pagina 18 Martedì 15 novembre 2011 SECONDO TEMPO PIAZZA GRANDE Gli italiani? Realisti miserabili di Maurizio Viroli ivelli di guardia di Claudio Magris, da pochi giorni in libreria, raccoglie scritti che invitano a riflettere seriamente sul pericolo che la corruzione politica e morale vigorosamente cresciuta negli ultimi dieci-quindici anni, travalichi i pochi argini rimasti saldi e distrugga le istituzioni repubblicane come il fango che una decina di giorni fa ha devastato Genova. Sono note civili, come chiarisce il sottotitolo; ma non nel senso generico che trattano di problemi politici, sociali e di costume, ma in quello più specifico di considerazioni che indicano la via faticosa per avere in Italia una vera vita civile, vale a dire rispetto della Costituzione, delle leggi e dei doveri dei cittadini. Il primo punto della “ricetta Magris” è rendersi conto che i principi etici e del diritto – appunto perché sono princìpi – vengono prima di altre considerazioni quali l’interesse, o l’opportunità, o la paura. L IL SUO BERSAGLIO polemico è il luogo comune – vero e proprio baluardo dell’ideologia pubblica e privata degli italiani – che dei principi possiamo allegramente fregarcene. A proposito della tesi illustrata da Angelo Panebianco, che “i princìpi servono solo se si resta vivi”, Magris osserva giustamente che “accade talvolta di restare vivi perché qualcuno, in nome di quei princìpi, muore, per difendere chi è minacciato”, e aggiunge che “la vita è certo un valore, ma non è detto sia il valore supremo; gli antichi ammonivano a non perdere, per amore della vita, per sopravvivere a ogni costo, le sue ragioni e il suo significato. […] Chi vuol salvare la propria vita la perderà e chi è disposto a perderla la salverà, sta scritto nel Vangelo, testo non certo incline alle trombonate”. Porre i principi al secondo posto, e la vita al primo, passa in Italia come massima di raffinato realismo politico. In realtà è un realismo miserabile, per l’evidente ragione che i principi sono spesso tanto reali, come forza che spinge all’a- zione, quanto gli interessi, e a volte più degli interessi. Ed è in realtà il modo di pensare dei servi. Deridere i princìpi, e non averne alcuno, è infatti il tratto caratteristico di chi vive obbedendo alla volontà di un altro. Questa italica abitudine a scambiare la mentalità servile per realismo è una delle cause principali della nostra inettitudine a difendere la libertà politica e a lasciarci dominare. Fino a quando non lo capiremo resteremo una Repubblica sempre in pericolo di essere soffocata dalla corruzione. La seconda perla di saggezza, fra le tante, che il libro offre è l’Elogio del saper punire. Con tono pacato e bonaria ironia, Magris spiega che nelle scuole italia- ne è diventato quasi impossibile punire gli studenti che si rendono responsabili di atti vandalici, impediscono il regolare svolgimento delle lezioni, tormentano e umiliano compagni e compagne deboli o troppo buoni. L’insegnante che osa infliggere sanzioni anche ragionevoli e garbate deve affrontare torme di sociologi, psicologi, pedagogisti, per non parlare dei genitori, che gridano alla persecuzione che offende la personalità del trasgressore. “Ma scambiare per violenza persecutrice ogni piccola sanzione disciplinare – scrive giustamente Magris – e vedere traumi in ogni normale sgridata è insensato. Paralizza gli insegnanti inducendoli a infischiarsene dell’insegnamento e a lasciare che tutti gli alunni telefonino con i cellulari durante le lezioni senza imparare nulla, per non incorrere in grane penose”. Avrebbe potuto aggiungere che una scuola che non sa punire forma la figura mostruosa del giovane tiranno, vale a dire la persona che ritiene che tutto gli Ivan Graziani, il genio “pigro” Anticipiamo il contributo di Andrea Scanzi al libro “Ivan Graziani. Viaggi e intemperie”, a cura di Lorenzo Arabia, Minerva Edizioni, in uscita domani. Si tratta della prima biografia dedicata al cantautore teramano scomparso nel 1997 e contiene anche interviste ad amici e colleghi di Graziani (Antonello Venditti, Renato Zero, Ron e altri ancora). di Andrea Scanzi l problema è che era avanti. Troppo avanti. Si dice sempre così ma in alcuni casi, tipo questo, è vero. Ivan Graziani era troppo avanti e – per abbellire il suo percorso e al tempo stesso amplificare la pochezza di I troppi tromboni fraintesi per addetti ai lavori – era pure troppo eclettico. Non era noioso come “devono” essere i cantautori e osava perfino abbeverarsi alla fonte dannata del rock. Come se non bastasse, vestiva come un daltonico che si beffava dei benpensanti e cantava con tonalità naturalmente prossime al falsetto. Il minimo che un paese nato stanco come l’Italia poteva fare, era non comprenderlo. Ivan è il grande sottovalutato della musica italiana. Il grande quasi dimenticato. Forse capiterà come per Rino Gaetano, sdoganato trent’anni dopo la sua scomparsa. O forse no. Ivan è il patrimonio condiviso di una riserva indiana che ha buona memoria e curiosità vivida. Il capellone timido sia lecito e rifiuta di riconoscere qualsiasi legittimo limite alla propria volontà di potenza. LA TERZA lezione di vita civile che possiamo trarre dal lavoro di Magris è l’ammonimento a indignarci sempre e subito contro ogni offesa alla dignità umana e ad abbandonare la folle abitudine a lasciar correre. L’Olocausto è avvenuto anche perché molti, ebrei e non, si illusero che “ogni stadio fosse l’ultimo gradino della violenza e delle discriminazioni inducendo così a un quietismo rassegnato nei confronti di quello che ci si illudeva fosse un male minore”. Se lasciamo che la violenza e la corruzione dilaghino (per con- Deridiamo i principi in nome dei “fatti nostri”, non ci indigniamo per le ingiustizie e pensiamo che tutto sia lecito: è la radiografia dei vizi d’Italia in “Livelli di guardia”, il nuovo libro di Magris tinuare a usare metafore dell’alluvione), solo individui di grande coraggio, dei veri e propri eroi, sono in grado di opporsi. E spesso non ce ne sono, o non ce ne sono abbastanza. Per questo è assolutamente vitale, se vogliamo vivere liberi, coltivare la memoria non come culto del passato, ma consapevolezza dell’eterno presente: “La memoria guarda avanti; si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno […] crede nella sua nostalgia di vedere nell’infanzia e che si trova invece in un futuro liberato, alla fine del viaggio”. Come ogni etica civile che si rispetti, anche quella di Magris è sostenuta da un sentimento religioso che mi pare si fondi sull’idea che “la vita è sempre sacra” e che è dunque insensato credere siamo proprietari della nostra vita così come siamo proprietari di un’automobile che possiamo vendere o gettare fra i rottami a nostro piacimento. L’opposto dell’idea della vita come oggetto è l’idea della vita come missione al servizio di un principio, di un ideale. Fra gli ideali che Magris indica, senza fanfare, c’è quello del rispetto dell’altro, anche per il nemico, anche per l’avversario che vogliamo sconfitto e reso innocuo. Nessuna buona Repubblica è mai nata, o rinata, dimenticando il rispetto per l’altro. In alto, Claudio Magris; qui sotto Fidel Castro con Wojtyla a Cuba, il 25 gennaio 1998 (FOTO ANSA) Esce domani la prima biografia ufficiale dedicata al grande cantautore morto nel 1997: autodidatta, chitarrista strepitoso, diamante grezzo, resta un musicista sottovalutato con una sessualità presentissima, carnosa e godereccia: animalesca. Risiede nella trama assurda di canzoni come Ma io che c’entro (chi altri poteva scrivere un brano d’amore partendo un tizio che sta seduto al cesso?). Ivan era un autodidatta di genio puro e che affronta il playback tivù di E sei così bella, guardando Anna, splendida compagna di una vita. Il padre di Tommy e Filippo, che meglio non potevano restituircelo. Il marinaio che non è più tornato. quindi folle. Basta Gabriele D’Annunzio – di cui sapeva tutto – a zittire chi lo accusava di non sapere scrivere. Basta Il topo nel formaggio, meglio ancora nelle poche registrazioni live che ci sono arrivate, per riscoprire il talento di un chitarrista che guardava molto oltre i confini italici (e per questo quei confini tendono a ridimensionarlo: perché non lo capiscono). Si dice: l’ultimo Graziani era più debole. Ed è LA SUA FORZA risiede in un percorso oltremodo libero. Nell’apprendistato atipico, nell’amore per il disegno, nelle origini teramane. Risiede in quei testi così personali, Noi e loro É di Maurizio Chierici PERCHÉ IL PAPA ANDRÀ A CUBA L’ annuncio è una sorpresa che nel tumulto della festa italiana anche l’Avvenire (il giornale dei vescovi) per il momento trascura. In primavera papa Ratzinger va all’Avana. Incontrerà Raul, fratello presidente. Incontrerà Fidel, grande malato, incontrerà l’ingegner Payà e altri cattolici ai quali è concessa la libertà di un’opposizione propositiva. Possono parlare anche se le parole si sciolgono nel vento. Benedetto XVI celebrerà messe solenni nelle piazze di ogni città, trasmesse in diretta tv come per Giovanni Paolo II. Dodici anni fa il viaggio di Wojtyla cambia i rapporti tra la costituzione avvolta nell’ateismo di Stato ispirato da una Mosca sepolta nei brutti ricordi, e la Chiesa non proprio clandestina ma rinchiusa nella definizione di “istituzione privata”, ai margini di ogni interesse pubblico. Fino al 1998 giornali e televisioni non potevano parlarne. Il peregrinare di Woytyla suscita l’illusione di un’apertura che subito impallidisce: concessioni marginali, niente di più anche se la commozione di Fidel accompagna il pontefice alla scaletta dell’aereo per Roma. Piove e il leader maximo sussurra: “Cuba piange perché il Papa se ne va”. Quattordici anni dopo l’Avana e il Vaticano sono alle prese con realtà più complicate dei dogmi armati l’uno contro l’altro. Cuba resta il lampadario fioco di una rivoluzione delusa non solo politicamente: povertà, isolamento insopportabile, illusioni che invecchiano mentre i latini dell’America accanto marciano col passo di democrazie realizzate. Anche i protagonisti esercitano ruoli diversi: il cardinale Ortega (internato negli anni del dominio sovietico nei campi di lavoro forzato) è il mediatore scelto da Raul Castro nel dialogo difficile con oppositori nutriti dalle lobby di chi a Miami insegue da mezzo secolo la distruzione “del regime comunista” in sintonia con le politiche delle famiglie Bush. Soffiano su rabbie e frustrazioni, scioperi della fame di politici (non sempre e solo politici) oscurati in prigioni impossibili. Soffiano su madri e mogli che hanno copiato frettolosamente il velo bianco delle madri dell’Argentina della dittatura, 30 mila desaparecidos. Ortega ha l’incarico di sanare gli errori con lentissime sfumature consuete alle abitudini cubane. Di trattare scarcerazioni, di provare dialoghi. E attraverso la Chiesa il regime si apre a una normalità che dovrebbe acquietare inquietudini ormai complicate da contenere. Il Papa che arriva non deve rimettere il cardinale agli occhi del mondo, come è successo a Giovanni Paolo II. Entrato nell’ufficialità, Ortega è punto di incontro di due concezioni di vita così lontane e per necessità ormai vicine. Sarà curioso capire come Miami e Washington interpreteranno i risultati del viaggio papale. Ma Benedetto va all’Avana forse col proposito di rilanciare l’immagine di una Chiesa umiliata dagli scandali e preoccupata per l’invasione delle sette protestanti “fai da te”, ormai significative anche nell’isola. “Missionari” colombiani, messicani hanno goduto del permissivismo di una politica che apriva ponti con realtà esterne segmentate per non rimpicciolire l’autorità dello Stato. Perfino la massoneria ha privilegi insospettabili: permesso di un ospedale privato per fratelli anziani. Il viaggio di papa Ratzinger può avere anche lo scopo di rimettere ordine nella priorità dei rapporti con i portatori di pace. Non solo: sia pure meno importante del passato, Cuba resta un megafono che apre le orecchie al continente cattolico più popoloso del mondo, ma in crisi per perdita di fedeli e vocazioni. Da protagonista, la Chiesa allunga la mano al regime appeso alla rielezione di Obama. E il governo sembra felice. Vedremo perché. [email protected] vero. Vale per tutti o quasi. Anzitutto per i musicisti. Soltanto all’inizio del suo cammino potevano nascere le Motocross, I lupi, Pigro, Paolina, Monna Lisa. Mica le scrivi a fine percorso, le My Generation. Ma è altrettanto inconfutabile che perfino nei bassi anni Ottanta, un po’ plastificati anche in lui, ci sono stati i Viaggi e intemperie. Le Siracusa e le Isabella sul treno. Come c’è stato l’amore, per certi aspetti didascalico, per il rock di Ivangarage: non un capolavoro, ma come suona ancora vivido quel lusso orgogliosamente plebeo di nascondere una gemma stralunata come E mo’ che vuoi in un album che quasi tutti avrebbero battezzato minore. Maledette malelingue, con cui tornò a Sanremo, dimostrò che Ivan aveva ancora cose da dire: forse non più paragonabili all’apertura divina di Olanda, o alla quotidianità mirabilmente descritta in Pasqua, ma le aveva. E Kr yptonite, nonostante l’arrangiamento patinato, è uno dei suoi testi migliori. Graziani si era perso e ritrovato. Per moti e tornanti tutti suoi. Che solo parzial- mente abbiamo scorto. Ivan Graziani è invecchiato meglio di altri perché non ha mai abdicato alla giovinezza. PERCHÉ si è negato, purtroppo anche fisicamente, lo scorrere del tempo. Perché viveva in un mondo veramente suo, un luogo stravagante popolato da donne ladre e amanti lussuriosi a Modena Park, matrone giunoniche che ti piantano il tacco sul collo e cugine strette (senza tette?). Amava le vette incredibili e gli inciampi terribili. Senza misura. Prudenza mai. E ben pochi limiti. Neanche lui – ed è forse la sua unica “colpa” – sfuggì alla mania di rileggere i propri hit. Riprese le vecchie canzoni e non le migliorò. Mai. Era impossibile: le Fuoco sulla collina fiammeggiavano già in quello spazio alieno che attiene soltanto a ciò che non può morire. Troppo poco sentenziante e troppo fieramente terreno per essere elevato a profeta o maître à penser, Ivan Graziani è stato un eretico ruspante. Pioniere pazzo, diamante grezzo. Lui un chitarrista, noi una svista.