I. SAGGI La storiografia più recente sulla finanza italiana dell’età moderna: gli studi sul debito pubblico di GAETANO SABATINI * 1. Nel 1984 Hermann Kellenbenz, nell’introdurre gli atti del seminario su Finanza e ragion di Stato in Italia e in Germania nella prima età moderna, tenuto due anni prima presso l’Istituto Storico Italo-Germanico di Trento1, scriveva con esemplare chiarezza: “Noi vogliamo sapere quali erano i fondamenti e gli strumenti economici, e particolarmente finanziari, dei diversi Stati nel periodo di cui parleremo e in qual modo ciò si rifletta [...] nel programma politico dei governi che erano responsabili degli Stati moderni e nel modo in cui questo fu realizzato”2. Con queste parole Kellenbenz non solo sintetizzava il cammino percorso dagli storici della finanza italiana d’età moderna nei precedenti due lustri, a cominciare dalle ricerche compiute da Giuseppe Felloni al principio degli anni ’703, ma indicava anche un ben preciso metodo di lavoro per quegli studi che successivamente si fossero proposti di approfondire la conoscenza del debito pubblico nella prospettiva del processo di formazione dello Stato mo- * Ringrazio sentitamente quanti, avendo letto una stesura preliminare di questo testo, mi hanno fornito utili commenti e suggerimenti; un ringraziamento particolare a David Alonso, Fausto Piola Caselli, Renzo Paolo Corritore, Francesco Carlo Dandolo, Giuseppe Felloni, Giovanni Muto, Renato Sansa, Donatella Strangio. La stesura di questo testo è stata conclusa nel dicembre 2002. 1 A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato in Italia e in Germania nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1984. Nello stesso anno viene pubblicata anche la traduzione italiana del saggio di G. ARDANT, Politica finanziaria e struttura economica negli stati nazionali, in C. TILLY (a cura di), La formazione degli stati nazionali nell’Europa occidentale, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 153-226 (ed. originale: The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975). 2 H. KELLENBENZ, Finanze e ragion di Stato nel primo periodo dell’epoca moderna, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 13-20, alla p. 14 per la citazione. 3 Si veda soprattutto G. FELLONI, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Seicento e la Restaurazione, Milano, Giuffrè, 1971. 79 derno4. A questa linea interpretativa fanno effettivamente riferimento molti dei più significativi contributi, appartenenti alla seconda metà degli anni ’80 e al principio del decennio successivo, di cui qui si tratterà, ma è importante segnalare subito che, nello stesso periodo, sul tema del rapporto tra debito pubblico e Stato moderno si va più chiaramente definendo una pluralità di posizioni, talora anche molto distanti le une dalle altre. Testimonia di questa diversità di interpretazioni la pubblicazione nel 1994 degli atti del seminario su Le origini dello Stato moderno. Processi di formazione statale fra medioevo ed età moderna, tenuto l’anno precedente a Chicago5. Tra le relazioni presentate in quella sede6, riveste particolare importanza per il discorso che qui si vuol sviluppare, quella di Anthony Molho7, che, riprendendo precedenti studi sulle finanze fiorentine8 e soprattutto sviluppando un più sintetico contributo del 1993 su Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova e Venezia9, si colloca al principio del periodo qui in esame, anzi ancor prima, giacché si concentra sulla fase storica compresa tra la metà del XIV secolo e la fine del XV10. 4 Sul tema del debito pubblico in relazione ai processi di formazione dello Stato moderno due rassegne sintetiche ma complete in M. CARBONI, Il debito della città. Mercato del credito, fisco e società a Bologna tra Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 13-28, e M. BONAZZA, Il fisco in una statualità divisa. Impero, principi e ceti in area trentino-tirolese nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 13-25. 5 G. CHITTOLINI, A. MOLHO, P. SCHIERA (a cura di), Le origini dello Stato moderno. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994. 6 Si vedano, tra le altre, le relazioni di G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria nell’esperienza degli stati italiani della prima età moderna (ivi, pp. 287-302) e L. PEZZOLO, Sistema di potere e politica finanziaria nella Repubblica di Venezia. Secoli XV-XVII (ivi, pp. 303-327), nonché un breve commento di A. CALABRIA, Finanza e Stato. Un contributo (ivi, pp. 281-286). 7 A. MOLHO, Lo Stato e la finanza pubblica. Un’ipotesi basata sulla storia tardomedioevale di Firenze, ivi, pp. 225-280. 8 Si veda in particolare ID., Florentine Public Finances in the Early Renaissance. 1400-1433, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1971; ID., L’amministrazione del debito pubblico a Firenze nel quindicesimo secolo, in I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento, Firenze, Francesco Papafava Editore, 1987, pp. 191-207; ID., Investimenti nel Monte delle doti di Firenze. Un’analisi sociale e geografica, in “Quaderni storici”, a. XXI (1986), pp. 147-170; ID., Fisco ed economia a Firenze alla vigilia del Concilio, in “Archivio Storico Italiano”, a. CIIL (1990), pp. 807-844. 9 ID., Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova e Venezia, in Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo. Atti del XIII Convegno di Studi del Centro Italiano di Studi di Storia e Arte, Pistoia, Presso la Sede del Centro, 1993, pp. 185-215. 10 Sul debito pubblico delle città italiane in età medioevale si veda J. DAY, Moneta metallica e moneta creditizia, in R. ROMANO, U. TUCCI (a cura di), Economia monetaria, economia naturale, in Storia d’Italia, Annali, vol VI, Torino, Einaudi, 1983, pp. 337-360, in particolare le pp. 353-357; J. DAY, The Medieval Market Economy, Oxford, Blackwell, 1987. Si vedano inoltre, più 80 Alla fine del medioevo, secondo Molho, mentre crescevano le ambizioni territoriali, militari e diplomatiche – e quindi le uscite – delle città Stato italiane, i loro ceti dirigenti si rivelavano incapaci di cambiare radicalmente le strategie impositive, soprattutto di introdurre la tassazione diretta, e per supplire ai crescenti bisogni finanziari fu scelto lo strumento dell’indebitamento 11. Il debito pubblico, tuttavia, non rafforzava lo Stato: “La mancanza di entrate ordinarie che potessero permettere alle autorità politiche e fiscali di soddisfare le legittime domande dei loro creditori indeboliva lo stato davanti ai suoi principali finanziatori”12. Inoltre, “se è vero [...] che i debiti pubblici delle città stato italiane finirono per arricchire una parte delle loro popolazioni, quella parte, cioè, che già era economicamente più forte, [...] sembra altrettanto vero che questi debiti pubblici resero più difficili i rapporti tra le classi sociali e indebolirono la potenza di questi Stati” con “una maggioranza che guardava alla cosa pubblica con ostilità che spesso sconfinava nell’indifferenza, [e con] una minoranza che nella stessa cosa pubblica vedeva un possesso privato, quasi una proprietà inalienabile”13. Dunque, alla vigilia dell’età moderna, la scelta di seguire la strada del debito pubblico appare a Molho fortemente conservatrice e il ricorso all’indebitamento praticato per questa via costituì un cuneo disgregatore del sistema politico-sociale; più in generale “la finanza pubblica non fu una componente indispensabile dell’accentramento e del rafforzamento degli Stati”14. È opportuno ricordare la posizione di Molho – tra l’altro uno dei pochi studiosi a tentare una lettura comparativa delle vicende dei debiti pubblici della penisola – perché essa mostra come tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, si siano sviluppate interpretazioni che non solo hanno ridimensionato la relazione di interdipendenza istituita tra debito pubblico e origini dello Stato moderno, ma sono arrivate anche a ribaltare il senso con cui quel legame era stato inizialmente proposto, ricollegandosi idealmente ad una tradizione storio- recentemente, P. MAINONI, Finanza pubblica e fiscalità nell’Italia centro-settentrionale fra XIII e XV secolo, in “Studi storici”, 40, 1999, pp. 449-70; ID., Credito e fiscalità nelle città medioevali. In margine ad un recente convegno, in “Società e storia”, 87, 2000, pp. 81-90; M. GINATEMPO, Prima del debito. Finanziamento della spesa pubblica e gestione del deficit nelle grandi città toscane (12001350 ca.), Firenze, Olschki, 2000; P. MAINONI (a cura di), Politiche finanziarie e fiscali nell’Italia centro settentrionale (secoli XIII-XV), Milano, Unicopli, 2001, in particolare i saggi di I. LAZZARINI, Prime osservazioni su finanze e fiscalità in una signoria cittadina: i bilanci gonzagheschi tra Tre e Quattrocento (ivi, pp. 87-123) e M. GINATEMPO, Spunti comparativi sulle trasformazioni della fiscalità nell’Italia post-comunale (ivi, pp. 125-220). 11 A. MOLHO, Tre città-stato cit., pp. 213-214. 12 Ivi, p. 214. 13 Ivi, p. 215. 14 ID., Lo Stato e la finanza pubblica cit., p. 279. 81 grafica che vedeva nell’investimento in debito pubblico uno degli elementi della cosiddetta decadenza italiana15. Al contrario, la maggior parte degli studi di cui si tratterà nel prosieguo in riferimento all’area italiana in età moderna, collocano, implicitamente o esplicitamente, in forma critica o con piena adesione, le ricerche sul debito pubblico nell’ambito dei processi di formazione dello Stato. Tuttavia, anche tra gli studiosi che riconoscono questo legame si possono osservare posizioni diverse. Tre studi di sintesi, pubblicati contemporaneamente nel 1995, consentono di cogliere il significato di queste differenti interpretazioni: mi riferisco a Public Credit di Martin Körner, edito all’interno del volume Economic Systems and State Finance curato da Richard Bonney16, a Elogio della rendita. Sul debito pubblico degli Stati Italiani nel Cinque e nel Seicento di Luciano Pezzolo17, pubblicato sulla “Rivista di storia economica”, e a L’innovazione nel sistema finanziario: impatto sul primato economico e sviluppo dall’XI secolo di Tony Porter, pubblicato sulla rivista del Fernand Braudel Center diretta da Immanuel Wallerstein18. Körner presenta l’evoluzione del ricorso al debito pubblico, da parte di principi o città, come un fenomeno caratterizzato da un andamento lineare dal XIII al XVIII secolo, crescente in funzione dell’aumento delle esigenze belliche dello Stato. È un meccanismo che nella sua essenza non presenta salti o soluzioni di continuità per circa cinque secoli, dove il principale elemento di cambiamento è costituito dal differenziarsi delle forme assunte dai prestiti, dall’avvicendarsi dei diversi gruppi attivi sui mercati finanziari, dal variare del livello del saggio d’interesse in funzione delle condizioni in cui il debito viene emesso. Per il Cinquecento, afferma Körner, “in considerazione del fatto che si faceva ricorso al debito pubblico praticamente in ogni regno, principato o repubblica, è scarsamente sorprendente che vi fosse una crescita pressoché universale della domanda di capitali”19 e questo andamento sarà confermato nel Sei e Settecento. In una linea di sostanziale continuità appaiono all’Autore anche le innova- 15 Questa posizione è espressa in sintesi in R. ROMANO, La storia economica dal secolo XIV al Settecento, in R. ROMANO, C. VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia, vol. II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, t. II, Torino, Einaudi, 1974, pp. 1813-1931, in particolare le pp. 1915-1916 e 1926-1927. 16 M. KÖRNER, Public Credit, in R. BONNEY (ed.), Economic Systems and State Finance, Oxford, Oxford University Press, 1995, pp. 507-538. 17 L. PEZZOLO, Elogio della rendita. Sul debito pubblico degli Stati Italiani nel Cinque e nel Seicento, in “Rivista di storia economica”, n.s., a. XII (1995), n. 3, pp. 283-330. 18 T. PORTER, L’innovazione nel sistema finanziario: impatto sul primato economico e sviluppo dall’XI secolo, in “Proposte e ricerche”, f. 37, n. 2/1996, pp. 7-49 (trad. italiana a cura di E. Sori; ed. originale in “Review [of the Fernand Braudel Center]”, a. XVIII (1995), n. 3, Summer, pp. 387-429). 19 M. KÖRNER, Public Credit cit., p. 515 (trad. dell’autore). 82 zioni istituzionali e sociali che, tra XVI e XVII secolo, accompagnano le crescenti emissioni di rendita e la conseguente maggiore domanda di capitali: la formazione dei banchi pubblici20, la collocazione dei titoli sul mercato21, la differenziazione sociale degli acquirenti delle quote22, tutti fenomeni che nel saggio vengono ampiamente documentati con esempi tratti dalla realtà italiana. Una posizione diversa esprime il saggio di Luciano Pezzolo. Affrontando innanzitutto la vicenda del debito pubblico veneziano e quindi estendendo l’analisi all’intera penisola, Pezzolo colloca il quadro dei debiti pubblici dell’Italia cinque-seicentesca nel più ampio contesto della financial revolution. Questa lettura, com’è noto, fu introdotta per la prima volta da Peter Dickson nel 1967, a proposito del caso inglese tra la fine del Seicento e il principio del Settecento23, e venne poi ripreso per il Cinquecento da James Tracy, in un saggio del 1985 sulle province olandesi24, e da Anthony Calabria, in uno studio del 1991 sulle finanze pubbliche napoletane che si estendeva fino a comprendere la metà degli anni ’30 del Seicento25. L’abbandono dei prestiti forzosi e il passaggio all’emissione di titoli garantiti dal gettito fiscale, la tumultuosa crescita del debito pubblico, la prevalenza della rendita a lungo termine, vengono ora intesi come altrettanti elementi di una fondamentale soluzione di continuità rispetto al passato, appunto di una financial revolution, che, al contrario, Körner non sembra contemplare. Con la sola, parziale, eccezione della Firenze medicea, nell’interpretazione di Pezzolo gli Stati italiani partecipano di questa rapida trasformazione. Porter si colloca in una posizione intermedia rispetto a quelle di Körner e Pezzolo: egli sostiene la tesi che lo sviluppo economico di uno Stato, dal quale discende la sua possibilità di raggiungere posizioni egemoniche, dipende dall’adozione di innovazioni finanziarie, giacché è il settore finanziario che mette in moto e organizza le attività produttive26. Nell’individuare quelle innovazioni che hanno determinato il ruolo guida di Firenze nel XIV secolo, di Genova, di Venezia e della Germania meridionale tra la fine del XIV e il XVI secolo, del- 20 Ivi, p. 519. Ivi, p. 522. 22 Ivi, p. 529. 23 P.G.M. DICKSON, The Financial Revolution in England. A study in the Development of Public Credit, 1688-1756, London - New York, St. Martin’s, 1967 (2a ed. Aldershot, 1993; si veda anche P. KENNEDY, The Rise and Fall of Great Power, London, Fontana Press, 1988). 24 J.D. TRACY, A Financial Revolution in the Habsburg Netherlands. Renten and Renteniers in the Country of Holland, 1515-1565, Berkeley, Univ. of California Press, 1985 (si veda anche ID., Holland under Habsburg Rule, 1506-1566. The Formation of a Body Politic, Berkeley, Univ. of California Press, 1990). 25 A. CALABRIA, The Cost of Empire: The Finances of the Kingdom of Naples in the Time of Spanish Rule, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. 26 T. PORTER, L’innovazione nel sistema finanziario cit., pp. 7-8. 21 83 l’Olanda nel Sei e Settecento, Porter si sofferma dapprima sul ruolo avuto dalle grandi imprese bancarie nel finanziare il debito pubblico e successivamente sull’importanza della diffusione presso un più ampio pubblico della rendita vitalizia, caratterizzata da un più basso saggio d’interesse27. In entrambi i casi si tratta certamente di innovazioni, ma, secondo Porter, precedute e seguite da altre trasformazioni in campo finanziario egualmente rilevanti. Quindi le innovazioni legate al debito pubblico, pur rappresentando delle importanti soluzioni di continuità, costituiscono solo un anello della catena delle innovazioni finanziarie, un anello importante, ma di per sé non sufficiente per poter parlare di una financial revolution. Due studi della seconda metà degli anni ’90, elaborati in contesti e con finalità differenti, hanno portato un contributo verso il superamento di questa pluralità di posizioni. Mi riferisco ora al manuale di Fausto Piola Caselli Il buon governo. Storia della finanza pubblica nell’Europa preindustriale28, edito nel 1997, nonché al saggio introduttivo di Richard Bonney al volume miscellaneo The Rise of the Fiscal State in Europe, ca. 1200-181529, pubblicato nel 1999. Il lavoro di Piola Caselli costituisce un unicum nella storiografia italiana per l’obiettivo che si propone di presentare nella veste di manuale universitario l’evoluzione della finanza di Stato in età bassomedioevale e moderna. In riferimento al debito pubblico, l’Autore evidenzia la contemporanea presenza di caratteri di continuità e di rottura con il passato nonché la diversificazione delle modalità con le quali avveniva il ricorso all’emissione della rendita nelle varie aree europee30. La situazione della penisola esprime chiaramente questa molteplicità. Osserva infatti Piola Caselli che “nella diversità delle situazioni politiche ed economiche, il sistema del debito pubblico degli Stati italiani presentava analogie e differenze che rendono molto difficile l’identificazione di un modello uniforme”31. “Ogni stato conduceva una propria politica [...] seguendo percorsi tradizionali o elaborando nuove strategie”32: alcuni Stati, come Genova, gestivano il debito pubblico in modo decentrato, altri, come Roma, praticavano la più assoluta centralizzazione, e ancora a Roma, i titoli erano ceduti esclusivamente a banchieri, mentre altrove, ad esempio a Venezia, anche il piccolo risparmiatore poteva essere direttamente attore dell’investimento nella rendi- 27 Ivi, pp. 27-28 e 30-31. F. PIOLA CASELLI, Il buon governo. Storia della finanza pubblica nell’Europa preindustriale, Torino, Giappichelli, 1997. 29 R. BONNEY, Introduction, in ID. (ed.), The Rise of the Fiscal State in Europe, ca. 12001815, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 1-17. 30 F. PIOLA CASELLI, Il buon governo cit., pp. 215-242. 31 Ivi, p. 237. 32 Ivi, p. 236. 28 84 ta33. Anche il livello di incidenza sui bilanci era estremamente variabile: “all’inizio del Settecento, il debito pubblico piemontese complessivo ammontava solamente al triplo delle entrate annuali dello stato, con un modesto peso di interessi, pari a circa il 20% delle uscite. Nello stesso periodo, il debito pubblico toscano era pari a circa 17 volte le entrate annuali, mentre a Napoli, alla fine del secolo, l’indebitamento era di molto superiore”34. La possibilità di guardare al debito pubblico come a un fenomeno polimorfo consente dunque di conciliare le diverse interpretazioni avanzate sulla sua natura ed evoluzione. Anche quello di Bonney è un lavoro di sintesi, ma diversa appare la lettura che viene qui proposta. Nell’introdurre un gruppo di saggi che analizzano la strutturazione nel tempo delle finanze pubbliche nelle diverse realtà europee tra XIII e XIX secolo, Bonney riprende e precisa una classificazione in quattro stadi dell’evoluzione dei sistemi finanziari in relazione con la formazione dello Stato moderno: Tribute State, Domain State, Tax State, Fiscal State35. I primi tre stadi costituiscono altrettante fasi di sviluppo di sistemi fiscali sempre più complessi e preparano il passaggio alla fase successiva, ma quando, secondo la definizione di Bonney, uno Stato caratterizzato da un articolato sistema fiscale diventa un Fiscal State? Quando, una volta acquisita una compiuta capacità tecnico-politica di ottenere denaro in prestito e riscuotere le tasse, è in grado di reggere l’urto di una potenza politico-militare avversa e di percorrere un cammino di crescita autosufficiente. Di fatto, nel periodo preso in esame, dal Due all’Ottocento, secondo Bonney solo la Gran Bretagna nella fase delle guerre napoleoniche raggiunge lo stadio del Fiscal State mentre, per tutti gli altri Stati europei, il compimento di questo percorso sarà molto più lento e tardivo; momenti di crisi e rivoluzione potranno certamente consentire il passaggio da 33 Ivi, p. 237. Ivi, pp. 238-239. 35 R. BONNEY, Introduction cit., passim ma in particolare le pp. 12-14. Sul modello del passaggio da Domain State a Tax State si veda innanzitutto J.A. SCHUMPETER, The Crisis of Tax State, in “International Economic Papers”, n. 4, New York, 1954, pp. 5-38 (ed. originale Die Krise des Steuerstaates, in “Zeitfragen aus dem Gabiet der Soziologie”, a. 4 [1918], pp. 1-71), ripreso e modificato da E.L. Petersen e K. Krüger (E.L. PETERSEN, From Domain State to Tax State. Synthesis and Interpretation, in “Scandinavian Economic History Review”, a. XXIII [1975], pp. 116-148, e P.C. WITT, Wealth and Taxation in Central Europe: The History and Sociology of Public Finance, Leamington Spa, 1987). Per la revisione del modello proposta da R. BONNEY e W. M. ORMROD si veda W.M. ORMROD, M.M. BONNEY, R. BONNEY, Introduction, in W. M. ORMROD, M. M. BONNEY, R. BONNEY (eds.), Crises, Revolutions and Self-Susteined Growth: Essays in European Fiscal History, c. 1130-1830. Proceedings of an International Conference held at the ESCR Data Archive (University of Essex, July 1995), Stanford, 1999; si veda anche R. BONNEY, Economic Systems and State Finance cit., pp. 447-463. Si è qui preferito lasciare in inglese le espressioni Tribute State, Domain State, Tax State, Fiscal State per evitare le ambiguità che la traduzione italiana potrebbe generare. 34 85 un sistema fiscale ad un altro più evoluto, ma non necessariamente porteranno al raggiungimento dello stadio finale. La lettura di Bonney condivide con quella di Piola Caselli il riconoscimento della pluralità degli stadi di sviluppo dei sistemi fiscali, qui incasellati in una possibile tassonomia evolutiva, ma, recuperando all’analisi anche la dimensione politico-militare e il rapporto con l’economia reale, insiste sul carattere del debito pubblico come condizione necessaria, ma non sufficiente, per il raggiungimento di una fase più compiuta dello Stato moderno, quella che, in certa misura, già contiene le premesse per il suo superamento. Questo rapido excursus, dagli atti dei seminari dell’Istituto Storico ItaloGermanico di Trento degli anni ’80 ai volumi curati da Bonney nella seconda metà degli anni ’90, consente di costruire il piano cartesiano nel quale collocare - nel più ampio contesto del dibattito storiografico internazionale in materia di finanza pubblica - i singoli contributi sul debito pubblico negli Stati italiani in età moderna di cui mi occuperò, un piano i cui assi sono individuati agli estremi dalle coppie logiche contrapposte continuità – soluzione di continuità e catena di innovazioni finanziarie - assenza di innovazioni finanziarie. 2. Prenderò le mosse per questa rassegna dall’area toscana, giacché è proprio in riferimento al debito pubblico di Firenze nel XIV e XV secolo che è stata formulata la già ricordata interpretazione di Anthony Molho. Tra i saggi più recenti relativi a quest’area, vi sono i volumi di Giuseppe Vittorio Parigino36 e di Jean-Claude Waquet37, pubblicati entrambi negli anni ’90 e dedicati rispettivamente al principio e alla fine della signoria medicea. Lo studio di Parigino ricostruisce le vicende dei patrimoni di Cosimo I (1537-1564), Francesco I (1564-1587) e Ferdinando I (1587-1609) dei Medici, ma, com’è ben noto, “la Toscana dei granduchi costituisce un modello esemplare di Stato patrimoniale [per] la confusione tra il tesoro pubblico e il patrimonio privato del principe [che] si rifletteva anche nella gestione degli uffici amministrativi”38. Questo è particolarmente evidente in materia di debiti contratti o concessi dai Medici, giacché è frequentemente documentato il caso di necessità dello Stato affrontate con somme prese a prestito dal principe ovvero di interessi sui debiti contratti dai granduchi per proprie attività, pagati attingendo alle casse dell’erario39. In questo contesto appare difficile individuare a 36 G.V. PARIGINO, Il Tesoro del Principe. Funzione pubblica e privata del patrimonio della famiglia Medici nel Cinquecento, Firenze, Olschki, 1999. 37 J.C. WAQUET, Le Grand-Duché de Toscane sous les derniers Médicis, Rome, Ecole Française de Rome, 1990. 38 G.V. PARIGINO, Il Tesoro del Principe cit., p. 23. 39 Si veda su questo anche G. FELLONI, Il principe e il credito in Italia tra medioevo ed età 86 quale sfera, se pubblica o privata, appartengano gli ingenti debiti contratti da Cosimo I, oltre due milioni e mezzo di scudi, essenzialmente per finanziare le spese della guerra di Siena: la finalità naturalmente pertiene allo Stato e sono gli uffici pubblici ad assumersi l’obbligo di estinguere i debiti, ma questi erano stati spesso garantiti con gioielli di proprietà personale del principe; e questa ambiguità permane anche per i prestiti concessi, come i 950.000 scudi che Francesco I diede a Filippo II40. Si intendano come dello Stato o del principe, i debiti contratti da Cosimo vengono ripagati mediante gli accatti, cioè i prestiti forzosi cui vengono sottoposti cittadini, abitanti del contado e talora anche sudditi residenti all’estero, oppure con i contributi gravanti su Monti di Pietà, Opere Pie, Ospedali, etc, o ancora con i proventi di vecchie e nuove imposte, soprattutto la gabella del sale e altre imposte indirette41. Agli anni di Cosimo I risale anche uno dei più importanti episodi di partecipazione dei mercanti-banchieri fiorentini alla gestione delle finanze dei grandi principi europei del Cinquecento: il consolidamento di un debito superiore ai cinque milioni di lire torinesi al quale fu costretto Enrico II nel 1555 per far fronte alle crescenti difficoltà della tesoreria reale; Angela Orlandi, in un accurato studio del 2002, ha ricostruito gli aspetti sia tecnici – in particolare i meccanismi dell’ammortamento – che politici della complessa operazione ricordata come le Gran Parti, sottolineando come nella conduzione di questa manovra e più in generale nella partecipazione alla finanza pubblica francese della metà del XVI secolo, i mercanti-banchieri fiorentini svolsero un ruolo centrale, nel quale si evidenziano, allo stesso tempo, la compresenza di un forte attaccamento alla tradizione della pratica mercantile e una grande modernità culturale nel concepire l’attività finanziaria42. moderna, in S. GENSINI (a cura di), Principe e città alla fine del medioevo, Pisa, Collana di studi e ricerche del Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo di San Miniato, n. 6, 1996, pp. 273293 (ora in G. FELLONI, Scritti di Storia Economica, vol. I, Atti della Società Ligure di Storia Patria, n. s., vol. XXXVIII [CXII], f. I, Genova, 1998, pp. 253-273). Una forte commistione tra impegni finanziari del principe e dello Stato si riscontra, oltre che nella Toscana medicea, anche nel ducato farnesiano di Parma e Piacenza, sul quale si vedano, oltre a M.A. ROMANI, Finanza pubblica e potere politico: il caso dei Farnese, in ID. (a cura di), Le corti farnesiane di Parma e Piacenza, vol. I, Roma, Bulzoni, 1978, pp. 3-85, i recenti studi di G. PODESTÀ, Dal delitto politico alla politica del delitto. Finanza pubblica e congiure contro i Farnese nel Ducato di Parma e Piacenza dal 1545 al 1622, Milano, EGEA, 1995, in particolare le pp. 297-313, e ID., Il patrimonio del principe: i Farnese, in Società Italiana degli Storici dell’Economia, Tra rendita e investimenti. Formazione e gestione dei grandi patrimoni in Italia in età moderna e contemporanea, Bari, Cacucci, 1998, pp. 89-103. 40 G.V. PARIGINO, Il Tesoro del Principe cit., p. 24. 41 Ivi, pp. 69-71. 42 A. ORLANDI, ‘Le Grand Parti’. Fiorentini a Lione e il debito pubblico francese nel XVI secolo, Firenze, Olschki, 2002. 87 Minore attenzione hanno ricevuto, negli studi recenti, le finanze del granducato di Ferdinando II43, che copre gli anni centrali del Seicento, mentre più chiara appare la situazione debitoria al tempo di Cosimo III (1670-1723) e Gian Gastone (1723-1737), di cui tratta il volume di Jean-Claude Waquet, che propone tuttavia una più complessa lettura per l’età degli ultimi Medici44. All’interno di un’articolata ricerca sulle finanze e più in generale sull’organizzazione amministrativa, sociale e politica dello Stato mediceo sul finire del Seicento e nel primo Settecento, Waquet sostiene che la perdita di influenza politica sofferta sul piano internazionale dal granducato in questa fase non si accompagna sul piano interno, contrariamente a quanto tradizionalmente sostenuto, ad un declino delle istituzioni; alla nozione di decadenza si sostituisce infatti quella di stabilità45. In particolare in campo finanziario si osserva che la fiscalità è orientata al conseguimento di un gettito nominale sostanzialmente costante, relativamente indipendente dalla congiuntura economica e soprattutto dal movimento dei prezzi, ed analogamente stabile in termini nominali appare il livello delle uscite, giacché non si registrano rilevanti variazioni nell’ammontare delle remunerazioni pagate agli ufficiali granducali e nel servizio del debito pubblico – le due principali voci di esito del bilancio granducale – né d’altronde sussisteva per lo Stato alcun obbligo ad adeguare gli interessi corrisposti sul debito alla variazione del livello dei prezzi46. In questo sistema che tende ad isolarsi, a mettersi a riparo dalle fluttuazioni dell’economia, l’erezione dei Monti costituisce per Waquet l’espressione della complessiva stabilità politica e immobilità sociale del granducato47. Nel ricostruire la ripartizione geografica e sociale della rendita e del prelievo fiscale48, si evidenzia come Cosimo III finanzi il pagamento degli interessi ricorrendo prevalentemente alle imposte dirette mentre Gian Gastone sposta il prelievo soprattutto sulle imposte indirette49, ma questa sembra essere l’unico cambiamento di rilievo nel periodo in esame; per il resto, le caratteristiche finanziarie e le modalità di gestione del debito pubblico, che d’altro canto nel perio- 43 Con la sola eccezione della ricerca condotta da A. D’ALAIMO, La finanza pubblica del granducato di Toscana al tempo di Ferdinando II (1621-1670), Tesi di dottorato in storia economica, VII ciclo, Napoli, Istituto Universitario Navale, 1995. 44 Per gli anni del principato di Cosimo III si veda anche G. PANSINI, Per una storia del debito pubblico e della fiscalità al tempo di Cosimo III dei Medici (il monte sussidio vacabile e le collette universali), in F. ANGIOLINI, V. BECAGLI, M. VERGA (a cura di), La Toscana nell’età di Cosimo III, Firenze, Edifir, 1993, pp. 295-317. 45 J.C. WAQUET, Le Grand-Duché de Toscane cit., p. 87 e segg. 46 Ivi, pp. 573-576. 47 Ivi, pp. 392-397. 48 Ivi, pp. 321-392. 49 Ivi, pp. 374-375. 88 do in questione evolve poco e lentamente, riflettono la cristallizzazione dei rapporti di forza all’interno dello Stato mediceo: la posizione dominante della capitale, la centralità del contado, la potenza dell’aristocrazia e del clero fiorentino, mentre le popolazioni rurali della provincia partecipano al sistema del credito pubblico granducale solo attraverso il pagamento delle imposte raccolte per corrispondere gli interessi50. Gli studi di Parigino e Waquet, anche superando la diversità di angolazioni proposte, non sembrano trovare un punto di saldatura: per Parigino è la straordinaria avventura diplomatico-militare per la conquista di Siena ad indurre Cosimo I ad indebitarsi, mentre la lettura proposta da Waquet si potrebbe sintetizzare nell’equazione immobilità militare-politico-sociale del granducato uguale stabilità nel ricorso e nella gestione del debito pubblico. Certamente si potrebbe essere tentati di attribuire questa distanza essenzialmente alle diverse condizioni che caratterizzano i periodi presi in esame, ma non si tratta solo di questo, come evidenzia un ben noto studio di sintesi di Enrico Stumpo, che, considerando l’intera parabola delle finanze medicee, fornisce una chiave di lettura unitaria per i due periodi e, superando una certa tautologia presente nell’argomentare di Waquet, colloca le vicende del debito pubblico toscano in un rapporto di causa ed effetto con le scelte di politica fiscale che segnano la storia dei primi due secoli del principato fiorentino. Pubblicato all’interno del già più volte ricordato volume del 1984 su Finanze e ragion di Stato, lo studio di Stumpo mette a confronto per la prima età moderna Piemonte e Toscana51. Il debito pubblico di quest’ultima appare più marcatamente in crescita se si considera l’andamento delle finanze medicee sin dall’avvento del principato e non solo nell’ultimo periodo della dinastia, e secondo Stumpo la causa prima di questo incremento è da ricercarsi nella scarsa frequenza con cui furono utilizzati i tributi straordinari diretti; il ricorso al debito pubblico trova quindi spiegazione proprio nella rigidità delle entrate granducali e nella loro sostanziale immobilità nel corso del Seicento: per le necessità straordinarie e urgenti dello Stato, come ad esempio per sostenere i costi della guerra di Castro, si fece ricorso a sottoscrizioni di luoghi di Monte, offerte a tassi d’interesse elevati52. Solo nella seconda metà del Seicento furono 50 Ivi, p. 397. Sulla struttura fiscale della periferia toscana in età medicea si veda anche L. CARBONE, Economia e fiscalità ad Arezzo in età moderna: conflitti e complicità tra centro e periferia nella Toscana dei Medici, 1530-1737, Roma, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1999. 51 E. STUMPO, Finanze e ragion di Stato nella prima età moderna. Due modelli diversi: Piemonte e Toscana, Savoia e Medici, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 181-231. 52 Ivi, p. 221. 89 introdotti tributi straordinari diretti, come il donativo, e l’erezione dei Monti venne accompagnata da una più pesante imposizione proprio perché il debito pubblico, già gravoso, non poteva crescere oltre53. Ma perché erigere un nuovo Monte, piuttosto che introdurre delle imposte? Perché, indica Stumpo, il ricorso al debito pubblico è inteso come una via che consente di raccogliere somme considerevoli senza causare – o riducendo – il malcontento popolare e l’opposizione che i nuovi tributi provocherebbero, un’opposizione che dopo Cosimo I, i Medici, la legittimità della cui signoria fu messa in dubbio praticamente fino all’estinzione della dinastia, cercarono sempre di evitare54. Si preferisce il debito pubblico nell’impossibilità di impiantare un sistema fiscale uniforme, che sottoponga ad un’imposizione ordinaria diretta tutto il territorio, superando l’arcaica distinzione tra città e contado. La macchina fiscale è infatti ostacolata anche dalle diverse giurisdizioni, che sopravvivono perché, non essendosi realizzato un rinnovamento dello Stato dopo il passaggio dalla repubblica al principato, non si è proceduto ad unificare amministrativamente tutti i territori in un’unica organizzazione centralizzata55. Nel contesto della Toscana medicea il ricorso al debito pubblico costituisce quindi la manifestazione di un mancato processo di modernizzazione dello Stato, di cui la commistione tra finanze pubbliche e patrimonio del principe è un aspetto, ma, osserva Stumpo, “come tanti altri strumenti di credito il debito pubblico di per sé non ha carattere proprio; esso può assumere caratteri positivi o negativi a seconda dell’uso che se ne fa”56. Nel caso del granducato è dalla debolezza dell’amministrazione che consegue la crescita del debito pubblico, spesso destinato a pagare una costosa neutralità, cioè un pesante vassallaggio all’impero, che si accentuerà proprio con gli ultimi Medici, limitando l’autonomia e l’indipendenza dello Stato; nel caso del Piemonte, l’altra realtà italiana presa in esame da Stumpo per la prima età moderna, il debito pubblico invece si affianca alle forme di prelievo diretto e rappresenta un aspetto del rafforzamento dello Stato giacché serve a finanziare le campagne militari volte a salvaguardare l’indipendenza del ducato, conseguire l’ingrandimento territoriale, ottenere, da ultimo, il titolo regio per la dinastia57. Riprendendo i risultati di precedenti articolate ricerche sulla finanza sabauda nel Seicento58, Stumpo mette in evidenza come il debito pubblico piemon- 53 Ivi, pp. 223-224. Ivi, pp. 209-210, 223, 227-228. 55 Ivi, pp. 209-211 e 224-225. 56 Ivi, p. 197. 57 Ivi, pp. 199-200. 58 ID., Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1979 (si vedano in particolare i capp. IV, Aspetti e proble54 90 tese prenda innanzitutto la forma di capitalizzazione ad un certo interesse (in genere il 5 o 6%) e cessione del tasso, l’imposta ordinaria diretta gravante sulla proprietà fondiaria59. Si trattò comunque di un ricorso sempre contenuto: al principio del Settecento il debito pubblico del ducato è pari a circa tre volte le entrate dello Stato, contro le 14-20 volte di quello toscano. I Savoia, infatti, finanziarono le guerre, oltre che con gli aiuti ricevuti degli Stati di volta in volta alleati, anche ricorrendo, per il debito fluttuante e non consolidato, ai prestiti di mercanti e banchieri piemontesi o di grandi ufficiali dello Stato, che furono ripagati con titoli nobiliari, uffici, feudi; d’altro canto fu questo gruppo sociale a trarre il massimo vantaggio dalla rendita pubblica del ducato60. Proprio questo risultato della ricerca di Stumpo sul debito pubblico sabaudo è stato utilizzato da Waquet per comparare il Piemonte, la Francia e il regno di Napoli sotto il profilo dei ceti che maggiormente beneficiarono dell’alienazione delle entrate dello Stato tra XVII e XVIII secolo61. La situazione del ducato differisce profondamente da quella della Francia, dov’è la nobiltà ad ottenere il più largo profitto da imposte al cui pagamento essa contribuisce assai poco, mentre il caso di Napoli appare a Waquet di difficile lettura, non individuandosi un gruppo egemone né nella gestione del debito pubblico né nella capacità di conseguire il massimo utile dall’alienazione delle entrate del regno62. 3. Waquet basa la sua comparazione per il Mezzogiorno continentale essenzialmente sui dati riportati nello studio sugli arrendamenti compiuto da Luigi De Rosa alla fine degli anni 50’63 e sui lavori di Aurelio Musi64 e Giovanni Muto65 pubblicati negli anni ’70, ma negli ultimi tre lustri numerose mi della finanza straordinaria. La vendita degli uffici, e VI, Il debito pubblico e il successo della politica finanziaria piemontese. Lo stato moderno come stato imprenditore). 59 ID., Finanze e ragion di Stato cit., pp. 199-200. 60 Ibidem. Si veda anche ID., La distribuzione sociale degli acquirenti dei titoli del debito pubblico in Piemonte nella seconda metà del Seicento, in La fiscalité et ses implications sociales en Italie et en France aux XVIIe et XVIIIe siècles, Rome, Ecole Française de Rome, 1980, pp. 113-124. Più recentemente, sul Piemonte sabaudo, anche sinteticamente in riferimento alle finanze pubbliche, P. MERLIN, C. ROSSO, G. SIMCOX, G. RICUPERATI (a cura di), Il Piemonte Sabaudo. Stato e territori in età moderna, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. VIII, t. I, UTET, Torino 1994. 61 J.C. WAQUET, Who profited from the Alienation of Public Revenues in Ancient Regime Societies? Some Reflections on the Examples of France, Piedmont and Naples in the XVIIth and XVIIIth centuries, in “The Journal of European Economic History”, a. XI (1982), pp. 665-673. 62 Ivi, p. 671. 63 L. DE ROSA, Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli. Aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale (1649-1806), Napoli, L’Arte Tipografica, 1958. 64 A. MUSI, Finanze e politica nella Napoli del ’600: Bartolomeo d’Aquino, Napoli, Guida, 1976. 65 Si vedano soprattutto i contributi raccolti in G. MUTO, Le finanze pubbliche napoletane tra 91 nuove ricerche sul debito pubblico napoletano in età moderna hanno visto la luce66. Il volume di Anthony Calabria su The Cost of Empire. The Finances of the Kingdom of Naples at the Time of Spanish Rule del 199167, pur non essendo espressamente dedicato al debito pubblico, inserisce questo tema all’interno di una proposta di organica ricostruzione dell’evoluzione delle finanze del regno di Napoli tra la metà del Cinquecento e gli anni ‘30 del secolo successivo. Calabria individua le elaborate caratteristiche tecniche del ricorso al debito pubblico, ne segue le fasi della rapida espansione, in particolare tra il 1563 e il 1596, sottolinea la grande vitalità del mercato finanziario, evidenziando tra l’altro che a Napoli, contrariamente al caso olandese studiato da Tracy, il mercato della rendita è del tutto libero68. L’analisi condotta da Calabria, come già ricordato, si colloca dichiaratamente all’interno del filone interpretativo della financial revolution, ma rispetto al modello delle Province Unite, che viene spesso evocato, a Napoli il contributo dato dal debito pubblico allo sviluppo di un mercato del credito altamente sofisticato non favorisce un processo di crescita, ma, al contrario, asseconda una fase di ristagno dell’economia69. Calabria trae un’ulteriore conferma di questa lettura dalla crescente diversificazione sociale degli acquirenti della rendita a proposito della quale - al di là della sempre massiccia presenza dei mercanti banchieri genovesi sulla quale tornerò - evidenzia la maggiore partecipazione di piccoli investitori come prova della crescente insicurezza del clima economico generale nonché dell’impossibilità di trovare forme d’investimento alternativo70. Tuttavia, proprio questi dati sulla distribuzione degli acquirenti del debito pubblico per gruppo sociale e per ammontare dell’investimento sembrano suggerire, se non altro, un più complesso processo di accumulazione e di redistribuzione della ricchezza, messo in moto proprio dal debito pubblico71. In altre parole, nello sforzo di sintesi compiuto da Calabria, l’analisi del debito pubblico napoletano risulta costretta tra il modello della financial revolution e un’interpretazione del ruolo del mercato riforme e restaurazione (1520-1536), Napoli, ESI, 1980, ma editi separatamente nel corso del decennio precedente. 66 Una sintesi sullo stato degli studi all’inizio del periodo qui considerato in G. GALASSO, Economia e finanze nel Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 45-88 (ora in G. GALASSO, Alla periferia dell’Impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, Einaudi, 1994, pp. 185-216). 67 A. CALABRIA, The Cost of Empire cit., in particolare il cap. V: The creation of a security market in the later sixteenth century, pp. 104-129. 68 Ivi, p. 113. 69 Ivi, pp. 114 e segg. 70 Ivi, pp. 122-123. 71 Ivi, pp. 115-117 e 125-127. 92 del credito antinomica a qualsiasi forma di crescita, come nella tradizionale lettura proposta da Elliot per l’economia castigliana, lettura alla quale Calabria si richiama espressamente72. Più in generale, l’apporto alla conoscenza delle vicende del debito pubblico napoletano dato dal volume di Calabria del 1991 e da un suo successivo studio del 199473, risulta molto maggiore se inserito nel contesto degli altri contributi apparsi in questi anni, che hanno approfondito molti aspetti dello stesso tema, soprattutto in relazione alla collocazione geopolitica del Mezzogiorno continentale nel contesto della monarchia spagnola, alla struttura amministrativa e finanziaria del regno, ai gruppi sociali coinvolti nel mercato del credito. Giovanni Muto – in particolare con due saggi apparsi nel 1994 e nel 199574 – ha richiamato l’attenzione sull’impossibilità di considerare la gestione finanziaria e le vicende del debito pubblico del regno di Napoli separatamente dal contesto degli altri territori della monarchia, nel contesto di una più generale ricostruzione dei caratteri comuni, dei processi di riforma e dei tentativi di convergenza degli apparati finanziari dei tre maggiori possedimenti italiani degli Asburgo di Spagna, il regno di Napoli, il regno di Sicilia e il ducato di Milano. Per quanto riguarda più specificamente la gestione del debito pubblico nell’età di Filippo II, Muto ricorda come particolarmente significativo il tentativo compiuto nel 1556 per creare una figura di agente del sovrano che avrebbe dovuto coadiuvare nei territori italiani l’azione del factor general della corona, istituito con la funzione di trasferire fondi tra le varie aree della monarchia e contrattare le condizioni dei prestiti con gli hombres de negocios da una posizione di maggior forza; il tentativo, com’è noto, non riuscì e nel 1557 Filippo II fu costretto a proclamare la prima delle sospensioni dei pagamenti che avrebbero segnato il suo regno75. A ciascuna sospensione avrebbe fatto seguito un medio general, l’accordo raggiunto per rinegoziare l’ammontare del debito e le modalità di pagamento, e le entrate fiscali dei territori italiani sarebbero andate a garantiti i nuovi juros emessi, come in occasione del medio general del 1598, concluso a pochi mesi dalla morte di Filippo II, quando l’importo complessivo 72 Ivi, p. 123; si veda anche J.H. ELLIOT, The Decline of Spain, in T. ASTON (ed.), Crisis in Europe, 1550-1960, with an introduction by C. Hill, London, Routledge & Kegan, 1965 (ed. italiana: Napoli, Giannini, 1968), in particolare le pp. 185-186 per la citazione riportata da Calabria. 73 A. CALABRIA, La finanza pubblica a Napoli nel primo Cinquecento, in A. MUSI (a cura di), Nel sistema imperiale. L’Italia spagnola, Napoli, ESI, 1994, pp. 225-234. 74 G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria nell’esperienza degli stati italiani della prima età moderna, in G. CHITTOLINI, A. MOLHO, P. SCHIERA (a cura di), Le origini dello Stato moderno cit., pp. 287-302; G. MUTO, The Spanish System: Centre and Periphery, in R. BONNEY (ed.), Economic Systems cit., pp. 231-259. Si vedano anche i contributi raccolti in G. MUTO, Saggi sul governo dell’economia nel Mezzogiorno spagnolo, Napoli, ESI, 1992. 75 G. MUTO, The Spanish System cit., p. 255. 93 del debito riconosciuto dalla corona, pari a 14 milioni di ducati, fu coperto per i due terzi dall’emissione di juros al 5% e il restante terzo da juros al 7,14%, metà dei quali emessi sulle entrate di Napoli e Milano 76. Per il Seicento, in particolare per gli anni dell’Olivares, Gaetano Sabatini ha approfondito alcuni aspetti dei legami esistenti tra le scelte politiche operate a Madrid e gli interessi coagulatisi a Napoli intorno alla gestione della rendita pubblica77. All’andamento del debito pubblico napoletano in rapporto alle vicende finanziarie della corona castigliana sono stati altresì dedicati contributi da Luigi De Rosa78 e Roberto Mantelli79; entrambi questi studiosi, tuttavia, hanno rivolto le loro ricerche soprattutto all’interno del sistema del credito del Mezzogiorno continentale. Il ricorso al debito pubblico si realizzava a Napoli attraverso la capitalizzazione e la cessione a privati di entrate tributarie o patrimoniali, in perpetuo, cioè a titolo vitalizio, ovvero con patto di retrovendita, se la corona si riservava il diritto futuro di rientrare in possesso del cespite restituendo il capitale ricevuto; l’alienazione avvenne con una tale frequenza e in così rilevanti proporzioni, che il valore delle entrate vendute si andò riducendo e l’alaggio, cioè la differenza tra il valore nominale e il prezzo di mercato, toccò livelli via via più alti. Riprendendo i risultati di precedenti ricerche sulla struttura finanziario del regno in età spagnola, De Rosa ha approfondito la conoscenza degli 76 Ivi, p. 257. G. SABATINI, Fiscalité des villes, argent du roi. Les finances urbaines dans le royaume de Naples à l’époque moderne, in “Liame. Bulletin du Centre d’Histoire Moderne et Contemporaine de l’Europe Méditerranéenne et des ses Périphéries”, n. 8, juillet-décémbre 2001, pp. 101-115; ID., Les formes de contrôle fiscal dans le royaume de Naples dans l’âge espagnol, relazione presentata al convegno La Monarchie hispanique, institutions, réseaux, cultures politiques (XVIe-XVIIIe siécle), Parigi, EHESS, 7-9 dicembre 2000, in corso di stampa; ID., Collecteurs et fermiers des impôts dans les communautés du Royaume de Naples durant la période espagnole, relazione presentata al seminario Couronne espagnole et magistratures citadines, Madrid, Casa de Velazquez, 22 novembre 2002, in corso di stampa; ID., Tra crisi delle finanze e riforma delle istituzioni: Mattia Casanate, ministro del Re nella Napoli asburgica, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’. Recursos, instrumentos y límites en la práctica del poder soberano en los territorios de la Monarquía Hispanica, Murcia, Universidad de Murcia - Cuadernos del Seminario Floridablanca, n. 5, in corso di stampa. 78 L. DE ROSA, L’azienda e le finanze, in L. DE ROSA, L.M. ENCISO RECIO (a cura di), Spagna e Mezzogiorno d’Italia nell’età della transizione (1650-1760), Napoli, ESI, 1997, vol. I, Stato, finanza ed economia, pp. 128-148; ID., Immobility and change in public finance in the kingdom of Naples, 1694-1806, in “The Journal of European Economic History”, a. XXVIII (1998), n. 1, pp. 9-28. 79 R. MANTELLI, Guerra, inflazione e recessione nella seconda metà del Cinquecento. Filippo II e le finanze dello Stato Napoletano, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica in età di crisi, Bari, Cacucci, 1993, pp. 213-244. 77 94 operatori attivi nella gestione e nel mercato del credito e in particolare del ruolo dei banchi pubblici e privati80. Più concentrato sull’evoluzione del debito pubblico napoletano nella seconda metà del Cinquecento, in uno studio del 1997 Mantelli è ritornato su questo tema81, prendendo in esame e riclassificando, per fonti di entrata capitalizzate e per gruppi sociali, tutte le alienazioni di rendita pubblica effettuate tra il 1556 e il 158382. All’interno dei gruppi sociali proposti dalla riclassificazione di Mantelli, appaiono assolutamente dominanti la nobiltà titolata con il 22% delle rendite (21% dei capitali), i genovesi – non titolati perché altrimenti ricompresi nel gruppo precedente – con il 29% delle rendite (27% dei capitali), il ceto intermedio, costituito da esponenti delle professioni liberali, mercanti, banchieri, funzionari dello Stato, con il 44% delle rendite (46%)83. Un’analoga classificazione per gruppi sociali è stata adottata anche da Ilaria Zilli, che in due studi, del 1990 e del 1997, ha pubblicato l’elenco per il 1669 e per il 1737 dei possessori delle quote del debito pubblico napoletano ottenute capitalizzando il gettito di imposte sui fuochi versate dalle comunità delle sei province della costa tirrenica del regno84. Rispetto alla documentazione utilizzata negli studi di Mantelli si tratta di un materiale più parziale, giacché si riferisce solo ad una parte dell’intero ammontare del debito pubblico, acceso capitalizzando una frazione, più o meno grande, del gettito di imposte sui fuochi di tutte le dodici province del regno nonché del gettito di tutte le altre 80 Si vedano L. DE ROSA, Il Mezzogiorno spagnolo tra crescita e decadenza, Milano, Il Saggiatore, 1987; ID., Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà a Napoli nei secc. XVI-XVIII, in Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell’Europa pre-industriale, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 1991, pp. 499-512; ID., Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i banchi pubblici napoletani, in ID. (a cura di), Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i banchi pubblici napoletani nella società del loro tempo, Napoli, Fondazione dell’Istituto Banco Napoli, 2002, pp. 437-459. 81 Tra gli studi precedenti di Mantelli su questo tema si veda soprattutto Burocrazia e finanze pubbliche nel Regno di Napoli a metà del ’500, Napoli, Pironti, 1981. 82 R. MANTELLI, L’alienazione della rendita pubblica e i suoi acquirenti dal 1556 al 1583 nel Regno di Napoli, Bari, Cacucci, 1997. 83 Ivi, p. 52 (alle pp. 39-41 per la definizione del ceto intermedio). Negli studi di Roberto Mantelli come in quelli di Ilaria Zilli (di cui alla nota successiva) appare modesto l’investimento in quote del debito pubblico da parte degli ordini religiosi, sul quale si veda anche G. SABATINI, Il patrimonio degli ordini religiosi e l’investimento in quote del debito pubblico nel regno di Napoli in età moderna. Primi spunti per una riflessione, relazione presentata nella sessione Confiscation of the Estates of the Regular Clergy and Capitalistic Accumulation in Early Modern Europe del XIII Congresso Internazionale di Storia Economica, Buenos Aires, 22-26 luglio 2002, in corso di stampa. 84 I. ZILLI, Debito pubblico e imposta diretta nel regno di Napoli (1669-1737), Napoli, ESI, 1990; EAD., Lo Stato e i suoi creditori. Il debito pubblico del Regno di Napoli tra ’600 e ’700, Napoli, ESI, 1997. 95 entrate (patrimoniali, indirette, etc.) dello Stato. La frazione di debito pubblico presa in esame in questi studi, tuttavia, può essere giudicata rappresentativa del totale della rendita pubblica accesa sulle imposte sui fuochi sia per il 1669 che per il 1737, di cui costituisce rispettivamente il 55,5% e il 55,9%; questi dati non possono invece essere giudicati rappresentativi dell’intero debito pubblico napoletano per gli stessi anni, perché mancanti della parte relativa al debito acceso capitalizzando entrate di natura diversa dalle imposte sui fuochi, e per questo motivo non è possibile un confronto con i dati pubblicati da Mantelli per la fine del Cinquecento. L’incompletezza delle fonti disponibili è in questo caso particolarmente da lamentare perché i dati già noti segnalano per la metà del Seicento e per il principio del Settecento un elemento – se confermato – di particolare interesse: un netto ridimensionamento del peso del ceto intermedio tra i detentori di quote del debito e una forte crescita di quello della nobiltà, oltre alla totale scomparsa del gruppo dei mercanti banchieri genovesi a seguito dell’espulsione della comunità originaria della repubblica di San Giorgio avvenuta nel 1654; sino a quell’anno, al contrario, il peso della comunità genovese nella vita finanziaria del regno e segnatamente nelle attività connesse con il debito pubblico era stato estremamente significativo, come segnalato ancora negli ultimi anni da contributi di Calabria85, Mantelli86, Musi87, Visceglia88. Il ruolo centrale avuto dai mercanti banchieri genovesi nella vita finanziaria napoletana in età spagnola porta naturalmente a far riferimento anche al debito pubblico della repubblica di San Giorgio. Con alcuni recenti contributi89, Giuseppe Felloni è tornato sul quadro già delineato in studi precedenti per mettere più chiaramente in luce come le fortune internazionali conosciute 85 A. CALABRIA, Finanzieri genovesi nel regno di Napoli nel Cinquecento, in “Rivista Storica Italiana”, a. CXI (1989), pp. 578-613. 86 R. MANTELLI, L’alienazione della rendita pubblica cit., pp. 41-44. 87 A. MUSI, Mercanti genovesi nel regno di Napoli, Napoli, ESI, 1996. 88 M.A. VISCEGLIA, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli, Guida, 1988, pp. 268-270. 89 Si vedano tra gli altri G. FELLONI, La fiscalità nel dominio genovese tra Quattro e Cinquecento, in “Atti della Società Savonese di Storia Patria”, n.s., a. XXV (1989), pp. 91-110 (ora in ID., Scritti di storia economica cit., vol. I, pp. 235-250); ID., Stato genovese, finanza pubblica e ricchezza privata: un profilo storico, in I. ZILLI (a cura di), Fra spazio e tempo. Studi in onore di Luigi De Rosa, vol. I, Napoli, ESI, 1995, pp. 381-404 (ora in G. FELLONI, Scritti di storia economica cit., vol. I, pp. 275-295); ID., Genova e la contribuzione di guerra all’Austria nel 1746: dall’emergenza finanziaria alle riforme di struttura, in C. BITOSSI, C. PAOLUCCI (a cura di), Genova 1746: una città di antico regime tra guerra e rivolta, vol. I, Genova, Associazione amici della Biblioteca Franzoniana, 1998, pp. 7-16 (ora in G. FELLONI, Scritti di storia economica cit., vol. I, pp. 297-306); ID., Accumulazione capitalistica ed investimenti a Genova nei secc. XVI-XVII: uno sguardo d’insieme, ivi, pp. 653-667; ID., Il capitale genovese e l’Europa da Luigi XIV a Napoleone, ivi, pp. 669-681. 96 dal capitalismo genovese in età moderna affondino le loro radici nel processo plurisecolare di accumulazione e di redistribuzione della ricchezza messo in moto proprio dal debito pubblico – e in particolare dalle compere, che ne costituivano il nucleo più antico e importante – evidenziando tra l’altro come “la preoccupazione costante di assicurare un buon reddito ai luoghi fu spesso in contrasto con gli interessi generali del paese e finì per sacrificarli a vantaggio dei pubblici creditori”90. Al di là dell’attività di ricerca, è doveroso ricordare che partire dagli anni ’80 Giuseppe Felloni ha promosso e coordinato un lavoro indispensabile per rendere pienamente fruibili le fonti per la storia del debito pubblico genovese, mi riferisco alla realizzazione e all’avvio della pubblicazione dell’Archivio del Banco di San Giorgio, che, sorto nel 1407 da un riordinamento del debito pubblico genovese, ad esso legò le sue sorti fino alla soppressione voluta da Napoleone nel 180591. Tornando al ruolo dei genovesi nelle vicende dei debiti pubblici degli Stati italiani, e in particolare dei territori soggetti alla monarchia spagnola, si può ricordare ancora un contributo di Giorgio Doria, che, inserendo la presenza a Napoli all’interno di una più ampia ricostruzione dell’attività dei mercanti banchieri genovesi su tutte le piazze europee e mediterranee, nelle isole atlantiche e caraibiche, nei secoli XVI e XVII, ha sottolineato l’importanza che per conseguire questa posizione ebbero l’efficiente sistema di conoscenza dei mercati e la rete informativa di cui disponevano i circoli finanziari genovesi92. Analogamente Romualdo Giuffrida, nel ricostruire gli investimenti di capitale straniero in Sicilia dalla metà del Cinquecento, ha portato nuovi elementi di conoscenza sulle forme con cui i genovesi praticavano i prestiti al governo spagnolo dell’isola, acquisendo il gettito di imposte o i diritti di tratta, cioè le licenze di esportazione, prevalentemente di cereali93. Per la Lombardia, Antonia Borlandi ha 90 ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA, Inventario dell’Archivio del Banco di San Giorgio. Sotto la direzione di Giuseppe Felloni, vol. IV, Debito Pubblico, a cura di G. Felloni, t. I, Roma 1989, p. 12. 91 ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA, Inventario dell’Archivio del Banco di San Giorgio. Sotto la direzione di Giuseppe Felloni, vol. II, Affari generali (t. I, Roma 2001), vol. III, Banchi e tesorieri (t. I, Roma 1990; tt. II-IV, Roma 1991; t. V, Roma 1992; t. VI, Roma 1993), vol. IV, Debito pubblico (tt. I-II, Roma 1989; tt. III-V, Roma 1994; t. VI, Roma 1995; t. VII-VIII, Roma 1996). 92 G. DORIA, Conoscenza del mercato e sistema informativo: il know-how dei mercanti-finanzieri genovesi nei secc. XVI e XVII, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 57-121, ora in G. DORIA, Nobiltà e investimenti a Genova in Età moderna, Genova, Istituto di Storia Economica [dell’Università degli Studi di Genova], 1995, pp. 91-155, in particolare alle pp. 118-121 per il riferimento ai genovesi a Napoli. 93 R. GIUFFRIDA, Investimenti di capitale straniero in Sicilia (1556-1855), Palermo, Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Palermo, 1991, in particolare il cap. I, Investimenti finanziari di mercanti-banchieri stranieri in Sicilia in epoca spagnola (1556-1665). 97 tracciato un quadro dei rapporti finanziari con Genova nel corso del XVII secolo94 e soprattutto Alberto Cova, riprendendo i risultati di precedenti ricerche95, ha messo in evidenza come il milanese Monte di S. Carlo, fondato nel 1637, traesse origine e fosse condizionato nella sua successiva attività dai crediti concessi dal banchiere genovese Stefano Balbi al ducato96. Il grande peso avuto in età moderna dai mercanti banchieri genovesi nel controllo delle forme del credito concesso allo Stato in varie altre aree della penisola, non deve mettere in ombra un altro importante aspetto della gestione del debito pubblico, presente almeno nei territori italiani soggetti alla corona castigliana. Fermo restando che tra Cinque e Seicento i genovesi tendono, soprattutto a Napoli, ad assimilarsi alle élites locali, è importante far risaltare che nell’Italia spagnola i provvedimenti adottati in materia di finanza pubblica non furono mai “disgiunti dalla capacità di coinvolgere i gruppi dirigenti nazionali nella gestione della fiscalità”97. Per quanto riguarda Napoli, gli studi già ricordati sembrano documentare abbastanza ampiamente questa capacità di coinvolgimento. Nel caso della Sicilia, due recenti saggi dedicati alle finanze pubbliche in età moderna, hanno colmato la lacuna storiografica che pesava sulla conoscenza del debito pubblico isolano98. In uno studio del 1999, Antonino Giuffrida ha presentato i risultati della riclassificazione di una serie di bilanci del regno dal 1505 al 158799. Il debito pubblico, assente al principio del secolo cresce nel successivo decennio sino a fornire alle casse reali circa il 15% del totale degli introiti, ma successivamente torna a diminuire sino ad attestarsi, verso la fine del Cinquecento, intorno al 6% del totale delle entrate; per converso, nello stesso periodo, per il pagamento degli interessi o la restituzione dei capitali, il debito pubblico impegna tra l’11% e il 14% delle uscite, con una punta massima del 20% tra il 1565 e il 94 A. BORLANDI, “Al Real Servitio di S. Maestà” Genova e la Milano del Seicento, in “Millain the Great”. Milano nelle brume del Seicento, Milano, CARIPLO, 1989, pp. 41-60. 95 Si veda soprattutto A. COVA, Il Banco di S. Ambrogio nell’economia milanese dei secoli XVII e XVIII, Milano, Giuffrè, 1972. 96 ID., Banchi e monti pubblici a Milano nei secoli XVI e XVII, in Banchi pubblici, banchi privati cit., pp. 329-340; ID., Banchi e monti pubblici a Milano tra interessi privati e pubbliche necessità, in P. PISSAVINO, G. SIGNOROTTO (a cura di), Lombardia Borromaica, Lombardia Spagnola, 1554-1659, Roma, Bulzoni, 1995, vol. I, pp. 363-381. 97 G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria cit., pp. 299-300. 98 Per uno stato delle conoscenze sul debito pubblico siciliano in età moderna prima della pubblicazione dei più recenti contributi si veda G. GIARRIZZO, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XVI, La Sicilia dal Vespro all’Unità, a cura di V. D’Alessandro e G. Giarrizzo, Torino, UTET, 1992, pp. 99-793, in particolare le pp. 201-208. 99 A. GIUFFRIDA, La finanza pubblica nella Sicilia del Cinquecento, Caltanissetta - Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1999. 98 1580100. Giuffrida spiega questo apparente paradosso con il cambiamento che nel corso del Cinquecento caratterizza le forme assunte dal debito pubblico siciliano: all’inizio del secolo lo Stato raccoglie il denaro ancora prevalentemente con uno strumento tipico del mondo mercantile, il contratto di cambio, che si configura, per la sua stessa natura, come un indebitamento a breve, in media a sei mesi o a un anno, con tassi d’interesse che oscillano intorno al 12-15%; nel corso del secolo, tuttavia, avviene il graduale passaggio al sistema delle soggiogazioni ossia l’acquisizione di somme in cambio del diritto a percepire in perpetuo, o fino alla restituzione del capitale, un interesse annuo, in media del 7%, garantito sui redditi della corona101. Mentre i contratti di cambio sono appannaggio di mercanti finanzieri, tra cui appunto i genovesi, le soggiogazioni si rivolgono ad un mercato molto più ampio che, seppure mediato da banchieri locali, comprende nobiltà e ceti intermedi, oltre che soggetti istituzionali come le comunità o i consolati delle nazioni mercantili presenti in Sicilia102. L’incidenza dell’investimento in debito pubblico sui patrimoni personali è uno degli aspetti sui quali maggiori conoscenze ha portato lo studio di Rossella Cancila su fisco, ricchezza e comunità nella Sicilia del Cinquecento103. Analizzando il contenuto delle denunce fatte a fini fiscali a metà del Cinquecento, Rossella Cancila ha studiato la composizione della ricchezza di un gruppo di proprietari, appartenenti a varie classi della distribuzione dei redditi, di cinque comunità rappresentative delle diverse aree ed economie dell’isola; l’investimento in debito pubblico appare documentato praticamente in tutte i ceti possidenti, sebbene esso appaia massimo nelle classi più agiate e si riduca fortemente scendendo ai livelli più bassi della piramide della distribuzione della ricchezza104. La composizione della ricchezza mobiliare presente nei patrimoni personali porta a considerare anche il peso del debito pubblico che metteva capo alle comunità105. L’Autrice evidenzia come nel corso del Cinquecento cre- 100 Ivi, pp. 52-62. Ivi, pp. 62-63 e 250-256. Come forma di prestito dalle caratteristiche intermedie rispetto ai cambi e alle soggiogazioni, Giuffrida segnala altresì l’esistenza dei mutui ipotecari (pp. 254255), anch’essi tuttavia praticati meno frequentemente con il procedere del secolo. 102 Ivi, p. 257. 103 R. CANCILA, Fisco, ricchezza e comunità nella Sicilia del Cinquecento, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 2001. 104 Ivi, cap. IV, Patrimoni e attività economiche alla metà del Cinquecento, pp. 135-230. 105 Ivi, cap. VII, Il debito delle comunità, pp. 339-363; sulle finanze delle città siciliane in età moderna si vedano anche M. AYMARD, Il sistema delle gabelle nelle città siciliane fra Cinquecento e Settecento, in F. BENIGNO, C. TORRISI (a cura di), Città e feudo nella Sicilia moderna, Caltanisetta - Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1995, pp. 15-25, e in particolare sull’indebitamento delle comunità isolane nel corso del XVII secolo P. CASTIGLIONE, Storia di un declino. Il Seicento siciliano, Siracusa, Ediprint, 1987, in particolare alle pp. 145-156, 225-244 e 305-317. Ancora sulle 101 99 sca vertiginosamente l’indebitamento di città e borghi dell’isola, sotto forma di soggiogazioni o di mutui ipotecari concessi a lungo termine, che gravavano in modo esorbitante sui bilanci delle comunità, come nel caso di Palermo, dove, a fine Cinquecento, il pagamento degli interessi sul debito assorbiva da solo oltre il 40% delle uscite106. Un’analoga attenzione per ricostruire un quadro complessivo della situazione del debito pubblico delle comunità in età moderna è mancata invece per il regno di Napoli, per il quale, a questo proposito, si possono segnalare, limitatamente ad alcune aree specifiche, i recenti contributi di Alessandra Bulgarelli Luckas107, Giuseppe Di Taranto108 e Gaetano Sabatini109. In particolare Di Taranto, all’interno di uno studio sulle comunità del regno che tra XVII e XVIII secolo furono dedotte in patrimonio, cioè sottoposte all’amministrazione coatta da parte del potere centrale, analizza il caso di Amalfi, le cui finanze municipali furono poste sotto la gestione controllata dai magistrati contabili della capitale, ad istanza dei creditori insoddisfatti, a partire dal 1723 e fino alla fine del secolo110. Come Amalfi, molte altre comunità del regno di Napoli conoscono nella prima metà del Settecento un autentico tracollo finanziario a causa dell’indebitamento accumulatosi lungo i centocinquant’anni precedenti ed è appunto su questa situazione che cercarono di intervenire gli austriaci nella breve stagione, tra il 1707 e il 1734, in cui il Mezzogiorno continentale rientra a far parte dell’impero. Riprendendo i risultati di precedenti ricerche111, Antonio Di Vittorio è tornato recentemente sui provvedimenti assunti in età austriaca nel tentativo di accrescere le entrate statali attraverso il risanamento delle finanze dello Stato112. In particolare, per quanto riguarda il debito locale, nel 1729 fu adottato un finanze siciliane nel Seicento si veda D. LIGRESTI, I bilanci seicenteschi del Regno di Sicilia, in “Rivista storica italiana”, a. IC (1997), pp. 894-937. 106 R. CANCILA, Fisco, ricchezza e comunità cit., pp. 349-351. 107 A. BULGARELLI LUCKAS, Abruzzo Citra. Economia e fiscalità nella crisi seicentesca, Napoli, senza indicazione dell’editore, 1989; EAD., Gli stati discussi del Tapia (1627-1633). Un apporto per la storia della finanza pubblica, Napoli, senza indicazione dell’editore, 1990. 108 G. DI TARANTO, L’economia amministrata. La deduzione in patrimonio delle università meridionali, Napoli, ESI, 1988. 109 G. SABATINI, Proprietà e proprietari all’Aquila e nel contado. Le rilevazioni catastali in età spagnola, Napoli, ESI, 1995; ID., Il controllo fiscale sul territorio nel Mezzogiorno spagnolo e il caso delle province abruzzesi, Napoli, Istituto italiano per gli Studi Filosofici, 1997. 110 G. DI TARANTO, L’economia amministrata cit., pp. 53-82. 111 Si veda in particolare A. DI VITTORIO, Gli Austriaci e il Regno di Napoli, 1707-1734. Le finanze pubbliche, Napoli, Giannini, 1969; ID., Gli Austriaci e il Regno di Napoli, 1707-1734. Ideologia e politica di sviluppo, Napoli, Giannini, 1973. 112 ID., Crisi economica e riforme finanziarie nel Mezzogiorno nei primi decenni del XVIII secolo, in ID. (a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 245-253. 100 provvedimento di conversione al 5% della rendita comunitativa, contemporaneamente al divieto di ogni futura cessione dei cespiti delle comunità113, mentre, sin dall’anno precedente, era attivo il Banco di San Carlo, fondato con la finalità di ricomprare le quote di debito pubblico ottenute capitalizzando il gettito di imposte sui fuochi. Tuttavia, sottolinea Di Vittorio, la fitta rete degli interessi locali dispiegatasi intorno al debito pubblico riuscì a ostacolare il funzionamento del banco e all’arrivo di Carlo di Borbone, nel 1734, la situazione appariva immutata in tutta la sua gravità, come evidenziato nei contributi di Ilaria Zilli e Alessandra Bulgarelli Luckas dedicati all’avvio del regno del nuovo sovrano114. 4. Le forme di resistenza attuate al principio del Settecento contro i tentativi di estinzione del debito pubblico napoletano documentano, in altro modo, il progressivo coinvolgimento realizzato dal governo spagnolo, nei due secoli precedenti, delle élites dirigenti locali e dei ceti intermedi in un meccanismo di redistribuzione del reddito nazionale che conservava l’evidente finalità di legare strati sociali sempre più ampi alle scelte politiche della monarchia. Questa considerazione non deve però portare a sottovalutare anche la rilevanza e il peso degli interventi attuati dai governi spagnoli nei territori italiani tanto per salvaguardare la propria sovranità impositiva quanto per modificare gli strumenti di credito esistenti sul mercato, al fine di ridurre il costo del denaro preso a prestito dallo Stato o dalle comunità, cioè riducendo forzosamente i tassi d’interesse corrisposti sul debito pubblico115. A questo riguardo, venendo a trattare del terzo grande dominio spagnolo in Italia, il ducato di Milano, Luigi Faccini, all’interno di una più ampia ricerca sulla Lombardia tra Sei e Settecento116, ha opportunamente richiamato l’atten- 113 Ivi, p. 249. I. ZILLI, Carlo di Borbone e la rinascita del regno di Napoli. Le finanze pubbliche, 17341742, Napoli, ESI, 1990, in particolare le pp. 231-243; EAD., La finanza pubblica come strumento di politica economica nel regno di Napoli, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 255-279; A. BULGARELLI LUCKAS, L’imposta diretta nel regno di Napoli in età moderna, Milano, Angeli, 1993, in particolare le pp. 49-60. 115 In realtà per formulare una considerazione complessiva dei caratteri generali delle finanze pubbliche dei territori italiani della monarchia degli Asburgo di Spagna mancano ancora contributi significativi riguardo alla Sardegna, nonostante alcuni spunti promettenti offerti da recenti studi pur non espressamente dedicati a questi temi: F. MANCONI, Castigo de Dios. La grande peste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma, Donzelli, 1994, e G. TORE, Il Regno di Sardegna nell’eta dell’Olivares (1620-1640): assolutismo monarchico e Parlamenti, Roma, Editori riuniti, 1993; ID., Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV. Centralismo monarchico, guerra e consenso sociale (1621-30), Milano, Angeli, 1996. 116 L. FACCINI, La Lombardia fra ’600 e ’700. Riconversione economica e mutamenti sociali, Milano, Angeli, 1988. 114 101 zione sull’importanza del provvedimento con il quale nel 1636 il governatore dello Stato di Milano, recependo una disposizione già introdotta in altre parti della monarchia117, abbassava al 5% il tasso d’interesse dei censi consegnativi stipulati tra i privati e le comunità118. Sebbene successivamente i prestiti avvennero prevalentemente sotto forma di contratti di deposito e di mutuo, questo intervento mirava soprattutto a restituire un po’ di fiato alle esauste casse delle comunità, che tuttavia avrebbero dovuto versare annualmente allo Stato un’imposta pari allo 0,5% dell’importo del capitale del censo119. D’altro canto nella Lombardia spagnola, i gettiti delle imposte dirette non vennero mai cedute ai privati e Faccini sottolinea questo dato, appunto, come espressione della volontà del potere centrale di tutelare la propria capacità impositiva120. Più in generale, Faccini ha ricostruito, per la seconda metà del Seicento, come interagiscano sulla rendita pubblica l’andamento del mercato e l’intervento dello Stato, sotto forma di fissazione o riduzione forzosa del tasso d’interesse corrisposto sul debito camerale o delle comunità121. Anche le alienazioni delle rendite camerali, naturalmente, si adeguavano alle tendenze in atto sul mercato del credito: nelle quasi cinquecento operazioni di cessione di rendite dei beni e di redditi dello Stato compiute tra il 1641 e il 1705, risale al 1649 l’ultima delle alienazioni avvenute con un tasso di capitalizzazione dell’8%, mentre, dopo il 1670, il tasso scende al di sotto del 7% e si attesta sul 5% negli anni successivi122. Nello stesso periodo, e parallelamente, l’emissione di rendita dello Stato si contrae drasticamente: il 45% del totale delle alienazioni avviene nel decennio compreso tra il 1641 e il 1650, e il restante nei 55 anni successivi123. “È difficile dire se ciò dipendesse dalle minori esigenze dello Stato o dal quasi completo esaurimento delle rendite vendibili ancora in possesso della Regia Camera”124, ma è certo, per converso, che le comunità si trovavano stritolate in una spirale di vertiginoso indebitamento: nel 1636 su un totale di circa 40 117 Si veda su questo A. DOMINGUEZ ORTIZ, Politica y hacienda de Felipe IV, Madrid 19832, p. 298. 118 L. FACCINI, La Lombardia fra ’600 e ’700 cit., p. 54. Ivi, p. 55. Faccini osserva altresì che quando, a partire dal 1642, il provvedimento fu esteso anche a tutti i censi stipulati tra privati, si registrò un ricorso a contratti di retrovendita fittizi, con la finalità più di evadere l’imposizione fiscale che di riacquistare una reale libertà di contrattazione, perché di fatto, per l’incertezza che regnava sul mercato e soprattutto per l’ampia disponibilità di capitali in cerca d’impiego, il tasso d’interesse corrente superava raramente il 5% e a partire dal settimo decennio del Seicento si attestò stabilmente tra il 4 il 5% (ivi, p. 56). 120 Ivi, p. 92. 121 Ivi, pp. 75 e segg. 122 Ivi, p. 78. 123 Ivi, p. 79. 124 Ivi , p. 81. 119 102 milioni di debito pubblico di tutte le amministrazioni del Ducato, ben 27 milioni erano riconducibili ai soli censi – esclusi quindi gli altri tipi di contratti – stipulati dai contadi e dalle comunità rurali125. Erano infatti le piccole comunità a patire il maggior peso dell’indebitamento, anche perché nella loro amministrazione vi erano ampi spazi per l’ingerenza dei creditori, cioè per una tutela diretta degli interessi di quest’ultimi a scapito del bene della collettività, e di fatto le comunità rurali si trovavano spesso sotto il controllo più o meno velato dei propri creditori126. Al contrario le grandi comunità potevano vantare una maggiore forza contrattuale, nei confronti dello Stato e dei propri creditori, per poter proclamare la sospensione del pagamento degli interessi, come nel caso di Cremona, o per poter creare un meccanismo come quello realizzato da Milano, che, oltre a prendere direttamente denaro in prestito sui propri cespiti fiscali, in cambio di anticipazioni in contante cedeva redditi futuri al Banco di S. Ambrogio, il quale, a sua volta, emetteva luoghi di Monte al 5%127. Il fallimento del Banco nel 1658 sta a indicare, come segnalato dagli studi di Cova, quanto il Banco avesse sollevato la città dall’obbligo di onorare i propri debiti trascinando nella rovina molti risparmiatori128. In particolare Cova ha individuato negli anni compresi tra il 1625 e il 1660 un periodo “nel quale il conflitto fra gli interessi dei privati e le necessità finanziarie dei pubblici si presenta in forme particolarmente significative [...] forse il momento di massima incapacità di governare i bilanci delle amministrazioni centrale e periferica e, corrispondentemente, di massima prevalenza degli interessi particolari rispetto a quelli generali”129. Non era stato però sempre così: una serie di recenti contributi di Giuseppe De Luca ha portato nuovi elementi di conoscenza sull’attività del gruppo di operatori che, nella seconda metà del Cinquecento, al culmine della fase espansiva, aveva organizzato il sistema finanziario milanese, rendendolo funzionale, allo stesso tempo, alla crescita dell’economia dell’area e al sostegno del fabbisogno dello Stato, arrivando ad essere anche significativamente presente sul complesso mercato degli asientos della corte madrilena130. In particolare, per 125 Ivi, p. 110. Ivi, pp. 111-123. 127 Ivi, p. 108. 128 Si veda a questo proposito soprattutto A. COVA, Il Banco di S. Ambrogio cit., passim. 129 ID., Banchi e monti pubblici a Milano tra interessi privati cit., p. 363. 130 G. DE LUCA, Commercio del denaro e crescita economica a Milano tra Cinquecento e Seicento, Milano, Il Polifilo, 1996; ID., Struttura e dinamiche delle attività finanziarie milanesi tra Cinquecento e Seicento, in E. BRAMBILLA, G. MUTO (a cura di), La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, Milano, Unicopli, 1997, pp. 31-75; ID., Hombres de negocios e capitale mercantile: verso un nuovo equilibrio dell’economia milanese (1570-1620), in Felipe II (1527-1598). Europa y la 126 103 quanto riguarda il rapporto con la finanza pubblica, De Luca ha avviato per l’età spagnola una ricostruzione sistematica dell’andamento della principale forma assunta dal debito dello Stato, cioè la vendita anticipata delle entrate, individuando a tal fine una periodizzazione in quattro distinte fasi131. In un primo periodo, compreso tra il 1535 e il 1569, si assiste ad una costante crescita della quota delle entrate alienate sul totale di quelle disponibili, con tassi di capitalizzazione prevalentemente del 7-10%; il successivo quarantennio, tra il 1570 e il 1610, vede un’intensificarsi di questa tendenza, con a metà degli anni ’70 il raggiungimento della soglia del 40% delle entrate disponibili alienate e con il saggio di capitalizzazione prevalente all’8%; a partire dal 1611 e sino almeno al 1640 la quota delle entrate alienate diminuisce, i tassi di capitalizzazione si aggirano intorno all’8% e si registra una netta tendenza all’effettiva riduzione delle alienazioni più onerose effettuate in passato; infine, dopo il 1640, il ricorso all’alienazione redimibile delle entrate sembra diminuire progressivamente a favore di una loro cessione perpetua, mentre le riduzioni forzose del saggio d’interesse e l’imposizione di tasse sui percettori delle rendite compromettono la remuneratività di questo tipo d’investimenti come anche di tutti i debiti consolidati milanesi. Naturalmente questa periodizzazione nel ricorso al debito pubblico consegue soprattutto dal ritmo con cui il Milanesato, per la sua collocazione geopolitica, viene chiamato a sostenere gli oneri militari della monarchia, per la contribuzione alle spese belliche, per gli alloggiamenti delle soldatesche, per le fortificazioni; un legame sul quale sono tornati, con accenti diversi, i recenti studi di Giovanni Vigo132, Massimo Carlo Giannini133, Davide Maf- Monarquía Católica, Madrid, Editorial Parteluz, 1998, vol. II, Economía, Hacienda y Sociedad, a cura di J. Bravo Lozano e S. Madrazo, pp. 527-551. 131 G. DE LUCA, L’alienazione delle entrate nello Stato di Milano durante il regno di Carlo V, in Carlos V y la quiebra del humanesimo politico en Europa (1530-1558), Madrid, Sociedad Estatal para la Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V, 2000, vol. IV, a cura di J. Bravo Lozano e C. J. De Carlos Moral, pp. 385-403; G. DE LUCA, L’alienazione delle entrate nello Stato di Milano durante l’età spagnola: debito pubblico, sistema fiscale ed economia reale, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit. 132 G. VIGO, Uno stato nell’impero. La difficile transizione al moderno nella Milano di età spagnola, Milano, Guerini e associati, 1994; ID., Economia e governo nella Lombardia spagnola, in P. PISSAVINO, G. SIGNOROTTO (a cura di), Lombardia Borromaica cit., vol. I cit., pp. 249-264. Un quadro complessivo dell’interazione tra la collocazione geopolitica dello Stato di Milano e l’andamento della finanza pubblica in età spagnola in G. VIGO, Fisco e società nella Lombardia del Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1979, e D. SELLA, Sotto il dominio della Spagna, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XI, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, Torino, UTET, 1984, pp. 1150, in particolare le pp. 119-123. 133 M.C. GIANNINI, Risorse del principe e risorse dei sudditi: fisco, clero e comunità di fronte al problema della difesa comune nello stato di Milano (1618-1660), in “Annali di storia moderna e 104 fi134, Mario Rizzo135, mentre, ancora in riferimento all’età spagnola, Marco Ostoni ha studiato il personale e le modalità di gestione contabile della tesoreria generale del ducato di Milano, organo deputato alla quantificazione delle entrate e delle uscite – e quindi dei disavanzi – dello Stato, nonché all’individuazione dei cespiti da alienare e al pagamento degli interessi sul debito pubblico136. La situazione del debito pubblico lombardo nella fase del trapasso tra spagnoli e austriaci è rappresentata nel volume di Stefano Agnoletto dedicato allo Stato di Milano al principio del Settecento137. Nell’analizzare i bilanci preventivi dal 1701 al 1718, Agnoletto rileva innanzitutto la grande difficoltà di individuare le uscite legate al servizio del debito pubblico, data l’estrema eterogeneità di voci raggruppate insieme e la loro forte oscillazione, in valore assoluto e in peso percentuale, riscontrata tra un esercizio e l’altro, entrambi sintomi di una contemporanea”, 6, 2000, pp. 173-225; ID., Città e contadi dello Stato di Milano nella politica finanziaria del conte di Fuentes, in E. BRAMBILLA, G. MUTO (a cura di), La Lombardia spagnola cit., pp. 191-208; ID., Difesa del territorio e governo degli interessi. Il problema delle fortificazioni nello Stato di Milano (1594-1610), in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit. 134 D. MAFFI, Guerra ed economia: spese belliche e appaltatori militari nella Lombardia spagnola, in “Storia economica”, a. III (2000), n. 3, pp. 489-527; ID., Milano in guerra. La mobilitazione delle risorse in una provincia della Monarchia, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit. 135 M. RIZZO, Finanza pubblica, impero e amministrazione nella Lombardia spagnola: le ‘ visitas generales’, in P. PISSAVINO, G. SIGNOROTTO (a cura di), Lombardia Borromaica cit., vol. I cit., pp. 303-361; M. RIZZO, Competizione politico-militare, geopolitica e mobilitazione delle risorse nell’Europa cinquecentesca. Lo Stato di Milano nell’età di Filippo II, in E. BRAMBILLA, G. MUTO (a cura di), La Lombardia spagnola cit., pp. 371-387; M. RIZZO, Milano e le forze del Principe. Agenti, relazioni e risorse per la difesa dell’impero di Filippo II, in Felipe II cit., vol. I, El Gobierno de la Monarquía (Corte y Reinos), a cura di M. Rivero Rodríguez, t. II, pp. 731-766; M. RIZZO, El gobierno de Milán y la Monarquía de Felipe II, in Las sociedades ibéricas y el mar a finales del siglo XVI, Madrid, Sociedad Estatal para la Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V, 1998, vol. III, El área del Mediterráneo, pp. 283-322; ID., I soldati del re e i soldi del popolo. Il processo di perequazione degli oneri militari nel Cinquecento lombardo, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit. Si segnala che sui temi anticipati in questi contributi M. Rizzo ha in corso di preparazione una monografia. 136 M. OSTONI, Da Como a Milano attraverso la Spagna: la carriera di Muzio Parravicino (1579-1615), in Felipe II cit., vol. II cit., pp. 585-608; ID., Un affare infruttuoso: Pedro López de Orduña e la tesoreria generale dello Stato di Milano, in Las sociedades ibéricas cit., vol. III cit., pp. 485-511; ID., I conti dello Stato e la tesoreria generale di Milano: la gestione di Muzio e Francesco Paravicino (1600-1640), in “Storia economica”, a. I (1998), n. 3, pp. 563-600; ID., Controllori e controllati: i ‘ragionati’ nell’amministrazione milanese tra Cinque e Seicento, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit. 137 S. AGNOLETTO, Lo Stato di Milano al principio del Settecento. Finanza pubblica, sistema fiscale e interessi locali, Milano, Angeli, 2000. 105 fase di spese straordinarie, affrontate rinunciando a qualsiasi tentativo di razionalizzazione e pianificazione138. Pertanto Agnoletto ha proposto una riclassificazione secondo la tipologia di debito, in fluttuante, perpetuo e ammortizzabile: il debito fluttuante è individuato dalle anticipazioni fatte dagli appaltatori delle riscossioni per coprire urgenti bisogni di cassa; nel secondo gruppo, quello del debito perpetuo, sono comprese le concessioni onerose e le pensioni; infine la voce del debito ammortizzabile raggruppa la quota più significativa di partite debitorie presenti nei bilanci del magistrato ordinario139. A questo gruppo appartengono gli interessi il cui pagamento era garantito dal gettito di entrate alienate e dalle rendite di varie istituzioni, come la Cassa di redenzione, il Monte di S. Carlo e il Monte di S. Francesco, nonché i versamenti dovuti al Banco di S. Ambrogio per le sovvenzioni fatte alla Regia Camera140. Un primo tentativo di porre ordine nella confusa congerie del debito pubblico ereditato dal governo spagnolo viene compiuta dagli austriaci nel 1711, con la formazione di una giunta incaricata di controllare la legalità dei contratti di alienazione di redditi camerali ancora in essere; è da ritenere che anche in questo caso la vastità degli interessi in gioco inducesse il governo recentemente insediato a soprassedere ad una effettiva verifica, giacché nel volgere di pochi mesi la giunta concluse la sua attività dichiarando tutti i contratti validi141. Nonostante il rapido epilogo, questa esperienza testimonia della volontà degli austriaci di intervenire sulle finanze dello Stato, e segnatamente sul debito pubblico, secondo un programma di riforme che, attraverso un intenso dibattito teorico e politico, sarebbe giunto a maturazione nei decenni successivi142. Sull’evoluzione del debito pubblico lombardo nel Settecento, dopo lo studio di Alberto Cova del 1980143, non vi sono state ricerche più recenti, ma in due ben noti studi di sintesi, del 1990 e del 1995, Carlo Capra ha inserito questo tema nel quadro complessivo sia del riformismo asburgico, sia del più generale processo di trasformazione delle finanze degli Stati italiani del XVIII secolo144. In particolare Capra sottolinea l’importanza dell’incontro “tra la volontà 138 Ivi, pp. 99-103 e 115-118. Ivi, pp. 128. 140 Ivi, p. 129. 141 Ivi, pp. 279-280. 142 Ivi, pp. 287-311. 143 A. COVA, Il debito pubblico dello Stato di Milano durante la dominazione austriaca (17061796), in La dette publique aux XVIII et XIX siècles: son développement sur le plan local, régional et national, Bruxelles, Crédit Communal de Belgique, 1980, pp. 125-143. 144 C. CAPRA, Le finanze degli Stati italiani nel secolo XVIII, in L’Italia alla vigilia della Rivoluzione Francese, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1990, pp. 141-173; ID., The Eighteenth Century. I. The Finances of the Austrian Monarchy and the Italian States, in R. BONNEY (ed.), Economic Systems cit., pp. 295-314. Si veda anche C. CAPRA, Il Settecento, in Storia d’Italia, 139 106 rinnovatrice della giovane sovrana, Maria Teresa, e l’azione illuminata ed energica di Gian Luca Pallavicino, prima regio delegato, poi ministro plenipotenziario e infine governatore (1750-53) dei ducati di Milano e Mantova”145. Pallavicino, oltre ad abolire la venalità degli uffici, creò un banco pubblico per la gestione e la liquidazione del debito di Stato, il Monte di S. Teresa, “che fin dal 1769-70 fu in grado di subentrare ai due banchi a gestione patrizia (il Banco di S. Ambrogio e il Monte Civico), offrendo ai creditori la scelta tra il rimborso dei loro titoli e il consolidamento al 3,5% di interesse, e più avanti di impegnarsi in ingenti prestiti alla Camera aulica di Vienna”146. Rispetto al fervore riformistico che pervade la Lombardia e in generale l’Italia del Settecento in materia di finanze e in particolare di debito pubblico, l’analisi di Capra fa risaltare il quadro di sostanziale stasi che caratterizza la vicina repubblica di Venezia nello stesso periodo: è bensì vero che negli anni centrali del secolo si realizza il consolidamento e la riduzione del debito della Serenissima e nel 1767 ha luogo una decurtazione d’imperio dei capitali, ma queste costituiscono le sole iniziative di rilevo del governo veneto in campo finanziario147, giacché, osserva Capra, il sistema finanziario veneziano “non tollerava riforme strutturali capaci di metterne a repentaglio la sopravvivenza”148. Il severo giudizio di Capra non è stato sostanzialmente ribaltato dalle successive analisi della finanza pubblica della Serenissima nella fase estrema della repubblica, compiute da Luciano Pezzolo149, Andrea Zannini150 e Giancarlo Mazzucato, da diretta da G. Galasso, vol. XI, Il Ducato di Milano cit., pp. 153-617. Sul rapporto tra gli interventi sul debito pubblico realizzati in Lombardia e il riformismo asburgico si veda P.G.M. DICKSON, Finance and Government under Maria Theresia, 1740-80, Oxford, Oxford University Press, 1987. 145 C. CAPRA, Le finanze cit., p. 155. 146 Ivi, p. 161; più in generale sulla Lombardia teresiana si veda A. DE MADDALENA, E. ROTELLI, G. BARBARISI (a cura di), Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, Bologna, Il Mulino, 1982, vol. I, Economia e società, nel quale, in riferimento al Mantovano, anche M.A. ROMANI, Le finanze del Ducato di Mantova dalla caduta di Ferdinando Carlo all’avvento di Maria Teresa, pp. 285-318. 147 C. CAPRA, Le finanze cit., p. 153. 148 Ivi, p. 169. Per un parallelo tra Stato di Milano e Repubblica di Venezia si veda L. PEZZOLO, Istituzioni e sistemi finanziari in Italia tra Cinque e Seicento: un confronto tra Repubblica di Venezia e Stato di Milano, in “Acta Histriae”, a. VII (1999), pp. 471-478. 149 L. PEZZOLO, Economia e fiscalità nella Terraferma del Settecento, in F. AGOSTINI (a cura di), Veneto, Istria e Dalmazia tra Sette e Ottocento. Aspetti economici, sociali ed ecclesiastici, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 29-42. 150 A. ZANNINI, La finanza pubblica: bilanci, fisco, moneta e debito pubblico, in Storia di Venezia, vol. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. Del Negro e P. Preto, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 413- 477; si veda anche G. SCARABELLO, Il Settecento, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XII, La Repubblica di Venezia nell’età moderna, t. II, Dal 1517 alla fine della Repubblica, a cura di G. Cozzi, M. Knapton, G. Scarabello, Torino, UTET, 107 quest’ultimo soprattutto per quanto concerne la dipendenza del debito pubblico veneziano dal ciclo della spesa militare151. Tuttavia Zannini sottolinea che i provvedimenti per l’affrancazione dal debito non furono sporadici, ma si susseguirono durante tutto il Settecento, mentre dalla ricostruzione dei bilanci della repubblica, emerge che nell’ultimo ventennio del secolo l’incidenza del servizio del debito sul totale delle entrate si riduce al 20%152; gli ultimi anni della repubblica videro poi provvedimenti contraddittori: d’un canto si iniziarono a studiare nuovi strumenti finanziari, ad esempio prevedendo la possibilità di affrancare il debito pubblico mediante l’emissione di banconote a corso legale, che avrebbero dovuto fruttare un interesse del 2%, ma d’altra parte, osserva Zannini, proprio alcune forme di affrancazione del debito, colpendo particolarmente gli interessi dei detentori di più vecchia data, accelerarono la fase di declino economico del patriziato veneziano153. Ben diversa appare la situazione di Venezia nei due secoli precedenti e numerosi studi apparsi in questi ultimi anni hanno notevolmente migliorato le nostre conoscenze sul debito pubblico della Serenissima nella prima età moderna. Un primo importante contributo si deve a Giuseppe Del Torre che analizza la situazione finanziaria veneziana all’indomani della lega di Cambrai (1508-11) e nel ventennio successivo154. Negli anni del conflitto la repubblica aveva frequentemente imposto prestiti forzosi e dopo la pace di Agnadello (1509), mentre non veniva del tutto abbandonato questo sistema, praticato con o senza il pagamento di un interesse ai prestatori155, si faceva nuovamente ricorso al debito pubblico con l’istituzione del Monte Nuovissimo per un importo di 400.000 ducati, che si andavano ad affiancare ai 3 milioni di ducati del Monte Nuovo, agli 8 milioni di ducati del Monte Vecchio nonché ad una entità imprecisata di debito fluttuante156. Ma le risorse destinate al pagamento degli interessi, nelle difficili congiunture vissute dalla repubblica, venivano regolarmente utilizzate per coprire le spese correnti, sicché gli interessi arretrati si accumulavano sempre di più (il Monte Vecchio, ad esempio, era in ritardo di 40 anni con i pagamenti) e nel 1519 la classe dirigente veneziana si convinse che “fosse ormai indispensabile sospendere il pagamento degli interessi e cominciare la restitu1992, pp. 551-681, in particolare alle pp. 596-602 per il debito pubblico, e J.C. HOCQUET, Venice, in R. BONNEY (ed.), The Rise of the Fiscal State cit., pp. 381-415. 151 G. MAZZUCATO, La politica finanziaria nella repubblica di Venezia del Settecento, in “Rivista di Storia Economica”, n.s., a. XIII (1997), f. 2, pp. 173-196. 152 A. ZANNINI, La finanza pubblica cit., pp. 437-443, 462-466, 470. 153 Ivi, pp. 471-73. 154 G. DEL TORRE, Venezia e la terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano, Angeli, 1986. 155 Ivi, pp. 68-76. 156 Ivi, p. 154. 108 zione dei capitali sborsati dai creditori, adottando provvedimenti straordinari per reperire i fondi necessari”157. In seguito fu deciso di destinare alla liquidazione del Monte Nuovo i proventi della vendita all’incanto dei beni demaniali del Polesine; se i compratori fossero stati tra i creditori del Monte Nuovo, essi avrebbero scalato l’importo dei beni acquistati dal totale dei crediti vantati, nella misura di due terzi dal capitale e un terzo dagli interessi158. Gli incanti furono dominati dai cittadini veneziani e di fatto questo provvedimento, al di là della soluzione dei problemi del debito pubblico, consentì ai patrizi interessati di ampliare le proprie proprietà fondiaria acquisendo ad un prezzo sì elevato, ma certamente inferiore a quello di mercato, un patrimonio che rendeva molto bene alla repubblica e che veniva alienato solo per la gravità della situazione finanziaria159. Nel corso del Cinquecento, la gestione del debito pubblico veneziano muta profondamente rispetto alla situazione descritta da Del Torre e i numerosi approfondimenti dedicati recentemente da Luciano Pezzolo a questo tema, all’interno di una più generale ricostruzione della finanza e della società veneta tra XVI e XVII secolo, hanno individuato con chiarezza i caratteri e i passaggi fondamentali di questo processo di innovazione160. A Venezia “il problema del finanziamento statale fu affrontato introducendo delle innovazioni che facilitarono la raccolta di denaro tra risparmiatori e collegarono strettamente la macchina statale al capitale finanziario” mentre, dalla parte dei privati, “gli investimenti in rendite pubbliche rispo[sero] a considerazioni di carattere prevalentemente economico”161. Sono appunto questi elementi che portano Pezzolo a collocare Venezia – ma anche, come si è già ricordato, la maggior parte degli Stati italiani nella prima età moderna – nell’ambito della finacial revolution. L’innovazione è costituita, nel secondo quarto del secolo, dall’emissione da parte dello Stato dei depositi in Zecca, titoli a medio e lungo termine, venduti senza il ricorso ad intermediari e sottoscritti liberamente dagli investitori, esenti da tasse, commerciabili sul mercato, il pagamento dei cui interessi era garantito dal gettito fiscale162. Grazie al florido andamento delle sue finanze, Venezia 157 Ivi, p. 155. Ibidem. 159 Ivi, pp. 156-157. 160 L. PEZZOLO, L’oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo ’500, Venezia, Il Cardo, 1990, in particolare alle pp. 174-209; ID., Sistema di potere cit.; ID., La finanza pubblica, in Storia di Venezia cit., vol. VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di G. Cozzi e P. Prodi, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 1994, pp. 713-773; L. PEZZOLO, Elogio della rendita cit. 161 Ivi, p. 284. 162 Ivi, pp. 285-286. 158 109 esperimenta anche un’effettiva estinzione del debito pubblico, un traguardo che rimase assolutamente irraggiungibile per la maggior parte degli Stati italiani d’età moderna: “nel 1577 il governo veneziano attuò un’operazione di liquidazione del debito pubblico che di fatto azzerò l’onere degli interessi passivi in bilancio. Tra il 1577 e il 1584 vennero restituiti oltre 5 milioni di ducati – circa il doppio delle entrate di un anno – costituiti dai depositi in Zecca e verso la fine del secolo si procedette all’affrancamento dei debiti consolidati nei rimanenti Monti”163. Nel 1615 il debito pubblico veneziano poteva dirsi estinto, anche se, subito dopo, il coinvolgimento della repubblica in altri impegni militari comportò l’attivarsi di un nuovo flusso di credito verso le casse dello Stato, proveniente da ogni strato sociale, e geograficamente tanto da Venezia e dal Dominio, che dall’estero, soprattutto da Genova; alla metà del secolo gli interessi sul debito pubblico salivano nuovamente a poco meno di mezzo milione e toccavano la vetta di oltre due milioni all’indomani della guerra di Candia164. Ma anche nelle fasi di maggiore espansione, la ricostruzione dei bilanci della repubblica proposta da Pezzolo dimostra che il servizio del debito pubblico veneziano non compromise mai la stabilità complessiva dell’impianto finanziario della repubblica e si mantenne sempre lontano dalle situazioni patologiche conosciute da altri Stati della penisola165. Più difficili invece le condizioni delle comunità della Terraferma, analizzate da Pezzolo partendo dalla posizione del tutto particolare di Bergamo166: strette tra l’esosità dei trasferimenti richiesti dalla Dominante e l’impossibilità di espandere la base del prelievo a causa del controllo sulle finanze municipali esercitato dalle oligarchie locali, le comunità conoscono nel corso del Seicento una forte crescita dell’indebitamento167. Le difficoltà finanziarie delle comunità della Terraferma preoccupavano non poco la Serenissima, che, al contrario, si faceva vanto della puntualità dei pagamenti degli interessi e della solidità nella gestione della finanza pubblica; quest’ultimo tratto, unitamente e in stretta identità con la stabilità del governo, consentì di non ricorrere a bancarotte o drastiche riconversioni del debito fino al XVII secolo, evitando di minare la fiducia dei sottoscrittori e decretando il successo del debito pubblico a Venezia, come a Genova o ad Amsterdam168. 163 Ivi, p. 288. Ivi, pp. 289-290. 165 Si vedano i dati pubblicati in appendice a ID., Sistema di potere cit., pp. 319-327. 166 ID., Fiscalità e congiuntura in città e nel territorio (1630-1715), in Storia economica e sociale di Bergamo, vol. III, Il tempo della Serenissima, a cura di A. De Maddalena, M. Cattini, M. A. Romani, Bergamo, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2000, pp. 217-234. 167 Ivi, pp. 230-232. 168 L. PEZZOLO, Sistema di potere cit., p. 311; ID., Elogio della rendita cit., p. 315. 164 110 Sulla credibilità dello Stato come debitore, conseguenza della stabilità nella gestione della finanze e nel governo, si fonda anche il parallelo tra Roma e Venezia, accomunate altresì, sottolinea Pezzolo, dalle similitudini tra i depositi in Zecca emessi dalla repubblica e i luoghi di Monte che caratterizzano la finanza pontificia, due delle innovazioni di maggior successo nella finanza italiana nell’età moderna169. 5. Numerosi sono stati gli studi dedicati al debito pubblico pontificio in età moderna negli ultimi vent’anni e una rassegna del 1986 di Andrea Gardi consente di ripercorrere analiticamente lo stato delle ricerche su questo tema al principio del periodo del quale ci stiamo occupando; in particolare, Gardi, che intende evidenziare il contributo portato dalla politica fiscale pontificia alla trasformazione del dominio del papa in uno Stato moderno, segnala, dal principio degli anni ‘80, gli studi di Peter Partner170, Wolfgang Reinhard171 ed Enrico Stumpo172. Partner ricostruisce l’andamento del debito pubblico e del gettito fiscale nello Stato pontificio tra XV e XVII secolo rilevando come entrambi presentino nel periodo considerato un forte incremento; in particolare le entrate fiscali aumentano assai più di prezzi e salari (grazie anche ad una politica deflazionistica che deprimeva l’economia dello Stato a solo vantaggio di Roma), ma, nonostante ciò, il gettito fiscale fu sufficiente solo per sostenere le spese ordinarie mentre le spese straordinarie vennero finanziate mediante la crescita del debito pubblico173. Il patriziato romano, le famiglie dalle cui fila provengono in maggioranza i membri della Curia, i banchieri genovesi e fiorentini, più o meno assimilati all’aristocrazia locale, traggono il massimo beneficio dal debito pubblico, investendo anche nell’acquisto di “uffici di governo e di terre nel Lazio: l’amministrazione, in mano a tali ufficiali venali, secondo Partener, si ‘de-modernizza’, passando da burocratica, quale era in età avignonese, a ‘patrimoniale’”174. 169 ID., Government Debts and Trust. French Kings and Roman Popes as Borrowers, 15201660), in “Rivista di Storia Economica”, n.s., a. XV (1999), n. 3, pp. 235-261, in particolare pp. 256-257. 170 P. PARTNER, Papal financial policy in the Renaissance and Counter-Reformation, in “Past and present”, 1980, pp. 17-62. Si veda anche, più recentemente, ID., The Papacy and the Papal States, in R. BONNEY (ed.), The Rise of the Fiscal State cit., pp. 359-380. 171 W. REINHARD, Finanza pontificia e Stato della Chiesa nel XVI e XVII secolo, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 353-387. 172 E. STUMPO, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla storia della fiscalità pontificia in età moderna (1570-1660), Milano, Giuffré, 1985. 173 P. PARTNER, Papal financial policy cit., pp. 48-58. 174 A. GARDI, La fiscalità pontificia cit., p. 517, che fa riferimento alle pp. 59-62 dell’art. cit. di Partner. 111 Lo studio di Reinhard si colloca in una posizione speculare rispetto quella di Partner, giacché, secondo questo Autore, lo Stato pontificio avrebbe “giocato un ruolo non irrilevante [nel] processo di formazione dello Stato moderno che abbraccia tutta l’Europa”175. L’innegabile stabilità del potere di Roma è certo un elemento di vantaggio nel processo di formazione dello Stato e costituisce d’altro canto il fondamento della solidità e del successo del debito pubblico pontificio176. Questo si basa essenzialmente su due strumenti, innanzitutto gli uffici vendibili, a partire dal XIV secolo, ai quali si affianca dal 1526, l’innovazione finanziaria costituita da prestiti, caratterizzati da forme di organizzazione dei creditori e garantiti dal gettito di entrate dello Stato, i cosiddetti Monti, vacabili e non vacabili (destinati cioè ad estinguersi alla morte del titolare della quota o a passare ai suoi eredi), ceduti in blocco a banchieri, che ne curano la collocazione presso il pubblico, in quote, o luoghi, da 100 o 50 ducati177. L’acquisto di luoghi di Monte fu tradizionalmente ritenuto un investimento sicuro: per il successo goduto presso il pubblico, fecero ricorso alla loro erezione non solo la Camera apostolica, ma anche, con l’autorizzazione del papa, la città di Roma e diverse istituzioni ecclesiastiche, come l’Ospedale di S. Spirito o la Fabbrica di S. Pietro; questi prestiti erano annoverati tra quelli pontifici, ciò che non accadeva necessariamente per i Monti emessi dalle altre comunità o enti religiosi dello Stato178. Nonostante gli elementi di modernità presenti in questo sistema, Reinhard è molto cauto nello stabilire una correlazione tra evoluzione finanziaria e trasformazione politico-sociale dello Stato della Chiesa, anche se evidenzia l’avvicendarsi, come classe egemone, tra l’antica nobiltà e un nuovo ceto patrizio formato dalle famiglie dei papi e dei finanzieri, che proprio dal mercato del debito pubblico traevano i maggiori vantaggi179. Di più ampio respiro lo studio del 1985 di Enrico Stumpo sul capitale finanziario a Roma tra Cinque e Seicento: all’interno di un’articolata analisi della finanza temporale e spirituale dello Stato della Chiesa nel periodo 15701660, il tema del debito pubblico camerale viene sviluppato non solo attraverso la puntuale ricostruzione degli aspetti tecnici del sistema degli uffici vacabili e dei Monti, ma anche approfondendo sia le differenze esistenti tra valori di emissione e valori di mercato del debito pubblico, così come tra rendite nominali e rendite reali dello stesso, sia le forme della raccolta e dell’impiego dei capitali, sia il circuito di pagamento degli interessi180. Delle molte e interessanti 175 W. REINHARD, Finanza pontificia cit., p. 353. Ivi, p. 372. 177 Ivi, p.p. 372-373. 178 Ivi, pp. 377-379. 179 Ivi, pp. 384-387; A. GARDI, La fiscalità pontificia cit., p. 518. 180 E. STUMPO, Il capitale finanziario a Roma cit., in particolare il cap. V, Il debito pubblico pontificio, pp. 219-305. 176 112 conclusioni alle quali giunge lo studio di Stumpo, se ne possono ricordare in particolare tre che hanno portato a ripensare l’interpretazione di alcuni dei caratteri tradizionalmente legati al debito pubblico pontificio. Innanzitutto, riguardo all’utilizzo dei capitali raccolti, Stumpo sottolinea che l’impiego prioritario fu comunque quello difensivo e militare, anche se seguito immediatamente dai costi affrontati per le famiglie dei papi – cioè per sostenere in vario modo la pratica del nepotismo – e solo a notevole distanza dalle spese per gli interventi urbanistici a Roma, per l’ammortamento del debito delle comunità, etc.181. Una seconda conclusione di rilevante portata riguarda la fuoriuscita di capitali dallo Stato per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, soprattutto a titolari genovesi e fiorentini: in questo caso Stumpo stima che nell’ultimo trentennio del Cinquecento i creditori forestieri non superassero il 50%, con un progressivo aumento dei creditori nazionali per tutta la prima metà del Seicento182. Ma soprattutto Stumpo conclude: “il grande sconfitto della politica finanziaria voluta dalla S. Sede fu proprio lo Stato. Nell’ambito della finanza temporale, infatti, la Camera Apostolica seguì una linea di condotta per molti versi assai simile a quella degli altri Stati italiani o europei; anzi, per quanto riguarda il largo ed efficiente ricorso al debito pubblico fu all’avanguardia”183. Risulta profondamente diversa invece la gestione della finanza spirituale: in questo ambito venne sviluppata la venalità degli uffici, che si articolava a Roma in due categorie ben diverse fra loro: “la prima interessò gli alti uffici curiali e della Chiesa, o anche dello Stato ma prelatizi, ovvero riservati ad ecclesiastici; la seconda [riguardò] gli uffici curiali minori e i collegi cosiddetti cavallereschi e diventò quasi subito una forma di mercato di titoli di credito in tutto simili ai luoghi di Monte. In quest’ultimo caso, quindi, l’acquisto di un ufficio per il privato significò semplicemente una pura e semplice operazione finanziaria, non comportando né l’esercizio di una carica o di una funzione né l’acquisto di quegli elementi giuridici atti a dar loro carattere di pubblici ufficiali [...] Così mentre in Francia, in Spagna o in Piemonte per determinati gruppi sociali la venalità degli uffici costituì il mezzo che consentì un’indubbia mobilità sociale, favorendone l’ingresso e la successiva diffusione in diversi settori della pubblica amministrazione, il particolare sviluppo che se ne ebbe a Roma non consentì, anzi ostacolò tutto questo” e “non significò affatto una vera e propria venalità degli uffici o nascita o sviluppo di una moderna burocrazia”184. 181 Ivi, pp. 293-298. Ivi, pp. 302-303. 183 Ivi, p. 313. 184 Ivi, pp. 313-314. Su questa conclusione di Stumpo è particolarmente critico il giudizio di GARDI (La fiscalità pontificia cit., pp. 518-520) mentre in linea con essa appaiono le considera182 113 A partire dalla seconda metà degli anni ‘80, sul tema del debito pubblico pontificio, soprattutto in riferimento alle forme di emissione e al mercato dei luoghi di Monte, si registrano i numerosi e densi contributi di Fausto Piola Caselli185. Riguardo al debito pubblico come attività finanziaria di operatori privati, gli studi di Piola Caselli hanno dimostrato che, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, “a Roma, accanto ad alcuni grandi operatori economici presenti sul mercato [...] esisteva una schiera [...] di piccoli risparmiatori, che si affidavano con fiducia all’investimento nei luoghi camerali, in piena autonomia e con un certo gusto del rischio [...] Il mercato dei titoli era ben conosciuto e non era per nulla riservato ad una ristretta cerchia di privilegiati o a pochi grandi Enti religiosi. I prezzi dei titoli erano di dominio pubblico e venivano fissati [...] almeno con cadenza mensile”186. Anche attraverso intermediari esperti, il pubblico valutava attentamente i rendimenti dei titoli in considerazione dei tassi corrisposti, della durata del prestito e dei prezzi correnti sul mercato, così da conseguire la migliore remunerazione possibile dal capitale investito. Piola Caselli concorda con Stumpo nel sottolineare che in età moderna il ricorso al debito pubblico è stato sempre condotto dalla Camera Apostolica con grande accortezza. “Lo Stato pontificio non ha mai dichiarato bancarotta e ha zioni espresse in R. MASINI, Introduzione, in G.V. PARIGINO (a cura di), Il bilancio pontificio del 1657, Napoli, ESI, 1999, pp. 25-26. 185 F. PIOLA CASELLI, L’espansione delle fonti finanziarie della Chiesa nel XIV secolo, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria, a. CX (1987), pp. 63-97; ID., La diffusione dei Luoghi di Monte della Camera Apostolica alla fine del XVI secolo. Capitali investiti e rendimenti, in Società Italiana degli Storici dell’Economia, Credito e sviluppo economico in Italia dal Medioevo all’età contemporanea, Verona, Fiorini, 1988, pp. 191-216; ID., La disciplina amministrativa ed il trattamento fiscale dei Luoghi di Monte della Camera Apostolica tra il XVI ed il XVII secolo, in M. J. PELÀEZ (ed.), Historia economica y de las institutiones financieras en Europa. Trabajos en homenaje a Ferran Valls i Taberner, vol. XII, Barcelona 1989, pp. 3525-3549; F. PIOLA CASELLI, Banque et finance en Italie au XIVe et XVe siècle, in “Marchés et tecniques financières”, a. 1990, nn. 2021, pp. 27-30; ID., Gerarchie curiali e compravendita degli uffici a Roma tra il XVI ed il XVII secolo, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria” a. CXIV (1991), pp. 117-125; ID., Crisi economica e finanza pubblica nello Stato pontificio tra XVI e XVII secolo, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 141-179; F. PIOLA CASELLI, Innovazione e finanza pubblica. Lo Stato pontificio nel Seicento, in Società Italiana degli Storici dell’Economia, Innovazione e sviluppo. Tecnologia e organizzazione fra teoria economica e ricerca storica (secoli XVI-XX), Bologna, Monduzzi, 1996, pp. 449-464; ID., Il Buon Governo cit.; ID., Tax Systems and Fiscal Burden in the Papal State (16th-18th centuries), relazione presentata nella sessione The Formation and Efficency of Fiscal States in Europe and Asia, 1500-1914 del XIII Congresso Internazionale di Storia Economica, Buenos Aires, 22-26 luglio 2002. Tra le ricerche dello stesso Autore precedenti il periodo qui in esame si veda F. PIOLA CASELLI, Aspetti del debito pubblico nello Stato Pontificio: gli uffici vacabili, in “Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia”, n.s., aa. 1970-72, n. 11, vol. I, pp. 101-174. 186 ID., La diffusione dei Luoghi di Monte cit., p. 215. 114 sempre rispettato gli impegni presi con i sottoscrittori, limitandosi a [...] limare progressivamente i tassi d’interesse a seconda dell’andamento del mercato e giungendo infine a consolidare il debito pubblico senza provocare forti contraccolpi sui risparmiatori”; inoltre, nelle fasi di forte incremento dei prezzi, “la Camera Apostolica manovrava [...] il debito pubblico in funzione deflattiva, riuscendo tra l’altro a mantenere stabile per un lungo periodo la moneta romana. D’altra parte i capitali drenati dal debito pubblico tra gli investitori privati non rimanevano totalmente sterilizzati, ma venivano reinseriti in buona misura nel circolo economico, anche se questo accadeva nell’ambito delle opere pubbliche e dell’efficienza della struttura statale più che nei settori direttamente produttivi”187. Inteso come attività finanziaria o come strumento di finanziamento dello Stato, l’immagine del debito pubblico pontificio che restituiscono gli studi di Piola Caselli sembra più decisamente marcata dai caratteri della modernità di quanto invece non emerga dall’analisi di Stumpo, sebbene le conclusioni pessimistiche di quest’ultimo sul ruolo della politica finanziaria papale facessero soprattutto riferimento al mercato degli uffici vacabili e alla sua scarsa rilevanza ai fini della mobilità sociale a Roma. Oltre agli studi sull’emissione e diffusione dei luoghi di Monte camerali, si devono altresì ricordare gli approfondimenti di Piola Caselli sui legami esistenti tra debito pubblico e sistema fiscale pontificio188, su quella particolare forma di credito all’aristocrazia romana che furono in età moderna i Monti baronali189 nonché sui banchieri privati che furono gli interlocutori privilegiati della Camera Apostolica nella sottoscrizione dei nuovi titoli emessi190. Per quanto riguarda invece il ruolo dei banchi pubblici nel mercato della rendita pontificia in età moderna, segnalo i recenti contributi sull’attività del Monte di Pietà di Roma e del Banco di Santo Spirito di Carlo Maria Travaglini191 e Luigi De Matteo192. Sugli acquirenti dei luoghi di Monte romani, sui quali molti dati sono stati portati dagli studi già ricordati di Stumpo e Piola Caselli, si possono segnalare 187 Ivi, pp. 215-216. Debito pubblico pontificio e imposte sui consumi romani nel Seicento, in D. STRANGIO (a cura di), Studi in onore di Ciro Manca, Padova, CEDAM, 2000, pp. 379-395. 189 F. PIOLA CASELLI, Una montagna di debiti. I monti baronali dell’aristocrazia romana nel Seicento, in “Roma moderna e contemporanea” a. I (1993), n. 1, pp. 21-56. 190 ID., Banchi privati e debito pubblico pontificio a Roma tra Cinquecento e Seicento, in Banchi pubblici cit., vol. I, pp. 461-495. 191 C.M. TRAVAGLINI, Il ruolo del Banco di Santo Spirito e del Monte di Pietà nel mercato finanziario romano del Settecento, in Banchi pubblici cit., vol. II, pp. 619-639; ID., Le origini del Banco dei depositi del Monte di Pietà di Roma e le prime emissioni di cedole (secc. XVI-XVII), in Società Italiana degli Storici dell’Economia, Innovazione e sviluppo cit., pp. 465-485. 192 L. DE MATTEO, Un banco pubblico nello Stato Pontificio. Il Banco di Santo Spirito dalle origini al 1814, in “Storia Economica”, a. II (1999), n. 3, pp. 465-516. 188 ID., 115 alcuni approfondimenti specificamente dedicati agli enti religiosi, particolarmente attivi sul mercato del debito pubblico pontificio: tra gli altri se ne sono occupati recentemente Armando Serra e Maximiliano Barrio Gonzalo193. Riguardo della presenza di titoli del debito pubblico nei patrimoni ecclesiastici – una forma d’investimento largamente praticata, com’è noto, dagli enti religiosi non solo romani per tutta l’età moderna – si può qui ricordare il quadro d’insieme tracciato da Enrico Stumpo nel 1986 a proposito del consolidamento della grande proprietà ecclesiastica nell’età della controriforma194; più recentemente, i volumi curati da Fiorenzo Landi offrono una panoramica sulle forme di attività finanziaria praticate dagli ordini religiosi nei diversi Stati regionali italiani tra Cinque e Settecento195. Le ricerche di Massimo Carlo Giannini hanno invece gettato nuova luce sul rapporto tra il finanziamento del debito pubblico pontificio e le forme della tassazione alle quali era sottoposto il clero nell’area italiana, in particolare sul legame, instaurato a partire dal 1555, tra il prelievo imposto alle cosiddette Dodici Congregazioni monastiche maschili e il pagamento degli interessi dei Monti camerali196. Un altro aspetto del debito pubblico pontificio in età moderna che ha trovato negli anni più recenti estesa trattazione, è quello legato ai Monti comunitativi, cioè ai prestiti emessi dalle città dello Stato della Chiesa, previa autorizzazione papale. Per le modalità che li regolavano, è necessario distinguere tra i Monti eretti da Roma, Bologna e Ferrara, le prime tre comunità dello Stato per ampiezza del debito, e quelli invece eretti dalle piccole comunità. Utili elementi di conoscenza sul debito pubblico di quest’ultimo gruppo, si trovano nel più ampio studio dedicato da Angela Maria Girelli alle finanze comunali di Assisi nel Seicento197. Per quanto riguarda invece Roma e Bologna, Francesco 193 Si veda tra l’altro A. SERRA, Funzioni e finanze delle Confraternite romane tra 1624 e 1797, in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, a. V (1984), pp. 261-292; M. BARRIO GONZALO, The Financing of the Church and Hospital of Santiago de los Españoles in Rome in Early Modern Times, in “The Journal of European Economic History”, a. XXVII (1998), pp. 579-605. Riferimenti all’attività finanziaria delle istituzioni caritative a Roma nel Settecento in M. PICCIALUTI, La carità come metodo di governo. Istituzioni caritative a Roma dal pontificato di Innocenzo XII a quello di Benedetto XIV, Torino, Giappichelli, 1994. 194 E. STUMPO, Il consolidamento della grande proprietà ecclesiastica nell’età della controriforma, in G. CHITTOLINI, G. MICCOLI (a cura di), La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, in Storia d’Italia, Annali, vol IX, Torino, Einaudi, 1986, pp. 262-289. 195 F. LANDI (ed.), Accumulation and Dissolution of Large Estates of the Regular Clergy in Modern Europe, Rimini, Guaraldi, 1999; ID. (ed.), Confiscation of the Estates of the Regular Clergy and Capitalistic Accumulation in Early Modern Europe, Atti della sessione n. 67 del XIII Congresso Internazionale di Storia Economica, Buenos Aires, 22-26 luglio 2002, in corso di stampa. 196 M.C. GIANNINI, L’oro e la tiara. La costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa Sede (1560-1620), Bologna, Il Mulino, in corso di stampa. 197 A.M. GIRELLI, La finanza comunale nello Stato Pontificio del Seicento. Il caso di Assisi, 116 Colzi198 e Mauro Carboni199, rispettivamente, sono gli Autori di due tra le più complete monografie su temi del debito pubblico edite recentemente 200. Con il suo studio su Il debito pubblico del Campidoglio del 1999 Colzi analizza la storia dei prestiti emessi dal Comune di Roma, i cosiddetti Monti del Popolo Romano, dalla prima erezione autorizzata da Giulio III nel 1552 fino alla definitiva estinzione decretata da Alessandro VII nel 1660, seguendo due filoni principali: la funzione dei prestiti nell’ambito della finanza municipale e il profilo degli investitori e le loro scelte d’impiego dei capitali. “Il debito pubblico capitolino rivestì un ruolo primario nell’attività finanziaria municipale e in quella politica. La crescita del debito costrinse gli amministratori comunali ad iniziative economiche sempre più limitate a causa degli interessi da corrispondere [...] che assorbirono quote crescenti degli introiti capitolini. Le motivazioni che spinsero il Comune ad implementare questo meccanismo di raccolta del denaro devono essere ascritte, più che ad una scelta autonoma, alla volontà dei pontefici di far compartecipare il Campidoglio al finanziamento delle ingenti spese dell’autorità centrale [...] Circa la metà dei ricavati dei prestiti finanziò spese che non beneficiarono Roma, sebbene il Municipio dovesse sostenere per intero il peso degli interessi. In questo modo la Curia riuscì a ridurre di fatto l’autonomia del Campidoglio senza entrare in diretto contrasto con l’antica oligarchia cittadina, gelosa dei propri privilegi, e lasciando formalmente al Comune il controllo e la gestione dei prestiti”201. La diminuzione dei poteri del Campidoglio non si ripercosse però sull’efficienza della struttura amministrativa municipale, che anzi garantì sempre com- Padova, CEDAM, 1992; EAD., Lo stato finanziario della comunità nelle carte della Congregazione del buon governo, in A. GROHMANN (a cura di), Assisi in età barocca, Assisi, Accademia Properziana del Subasio, 1992, pp. 157-222. 198 F. COLZI, Il debito pubblico del Campidoglio. Finanza comunale e circolazione dei titoli a Roma fra Cinque e Seicento, Napoli, ESI, 1999; si vedano anche F. COLZI, ‘Per maggiore facilità di commercio’. I sensali e la mediazione mercantile e finanziaria a Roma tra XVI e XIX secolo, in C.M. TRAVAGLINI (a cura di), Corporazioni e gruppi professionali a Roma tra XVI e XIX secolo, in “Roma moderna e contemporanea”, a. IV (1998), n. 3, pp. 397-425, F. COLZI, A proposito della fiscalità pontificia in età moderna. La gabella della carne a Roma tra XVI e XVII secolo, in D. STRANGIO (a cura di), Studi in onore di Ciro Manca cit., pp. 123-145; F. COLZI, La dette publique du Capitole. Finances communales et circulations des titres à Rome aux XVIe-XVIIe siècles, in “Liame. Bulletin du Centre d’Histoire Moderne et Contemporaine de l’Europe Méditerranéenne et des ses Périphéries”, n. 8, juillet-décémbre 2001, pp. 117-135. 199 M. CARBONI, Il debito della città cit.; si veda inoltre dello stesso Autore M. CARBONI, Camere delle città e Camera apostolica: l’evoluzione dei rapporti finanziari fra centro e periferia nello Stato della Chiesa in età moderna, in “Studi storici Luigi Simeoni”, 50, 2000, pp. 9-22. 200 Continuano a mancare, invece, contributi specifici sul debito comunale di Ferrara, sul quale si veda comunque G. FELLONI, Gli investimenti finanziari genovesi cit., pp. 194-200. 201 F. COLZI, Il debito pubblico cit., pp. 237-238. 117 petenza nelle funzioni di gestione del debito pubblico e di orientamento del mercato finanziario romano. “I Monti capitolini furono, però, tutt’altro che neutri per il sistema economico-sociale romano e causarono delle ripercussioni dal carattere ambiguo e di complessa interpretazione. [...] infatti risulta complicato isolare le specifiche responsabilità dei prestiti municipali dato che questi costituivano un sottoinsieme del complessivo debito pubblico pontificio”202. Inoltre i titoli capitolini presentavano tassi d’interesse più competitivi rispetto ad altre forme d’investimento, ma l’effetto di sottrazione rispetto ad altri usi del risparmio privato sembra essere stato piuttosto limitato, se si considera il basso livello degli impieghi in attività produttive o commerciali che caratterizzava l’economia cittadina anche prima dell’introduzione dei Monti. Più evidente appare, nell’analisi di Colzi, il meccanismo di redistribuzione delle risorse a favore delle classi reddituali più agiate come conseguenza della politica prescelta dal Campidoglio per il finanziamento degli interessi203. Per quanto riguarda invece l’individuazione dei soggetti coinvolti nell’acquisto dei titoli, Colzi evidenzia come nella fase di collocamento gli indiscussi protagonisti furono i banchieri liguri o toscani, ma “la sicurezza, la redditività e la liquidità dei titoli facevano sì che, a prescindere dallo status, le persone impiegassero con fiducia il loro denaro nei luoghi di Monte. Naturalmente le diverse categorie sociali e reddituali mostrarono differenti propensioni all’investimento [...] Il coinvolgimento di una pluralità di persone appartenenti a diverse categorie sociali comportò almeno due effetti di rilievo: da un lato permise di diversificare i creditori del Campidoglio affinché nessuno di essi si trovasse in una posizione tale da condizionarne l’azione. Sull’altro versante l’esistenza di un interesse comune da parte di persone di diversa estrazione favorì il rafforzamento delle strutture pubbliche che, a sua volta, alimentò la fiducia degli investitori, innescando una sorta di circuito virtuoso tra sicurezza della piazza, la quotazione dei titoli, la rapida sottoscrizione di nuovi Monti e il consolidamento delle istituzioni preposte all’emissione dei prestiti”204. Nel tempo, comunque, la composizione dei montisti mutò, riducendosi il peso dei forestieri a favore dei laici non nobili e soprattutto delle istituzioni ecclesiastiche e assistenziali, ciò che “probabilmente non contribuì allo sviluppo economico cittadino, dal momento che i patrimoni delle istituzioni raramente venivano utilizzati per incentivare il sistema produttivo romano”205. In definitiva, lo studio di Colzi, esemplare nella sua linearità, evidenzia tanto nell’amministrazione del debito capitolino, quanto negli atteggiamenti dei 202 203 204 205 Ivi, p. 238. Ivi, pp. 238-239. Ivi, pp. 239-240. Ivi, p. 240. 118 montisti, la compresenza di atteggiamenti di innovazione e conservatorismo, di spinte verso la modernizzazione e di attaccamento al passato206. In questo senso, le vicende del debito pubblico del Campidoglio non solo sono uno specchio fedele delle contraddizioni che caratterizzano la vita economia e finanziaria di Roma nell’età moderna, ma allo stesso tempo e più in generale, stanno a dimostrare che i Monti, se costituiscono uno strumento innovativo dal punto di vista tecnico, possono essere però condizionati a svolgere una funzione conservatrice dal contesto sociale e politico nel quale operano. E’ questa anche la chiave di lettura data da Mauro Carboni al ruolo svolto dal debito comunale nella città di Bologna. All’interno di una più ampia ricostruzione sulla struttura sociale, sul sistema istituzionale e sulla fiscalità di Bologna tra Cinque e Seicento, Carboni evidenzia come il sistema dei Monti cittadini consentisse al Reggimento municipale sia di compensare i frequenti deficit del bilancio cittadino, sia di soddisfare le pressanti richieste provenienti da Roma senza alterare i delicati equilibri sociali e istituzionali della Legazione, soprattutto senza erodere i margini di esenzione fiscale di cui godevano i ceti dirigenti cittadini. Il ricorso al debito pubblico “fu anzi uno degli ingredienti essenziali per il mantenimento di un equilibrio imperniato su forme di autogoverno che vedevano prevalere la componente municipale su quella statuale e la componente aristocratica in seno alla compagine cittadina. La massiccia e sistematica partecipazione al sistema delle prestanze da parte dei ceti privilegiati cittadini conferma poi con quanta attenzione l’élite bolognese difendesse le finanze della Legazione non solo da eventuali intrusioni romane, ma anche dal predominio di banche e consorzi forestieri”207. Naturalmente i ceti patrizi bolognesi erano spinti verso l’acquisto di quote del debito pubblico municipale perché si trattava di una fonte d’investimento sicura e remunerativa; inoltre, poiché le imposte che garantivano il pagamento degli interessi gravavano prevalentemente sul commercio e sui beni di largo consumo, il sistema dei Monti realizzava una decisa redistribuzione di risorse verso l’alto208. A riprova di questa lettura, tra i principali sottoscrittori dei luoghi di Monte Carboni evidenzia - oltre all’emergere dei grandi enti religiosi e caritativi soprattutto nel corso del primo Seicento - la massiccia presenza di esponenti delle famiglie che dominano la gerarchia sociale di Bologna, le stesse famiglie che controllano il governo della città e gli organi di amministrazione dei Monti209. In particolare, uno studio di Massimo Fornasari sui Ghelli docu206 Ivi, p. 237. M. CARBONI, Il debito della città cit., p. 201. 208 Ivi, cap. III, Le finanze della Legazione bolognese, pp. 59-100. 209 Ivi, cap. IV, I creditori montisti, pp. 101-154, e cap. V, I montisti bolognesi, pp. 155-199. Allo stesso Autore si deve anche un interessante approfondimento sulle modalità di investimen207 119 menta il peso dell’investimento in debito pubblico nella complessiva strategia patrimoniale di un’eminente famiglia bolognese tra Cinque e Seicento210. 6. L’autonomia di cui godeva Bologna, come le altre comunità dello Stato della Chiesa, in campo finanziario nel corso del Cinque e del Seicento si riduce durante il secolo successivo, all’interno del più generale processo di crescita del controllo del potere pontificio sulla periferia; nello stesso periodo, però, proprio i capitali raccolti dal debito pubblico camerale vengono indirizzati in misura crescente per interventi a favore delle comunità. Questi sono alcuni dei tratti messi in evidenza dai recenti contributi di Donatella Strangio sull’evoluzione del debito pubblico pontificio dal principio del XVIII secolo al periodo francese, e in particolare sul sostegno finanziario che in età moderna questo strumento ha portato alla politica annonaria nello Stato della Chiesa211. Il debito pubblico pontificio conosce una flessione nella prima metà del Settecento, ma nei decenni successivi, nonostante gli interventi riformistici realizzati alla metà del secolo da Benedetto XIV, riprende a crescere212. Questa tendenza si rafforza dopo l’elezione di Pio VI, nel 1775, che ricorse largamente all’emissione dei luoghi di Monte camerali sia per sostenere i progetti di intervento dello Stato in economia, sia, da ultimo, per affrontare le spese militari, offensive e difensive, conseguenti la partecipazione dell’armata pontificia alla to in titoli dei capitali del Monte del Matrimonio di Bologna, istituzione caritativa avente la finalità di aiutare le famiglie ad accumulare le doti: ID., Le doti della ‘povertà’. Famiglia, risparmio, previdenza: il Monte del Matrimonio di Bologna (1583-1796), Bologna, Il Mulino, 1999, in particolare pp. 100-109. 210 M. FORNASARI, Famiglia e affari in età moderna. I Ghelli di Bologna, Bologna, Il Mulino, 2002, in particolare pp. 85-90 e 145; un’ulteriore rappresentazione del mondo degli operatori finanziari attivi a Bologna nella prima età moderna è fornita da uno studio dedicato dallo stesso Autore all’attività del Monte di Pietà cittadino: ID., Il ‘Thesoro’ della città. Il Monte di Pietà e l’economia bolognese nei secoli XV e XVI, Bologna, Il Mulino, 1993. Specificamente in riferimento all’età di Sisto V si veda anche A. GARDI, Lo Stato in Provincia. L’amministrazione della Legazione di Bologna durante il regno di Sisto V (1985-90), Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1994. 211 D. STRANGIO, Debito pubblico e riorganizzazione del mercato finanziario nello Stato ecclesiastico del ’700, in “Roma moderna e contemporanea”, a. II (1994), pp. 179-202; ID., L’amministrazione del debito pubblico pontificio nel Settecento, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, a. CXXII (1999), pp. 277-314; ID., Crisi alimentari e politica annonaria a Roma nel Settecento, Roma, Istituto Nazionale di Studi romani, 1999; ID., Progetti francesi per il debito pubblico pontificio, in PH. BOUTRY, F. PITOCCO, C.M. TRAVAGLINI (a cura di), Roma negli anni di influenza e di dominio francese, Napoli, ESI, 2000, pp. 272-294; D. STRANGIO, Debito pubblico e deficit di bilancio nello Stato della Chiesa. Il Monte Nuovo della Difesa, in “Studi Romani”, a. XLVIII (2000), nn. 1-2, pp. 83-103; ID., Il debito pubblico pontificio. Cambiamento e continuità nella finanza pontificia dal periodo francese alla restaurazione romana. 1798-1820, Padova, CEDAM, 2001. 212 ID., Debito pubblico e riorganizzazione del mercato finanziario cit. 120 prima coalizione contro la Francia rivoluzionaria213. L’ingente volume del debito pubblico accumulato dallo Stato fu dunque uno dei primi problemi affrontati già dalla Repubblica Romana del 1798-99, che proclamò la sospensione immediata del pagamento degli interessi e avviò la vendita dei beni nazionali, cioè dei beni immobili espropriati ad enti religiosi e assistenziali, per contribuire all’estinzione del debito214. Che questo andasse nella direzione degli interventi tentati dal governo pontificio già nel corso del Settecento sta a dimostrarlo il mantenimento dei provvedimenti assunti dall’amministrazione repubblicana anche dopo il ritorno del papa, durante gli anni della prima restaurazione pontificia (1800-1809); nel 1801, inoltre, Pio VII approvò la prescrizione degli interessi arretrati e la riduzione del tasso d’interesse sui luoghi di Monte dal 3% all’1,25%215. Nell’intento di completare l’opera di risanamento delle finanze pubbliche, nel 1810, dopo l’arrivo dei francesi, fu decretata la liquidazione totale dei vecchi luoghi di Monte: quasi completamente annullati quelli già detenuti dai soppressi enti religiosi e assistenziali, ripagati nella misura del 24% del valore nominale dei titoli quelli detenuti da privati, che oltretutto sarebbero stati rimborsati nella misura in cui procedeva la vendita dei beni nazionali216. Da questa conversione forzosa della rendita pubblica, di fatto una liquidazione, furono particolarmente colpiti, sottolinea Donatella Strangio, proprio i ceti economicamente più vitali della società romana – commercianti, ricchi artigiani, esponenti della borghesia – che risultavano essere in maggioranza tra i possessori dei titoli217. Anche nel caso del regno di Napoli era stata da ultimo la partecipazione alle guerra contro la Francia rivoluzionaria a imprimere la spinta finale all’accelerazione del debito pubblico, che aveva resistito a tutti i progetti di ricompra dei cespiti alienati tentati dallo Stato nel corso del Settecento. La lucida analisi di Pasquale Villani, che in un saggio del 1986 riprende i risultati di precedenti ricerche, evidenzia l’importanza che ebbe per i francesi, sin dal loro ingresso nel regno nel 1806, il problema della liquidazione e riconversione del debito pubblico218. Uno dei primi provvedimenti di Giuseppe Bonaparte, ancor prima 213 ID., 214 ID., Debito pubblico e deficit di bilancio cit. Progetti francesi cit., pp. 278-286. 215 Ivi, pp. 286-292. 216 ID., Il debito pubblico pontificio cit., pp. 125-145. 217 Ivi, pp. 178-179. 218 P. VILLANI, Il decennio francese, in G. GALASSO, R. ROMEO, (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IV, Il regno dagli Angioini ai Borboni, t. II, Napoli, Edizioni del Sole, 1986, pp. 577639 (ora in A.M. RAO, P. VILLANI, Napoli 1799-1815. Dalla repubblica alla monarchia amministrativa, Napoli, Edizioni del Sole, 1994); tra le precedenti ricerche dello stesso Autore si veda soprattutto P. VILLANI, La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli, Milano, Banca Commerciale Italiana, 1964. 121 di dichiarare abolita la feudalità, fu infatti quello di richiamare allo Stato la riscossione degli arrendamenti e di tutti gli altri cespiti fiscali alienati219. I titolari furono tutelati con la promessa dell’iscrizione del loro credito nel Gran libro del debito pubblico, con un interesse lordo del 5% successivamente abbassato al 3%, o con un indennizzo in immobili, garantito attraverso la cessione dei beni nazionali220. La maggior parte degli antichi creditori dello Stato, per attutire il duro colpo, avrebbero preferito ricevere beni fondiari, ma nelle aste che segnarono la vendita dei beni nazionali furono protagonisti i titolari di grandi importi di debito – esponenti della nobiltà del regno, della grande borghesia commerciale e terriera, del ceto dei funzionari di corte – e solo in seguito si allargò la schiera degli acquirenti; in altre parole, osserva Villani, le strutture socio-economiche preesistenti il governo francese finirono per condizionare molto l’andamento delle alienazioni, all’interno delle quali il ceto imprenditoriale e mercantile non occupò una posizione rilevante221. Oltre allo studio di Villani, utili riferimenti al tema della vendita dei beni nazionali e della liquidazione del debito pubblico napoletano, si possono trovare, tra i contributi più recenti, nella ricerca sulla riforma della tassazione nel decennio francese di Renata De Lorenzo222 e nella raccolta di documenti curata da Costanza D’Elia223. Sugli aspetti finanziari della breve stagione della repubblica Napoletana del 1799, con particolare riferimento alle vicende dei banchi, Eduardo Nappi ha curato la pubblicazione di una raccolta di documenti, prevalentemente provenienti dall’Archivio Storico del Banco di Napoli224, mentre il trapasso nella gestione del debito comunale dall’età napoleonica alla restaurazione è fotografato da Nicola Ostuni in riferimento alle finanze della municipalità napoletana225. 219 ID., Il 220 Ivi, p. decennio francese cit., p. 612. 614. 221 Ivi, pp. 614-615. 222 R. DE LORENZO, Proprietà fondiaria e fisco nel Mezzogiorno: la riforma della tassazione nel decennio francese (1806-1815), Salerno, Centro Studi per il Cilento e il Vallo di Diano, 1984, in particolare le pp. 13-27. 223 C. D’ELIA (a cura di), Il Mezzogiorno agli inizi dell’Ottocento; Roma-Bari, Laterza, 1992. In merito agli studi recenti su questo periodo si vedano anche A.M. RAO, Temi e tendenze della recente storiografia sul Mezzogiorno nell’età rivoluzionaria e napoleonica, in A. CESTARO, A. LERRA (a cura di), Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l’età giacobina e il decennio francese, Venosa, Osanna, 1992, in particolare le pp. 43-46; A.M. RAO, Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storiografia, in “Studi storici”, 37, 1996, in particolare le pp. 994-999. 224 E. NAPPI, Banchi e finanze della Repubblica Napoletana, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1999. 225 N. OSTUNI, Napoli Comune, Napoli capitale. Le finanze della città e del regno delle Due Sicilie, Napoli, Liguori, 1999. 122 Mentre a Roma e Napoli la liquidazione del debito pubblico nell’età francese costituisce un’oggettiva frattura rispetto al secolo precedente, nel caso toscano è stata sottolineata, anche in studi recenti, una maggiore continuità con le scelte operate nel corso del Settecento226. Certo, Ferdinando III, negli anni ’90, aveva operato di fatto per il ristabilimento del debito, contraddicendo profondamente la linea adottata vent’anni prima da Pietro Leopoldo e dal Gianni con l’introduzione della tassa di redenzione227. Anche i provvedimenti per il consolidamento dei crediti vantati verso lo Stato, assunti durante l’effimero regno di Etruria (1801-1807), sebbene preceduti da un dibattito di politica economica di alto profilo, non erano stati accompagnati da nessun decisivo passo avanti nel processo di ammortizzazione, sicché, all’arrivo dei francesi, anche in Toscana il problema della mole enorme del debito pubblico e dei suoi interessi si presentava immutato228. Romano Paolo Coppini ha recentemente ricostruito le fasi della liquidazione del debito pubblico toscano, condotta attraverso il rimborso in contanti dei piccoli creditori e la vendita dei beni nazionali per tutti gli altri titolari di quote229; pur sottolineando l’importante mutamento della configurazione sociale della proprietà fondiaria che si realizza per questa via, Coppini, tuttavia, sembra ridimensionare il giudizio di Dal Pane, che lo definì “il fatto più rivoluzionario del periodo”230, per sottolineare invece l’eccezionale opportunità che negli anni della restaurazione avrebbe costituito per le finanze del granducato la liberazione dal peso del debito pubblico231. Nel caso del Piemonte degli anni napoleonici, prim’ancora che la liquida- 226 R.P. COPPINI, Il Granducato di Toscana. L’età napoleonica, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XIII, t. III, Torino, UTET, 1993, in particolare p. 79 e segg. 227 Tra gli studi recenti che sono tornati sui provvedimenti di Pietro Leopoldo si veda in sintesi C. CAPRA, Le finanze degli Stati italiani cit., pp. 162-166; L. MASCILLI MIGLIORINI, L’età delle riforme, in F. DIAZ, M. MASCILLI MIGLIORINI, C. MANGIO (a cura di), Il Granducato di Toscana. I Lorena dalla Reggenza agli anni rivoluzionari, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XIII, t. II, Torino, UTET, 1997, pp. 247-421, in particolare le pp. 322-329; per gli anni di Ferdinando III, C. MANGIO, Tra conservazione e rivoluzione, in F. DIAZ, M. MASCILLI MIGLIORINI, C. MANGIO (a cura di), Il Granducato di Toscana cit., pp. 423-509, in particolare le pp. 439-440; infine sugli anni della Reggenza, F. DIAZ, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Torino, UTET, 1988; ID., La Reggenza, in F. DIAZ, M. MASCILLI MIGLIORINI, C. MANGIO (a cura di), Il Granducato di Toscana cit., pp. 1-245. 228 R.P. COPPINI, Il Granducato di Toscana cit., pp. 19-32. 229 Ivi, pp. 129-143. 230 L. DAL PANE, Industria e commercio nel Granducato di Toscana nell’età del Risorgimento, Bologna, Patròn, 1973, p. 21. Si veda anche F. MINECCIA, La vendita dei beni nazionali in Toscana (1808-1814): i Dipartimenti dell’Ombrone e del Mediterraneo, in I. TOGNARINI (a cura di), La Toscana nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Napoli, ESI, 1985, pp. 511-550; F. BERTINI, Nobiltà e finanza tra Settecento e Ottocento. Debito e affari a Firenze nell’età napoleonica, Firenza, Centro Editoriale Toscano, 1989. 231 R.P. COPPINI, Il Granducato di Toscana cit., pp. 143-150. 123 zione del debito consolidato, ha sottolineato un recente studio di Paola Notario, si impose un intervento drastico sul debito fluttuante, peraltro di pari importo rispetto a quello consolidato, costituito da biglietti di credito il cui valore reale era scaduto al punto di non essere accettati più come mezzi di pagamento, contribuendo ad alimentare una forte inflazione232. Dopo Marengo, i biglietti circolanti, messi fuori corso, potevano essere utilizzati in piccola parte per pagare imposte arretrate, o ridotti ad un terzo del valore nominale e per non più di cinque mesi per acquistare beni nazionali; in realtà, le modalità con cui fu realizzata questa operazione, esclusero completamente i piccoli possessori di biglietti, che persero l’intero valore233. Per quanto riguarda il consolidato, in due successivi passaggi, nel 1806 e nel 1810, fu disposta per una metà la trascrizione delle rendite nel Grand Livre del debito pubblico francese, e per l’altra, capitalizzata al 5%, la conversione in certificati destinati al pagamento dei beni nazionali; anche in questo caso, ha osservato Paola Notario, solo i grandi titolari o gli incettatori dei titoli del debito riuscirono a compiere le operazioni previste, sicché, quando il cambio di regime interruppe le operazioni, soltanto l’1,8% dei titolari delle rendite era riuscito ad acquistare beni nazionali234. Diverso il giudizio di Carlo Zaghi quanto all’atteggiamento dei francesi nei confronti dei diritti vantati dai creditori lombardi: a proposito delle manovre sul debito pubblico del regno italico condotte dal ministro delle finanze Giuseppe Prina, scrive Zaghi: “Napoleone, come Prina, considerò sempre sacri gl’interessi dei creditori pubblici e li rispettò anche nelle fasi di maggior difficoltà per il tesoro italiano e francese”235. Se questo giudizio sembra difficilmente applicabile a tutta la penisola, esso trova però la sua giustificazione proprio 232 P. NOTARIO, Il Piemonte nell’età napoleonica, in P. NOTARIO, N. NADA (a cura di), Il Piemonte sabaudo. Dal periodo napoleonico al Risorgimento, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. VIII, t. II, Torino, UTET, 1993, pp. 1-91, in particolare le pp. 42-48. 233 P. NOTARIO, Il Piemonte cit., pp. 42-44. 234 Ivi, pp. 44-48. Sulla specifica situazione del debito comunale di Torino, cresciuto anch’esso enormemente durante il periodo napoleonico, si veda G. BRACCO, Risorse e impegni per una gestione guidata, in ID. (a cura di), Ville de Turin. 1798-1814, Torino, Archivio Storico della città di Torino, 1989, vol. I, pp. 55-99, ora in ID., Taglie e gabelle. Studi e ricerche sulla finanza pubblica sabauda, Torino, Giappichelli, 1990, pp. 135-194, alle pp. 165-167 per il riferimento al debito pubblico comunale. Dello stesso Autore alcuni contributi sulle finanze della capitale e di altri centri minori del ducato nella prima età moderna: ID., Guerra del sale o guerra delle taglie? La pressione fiscale nel Monregalese fra XVI e XVIII secolo, in Studi in memoria di Mario Abrate, Torino, Istituto di Storia economica dell’Università di Torino, 1986, pp. 867-886; ID., I mulini torinesi e la finanza comunale, in ID. (a cura di), Acque, ruote e mulini a Torino, Torino, Archivio Storico della città di Torino, 1988, vol. II, pp. 117-141 (entrambi ora in ID., Taglie e gabelle cit., pp. 69-94 e pp. 111-134). 235 C. ZAGHI, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XVIII, t. I, Torino, UTET, 1986, p. 521. 124 nell’operazione di consolidamento e liquidazione del debito pubblico realizzata nel regno italico, che fu condotta con efficienza e senza tradire nei fatti gli impegni presi formalmente dal governo. Nel 1804 fu stabilito il rimborso di tutti i creditori dello Stato in parti eguali con titoli di rendita al 3,5%, di valore pari alla metà del capitale, e con buoni spendibili nell’acquisto di beni nazionali, che, se non utilizzati, sarebbero stati consolidati ad un interesse del 2%; l’operazione fu perfezionata con la creazione del Montenapoleone, con funzione di organo di gestione, nel quale confluirono in seguito i debiti dei nuovi dipartimenti aggregati al regno236. Non caratterizzato da altrettanta linearità ed efficienza era stato l’avvio della gestione delle finanze nella fase rivoluzionaria, ricostruito in un saggio del 1993 da Alberto Cova, che, riprendendo anche i risultati di precedenti studi237, evidenzia come soltanto dal 1796 al 1798 fossero state versate alla Francia contribuzioni per un importo pari ai 2/3 del debito pubblico accumulato prima del cambio di regime238. Cova sottolinea la situazione di finanza straordinaria di quella prima fase, durante la quale, nell’impossibilità di qualsiasi intervento organico di risanamento, furono adottate solo misure dettate dallo stato di emergenza, un prestito forzoso a carico dei cittadini più doviziosi e successivamente la vendita dei beni nazionali239. La difficile fase di transizione vissuta da Venezia e dalla terraferma dopo Campoformio è sintetizzata nello studio dedicato da Giovanni Silvano a Padova, nell’esperienza del governo democratico che si impiantò nella città nel 1797240. Il già oneroso debito pubblico ereditato dal periodo veneziano e cresciuto nel periodo successivo tra alloggiamenti e altri contribuzioni dovute alla presenza delle armate francesi, richiese l’imposizione di un prestito forzoso, senza pagamento di interessi, pari all’8% della rendita netta iscritta nell’estimo 236 Ivi, pp. 522-523. Sulle finanze locali nella Lombardia napoleonica si veda E. PAGANO, Il Comune di Milano nell’età napoleonica, 1800-1814, Milano, Vita e Pensiero, 1994; su questo tema si segnala inoltre la relazione di G. GREGORINI Gli equilibri e le dinamiche nei rapporti tra finanza centrale e finanza locale al convegno internazionale La formazione del primo Stato italiano e Milano Capitale (Milano, Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, 13-16 novembre 2002), dove sono stati presentati anche i contributi Lo Stato attraverso le finanze di A. Cova e Sistema creditizio e governo della moneta a Milano negli anni della Repubblica di G. De Luca. 237 Si veda soprattutto A. COVA, La vendita dei beni nazionali in Lombardia durante la prima e la seconda repubblica cisalpina (1796-1802), in “Economia e storia”, a. X (1963), pp. 355-412 e 556-581. 238 A. COVA, Le finanze cisalpine tra crisi politica e difficoltà economica, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 19-49, in particolare pp. 28-29. 239 Ivi, pp. 47-49. Sulla parentesi dell’occupazione austro-russa si veda E. PAGANO, Alle origini della Lombardia contemporanea: il governo delle province lombarde durante l’occupazione austro-russa, 1799-1800, Milano, Angeli, 1998. 240 G. SILVANO, Padova democratica (1797). Finanza pubblica e rivoluzione, Venezia, Marsilio, 1996. 125 cittadino241. Successivamente, nell’estate del 1797, si procedette alla vendita dei beni nazionali della zona242. Alla vendita dei beni nazionali in tutti i dipartimenti veneti, nella fase del regno italico, dal 1806 al 1814, si riferisce invece uno studio del 1992 di Mirella Calzavarini243. Più in generale le vicende del debito pubblico veneto nella fase di transizione tra Campoformio e la restaurazione austriaca sono state ricostruite in un saggio del 1993 di Giovanni Zalin244. Coll’istaurarsi della municipalità provvisoria il debito pubblico della Serenissima venne congelato e al loro ritorno gli imperiali si avvalsero dei decreti emanati dal governo provvisorio per mantenere la sospensione del pagamento degli interessi. La questione fu ripresa invece dopo il 1805, con la formazione del regno italico, quando il debito pubblico di Venezia fu accorpato con gli altri debiti preesistenti nel Montenapoleone, dal quale sarebbe poi confluito, dopo la seconda restaurazione austriaca, nel Monte Lombardo Veneto245. 7. Quali sono i rilievi generali che si possono fare in conclusione di questa rassegna? Si deve innanzitutto osservare che la produzione storiografica dedicata al tema del debito pubblico degli Stati regionali italiani in età moderna ha conosciuto, dalla metà degli anni ’80 ad oggi, una grande vitalità: molte le monografie, molti i saggi e i contributi a seminari e convegni, che hanno visto la luce in sedi nazionali e internazionali; una vitalità alla quale ha fatto peraltro riscontro anche un ampliamento delle fonti documentali utilizzate. Questa valutazione complessivamente positiva non deve però nascondere che la produzione si presenta ancora molto discontinua in riferimento alle diverse aree regionali italiane, in conseguenza del differente punto di partenza degli studi all’inizio del periodo qui in esame. Per l’area siciliana, ad esempio, due recenti saggi hanno colmato una lacuna storiografica pressoché totale, mentre nel caso di Roma, i lavori di Stumpo e di Piola Caselli, dalla metà degli anni ’80 in poi, hanno certamente aperto la strada ai molti contributi sul debito pubblico pontificio che si sono registrati nel decennio successivo. Tenuto conto di questa diversità di condizioni di partenza, dal punto di vista metodologico, come si ha avuto modo di rilevare sin dall’inizio della rassegna, la gran parte delle ricerche prese qui in esame, con poche eccezioni, col- 241 Ivi, pp. 92-94 e 207-213. Ivi, pp. 232-62. 243 M. CALZAVARINI, La vendita dei beni nazionali nei dipartimenti veneti dal 1806 al 1814, in G.L. FONTANA, A. LAZZARINI (a cura di), Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, Roma - Bari, CARIPLO - Laterza, 1992, pp. 133-163. 244 G. ZALIN, La finanza pubblica e le sue difficoltà nello Stato Veneto tra ancien régime e restaurazione austriaca, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 89-126. 245 G. ZALIN, La finanza pubblica cit., pp. 101-101. 242 126 loca l’indagine sul debito pubblico all’interno dello studio dei processi di formazione dello Stato, in genere con un richiamo esplicito o implicito al filone interpretativo cosiddetto della financial revolution, con maggior enfasi sulle realtà statuali e comunitative oppure sul ruolo degli operatori a seconda che nell’analisi si sia posto l’accento sul debito pubblico più come strumento di finanziamento dello Stato ovvero come attività finanziaria degli investitori privati. Si deve altresì osservare che, nonostante proprio questo filone di indagine accomuni la storiografia italiana a molte altre storiografie nazionali, con queste ultime le occasioni di dialogo su temi legati al debito pubblico sono state abbastanza ridotte; in tal senso si possono segnalare solo poche eccezioni, tra cui i seminari organizzati dall’Istituto Storico Italo-Germanico di Trento, alcuni dei congressi delle Società Internazionale ed Europea degli Storici Economici, i convegni che hanno periodicamente riunito storici specializzati nello studio delle finanze dei territori della Monarchia Spagnola (in quest’ultimo caso grazie anche alle ricorrenze centenarie di Filippo II e Carlo V segnate da un intensificarsi degli incontri). Si deve forse anche al numero piuttosto limitato di occasioni di dialogo internazionale su questi temi, la quasi completa assenza di studi comparativi, che abbiano messo a confronto la situazione del debito pubblico degli Stati regionali italiani d’età moderna con quella delle altre aree europee; più frequentemente, invece, sono stati condotti paralleli tra le diverse realtà debitorie della penisola e in questo caso i risultati sono stati di grande stimolo. Anzi, questo tipo di confronti, condotto non solo tra organismi o piazze finanziarie differenti, ma anche tra il centro e la periferia, tra aree o corpi territoriali differenti – città, contadi, comunità rurali – appartenenti degli stessi Stati, costituiscono senza dubbio uno dei risultati più interessanti dello sforzo di concettualizzazione seguito alle indagini sul campo e alla descrizione delle singole realtà fattuali. Riguardo ai contenuti, si può senz’altro osservare che la più recente produzione storiografica sul debito pubblico in età moderna ha continuato il grande lavoro d’indagine avviato nel secondo dopoguerra. A questa continuità sui temi si è però affiancata un’evoluzione sui contenuti: vi è certamente il rapporto più volte ricordato con la formazione dello Stato moderno, ma vi anche un rinnovato interesse per delineare la fisionomia sociale degli operatori privati. Si tratta di conoscere il comportamento dei grandi investitori e degli intermediari, di valutare il grado di coinvolgimento delle élites locali nella gestione del debito pubblico, ma anche – soprattutto una volta documentata la valenza ai fini di una maggiore mobilità sociale del debito pubblico e la sua apertura a strati sempre più ampi della popolazione – di ricostruire il mondo dei piccoli risparmiatori e delle loro scelte, guidate dalla ricerca della migliore remunerazione possibile dal capitale investito. 127 Permane, tuttavia, nella storiografia sul debito pubblico in età moderna, non solo in quella italiana, una grave lacuna: con la sola eccezione di alcuni studi di Fausto Piola Caselli e Luciano Pezzolo, non vi sono state ricerche recenti che, nel valutare l’entità delle emissioni di titoli, abbiano tenuto nel dovuto conto il contemporaneo andamento delle variabili demografiche e monetarie. Costruendo degli indici ad hoc e disponendo di serie numeriche per il medio-lungo periodo relativamente alla popolazione e ai prezzi, molte conclusioni sul ruolo e sul peso del debito pubblico potrebbero essere riviste – sia in assoluto che in chiave di comparazione – soprattutto per i ricorrenti periodi di elevata inflazione che caratterizzano l’età moderna. D’altro canto, anche sul tema del ruolo del debito pubblico nel processo di formazione dello Stato moderno, vi sono aspetti che richiedono ulteriori approfondimenti, come ad esempio le motivazioni e le forme con le quali avviene il ricorso al debito ancorato ad un gettito certo, di natura fiscale o patrimoniale, a volte emesso con molta cautela, a volte con grande disinvoltura. Infine, rispetto alla produzione storiografica precedente, sembra di poter osservare maggior interesse sia per il debito delle comunità, sia per il rapporto tra spesa militare e debito pubblico; su entrambi questi argomenti, tuttavia, si deve auspicare che le ricerche continuino perché molto deve essere ancora fatto, in particolar modo per meglio comprendere quando il debito è posto al servizio di opere pubbliche e di servizi interni, piuttosto che della guerra. Soprattutto è da auspicare per il futuro un maggiore sviluppo di ricerche che, incrociando dati relativi alla finanza statale, a quella privata e all’economia reale, rispondano alla domanda che spesso rimane insoddisfatta al termine della lettura di studi anche molto articolati: se, in quale misura e con quali conseguenze, il debito pubblico abbia provocato fenomeni di crowding out rispetto alle altre forme di investimento praticate in età moderna. Stampa: Arte Tipografica s.a.s. - Via S. Biagio dei Librai, 39 - Napoli - Aprile 2004