VI
GIOVEDÌ 22 GENNAIO 2015
GustaLO
il Cittadino
L’OPERA
NELL’ICONOGRAFIA
A Casale il falò
di Sant’Antonio
risplende anche
dentro la chiesa
COME NACQUE
LA TRADIZIONE
DEL MAIALINO
Nel tempio del rione che pochi giorni fa ha
festeggiato il patrono, la pala 600esca del Nuvolone
raffigura l’abate insieme a San Paolo eremita
n Sono ancora calde le ceneri
dei falò che si accendono ogni 17
gennaio in onore di Sant’Antonio
abate. È un rito di transizione di
origine antichissime e che il cristianesimo ha fatto suo, incorporandolo nella propria, rivoluzionaria, lettura del tempo. La
tradizione ha sempre legato
Sant’Antonio, vissuto nel deserto egiziano nel IV secolo, al fuoco: in uno dei racconti della sua
vita lo si vede addirittura recarsi
all’inferno per contendere al demonio le anime dei peccatori.
Nei dipinti e nelle statue una
fiamma arde ai suoi piedi o sopra
il libro che tiene tra le mani:
«Chiedete con cuore sincero –
scrisse il santo ai suoi discepoli –
quel grande Spirito di fuoco che
io stesso ho ricevuto, ed esso vi
sarà dato».
Un festoso falò brucia ogni 17
gennaio davanti alla chiesa di
Sant’Antonio abate a Casalpusterlengo. È uno dei molti gioielli
nati nel nostro territorio tra Sei e
Settecento (la decorano integralmente affreschi con finte architetture realizzate dal cremonese Giuseppe Zani nel 1752).
Nella parete dell’abside fa bella
mostra di sé una grande pala in
cui campeggiano la Madonna col
bambino e i santi Antonio abate
(a sinistra, riconoscibile dal saio
con il segno T, il tau, l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico e simbolo di eternità) e Paolo eremita.
In basso a sinistra la data: 1646.
È un «fresco capolavoro barocco», come l’ha definito Federico
Cavalieri confermando l’attribuzione, formulata da Luisella
Micrani, a Carlo Francesco Nuvolone. Di questo artista, protagonista del Seicento milanese,
ritroviamo qui al suo meglio la
pittura soffice e vaporosa così
come la dolcezza e la facilità
espressiva. Non mancano i contrasti: tutta l’immagine è dominata da toni di terra (una varietà
di marroni, gialli spenti, grigi)
accesi da improvvisi colpi di luce; un’atmosfera drammatica
squarciata, e allo stesso tempo
rasserenata, dall’apparizione
della Vergine, con il blu e il rosso
brillantissimi delle vesti.
I due santi sono accostati non
solo perché erano grandi amici
(e anche la liturgia li ricorda ravvicinati: la festa del primo è il 15
gennaio) e perché vissero en-
AI PIEDI DI MARIA Tra i due santi, immancabile, il fuoco di Sant’Antonio
trambi nel deserto della Tebaide.
La ragione simbolica è più profonda: Paolo è considerato il primo eremita della tradizione cristiana mentre Antonio, anch’egli
eremita, è il fondatore del primo
monastero. A essi, dunque, risalgono le due vie della vita cristiana totalmente dedicata a Dio.
Nel varco di cielo cupo che si
apre tra i due, nella verticale tra
il vivo fuocherello (eccolo, immancabile) e la mano di Paolo
c’è una piccola sagoma nera. È
un uccello in volo. È decisamente più riconoscibile nel piccolo
affresco che il cremasco Gian
Giacomo Barbelli ha realizzato
negli anni ‘40 del Seicento nella
cappella sinistra. Qui vediamo
un corvo portare ai due un tozzo
di pane. L’episodio è raccontato
da San Girolamo nella Vita sancti
Pauliprimi eremitae. Fin da giovane Paolo si ritirò infatti in una
grotta nel deserto nei pressi di
una fonte e nutrendosi solo di
datteri fino a quando, all’età di
circa 43 anni, un corvo cominciò
a portargli ogni giorno un mezzo
pane. Segno e ricordo che la
Provvidenza è sempre sposa
della sobrietà.
Alessandro Beltrami
n “Sant’Antoni del nimàl” lo
chiama la nostra tradizione,
per essere certa di distinguere Antonio abate dall’altro
omononimo, e potentissimo
taumaturgo, da Padova. Un
porcellino è infatti il simbolo
più frequente, soprattutto
nelle statue (nel nostro dipinto, invece, non c’è). Eppure
nessun maialino appare nelle
vite antiche a fare compagnia
ad Antonio nel deserto.
Da dove arriva allora questa
simpatica presenza? Quando
nel 561 fu scoperto il suo sepolcro, le reliquie cominciarono un lungo viaggio che da
Alessandria le condusse nell’XI secolo in Francia, in un villaggio dell’Isére che oggi porta il nome di Saint-Antoinel’Abbaye. Alla chiesa di
questo piccolo centro confluivano folle di malati colpiti
dall’ergotismo canceroso, vale
a dire il “fuoco di Sant’Antonio”. Nacque quindi sul posto
un ospedale, gestito dai Canonici regolari di Sant’Antonio di
Vienne. A quest’ordine ospedaliero e monastico-militare,
che in seguito si diffuse in
tutta Europa ma anche a Cipro, Costantinopoli, Atene e
persino in Etiopia, il Papa accordò il privilegio di allevare
maiali, il cui grasso veniva
usato proprio per curare l’ergotismo.
Fu dunque la religiosità popolare ad associare il maiale all’eremita eremita egiziano.
Che di lì a breve diventò il
santo patrono dei maiali e per
estensione di tutti gli animali
domestici e della stalla. In una
terra a forte vocazione agricola e di allevamento come
quella lodigiana il successo
non poteva che essere assicurato.
A. B.
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