewis 1973a, p. 329; Bassi 1976,
pp. 114-122; Bellavitis 1982, pp. 183-188; Biadene 1982, pp. 9196, 183-188; Lewis 1982, p. 27; Lewis 1996, p. 629; Pavanello
1998, pp. 87-111; Frank 2004, pp. 242-249. Importanti incisioni
sono quelle di Vincenzo Coronelli, Palazzo Bon a San Barnaba,
183 × 256 mm, BCV St. Cicogna 946; Vincenzo Coronelli,
Palazzo Bon a San Barnaba, come fu proposto, 256 × 183 mm,
BCV St. Cicogna 947. Quest’ultima incisione è completamente
fuorviante in quanto mostra un ingresso principale con quattro
archi al pianterreno, una soluzione assolutamente aliena
ai principi longheniani.
48 Lollin 1854.
49 ASV Giudici del piovego, misure, b. 20, 31 maggio 1649,
pubbl. in Bellavitis 1982, p. 187 nn. 4-9. Filippo di Ottaviano
nacque il 30 maggio; ASV, DP, II, c. 81. Egli sposò nel 1649
Francesca Soranzo, e assai più tardi, nel novembre del 1680,
fu eletto procuratore de Citra. Al periodo della peste del 165657 risale un suo manoscritto, Registro di lettere dell’offizio
di sanità di Venezia: risposte et litere scrite nel regimento
dell’Illustrissimo Signor Filippo Bon dignitissimo Podestà
di Chioza 1656-57, British Library Add Ms 10779. Bon ebbe
quattro figli: Alessandro (1654-1707), Giacomo (1653-1744),
Piero (1651-84) e Foscarina. Alvise Lollin scrisse una biografia
del padre Ottaviano: si veda Firpo 1978, IX, p. 222. Si veda
anche Mariacher 1964, pp. 4-29; McAndrew 1977, pp. 8-16.
50 Bellavitis 1982, p. 188 n. 16. Il documento fu scritto sei anni
dopo che Filippo aveva rivestito la sua prima carica di podestà
a Chioggia nel 1656-57, essendo trent’anni l’età media dei
giovani patrizi che ricoprivano tale ufficio.
51 BCV, mss. PD. C2227/4, 2219/2, pubbl. in Bellavitis 1982,
p. 188 nn. 21-22.
52 Il disegno, BCV RG III, 40, Pianta Ca’ Bon Fazia(ta), penna,
inchiostro marrone, acquerellature grigio scuro, matita,
500 × 750 mm, non è di Longhena, contrariamente all’ipotesi
di Frank 2004, p. 245. Longhena si rivolse a Gaspari
in quanto questi era in grado di eseguire accurati disegni di
presentazione. Nel 1700 Francesco IV Manin cercò di comprare
per 70.000 ducati il palazzo da Filippo Bon, ma l’offerta fu
rifiutata e furono i suoi eredi a venderlo nel 1751 a Giambattista
Rezzonico, che lo fece completare nel 1751-58 da Giorgio
Massari, non senza incidenti: ad esempio, il 5 agosto 1752
“Alquanti Muratori… modellarono un’erta di finestra nella più
alta parte […] caderono dall’alto al basso in numero di cinque
de quali, chi subito, chi dopo alquante ore morirono”, Livan
1942, p. 7; Massari 1971, pp. 100-107; Megna 1991, p. 311 n. 275;
Frank 1996, p. 60. La famiglia Rezzonico acquistò il patriziato
nel 1687, ASV, DP, I, f. 468; Aurelio (1692-1759) divenne papa
col nome di Clemente XIII nel 1758. Sulla famiglia si veda
di recente Pavanello 1998, pp. 87-111.
53 Romanelli 1997, p. 488.
54 Lewis 1982, p. 24; Sabbadini 1995, pp. 155-156 n. 95.
55 Favetta 2000, pp. 61-62, 64, che cita l’Archivio Municipale
di Venezia, fondo Bevilacqua La Masa (originariamente
nell’Archivio Pesaro), C/I/591/I, fasc. 1, pp. 1-4, “Essendo
dacordo li mag.ci messe Alexandro Contarini […] et il mag.co
messer Leonardo da ca da Pesaro […] che la casa da statio de
le do torre in contrà de San Stai sul Canal grando, acquistata
già un anno in circa […] sia et esser se intende da questo
giorno adretto del preditto mag.co m. Leonardo, cum tutte
le sue habentie et pertinentie et con tutti li modi et condition
et pretio cha la habuda”; l’acquisto è documentato nell’atto
di vendita del 1558 e probabilmente fu pagato negli anni
successivi.
56 Favetta 2000, p. 65, che cita l’Archivio Municipale
di Venezia, fondo Bevilacqua La Masa, C/I/591/I, fasc. 3,
pp. 1-10, “per pretio et mercato de ducati quatordese mille”.
Su Francesco Pesaro si veda Firpo 1978-79, IX, p. 273 dove è
ricordata la sua presenza in Spagna documentata nella
relazione di Ottavio Bon del 1602. Favetta osserva che
l’insediamento nella casa spesso avveniva prima che fosse
firmato il contratto, sette anni nel caso del primo palazzo, forse
uno o due per la casa acquistata dai Morosini nel 1616, e un
paio d’anni anche nel caso della proprietà Trevisan acquistata
da Pesaro nel 1629.
57 Favetta 2000, p. 66, che cita l’Archivio Municipale
di Venezia, fondo Bevilacqua La Masa, C/I/591/I, fasc. 4.
58 Favetta 2000, p. 67, che cita ASV Archivio Pesaro, b. 86,
fasc. 122. Mariacher 1951, p. 2 n. 4 “proprietà di case numero
tre, con sua corte, pozzo, magazeni […] e con suo horto sive
terra vacua”.
59 Bassi 1959, p. 240; Burke 1974, pp. 11-15; Favetta 2000,
p. 63. Questo ramo della famiglia era chiamato “Carro”, l’attrezzo
che serviva a traghettare le imbarcazioni al di sopra dell’argine
alzato tra il Brenta e la Laguna presso la località di Fusina.
60 Cozzi 1992, pp. 108, 122-124; Signorotto 1994, pp. 415-417.
Giovanni Pesaro fu altresì a Roma in qualità di ambasciatore
straordinario nel 1655.
61 Mariacher 1951, p. 2. Martinioni 1663, p. 395: ciò indica
che il blocco posteriore e il cortile del palazzo furono costruiti
per primi, e che solo dopo la morte del doge Pesaro nel 1659
e la pubblicazione del suo testamento che forniva i fondi
necessari per completare l’edificio i nipoti Vettor e Leonardo
furono in condizione di continuare i lavori. Si veda Ivanovich
1681, p. 127; Carlevarijs 1703, f. 79; Freschot 1707, pp. 393-394,
descriveva nel seguente modo Leonardo Pesaro: “Eroe, che
nato per cose grandi doppo alzata alla memoria del suo gran
Zio la mole del mentovato Mausoleo, applicò la vastità de’
pensieri à quella già cresciuta d’un Palagio, che superando
in moltiplicità, et isquisitezza di lavoro de’ marmi, il disegno
de più vaghi, che si ammirino in questa Reggia, finito lasciara
a’ secoli venturi lo stupore del maraviglioso suo edificio,
l’imponente rossore di giungere à più sublime disegno”;
Coronelli 1710; Visentini 1771, pp. 113-115; Moschini G.A. 1815,
II/2, p. 550; Cicogna 1830, III, p. 403; Veludo 1847, II/2, p. 452;
Zanotto 1856, p. 606; Mothes 1859-60, II, pp. 279, 283-284;
Fapanni 1884, p. 27; Fiocco 1925; Fiocco 1929, p. 354;
Mariacher 1951, pp. 1-7; Badile 1952, p. 166; Semenzato 1954,
pp. 37-41, 69; Bassi 1957, pp. 2-21; Chierici 1957, pp. 360-363;
Bassi 1959, pp. 204-262; Bassi 1962, pp. 124-136; Semenzato
1962, pp. 196-197; Lewis 1973a, p. 329; Bassi 1976, pp. 174-188,
e p. 98 dove parla delle logge sovrapposte di Scamozzi
a palazzo Contarini degli Scrigni secondo il modello delle
Procuratie; Bassi 1981, pp. 165-177; Biadene 1982, pp. 70-85.
Pirazzoli 1988, pp. 129-136. Boscarino 1982, pp. 21-27. Lewis
1996, p. 629; Favetta 2000; Fortini Brown 2004, p. 27;
Frank 2004, pp. 250-261.
62 Museo Civico di Vicenza, D.568. Biadene 1983, pp. 179-183,
nonché appendice 12, p. 314; Lewis 1996, p. 629; Frank 2004,
pp. 231-234. Date le enormi spese comportate dal palazzo
di Venezia, probabilmente i Pesaro non intrapresero in
quel periodo alcun progetto per una villa importante.
63 ASV Archivio Privato Pesaro, b. 1. Bassi 1976, p. 179; Favetta
2000, pp. 68-70, in cui è citato l’inventario in ASV Giudici
di Petizion, Inventari, B 372/3/n. 18 del 28 maggio 1664,
“Vettor e Francesco Pesaro, denuncia dei beni appartenuti”.
Martinioni 1663, p. 375; Ivanovich 1681, p. 127 lettera 75;
Fontana G. 1865, pp. 186-189. Nel 1679 fu inserito sulla facciata
il cartello di un putto con questa data al primo piano nobile,
e sul soffitto della sala interna venne inscritto il nome
di Leonardo Pesaro e la data 1682, anno in cui morirono sia
il committente che Longhena.
64 Marchi G.P. 1980, p. 10, che cita un manoscritto a Verona;
Romanelli 1982 p. 35; Frank 1988, pp. 242-243; Maretto 1992,
pp. 142 sgg.
65 L’argomento è trattato in dettaglio da Frank 2004,
pp. 85-87.
66 Howard 1994-95, pp. 66-74.
241
67 Lewis 1996, pp. 628-629.
68 Corner 1758, pp. 524-525. Sulla presenza dei Gesuiti a
Venezia si veda Martinioni 1663, pp. 275, 742-743; Tramontin
1990, p. 97; Gullino 1994, pp. 421-434; Signorotto 1994,
pp. 385-420; Zanardi 1994a, pp. 89-179. L’accordo con il papa
fu approvato il 28 aprile 1656; Bertoli 1992, p. 299; Spinelli
1992, pp. 184-185; Gullino 1994, pp. 421-434. Il voltafaccia
di Pesaro, descritto da Frank 2004, pp. 15-17, fu reale o fu
solo una finzione, considerato il ruolo cruciale che egli ebbe
nell’organizzare il ritorno dei Gesuiti nel 1656? Pesaro lasciò
il suo trono ducale alla chiesa della Salute: si veda Piva 1930,
p. 98.
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Andrew Hopkins Baldassare Longhena 1597-1682