Corte di Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 5 giugno 2015 n. 24324. Reati societari - Procedure fallimentari - Bancarotta fraudolenta patrimoniale - Bancarotta fraudolenta preferenziale - Compensazione - Inabilitazione all'esercizio d'impresa - Rigetto del ricorso Se l’atto ha natura illecita non si può parlare di compensazione! Né si può invocare la bancarotta preferenziale! Infatti quest’ultima presuppone o un atto formale di pagamento, ovvero l'esistenza di un debito dell'amministratore nei confronti della società maturato per cause lecite e non in conseguenza della commissione di un reato. Il collegio prende atto della questione esistente sul se l'amministratore possa rispondere di bancarotta preferenziale quando si ripaga di un proprio credito nei confronti della società, ovvero debba sempre rispondere, in questi casi, di bancarotta fraudolenta patrimoniale . Tuttavia, nel caso di specie la questione non attiene tanto ad una normale operazione di pagamento o prelievo dalle casse societarie, quanto piuttosto ad un atto illecito, consistente nella appropriazione di somme destinate alla società. Integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta dell'amministratore (o del liquidatore) che si appropria di somme di denaro per compensare dei crediti vantati nei confronti della società dichiarata fallita. Ritenuto in fatto 1. F.M. propone ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte d'appello di Campobasso che ha confermato la sentenza di condanna del tribunale di Campobasso, riconoscendo però l'attenuante di cui all'articolo 219, comma 3, della legge fallimentare e riducendo, pertanto, la pena ad anni 1 mesi 4 di reclusione per il reato di cui all'articolo 216, comma 1, numero 1 della legge fall.. 2. Con il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge, nonché vizio di motivazione, con riferimento alla qualificazione giuridica del reato contestato, erroneamente sussunto nella fattispecie di cui all'articolo 216, comma 1, della legge fallimentare, mentre sarebbe configurabile il delitto di bancarotta preferenziale, laddove l'imputato ha compensato i propri crediti nei confronti della società. Non si tratterebbe, invece, di distrazione, posto che all'esito della compensazione non vi sarebbe stata alcuna diminuzione di ricchezza per la società, ma una semplice lesione della par condicio creaditorum. 3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'elemento psicologico del reato di bancarotta, affermando che la condotta dell'amministratore è stata posta in essere in assenza di consapevolezza circa l'appartenenza del denaro alla società, quanto piuttosto ritenendo di propria spettanza la somma oggetto di compensazione. 4. Con un terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'applicazione della sanzione accessoria dell'inabilitazione all'esercizio dell'impresa commerciale per 10 anni; in subordine eccepisce la illegittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'articolo 216 della legge fallimentare per violazione degli articoli 3, 4, 27, 41, 111 della costituzione, nonché 6, 7 CEDU. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Questo collegio non sconosce l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale in merito alla questione se l'amministratore possa rispondere di bancarotta preferenziale quando si ripaga di un proprio credito nei confronti della società, ovvero debba sempre rispondere, in questi casi, di bancarotta fraudolenta patrimoniale; tuttavia, nel caso di specie la questione non attiene tanto ad una normale operazione di pagamento o prelievo dalle casse societarie, quanto piuttosto ad un atto illecito, consistente nella appropriazione di somme destinate alla società. Tale condotta, in quanto costituisce indebita appropriazione di somme spettanti a terzi, integra il reato di cui all'articolo 646 del - codice penale, che nel caso di specie rimane assorbito dalla più grave violazione fallimentare (Sez. 5, n. 37298 del 09/07/2010, Lombardo, Rv. 248640).Tenuto conto della natura illecita dell'atto, non si può parlare di compensazione, né si può invocare la bancarotta preferenziale, la quale presuppone o un atto formale di pagamento, ovvero l'esistenza di un debito dell'amministratore nei confronti della società maturato per cause lecite e non in conseguenza della commissione di un reato. 2. Il debito risarcitorio e per le restituzioni, che l'atto illecito produce nei confronti dell'amministratore, anche ove fosse sotto un profilo civilistico eventualmente compensabile con i crediti dello stesso amministratore verso la società fallita, non comporterebbe alcuna conseguenza in ordine al già commesso reato, potendo al più valere sotto un profilo meramente patrimoniale. 3. In sostanza, non può invocare la compensazione, al fine di escludere la bancarotta fraudolenta patrimoniale, l'amministratore che si appropri di somme di spettanza della società, che costituisce soggetto terzo dotato di propria personalità giuridica (v. Sez. 6, V Sentenza n. 17616 del 27/03/2008, Rv. 240069: "Integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta dell'amministratore (o del liquidatore) che si appropria di somme di denaro per compensare dei crediti vantati nei confronti della società dichiarata fallita"). 4. D'altronde, consentire la operatività della compensazione con debiti di natura illecita comporterebbe l'assurda conseguenza di istigare l'amministratore, che sia creditore della società, al compimento di reati; è evidente, infatti, la maggior convenienza di un siffatto modus operandi rispetto ad un formale pagamento, registrato in contabilità. Mentre nel secondo caso l'apertura di una procedura fallimentare renderebbe immediatamente evidente la sussistenza di una bancarotta preferenziale, nel secondo caso l'amministratore potrebbe sperare che non vengano scoperti i suoi atti appropriativi e dunque non solo sottrarsi ad ogni conseguenza penalistica, ma altresì duplicare il proprio credito con una insinuazione al passivo. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato e persino poco comprensibile; l'imputato ha avuto il possesso della somma all'esito del suo atto appropriativo, di cui non poteva non conoscere la illiceità; è non a seguito di compensazione, che, semmai, è atto consequenziale e non presupposto. Non è pensabile, dunque, che l'amministratore non fosse consapevole del fatto che le somme di cui si era appropriato erano di spettanza della società, proprio per il ruolo da lui ricoperto, e ciò è più chek sufficiente ad integrare l'elemento soggettivo della bancarotta distrattiva per appropriazione di somme di pertinenza del soggetto giuridico successivamente fallito. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato. La questione sottoposta a questo collegio ha conosciuto, di recente, un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. Secondo l’orientamento più risalente la pena accessoria prevista dall'ultimo comma dell'art. 216 I. fall, non è indeterminata, essendo stabilita in misura fissa e inderogabile nella durata di dieci anni, e, di conseguenza, si sottrae alla disciplina di cui all'art. 37 c.p. (Sez. V, 29 settembre 2007, n. 39337, RV 238211). Un più recente orientamento, invece, ha ritenuto che la pena accessoria in esame sia determinata solo nel massimo, sicché, ai sensi dell'art. 37 c.p., deve avere durata uguale a quella della pena principale irrogata (Sez. V, 22 gennaio 2010, n. 9672, RV 246891; nello stesso senso Sez. V, n. 23720 del 21 marzo 2010, e poi Sez. 5, n. 23606 del 16/02/2012, Ciampini, Rv. 252960). L’orientamento secondo cui la durata della pena accessoria ex art. 216, comma ult., I. fall, è stabilito in misura predeterminata e fissa è stato, tuttavia, ribadito di recente (Sez. V, 18 febbra io 2010, n. 17690; Sez. 5, n. 269 del 10/11/2010, Marianella, Rv. 249500 ed infine Sez. 5, n. 30341 del 30/05/2012, Pinelli, Rv. 253318). Un collegio di questa stessa V sezione (Sez. 5, n. 16083 del 23/03/2011, Capizzi, Rv. 250089) che aderiva all'indirizzo più risalente, ritenendo insuperabile il dato testuale - ha però ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., dell'art. 216, comma quarto, legge fall., nella parte in cui determina in maniera fissa in dieci anni la durata della pena accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, ed ha rimesso gli atti al Giudice delle leggi. 8. La Corte cost., con sentenza del 31 maggio 2012, n. 134, ha dichiarato l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale ritenendo che la sentenza additiva (richiesta al fine di rendere applicabile l'art. 37 cod. pen.) non costituisse una soluzione costituzionalmente obbligata, rimanendo pertanto legata a scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. La Consulta ha, dunque, implicitamente confermato la validità dell'interpretazione proposta dal collegio remittente, secondo cui nell'attuale formulazione legislativa la pena accessoria è prevista in misura fissa (e ciò non lede alcun diritto costituzionalmente protetto). 9. Deve pertanto ribadirsi che la pena accessoria che consegue alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta è indicata in misura fissa e inderogabile dal legislatore nella durata di anni dieci; ne consegue che i giudici di merito non hanno commesso alcuna violazione di legge, né avevano alcun obbligo di motivazione connesso all'irrogazione della pena accessoria . 10. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.