Alessandro Savorana
Dottore commercialista in Milano
La Giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee
in materia di imposizione diretta. (*)
Premessa – 1. Il ruolo della C.G.C.E. : (a) competenze e funzioni; (b) i giudizi in materia
di inadempimento del trattato; (c) le questioni pregiudiziali e gli effetti della sentenza. 2.
I principi sanciti dalla corte in materia di tassazione diretta; (a) il rispetto del Trattato e
delle libertà fondamentali; (b) i limiti alla difesa della coerenza del sistema fiscale e al
rischio di evasione fiscale. 3. La libertà di stabilimento: il richiamo alle sentenze Centros
e Überseering 4. Il Trasferimento della sede. 5. Breve disamina di alcuni casi affrontati
dalla Corte. 6 Conclusioni.
Premessa
Particolare interesse ha destato il richiamo ai principi e agli orientamenti della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee, da parte della Commissione UE nella Comunicazione1
del 23/10/2001 al Parlamento e al Comitato Economico e Sociale, documento ove si
delinea la strategia futura per l’introduzione di una base imponibile consolidata per le
attività di dimensione UE delle società.
Nel richiamare lo studio sulla "Tassazione delle società nel mercato interno" 2 , la
Commissione delinea la strategia necessaria per raggiungere l’obiettivo di una tassazione
uniforme, individuando, tra le misure a breve termine (misure mirate), l’elaborazione
degli orientamenti delle più importanti sentenze della C.G.C.E. e il loro
coordinamento, con appropriate comunicazioni della Commissione agli Stati membri,
sulle implicazioni più significative e, naturalmente, per la loro applicazione.
La Commissione ritiene, infatti, che la segnalazione delle sentenze della Corte in materia
di imposizione diretta, sarebbe utile non solo agli Stati membri, ma anche alle imprese e
ai tribunali nazionali, favorendo il rispetto del trattato e contribuendo significativamente
alla rimozione degli ostacoli fiscali nel mercato interno.
(*)
Testo dell’intervento tenuto in occasione del Seminario Italo-Tedesco “Verso una disciplina Europea
del diritto societario e tributario” – Gardone Riviera (BS) 17-18 Ottobre 2003. L’Autore è il consigliere
delegato dell’area “Normative Comunitarie” dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano.
1
Comunicazione Com. (2001) n. 582 , “Verso un mercato interno senza ostacoli fiscali”.
I due documenti (Comunicazione 582 e Studio), assolvono insieme il mandato conferito alla
Commissione dal Consiglio Ecofin nel luglio 1999, al fine di analizzare l'impatto delle differenze tra i
livelli effettivi di tassazione delle imprese negli Stati membri sulla localizzazione delle attività economiche
e degli investimenti, nonché l'incidenza delle disposizioni fiscali che costituiscono ostacoli alle attività
economiche transfrontaliere nel mercato interno e d'individuare i possibili rimedi.
2
1
D’altra parte, come emerge dallo studio, in assenza di soluzioni politiche, i contribuenti
sono stati costretti ad adire le vie legali per superare norme discriminatorie e altri ostacoli,
ed anche i giudici nazionali sono sempre più chiamati a pronunciarsi in materia fiscale.
La necessità di coordinamento è avvertita proprio perché, allo stato attuale, l’ampia
giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee (C.G.C.E.) sulla
compatibilità delle disposizioni fiscali nazionali con il trattato, non è stata sufficiente a
rimuovere le barriere impositive all'attività intracomunitaria, sia delle imprese sia delle
persone fisiche.
Inoltre, la Corte si pronuncia sui casi specifici ad essa sottoposti di volta in volta e le
sentenze possono quindi riguardare soltanto alcuni aspetti di una questione più generale;
la loro esecuzione spetta poi agli Stati membri, i quali spesso non ne traggono le
conseguenze che ne derivano.
La proposta della Commissione contiene dunque un forte segnale, in quanto sottolinea e
richiama gli Stati membri ad un puntuale rispetto delle statuizioni della Corte, nella
considerazione che per raggiungere gli obiettivi posti dal Trattato occorre rispettarne i
principi che vi sono statuiti, prevalendo sugli interessi (ed egoismi) dei singoli Stati.
E d’altra parte, l’importanza della Corte di giustizia è stata notevolissima, non soltanto
per l’interpretazione ma anche per l’evoluzione del diritto comunitario e per la
concezione stessa della Comunità.
Nell’inerzia delle istituzioni comunitarie (riconducibile al disinteresse o addirittura
all’ostilità degli Stati membri per la Comunità da essi stessi creata) durata per molto
tempo, la Corte ha svolto un ruolo di «supplenza normativa».
Tra le sentenze con cui la Corte ha fatto progredire l’integrazione comunitaria ricordo
quelle nelle quali ha statuito la diretta riferibilità di norme del Trattato alle situazioni
soggettive di individui o nelle quali ha proclamato la prevalenza e l’autonomia
dell’ordinamento comunitario 3 , nonché quelle con le quali ha condotto la lotta alle
«misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative» aprendo la strada ad una
nuova concezione della Comunità sanzionata poi dall’Atto unico europeo4
In altre pronunce, altrettanto importanti, la Corte ha energicamente riservato alla propria
competenza il potere di dichiarare l’invalidità degli atti comunitari, ha imposto agli Stati
di accordare misure cautelari per proteggere un diritto di origine comunitaria, o ha posto
a carico dello Stato membro, che aveva omesso di recepire una direttiva, la responsabilità
patrimoniale per i danni subiti dai privati.
3
Per una ricostruzione della prevalenza del diritto comunitario sancita dalla Corte, si veda l’articolo
apparso sulla Rivista dei Dottori Commercialisti, n° 5 Settembre - Ottobre 1996, Ed. Giuffrè, pag. 865 e
seguenti, a cura della Commissione Normative Comunitarie dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di
Milano.
4
Il principio per cui uno Stato membro non può impedire l’importazione di beni legalmente posti in vendita
in altro Stato membro anche se non sono conformi alla propria legislazione.
2
Lo sviluppo del mercato unico europeo non è dipeso, dunque, soltanto dalla volontà degli
Stati UE o da illustri politici che intravedevano l’importanza di una Europa allargata o
comunque senza confini; alla sua costruzione ha contribuito, e non poco, la Corte che,
custode dell’interpretazione del Trattato, ha abbattuto le resistenze che si frapponevano al
suo progresso.
Pur rimanendo nel tema assegnato, è comunque opportuno delineare brevemente il ruolo
assegnato dal Trattato 5 alla C.G.C.E., per l’importanza che l’istituzione assume nel
contesto generale, con una particolare analisi del ricorso pregiudiziale, strumento
principale utilizzato dai singoli per ricorrere contro le disposizione normative degli Stati,
incompatibili o comunque non rispondenti ai principi comunitari, ed anche perché le
sentenze della Corte in materia di fiscalità diretta traggono la loro origine proprio da
questioni pregiudiziali sottoposte al suo esame6.
1. Il ruolo della C.G.C.E.
a) Competenze e funzioni
Le competenze della Corte di giustizia delle Comunità europee rendono possibile il
controllo sulla legalità degli atti comunitari o sull’esecuzione da parte degli Stati membri
dei loro obblighi discendenti dalla partecipazione al sistema comunitario: attuano, in
sostanza, un controllo giudiziario sull’esercizio dei poteri delle istituzioni
comunitarie7.
Ciò avviene nel quadro e con i limiti delle competenze attribuite alla Corte.
Secondo l’art. 220 (ex 164) “la Corte assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e
nell’applicazione del Trattato”.
Questa norma si limita a caratterizzare la funzione della Corte, ma non definisce il suo
potere di giurisdizione.
La Corte non è una giurisdizione di tipo federale gerarchicamente sovrapposta alle
giurisdizioni degli Stati membri ed avente tra i suoi compiti quello di assicurare, in caso
di conflitto, il primato del diritto federale sul diritto degli Stati membri: il compito della
5
Ogni riferimento è al Trattato CE sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957, modificato dal Trattato Unico
Europeo di Maastricht del 7 febbraio 1992 e dal Trattato di Amsterdam del 6 luglio 1998.
6
Per una completa e più approfondita disamina sul Diritto Comunitario, segnalo l’esauriente testo in
dottrina “Manuale di diritto dell’Unione Europea” del Prof. Tito Ballarino, anno 2001 VI ed. - Cedam.
7
La problematica presenta peraltro anche un altro aspetto di carattere soggettivo: la protezione degli
individui contro la violazione del diritto comunitario da parte degli Stati membri. A partire da un certo
periodo la Corte ha fatto proprio il principio della necessaria protezione degli individui contro qualunque
violazione del diritto comunitario: quindi anche contro le violazioni imputabili agli Stati. Nella sentenza 3XII-1992, causa C-97/91 (Oleificio Borelli) la Corte afferma: «…………. l’esigenza di un sindacato
giurisdizionale di qualsiasi decisione di un’autorità nazionale costituisce un principio generale di diritto
comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che è stato sancito dagli
artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
3
Corte si attua attraverso procedure legali, ben definite nei loro caratteri, come pure nella
individuazione dei soggetti legittimati a proporle, entro le quali devono inquadrarsi tutte
le azioni giudiziarie che si vogliono intentare.
Il giudice comune del diritto comunitario, dato l’effetto diretto a questo riconosciuto, è il
giudice nazionale. Per effetto della separazione tra ordinamento comunitario e
ordinamento nazionale, le sue pronunce sono sottratte al controllo del giudice
comunitario, restando affidato il coordinamento tra i due ordinamenti all’istituto del
rinvio pregiudiziale.
Le competenze della Corte sono obbligatorie per il solo fatto dell’entrata in vigore dei
Trattati e non vi è bisogno, come avviene per le altre giurisdizioni internazionali, di
un’accettazione da parte degli Stati.
Occorre nel medesimo tempo sottolineare che la Corte non è un tribunale arbitrale o una
giurisdizione internazionale le cui pronunce hanno effetto soltanto sul piano del diritto
internazionale pubblico: le decisioni della Corte comunitaria si inseriscono nel diritto
comunitario che è pienamente efficace all’interno degli Stati membri; se pronunciate nei
confronti di privati, esse hanno effetto esecutivo.
Oltre all’art. 220, vi sono nel Trattato CE le seguenti prescrizioni di carattere generale:
•
•
•
l’art. 240 (ex 183) per il quale «fatte salve le competenze attribuite alla Corte di
giustizia dal presente trattato, le controversie nelle quali la Comunità sia parte non
sono, per tale motivo, sottratte alla competenza delle giurisdizioni nazionali»;
l’art. 292 (ex 219) per cui «gli Stati membri s’impegnano a non sottoporre una
controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione del presente trattato ad
un modo di composizione diverso da quelli previsti dal Trattato stesso»
e l’art. 10 (ex 5) che stabilisce l’obbligo di leale cooperazione.
All’obbligo di leale cooperazione dell’art. 10 («Gli Stati membri adottano tutte le misure
di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi
derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della
Comunità»), la Corte di giustizia ha fatto spesso ricorso, particolarmente nella sua
giurisprudenza più recente, per garantire i diritti dei singoli “nascenti dal diritto
comunitario”.
Funzione primaria della Corte, è quella di :
•
•
8
decidere le cause ad essa sottoposte applicando il diritto comunitario (trattati e
diritto “derivato”8);
esercitare il controllo di legittimità sugli atti comunitari.
Regolamenti, direttive e decisioni ex art. 249 (ex. 189), nonché le sentenze della C.G.C.E.
4
Merita peraltro attenzione l’art. 230 (ex 173), 2° comma, laddove prevede che il controllo
di legittimità esercitato dalla Corte sugli atti comunitari riguarda i casi di violazione del
Trattato ed anche «di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione».
b) Giudizi in materia di inadempimento del Trattato (ricorso per infrazione)
Nel contesto delle decisioni riservate alla Corte, di rilievo appaiono i giudizi per
inadempimento, che possono essere promossi contro uno Stato inadempiente dagli altri
Stati contraenti e dalla Commissione.
La disciplina dei ricorsi riguardanti una violazione del Trattato o del diritto derivato è
stabilita agli articoli 226 e 227 del Trattato CE.9
Nei giudizi instaurati ai sensi dei predetti articoli, la Corte di giustizia è chiamata a
pronunziarsi sull’esistenza di una violazione del Trattato da parte dello Stato convenuto,
su controversie che hanno luogo nell’ambito dell’ordinamento della Comunità ed
attengono a norme comunitarie. Affinché uno Stato possa agire, non è necessario che
abbia subito la lesione di un proprio interesse materiale: basta che esso “reputi che un
altro Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del
presente trattato”.
Ai sensi dell’art. 228 (ex 171), quando la Corte di giustizia riconosce che uno Stato
membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del Trattato, lo
stesso Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta.
La Commissione “vigila” affinché lo Stato inadempiente adotti i provvedimenti sanciti
dalla Corte; infatti, se lo Stato membro non si conforma ai precetti della Corte, la
Commissione formula un parere motivato che precisa i punti sui quali lo Stato non si è
adeguato alla sentenza.
La Commissione, quindi, assegna un termine entro il quale lo Stato dovrà adempiere, e se
allo scadere non ha adottato i provvedimenti prescritti, la Commissione può adire
9
Articolo 226 (ex 169)
La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui
incombenti in virtù del presente Trattato, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato
in condizioni di presentare le sue osservazioni.
Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può
adire la Corte di giustizia.
Articolo 227 (ex 170)
Ciascuno degli Stati membri può adire la Corte di giustizia, quando reputi che un altro Stato membro ha
mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente Trattato.
Uno Stato membro, prima di proporre contro un altro Stato membro un ricorso fondato su una pretesa
violazione degli obblighi che a quest’ultimo incombono in virtù del presente Trattato, deve rivolgersi alla
Commissione.
La Commissione emette un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano posti in condizione di
presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali.
Qualora la Commissione non abbia formulato il parere nel termine di tre mesi dalla domanda, la
mancanza del parere non osta alla facoltà di ricorso alla Corte di giustizia.
5
nuovamente alla Corte di giustizia, richiedendo che lo Stato sia sanzionato a pagare una
somma forfettaria di denaro, o di una penalità, adeguata alle circostanze. La C.G.C.E.,
qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da
essa pronunciata, può comminargli, determinandola, la sanzione proposta dalla
Commissione.
c) Le questioni pregiudiziali e gli effetti della sentenza.
Tralasciando la giurisdizione di legittimità (ricorsi di annullamento) e i ricorsi in carenza,
affronto il tema delle decisioni adottate dalla Corte sui ricorsi pregiudiziali, numerose e
importanti in quanto generalmente riguardano le controversie instaurate dai singoli contro
il proprio Stato CE, per violazione dei diritti sanciti dal diritto comunitario primario e
derivato10.
Nel testo leggermente modificato dal Trattato di Amsterdam, la norma CE relativa al
rinvio pregiudiziale, art. 234 (ex 177), stabilisce:
La Corte di giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale:
a) sull’interpretazione del presente Trattato
b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e
della BCE
c) sull’interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto del Consiglio, quando
sia previsto dagli statuti stessi.
Quando una questione del genere è sollevata dinanzi a una giurisdizione di uno degli
Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua
sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di giustizia di
pronunciarsi sulla questione. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio
pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa
proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a
rivolgersi alla Corte di giustizia.
L’importanza (e la ragione) dell’art. 234 (ex 177) si comprende, se si considera che la
maggior parte del diritto comunitario viene applicata, o comunque è applicabile
all’interno degli Stati membri e ad opera degli organi di questi ultimi.
Sono gli organi degli Stati membri, non soltanto i giudici 11 , ma anche gli organi
dell’amministrazione 12 gli strumenti del diritto comunitario: non soltanto per i
10
La pratica ha consacrato il successo del rimedio previsto dall’art. 177: dal caso 13/61, sollevato dal
Gerechtshof dell’Aja (10-VII-1961) diverse migliaia di casi sono stati deferiti dai tribunali nazionali. Essi
sono quasi la metà delle procedure portate avanti alla Corte, cosa che si spiega, da un punto di vista
generale, con l’applicabilità diretta del diritto comunitario.
11
Ai giudici nazionali è affidato il compito di garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza
delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta (caso Rewe - sentenza 16 dicembre 1976, causa
33/76).
12
Di notevole rilievo è le sentenza Fratelli Costanzo ( sentenza 22 novembre 1989, caso C-103/88), nella
quale la Corte affermò che in caso di incompatibilità delle disposizioni di recepimento interne statali con
una direttiva comunitaria (ma vale anche in caso di mancata attuazione), l’amministrazione è legittimata e
anche obbligata a disapplicare il diritto interno statale.
6
regolamenti, che sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in tutti
gli Stati membri, ma in generale per tutte le disposizioni del Trattato cui è riconosciuta
l’efficacia diretta.
La grande maggioranza della normativa comunitaria, primaria e derivata, viene dunque
eseguita dagli organi statali. Poiché questi rimangono, in tutto e per tutto, soggetti alle
norme dello Stato cui appartengono relative al controllo giudiziario degli atti
dell’amministrazione, avviene che i tribunali statali debbano occuparsi del diritto
comunitario, il più delle volte risolvendo quesiti consistenti nel conciliare e contemperare
le normative comunitarie con situazioni giuridiche tutelate dall’ordinamento interno dello
Stato cui appartengono.
L’affermarsi dei due principi dell’efficacia diretta delle norme del Trattato e del primato
del diritto comunitario – due principi che la Corte stessa ha condotto al successo13 – oltre
ad avere aumentato i ricorsi ex art. 177, ha fatto assumere alla Corte una funzione nuova,
probabilmente estranea alle intenzioni dei padri del Trattato, nella quale il rinvio
pregiudiziale si avvicina molto al ricorso per inadempimento da parte di uno Stato e che,
visto il quadro giuridico in cui si svolge (la procedura nasce infatti da un tribunale statale
e poi ritorna ad esso), la porta ad esercitare una funzione che si potrebbe definire di
controllo del diritto comunitario da parte dei singoli soggetti.
Un’altra evoluzione di grande rilievo si è avuta quando la Corte ha adottato un metodo
consistente nell’esaminare il diritto statale dal punto di vista degli obblighi del diritto
comunitario14.
Così l’art. 177 è servito sovente da strumento di controllo giudiziale della compatibilità di
leggi e di pratiche amministrative nazionali con il diritto comunitario15.
La sua funzione “quasi-federale” ha condotto la Corte in alcuni casi16, ad ampliare il
proprio esercizio concludendo che:
“ Il diritto comunitario deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale
chiamato a dirimere una controversia vertente sul diritto comunitario, qualora ritenga
che una norma di diritto nazionale sia l’unico ostacolo che gli impedisce di pronunciare
provvedimenti provvisori, deve disapplicare detta norma.”
13
Questa evoluzione è iniziata con i casi Van Gend en Loos (sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62,) e
Costa/Enel (15 luglio 1964, causa 6/64), e si è completata con il caso Simmenthal ( sentenza 9 marzo 1978,
causa 106/77).
14
Caso Francovich (sentenza 19 novembre 1991 in cause 6-9/90).
15
Il problema giuridico, si noti, non consiste soltanto nell’applicazione di una legge da parte del giudice,
ma anche nell’emanazione di un provvedimento amministrativo (CGCE 29-IV-1999, C-224/97: “Non è in
alcun modo possibile sostenere che la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di
diritto comunitario aventi efficacia diretta e che è compito dei giudici nazionali garantire, debba negarsi
agli stessi singoli nel caso in cui la controversia abbia ad oggetto la validità di un atto amministrativo).
16
Caso Factortame (sentenza 19 giugno 1990, causa C- 213/89) e caso Brasserie du Pecheur (sentenza 5
marzo 1996, cause riunite C-46/93 E C-48/93).
7
Nonostante questa prassi, la Corte di giustizia non è diventata un’istanza di revisione o di
cassazione dei giudici nazionali.
Il rinvio pregiudiziale si basa pertanto su di una ripartizione delle funzioni tra il giudice
nazionale ed il giudice comunitario. Le competenze attribuite alla Corte dall’art. 234
hanno per scopo di garantire l’uniforme applicazione del diritto comunitario da parte dei
giudici nazionali.
In tal senso la Corte di giustizia non può disporre l’inapplicabilità del diritto statale; sarà
il giudice nazionale ad applicare la normazione comunitaria, o disapplicare la norma del
proprio ordinamento, per rendere effettivo il diritto comunitario.
Oggetto del rinvio pregiudiziale
L’art. 177 indica principalmente due temi come possibile oggetto del rinvio pregiudiziale:
l’interpretazione del trattato e le questioni di interpretazione e di validità degli atti di
diritto derivato.
Nella maggior parte dei casi, le domande di pronunzia pregiudiziale riguardano
l’interpretazione di norme espresse del trattato o di un atto di diritto derivato
(regolamenti, direttive, decisioni o di ogni altro atto comunitario che produce un effetto
giuridico). La competenza interpretativa è stata poi estesa agli accordi internazionali
conclusi dalla Comunità; infine, per quanto riguarda gli atti «compiuti dalle istituzioni
comunitarie» (art. 234, lett. b), la Corte può verificarne la validità.
Giurisdizione e procedimento
Il ricorso pregiudiziale è facoltativo 17 per tutti i giudici, ma è obbligatorio per le
giurisdizioni di ultima istanza (quelle “avverso le cui decisioni non possa proporsi un
ricorso giurisdizionale di diritto interno”18).
Questione che attiene unicamente di diritto comunitario, è la valutazione sulla legittimità
dell’organo remittente (il giudice nazionale e la sua giurisdizione), che può, sospendendo
il procedimento in corso, adire alla Corte. In tal senso, la C.G.C.E., tiene conto di un
insieme di elementi quali l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente,
l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento oltre al
fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente.19
Ai sensi dell’art. 177, è necessario che un tema di diritto comunitario costituisca una
“questione” per il giudice. Il punto merita qualche chiarimento, sia dal punto di vista
procedurale che sostanziale.
Innanzitutto è necessario che il giudizio nazionale sia pendente (la Corte non è
competente se il giudizio si è concluso). Non si richiede, invece, che il ricorso sia stato
17
Ma si veda infra sulla teoria dell’atto chiaro e il commento alla nota 19.
In Italia è la Corte di Cassazione, in Germania il Bundesgerichtshof.
19
Sentenza 17 settembre 1997, causa C-54/96 e 21 marzo 2000 procedimenti riuniti C-110/98 e C-147/98.
18
8
presentato in modo proceduralmente corretto dal punto di vista delle norme nazionali
della giurisdizione competente al rinvio: fintantoché il ricorso non sia stato revocato dal
giudice nazionale, la Corte è tenuta ad esaminarlo.
Sostanziale è invece un’altra questione. È possibile che il giudice nazionale ritenga che la
soluzione gli si presenti con una tale evidenza che, a suo parere, non vi è alcuna
«questione» e che, pertanto, un rinvio pregiudiziale è privo di senso pratico. È questa la
dottrina dell’«atto chiaro» (acte clair) inizialmente sostenuta dal Consiglio di Stato
francese ma respinta con decisione dalla Corte.
Per la Corte l’obbligo di rinvio viene meno se “……la disposizione comunitaria di cui è
causa ha già costituito oggetto di interpretazione e che la corretta applicazione del
diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun
ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata.”20
L’iniziativa di sollevare una questione pregiudiziale è presa di solito dalle parti, a tutela
dei loro interessi. È tuttavia possibile che sia il giudice ad accorgersi per primo del
problema e addirittura che sollevi d’ufficio una questione pregiudiziale senza neanche
avvertire le parti.
Al procedimento avanti alla Corte possono prendere parte, presentando osservazioni o
memorie scritte, il Consiglio, la Commissione e gli Stati membri e naturalmente le parti
costituite avanti il giudice nazionale che ha effettuato il rinvio. Altri soggetti non possono
intervenire.
Le questioni vere e proprie sono inserite in un atto giurisdizionale che determina allo
stesso tempo la sospensione del procedimento dinanzi al giudice nazionale e il rinvio
della causa alla Corte. La forma di questo atto è questione che appartiene alle norme ed
alle procedure nazionali.21
In forza del principio della ripartizione delle funzioni, la Corte comunitaria non deve
accertare se il provvedimento con cui è adita sia conforme alle norme di procedura
nazionali.
Per inoltrare alla Corte la decisione di rinvio adottata dal giudice nazionale, si deve tenere
presente l’art. 20 dello statuto della Corte: “La decisione della giurisdizione nazionale,
che sospende la procedura e si rivolge alla Corte, è notificata a quest’ultima a cura di tale
20
La questione è stata a lungo dibattuta finché la Corte di cassazione italiana ha posto la Corte di giustizia
dinanzi a questo problema nella causa Cilfit (6-X-1982, causa 283/81), importante anche per tutta la
configurazione dell’obbligo di rinvio. La Corte di cassazione italiana, avanti sottopose alla CGCE la
questione complessiva del significato dell’ultima parte dell’art. 177, chiedendo, in particolare, se il giudice
nazionale di ultima istanza sia sempre obbligato a rivolgersi alla Corte.
21
La maggior parte dei giudici della Comunità utilizzano la forma di un ordinanza, altri quella di una
sentenza, altri ancora la forma di un atto del cancelliere o di altro funzionario competente, recante in
allegato le questioni ed i commenti che le accompagnano.
9
giurisdizione nazionale”. In altri termini, la trasmissione avviene direttamente, da giudice
a giudice, o meglio da cancelleria a cancelleria.22
Per quanto riguarda, infine, il modo di formulare le questioni, la Corte in un primo tempo
ha mostrato di accettarle così come il giudice nazionale riteneva di presentargliele: in
qualche caso addirittura estrapolandole da un fascicolo di causa. Nel periodo più recente,
aumentato enormemente il suo carico di lavoro, essa non ha esitato a respingerle,
pronunziando “ordinanza di irricevibilità”, quando non erano espresse in forma
sufficientemente chiara, oppure perché il giudice nazionale non aveva dato nessuna
indicazione “quanto alla situazione di fatto e di diritto della causa sottoposta al suo
esame”.
Talvolta, le ha dovute riformulare perché, così come erano presentate, costituivano
questioni di interpretazione del diritto di uno Stato membro che, come tali, non rientrano
nella competenza della Corte.
Gli effetti della sentenza
Le sentenze interpretative della C.G.C.E. sono tra le fonti derivate del diritto
comunitario23, alle quali ogni ordinamento interno garantisce diretta applicabilità.
Nei confronti del giudice nazionale e delle parti nella causa principale, la sentenza della
Corte è un atto giurisdizionale: essa vincola il giudice nazionale per effetto degli impegni
assunti con il Trattato CE, l’esecuzione dei quali fa carico a tutti gli organi dello Stato.
Come decisione giurisdizionale, strettamente legata ai fatti concreti della causa, la
sentenza pregiudiziale è sottoposta al principio dell’efficacia relativa (o inter partes) del
giudicato; non si può tuttavia disconoscere l’efficacia di precedente, anche perché al
dibattito avanti alla Corte prendono parte, oltre alle parti nella causa principale, i governi
degli Stati membri, la Commissione e, eventualmente, il Consiglio.
La sentenza della C.G.C.E. che dichiara la norma interna contraria o in contrasto alle
norme primarie o derivate comunitarie, non ne determina l’annullamento
nell’ordinamento interno dello Stato UE: essa infatti è «diretta» al giudice nazionale il
quale, a sua volta, non ha, “in proprio”, il potere di pronunciare l’invalidità né tantomeno
l’abrogazione della norma interna incompatibile con il diritto comunitario, ma solo la sua
disapplicazione per il contrasto accertato con una norma di rango superiore.
Naturalmente, avendo natura di “giudicato” tra le parti principali, le sentenze della
C.G.C.E. costituiscono un obbligo per lo Stato membro di rimuovere la disposizione
interna in contrasto con la norme comunitaria, costituendo, laddove non vi provvedesse,
presupposto per l’avvio di un giudizio per inadempimento del Trattato.
22
“A mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno” e insieme agli atti di causa, dispone la legge italiana:
art. 3 legge 13 marzo 1958, n. 204.
23
Si veda in proposito la sentenza della Corte Costituzionale Italiana del 23 aprile 1985 n. 113 sul caso
Beca.
10
Ma è soprattutto in virtù del fatto che le sentenze della C.G.C.E. rappresentano un
precedente giurisprudenziale di riferimento per tutti gli Stati e per i singoli, con rango di
fonte derivata dell’ordinamento comunitario, che la Commissione UE ha inteso
richiamare gli Stati CE ad un efficace coordinamento delle loro legislazioni nazionali, al
fine di abbattere gli ostacoli e le discriminazioni fiscali che si frappongono alla
costituzione del mercato unico.
L’interesse e l’attenzione, peraltro, si estende a tutti gli operatori professionali, coloro i
quali sono chiamati a confrontarsi quotidianamente con problemi interpretativi, tenuto
conto, come la Corte non ha omesso di sottolineare nella famosa sentenza Van Gend &
Loos, che “..la vigilanza dei singoli, interessati alla salvaguardia dei loro diritti,
costituisce, d’altronde un efficace controllo che si aggiunge a quello che gli artt. 169 (ora
226) e 170 ( ora 227) affidano alla diligenza della Commissione e degli Stati membri”.
2. I principi sanciti dalla corte in materia di tassazione diretta.
a) Il rispetto del Trattato e delle libertà fondamentali.
Gli Stati UE hanno sempre gelosamente difeso la propria sovranità fiscale in materia di
imposizione diretta, riservandosi una esclusiva competenza, sebbene questa supposta
salvaguardia abbia gradualmente provocato una perdita effettiva di sovranità fiscale di
ciascuno Stato membro a favore dei mercati, attraverso l’erosione del prelievo tributario,
specialmente sui soggetti imponibili più mobili.
Il Trattato, infatti, non concede, apparentemente, spazi d’intervento se si esclude il
principio di sussidiarietà sancito dall’art. 5 (ex 3 B), secondo il quale, nelle materie che
non sono di sua esclusiva competenza, la Comunità interviene soltanto se e nella misura
in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati
dagli Stati membri e possono dunque essere realizzati meglio o più efficacemente.
L’imposizione diretta non è sicuramente materia tra quelle oggetto di competenza della
Comunità, avendo gli Stati accuratamente evitato di armonizzarla, salvo l’impegno di
avviare negoziati intesi a garantire, a favore dei loro cittadini, l’eliminazione della doppia
imposizione fiscale all’interno della comunità (art. 293 ex 220).
A questo si aggiunga che, in tema di fiscalità, ogni direttiva volta al ravvicinamento delle
legislazioni nazionali deve essere presa all’unanimità (art. 95, paragrafo 2- ex art. 100).
Eppure, malgrado una presunta sicurezza, gli Stati hanno dovuto cedere di fronte alla
decisa azione della Corte che, garante dei principi posti a garanzia per il raggiungimento
e mantenimento degli obiettivi del Trattato, è riuscita a penetrare nelle strette maglie della
sovranità fiscale, sancendo un postulato fondamentale che ricorre costantemente, ed in
via pregiudiziale, nelle sue decisioni e precisamente:
“……se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli
Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del
11
diritto comunitario, in particolare, astenendosi da qualsiasi violazione basata sulla
cittadinanza.”24
Questo principio è stato introdotto per la prima volta, in una causa promossa dalla
Commissione contro il Regno Unito, che verteva sull’esercizio delle competenze
riservate ad uno Stato in materia di immatricolazione di un peschereccio ( C-246/89 del 4
ottobre 1991).
La Corte ebbe modo di affermare (e ricordare), rifacendosi ad alcune precedenti decisioni
(sentenze 7 giugno 1988, Grecia / Commissione, causa 57/86, e 21 giugno 1988,
Commissione / Grecia, causa 127/87), “……..che gli Stati membri sono tenuti ad
esercitare le competenze loro attribuite nel rispetto del diritto comunitario”.
Il principio fu poi ribadito, questa volta proprio in materia di imposizione diretta, quasi
quattro anni dopo (causa C-279/93), in una causa tra un cittadino belga, il sig. Roland
Schumacker, contro l’amministrazione finanziaria tedesca (Finanzamt Koeln-Altstadt).
Il sig. Schumacker viveva in Belgio con la moglie ed i figli, ma per un certo periodo di
tempo aveva svolto un'attività lavorativa subordinata in Germania, pur continuando a
risiedere in Belgio. La signora Schumacker era disoccupata, per cui lo stipendio del
marito costituiva la totalità del reddito familiare.
Per effetto delle disposizioni tributarie tedesche vigenti all’epoca, nei confronti dei “non
residenti” l'imposta sulla retribuzione si considerava definitivamente assolta con la
trattenuta alla fonte effettuata ogni mese dal datore di lavoro. Il sig. Schumacker non
fruiva quindi dell' agevolazione fiscale dello "splitting" a favore dei lavoratori coniugati e
non aveva la possibilità di detrarre le spese di carattere previdenziale (premi di
assicurazione vecchiaia, malattia o invalidità), che eccedevano gli importi forfettari
previsti nella tariffa impositiva.
La Corte non esitò a statuire che l' esercizio da parte degli Stati membri della competenza
in materia di imposte dirette, non può prescindere dal rispetto del diritto comunitario, per
cui risolse la questione nel rilevare una discriminazione ai sensi dell’art. 48 (ora 39) sulla
libera circolazione delle persone, atteso che ai lavoratori dipendenti domiciliati in
Germania veniva accordato un trattamento fiscale più favorevole rispetto ad uno stesso
lavoratore dipendente residente, però, in un altro Stato membro, che “………..trae il
proprio reddito totalmente o quasi esclusivamente dall' attività svolta nel primo Stato
(Germania) e non percepisce nel secondo Stato (Belgio) redditi sufficienti per esservi
soggetto ad un' imposizione che consenta di prendere in considerazione la sua situazione
personale e familiare…”
24
Sentenze : 4 ottobre 1991, causa C-246/89, Commissione/Regno Unito; 14 febbraio 1995, causa C279/93, Schumacker; 11 agosto 1995, causa C-80/94, Wielockx; 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher;
15 maggio 1997, causa C-250/95, Futura Participations e Singer; 28 aprile 1998, causa C-118/96, Safir; 16
luglio 1998, causa C-264/96, Imperial Chemical Industries; 29 aprile 1999, causa C-311/97, Royal Bank of
Scotland, 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars; 6 giugno 2000, causa C- 35/98, Verkooijen; 8 marzo
2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metalgesellschaft; 12 dicembre 2002, causa C-324/00,
Lannkhorst- Hohorst Gmbh.
12
La porta era aperta.
E’ dunque nel rispetto del diritto comunitario, delle sue libertà fondamentali, che gli Stati
devono attenersi nell’emanare le norme tributarie interne; questo è il passaggio “tecnico”,
in linea con l’affermazione del primato delle disposizioni comunitarie su quelle dei
singoli ordinamenti, che ha consentito alla Corte di decidere di volta in volta i casi
sottoposti al suo esame in materia di fiscalità diretta (e indiretta).25
La Corte si è quindi aperta un varco nei regimi fiscali degli Stati membri, riaffermando le
garanzie sulla libera circolazione delle persone (artt. da 39 a 42), dei servizi ( artt. da 49 a
55) e dei capitali (artt. da 56 a 60), sulla libertà di stabilimento e della cittadinanza
comunitaria (artt. da 43 a 48), in forza del divieto di discriminazione, basato anche sulla
cittadinanza o di misure aventi un effetto equivalente ad una restrizione delle libertà
fondamentali, non senza qualche iniziale difficoltà, ma successivamente consolidando
orientamenti che oggi si rivelano di particolare importanza.
Non sono ovviamente mancate sentenze interpretative su questioni prettamente attinenti
alle uniche due direttive emanate26 o in materia di reciproca assistenza tra gli Stati nel
settore delle imposte dirette (Direttiva 77/99/CEE); ma la giurisprudenza della Corte oggi
si inquadra in un solco che valuta, ripeto, in via pregiudiziale l’osservanza del Trattato da
parte degli Stati membri.
Ne consegue che, a seguito delle sentenze della Corte, ogni disposizione fiscale che si
presenti contraria o incompatibile con l’ordinamento comunitario, non potrà essere
applicata dal giudice nazionale.
Tali potranno essere, a seconda dei casi, gli ordinamenti degli Stati CE che :
•
•
•
•
•
non riconoscono il “primato” delle norme del “Trattato”
direttamente o indirettamente, ostacolano l’applicazione o l’attuazione dei
regolamenti o non recepiscono le direttive, ovvero le recepiscono in modo
incompleto o inadeguato, ledendo gli interessi dei singoli cittadini;
attuino disposizioni, legislative o amministrative, che non consentano l’esercizio
dei diritti garantiti ai singoli dal Trattato;
escludano o privino i cittadini di un altro Stato UE di una identica parità di
trattamento come riservata ai cittadini del proprio Stato, discriminatorie o
restrittive perché fondate sulla cittadinanza;
comunque consentano l’esercizio dei diritti previsti dal diritto comunitario, ma a
condizioni gravose (quindi non proporzionate), se non addirittura “impossibili”;
25
Occorre precisare che, generalmente, la violazione dei diritti sanciti dal Trattato (le libertà fondamentali)
è sollevata in sede di rinvio pregiudiziale, per cui una misura fiscale si ritiene discriminatoria o comunque
contraria ad una o più delle libertà fondamentali garantite dal diritto comunitario.
26
Mi riferisco alla Direttiva concernente alle società madri e figlie di Stati membri diversi – 90/435/CEE –
e alla Direttiva su fusioni, scissioni, conferimenti e scambi d’azioni – 90/434/CEE
13
•
attuino norme, o misure equivalenti, che hanno come effetto una “restrizione”
delle quattro libertà fondamentali sancite dal Trattato, sia nei confronti dei propri
cittadini sia di residenti in altri Stati CE.
b) I limiti alla difesa della coerenza del sistema fiscale e al rischio di evasione fiscale.
Gli Stati hanno sempre invocato “motivi imperativi di interesse generale” per giustificare
una disparità di trattamento, in “apparente” contrasto con il Trattato, sull’esistenza di
disposizioni interne che assoggettavano ad un onere fiscale maggiore ( o li escludevano
da determinate deduzioni d’imposta o regimi di Gruppo più favorevoli), i contribuenti
“non residenti” rispetto a quelli “residenti”, sostenendo in udienza sostanzialmente tre
argomentazioni:
•
•
•
la difesa della coerenza del sistema fiscale;
che erano misure atte ad evitare la riduzione delle entrate;
avevano lo scopo di prevenire il rischio di evasione fiscale e, pertanto, destinate
ad impedire le frodi o gli abusi.
In ordine alla salvaguardia della coerenza del regime fiscale, l'esame nel merito rende
necessario prendere in considerazione una giurisprudenza della Corte che, solamente in
relazione a questa specifica ragione imperativa di interesse generale, ammette che anche
misure nazionali distintamente applicabili, possono essere fatte salve per motivi non
previsti da alcuna clausola derogatoria espressa dal Trattato.
In due pronunzie aventi ad oggetto la medesima misura nazionale, giudicata peraltro
incompatibile con gli artt. 48 e 59 (ora, dopo la modifica, artt. 39 CE e 49 CE), la Corte
ha per la prima volta accolto, in relazione ad una misura distintamente applicabile, la
giustificazione della necessità di garantire la coerenza del regime fiscale a ciascuno Stato
membro27.
Questa giurisprudenza, che si poneva in distonia con la costruzione giurisprudenziale
relativa alle quattro libertà fondamentali, ha poi trovato conferma, nei limiti che esporrò,
in altre pronunzie della Corte.28
Pur ribadendo a chiare lettere il principio generale secondo il quale motivi imperativi di
interesse generale, non previsti dal Trattato 29 , non possono essere fatti valere per
giustificare una disparità di trattamento in linea di principio incompatibili con le quattro
libertà fondamentali del Trattato, la Corte, richiamando ogni volta la giurisprudenza
27
Sentenze del 28 gennaio 1992, causa C-204/90 (Bachmann) e causa C-300/90, (Commissione/Belgio).
In Svensson (sentenza 14 novembre 1995, causa C-484/93) ed in ICI (16 luglio 1998, causa C-264/96),
per esempio, la Corte ha esaminato, giudicandole incompatibili con il Trattato, misure nazionali (di tipo
fiscale, in ICI) distintamente applicabili, che utilizzavano il criterio discretivo della sede della società (o,
meglio, dello Stato membro in cui questa aveva sede), per riconoscere o negare agli interessati determinati
vantaggi.
29
Le uniche deroghe previste per il libero stabilimento (ICI) appaiono all'art. 56, n. 1 (divenuto, a seguito
di modifica, art. 46 CE, n. 1), mentre quelle relative alla libera circolazione dei servizi (Svensson) si
limitano alle fattispecie di cui all'art. 55 CE (ex art. 66), il quale rinvia all'art. 46 CE.
28
14
Bachmann e Commissione/Belgio 30 , ha sempre esaminatonel merito la giustificazione
attinente all'esigenza di garantire la coerenza del regime fiscale di uno Stato CE.
Così facendo, e sempre con motivazione assai succinta, la Corte ha confermato che, tra le
ragioni imperative di interesse generale che valgono a giustificare misure nazionali che
restringono le libertà fondamentali, ve n'è una più “imperativa” delle altre, in quanto
validamente invocabile anche nel caso di legislazioni nazionali distintamente applicabili.
Secondo la citata giurisprudenza della Corte, la necessità di garantire la coerenza del
regime fiscale vale a giustificare una restrizione ad una libertà fondamentale soltanto
quando esista una stretta correlazione tra un beneficio fiscale (ovvero una rinunzia
impositiva) ed un'imposizione.
Per fare un esempio (sentenza Bachmann), una correlazione del genere esiste nel caso in
cui la deducibilità dal reddito imponibile di contributi assicurativi sia subordinata alla
condizione che l'impresa assicuratrice sia anch'essa stabilita nello Stato membro
considerato, in modo da garantire a quest’ultimo la possibilità di assoggettare
effettivamente ad imposta i capitali corrisposti in seguito al verificarsi dell'evento
assicurato ovvero in occasione del riscatto della polizza, in capo al soggetto che li aveva
in precedenza dedotti dal reddito.
Un siffatto regime fiscale prevede che una sola e stessa persona possa differire nel tempo,
ma non eludere, la propria imposizione. Secondo la Corte, pertanto, in un sistema così
congegnato vi è correlazione tra detraibilità e successiva imposizione e correlazione
diretta, nel senso che l'una e l'altra misura interessano la medesima persona in momenti
diversi della propria vita. 31
Dunque, la coerenza del sistema fiscale può essere generalmente invocata solo con
riferimento ad uno stesso contribuente, ma è negata nel caso di correlazione costi-ricavi
tra due soggetti distinti residenti in Stati membri diversi, ove l’uno sia beneficiario di una
deduzione o esenzione e l’altro soggetto a imposizione sui beni e servizi prestati che
hanno originato la deduzione o l’esenzione stessa32. Su questo presupposto la Corte ha
30
Richiamate in nota 27.
D’altra parte “… Consentire la deducibilità dei contributi a chi li versa ad un impresa stabilita in un
altro Stato membro comporterebbe invece una sottrazione di fondi alla potestà impositiva dello Stato
membro interessato, quando, al momento in cui si erogano gli indennizzi ovvero le liquidazioni anticipate,
quel beneficiario sia rientrato nello Stato membro di origine. (Considerazioni dell’avv. Generale La
Pergola in causa C-35/98 - Verkooijen)
32
Nel caso Svennsson (richiamata in nota 28), la Corte rilevava che “………Al contrario, non può dirsi
diretta la correlazione che esiste tra la concessione ai mutuatari dell'abbuono di interessi, da un lato, e il
suo finanziamento mediante l'imposta percepita sugli utili degli istituti finanziari, dall'altro, in quanto «non
è assolutamente certo che, per effetto del regime di abbuono degli interessi, si creino in capo agli istituti di
credito (...) disponibilità finanziarie tassabili. Un imponibile sorge infatti solo se la gestione dell'istituto di
credito considerato si traduce globalmente in un utile, caso che non ricorrerà necessariamente, in quanto
il risultato di gestione può essere influenzato negativamente da altri fattori, per esempio da perdite su
prestiti o da perdite di cambio su titoli in portafoglio.”
31
15
confutato la sussistenza di un regime imperativo imperniato sulla coerenza del sistema
fiscale.
Un utile punto di riferimento può essere offerto dalla famosa sentenza Verkooijen.
Il caso era quello di un cittadino olandese (ivi residente fiscalmente), il sig. Verkooijen
appunto, che si era visto rifiutare dalla competente amministrazione l’esenzione fiscale
sui dividendi percepiti da una società Belga (la Petrofina), assoggettati ad una ritenuta
alla fonte del 25%.
L'ufficio delle imposte non applicava l'esenzione dei dividendi ritenendo che il signor
Verkooijen non vi avesse diritto, poiché i dividendi da lui riscossi dalla Petrofina NV non
erano stati assoggettati all'imposta olandese sui dividendi. In sostanza, e per maggior
chiarezza, il reddito, ante distribuzione, della Petrofina NV non era stato assoggetto
all’imposta sulle società olandese, poiché questo era imponibile solamente in Belgio. La
concessione dell’esenzione non corrispondeva, quindi, ad un correlativo gettito d’imposta
affluito all’erario olandese.
Il signor Verkooijen proponeva opposizione e nell'accogliere l'impugnazione il tribunale
(Gerechtshof) riduceva il reddito imponibile del signor Verkooijen proprio dell’importo
relativo ai dividendi (2.000 fiorini), giudicando che la normativa fiscale olandese
ostacolasse i movimenti di capitali e la libertà di stabilimento. Contro tale pronunzia,
l’ufficio fiscale ricorse e la questione venne sottoposta, con rinvio per interpretazione
pregiudiziale, alla Corte.
In definitiva il punto era questo: ai cittadini olandesi che percepivano dividendi da società
olandesi, il cui imponibile era soggetto ad imposizione secondo le norme di questo Stato,
l’esenzione veniva accordata, mentre se gli stessi residenti li percepivano da società che
erano attratte ad imposizione in altro Stato comunitario, essi dovevano scontare l’imposta
olandese.
La disparità era palese, in quanto, come osserva la Corte, “… l'art. 73 D, n. 3, del
Trattato (ora art. 58), precisa che le disposizioni nazionali considerate all'art. 73 D, n. 1,
lett. a), non possono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria né una restrizione
dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti di cui all'art. 73 B”.
Tutti i governi presentarono osservazioni sostenendo che restringere l'esenzione ai soli
dividendi distribuiti dalle società aventi sede nei Paesi Bassi, era giustificato dalla
necessità di preservare la coerenza del regime fiscale olandese33.
33
Motivata nella considerazione che “ L'esenzione dei dividendi mirerebbe ad attenuare gli effetti di una
doppia imposizione - in termini economici - che risulterebbe dalla tassazione, in capo alla società, a titolo
di imposta sulle società, degli utili realizzati e dalla tassazione, in capo alla persona fisica azionista, a
titolo di imposta sul reddito, degli stessi utili distribuiti in forma di dividendi.” (punto 50 della sentenza in
esame). Il governo olandese, nel corso della trattazione orale, aveva peraltro osservato che l'imposta
prelevata sull'utile delle società dalle autorità fiscali di uno Stato membro diverso dal Regno dei Paesi Bassi,
non poteva formare oggetto di compensazione attraverso la concessione dell'esenzione dei dividendi agli
azionisti di tali società residenti in Olanda, in quanto ciò avrebbe comportato automaticamente una perdita
16
Peraltro il governo olandese aveva osservato che un'applicazione dell'esenzione dei
dividendi ai contribuenti azionisti di società aventi sede in altri Stati membri, avrebbe
potuto consentire a quest’ultimi di fruire di un duplice vantaggio, poiché sarebbe stato
loro possibile beneficiare di riduzioni tanto nello Stato membro, in cui il dividendo è
distribuito, quanto in quello in cui esso è riscosso, e cioè in Olanda.
La Corte negò la sussistenza del principio cui essa stessa aveva dato origine, poiché
mentre nelle cause Bachmann e Commissione/Belgio, esisteva, trattandosi di un identico
contribuente, un stretta correlazione tra la concessione di un vantaggio fiscale e la
compensazione di tale vantaggio con un prelievo fiscale, effettuati nell'ambito di una
stessa imposta, nel caso di specie non esisteva alcun legame diretto “….tra la
concessione agli azionisti residenti nei Paesi Bassi di un'esenzione in materia di imposta
sul reddito per i dividendi riscossi e l'assoggettamento ad imposta degli utili delle società
aventi sede in altri Stati membri. Si tratta di due imposte distinte che gravano su
contribuenti distinti.”
La Corte, inoltre, concludeva che “……..per quanto riguarda un eventuale vantaggio
fiscale per i contribuenti che riscuotono nei Paesi Bassi dividendi di azioni di società
aventi sede in un altro Stato membro, basti rilevare che risulta da una giurisprudenza
costante che un trattamento fiscale sfavorevole in contrasto con una libertà fondamentale
non può essere giustificato dall'esistenza di altri vantaggi fiscali, anche supponendo che
tali vantaggi esistano”.34
Per cui, conclusivamente, la coerenza del sistema fiscale può essere fatta valere allorché
sussista un legame diretto tra la concessione di un vantaggio fiscale e la compensazione
di tale vantaggio con un prelievo fiscale direttamente in capo ad un solo e stesso
contribuente, avvenuti nell’ambito della stessa imposizione. Ma quando tale legame
manca, perché si tratta di imposte distinte o del trattamento fiscale di soggetti passivi
diversi, l’eccezione sollevata dagli Stati membri non può essere accolta.35
Peraltro, nella causa X,Y e Riksskatteverket36 la Corte è arrivata al punto di affermare
che, sebbene in presenza di un unico contribuente e “potenziale” rischio che la base
imponibile scompaia in uno stadio successivo a seguito del trasferimento definitivo del
soggetto passivo all'estero, la coerenza del regime fiscale può essere assicurata da
misure meno restrittive o meno lesive della libertà di stabilimento. Tali misure
potrebbero, per esempio, consistere nel prevedere un sistema di cauzioni o altre garanzie
di introiti per il fisco olandese, non riscuotendo esso l'imposta sugli utili delle società distributrici di
dividendi.
34
In questo senso, per quanto riguarda l'art. 48 del Trattato sul diritto di stabilimento (ex art. 52), sentenze
28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia, punto 21; 27 giugno 1996, causa C-107/94,
Asscher, punto 53, e 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint-Gobain ZN, punto 54; per quanto riguarda
l'art. 59 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 49 CE), sentenza 26 ottobre 1999, causa C294/97, Eurowings Luftverkehrs, punto 44.
35
Sentenze: 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars, punto 40; 12 dicembre 2002, causa C- 324/00,
Lankhorst-Hohorst Gmbh, punto 42; 18 settembre 2003, causa C-168/01, Bosal, punti 29 e 30.
36
Sentenza 21 novembre 2002, causa C-436/00, punto 59.
17
necessarie ad assicurare il pagamento dell'imposta in caso di trasferimento definitivo del
contribuente all'estero.”
Come ho indicato prima, gli Stati hanno opposto, quale ulteriore giustificazione alle
proprie disposizioni “restrittive”, la tutela dei interessi economici derivanti da una
riduzione delle entrate fiscali ovvero che le misure erano a atte a prevenire il rischio di
evasione e, pertanto, destinate ad impedire le frodi o gli abusi.
Anche questi argomenti sono stati contraddetti con decisione dalla Corte.
La Corte ha sempre sostenuto che riduzione delle entrate fiscali “…non può essere
considerata come un motivo imperativo di interesse generale che possa essere fatto
valere per giustificare un provvedimento in linea di principio in contrasto con una libertà
fondamentale.”37
Non meno decisa fu la Corte nel respingere norme contrarie ai principi del Trattato,
allorché fu posta di fronte all’argomento che le disposizioni interne miravano a prevenire
ed evitare evasioni fiscali, statuendo che “………una presunzione generale di evasione o
di frode fiscale non può giustificare una misura fiscale che pregiudichi l'esercizio di una
libertà fondamentale garantita dal Trattato”, anche se uno o più soggetti risiedono
(fiscalmente) in Stati membri diversi.38
Infatti, secondo la Corte, lo stabilimento di una “società” fuori da uno stato membro non
comporta, di per sé, una evasione fiscale, se la stessa è comunque soggetta alla legge
fiscale dello Stato di stabilimento (cioè di residenza).39
Ovviamente uno Stato membro ha il diritto di adottare misure volte ad impedire che,
grazie alle possibilità offerte dal Trattato, i singoli cittadini o le società tentino di sottrarsi
all'impero delle leggi nazionali, affinché gli interessati non possano avvalersi
abusivamente (o anche fraudolentemente) del diritto comunitario.
Peraltro la lotta contro l’evasione o la frode fiscale e le necessità di un controllo fiscale,
costituiscono effettivamente motivi imperativi d'interesse generale, che possono, in linea
di principio, giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento40.
Va però sottolineato che in base alla medesima giurisprudenza, si può giustificare
unicamente una normativa che abbia l'obiettivo specifico di escludere da un vantaggio
fiscale le costruzioni puramente artificiose il cui scopo sia quello di eludere la normativa
fiscale.41
37
Sentenze: 16 luglio 1998, causa C-264/96, ICI, punto 28; 6 giugno 2000, causa C- 35/98, Verkooijen,
punto 59; 12 dicembre 2002, causa C- 324/00, Lankhorst-Hohorst Gmbh, punto 36.
38
Sentenze: 26 settembre 2000, causa C- 478/98, Commissione/Belgio, punto 45 ; 16 luglio 1998, causa C264/96, ICI, punto 26; 21 novembre 2002, causa C-436/00, punto 62; 12 dicembre 2002, causa C- 324/00,
Lankhorst-Hohorst Gmbh, punto 37.
39
Sentenza 8 marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft e altri, punto 57.
40
Sentenza 28 aprile 1998, causa C-118/96, Safir
41
Sentenze ICI e Metallgesellschaft, cit. nota 37. Nel medesimo senso, v. sentenze 21 novembre 2002,
causa C-436/00, X e Y , punto 61, e 12 dicembre 2002, causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst , punto 37.
18
Tuttavia, in base ad una giurisprudenza costante42, perché una disposizione anti-abuso o
anti-evasione possa essere accolta, deve non solo essere idonea a garantire il
conseguimento dello scopo perseguito, ma è necessario, inoltre, che essa non restringa le
libertà fondamentali derivanti dal diritto comunitario in maniera eccessiva rispetto a
quanto necessario per conseguire detto obiettivo 43 ; va da sé che non deve nemmeno
provocare una disparità di trattamento in base alla residenza, vietata dal trattato.44
Vi è dunque una esigenza che salvaguardi il principio di proporzionalità, sia interno, nei
confronti dei propri cittadini, sia esterno nei confronti di soggetti fiscalmente residenti in
altri Stati CE
Da quanto precede discende che il carattere sproporzionato di una misura nazionale
controversa, impedisce di ritenerla giustificata dalle esigenze del controllo fiscale contro
la frode o l’evasione, ed è quindi in contraddizione con una giurisprudenza consolidata
della Corte da cui deriva che le autorità di uno Stato membro “…non possono presumere
l'esistenza di una frode o di un abuso sulla semplice base dell'esercizio da parte di un
operatore di una libertà derivante dal Trattato.”45
Stesso dicasi nel caso in cui una norma nazionale “discriminatoria”, tratti in modo
sfavorevole ogni transazione che comporti un elemento di estraneità rispetto ad uno Stato
membro “impositore”: il che equivarrebbe a presumere l'esistenza di una frode o di un
abuso ogniqualvolta una transazione coinvolga una società che ha sede in un altro Stato
membro, ovvero qualora una società del primo Stato abbia quale azionista una persona
giuridica con sede in un altro Stato membro.
In entrambi i casi, anche fosse latente o potenziale il rischio di evasione, per accertare se
l'operazione ha quale intento l’evasione fiscale, “…..le autorità nazionali competenti non
possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere,
caso per caso, ad un esame globale dell'operazione,.. e tale esame deve poter essere
oggetto di sindacato giurisdizionale “.46
Ne discende che l'istituzione di una norma di portata generale, avente quindi i connotati
di presunzione assoluta, che escluda automaticamente talune categorie di operazioni
dall'agevolazione fiscale, a prescindere da un'effettiva evasione o frode fiscale,
eccederebbe quanto è necessario per evitare una tale frode o evasione fiscale non
rispettando, dunque, il principio di proporzionalità, e pregiudicherebbe gli obiettivi
perseguito dal Trattato e dalle sue fonti derivate. E questo si verificherebbe anche se una
42
Sentenza 15 maggio 1997, causa C-250/95, Futura Participations e Singer.
Avv. Generale Jean Mischio nelle osservazioni sulla causa C-436/00 X,Y e Riksskatteverket
44
12 dicembre 2002, causa C- 324/00, Lankhorst-Hohorst Gmbh, punto 37.
45
Avv. J. Mischio, cit. nota 30.
46
Sentenza 17 luglio 1997, causa C-28/95, A. Leur-Bloeum. La sentenza è peraltro interessante sotto un
altro profilo, atteso che la Corte si dichiarò competente, ai sensi dell'art. 177 del Trattato (ora 234), ad
interpretare il diritto comunitario qualora quest'ultimo non disciplini direttamente la situazione di cui è
causa, ma il legislatore nazionale abbia deciso, all'atto della trasposizione in diritto nazionale delle
disposizioni di una direttiva, di applicare lo stesso trattamento alle situazioni puramente interne e a quelle
disciplinate dalla direttiva, di modo che ha modellato la sua normativa nazionale sul diritto comunitario.
43
19
norma di questo tipo fosse corredata da una semplice possibilità di deroga e fosse
lasciata alla discrezionalità dell'autorità amministrativa.47
3. La libertà di stabilimento: il richiamo alle sentenze Centros Ltd. e Ubeerseering.
Le restrizioni alla libertà di stabilimento (o di insediamento) in materia di imposizione
diretta sono state alla base di molte sentenze della Corte 48 , soprattutto in materia di
società di capitali, principio che ha difeso e riaffermato a più riprese.
Il diritto di stabilimento è essenziale per l'attuazione degli obiettivi prefigurati dal
Trattato, che intende garantire, indistintamente a tutti i cittadini comunitari, la libertà di
intrapresa economica, attraverso gli strumenti apprestati dal diritto nazionale, assicurando
loro la chance di inserimento nel mercato, quali che siano gli intenti da cui il beneficiario
possa esser mosso in concreto. Altrimenti detto, è l'opportunità di iniziativa economica
ad essere tutelata, ed insieme con essa la libertà negoziale di giovarsi degli strumenti a
tal fine predisposti negli ordinamenti degli Stati membri.49
Mi riservo di trattare successivamente, e per singoli casi, il tema sotto un profilo pratico;
qui mi preme affrontare il “principio della cittadinanza UE” e del “riconoscimento della
personalità giuridica” delle società, su cui si fonda la libertà di stabilimento, primario e
secondario, che si sta affermando nella recente giurisprudenza della Corte.
L’argomento richiederebbe, da solo, uno spazio che in questa sede non ho, e per non
violare a mia volta il “principio di proporzionalità”, cercherò di sintetizzare una questione
che ancora oggi è oggetto di attenta analisi e vivace discussione in dottrina. Non è però
un caso che la Commissione UE abbia segnalato agli Stati membri due sentenze che non
trattano di fiscalità diretta: i casi Centros Ltd e Überseering BV 50.
Sono due le disposizioni del trattato che vietano ogni tipo di restrizione alla libertà di
stabilimento, contenute negli articoli 43 e 48.
L’articolo 43 (ex articolo 52) del trattato recita:
Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei
cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate.
Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o
47
Sentenza Leur-Bloeum cit. nota 46.
Sentenze: 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint Gobain; 14 dicembre 2000, causa C-141/99, AMID;
8 marzo 2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft e altri;21 novembre 2002, causa C436/00, X,Y e Riksskatteverket; 12 dicembre 2002, causa C- 324/00, Lankhorst-Hohorst Gmbh; 18
settembre 2003, causa C-168/01, Bosal Holding BV.
48
49
Punto 20 delle conclusioni dell’avv. Generale La Pergola sul caso Centros Ltd.. La Corte aveva già da
tempo sancito solennemente la diretta applicabilità delle disposizioni del Trattato nei casi Reyners
(sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74) e Van Binsbergen (3 dicembre 1974, causa 33/74), relativamente al
diritto di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi, riconoscendo ad ogni cittadino comunitario un
diritto individuale di stabilirsi e di esercitare la propria attività professionale in qualsiasi Paese della CE.
50
Rispettivamente, sentenze: 9 marzo 1999, causa C-212/97 e 5 novembre 2002, causa C-208/00.
20
filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di uno Stato
membro.
La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività non salariate e al loro esercizio,
nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi
dell'articolo 48, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di
stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo
ai capitali.
Articolo 48 (ex articolo 58)
Le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la
sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di attività principale all'interno della
Comunità, sono equiparate, ai fini dell'applicazione delle disposizioni del presente capo,
alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri.
Per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi comprese
le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o
privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro.
Abbiamo dunque due norme rilevanti, in tema di società: in quella dell’art. 43, le società
vengono prese in considerazione come esercenti di una attività economica piuttosto che
come entità giuridiche in senso proprio, mentre ai sensi dell’art. 48 è prevista la loro
equiparazione, a tutti gli effetti, alle persone fisiche ai fini dell’esercizio delle attività
imprenditoriali da liberalizzare.
In materia di società, potremmo dunque accorpare i due articoli sopra citati in uno solo,
strutturato da tre commi:
1. Le restrizioni alla libertà di stabilimento alle società costituite conformemente
alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l'amministrazione
centrale o il centro di attività principale all'interno della Comunità, nel territorio
di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle
restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte delle
società di uno Stato che si stabiliscono sul territorio di uno Stato membro.
2. La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività e al loro esercizio,
nonché la costituzione e la gestione di imprese, alle condizioni definite dalla
legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini.
3. Per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi
comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal
diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi
di lucro.
Se proviamo a leggerlo così, da un primo passaggio appare con chiara evidenza il
riconoscimento della cittadinanza europea alle società (e, di conseguenza, il divieto di
ogni restrizione o discriminazione), qualora siano costituite conformemente alla
legislazione di uno Stato membro e abbiano la sede sociale, l'amministrazione centrale o
il centro di attività principale all'interno della Comunità.
21
Non può quindi esservi alcuna discriminazione se la società di uno Stato membro ha per
soci cittadini o società extracomunitarie, in quando deve aversi riguardo al collegamento
con i singoli ordinamenti degli Stati della Comunità in fase costitutiva.51
Il passaggio successivo, ancor più importante per l’argomento che tratto, è che non può
essere impedito o limitato il diritto di insediamento, da parte delle società di uno Stato
che si stabiliscono sul territorio di un altro Stato membro:
•
•
tramite succursali, filiali o agenzie (c.d. diritti di stabilimento secondario);
tramite costituzione e successiva gestione di imprese,
in ogni caso conformemente alle disposizioni che la legge del Paese CE di accoglienza
stabilisce per i suoi cittadini.
Da questa ricostruzione ne discendono, come corollari, tre diritti fondamentali:
•
•
l'attività d'impresa può essere esercitata in forma societaria in uno Stato membro
mediante una società nazionale di quello Stato o di un altro Paese membro;
la società ha il diritto di scegliere, ai fini dello stabilimento secondario, fra la
creazione di una filiale o di una succursale;
51
Osserva l’avv. La Pergola ( cit. nota 43, punto 14) “…Poiché la disposizione liberale del citato art. 58
poteva essere interpretata nel senso dell'ammissione al beneficio della libertà di stabilimento secondario
anche delle persone giuridiche aventi nel territorio comunitario la sede statutaria, ma non anche la sede
sociale «reale», vale a dire l'amministrazione centrale, né il centro di attività principale, è presto emersa la
necessità di precisare a quali condizioni tale libertà sia soggetta con riguardo alle società stabilite a titolo
principale al di fuori della Comunità. Come ha chiarito il programma generale per la soppressione delle
restrizioni alla libertà di stabilimento, stabilito dal Consiglio il 18 dicembre 1961 (in GUCE 1962, n. 2, pag.
36), a tal fine dovrà essere soddisfatto un criterio di collegamento ulteriore, di natura economica: quello del
legame «effettivo e continuato» con l'economia di uno Stato membro. Ma - è appena il caso di aggiungere si tratta di un criterio che vale con esclusivo riguardo alle società extracomunitarie.” E successivamente
precisa: “ Tale legame potrà essere costituito proprio dalla presenza di una dipendenza della società
extracomunitaria nel territorio di un Paese membro, purché l'attività dell'articolazione territoriale abbia
carattere permanente, effettivo e rilevante (con esclusione, ad esempio, dei semplici uffici di
rappresentanza o di dipendenze che non operino sul mercato o impieghino un esiguo numero di
dipendenti). Priva di rilevanza, sotto il profilo considerato, è invece la cittadinanza delle persone fisiche dei
soci o dei membri degli organi di gestione e controllo della società.”
Nella sentenza Uberseering (punti 74 e 75), la Corte non ha fatto completamente proprie le argomentazioni
dell’avv. La Pergola in relazione alla condizione che il collegamento “operativo” sia richiesto solo alle
società extracomunitarie e non anche alle società costituite e aventi la sola sede sociale in uno Stato
membro. Respingendo le argomentazioni dedotte dal governo spagnolo, secondo cui, il programma
generale subordinerebbe, anche per una società costituita secondo la legge di uno Stato membro, il
beneficio della libertà di stabilimento garantita dal Trattato all'esistenza di un legame effettivo e continuato
con l'economia di un’altro Stato membro, la Corte ha osservato che “.. dalla formulazione stessa del
programma generale risulta che quest'ultimo richiede un legame effettivo e continuato solo nel caso in cui
la società ha unicamente la sede sociale all'interno della Comunità.” Proprio al fine di evitare intenti
abusivi volti a perseguire la cittadinanza comunitaria, la Corte rileva, a mio parere, la necessità che la
società abbia sia la sede sociale sia la sede effettiva all'interno della Comunità. Ne discende,
conseguentemente, che se una società è stata costituita secondo la legge francese, ha la propria sede a Parigi
e l’amministrazione o sede operativa a Londra, gli altri Stati membri non possono negare il riconoscimento
della cittadinanza europea della società, per il sol fatto che ivi non ha abbia insediato proprie dipendenze o
stabilito un legame economico stabile.
22
•
la società di un Stato membro è titolare, nello Stato dello stabilimento secondario,
degli stessi diritti di cui quivi godono le società nazionali (parità di trattamento).
Ma non è stata così semplice l’affermazione del diritto di stabilimento (primario o
secondario). Gli Stati, per molto tempo, sono rimasti inerti in difesa delle proprie
prerogative, anche dopo la fine del periodo transitorio, facendo ricorso alla “riserva di
sovranità” di cui all’art. 4652 (ex 56). E nel settore delle società, la libertà di stabilimento
postula, oltre al riconoscimento in tutta la Comunità, anche la libertà di trasferimento.
Tanto il riconoscimento quanto il trasferimento dovevano essere raggiunti mediante la
conclusione di accordi internazionali, ai sensi dell’art. 293 del Trattato53.
La Corte si è pertanto assunta il compito di riempire un vuoto di armonizzazione e
coordinamento delle varie legislazioni nazionali, sancendo preziosi indirizzi nella già
citata sentenza Centros Ltd.
Come noto, la questione è sorta nell'ambito di una controversia tra Centros Ltd.
(registrata Inghilterra e nel Galles) e il Registro delle imprese danese, che aveva rifiutato
l’iscrizione della succursale in quanto, poiché non esercitando alcuna attività
commerciale nel Regno Unito, essa intendeva in realtà costituire in Danimarca non una
succursale, bensì una sede principale, eludendo le norme nazionali relative, in particolare,
alla liberazione di un capitale minimo, fissato a 200.000 corone, superiore a quello
richiesto dalla corrispondente normativa inglese54.
Il Registro danese affermò che il rifiuto di registrazione non fosse contrario agli artt. 52 e
58 del Trattato CE, qualora la costituzione della succursale in Danimarca appaia come un
52
Recita l’art. 46 :
1. Le prescrizioni del presente capo e le misure adottate in virtù di queste ultime lasciano impregiudicata
l’applicabilità delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime
particolare per i cittadini stranieri e che siano giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica
sicurezza e di sanità pubblica.
2. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all'articolo 251, stabilisce direttive per il
coordinamento delle suddette disposizioni.
53
Peraltro, come ha sostenuto l'avvocato generale Damaso Ruiz-Jarabo Colomer al paragrafo 42 delle sue
conclusioni sul caso Uberseering, l'art. 293 CE non costituisce una riserva di competenza legislativa nelle
mani degli Stati membri. Se questa disposizione invita gli Stati membri ad avviare negoziati al fine, in
particolare, di facilitare la soluzione dei problemi derivanti dalla diversità delle normative relative al
reciproco riconoscimento delle società ed al mantenimento della loro personalità giuridica in caso di
trasferimento della sede da un paese ad un altro, è solo “per quanto occorra”, ossia nell'ipotesi in cui le
disposizioni del Trattato non consentono di realizzare gli obiettivi dello stesso.
La Corte ha poi successivamente sancito che, anche se le convenzioni la cui conclusione è incentivata
dall'art. 293 CE possono, allo stesso modo delle direttive di armonizzazione previste all'art. 44 CE,
facilitare la realizzazione della libertà di stabilimento, l'esercizio di questa libertà non può tuttavia essere
condizionato dall'adozione di tali convenzioni (punto 55 sentenza Uberseering, citata infra).
54
La Centros Ltd. non aveva svolto alcuna attività dalla sua costituzione. Poiché la normativa del Regno
Unito non assoggettava le società a responsabilità limitata ad alcun requisito relativo alla costituzione e alla
liberazione di un capitale sociale minimo, il capitale sociale della Centros Ltd., che ammontava a 100
sterline, non era stato né liberato né messo a disposizione della società. Il capitale era ripartito in due quote
sociali, detenute dal signor e dalla signora Bryde, cittadini danesi residenti in Danimarca. La signora Bryde
era anche amministratore della Centros Ltd.; la sede della società nel Regno Unito, era domiciliata presso
un amico del signor Bryde.
23
mezzo per eludere la normativa nazionale relativa alla costituzione e alla liberazione di
un capitale minimo. Il rifiuto di registrazione sarebbe stato, inoltre, giustificato dalla
necessità di tutelare i creditori, pubblici o privati, e, ancora, dalla necessità di lottare
contro la bancarotta fraudolenta.
Di contro, la Centros Ltd. sostenne che essa soddisfava i requisiti ai quali la legge danese
sulle S.r.l. assoggettava la registrazione di una succursale di una società straniera. Dal
momento che era stata legalmente costituita nel Regno Unito, essa avrebbe avuto il diritto
di costituire una succursale in Danimarca, in forza del combinato disposto degli artt. 52 e
58 del Trattato CE. Il fatto di non avere esercitato alcuna attività commerciale nel Regno
Unito fin dalla sua costituzione, non incideva sul suo diritto di libero stabilimento,
facendo leva su una precedente sentenza in cui la Corte di giustizia 55 aveva dichiarato
che “………gli artt. 52 e 58 del Trattato ostano a che le autorità di uno Stato membro
neghino all'amministratore di una società di fruire di un regime nazionale di
assicurazione malattia per il solo fatto che la società è stata costituita secondo le leggi di
un altro Stato membro nel quale essa ha del pari la sede sociale, anche se non vi svolge
attività commerciale.”
Nella sentenza Centros la Corte:
1. ha implicitamente colmato il vuoto del riconoscimento delle società con un
principio di supplenza56 volto a riconoscere lo statuts di cittadinanza europea alle
società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro57;
2. riaffermò la libertà di stabilimento di una sede secondaria di una società in un
altro Stato membro, per esercitarvi una attività alle stesse condizioni prescritte
per le società costituite in forza delle disposizioni dello Stato ospitante;
3. rilevò che il presupposto di un eventuale abuso per sottrarsi alla legge di
stabilimento dello Stato membro ove era sostanzialmente ubicata la sede effettiva,
non costituiva, di per sé, un motivo sufficiente a negare l’insediamento
imprenditoriale;
4. rimarcò che gli Stati non possono invocare indistintamente motivi imperativi di
carattere generale; una prassi nazionale in distonia con una delle libertà garantite
dal Trattato, oltre che non discriminatoria, deve essere giustificata da motivi
(imperativi) di interesse pubblico, ed idonea a garantire il conseguimento dello
scopo perseguito senza andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di
questo obiettivo;
5. e, infine, precisò che la circostanza che il diritto delle società non si fosse
completamente armonizzato nella Comunità era poco rilevante, tenuto conto che
il Consiglio UE può sempre, in virtù dei poteri conferitigli dall'art. 54, n. 3, lett. g),
del Trattato CE (ora 44), completare questa armonizzazione.
In merito al primo e secondo punto, la Corte affermò che le società costituite
conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale,
55
Sentenza 10 luglio 1986, causa 79/85, Segers.
Il corsivo è mio.
57
Questa conclusione è peraltro avvalorata ai punti 59 e 60 della citata sentenza Überseering BV.
56
24
l'amministrazione centrale o il centro d'attività principale all'interno della Comunità.”...
hanno il diritto di svolgere la loro attività in un altro Stato membro, mediante una
agenzia, succursale o filiale, alle stesse condizioni definite dalla legislazione del paese
di stabilimento nei confronti dei propri cittadini. La localizzazione della loro sede sociale,
della loro amministrazione centrale o del loro centro di attività principale serve a
determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento
all'ordinamento giuridico di uno Stato.58
In coerenza, “…….la prassi consistente nel diniego, in determinate circostanze, da parte
di uno Stato membro, di registrazione di una succursale di una società che ha la sede in
un altro Stato membro, conduce a impedire a società costituite in conformità alla
normativa di quest'ultimo Stato membro l'esercizio del diritto di stabilimento loro
conferito dagli artt. 52 e 58 del Trattato. Di conseguenza, una tale prassi costituisce un
ostacolo all'esercizio delle libertà garantite da queste disposizioni.”
In relazione al terzo punto, per la Corte “…., il fatto che un cittadino di uno Stato
membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui
norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali in altri Stati
membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento. Infatti, il diritto
di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro e di creare
succursali in altri Stati membri è inerente all'esercizio, nell'ambito di un mercato unico,
della libertà di stabilimento garantita dal Trattato.”59 Peraltro, la Centros Ltd. cercava di
evitare l’applicazione di norme relative alla costituzione di società e non disposizioni
relative all'esercizio di determinate attività professionali.
Infine, il collegio giudicante, in merito alla “riserva di sovranità”, tenne a ribadire che
“…secondo la giurisprudenza della Corte, i provvedimenti nazionali che possono
ostacolare o scoraggiare l'esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato
devono soddisfare quattro condizioni: essi devono applicarsi in modo non
discriminatorio, essere giustificati da motivi imperativi di interesse pubblico, essere
idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto
necessario per il raggiungimento di questo.” 60
Tali condizioni non erano soddisfatte nel caso di specie. In prima istanza, la prassi in
questione non era nemmeno volta a raggiungere l'obiettivo di tutela dei creditori cui essa
si considerava preordinata, “……….poiché, se la società interessata avesse svolto
un'attività nel Regno Unito, la sua succursale sarebbe stata registrata in Danimarca, e in
58
In questo senso, sentenze: Segers, citata in nota 55, punto 13; 28 gennaio 1986, causa 270/83,
Commissione/Francia, punto 18; 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank, punto 13, e 16 luglio
1998, causa C-264/96, ICI, punto 20.
59
Osserva la CGCE: “Risulta inoltre dal punto 16 della citata sentenza Segers che il fatto che una società
non svolga alcuna attività nello Stato membro in cui essa ha la sede e svolga invece le sue attività
unicamente nello Stato membro della sua succursale non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di un
comportamento abusivo e fraudolento, che consenta a quest'ultimo Stato membro di negare a tale società di
fruire delle disposizioni comunitarie relative al diritto di stabilimento”.
60
In questo senso, sentenze 31 marzo 1993, causa C-19/92, Kraus, punto 32, e 30 novembre 1995, causa C55/94, Gebhard, punto 37.
25
tal caso i creditori pubblici danesi si sarebbero trovati ugualmente in posizione
deteriore.”
Inoltre, atteso che la Centros Ltd. era una società di diritto inglese, e non di diritto danese,
i suoi potenziali creditori non avrebbero potuto ignorare che era soggetta a una normativa
diversa da quella che disciplina in Danimarca la costituzione delle società a responsabilità
limitata, potendo peraltro fare riferimento ad una normativa comunitaria specifica a loro
tutela61, oltre a poter chiedere o farsi rilasciare, preventivamente, adeguate garanzie a
salvaguardia delle obbligazioni nascenti62.
L’epilogo è noto: la norma interna Danese fu dichiarata incompatibile con gli artt. 52
(ora 42) e 58 (ora 48) dal Trattato sul diritto al libero stabilimento (secondario).
La Corte ha poi recentemente confermato il suo orientamento nella causa Uberseering63,
affrontando un caso particolare, in cui l’ordinamento tedesco negava la legittimazione
processuale alle società costituite in un altro Stato membro ma la cui sede reale ed
effettiva si trovava, conformemente a questo stesso diritto, sul suo territorio.
Il caso traeva origine da una causa intenta dalla Überseering BV, società di diritto
olandese, nei confronti di una società tedesca (la NCC), per l’esecuzione di opere di
ristrutturazione immobiliare, commissionate nel 1992, rilevando l’esistenza di vizi
nell’esecuzione dei lavori di pittura.
Nel frattempo, nel dicembre 1994 due cittadini tedeschi, residenti a Düsseldorf, avevano
acquistato la totalità delle quote sociali della Überseering.
Dopo aver inutilmente chiesto alla NCC la riparazione dei vizi constatati nell'esecuzione
dei lavori, la Überseering citava la NCC dinanzi al Tribunale di prima istanza di
Düsseldorf, perché fosse condannata a versarle una ingente somma di denaro a titolo di
risarcimento.
Il Tribunale di prima istanza e la Corte di appello respingevano il ricorso, ritenendo che
la Überseering, in qualità di società di diritto dei Paesi Bassi, non avesse la capacità
giuridica in Germania e, di conseguenza, non potesse stare in giudizio (capacità
processuale), poiché la Überseering aveva trasferito la sua sede effettiva a Düsseldorf per
il solo fatto dell’avvenuta acquisizione delle totalità delle quote del capitale da parte di
due cittadini tedeschi64.
61
Quali la quarta direttiva del Consiglio 25 luglio 1978, 78/660/CEE, basata sull'articolo 54, paragrafo 3,
lettera g), del trattato e relativa ai conti annuali di taluni tipi di società, e l' undicesima direttiva del
Consiglio 21 dicembre 1989, 89/666/CEE, relativa alla pubblicità delle succursali create in uno Stato
membro da taluni tipi di società soggette al diritto di un altro Stato.
62
La Corte ammonì (punto 38 della sentenza cit.) che “..la lotta alle frodi non può giustificare una prassi di
diniego della registrazione di una succursale di società che ha la propria sede in un altro Stato membro”
63
Sentenza 5 novembre 2002, causa C-208/00.
64
Stante una costante giurisprudenza della Corte di Cassazione tedesca, sostenuta dalla dottrina dominante,
la capacità giuridica di una società viene valutata in base al diritto applicabile nel luogo in cui si trova la
sua sede effettiva (“Sitztheorie” o teoria della sede), in opposizione alla teoria della costituzione
(“Gründungstheorie” ), secondo la quale la capacità giuridica viene determinata in base al diritto dello Stato
26
Presentato ricorso per cassazione, il Bundesgerichtshof chiedeva alla Corte se le
disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento si opponessero, nel caso di
specie, all'applicazione delle norme di conflitto vigenti nello Stato membro in cui ha
effettivamente sede una società legalmente costituita in un altro Stato CE, allorché queste
norme hanno come conseguenza il mancato riconoscimento della capacità giuridica, e
quindi della capacità di stare in giudizio, della società medesima per farvi valere i diritti
sorti da un contratto.
La Cassazione si chiedeva tuttavia se, nel caso di un trasferimento da un paese all'altro
della sede effettiva, la libertà di stabilimento garantita dagli artt. 43 CE e 48 CE non si
opponesse al collegamento della situazione giuridica della società al diritto dello Stato
membro in cui si trova la sua sede effettiva.
Dagli atti in causa, il governo tedesco, sosteneva, in subordine, che la restrizione sulla
capacità processuale si applicava in maniera non discriminatoria non solo a qualsiasi
società estera che si stabilisse in Germania trasferendovi la sede effettiva, ma anche alle
società di diritto tedesco che trasferivano la sede effettiva al di fuori della Germania;
Nel difendere la “Sitztheorie”, ritenuta più “garantista” nei confronti dei creditori, per
quanto concerne il capitale minimo delle società a responsabilità limitata, degli azionisti
di minoranza e dei lavoratori, il governo tedesco sosteneva che un motivo imperativo era
costituito dagli interessi fiscali, adducendo che la teoria della costituzione consente, in
una misura più ampia rispetto a quella della teoria della sede, la creazione di società che
hanno una doppia residenza e che a tale titolo sono soggette ad imposta in maniera
illimitata in almeno due Stati membri. In tale evenienza“ ..Ci sarebbe il rischio che tali
società reclamino ed ottengano benefici fiscali parallelamente in diversi Stati..”, come ad
esempio “…l'imputazione transfrontaliera delle perdite sugli utili tra imprese di uno
stesso gruppo”.
La Corte non si è fatta attrarre nella disputa giuridica tra teoria della sede e teoria della
costituzione, argomento appartenente alla sfera dell’ordinamento interno e di pertinenza
dello Stato tedesco; ha valutato e giudicato se sussistevano o meno elementi che, in via di
principio, era contrari allo spirito del Trattato.
Evolvendo la sentenza sul caso Centros Ltd., la Corte ha preliminarmente osservato, che
in forza del combinato disposto degli artt. 43 e 48 CE, le società costituite
in cui la società è stata costituita. La capacità giuridica ottenuta con la costituzione non si mantiene
automaticamente in Germania, ma dipende dal fatto che la società continui ad esistere secondo il diritto
dello Stato di costituzione e, inoltre, dal fatto che essa abbia capacità giuridica ai sensi del diritto tedesco.
Adottare come criterio di collegamento la sede effettiva implica che una società validamente costituita
all'estero, alla quale si riconosca in linea di principio capacità giuridica in Germania, perde tale capacità
quando trasferisce la sua sede stabile nella Repubblica federale di Germania. Nella misura in cui è soggetta
all'ordinamento giuridico tedesco, non può essere titolare di diritti ed obblighi, né parte in un procedimento
giudiziario. Per poter partecipare all'attività giudiziaria dovrà essere sciolta e ricostituita ex novo in modo
da poter acquistare la capacità giuridica conformemente al diritto tedesco
27
conformemente alla legislazione di uno Stato membro hanno il diritto di svolgere la loro
attività in un altro Stato membro; conseguentemente “…. l'esercizio della libertà di
stabilimento presuppone necessariamente il riconoscimento di dette società da parte di
ogni Stato membro nel quale esse intendono stabilirsi.”
Pertanto, non è necessario che gli Stati membri adottino una convenzione relativa al
reciproco riconoscimento delle società affinché quelle che soddisfano le condizioni
enunciate all'art. 48 CE possano esercitare la libertà di stabilimento che è loro
riconosciuta dagli artt. 43 CE e 48 CE, i quali sono direttamente applicabili a decorrere
dalla fine del periodo transitorio. Di conseguenza, dal fatto che nessuna convenzione
relativa al reciproco riconoscimento delle società sia stata finora adottata sulla base
dell'art. 293 CE, non si può trarre alcun argomento tale da giustificare una limitazione
della piena efficacia di questi articoli. 65
Per la Corte va dunque riconosciuta alla Überseering, che ha sia la sede sociale sia la sede
effettiva all'interno della Comunità, la personalità giuridica e piena cittadinanza
“europea” e quindi la legittimazione a far valere la libertà di stabilimento per opporsi al
rifiuto del diritto tedesco di considerarla come una persona giuridica dotata di capacità
processuale.66
Alla Corte è peraltro apparso eccessivo ( e sproporzionato) che, in base alla “Sitztheorie”,
la società dovesse sciogliersi e ricostituirsi in Germania, per far valere dinanzi ad un
tribunale i diritti derivanti da un contratto concluso con una società di diritto tedesco.
In tal senso, ai punti 80 e 81 della sentenza, per la Corte, la Überseering, regolarmente
costituita nei Paesi Bassi dove ha la sua sede sociale, deriva il suo diritto di esercitare la
sua attività di stabilimento in Germania come società di diritto dei Paesi Bassi dagli artt.
43 e 48 CE e “……….poco importa a tal riguardo che, successivamente alla costituzione
di questa società, la totalità del suo capitale sia stata acquisita da cittadini tedeschi
residenti in Germania in quanto tale circostanza non sembra averle fatto perdere la
personalità giuridica di cui essa gode nell'ordinamento giuridico dei Paesi Bassi. “67
In altri termini, la sua esistenza stessa è consustanziale alla sua qualità di società di
diritto dei Paesi Bassi in quanto, …………una società esiste solo in forza della normativa
nazionale che ne disciplina la costituzione e il funzionamento. Il requisito della
ricostituzione della stessa società in Germania equivale pertanto alla negazione stessa
della libertà di stabilimento.
65
Punti 59 e 60.
Punti 73, 74,75 e 76, ma si veda anche la precedente nota 51.
67
Al punto 77 della sentenza in commento, la Corte ricorda che: … in via di principio, l'acquisizione da
parte di una o più persone fisiche residenti in uno Stato membro di quote di una società costituita e stabilita
in un altro Stato membro rientra, quando tale partecipazione non conferisce a queste persone fisiche
un'influenza certa sulle decisioni della società e non consente loro di determinarne le attività, nelle
disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei capitali. Viceversa, quando l'acquisizione
riguarda la totalità delle quote di una società che ha la propria sede sociale in un altro Stato membro e una
tale partecipazione conferisce una sicura influenza sulle decisioni della società e consente di indirizzarne le
attività, trovano applicazione le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento”. (In tal senso,
sentenza 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars, punti 21 e 22).
66
28
Conclusivamente, ne discende che il rifiuto, da parte dei giudici tedeschi, di riconoscere
ad una società regolarmente costituita secondo il diritto di un altro Stato membro la
capacità giuridica e la capacità processuale, costituisce una restrizione alla libertà di
stabilimento, e “… se non si può escludere che ragioni imperative di interesse generale
quali la tutela degli interessi dei creditori, dei soci di minoranza, dei lavoratori o ancora
del fisco possano, in talune circostanze e rispettando talune condizioni, giustificare
restrizioni alla libertà di stabilimento, tali obiettivi …………non possono tuttavia
giustificare il fatto che venga negata la capacità giuridica e, quindi, la capacità
processuale ad una società regolarmente costituita in un altro Stato membro dove ha la
sede sociale: …una tale misura equivale alla negazione stessa della libertà di
stabilimento riconosciuta alle società dagli artt. 43 CE e 48 CE. “68
A mio parere, e con valenza anche in materia di imposizione diretta, dopo la sentenza
Überseering, il quadro che va delineandosi appare sostanzialmente questo.
Che in via di principio nessuna norma, regolamento o provvedimento amministrativo
possa violare il diritto sancito dal Trattato CE sulla libertà di stabilimento, primario e
secondario, è ormai un chiaro e consolidato orientamento della Corte.
La piena cittadinanza europea delle società implica il loro riconoscimento giuridico, se
esse sono state costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e vi
abbiano la loro amministrazione centrale o, in via subordinata, il territorio comunitario
rappresenti, concretamente, il centro principale dei loro affari ed interessi (legame stabile
ed effettivo).
Riconoscimento giuridico che non è lasciato alla discrezione degli Stati membri, in
quanto l’adozione di convenzioni pattizie ai sensi dell’art. 239 CE, come abbiamo visto,
non costituisce una riserva di competenza legislativa nelle mani degli Stati membri.
Detto questo, il “libero” diritto di stabilimento può soffrire delle limitazioni o restrizioni,
se giustificato da misure imperative di carattere generale, che però, stante l’evoluzione
giurisprudenziale, la Corte mi pare di tollerare sempre meno, in quanto ostacolo al
raggiungimento degli obiettivi del Trattato e quindi di una Europa senza frontiere.
Nel settore dell’imposizione diretta poi, non possono essere addotte quali cause di
legittima restrizione, la supposta riduzione delle entrate tributarie o il potenziale beneficio
di vantaggi fiscali, anche per effetto di una doppia residenza; in quest’ultimo senso,
sempre in via di principio, non può uno Stato essere “geloso” dei benefici che una società
può usufruire o di un ordinamento tributario di un altro Stato69.
68
Punti 93 e 94 della sentenza in esame.
Per questo gli Stati dovrebbero concertare una imposizione armonizzata a livello comunitario. Nel
frattempo, e per reciproca necessità, si sono solo impegnati, politicamente, ad osservare il “Codice di
Condotta in materia di tassazione delle imprese” di cui alla risoluzione del Consiglio ECOFIN del 1°
Dicembre 1997: è ancora poco a livello di “integrazione” fiscale, ma almeno è qualcosa.
69
29
Fa più presa, quale motivo imperativo, la lotta contro l’evasione o frode fiscale, nonché
l’abuso delle disposizioni del Trattato per sfuggire ad una imposizione effettiva.
In questi casi, la Corte riconosce espressamente il diritto degli Stati membri di intervenire,
anche perché, oltre all’osservanza, sono al contempo destinatari e garanti del Trattato, a
favore e nell’interesse comune.
Su questo piano nulla toglie valenza a misure atte a scoraggiare la frode o l’evasione
fiscale, purché non discriminatorie e comunque adeguate e proporzionate70 a raggiungere
questo obiettivo, non potendo presumerne in modo assoluto l'esistenza sulla semplice
base dell'esercizio da parte di una società di una libertà derivante dal Trattato. In tal senso,
la Corte è ormai avviata ad indicare agli Stati di adottare misure preventive di garanzia
idonee a tutelare le ragioni erariali.
Si impone dunque una valutazione, caso per caso, potendo sempre gli Stati ricorrere allo
strumento comunitario dello scambio di informazioni71 o alle convenzioni pattizie contro
le doppie imposizioni, soprattutto in materia di “residenza fiscale” (al fine di stabilire i
fattori di collegamento), sia per esercitare il controllo sia per accertare l’abuso della
cittadinanza europea o la frode e l’evasione fiscale.
5. Il Trasferimento della sede.
Ma l’attuazione della libertà di stabilimento è stata pienamente completata dalla Corte in
materia di tassazione diretta? E’ ancora notevole il potenziale inibitorio della sentenza
Daily Mail?72
Nel campo delle società, il diritto di stabilimento richiede necessariamente anche la
liberta di trasferimento della sede sociale, perché dopo le sentenze Centros Ltd. e
Überseering il trasferimento delle attività economiche è oggi pienamente assicurato.73
70
Si vedano le note a margine da 42 a 46.
Direttiva 77/799/CEE del 19 dicembre 1977, oggetto di proposta di modifica presentata dalla
Commissione il 31 luglio 2003 (COM) 446, 2003/0170 (COD).
72
Sentenza 27 ottobre 1998, causa 81/87, Daily Mail and General Trust PLc.
73
Mentre concludo questa relazione, è appena stata emanata la sentenza nel caso Inspire Art. Ltd. (causa C167/01 del 30 settembre 2003), su un caso assai simile a quello Centros. Si trattava di una società a
responsabilità limitata costituita conformemente al diritto inglese, che svolgeva la propria attività economica
esclusivamente in Olanda. La Inspire era stata costituita per godere dei vantaggi derivanti, rispetto alla
normativa olandese, di non liberare il capitale sociale fino a € 18.000,00, oltre al fatto che le pratiche di
costituzione sono più veloci e non vi è alcun controllo preliminare. Vigono, inoltre, disposizioni meno severe
per le modifiche statutarie, il trasferimento di quote e la pubblicità.
La controversia è nata perché il locale Registro delle Imprese ha preteso che la società si iscrivesse in
apposita sezione quale “società formalmente straniera” (che impone determinati requisiti stabiliti nel Diritto
di società interno, relativi al capitale minimo e la responsabilità degli amministratori), sostenendo che la
normativa dei Paesi Bassi (WFBV) era stata emanata allo scopo di limitare il ricorso a forme societarie
straniere per l'esercizio di imprese puramente olandesi, al fine di tutelare coloro che avevano rapporti con la
società per salvaguardarli da eventuali danni. La società si è opposta, in quanto la norma era contraria agli
artt. 43 e 48 CE. La Commissione UE, in udienza, ha sostenuto che la norma olandese era altresì contraria
all’art. 2 dell’Undicesima direttiva 89/666/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, relativa alla pubblicità
delle succursali create in uno Stato membro da taluni tipi di società soggette al diritto di un altro Stato.
La Corte ha deciso che:
71
30
Oggi, se la C.G.C.E. dovesse essere chiamata a pronunciarsi sulla stessa questione Daily
Mail io non credo che la risolverebbe come allora, statuendo “…….che gli artt. 52 e 58
del trattato debbono essere interpretati nel senso che allo stato attuale del diritto
comunitario non conferiscono ad una società, costituita secondo la legislazione di uno
Stato membro e con sede legale in detto Stato, il diritto di trasferire la sede della
direzione in altro Stato membro”.74
Occorre però chiedersi il significato del punto 23 della sentenza Daily Mail, richiamato
dalla Corte in via interpretativa al punto 70 della sentenza Überseering.
Al tempo la Corte rilevò che la facoltà, per una società costituita in conformità alla legge
del Regno Unito di trasferire la sua sede, sociale o effettiva, in un altro Stato membro
senza perdere la personalità giuridica (e la nazionalità) dello Stato di costituzione, nonché
le modalità del trasferimento, erano determinate dalla normativa inglese secondo la quale
questa società era stata costituita; ne concluse che “… uno Stato membro aveva la
possibilità di imporre ad una società costituita in forza del suo ordinamento giuridico
restrizioni al trasferimento della sua sede effettiva al di fuori del suo territorio affinché
essa potesse conservare la personalità giuridica di cui beneficiava in base al diritto di
questo stesso Stato.”
Si tratta quindi di valutare, alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale della
Corte, se attualmente il trasferimento della “residenza ai fini fiscali” da parte di una
società, per effetto dello spostamento delle sede sociale o comunque della direzione
effettiva da uno Stato membro all’altro, possa giustificare una misura interna restrittiva
della libertà in esame, compatibile con le disposizioni del Trattato.
Ricordo che la Holding Daily Mail, società di diritto inglese, aveva presentato all’ufficio
delle imposte (inland revenue), domanda di autorizzazione a trasferire la sede della
direzione effettiva in Olanda, pur mantenendo la sua sede legale in Inghilterra.75
Gli effetti fiscali del trasferimento, ove autorizzato, avrebbero consentito alla società di
essere considerata fiscalmente residente nei Paesi Bassi, ed assoggettata all’imposta
1.
proprio l'articolo 2 della Direttiva 89/666/CEE, si oppone ad una normativa nazionale, come la Wet
op di formeel buitenlandse vennootschappen (Legge su Società Formalmente Straniere), del 1997,
che impone obblighi di pubblicità non previsti in detta Direttiva alla succursale di una società
costituita di conformità alla legislazione di un altro Stato membro;
2. gli articoli 43 CE e 48 CE si oppongono ad una normativa nazionale, come quella olandese, che
subordina l'esercizio della libertà di stabilimento con carattere secondario in detto Stato, da parte di
una società costituita di conformità con la legislazione di un altro Stato membro, a determinati
requisiti stabiliti nel Diritto di società interno per la costituzione di società, relativi al capitale
minimo e la responsabilità degli amministratori. Le ragioni per le quali si sia costituita la società nel
primo Stato membro, ed il fatto che eserciti esclusivamente le sue attività, o quasi esclusivamente,
nello Stato di stabilimento, non la privano del diritto ad invocare la libertà di stabilimento garantita
per il Trattato CE, “a meno che si dimostri l'esistenza di abuso nel caso concreto.”
74
Sentenza Daily Mail.
75
L’autorizzazione del Tesoro inglese era obbligatoria per una società residente che intendesse cessare di
avere la propria residenza nel Regno Unito.
31
olandese sulle società, mentre non sarebbe stata più affrancata ad imposizione sul
plusvalore delle azioni, e all’acconto di imposta, nel Regno Unito.76
Lo scopo principale del trasferimento era quello di poter vendere, dopo aver stabilito la
propria residenza fiscale nei Paesi Bassi, le azioni detenute in portafoglio e di riscattare,
grazie al ricavato della vendita, parte delle proprie azioni, senza dover pagare l’imposta
sulla plusvalenza in forza della legislazione fiscale inglese. Una volta stabilita la sede
della direzione nei Paesi Bassi, la Holding avrebbe potuto “rivalutare” il costo delle
azioni, e le plusvalenze eventualmente conseguite sarebbero state assoggettate all'imposta
olandese sulle società per la differenza tra il costo rivalutato e il prezzo conseguito dalla
vendita.
Ovviamente, il trasferimento non fu autorizzato e, a seguito del ricorso presentato dalla
società, il giudice del rinvio chiese, sostanzialmente, alla C.G.C.E.:
1. se gli artt . 52 e 58 del trattato CEE precludessero ad uno Stato membro di proibire ad
una persona giuridica con sede legale nello stesso Stato, di trasferire senza previo
consenso o approvazione delle sue autorità, la direzione e controllo (amministrazione)
centrali in un altro Stato CE in presenza di una o di entrambe le seguenti circostanze,:
a) possa essere evitato il pagamento di imposte sui profitti o sugli utili già realizzati;
b) mediante il trasferimento della direzione e del controllo centrali della società,
sia evitata un' imposta che sarebbe stata a suo carico se la società stessa avesse
mantenuto la direzione e controllo centrali in tale Stato membro .
2 . Se la direttiva del Consiglio 73/148/CEE attribuisca ad una persona giuridica con
direzione e controllo centrali in uno Stato membro il diritto di trasferire senza previo
consenso o approvazione delle autorità la direzione ed il controllo centrali in un altro
Stato membro in presenza delle circostanze esposte sub 1.
La risposta della Corte, come sopra esposto, fu negativa, malgrado il parere favorevole:
•
•
dell’avvocato generale77 che sostenne, in principio, legittimità del trasferimento,
pur osservando che “…….il diritto comunitario non osta a che uno Stato membro
imponga ad una società in essa stabilita, che intenda stabilirsi in un altro Stato
membro,…. la liquidazione dei suoi conti fiscali….”;
della Commissione UE anche perché “… nel caso di specie non si tratta di una
evasione fiscale, ma soltanto dallo sfruttamento ottimale delle possibilità offerte
dal regime fiscale”.78
76
Nel Regno Unito, la costituzione di una persona giuridica, secondo il diritto britannico, consente di
scindere da una parte il domicile di cui è espressione la sede legale e la nazionalità di una società e,
dall’altra la residence che ne determina fondamentalmente la residenza fiscale. Peraltro, la legislazione
olandese non osta a che una società si stabilisca nei Paesi Bassi trasferendovi la sede della direzione, senza
per questo acquistare la nazionalità olandese, in quanto adotta lo stesso principio inglese della law of
incorporation.
77
Avv. Marco Darmon.
78
Così si esprime nella Relazione d’udienza.
32
La Corte non prese in considerazione l’aspetto fiscale della vicenda: sentenziò che la
direttiva 73/148 non tornava applicabile alle società perché si riferiva esclusivamente alle
persone fisiche, e che nell’allora stato del diritto comunitario (vigeva ancora il periodo
transitorio), in mancanza di coordinamento convenzionale, esso non conferiva ad una
società, il diritto di trasferire la sede della direzione in altro Stato membro.
Confermo il mio parere: oggi una simile questione, se riproposta, non sarebbe così
trattata e risolta dalla Corte, a meno che non intenda contraddire sé stessa.
I presupposti ci sono, perché proprio al punto 70 della sentenza Überseering, la Corte
rilevò che nel caso Daily Mail la “possibile” causa restrittiva era data dal fatto che la
società voleva mantenere la sua sede legale e, quindi, la nazionalità del Regno Unito. Il
che vuol dire tre cose:
a) se lo Stato di nazionalità della società non vieta il trasferimento, e consente il
mantenimento della sola sede sociale (ad esempio quale sola rappresentanza), il
problema, sotto il profilo fiscale, non dovrebbe nemmeno porsi;
b) se la società avvia una liquidazione, anche successiva ad un’operazione di
conferimento o scissione, e si ricostituisce o stabilisce in un altro Stato UE, tale
operazione non può essere, sempre in via di principio, ostacolata da norme interne
pregiudizievoli;
c) in caso di fusione per incorporazione o di scissione totale, stante la Direttiva
90/434/CEE, emanata successivamente alla sentenza Daily Mail, non vi sarebbe
possibilità per lo Stato della incorporata o della scindente di ostacolare una
operazione del genere.
Ma il punto, a mio parere, è un altro. All’epoca della decisione vigeva il periodo
transitorio, e forse la Corte non riteneva di intervenire, come ha poi fatto successivamente,
nella sfera di competenza interna degli Stati.79
La Corte non scisse neppure il problema del diritto societario da quello tributario,
quest’ultimo vero oggetto della domanda, che sottoponeva il trasferimento della sede di
direzione ad una grave restrizione (l’autorizzazione del Tesoro inglese), che inibiva il
trasferimento stesso, pena una severa sanzione pecuniaria e penale. Forse aveva ritenuto
che la Daily Mail intendesse “aggirare” l’imposizione abusando del diritto comunitario:
ma nella sentenza non lo disse.
E così una mera autorizzazione ai fini tributari per il trasferimento della “residenza
fiscale” in Olanda, non respinta dalla Corte, diventò un deterrente che, nei fatti, ha per
lungo tempo ostacolato la “circolazione” delle imprese nella Comunità.
79
Al punto 69 della sentenza Überseering, la Corte puntualizza che nel punto 23 della sentenza Daily Mail,
aveva preso atto che il Trattato considerava le diversità in materia di diritto societario come problemi non
risolti dalle stesse disposizioni relative alla libertà di stabilimento, la cui soluzione invece doveva essere
affidata ad iniziative legislative o pattizie, relativamente alle quali constatava “…che non si erano ancora
realizzate.”
33
Dopo le sentenze Cetros e Überseering, la Corte, a mio avviso, ha introdotto un nuovo
principio che definirei della “porta aperta”, essenzialmente riconducibile alla tesi che, in
via di principio, non devono porsi ostacoli al libero esercizio dell’intrapresa economica
all’interno del territorio comunitario a società costituite conformemente alla legislazione
di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di
attività principale all'interno della Comunità, purché l'attività abbia carattere effettivo e
continuato (legame territoriale).
Il ragionamento della sentenza Centros Ltd. è di una piacevole semplicità: la Corte
applica, letteralmente, le disposizioni degli artt. 43 CE e 48 CE, conformemente
all'interpretazione tradizionale delle libertà fondamentali contenute nel Trattato le quali,
una volta trascorso il periodo transitorio, esercitano un efficacia diretta o immediata.
Mancava, però, ancora un ostacolo, che la Corte a mio avviso ha superato, sancendo che
l'art. 293 CE “……non costituisce una riserva di competenza legislativa nelle mani degli
Stati membri”. Decorso il regime transitorio, se questa disposizione invita gli Stati
membri ad avviare negoziati al fine di facilitare la soluzione dei problemi derivanti dalla
diversità delle normative relative al reciproco riconoscimento delle società “……..ed al
mantenimento della loro personalità giuridica in caso di trasferimento della sede da un
paese ad un altro, essa è utile solo “per quanto occorra”, ossia nell'ipotesi in cui le
disposizioni del Trattato non consentono di realizzare gli obiettivi dello stesso.”80
Ne consegue che le questioni relative alla definizione del criterio di connessione
determinante della lex societatis, così come i problemi derivanti dal trasferimento
transfrontaliero della sede di una società venivano e vengono disciplinati, in mancanza di
armonizzazione, dagli ordinamenti degli Stati membri, i quali, ciononostante, dovranno
rispettare il diritto materiale di origine comunitaria.81
Mi pare dunque superato non solo il problema di diritto societario interno sorto all’epoca
della causa Daily Mail, ma anche la perplessità sul trasferimento della residenza fiscale
da parte di una società, collegato alla sede legale o alla sede centrale amministrativa.82
80
Così la Corte al punto 54 della sentenza Überseering, che aggiunge al punto 55: “Occorre più in
particolare sottolineare che, anche se le convenzioni la cui conclusione è incentivata dall'art. 293 CE
possono, allo stesso modo delle direttive di armonizzazione previste all'art. 44 CE, facilitare la
realizzazione della libertà di stabilimento, l'esercizio di questa libertà non può tuttavia essere condizionato
dall'adozione di tali convenzioni.” Occorre altresì constatare che la Corte pare, indirettamente, muovere un
rimprovero agli Stati CE per la mancata attuazione della convenzione di Bruxelles del 29 febbraio 1968 sul
reciproco riconoscimento delle società, che non poté mai entrare in vigore perché l’Olanda non la ratificò.
In tal guisa alla Corte non rimaneva altro che “sostituirsi” ancora una volta agli Stati, per far avanzare
l’integrazione europea.
81
Concordo pienamente con la tesi del superamento della Daily Mail, precisata dell’avv. Generale Damaso
Riuz- Jarabo Colomer , al punto 39 delle conclusioni sul caso Überseering, secondo il quale si “tratterebbe
piuttosto di completare tale decisione”, nel senso indicato nel testo.
82
Si tenga peraltro conto che ogni tipo di restrizione al trasferimento della sede, legale o effettiva che sia,
sarebbe alquanto desueta alla luce delle disposizioni sulla SE, art. 8 (regolamento 2157/2001/CE dell’8
ottobre 2001), per non citare gli effetti che avrà la sentenza Inspire Art. Ltd. (nota 73).
34
Resta però verificare, attraverso quattro distinti passaggi e alla luce degli orientamenti
della Corte, se il trasferimento della sede che presupponga anche quello della residenza
fiscale, non possa essere soggetto a misure, previste dai singoli ordinamenti degli Stati
membri, che ne siano d’ostacolo, verificandone a priori la criticità e se e in che misura
potrebbero dirsi adeguate e proporzionate agli obiettivi che perseguono.
1. In caso di ricorso alla “coerenza del sistema fiscale”, la Corte ha già indicato che
anche in coincidenza di unico contribuente, la coerenza del regime fiscale può
essere assicurata da misure meno restrittive o meno lesive della libertà di
stabilimento 83 , quindi “proporzionate” all’obiettivo cui sono dirette e non
discriminatorie.
2. Anche il motivo connesso alla “riduzione di entrate fiscali”, secondo una
giurisprudenza costante, non può essere considerata come una ragione imperativa
di interesse generale, che possa essere fatta valere per giustificare una disparità di
trattamento in linea di principio incompatibile con l'art. 43 CE. Infatti, un simile
obiettivo è di natura puramente economica e non può pertanto costituire una
ragione imperativa di interesse generale.
3. In merito ad un possibile “vantaggio fiscale” che deriverebbe dal contribuente dal
suo trasferimento, va rilevato che la Corte non lo considera un motivo imperativo
che legittimi una disposizione in contrasto con una libertà fondamentale, anche
supponendo che tale vantaggio esista. Nel caso Centros Ltd., la stessa Corte ha
ritenuto che il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una
società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario
gli sembrino meno severe …………. non può costituire di per sé un abuso del
diritto di stabilimento”: non vedo perché questo principio non possa valere anche
con riferimento ad regime tributario più favorevole.
4. Si tratta allora di valutare se possano essere giustificate e “proporzionate” misure
volte a scongiurare la frode e l’evasione fiscale, anche alla luce del fatto che gli
Stati, all’atto del trasferimento, pretendono forme di liquidazione delle imposte in
via anticipata rispetto al realizzo dei beni.
Quest’ultimo punto è tutt’ora in discussione avanti alla Corte84 , ma credo che alcune
considerazioni di ordine sistematico possano già essere avanzate.
In primo luogo, seppur la lotta all’evasione fiscale può effettivamente costituire un diritto
garantito ad ogni Stato membro, questo non potrà, in via di principio, essere fondato su
norme di presunzione assoluta, predeterminate, o peggio che non rispettino la parità di
trattamento tra soggetti domiciliati in diversi Stati membri, essendo, peraltro, questi
ultimi obbligati a procedere, caso per caso, ad un esame globale dell'operazione e tale
esame dovrà poter essere oggetto di sindacato giurisdizionale.85
Occorre poi chiedersi e valutare, se non sia un serio e pregiudizievole ostacolo alla libertà
di trasferimento, un sistema d'imposizione immediata delle plusvalenze o, al pari della
83
Sentenza citata X,Y e Riksskatteverket.
Causa C-9/02, Hughes de Lasteyrie du Saillant. Le conclusioni dell’avv. Jean Mischio sono state
presentate il 13 marzo 2003.
85
Per tutti sentenza Leur-Bloeum citata alla nota 46.
84
35
norma interna italiana86, al “valore normale dei componenti dell’azienda o del complesso
aziendale, anche se non ancora realizzati” (salvo che gli stessi non siano confluiti in una
stabile organizzazione situata nel territorio dello Stato, statuizione, quest’ultima, che
appare discriminatoria e restrittiva della libertà di stabilimento).87
Io personalmente credo di sì. E’ indubbio che tassare ciò che non è stato ancora
“realizzato” comporta, di per sé, una misura che inibisce significativamente la decisione
di una persona fisica o un’impresa a trasferirsi in un altro Stato. Non ne limita solo il
desiderio, ma altresì ne incide significativamente nella sfera dei suoi interessi personali,
allorché alla base del trasferimento vi sia un potenziale accordo con un altro operatore
economico stabilito in un Stato membro diverso88.
Il punto in discussione non è dunque il diritto al trasferimento, (che come ho sostenuto
sopra, oggi appare sostanzialmente garantito dal Trattato CE), ma il prezzo da pagare per
esercitare questa libertà.
In via di principio, pertanto, la potenziale onerosità di un sistema tributario che assoggetti
ad imposizione le plusvalenze “virtuali” non può essere considerato, proprio perché non
equo, motivo giustificato per combattere un’evasione fiscale, oltre a rappresentare una
misura assolutamente sproporzionata. Si tratterebbe, in sostanza, di una tipica restrizione
“all’uscita” dal territorio.
Peraltro, i beni, finché non vengono “trasferiti”, rimangono sul territorio dello Stato del
contribuente che intende domiciliarsi in un altro Stato e quindi possono essere oggetto di
controllo da parte delle singole autorità, oltre che soggetti a misure di natura cautelare o
conservativa se vi sono fondati motivi per temere un’evasione.
Identico controllo, al momento trasferimento del soggetto, è possibile se questi s’insedia
in un altro Stato membro. Per inciso ricordo che la Direttiva (77/799/CEE), relativa alla
86
Art. 20-bis del D.p.r. n. 917/86, che cambierà numerazione con la nuova IRES, ma rimanendo identico nel
testo, in art. 169.
87
Per quanto riguarda i beni confluiti in società o stabili organizzazioni fiscalmente domiciliate in Europa,
le relative (quanto eventuali) plusvalenze si considerano in ogni caso realizzate. Come è stato puntualmente
osservato (P. Cappellini e R. Lugano, in “Testo Unico delle imposte sui redditi”, ed. Il Sole 24 Ore, pag.
154), questo può dar luogo ad un fenomeno di doppia imposizione nel momento in cui le plusvalenze
vengano realizzate e tassate nello Stato estero, perché a fronte di questa tassazione la società o il singolo
imprenditore, non essendo più residente in Italia, non potrà più beneficiare del credito di imposta per le
imposte pagate all’estero.
88
Nel caso De Lasteyrie, ancora pendente, la Commissione UE ritiene che il sistema di imposizione
francese, oggetto della controversia, limita la libertà di stabilimento in quanto costituisce un ostacolo ad
operazioni di ristrutturazione, raggruppamento o fusione della società. Tali operazioni, infatti, comportano
necessariamente un conferimento o uno scambio di titoli, l'annullamento dei titoli precedenti e l'emissione
di nuove azioni. Per i contribuenti domiciliati in Francia, il conferimento, il riscatto, il rimborso o
l'annullamento dei diritti societari di cui trattasi può costituire oggetto di un rinvio dell'imposta, in presenza
di talune condizioni previste dalle disposizioni francesi. Detto rinvio non è però più possibile in caso di
trasferimento del domicilio all'estero. Infatti, i titoli che beneficiano del rinvio dell'imposta al momento del
trasferimento diventano immediatamente imponibili. Questa stessa disposizione sembra escludere il
beneficio di un rinvio dell'imposta in caso di cessione di titoli all'estero.
36
reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte
dirette e indirette, (recentemente modificata dalla Direttiva 2003/93/CE del 7 ottobre
2003), garantisce un reciproco scambio d’informazioni.
Inoltre, le convenzioni volte ad evitare la doppia imposizione, prevedono una clausola
generale, detta di assistenza alla riscossione, con la quale gli Stati si impegnano ad
accordarsi reciproco aiuto per riscuotere le imposte oggetto della convenzione.
Conclusivamente, vi è poi da osservare,che la Corte ha sempre indicato quali le misure
idonee ad evitare che un contribuente potesse sottrarsi all’imposizione, un sistema di
cauzioni o altre garanzie necessarie ad assicurare il pagamento dell'imposta.89
Anche qui, le supposte garanzie non potranno essere eccessive e soggette ad adempimenti
amministrativi suppletivi e d’informazione particolarmente gravosi a carico del
contribuente.
Per cui una garanzia non potrà sicuramente essere parametrata all’imposta sul valore
“virtuale” delle plusvalenze dei beni o del complesso aziendale, non solo per oggettive
difficoltà di valutazione e riscontro, ma proprio perché, così eventualmente reclamata,
costringerebbe il contribuente a recuperare da altre fonti la stessa provvista necessaria al
pagamento anticipato delle imposte rispetto al trasferimento o all’alienazione dei beni: e
saremmo di nuovo da capo, con una misura dissuasiva e sproporzionata.
Non vedo dunque motivo, ad “adeguate” e “proporzionate” condizioni, nel negare alle
società il trasferimento della loro residenza fiscale.
Attendiamo, dunque, che la Corte si pronunci sul caso De Lasteyrie; credo e confido che
anche questa sentenza segnerà un nuovo punto fermo in tema di trasferimento della
residenza fiscale all’interno della CE, che fin da tempo doveva essere affrontato
nell’alveo della libertà di stabilimento sancita dal Trattato e, dunque, “senza condizioni”
né “condizionamenti”.
5. Breve disamina di alcuni casi affrontati dalla Corte.
Dopo aver delineato i principi generali in base ai quali la Corte muove il suo pensiero, è
opportuno ora soffermarsi su alcuni casi per segnalarne il contenuto sotto un profilo
meramente pratico, con esclusivo riferimento all’imposizione sulle società.90
89
Sentenza citata X,Y e Riksskatteverket e sentenza 17 ottobre 1996, cause riunite C-283/94, C-291/94 e
C-292/94 Denkavit International BV.
90
Occorre però tenere in debita considerazione che spesso le decisioni di fiscalità che hanno riguardato le
persone fisiche, sono state poi riprese e citate in materia di tassazione delle società. Segnalo a tal fine
un’importante e nuova sentenza della Corte, 12 giugno 2003, sul caso Gerritse (C-234/01), in materia
d’imposizione e determinazione della base imponibile, sulle prestazioni professionali rese in Germania da
un cittadino residente in Olanda.
37
La trattazione è ristretta a quei procedimenti che, a mio parere, assumono un particolare
interesse nel contesto dell’odierno convegno. L’analisi, seppur, sintetica, è comunque
idonea a consentire una riflessione sui temi trattati.91
La compensazione e il riporto delle perdite.
ICI
La Causa C-264/96 (sentenza del 16.7.1998) vedeva parti la Imperial Chemical Industries
plc (ICI) e l’amministrazione finanziaria inglese.
La questione era sorta per effetto del diniego opposto dall’Ispettorato del Tesoro alla ICI
di poter ricorrere alla compensazione dei suoi utili con le perdite subite da una consociata
(CAH) di una Holding (Wellcome Fountation Ltd), posseduta dalla stessa ICI attraverso
un consorzio92: ma il problema si sarebbe proposto egualmente se la consociata fosse
stata direttamente controllata dalla ICI.
Infatti, malgrado le società coinvolte (ICI, Holding Wellcome e CHA) fossero stabilite
nel Regno Unito, il rifiuto dello “sgravio fiscale di gruppo” era motivato dal fatto che la
maggior parte delle società controllate dalla Holding aveva sede in Paesi terzi (19 su 23,
tra cui molti comunitari). Per la legge inglese al tempo del procedimento, questa
agevolazione era riservata solo alle Holding che detenevano in maggioranza società
commerciali stabilite nel Regno Unito.
La Corte rilevò che la normativa controversa era contraria alle disposizioni relative alla
libertà di stabilimento, che oltre ad assicurare il beneficio della disciplina nazionale dello
Stato membro ospitante, ostano parimenti a che lo Stato d'origine ostacoli lo stabilimento
in un altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la
propria legislazione e corrispondente alla definizione dell'art. 58 (ora 48) del Trattato.
Per cui la norma inglese era discriminatoria, in quanto negava il beneficio dello sgravio
fiscale alle società residenti che, attraverso una società holding, si erano avvalse del loro
diritto alla libertà di stabilimento per creare consociate in altri Stati membri.93
91
Per eventuali ed ulteriori approfondimenti, ho allegato l’ultimo elenco aggiornato delle “questioni” in
materia di fiscalità diretta trattate dalla Corte, peraltro interessanti, reperibili sul sito istituzionale
http://www.curia.eu.int/it/content/juris/index.htm: digitando il numero di causa si potrà avere accesso sia
alle sentenze sia alle conclusioni presentate dall’avvocato generale cui la causa era stata affidata. Si tenga
conto che per le decisioni emanate prima del giugno 1997 è disponibile solo la sentenza. Anche per quelle
emesse successivamente, in alcuni casi non è possibile recuperare le conclusioni dell’Avvocato Generale
(es. Centros e Leus-Bleum), che rappresentano un motivo di grande interesse perché sintetizzano le
opinioni e conclusioni presentate dai Governi degli Stati e della Commissione sul singolo caso.
92
Nel caso di specie, il termine “consorzio” era riferito all’intesa intercorrente tra imprese allo scopo di
costituire una joint venture operativa sul piano internazionale.
93
Osserva la Corte che nel caso di specie, il rischio di trasferimento di oneri diretto ad eludere la normativa
non era assolutamente collegato con l'esistenza o no di una maggioranza di consociate residenti o non
residenti nel Regno Unito, perché secondo la legislazione di allora bastava che esistesse anche una sola
controllata non residente perché il rischio fatto valere dal governo del Regno Unito potesse verificarsi.
Quanto all'argomento relativo all'impossibilità di compensare la riduzione di imposta derivante dallo
sgravio delle perdite delle controllate residenti con l'assoggettamento ad imposta degli utili delle controllate
38
In sostanza, non può ritenersi compatibile con le disposizioni del Trattato sul diritto di
stabilimento un “criterio della sede delle società controllate”, che riservi la concessione
di un qualsiasi vantaggio fiscale alle sole società che controllino esclusivamente o
principalmente consociate aventi sede sul territorio nazionale.
Futura - Singer
Il caso rappresentato alla Corte (C-250/95, sentenza del 15.5.1997), vedeva di fronte una
società di diritto francese, ivi fiscalmente residente, la Futura S.A. e la sua succursale, in
Lussemburgo, la Singer, contro l’amministrazione lussemburghese. Materia del
contendere era il riporto delle perdite da parte della succursale.
Le norme lussemburghesi dell’epoca consentivano ai residenti di detrarre dal totale dei
redditi netti le perdite di precedenti esercizi, alla condizione che avessero tenuto una
contabilità regolare nell’esercizio in cui si era verificata la perdita.
Diversamente, le succursali di società non residenti, potevano compensare le perdite solo
con i redditi ottenuti in Lussemburgo, cosicché erano oggetto di riporto soltanto le perdite
derivanti dagli utili prodotti dall'attività esercitata dal contribuente non residente nel
territorio lussemburghese (nesso economico). Inoltre, quale seconda condizione, le
succursali, che pur non erano tenute a tenere la contabilità, se volevano portare a nuovo
una perdita dovevano necessariamente tenere e conservare la contabilità all’interno del
Granducato (nell’esercizio in cui la perdita si era verificata) e in conformità alle norme
lussemburghesi.
La Corte si pronunciò prima sul “nesso economico”, verificando che mentre i residenti in
Lussemburgo erano assoggettati all'imposta per tutti i loro redditi e la base imponibile
non era limitata alle sole attività svolte in Lussemburgo, le succursali di società estere
erano tassate soltanto sugli utili e le perdite derivanti dalle loro attività lussemburghesi.
Atteso che quantomeno anche i residenti avrebbero potuto detrarre le perdite dagli utili
riferibili ad attività svolte in Lussemburgo 94 , la Corte non ritenne che il trattamento
tributario riservato alle succursali potesse comportare una discriminazione, palese o
dissimulata, vietata dal Trattato.
situate fuori dal Regno Unito, sostenuto dalla Ministero del Tesoro, la Corte sottolineò che la riduzione di
entrate fiscali che ne risulta non rientra fra i motivi enunciati all'art. 56 del Trattato e non può essere
considerata come un motivo imperativo di interesse generale che possa essere fatto valere per giustificare
una disparità di trattamento in linea di principio incompatibile con l'art. 52 del Trattato. Peraltro non
sussisteva nemmeno un nesso diretto tra lo sgravio fiscale, in capo alla società facente parte di un consorzio,
delle perdite subite da una delle sue controllate residenti nel Regno Unito, da un lato, e da altro lato
l'imponibilità degli utili delle controllate aventi sede fuori dal Regno Unito; per cui anche l’eccezione al
sistema della “coerenza fiscale” fu respinto.
94
E questo anche se all’epoca sussistevano esenzioni grazie alle quali una parte, o in taluni casi il totale, dei
redditi ottenuti fuori del Lussemburgo non soggiaceva all'imposta in Lussemburgo, poiché la base
imponibile dei contribuenti comprendeva, quanto meno, gli utili e le perdite derivanti dalle loro attività
lussemburghesi.
39
Ma di diverso avviso si pronunciò la Corte sulla questione della tenuta della contabilità
da parte della società francese (in Francia) per conto della sua succursale.
La Corte ritenne che gli scopi di controllo per verificare l'importo degli elementi della
base imponibile, invocato dalle autorità lussemburghesi, si sarebbero potuti utilmente
conseguire anche in base alla contabilità tenuta conformemente alle norme dello Stato
Francese.
Atteso che, in forza del diritto lussemburghese, le succursali non erano obbligate, in
generale, a tenere una contabilità regolare relativa alle attività svolte nel Granducato, la
Corte dedusse che le autorità lussemburghesi avevano rinunciato, in via di principio, alla
possibilità di ispezionare i loro documenti contabili.
Il solo interesse delle autorità lussemburghesi era, dunque, quello di verificare in modo
chiaro e preciso che l'importo delle perdite riportabili corrispondesse alle norme
lussemburghesi in materia di calcolo dei redditi e delle perdite vigenti nell'esercizio nel
corso del quale le perdite erano state subite.
Di conseguenza, purché il contribuente potesse comprovare in modo chiaro e preciso
l'importo delle perdite considerate, l’amministrazione finanziaria non poteva negarne il
riporto per il motivo che la succursale non aveva tenuto e conservato in Lussemburgo,
nell'esercizio in cui si era prodotta la perdita, una contabilità regolare relativa alle sue
attività in tale Stato.
La necessità del controllo, secondo la Corte, poteva peraltro essere soddisfatta facendo
ricorso allo scambio di informazioni far le autorità degli Stati membri a norma della
direttiva 77/799/CEE.
La Corte, quindi, valutò contraria al principio di libero stabilimento una norma che
subordinasse il riporto di perdite alla condizione che, durante l'esercizio nel corso del
quale le perdite si erano prodotte, il contribuente avesse tenuto e conservato in uno Stato
membro, relativamente alle attività da esso ivi esercitate, una contabilità conforme alle
norme nazionali in materia. E concluse : “…tuttavia, lo Stato membro interessato può
esigere che il contribuente dimostri in modo chiaro e preciso che l'importo delle perdite
che asserisce di aver subito corrisponde, secondo le norme nazionali in materia di
calcolo dei redditi e delle perdite vigenti durante l'esercizio considerato, all'importo
delle perdite da esso effettivamente subite in tale Stato”.
Vero che si trattava di un caso particolare, in cui la legislazione dello Stato membro non
obbligava alla tenuta della contabilità, salvo in caso di perdite per comprovarne
l’effettività.
Ma in previsione futura, non sono molto lontano dal prevedere che, in via generale, possa
essere ammesso che la contabilità sia elaborata e conservata dalla casa madre per conto
delle società figlie o sue stabili organizzazioni, e secondo la propria legislazione.
40
Per esempio, l’art. 61 del regolamento sulla Società Europea, in forza del 15°
considerando, prevede che le controllate (affiliate) di una SE Holding, dovranno
necessariamente redigere i loro conti annuali in forza delle disposizioni nazionali della
SE Holding, soprattutto ai fini del bilancio consolidato.
Dovranno quindi tenere e conservare la contabilità, per necessaria uniformità, secondo i
criteri e principi della giurisdizione della SE Holding.
Che cosa faranno, allora, le amministrazioni fiscali degli Stati delle controllate?
Imporranno una doppia contabilità ?
Ma vi è di più. Sempre in proiezione futura, l’armonizzazione dei principi contabili
(IASC)95 e degli schemi di redazione del bilancio, anche quale scelta opzionale lasciata
alla facoltà delle imprese, a mio parere non potrà imporre di tenere distinte contabilità,
nel rispetto della legislazione di due o più Stati CE; un obbligo del genere costituirebbe,
peraltro, uno dei tanti “costi di conformità” che la Commissione UE ha individuato tra le
cause che frenano lo sviluppo dell’attività transfrontaliera delle imprese.96
Senza parlare poi, concretamente, dell’avulsione di qualsiasi interferenza di natura fiscale,
nella redazione del bilancio ordinario e consolidato, che in Italia, a seguito della riforma
del diritto societario, imporrà alle imprese di rappresentare separatamente la
determinazione del proprio reddito imponibile. Staremo a vedere.
AMID
Il caso Algemene Maatschappij voor Investering en Dienstverlening NV (AMID), deciso il
14 dicembre 2000 (causa C-141/99), riguardava una società di diritto belga e ivi
domiciliata fiscalmente, la AMID appunto, che aveva istituito in Lussemburgo una stabile
organizzazione.
Nel 1981, mentre la AMID faceva registrare una perdita d’esercizio, la sua succursale
lussemburghese conseguiva degli utili, che in base alla convenzione contro la doppia
imposizione tra Belgio e Granducato, erano esenti da imposta in Belgio.
Non essendo possibile, ai fini dell'imposta lussemburghese sulle società, una
compensazione delle perdite belghe con gli utili lussemburghesi, la AMID, nella sua
dichiarazione successiva (1982), dedusse la perdita sofferta nel 1981 dai suoi utili belgi
prodotti nel 1982.
L’amministrazione fiscale belga si oppose sostenendo che le perdite subite nel 1981, in
mancanza di profitti realizzati sul suo territorio, dovevano prima di tutto essere imputati
agli utili esentati dall’imposizione e conseguiti dall’attività svolta in Lussemburgo dalla
succursale.
95
96
Regolamento (CE) n. 1606/2002 del 19 luglio 2002, in GUCE L. 243 dell’11 settembre 2002.
Rif. nota n. 1
41
La AMID, impugnando il rifiuto del fisco belga, sostenne che le disposizioni applicate nei
suoi confronti erano incompatibili con la convenzione contro le doppie imposizioni e che
inoltre svantaggiavano, in violazione del Trattato, le società aventi succursali all'estero
rispetto alle società aventi succursali unicamente in Belgio, mentre, se le sedi secondarie di
tali società si fossero trovate esclusivamente nello Stato membro d'origine, sarebbe stata
possibile la compensazione di queste stesse perdite.
Il governo Belga sostenne che le imprese belghe che avevano una succursale all'estero
non si trovavano nella stessa situazione delle imprese che avevano concentrato tutte le
loro operazioni in Belgio; per queste ultime, il reddito era calcolato in maniera globale e
assoggettato ad imposta all'aliquota applicabile in Belgio.97
La Corte partì dalla premessa che le disposizioni in tema di libertà di stabilimento vietano
che lo Stato d'origine ostacoli lo stabilimento in un altro Stato membro di un proprio
cittadino o di una società costituita secondo la propria legislazione e corrispondente,
peraltro, alla definizione dell'art. 58 (ora 48) del Trattato.
Non solo, ma su tale premesse, rilevò che, pur ammettendo che il regime tributario belga
sia nella maggior parte dei casi favorevole alle società aventi sedi secondarie all'estero,
ciò non toglie che, allorché tale regime si rivela svantaggioso per queste società, “…esso
dà luogo ad una disparità di trattamento rispetto alle società che non abbiano sedi al di
fuori del Belgio, creando così un ostacolo alla libertà di stabilimento garantita dall'art.
52 del Trattato”.
La Corte non contraddice il principio del “nesso economico”; ma sul punto principale
rileva che il Governo Belga non ha fornito alcuna giustificazione per cui le società belghe
che hanno una succursale in un altro Stato membro debbono essere trattate diversamente
da società che, invece, hanno succursali in Belgio.98
Negando il riporto delle perdite, la normativa belga di fatto precludeva od ostacolava
l’insediamento di succursali in altri Stati membri, essendo del pari irrilevante determinare
l’importanza della violazione della libertà di stabilimento, atteso che la Corte aveva già in
precedenza statuito che “l’art. 52 vieta qualsiasi discriminazione, sia pure di lieve
entità”.99
“Le società belghe aventi sedi all'estero sarebbero soggette ad imposta, per quanto riguarda i redditi
provenienti da tali ultime sedi, in conformità alle disposizioni tributarie dello Stato membro in cui le dette
sedi sono situate, fatte salve le disposizioni delle convenzioni preventive di doppia imposizione. Il governo
belga sostiene che, dal punto di vista del trattamento fiscale, le due categorie di imprese si troveranno
sempre in una situazione diversa, cosicché l'applicazione di un regime che dà luogo a risultati diversi non
costituisce necessariamente una discriminazione.”(punto 25 della sentenza in argomento).
97
98
“Infatti, una società belga che, non possedendo sedi al di fuori del Belgio, subisca perdite nel corso di un
determinato esercizio si trova, ai fini dell'imposta, in una situazione equiparabile a quella della società
belga che, avendo una sede in Lussemburgo, subisca perdite in Belgio e realizzi utili in Lussemburgo nel
corso dello stesso esercizio. Poiché non è dimostrata alcuna differenza di situazione obiettiva, una
differenza di trattamento per quanto riguarda la detrazione delle perdite in sede di calcolo del reddito
imponibile delle società non è ammissibile.” (punti 29 e 31 sentenza cit.)
99
Sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione – Francia, punto 21.
42
Agevolazioni fiscali
Compagnie de Saint Gobain.
Due interessanti dispositivi segnalo nella causa C-307/97, che vedeva di fronte la
succursale tedesca (ZN) della Saint Gobain, società di diritto francese, e
l’amministrazione finanziaria tedesca.
La succursale era iscritta nel registro del commercio in Germania ed era soggetta ad un
obbligo fiscale limitato ai redditi ivi prodotti. Il locale ufficio tributario (Finanzamt) si
era rifiutato di accordare alla Saint-Gobain SA talune agevolazioni fiscali, riguardanti
l'assoggettamento ad imposta dei dividendi da partecipazione in società di capitali
straniere, agevolazioni che erano riservati alle società soggette in Germania ad un obbligo
fiscale illimitato.
Infatti, tramite il capitale di esercizio della sua stabile organizzazione (la ZN), la Saint
Gobain SA deteneva tre partecipazioni: una “collegata” residente negli Stati uniti
d’America, e due “controllate” residenti in Germania; a loro volta, le “controllate”
detenevano partecipazioni in altre imprese, localizzate, rispettivamente, in Austria,
Svizzera e Italia.
Le controllate della Saint-Gobain SA situate in Germania, erano legate alla Saint-Gobain
ZN tramite un contratto di integrazione fiscale («Organvertrag»), in forza di una specifica
disposizione tedesca100.
La Saint-Gobain ZN contestò, dinanzi al giudice di rinvio, l’opposizione del Finanzamt
di accordarle tre agevolazioni fiscali relative ai dividendi, dirette ad evitare che proprio i
dividendi riscossi in Germania da società che possedevano partecipazioni in società
straniere e già assoggettati ad imposta all'estero, venissero nuovamente tassati in
Germania.
In particolare, il rifiuto di esentare dall’imposta tedesca sulle società i dividendi percepiti
dalla Saint-Gobain ZN provenienti da Stati terzi (nella fattispecie Stati Uniti e Svizzera),
fu giustificato dall’amministrazione finanziaria tedesca sulla base delle convenzioni
fiscali bilaterali stipulate tra la Germania e ciascuno di questi paesi terzi, le quali
riservano la concessione dell’esenzione alle società tedesche ed alle società assoggettate
in Germania ad un obbligo fiscale illimitato (cd. “privilegio di partecipazione
internazionale).
100
Nel contesto del regime tedesco dell'integrazione fiscale («Organschaft») la società controllante (società
capogruppo o «Organträger») di un gruppo di società si dichiara come unica debitrice dell'imposta sul
risultato globale del gruppo. I profitti e le perdite delle società controllate («Organgesellschaften») vengono
incorporati nei risultati della società controllante e, all'occorrenza, assoggettati all'imposta dovuta da
quest'ultima a condizione che, da un lato, le società controllate tedesche siano integrate sul piano
finanziario, economico e organico ad un'impresa tedesca (o, a talune condizioni, al centro di attività stabile
in Germania di una società straniera, come nella causa a qua) e che, d'altro lato, tra le società controllate e
la controllante esista un contratto di cessione degli utili («Gewinnabführungsvertrag») di una durata
massima quinquennale.
43
La Saint Gobain non poteva nemmeno usufruire del credito d’imposta (indiretto), relativo
all'imposta riscossa sugli utili distribuiti dalle società controllate e subcontrollate
straniere della Saint-Gobain SA nei paesi in cui esse avevano sede, in quanto la legge, al
tempo, riservava tale agevolazione unicamente alle società soggette in Germania ad un
obbligo fiscale illimitato.
La C.G.C.E. ritenne che il fatto di escludere dalle agevolazioni il centro di attività stabile
tedesco di una società di capitali con sede in Francia, costituisse una violazione degli artt.
43 (ex art. 52) e 48 (ex art. 58) del Trattato. E non poteva essere altrimenti.
Le situazioni delle società residenti e di quelle non residenti era oggettivamente diverso:
le società residenti potevano detrarre dall'imposta sulle società il credito d’imposta sui
dividendi da partecipazione in società straniere oppure escludere gli stessi dividendi dal
loro reddito. Il diniego di tali agevolazioni alle società che operavano con una stabile
organizzazione, invece, faceva sì che il loro obbligo fiscale, teoricamente limitato ai
redditi e al patrimonio “nazionali”, gravasse in realtà su dividendi di origine estera e su
partecipazioni in società di capitali straniere.
Ma il punto principale della sentenza è che essa rivolge un richiamo agli Stati membri
sull’osservanza del Trattato anche in materia di convenzioni internazionali contro le
doppie imposizioni.
Quindi, ancor prima della sentenza Überseering, la Corte statuiva i limiti della riserva di
competenza degli Stati membri in base all’art. 293 (ex 220) del Trattato CE. Il riferimento
è chiaro per quanto espresso nei punti da 56 e 57 della sentenza in commento.
Pur riconoscendo che gli Stati membri, in mancanza di misure di unificazione
comunitaria, segnatamente ai sensi dell'art. 220, secondo trattino, del Trattato CE
(divenuto art. 293, secondo trattino, CE), restano competenti a determinare i criteri della
tassazione dei redditi al fine di eliminare, se del caso mediante convenzioni, le doppie
imposizioni, ed in tale ambito, sono liberi di stabilire i fattori di collegamento al fine di
ripartirsi la competenza tributaria101, gli Stati stessi “…non possono tuttavia esonerarsi
dal rispettare le norme comunitarie”, esercitando il loro potere impositivo nel rispetto
del diritto comunitario.
Come è stato puntualmente precisato102, la pronuncia riveste una notevole importanza in
merito ai rapporti tra diritto comunitario e convenzioni fiscali bilaterali, chiarendo che –
pur non rientrando la stipulazione di convenzioni bilaterali con un paese terzo nella sfera
di competenza comunitaria, il principio del trattamento nazionale “…impone di
riconoscere alle società con sede negli Stati membri lo stesso trattamento riconosciuto ad
uno Stato terzo nell’ambito di una convenzione.”
101
Sentenza 12 maggio 1998, causa C-336/96, Gilly, Racc. pag. I-2793, punti 24 e 30
Marco Iuvinale e Emanuele Marchi. “Lo stato della fiscalità nell’Unione Europea” in Dossier tematici.
Studio promosso dal Dipartimento per le politiche fiscali del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
unitamente alla Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, da poco disponibile sul sito Internet
http://www.finanze.it/dossier_tematici/fiscalita_unione_europea.
102
44
Acconti d’imposta
Metallgesellschaft Ltd.
Il pagamento anticipato dell’imposta sulle società sui dividendi distribuiti dalla
controllata alla sua casa madre, è stato oggetto dei procedimenti riuniti C-397/98 e C410/98 (sentenza dell’8 marzo 2001), tra la Metallgesellschaft Ltd. e la sua controllante
Metallgesellschaft AG e l’Inlad Revenue.103
La causa, come detto, era incentrata sull’acconto d’imposta sulle società inglese
(“Advance Corporation Tax”, in breve “ACT”). In forza di questa disposizione, le società
con sede nel Regno Unito che avessero erogato i dividendi, erano assoggettabili in tale
occasione all'ACT su un imponibile pari all'importo o al valore della distribuzione
effettuata. Le società erano tenute anche a presentare una dichiarazione per ogni trimestre
indicando l'importo della distribuzione effettuata durante il periodo considerato. L'ACT
era dovuta entro 14 giorni dalla fine di ciascun trimestre.
In linea di principio, l'ACT pagata durante il periodo d’imposta, poteva essere imputata a
riduzione della “corporation tax” (CT) dovuta a saldo o, in alternativa, essere trasferita
alle consociate della società, le quali potevano imputarla a riduzione della CT (imposta
sulle società) da esse dovuta.
La “corporation tax” era dovuta soltanto nove mesi dopo la fine dell'esercizio contabile,
mentre l'ACT doveva essere pagata entro 14 giorni dalla fine del relativo periodo
trimestrale, di modo che l'effetto dell'ACT su una società che avesse scelto di distribuire
dividendi, era di anticipare la data del pagamento dell’imposta dovuta sulle società;
peraltro, qualora la CT non fosse risultata dovuta per il periodo considerato, l'ACT
avrebbe potuto essere scomputata dal reddito imponibile dei periodi successivi, nel qual
caso l'anticipo sarebbe stato effettuato per un periodo più lungo (o persino indefinito).
Tuttavia, il punto cruciale consisteva nell’esenzione dall'ACT di cui potevano fruire la
consociata e la sua capogruppo che avessero optato per l'imposizione degli utili a livello
di gruppo (group income election), ma tale facoltà era però consentita solo alle società
delle quali l'una detenesse almeno il 51% dell'altra e che fossero entrambe stabilite nel
Regno Unito.
La Metallgesellschaft Ltd., società stabilita nel Regno Unito, pagò i dividendi alla sua
capogruppo, Metallgesellschaft AG che aveva sede in Germania, e, a questo titolo, fu
assoggettata al pagamento dell'ACT, dedotta in seguito dall’imposta sulle società.
Successivamente la capogruppo citava i Commissioners of Inland Revenue affinché fosse
dichiarato che essa aveva subito un danno a causa dell'assoggettamento all'ACT sulle
distribuzioni di dividendi effettuata dalla società controllata.
103
Le cause erano riunite perché identica contestazionee fu avanza dalla Hoechst (UK) Ltd e dalla sua
controllante Hoechst AG.
45
La casa madre sosteneva che, poiché né essa né la sua controllata poteva optare per il
regime d'imposizione a livello di gruppo, che avrebbe consentito di evitare il pagamento
dell'ACT, essa aveva subito un danno dal punto di vista finanziario, che non
sopportavano le controllate delle società capogruppo con sede nel Regno Unito, le quali
beneficiavano, dunque, di termini più lunghi: tale danno costituiva una discriminazione
indiretta fondata sulla cittadinanza, contraria al Trattato CE.
In via subordinata, la Metallgesellschaft AG affermava che essa avrebbero dovuto
beneficiare di un credito d'imposta pari, almeno parzialmente, all'ACT versata dalla sua
filiale nel Regno Unito, alla stregua di una società capogruppo stabilita nel Regno Unito,
che invece ne aveva diritto.104
La Corte non poté che acclarare la disparità di trattamento delle controllate con sede in
Inghilterra, a seconda che la loro società madre avesse sede o meno nel Regno Unito105:
la disposizione violava apertamente il diritto di stabilimento, e richiamandosi ai suoi
precedenti, non accolse alcuno dei motivi imperativi sostenuti dal governo inglese
(riduzione delle entrate tributarie, rischio di evasione, coerenza del regime fiscale).
La differenza di regime fiscale delle società capogruppo, a seconda che esse fossero
stabilite o meno nel Regno Unito, era inconciliabile, perché tutte le società controllate
erano assoggettate alla mainstream corporate tax sugli utili, e quindi, in origine, senza
alcuna distinzione in base alla sede della loro società madri.
Nulla poteva giustificare il fatto che si negasse un'agevolazione fiscale (in via di principio
di qualunque tipo) a società, fiscalmente residenti nel Regno Unito, ma controllate da
case madri stabilite in un altro Stato CE: agevolazione, quindi, di cui potevano
beneficiare, invece, solo le società controllate, con sede nel Regno Unito, di case madri
parimenti residenti nel Regno Unito.
Ma la sentenza è importante anche per un altro motivo. La capogruppo riteneva fondato
diritto di esigere una somma a titolo di interessi sull’ACT, quale risarcimento per aver
anticipato l’imposta e, pertanto, aver dovuto soccorrere con fonti finanziarie che avrebbe
potuto impiegare altrimenti.
Il giudice del rinvio chiese alla Corte:
“..Ovvero al pari di una società capogruppo non stabilita nel Regno Unito ma che abbia diritto al
credito d'imposta in virtù di una convenzione sulla doppia imposizione.”
104
105
Infatti, le società controllate con sede nel Regno Unito di società capogruppo ivi stabilita, potevano
beneficiare, a determinate condizioni, del regime della tassazione degli utili a livello di gruppo ed essere
quindi dispensate dall'obbligo di pagare l'ACT quando distribuivano dividendi alle loro case madri. Tale
vantaggio, al contrario, era negato alle controllate con sede nel Regno Unito di società che non avevano ivi
la sede, e che erano pertanto sempre soggette all'obbligo di pagare l'ACT quando versavano dividendi alle
loro società capogruppo.
46
•
•
se le disposizioni del Trattato CE attribuivano alla società controllata e/o alla casa
madre il diritto di esigere una somma di denaro a titolo di interessi sull'ACT,
versata perché la normativa nazionale non le consentiva di optare per la tassazione
degli utili a livello di gruppo;
se uno Stato membro, in risposta a tale richiesta di rimborso, o risarcimento danni,
poteva invocare il fatto che le ricorrenti non avevano diritto al recupero, o questa
avrebbe potuto essere ridotta, poiché, nonostante il testo della legge nazionale
vietasse le agevolazioni, esse avrebbero dovuto presentare preventivamente un
apposito ricorso all’amministrazione finanziaria (Commissioners) e, contro una
eventuale decisone avversa, al giudice competente, richiamandosi alla preminenza
e all'effetto diretto delle disposizioni del diritto comunitario.
Con estrema fermezza, la Corte sancì (punti 2 e 3 della sentenza), che:
•
•
Il solo fatto che un simile ricorso avrebbe ad oggetto solamente il pagamento
degli interessi corrispondenti alla perdita finanziaria subita a causa
dell'indisponibilità delle somme anzitempo versate, non costituisce un motivo
valido per respingere tale ricorso.106
Il diritto comunitario vieta che un giudice nazionale respinga o riduca una
domanda ad esso proposta da una società controllata con sede nello Stato
interessato e dalla relativa capogruppo, avente sede altrove, …per il solo motivo
che esse non hanno chiesto all'amministrazione fiscale di beneficiare del regime
d'imposta che avrebbe comportato l'esenzione…, e non hanno quindi utilizzato i
mezzi di ricorso a loro disposizione per contestare le decisioni di rigetto
dell'amministrazione fiscale, …quando la normativa nazionale comunque negava
il beneficio del detto regime d'imposizione alle controllate stabilite nello Stato
interessato e alle loro società capogruppo stabilite altrove.
Thin capitalization
Lankorst - Hohorst GmbH
In un recente caso (sentenza del 12 dicembre 2002 nella causa C-324/00), la Corte ha
affrontato la disposizione anti-abuso nota come thin capitalization.
La Lankhorst-Hohorst GmbH, con sede legale ed effettiva in Germania, era controllata al
100% da una società residente in Olanda, la Lankhorst-Hohorst BV (per comodità, in
seguito LH BV); quest’ultima era poi a sua volta controllata da un’altra società, anch’essa
con sede in Olanda: la Lankhorst Taselaa BV (per comodità, in seguito LT BV).
La controversia nasce da un ingente finanziamento (3 milioni di DEM), erogato nel 1996
dalla controllante “indiretta” (LT BV) alla Lankhorst-Hohorst.
106
Aggiungendo: “ In mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all'ordinamento giuridico interno
dello Stato membro interessato stabilire le modalità procedurali di tali ricorsi, ivi comprese le questioni
accessorie, come l'eventuale corresponsione di interessi, tali norme non devono rendere praticamente
impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico
comunitario.”
47
La restituzione del finanziamento era prevista in dieci rate, a partire dal 1° ottobre 1998;
il tasso di interesse, variabile, ammontava sino alla fine del 1997 al 4,5%. Gli interessi
andavano corrisposti alla fine dell'anno. Così, a titolo di interessi, venivano versati alla
controllane “indiretta” DEM 135.000 per il 1997, e DEM 109. 695 per il 1998.
Il prestito veniva provvisto di una lettera di patronage, in base alla quale la “capogruppo”
avrebbe rinunciato alla restituzione del prestito se la sua controllata fosse stata escussa da
terzi creditori.
Malgrado il finanziamento avesse effettivamente ridotto l’esposizione bancaria a breve
termine, la società tedesca aveva sofferto perdite notevoli dal 1996 al 1998, deficit che
non era coperto dal suo patrimonio netto.
Negli accertamenti relativi all'imposta sulle società riguardanti gli esercizi 1997 e 1998,
l'amministrazione tributaria tedesca, in forza delle disposizioni nazionali, considerava gli
interessi pagati alla capogruppo olandese come distribuzione – dissimulata - di utili e
applicava pertanto su di essi l'imposta del 30%.
A sostegno del proprio ricorso, la Lankhorst-Hohorst sosteneva che:
•
•
•
la concessione del prestito sarebbe stata un tentativo di salvataggio da parte della
Holding olandese e che gli interessi versati a quest'ultima dalla controllata, non
potevano essere qualificati come distribuzione dissimulata di utili;
che la disposizione tedesca era discriminatoria, tenuto conto del trattamento
riservato agli azionisti tedeschi che beneficiano del credito d'imposta (a differenza
della LHBV e della LTBV, con sede nei Paesi Bassi) e, di conseguenza, contrario
al diritto comunitario, segnatamente all'art. 43 CE;
infine, che il prestito sarebbe stato concesso soltanto per ridurre al minimo i costi
comportando un notevole risparmio di interessi bancari, osservando che, prima
della modifica del prestito bancario, gli interessi ammontavano quasi al doppio di
quelli pagati alla sua capogruppo olandese. Quindi, non si trattava del caso in cui
un azionista, che non ha il diritto di far valere o recuperare il credito d’imposta,
cercasse di eludere la ritenuta d’imposta sulla distribuzione di utili procurandosi il
pagamento di interessi (oltre ad abbattere il reddito imponibile della controllata).
Il Finanzamt Steinfurt, pur ammettendo che l'applicazione della disposizione nazionale
sulla thin capitalization può avere come risultato di peggiorare la situazione di società in
crisi, riteneva che :
•
•
essa non era contraria al principio comunitario di non discriminazione. In tal
senso, faceva valere che numerosi Stati si sarebbero dotati di disposizioni aventi
un obiettivo analogo, in particolare in materia di abuso, riconnettendo importanza
alla proporzione tra capitali propri e capitali esterni;
le disposizioni legislative nazionali escludevano anche numerose categorie di
contribuenti tedeschi dal diritto al credito d'imposta;
48
•
il principio di unicità dell'imposizione nazionale e la coerenza del sistema fiscale
tedesco, legittimerebbero l'applicazione della norma antiabuso nel caso di specie.
Il punto però era un’altro: come segnalato dal giudice del rinvio, la Corte ha subito
rilevato (punti 28, 29 e 30 della sentenza), che la norma tedesca sulla thin capitalization
si applicava solo alle “remunerazioni” per i finanziamenti che una società di capitali
soggetta ad obbligo fiscale illimitato riceveva da un azionista non avente diritto al credito
d'imposta.
Proprio perché le società capogruppo residenti in Germania sono soggette ad un obbligo
fiscale illimitato, esse posso beneficiare del credito d’imposta: ne consegue che la norma
anti-abuso non tornava loro applicabile.
Per cui, mentre gli interessi versati da una controllata residente in Germania, a titolo di
remunerazione di finanziamenti erogati da una società capogruppo domiciliata in altro
Stato CE venivano tassati come dividendi dissimulati all'aliquota del 30 %, se si trattava
di una controllata residente la cui casa madre, beneficiaria del credito d'imposta, era
anch'essa residente in Germania, gli interessi versati dalla controllata erano trattati come
spese d'esercizio e non come dividendi dissimulati.
La Corte non poteva non concludere che una tale disparità di trattamento costituisse una
restrizione alla libertà di stabilimento, in linea di massima vietata dall'art. 43 CE. “…..La
norma tributaria in questione rende meno vantaggioso l'esercizio della libertà di
stabilimento da parte delle società stabilite in altri Stati membri, le quali potrebbero di
conseguenza rinunciare all'acquisizione, alla creazione o al mantenimento di una
controllata nello Stato membro che promulga questa norma”107
Sorvolando sull’ennesima eccezione della coerenza sul sistema fiscale, cassata anche in
questa sentenza dalla C.G.C.E., mi limito ad osservare che lo stesso governo tedesco,
spalleggiato da quello danese e inglese, sostennero che la norma sulla
“sottocapitalizzazione” o “della capitalizzazione dissimulata” era destinata alla lotta
all’evasione fiscale108 e quindi giustificava una discriminazione quale motivo imperativo
di interesse generale.
La Corte, nel merito, osserva che la normativa interna non aveva quale obiettivo specifico
di escludere da un vantaggio fiscale le costruzioni “puramente artificiose”109 il cui scopo
era quello di eludere la normativa fiscale tedesca, ma vi ricomprendeva, in via generale (e
presuntivamente), “…… qualunque situazione in cui la società capogruppo abbia la sua
sede, per qualsiasi motivo, fuori dalla Repubblica federale tedesca”.
107
Punto 32 della sentenza in esame.
108
“…a parità di condizioni, sarebbe più vantaggioso assicurare il finanziamento di una controllata con
un prestito piuttosto che con conferimenti di capitale. In tal caso, infatti, gli utili della controllata sono
trasferiti alla società capogruppo sotto forma di interessi deducibili al momento del calcolo degli utili
imponibili della controllata, e non sotto forma di dividendi non deducibili. Nel caso in cui la controllata e
la società capogruppo abbiano le loro sedi in paesi diversi, il debito fiscale può allora essere trasferito da
un paese all'altro”. (punto 34 della sentenza).
109
Si veda la nota n. 37.
49
Richiamando la sentenza ICI, la Corte concludeva che “….questa situazione non
comporta, di per sé, un rischio di evasione fiscale, dato che la società (controllante) è
comunque soggetta alla normativa fiscale dello Stato in cui è stabilita”.110
La sentenza ci dice, dunque, che la norma sulla “thin capitalization” non può essere, per
quanto tale, assunta a fondamento di accertamenti fiscali, laddove non sia dimostrato
l’effettivo intento elusivo.
Non deve, quindi, trattarsi di una “presunzione assoluta”, dovendo valutarsi caso per caso,
la natura del finanziamento e la situazione economico-finanziaria della controllata, e ove
volta a ridurne la base imponibile, dovrà esserne accertata la sua costruzione puramente
artificiosa.
Come visto, il solo fatto di “trasferire” gli interessi da una società domiciliata in uno
Stato CE ad un’altra società residente in un altro Stato membro non comporta, di per sé,
un rischio di evasione fiscale, beninteso se la casa madre è assoggettata regolarmente ad
imposta.
In ogni caso, molto dipenderà da come verrà trasposta ed interpretata la nuova direttiva
concernente il regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra
società consociate di Stati membri diversi.111
Direttiva madri e figlie – Costi relativi alla partecipazione.
Athinaïki Zythopoiia AE
Il caso (C-294/99 sentenza del 4 ottobre 2001), riguardava una società per azioni greca, la
Athinaïki Zythopoiia AE e la competente autorità fiscale (Elliniko Dimosio), ed aveva
per oggetto l’interpretazione di “nozione di ritenuta alla fonte”, contenuta nell’art. 7, 1°
comma 1 della direttiva madri e figlie (90/435/CEE).
L'art. 7, n. 1, della direttiva precisa così la portata della “nozione di ritenuta alla fonte”:
L'espressione ritenuta alla fonte utilizzata nella presente direttiva non comprende il
pagamento anticipato o preliminare (ritenuta) dell'imposta sulle società allo Stato
membro in cui ha sede la società figlia, effettuato in concomitanza con la distribuzione
degli utili alla società madre.
L'art. 7, n. 2, della direttiva dispone che:
La presente direttiva lascia impregiudicata l'applicazione di disposizioni nazionali o
convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei
110
Punto 37 della sentenza in esame. In ogni caso, al punto 38 la Corte constata che “……nella fattispecie
non si ravviserebbe alcun abuso, essendo il prestito effettivamente intervenuto per ridurre, in favore della
ricorrente nella causa principale, l'onere degli interessi finanziari risultanti dal suo credito bancario.
Inoltre, si evince dagli atti che la Lankhorst-Hohorst era, per gli esercizi dal 1996 al 1998, in perdita, e ciò
per importi largamente superiori agli interessi versati alla LT BV. “.
111
Direttiva del Consiglio 2003/49/CE del 3 giugno 2003, in GUCE L. 157 del 26 giugno 2003.
50
dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti di imposta ai
beneficiari dei dividendi.
L’art. 7 deve però essere messo necessariamente in correlazione con l'art. 5, n. 1, della
medesima direttiva, disposizione al centro della causa principale, che dispone:
Gli utili distribuiti da una società figlia alla sua società madre, almeno quando
quest'ultima detiene una partecipazione minima del 25% nel capitale della società figlia,
sono esenti dalla ritenuta alla fonte.
La Athinaïki Zythopoiia A.E., produceva e commercializzava birra; il 92,17% del suo
capitale era detenuto dalla società olandese Amstel International.
Nel 1996 la Athinaïki Zythopoiia aveva realizzato degli utili che, benché in forza di
alcune agevolazioni vigenti all’epoca dei fatti (ed linea di principio) fossero esonerati
dall'imposta sui redditi greca, vi erano stati ugualmente assoggettati poiché la controllata
aveva distribuito parte degli utili esenti (come dividendi) alla capogruppo. La società
greca richiese il rimborso dell’imposta pagata (negato dall’amministrazione finanziaria),
sostenendo che la particolare disposizione interna prevedeva un tipo di imposizione che,
“….per il solo fatto di essere collegato alla distribuzione di utili, costituisse una ritenuta
alla fonte vietata dall'art. 5, n. 1, della direttiva”.
Il governo ellenico osservò che l’art. 4, n. 1 della direttiva presupponesse un lecito
assoggettamento ad imposta della società figlia112, mentre l'art. 5, n. 1, della direttiva
escluderebbe la ritenuta alla fonte solo al momento della distribuzione degli utili,
sostenendo che la disposizione controversa non corrispondeva ad una ritenuta alla fonte,
ma rientrava nell'ambito dell'assoggettamento ad imposta del reddito della consociata.113
La Corte richiamò, preliminarmente, il terzo “considerando” della direttiva, che mira ad
eliminare, instaurando un regime fiscale comune, qualsiasi penalizzazione della
cooperazione tra società di Stati membri diversi, sì da facilitare il raggruppamento di
società su scala comunitaria.
Successivamente, richiamando la propria costante giurisprudenza, rilevò “...che la
qualificazione di un'imposta, tassa, dazio o prelievo alla luce del diritto comunitario
112
L’art. 4, n. 1, prevede che :
Quando una società madre, in veste di socio, riceve dalla società figlia utili distribuiti in occasione diversa
dalla liquidazione di quest'ultima, lo Stato della società madre:
- si astiene dal sottoporre tali utili a imposizione;
- o li sottopone a imposizione, autorizzando però detta società madre a dedurre dalla sua imposta la
frazione dell'imposta pagata dalla società figlia a fronte dei suddetti utili e, eventualmente, l'importo della
ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro in cui è residente la società figlia in applicazione delle
disposizioni derogatorie dell'articolo 5, nel limite dell'importo dell'imposta nazionale corrispondente».
113
Punti 23 e 24 della sentenza in esame. Il governo ellenico concludeva la sua esposizione, dichiarando
che la modalità di tassazione degli utili distribuiti prevista dalla norma interna “….non avrebbe alcuna
relazione…….con la ritenuta alla fonte vietata dalla direttiva. Poco importerebbe che il versamento
dell'imposta avvenga al momento della distribuzione degli utili alla società capogruppo, dato che tali utili
sono assoggettati ad imposta a nome della consociata.”
51
dev'essere compiuta dalla Corte sulla scorta delle caratteristiche oggettive dell'imposta,
indipendentemente dalla qualificazione che le viene attribuita nel diritto nazionale” 114
Sulla base dei fatti dedotti in causa, la C.G.C.E. accertò che l’assoggettamento successivo
della parte di reddito in prima istanza esentato dall’imposta, si verificava allorché la
società controllata lo erogasse, quale dividendo, alla società madre; per cui, il tributo
dovuto era in rapporto diretto con l’ammontare della distribuzione operata.
Respingendo la tesi del governo ellenico115, la Corte confutò che il conguaglio d’imposta
pagato dalla figlia potesse essere equiparato all'imposta sulle società, poiché il tributo si
riferiva ai redditi assoggettati ad imposta solo in caso, ed in concomitanza, della
distribuzione dei dividendi ed entro i limiti dei dividendi versati.
Infatti, questi redditi non sarebbero stati imponibili, in base alla legge nazionale, se
fossero rimasti presso la consociata e non fossero stati distribuiti alla capogruppo. Si
trattava, pertanto, di una (dissimulata) ritenuta vietata dall’art. 5, n. 1, della direttiva.116
Ma un altro punto affrontato dalla Corte, riguardava l’analisi della convenzione contro le
doppie imposizioni conchiusa tra Grecia e Olanda, che il governo ellenico richiamava per
giustificare l’imposizione in Grecia dei dividendi risultanti dalla partecipazione di società
straniere in società greche.
La Corte contestò anche questa eccezione, sulla scorta del fatto che la convenzione fosse,
invece di attenuarla, foriera di una doppia imposizione. Questo perché “…da una parte,
l'art. 10, n. 1, di tale convenzione autorizza lo Stato di residenza dell'azionista ad
assoggettare ad imposta i dividendi distribuiti. D'altra parte, l'art. 10, n. 2, della detta
convenzione autorizza lo Stato della sede della società erogatrice ad assoggettarli ad
imposta anch'esso, ad un'aliquota che non può tuttavia eccedere il 35% per quanto
riguarda i dividendi versati da una società stabilita in Grecia ad un'azionista residente
nei Paesi Bassi.”117
Concludendo che “…qualora la deroga di cui all'art. 7, n. 2, della direttiva non sia
applicabile, i diritti attribuiti agli operatori economici dall'art. 5, n. 1, della direttiva
114
Punto 27 con richiamo alla sentenza 13 febbraio 1996, cause riunite C-197/94 e C-252/94, Bautiaa e
Société française marittime, punto 39.
115
Punto 29.
Va rilevato che nel recente caso Océ van der Grinten NV (causa C-58/01 decisa il 25 settembre 2003), la
Corte ha invece reputato legittima l’applicazione di una ritenuta all’atto della distribuzione dei dividendi,
prevista dalla convenzione sulla doppia imposizione tra Regno Unito e Olanda, nella misura in cui colpisce
il credito d'imposta, che non costituisce un utile della società figlia ma una agevolazione concessa dallo
Stato della fonte (nella circostanza l’Inghilterra) alla società madre. Per la Corte è parimenti compatibile
con l’'art. 7, n. 2, della direttiva 90/435/CEE, una ritenuta del 5% sia sull’ammontare dei dividendi sia del
credito d’imposta, atteso che il prelievo è in diretta connessione con il riconoscimento (e pagamento) di un
credito d’imposta, che costituisce un maggior vantaggio per la casa madre olandese. Per cui, nei limiti in
cui l’aliquota convenzionale non annulli gli effetti dell’attenuazione della doppia imposizione economica
dei dividendi, la ritenuta non è in contrasto con il divieto di cui all’art. 5, n. 1, della direttiva (punto 87).
116
117
Punto 31.
52
sono assoluti e uno Stato membro non può far dipendere la loro osservanza da una
convenzione conclusa con un altro Stato membro”. 118
BOSAL BV
Sul sito della C.G.C.E. è stata da poco resa disponibile la sentenza 18 settembre 2003 sul
caso BOSAL BV (causa C-168/01).
La questione sottoposta al vaglio della Corte è incentrata sul secondo paragrafo dell’art. 4
della Direttiva 90/435/CEE del 23 luglio 1990, concernente il regime fiscale comune
applicabile alle società Madri e figlie di Stati membri diversi, secondo cui : Ogni Stato
membro ha tuttavia la facoltà di stipulare che oneri relativi alla partecipazione e
minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia non siano
deducibili dall'utile imponibile della società madre. In tal caso, qualora le spese di
gestione relative alla partecipazione siano fissate forfettariamente, l'importo forfettario
non può essere superiore al 5% degli utili distribuiti dalla società figlia».
La Bosal BV, società con sede nei Paesi Bassi, all’epoca della causa deteneva diverse
partecipazioni in società nazionali ed estere sia all’interno che al di fuori della UE, e
queste partecipazioni variavano da un minimo del 50% ad un massimo del 100% del
capitale posseduto.
Nel 1993 la Bosal sopportò circa 4 milioni di fiorini quali costi legati al finanziamento
delle sue partecipazioni in società con sede in altri nove Stati membri e ne chiedeva la
detrazione dal suo redito imponibile, sostenendo che l'art. 13 della legge olandese
sull'imposta sulle società, non fosse applicabile in quanto contrario all'art. 52 del Trattato
CE (ora art. 43 CE), poiché ammetteva la detrazione solo se i costi di partecipazione
erano “indirettamente” destinati all'acquisizione di utili imponibili nei Paesi Bassi.
In sostanza, la legge olandese consentiva la detrazione dei costi di partecipazione alla
casa madre, solo allorché una società figlia partecipata producesse utili imponibili nei
Paesi Bassi e, quindi, tramite una stabile organizzazione stabilita sul proprio territorio.
Secondo la Bosal, quindi, la normativa olandese ostacolava l'esercizio della libertà di
stabilimento sotto forma di acquisizione di società figlie, poiché sfavorirebbe quelle
società madri le cui controllate non svolgessero attività imponibile in Olanda.
I punti principali sui quali la Corte era chiamata a decidere erano sostanzialmente tre.
In primo luogo, doveva accertare se la norma di trasposizione interna fosse conforme alla
direttiva 90/435/CEE e rispettosa delle disposizioni fondamentali del Trattato; indi, la
fondatezza di un “nesso diretto” che giustificasse la coerenza del regime fiscale olandese;
infine, era chiamata a valutare la tesi sulla sussistenza di un “nesso economico” tra costi
118
Punto 32 e nello stesso senso, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia, punto 26.
53
deducibili e utili imponibili, fondato sul principio di territorialità, tesi avanzata dal
governo olandese sul precedente della sentenza Futura – Singer.119
Sul primo argomento, la Corte rileva che, apparentemente, la disposizione nazionale
controversa è compatibile con la direttiva, atteso che l'art. 4, n. 2, riconosce ad ogni Stato
membro la facoltà di prevedere che alcuni o tutti gli oneri relativi ad una partecipazione
non siano deducibili dall'utile imponibile della società madre.120
Tuttavia, la “deroga” contenuta nella disposizione olandese che ammette la deducibilità
dei costi di partecipazione da parte della società madre con sede nei Paesi Bassi, alla
condizione in cui queste ultime conseguano, foss'anche indirettamente, utili imponibili in
Olanda, costituisce una limitazione per le altre società capogruppo in quanto di ostacolo
alla costituzione di società figlie in altri Stati membri.
“Infatti, data tale limitazione, una società madre potrebbe essere dissuasa dall'esercitare
le proprie attività con l'intermediazione di una società figlia stabilita in un altro Stato
membro, in quanto simili società figlie non realizzeranno, in linea di massima, utili
imponibili nei Paesi Bassi.” 121
Inoltre, una simile limitazione “…confligge con l'obiettivo della direttiva, enunciato al
terzo considerando, secondo il quale occorre instaurare un regime comune ed evitare la
penalizzazione legata all'applicazione di norme fiscali che disciplinano le relazioni tra
società madri e figlie di Stati membri diversi meno favorevoli rispetto a quelle applicabili
alle relazioni tra società madri e figlie di uno stesso Stato membro.”122
La Corte, successivamente al punto 32, richiamandosi a precedenti sentenze123, respinge
l’esistenza di un “nesso diretto” volto a garantire la coerenza del regime fiscale, atteso che
“…contrariamente alle succursali o agli stabilimenti secondari, le società madri e le
società figlie sono persone giuridiche distinte, in quanto ciascuna è soggetta ad
un'imposizione propria, cosicché manca un nesso diretto nell'ambito della stessa
imposizione e non ci si può richiamare alla coerenza del regime fiscale.”
Inoltre, continua, non esiste nessun “nesso diretto” neanche tra i costi che una società
madre può dedurre dal suo reddito imponibile nei Paesi Bassi e gli eventuali utili
imponibili in capo alla sua controllata con sede in quello stesso Stato membro o del
centro di attività stabile olandese della sua controllata straniera, poiché i costi di
Secondo al tesi del governo olandese “i costi legati alle attività realizzate all'estero, compresi i costi di
finanziamento o di partecipazione, dovrebbero essere imputati agli utili riportati dalle dette attività e la
limitazione della deduzione di quei costi sarebbe legata unicamente alla realizzazione o meno di utili fuori
dai Paesi Bassi.”
119
120
L’4, n. 2, della direttiva autorizza gli Stati membri a non dedurre i costi di partecipazione dall'utile
imponibile della società madre, non è corredato da alcuna condizione o regola speciale sulla destinazione o
la finalità degli utili ottenuti dalla società madre o figlia. Conseguentemente, tale disposizione rimane
applicabile anche in seguito all'instaurazione effettiva di un sistema comune d'imposta sulle società.
121
Punto n. 27 della sentenza in esame.
Punto 28 della sentenza.
123
Bachman e Commissione/Belgio, ma si veda anche la nota n. 32, sulla causa Svensson.
122
54
partecipazione “…….possono essere dedotti dalla società madre senza che sia presa in
considerazione la consistenza degli utili della controllata, ed anche se quest'ultima non
ha conseguito utili nel corso dell'anno di riferimento.”
Altro punto importante era legato alla sussistenza di un “nesso economico”, invocato dai
Paesi Bassi secondo il quale, proprio su tale presupposto, non vi è alcuna discriminazione,
dal momento che le società figlie che realizzano utili imponibili nei Paesi Bassi e quelle
che non ne realizzano si trovano in una situazione non paragonabile.
La Corte ha puntualmente osservato che l'applicazione del principio di territorialità
richiamato nella sentenza Futura – Singer, riguardava l'imposizione di un solo soggetto
passivo che esercitava attività nello Stato membro in cui aveva la sua sede principale e in
altri Stati membri con sedi secondarie. Il richiamo non è era conferente, perché la sede
delle società figlie è irrilevante nel caso trattato, essendo le società madri e non le società
figlie assoggettate alla legislazione fiscale controversa. In seguito all'acquisizione di una
partecipazione, “……..le società madri versano ogni volta in una situazione
oggettivamente paragonabile dal punto di vista dell'imposizione sul territorio nazionale,
indipendentemente dal fatto che la società acquisita abbia la propria sede nei Paesi
Bassi oppure in un altro Stato membro”124 ; e per quanto riguarda la situazione fiscale
delle società madri in relazione agli utili (dividendi) delle loro controllate, la C.G.C.E.
constata che per la legislazione olandese, questi non sono imponibili in capo alle
capogruppo, sia che provengano da società figlie assoggettate ad imposta nei Paesi Bassi
sia da altre società figlie.
Sulla scorta delle motivazioni sopra illustrate, la Corte ha ritenuto che la norma olandese
violasse il diritto di stabilimento.
6. Conclusioni
La Corte di Giustizia si è mossa nella materia dell’imposizione diretta ricorrendo ai
principi generali dell’ordinamento comunitario sanciti dal Trattato CE, al fine di garantire
il libero esercizio delle quattro libertà fondamentali.
Se non si può tecnicamente parlare di un’armonizzazione “indiretta”, si può però
constatare che le sentenze della Corte di Giustizia, in materia fiscale, abbiano raggiunto
l’obiettivo di costituire, per i singoli, mezzi di tutela altrimenti non riconosciuti dagli
Stati membri, che nel settore delle imposte dirette non hanno inteso ( e per il momento
non intendono) rinunciare alla propria potestà territoriale.
Le sentenze della C.G.C.E. stanno comunque spingendo gli Stati CE a rivedere le proprie
norme interne, incompatibili con l’ordinamento comunitario, anche grazie all’azione
della Commissione. Bisognerà vedere fino a che punto ragioni “cassa” non
comprometteranno questo nuovo sviluppo.
Ma il vero problema è un altro ed è inutile nasconderlo.
124
Punto 39 della sentenza.
55
La Corte è un rimedio giurisdizionale; il ricorso presuppone un lungo e defatigante
contenzioso, con costi significativi e, come tutti i giudizi, incerto nell’esito; eppure i
ricorsi avanzati dai singoli avanti alla C.G.C.E. è sempre maggiore e questo denota, in
materia di imposizione diretta, la diffidenza dagli Stati nell’applicare le disposizioni del
Trattato e delle sue fonti derivate.
In una stretta logica mi domando che senso ha, nell’era del terzo millennio, in vigenza del
Trattato CE e dei suoi principi istitutivi, che l’amministrazione fiscale degli Stati membri,
continui ad identificare gli investimenti attuati da società residenti (o da singoli cittadini)
in altri Stati membri, tramite filiali, succursali o stabili organizzazioni, come effettuati da
“non residenti” (!)125.
Non esiste forse una cittadinanza europea? Nel contesto generale, è ancora opportuno
parlare di pianificazione fiscale all’interno della CE?
Quale mercato unico è realizzabile in presenza di disposizioni che, di fatto, preservano
una sovranità territoriale sulla tassazione interna a discapito dello sviluppo armonioso,
equilibrato e sostenibile delle attività economiche, che gli Stati membri si sono impegnati
raggiungere e che costituisce uno degli obiettivi della CE?
Non credo che vi siano obiezioni alla constatazione che il tutto si traduce in una
contraddizione in termini e in un vincolo reale alla creazione di un mercato “veramente”
comune, senza frontiere e, come ho già detto, condizioni o condizionamenti.
Un “codice unico comunitario” in materia di imposizione diretta delle persone fisiche e
delle società domiciliate nella CE sarebbe la soluzione ottimale per sradicare disarmonie
e differenze impositive, nonché, misure concorrenziali dannose: ma, purtroppo, è ancora
troppo presto e gli Stati non sono pronti ad un simile “salto in avanti”, così importante e
funzionale per la creazione di un “libero”mercato comune.
Esistono però delle soluzioni intermedie, il cui possibile sviluppo sarebbe, a mio parere,
“quasi equivalente” all’adozione di un codice unico, e precisamente:
•
•
un modello di convenzione contro le doppie imposizioni a livello europeo;
una base imponibile consolidata comune per la tassazione dei gruppi.
Nel frattempo, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee e la Commissione UE, oggi
e forse più di allora, rappresentano le due istituzioni alle quali dobbiamo guardare con
maggior fiducia, non solo per l’opera che svolgono, ma sopratutto per quel “senso della
comunità” che esprimono, e che corrisponde ad un profondo rispetto nei nostri confronti.
125
Siamo comunque sulla buona strada. Rispetto alla stessa considerazione da me espressa al Convegno
AMA di Stresa nell’ottobre 2002 (in Rivista dei Dottori Commercialisti n. 6/2002, Ed. Giuffré pag. 941), si
veda la nota 73 sul caso Inspire Art Ltd., dove la C.G.C.E. ha ritenuto che il registro delle imprese olandese
non può richiedere di “identificarsi” come “società formalmente straniera”, ad una società di diritto inglese
che intenda stabilirsi nei Paesi Bassi mediante una succursale.
56
Scarica

La Giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee