AVERSA 28-29 NOVEMBRE 2008 I CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOCIETA’ ITALIANA DI PEDIATRIA OSPEDALIERA (SIPO) XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia XVI INTERNATIONAL WORKSHOP ON NEONATAL NEPHROLOGY 28-29 novembre 2008 Aversa - Castello Aragonese Piazza Trieste e Trento Accademia Nazionale di Formazione di Polizia Penitenziaria A Rosario Di Toro, Maestro insigne di pediatria e pioniere delle Nefrologia Pediatrica, persona eccellente e con doti umane di estrema gentilezza, cortesia e disponibilità, un ricordo affettuoso ed un ringraziamento da tutti i pediatri italiani che lo hanno conosciuto ed apprezzato. 2 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia Antonietta Costantini Direttore Generale dell’ASL CE 2 Partecipo con vivo piacere alla cerimonia di inaugurazione del I Congresso Nazionale della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera e rivolgo un caloroso saluto alle Autorità Civili e Ecclesiastiche presenti, ai numerosi relatori e ai partecipanti esprimendo, a Salvatore Vendemmia, un forte apprezzamento per l’elevato livello raggiunto da questo evento. Il sottotitolo del Congresso delle XII Giornate Normanne, “Onorare il passato e impegnarsi per il futuro”, mi porta a riflettere su come sia cambiato l’approccio ai problemi dell’assistenza sanitaria. Questo non solo per merito dell’avanzamento della ricerca scientifica e per l’impiego di tecnologie sempre più sofisticate e all’avanguardia, ma perché sono mutati gli scenari economici, politici e sociali. Sono cambiati gli atteggiamenti e le richieste, come è mutato l’approccio clinico, certamente legato all’osservazione dei sintomi e della malattia, ma volto anche a considerare i fattori di rischio spesso legati a stili di vita scorretti. In ogni caso mi preme osservare che è la persona soprattutto da porre al centro della nostra attenzione. E l’impegno comune di tutti coloro che si occupano dell’organizzazione delle cure, deve mirare alla costruzione di percorsi di salute basati sul paziente e su un programma di cure e di interventi che ponga, al primo posto, la persona, la sua dignità e la sua soggettività. Ci auguriamo tutti che, nonostante i limiti economici, si continui sempre e comunque ad assicurare buone cure osservando atteggiamenti più responsabili nell’utilizzo dei servizi: ciò per utilizzare in modo adeguato le risorse disponibili. Auguro ancora a tutti i partecipanti un proficuo prosieguo dei lavori. 3 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia Pasquale Di Pietro Presidente della Società Italiana di Pediatria Vorrei collegare il tema del Congresso organizzato dal collega Vendemmia al suo nuovo incarico di Presidente della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera della SIP. Salvatore Vendemmia ha promosso una iniziativa scientifica di grande rilievo. Mi auguro di poter operare in questi anni affinché la Pediatria Ospedaliera Italiana risulti essere tra le più qualificate a livello della nostra Comunità Europea. Vendemmia è un ospedaliero “autentico” e sono sicuro che sarà capace di far valere il ruolo della categoria. Oggi è necessaria una razionalizzazione delle strutture ospedaliere sia in campo pediatrico che neonatale. Altresì è fondamentale qualificare i posti letto ospedalieri pediatrici. Esiste la necessità di reperire un numero maggiore di posti letto per le cure intermedie e le cure semiintensive non solo per i pazienti acuti ma anche per quelli cronici. Le istituzioni, però, sembrano più interessate ad affrontare il problema dei codici bianchi e ben poco si occupano del paziente pediatrico veramente critico e/o cronico. Basta pensare come in molte regioni l´assistenza domiciliare pediatrica sia tutta ancora da scoprire per mancanza di investimenti. E´ giusto per il futuro anche investire sulle cure primarie e sulla prevenzione visto che nel passato questi campi sono stati certamente trascurati. Però non bisogna che le Istituzioni dimentichino che le strutture ospedaliere pediatriche italiane sono tra le più vetuste e non sempre supportate da eccellenti attrezzature. Sono sicuro che Vendemmia darà ai Colleghi ospedalieri grande entusiasmo ma avrà anche la capacità di creare un giusto equilibrio tra ospedale e territorio. Auguri per quest’evento che rappresenta una pietra miliare nella storia della Pediatria Ospedaliera! 4 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia Claudio Fabris Presidente della Società Italiana di Neonatologia Sono felice di portare il saluto della SIN al I Congresso Nazionale di Pediatria Ospedaliera che si tiene ad Aversa, sede storica degli Incontri Pediatrici Normanni, appuntamento ormai consolidato nel panorama scientifico italiano. Appuntamento che ha la prerogativa di rinnovarsi di anno in anno con miglioramento continuo della qualità. Questa edizione ospita il I Congresso Nazionale della Pediatria Ospedaliera che vede impegnati i colleghi del settore in questa operosa azione di rinnovamento e di proposte per dare spazio, visibilità, professionalità e meriti alla categoria tutta. Auguro a questo evento il meritato ed immancabile successo. 5 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia Parte del nuovo direttivo della Pediatria Ospedaliera eletto a Cosenza il 19 ottobre 2007: Roberto Antonucci, Paolo Manzoni, Goffredo Parisi, Giuseppe Colucci, Maurizio Ivaldi, Salvatore Vendemmia, Gennaro Vetrano 6 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia Colleghi ed amici carissimi, benvenuti ad Aversa che ospita quest’anno il I Congresso Nazionale della Società Italiana di Pediatria Ospedaliera. In verità questo è il 15° appuntamento congressuale dei pediatri ospedalieri italiani, che hanno trasformato recentemente, il “Gruppo di Studio di Pediatria Ospedalieria” in Società Italiana di Pediatria Ospedaliera. Un ricordo affettuoso e riconoscente a quanti mi hanno preceduto alla guida nazionale degli ospedalieri. In primo luogo a Mario Calvani, primo segretario e presidente del I Congresso Nazionale della Pediatria Ospedaliera, tenutosi a Roma dal 14 al 16 gennaio 1993. Poi ricordo i successivi, instancabili ed operosi segretari, che gli sono succeduti: Francesco Tancredi, Lodovico Perletti, Gianfranco Temporin, Riccardo Longhi. L’attuale Direttivo, regolarmente eletto a Cosenza nell’ottobre 2007, ha trasformato il gruppo in SIPO, affiliata alla Società Italiana di Pediatria. Questo primo Congresso vede oggi, come Relatori, Moderatori e Presidenti, autorevoli ed illustri Colleghi, espressione nazionale ed internazionale della pediatria e di tutte le specialità ad essa collegate. Esso vuole dimostrare alla Nazione il livello culturale, didattico e formativo che l’ospedale svolge con competenza e capacità, nei riguardi dei laureandi, specializzandi e giovani specialisti. E come ho già detto, in precedenti occasioni, è questo il momento di rivendicare alla pediatria ospedaliera l’ufficialità di tale ruolo, non in contrapposizione con l’università, ma in operosa, funzionale e concreta collaborazione. Il sistema sanitario italiano vive un momento di crisi organizzativa ed economica e la categoria degli ospedalieri subisce notevoli carichi di lavoro, ingiustificati e non adeguatamente remunerati. La fuga dagli ospedali verso il territorio ha contribuito ad acuire lo stato di criticità operativa degli ospedalieri. E’ indubbio, pertanto, che occorre riorganizzare, in modo più razionale, le unità operative di pediatria e neonatologia, eliminando inutili ed inefficienti duplicati, e riconvertendo tutte le risorse in allocazioni realmente rispondenti ai bisogni di salute del territorio. Certamente sarà cura di quest’operoso Direttivo, in collaborazione con la SIP ed altre Società scientifiche, proporre soluzioni adeguate ai problemi ed alle richieste della nostra categoria e sottoporle ai competenti organi ministeriali e regionali. La strada da percorrere è difficile ed insidiosa, ma troveremo il modo di creare occasioni utili al nostro futuro, alle nostre aspettative e al nostro lavoro. Ringrazio tutti i Colleghi per le relazioni inviate e per la loro presenza a questa manifestazione. Così pure quanti hanno inviato un segno tangibile della loro operosità e professionalità, partecipando, con comunicazioni e poster, a questo evento. Non ho certamente dimenticato la figura dell’infermiere pediatrico, supporto valente ed indispensabile nel quotidiano operare, e che, coinvolgendo convergenze professionali e capacità 7 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia relazionali e comunicative, accoglie e prende in carico i pazienti e le loro famiglie in un processo rapido e dinamico. A queste operatori sanitari è dedicata una parte del Congresso. L’edizione 2008 ospita le dodicesime giornate pediatriche Normanne, appuntamento importante per questa vetusta e nobile Città che, con i suoi Amministratori e tutte le Autorità politiche, religiose e culturali, vi partecipano con appassionata e gratificante collaborazione. Ospitiamo ad Aversa anche il “XVI International Workshop on Neonatal Nefrology”. Quest’evento curato da Luigi Cataldi dell’Università Cattolica di Roma, ci offre la possibilità di ascoltare i più famosi esperti della nefrologia mondiale, di discutere con essi e migliorare la nostra conoscenza e performance professionale. Consentitemi, adesso, un doveroso pensiero al professor Rosario Di Toro, eminente pediatra e pioniere delle Nefrologia Pediatrica, persona eccellente e con doti umane di estrema gentilezza, cortesia e disponibilità. È sempre stato presente alle giornate pediatriche Normanne ed è stato per 10 anni Presidente onorario del Gruppo Normanno di Nefrourologia Neonatale e Pediatrica. Alla sua memoria è dedicato il volume degli atti di quest’anno. A Lui ed alla sua Famiglia il ringraziamento affettuoso da tanti e tanti colleghi che lo ricordano con affetto e stima, come Uomo e come Maestro. Devo inoltre ringraziare l’Arcivescovo di Aversa, Monsignor Mario Milano, sempre presente a questo appuntamento, il Sindaco di Aversa Mimmo Ciaramella e gli Assessori e la Giunta, per la disponibilità e l’affettuosa comprensione e collaborazione nella realizzazione di questo evento. Nè posso dimenticare l’Assessore Nicola De Chiara, sempre in prima linea a sostenere le nostre richieste. Grazie ai Vigili Urbani, alla Polizia di Stato che con il commissario capo dott. Antonio Sferragatta è sempe stata impegnata a vigilare su queste giornate. Un ringraziamento al Ministero di Grazia e Giustizia che, con sollecita comprensione, ha messo a disposizione questo monumentale complesso per la realizzazione del Congresso. E un grazie particolare alla direttrice dell’ Accademia Nazionale di Polizia Penitenziaria, Laura Passaretti, che si è tanto prodigata presso il Ministero per concederci l’uso di questo Castello. Grazie alla Direttrice della ASL CE2 Antonietta Costantini, sensibile, attenta, disponibile nei nostri confronti e presente a questa inaugurazione. Grazie al Direttivo SIPO ed ai Presidenti regionali e provinciali, a tutti i colleghi pediatri del Moscati, che validamente mi si affiancano nella organizzazione e realizzazione di questo evento. Grazie all’industria farmaceutica, alle associazioni, ai privati cittadini, agi Enti che hanno contribuito economicamente alla realizzazione di questa edizione. Grazie a tutti per la simpatia, l’entusiasmo e la passione che vi porta ad Aversa per realizzare queste giornate. Buon lavoro! Salvatore Vendemmia 8 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Mons. Mario Milano Arcivescovo-Vescovo di Aversa 9 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Domenico Ciaramella Sindaco di Aversa 10 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Giovanni Piedimonte 11 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Stefano Bruni 12 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Annamaria Staiano, Salvatore Vendemmia, Maurizio Ivaldi 13 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Alberto G. Ugazio 14 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Salvatore Vendemmia, Edoardo Bancalari, Roberto Paludetto, Franco Messina 15 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 Momenti congressuali 16 PRESENTAZIONE INCONTRI PEDIATRICI NORMANNI XII CONGRESSO INTERNAZIONALE Problematiche in Pediatria e Neonatologia MOMENTI DEL CONGRESSO 2007 “I Normanni” I CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOCIETA’ ITALIANA DI PEDIATRIA OSPEDALIERA (SIPO) XII CONGRESSO INTERNAZIONALE: Problematiche in Pediatria e Neonatologia XVI INTERNATIONAL WORKSHOP ON NEONATAL NEPHROLOGY PROGRAMMA 18 PROGRAMMA Promotori e Sostenitori Promoters and Supporters Con l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana In collaborazione con Società Italiana di Pediatria Società Italiana di Neonatologia Società Italiana di Pediatria Ospedaliera Con il patrocinio di Gruppo Normanno di Nefrourologia Neonatale e Pediatrica (ONLUS) Ministero della Salute Regione Campania Provincia di Caserta Città di Aversa ASL CE 2 Ordine Provinciale dei Medici e degli Odontoiatri di Caserta Confederazione Italiana Pediatri (CIPe) Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) PROGRAMMA 19 28 - 29 novembre 2008 - Castello Aragonese I Congresso Nazionale SIPO XII Congresso internazionale: Problematiche in Pediatria e Neonatologia EVENTI PARALLELI SATELLITE MEETINGS XVI International Workshop on Neonatal Nephrology PROBLEMATICHE IN PEDIATRIA E NEONATOLOGIA SESSIONE PARALLELA Onorare il passato e impegnarsi per il futuro 28-29 novembre 2008 IV Convegno Neonatologico e Pediatrico Infermieristico 29 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Rainulfo Drengot Enduring memories and a promise for the future November 28th and 29th 2008 Presidenti Onorari Paolo Giliberti, Bruno Nobili, Luciano Tatò Presidenti del Congresso Pasquale Di Pietro, Claudio Fabris, Salvatore Vendemmia Vice Presidenti Luigi Cataldi, Vassilios Fanos, Maurizio Ivaldi Comitato Scientifico Giuseppe Buonocore, Luciano Cavallo, Antonio Carlucci, Angelo Elio Coletta Spinella, Giuseppe Di Mauro, Mario Ferraro, Lucio Giordano, Gianluigi Gargantini, Carmelo Mamì, Silvio Maringhini, Claudio Pignata, Silvano Santucci, Paolo Siani, Maria Vendemmia, Carlo Zorzi Comitato Organizzativo Roberto Antonucci, Elena Bernabei, Carlo Cioffi, Gabriella di Cicco, Silvia di Michele, Rocco Di Nardo, Valerio Flacco, Paolo Manzoni, Carlo Montinaro, Attilio Romano, Vincenzo Stornaiuolo, Gennaro Vetrano CORSI DI AGGIORNAMENTO CORSO AVANZATO DI ECOGRAFIA pediatrica e neonatale Direttori del corso Rino Agostiniani, Alberto Chiara, Roberto Cinelli, Francesco Lotito 27 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Asclettino 28 novembre 2008 - Ospedale “S.G. Moscati” CORSO DI FORMAZIONE IN DIABETOLOGIA PEDIATRICA Direttore del corso Francesco Prisco 28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Riccardo I CORSO DI FORMAZIONE ED AGGIORNAMENTO La diagnosi molecolare di infezioni invasive da Pneumococco, Meningococco e Haemophilus influentiae, nell’ottica di un miglioramento delle strategie di prevenzione diagnosi e terapia Direttori del corso Chiara Azzari, Massimo Resti, Gaetano Danzi 27 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Guitmondo 20 PROGRAMMA 28 novembre 2008 - Castello Aragonese Salone dei Conti Normanni I Congresso Nazionale SIPO XII Congresso internazionale: Problematiche in Pediatria e Neonatologia 27 novembre 2008 - Castello Aragonese XVI International Workshop on Neonatal Nephrology RIUNIONE DIRETTIVO SIPO 10.00 Sala Costanza 08.30-15.00 Registrazione dei partecipanti SESSIONE SATELLITE PEDIATRIA PRATICA E MANAGEMENT Presidenti Giuseppe Colucci, Luciano Pinto Moderatori Elio Caliendo, Gennaro Golia, Renato Vitiello 09.00 La terapia moderna della diarrea Annamaria Staiano 09.30 Il trattamento della febbre in pediatria Luca Gallelli 10.00 Il network pediatrico Rinaldo Zanini 10.30 Discussione SIMPOSIO SATELLITE “MALATTIE RARE” Presidenti Bruno Nobili, Marco Somaschini Moderatori Alfonso D’Apuzzo, Ennio Del Giudice, Vincenzo Riccardi 11.00 Epidemiologia delle malattie rare Roberto Della Casa 11.30 Malattie genetiche e metaboliche rare in età pediatrica Generoso Andria 12.00 Malattie da accumulo: casi particolari Francesco Papadia 12.30 Discussione PROGRAMMA 21 28 novembre 2008 - Castello Aragonese 29 novembre 2008 - Castello Aragonese 18.00 Sala Ermanno 08.30-10.30 Sala Ermanno PRIMA SESSIONE COMUNICAZIONI SECONDA SESSIONE COMUNICAZIONI Moderatori Vincenzo Comune, Ettore Cataldi, Roberto Trunfio, Giuseppe Tumminelli Moderatori Gianfranco Temporin, Paolo Manzoni, Massimo Ummarino, Piero Ugo Zucchinetti 18.00 Sala Giovanna I SECONDA SESSIONE PRIMA SESSIONE POSTER Moderatori Luigi Cantelli, Francesco Di Meo, Francesco Saitta, Giuseppe Casale Salone dei Conti Normanni Presidenti Pasquale Di Pietro, Claudio Fabris Moderatori Gerardo Chirichiello, Franco Messina, Luigi Orfeo, Gennaro Vetrano 08.30 Neonati di peso molto basso e problemi molto grandi: sopravvivenza e prognosi a distanza Roberto Paludetto 08.45 Problemi di alimentazione nel neonato di peso molto basso Paolo Gancia 09.00 Corretto uso degli antibiotici in TIN Mauro Stronati 09.15 Infezioni e sistema immunitario del neonato Gaetano Chirico 09.30 Novità nella ventilazione non invasiva Corrado Moretti 09.45 Discussione Open Bar 22 PROGRAMMA 29 novembre 2008 - Castello Aragonese I Congresso Nazionale SIPO XII Congresso internazionale: Problematiche in Pediatria e Neonatologia XVI International Workshop on Neonatal Nephrology 09.00-10.00 Sala Giovanna I Salone dei Conti Normanni Moderatori Antimo Cappello, Roberto Liguori, Luciano Palmiero, Salvatore Mariconda Presidenti Carlo Vosa, Giuseppe Caianiello Moderatori Fiorina Casale, Carla Navone, Lodovico Perletti, Alberto Podestà 15.00 Influenze ambientali in TIN Roberto Antonucci 15.15 Novità nella terapia dell’artrite giovanile Mariolina Alessio 15.30 Nuove linee guida nel trattamento dell’asma bronchiale del bambino Franco Paravati 15.45 Progetti per la tutela della salute materno infantile, in collaborazione con la Pediatria Ospedaliera Franca Golisano 16.00 Scenari clinici dello shock neonatale Paolo Giliberti 16.15 Cancro in età pediatrica: progetto guarigione Paolo Indolfi 16.30 Bambino e società: aspetti storici, giuridici, culturali, sociali Goffredo Parisi 16.45 Discussione Open Bar 17.30 Assegnazione Premi di Studio IV Premio “Ferdinando Iafusco” III Premio “Clemente Pascarella” SECONDA SESSIONE POSTER 10.30-13.00 Salone dei Conti Normanni TERZA SESSIONE XVI International Workshop on Neonatal Nephrology Comitato onorario P. Di Pietro, F. Emma, C. Fabris, P. Giliberti, M. Stronati, S. Vendemmia Segreteria scientifica R. Agostiniani, G. Attardo, V. Fanos, M.G. Romeo Comitato organizzativo C. Cioffi, A. Colella, R. Coppola, A. Griffo, N. Romeo, G. Parisi Presidente Luigi Cataldi Moderatori Rino Agostiniani, Vassilios Fanos Nephrogenic syndrome of inappropriate antidiuresis Vassilios Fanos Drugs, prostaglandins and neonatal renal function Jack W. Aranda Futura evoluzione nella ricerca renale in età neonatale Robert L. Chevalier Markers e danno renale nel neonato e nel bambino Michele Mussap 12.30 Discussione Giuliana Lama, Carmine Pecoraro Assegnazione XVI Premio “Antonio Sanna” 13.30 Colazione di Lavoro Area Ristoro del Castello Aragonese (Piano Terra) QUARTA SESSIONE PROGRAMMA 23 29 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Rainulfo Drengot IV CONVEGNO NEONATOLOGICO E PEDIATRICO INFERMIERISTICO Salone dei Conti Normanni QUINTA SESSIONE Presidenti Giuseppe Claps, Alessandro Settimi Moderatori Antonio Campa, Alfio Cristaldi, Maurizio Ivaldi, Antonio Vitale 18.00 Infezioni nosocomiali in TIN Alda Scarcella 18.15 L’asma è sempre da ricoverare? Gianni Messi 18.30 I carichi di lavoro del pediatra ospedaliero Alberto Villani 18.45 Scroto acuto: eziopatogenesi, diagnosi, terapia Antonio Marte, Antonio Savanelli 19.00 Aspetti farmacoeconomici dell’immunoterapia specifica Domenico Minasi 19.15 Discussione 19.30 Chiusura del convegno PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA Presidenti Arturo Giustardi, Ippolito Pierucci, Carlo Cioffi Moderatori Raffaele Coppola, Domenico Perri, Giuseppe Della Corte 11.00 Infermieri pediatrici: i motivi della nostra scelta Elena Bernabei 11.15 Strategie organizzative del lavoro nelle UTIN Denis Pisano 11.30 Valutazione della complessità assistenziale in pediatria: metodo Panda applicabità ed implicazioni Laure Morganti 11.45 Infezioni ospedaliere in neonati con peso inferiore a 1500 gr Giacomo Cecere, Alba Frontini 12.00 I vantaggi dell’allattamento al seno Monika Stablum 12.15 Trattamento delle lesioni cutanee da stravaso di farmaci Agostina Pagliuca, Tommasina Carra, Concetta Coppola 12.30 Gestione del bambino in fototerapia Pinella Errico, Daniela Meoli 12.45 Assistenza al bambino con meningoencefalite Carla Russo, Patrizia De Ninno 13.00 Discussione 24 PROGRAMMA 29 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Rainulfo Drengot IV CONVEGNO NEONATOLOGICO E PEDIATRICO INFERMIERISTICO SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA Presidenti Andrea Colella, Gabriella De Cicco, Luciano Musi Moderatori Franca Piccolo, Maria Franzese, Raffaella Mormile 15.30 Lo screening uditivo in TIN Assunta Filippelli, Adele Coccia 15.45 La formazione a distanza come risorsa per l’educazione continua in medicina Maurizio Di Martino, Annamaria D’Amore 16.00 L’importanza dei genitori: aiuto e sostegno all’operatore sanitario durante le fasi di assistenza al bambino Sabrina Gianni, Lorena Franceschelli 16.15 Assistenza infermieristica pre e post operatoria al neonato con ernia diaframmatica Carla Cervoni 16.30 Emergenze pediatriche in Pronto Soccorso: il ruolo dell’infermiere Matilde Esposito, Pasquale De Rosa 16.45 Le infezioni delle vie urinarie Maria Concetta Regia Corte 17.00 Profilo assistenziale del neonato sano Daniela Ammazzini, Rosaria Raffaelli 17.15 Il neonato patologico: stabilizzazione e trasporto Carmela Sollo 17.30 Discussione 27 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Guitmondo CORSO DI FORMAZIONE ED AGGIORNAMENTO SULLA DIAGNOSI MOLECOLARE DI INFEZIONI INVASIVE DA PNEUMOCOCCO, MENINGOCOCCO, HAEMOPHILUS INFLUENTIAE Direttori del corso Chiara Azzari, Gaetano Danzi, Massimo Resti Presidenti Giorgio Rondini, Pasquale Femiano Moderatori Lanfranco Acampora, Italo Bernardo, Immacolata Piccirillo, Enrico Risolo 09.00 Epidemiologia e clinica delle meningiti Massimo Resti 09.30 Situazione epidemilogica e possibilità di diagnosi in Campania Felice Nunziata 10.00 La nuova metodologia diagnostica dal lattante all’anziano Chiara Azzari 10.30 I dati di incidenza “visitati” alla luce delle nuove metodologie Massimo Resti 11.00 La meningite nel prematuro e nel lattante Francesco Raimondi 11.30 Diagnostica molecolare: un metodo per tutti? Chiara Azzari 12.00 Il problema dell’haemophilus influentia non tipizzabile: una realtà emergente Chiara Azzari, Massimo Resti 12.30 Discussione 13.00 Colazione di lavoro PROGRAMMA 27-28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Asclettino CORSO AVANZATO DI ECOGRAFIA NEONATALE E PEDIATRICA Presidenti onorari Alberto Chiara, Vincenzo Liguori Direttori del corso Rino Agostiniani, Roberto Cinelli, Rossella Galiano, Francesco Lotito 27 novembre 08.30 Registrazione dei partecipanti e pre-test di ingresso 09.00 Introduzione Rossella Galiano PRIMA SESSIONE ECOGRAFIA CEREBRALE 09.30 Anatomia ecografica cerebrale normale Gaetano Ausanio 10.00 La leucomalacia periventricolare Gaetano Ausanio 10.30 L’emorragia cerebrale Maria Cristina Pintus Pausa Caffè 11.30 Patologia infettiva cerebrale Angelo Maria Basilicata 12.00 Malformazioni cerebrali Roberto Cinelli Discussione 13.00 Colazione di lavoro SECONDA SESSIONE 14.00 Encefalopatia ipossico-ischemica Giovanni Chello 14.30 Il confronto con il neuroradiologo Ferdinando Caranci 15.00 Dilatazione ventricolare e idrocefalia Maria Cristina Pintus 15.30 Refertazione e timing degli esami Maria Pia Capasso Discussione 25 26 PROGRAMMA 27-28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Asclettino CORSO AVANZATO DI ECOGRAFIA NEONATALE E PEDIATRICA 28 novembre TERZA SESSIONE ECOGRAFIA DELLE VIE URINARIE 08.15 Introduzione: Rino Agostiniani 08.30 Anatomia ecografica normale dell’apparato urinario del neonato Alberto Chiara 09.00 Quadri ecografici principali di patologia nefro-urologica del neonato Rino Agostiniani 09.20 L’ecografia nella patologia addominale del neonato Giuseppe Vergara 09.40 L’ecografia nel monitoraggio non invasivo del neonato critico Luigi Balestrieri 10.00 Discussione 10.15 Pausa caffè QUARTA SESSIONE ECOGRAFIA DELLE ANCHE 10.30 Anatomia ecografica dell’anca infantile Gaetano Alifano 10.50 Tecnica di esecuzione dell’esame e tipizzazione ecografica Roberto Cinelli 11.10 La displasia evolutiva dell’anca ed attualità diagnostiche e terapeutiche in ortopedia pediatrica Francesco Lotito, Nicola Vendemmia Discussione QUINTA SESSIONE ECOGRAFIA CARDIACA a cura di Angelo Maria Basilicata 12.00 Introduzione all’Ecocardiografia Color Doppler sul neonato 12.20 Ecocardiografia Color Doppler aspetti funzionali per il neonatologo e per il pediatra ECOCARDIOGRAFIA FUNZIONALE PER IL NEONATOLOGO a cura di Salvatore Caputo 12.40 Ecocardiografia funzionale per il neonatologo La pompa cardiaca e l’ecografia per la gestione emodinamica Il cuore “grossolanamente” normale e il sospetto di cardiopatia Il dotto di Botallo Discussione 13.10 Post-test 13.30 Pausa pranzo SESTA SESSIONE ESErcitazionI 15.30 Esercitazioni pratiche a piccoli gruppi nel Reparto di Neonatologia Ospedale “San G. Moscati” di Aversa Tutors Luigi Balestrieri, Maria Pia Capasso, Roberto Cinelli, Andrea Colella, Maria Vendemmia, Salvatore Caputo PROGRAMMA 27 28 novembre 2008 - Castello Aragonese Sala Riccardo I IV CORSO INTERATTIVO DI DIABETOLOGIA PEDIATRICA PER INFERMIERI “FERDINANDO IAFUSCO” Seconda Università degli Studi di Napoli Dipartimento di Pediatria Centro di Riferimento Regionale per la Diabetologia Pediatrica “G. Stoppoloni” Con il patrocinio dell’O.S.D.I. - Campania Direttore del corso Francesco Prisco Presidenti Salvatore Di Maio, Matilde Cerrone, Vincenzo Corrado, Carmela Zito 08.30 Pre-test 08.45 Saluto del Presidente dell’OSDI-Campania Francesco de Lillo PRIMA SESSIONE Il trattamento del Diabete all’esordio e nuove forme di diabete 09.00 La chetoacidosi diabetica ed il Protocollo GETREM Francesca Casaburo 09.20 Il diabete neonatale Ciretta Pelliccia 09.40 Il diabete tipo 2 dell’adolescente Santino Confetto 10.00 L’alimentazione del bambino con diabete Francesca Musella SECONDA SESSIONE La tecnologia nel diabete tipo 1 10.20 La terapia con microinfusore di insulina Angela Zanfardino 10.40 Nuove metodiche di somministrazione dell’insulina: dal My Tube all’insulina aerosol Francesca Pisani 10.50 L’holter glicemico in gravidanza Fabrizio Stoppoloni 11.10 Coffee break con fotografia del Corso TERZA SESSIONE Il diabete tipo 1 adulto 11.30 Problematiche del paziente con diabete tipo 1 adulto Maria Rosaria Masella 11.50 La nefropatia diabetica Alessia Piscopo 12.10 Complicanze oculari del diabete mellito Teo Liboldi 12.30 Discussione generale 13.00 Pranzo-buffet Durante il buffet si potrà continuare a discutere con i protagonisti dei principali temi trattati. 14.00 Gli strumenti per il monitoraggio del paziente con diabete in età pediatrica: “Dalla glicosuria all’holter glicemico e … ritorno”. Possibilità di visionare ed applicare praticamente i sistemi più recenti di automonitoraggio del diabete. I partecipanti saranno divisi in piccoli gruppi ciascuno affidato a un Tutor. 15.30 Fine parte teorica e somministrazione dei post-test teorico Tutors Maria Di Bernardo, Sara Sessa, Eugenio De Felice, Nicola Ingenito Il corso è a numero chiuso e potranno partecipare soltanto 50 infermieri professionali. 28 PROGRAMMA Relatori e moderatori Chairmen and moderators Lanfranco Acampora - Caserta Rino Agostiniani - Pistoia Mariolina Alessio - Napoli Daniela Ammazzini - Pistoia Generoso Andria - Napoli Roberto Antonucci - Cagliari Jack W. Aranda - New York Gaetano Ausanio - Caserta Chiara Azzari - Firenze Marco Baldoni - Milano Luigi Balestrieri - Napoli Angelo M. Basilicata - Benevento Elena Bernabei - Aversa Italo Bernardo - Caserta Stefano Bruni - Modena Giuseppe Caianiello - Napoli Elio Caliendo - Salerno Antonio Campa - Napoli Luigi Cantelli - S. Maria Capua Vetere Fiorina Casale - Napoli Giuseppe Casale - Sessa Aurunca Maria Pia Capasso - Aversa Antimo Cappello - Piedimonte Matese Salvatore Caputo - Benevento Giuseppe Caramia - Ancona Fernando Carangi - Napoli Virgilio Carnielli - Ancona Tommasina Carra - Aversa Francesca Casaburo - Napoli Ettore Cataldi - Cassino Luigi Cataldi - Roma Giacomo Cecere - Bari Matilde Cerrone - Aversa Carla Cervoni - Roma Giovanni Chello - Napoli Robert L. Chevalier - Charlottesville Alberto Chiara - Crema Gerardo Chirichiello - Avellino Gaetano Chirico - Brescia Roberto Cinelli - Vico Equense Carlo Cioffi - Aversa Lina Cioffi - Caserta Santino Confetto - Napoli Concetta Coppola - Aversa Antonio Correra - Napoli Giuseppe Claps - Roma Adele Coccia - Caserta Andrea Colella - Aversa Giuseppe Colucci - Ostuni Angelo Elio Coletta Spinella - Messina Vincenzo Comune - Giugliano in C. Raffaele Coppola - Aversa Giovanni Corsello - Palermo Alfio Cristaldi - Roma Gaetano Danzi - Aversa Annamaria D’Amore - Aversa Alfonso D’Apuzzo - Gragnano Gabriella De Cicco - Roma Roberto Della Casa - Napoli Giuseppe Della Corte - Aversa Ennio Del Giudice - Napoli Patrizia De Ninno - Aversa Pasquale De Rosa - Napoli Giuseppe Di Mauro - Aversa Francesco Di Meo - Sessa Aurunca Pasquale Di Pietro - Genova Marzia Duse - Roma Matilde Esposito - Napoli Pinella Errico - Benevento Claudio Fabris - Torino Luigi Falco - Caserta Vassilios Fanos - Cagliari Pasquale Femiano - Caserta Assunta Filippelli - Caserta Lorena Franceschelli - Lucca Maria Franzese - Aversa Alba Frontini - Bari Paolo Gancia - Cuneo Sabrina Gianni - Lucca Paolo Giliberti - Napoli Arturo Giustardi - Napoli Gennaro Golia - Aversa Franca Golisano - Cento Dario Iafusco - Napoli Paolo Indolfi - Napoli Raffaele Iorio - Napoli Maurizio Ivaldi - Genova Giuliana Lama - Napoli Teo Liboldi - Napoli Roberto Liguori - Marcianise Vincenzo Liguori - Maddaloni Riccardo Longhi - Como Francesco Lotito - Napoli Marcello Maddalone - Milano Paolo Manzoni - Torino Antonio Marte - Napoli Maria Rosaria Masella - Aversa Daniela Meoli - Benevento Gianni Messi - Trieste Franco Messina - Napoli Giorgina Mieli Vergani - Londra Domenico Minasi - Polistena PROGRAMMA Relatori e moderatori Chairmen and moderators Francesca Musella - Napoli Luciano Musi - Vicenza Carla Navona - Pietraligure Salvatore Mariconda - Napoli Corrado Moretti - Roma Laure Morganti - Ascoli Piceno Raffaella Mormile - Aversa Michele Mussap - Genova Felice Nunziata - Solofra Luigi Orfeo - Benevento Agostina Pagliuca - Aversa Luciano Palmiero - Marcianise Roberto Paludetto - Napoli Francesco Papadia - Bari Franco Paravati - Crotone Goffredo Parisi - Vasto Giuseppe Parisi - Ischia Carmine Pecoraro - Napoli Lodovico Perletti - Milano Domenico Perri - Aversa Immacolata Piccirillo - Aversa Franca Piccolo - Aversa Giovanni Piedimonte - Morgantown Ippolito Pierucci - Sapri Luciano Pinto - Napoli Maria C. Pintus - Cagliari Denis Pisano - Cagliari Alberto Podestà - Milano Francesco Prisco - Napoli Rosaria Raffaelli - Pistoia Francesco Raimondi - Napoli Maria C. Regia Corte - Vasto Massimo Resti - Firenze Vincenzo Riccardi - Pollenatrocchia Enrico Risolo - Ariano Irpino Attilio Romano - Caserta Giorgio Rondini - Pavia Carla Russo - Aversa Francesco Saitta - Pozzuoli Antonio Savanelli - Napoli Alda Scarcella - Napoli Alessandro Settimi - Napoli Carmela Sollo - Caserta Marco Somaschini - Bergamo Monika Stablum - Bolzano Mauro Stronati - Pavia Luciano Tatò - Verona Gianfranco Temporin - Rovigo Roberto Trunfio - Locri Giuseppe Tumminelli - Caltanissetta Alberto G. Ugazio - Roma Massimo Ummarino - Napoli Pietro Vajro - Napoli Maria Vendemmia - Caserta Nicola Vendemmia - Nancy Salvatore Vendemmia - Aversa Diego Vergani - Londra Giuseppe Vergara - Torre del Greco Gennaro Vetrano - Benevento Antonio Vitale - Avellino Renato Vitiello - Boscoreale Alberto Villani - Roma Carlo Vosa - Napoli Rinaldo Zanini - Lecco Carmela Zito - S. Maria Capua Vetere Piero Ugo Zucchinetti - Genova 29 I CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOCIETA’ ITALIANA DI PEDIATRIA OSPEDALIERA (SIPO) XII CONGRESSO INTERNAZIONALE: Problematiche in Pediatria e Neonatologia XVI INTERNATIONAL WORKSHOP ON NEONATAL NEPHROLOGY RELAZIONI CORSO DI FORMAZIONE ED AGGIORNAMENTO SULLA DIAGNOSI MOLECOLARE DI INFEZIONI INVASIVE DA PNEUMOCOCCO, MENINGOCOCCO, HAEMOPHILUS INFLUENTIAE 27 NOVEMBRE 2008 Direttori: Chiara Azzari, Gaetano Danzi, Massimo Resti Presidenti: Giorgio Rondini, Pasquale Femiano Moderatori: Lanfranco Acampora, Italo Bernardo, Immacolata Piccirillo, Enrico Risolo Alberto G. Ugazio CORSO DI FORMAZIONE 33 DIAGNOSTICA MOLECOLARE: UN METODO PER TUTTI? C. Azzari, F. Ghiori, E. Laudani, G. Giusti, C. Canessa, M. Resti Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze I metodi molecolari- PCR (Polymerase Chain Reaction) e Real-time PCR- rappresentano uno strumento diagnostico molto sensibile di infezioni batteriche, applicabile per tutte le patologie e tutte le fasce d’età. Essi infatti amplificano il DNA di una regione selezionata del genoma batterico e la PCR Real-time, oltre a consentire una quantificazione della carica batterica, permette di individuare più geni in una sola reazione, quindi può essere utilizzata per l’analisi contemporanea di più germi in uno stesso campione. Inserendo quindi diversi primers corrispondenti a sequenze geniche note di vari patogeni, si possono allestire reazioni per pannelli di germi specifici a seconda del sospetto clinico e dell’età del paziente. Inoltre la PCR-Real time è idonea per la ricerca di germi in tutti i liquidi biologici: escreato, secrezioni nasofaringee, liquido pleurico, essudato di otite media, oltre che sangue e liquido cefalo-rachidiano. Infine sono metodi semplici e spesso automatici, offrono risultati in tempi rapidi e per questo sono utilizzabili in tutti i laboratori, anche in ospedali meno attrezzati. In corso di infezione è possibile identificare la presenza del patogeno in causa avvalendoci, oltre che di metodi colturali, anche di tests molecolari (1), in particolare della Polymerase Chain Reaction (PCR) e della Real-time PCR (RT-PCR). Queste sono tecniche estremamente sensibili e specifiche per la diagnosi di infezioni batteriche (2), che si basano sulla ricerca di frammenti del genoma del microrganismo nei campioni biologici. Le tecniche molecolari possono essere effettuate sia direttamente sul campione che su un isolato ottenuto da coltura, come conferma diagnostica. La PCR consente l’individuazione e l’amplificazione anche di una sola molecola di DNA in pressoché ogni tipo di campione, permettendo di ottenere una semplice e rapida diagnosi di infezione batterica. Il presupposto per l’utilizzo della PCR è la parziale conoscenza del tratto di DNA che si vuole amplificare. E’ quindi necessario sequenziare tratti del genoma batterico, e soprattutto stabilire quali sono i geni peculiari del microrganismo che si vuole ricercare, in modo da poterlo differenziare da altri. Sono tests facili da attuare, automatici e utilizzabili anche negli ospedali meno attrezzati; risultano meno costosi e più rapidi dei colturali. In particolare la RT-PCR è ancora più vantaggiosa della PCR standard: è più rapida, essendo necessari soltanto 45 minuti per avere un risultato, contro le 4 ore della tecnica tradizionale. Altro problema della PCR standard è che la procedura necessita di numerose manipolazioni con conseguente rischio di contaminazione crociata; le procedure richieste per l’RT-PCR sono invece meno numerose e più semplici. Diversamente dai metodi colturali, sono sufficienti piccole quantità di campioni biologici, vantaggio importante soprattutto nei pazienti pediatrici. Inoltre non richiedono batteri vivi e non vengono quindi influenzati dall’autolisi che talvolta si verifica nei terreni di coltura. Possono essere effettuati anche in pazienti precedentemente trattati con antimicrobici (3). La terapia antibiotica compromette la vitalità del germe, rendendo difficoltosa la crescita del microrganismo nei terreni di coltura e quindi la diagnosi colturale, mentre ha un effetto minore per i metodi molecolari. Tali strumenti diagnostici possono essere utilizzati per tutti i pazienti, indipendentemente dall’età e dal tipo di malattia. Naturalmente, a seconda della sede di patologia, i tests saranno applicati a campioni clinici prelevati da diversi distretti. Ad esempio in caso di polmonite verrà analizzato un campione di sangue (che risulterà positivo solo nel caso in cui l’infezione si associ a batteriemia), escreato o liquido pleurico; il liquido cefalorachidiano, peritoneale, articolare verranno analizzati rispettivamente in caso di meningite, peritonite, artrite; essudato in caso di otite media. In un qualsiasi campione biologico è anche possibile rivelare, in una sola reazione di RT-PCR, la presenza di geni diversi. In base al sospetto clinico e all’età del paziente si possono allestire reazioni che utilizzano miscele contenenti sonde specifiche per sequenze geniche di diversi germi e marcate con vari tipi di CORSO DI FORMAZIONE 34 fluorocromi. Durante un processo infettivo, sui vari campioni biologici, è possibile quindi saggiare contemporaneamente le presenza di diversi patogeni (Streptococcus pneumoniae, H. influenzae, N. meningitidis, Chlamydia, Legionella) semplicemente utilizzando diverse sonde, ognuna marcata in modo diverso e con target specifico per un determinato microrganismo. Si parla in tal caso di reazione in Multiplex, che consente di fare una diagnosi eziologica in qualsiasi campione (escreato, liquido pleurico, tampone faringeo, liquor, sangue) (1, 4). Sono stati creati pannelli di Multiplex PCR specifici per la diagnosi eziologica delle singole patologie, considerando i patogeni maggiormente in causa nell’infezione dei singoli distretti. Ad esempio in caso di polmonite verranno utilizzate sonde specifiche che permettano di individuare contemporaneamente la presenza di M. pneumoniae, S. pneumoniae, C. pneumoniae e di altri germi più frequenti (5); pannelli per meningite che ricercano pneumococco, meningococco, H. influenzae (1); pannelli per artrite, per la ricerca di pneumococco, Salmonella, Stafilococco ed altri germi. Questi tests sono diagnostici se risultano positivi in campioni ottenuti da siti normalmente sterili quali liquor, sangue o liquido pleurico; se effettuati in tamponi faringei, essudato di otite media o altri campioni ottenuti da distretti colonizzati da patogeni anche nel paziente sano, la positività al test risulta indicativa per un’infezione solo se accompagnati da un quadro clinico caratteristico (6). Un’ulteriore conferma può essere fornita dalla quantificazione della carica batterica (7, 8). I metodi molecolari presentano un altro importante vantaggio: permettono una diagnosi quantitativa oltre che qualitativa dei batteri (9, 10). La Real-Time PCR permette di monitorizzare l’amplificazione del DNA durante lo svolgimento della reazione stessa mediante sonde fluorescenti (11, 12). In tal modo è possibile quantificare il patrimonio genetico contenuto nel campione prima dell’amplificazione, in base alla velocità con cui il segnale fluorescente raggiunge un determinato livello soglia (13). La determinazione quantitativa nella PCR tradizionale avviene alla fine del processo di amplificazione, quando le condizioni non sono ottimali e la misura risulta meno precisa; nell’RT-PCR invece la quantificazione, mediante fluorescenza, avviene durante il processo stesso di amplificazione, mostrando una migliore accuratezza (14). La determinazione quantitativa del DNA batterico è utile sia per confermare casi dubbi di RT-PCR (6), sia ai fini prognostici. Studi fatti in bambini con infezioni batteriche invasive hanno mostrato infatti una correlazione tra carica batterica e mortalità (5). I metodi molecolari possono essere utilizzati anche per la tipizzazione dei sierotipi di alcuni microrganismi (ad esempio di Streptococcus pneumoniae) (15). La Multiplex PCR, metodica resasi disponibile di recente, è un test molecolare che ha consentito di cercare diversi tipi sierologici direttamente nel campione biologico (sangue, liquor). Nella stessa miscela possono essere testati numerosi sierotipi (16, 17). Ciò ha consentito di monitorare i tipi di un determinato patogeno maggiormente responsabili di infezioni, permettendo in tal modo di attuare strategie vaccinali idonee e specifiche (10), e tenere sotto controllo il fenomeno dello shift dei sierotipi che si può verificare per alcuni patogeni (ad esempio per lo pneumococco) sia spontaneamente che dopo la vaccinazione. Fino a poco tempo fa, le uniche metodiche per valutare la distribuzione sierotipica erano tests sierologici o molecolari effettuati su colture batteriche; risultava quindi necessario poter disporre di campioni colturali positivi, che rappresentano però un ostacolo per la diagnosi (18-19). I metodi colturali infatti inducono una sottostima della reale incidenza dei sierotipi, poiché è possibile tipizzare soltanto i batteri cresciuti in coltura. In conclusione, la maggiore sensibilità dei tests molecolari rispetto ai metodi colturali è indubbia, come dimostrato da numerosi studi, qualunque sia l’età del paziente e qualunque siano i campioni biologici su cui viene ricercato il germe. CORSO DI FORMAZIONE 35 Bibliografia 1. Corless CE, Guiver M, Borrow R et al. Simultaneous detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae, and Streptococcus pneumoniae in suspected cases of meningitis and septicemia using real-time PCR. J Clin Microbiol. 2001;39:1553-1558. 2. Carvalho MG, Tondella ML, McCaustland K. et al. Evaluation and improvement of real-time PCR assays targeting lyt, ply, and psaA genes for detection of pneumococcal DNA. J Clin Microbiol. 2007;45:2460-2466. 3. Tarallo L, Tancredi F, Schito G. et al. Italian Pneumonet Group (Società Italiana Pediatria and Associazione Italiana Studio Antimicrobici e Resistenze). Active surveillance of Streptococcus pneumoniae bacteremia in Italian children. Vaccine. 2006;24(47-48):6938-6943. 4. Poulter MD, Deville JG, Cherry JD. et al. Real-time fluorescence polymerase chain reaction (PCR) identification of Streptococcus pneumoniae from pleural fluid and tissue. Scand J Infect Dis. 2005;37(5):391-2. 5. Kais M, Spindler C, Kalin M. et al. Quantitative detection of Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, and Moraxella catarrhalis in lower respiratory tract samples by real-time PCR. Diagn Microbiol Infect Dis. 2006;55(3):169-78. 6. Murdoch DR. Nucleic acid amplification tests for the diagnosis of pneumonia. CID 2003;36: 1162-70. 7. Greiner O, Day PJ, Bosshard PP. et al. Quantitative detection of Streptococcus pneumoniae in nasopharyngeal secretions by real-time PCR. J Clin Microbiol. 2001;39(9):3129-34. 8. Yang S, Lin S, Khalil A. et al. Quantitative PCR assay using sputum samples for rapid diagnosis of pneumococcal pneumonia in adult emergency department patients. J Clin Microbiol. 2005;43(7):3221-6. 9. Carrol ED, Guiver M, Nkhoma S. et al. High pneumococcal DNA loads are associated with mortality in Malawian children with invasive pneumococcal disease. Pediatr Infect Dis J. 2007;26(5):416-422. 10. Azzari C, Resti M. Reduction of carriage and transmission of Streptococcus pneumoniae: the beneficial “side effect” of pneumococcal conjugate vaccine. Editoria commentary. Clin Infect Dis 2008, 47: 997-999. 11. Higuchi R, Fockler C, Dollinger G. et al. Kinetic PCR analysis: real-time monitoring of DNA amplification reactions. 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Sequential multiplex PCR approach for determining capsular serotypes of Streptococcus pneumoniae isolates. J Clin Microbiol. 2006;44:124-131. 18. Azzari C, Moriondo M, Massai C. et al. Realtime PCR and sequential mulptiplex PCR on clinical samples are useful tools in the diagnosis of pediatric invasive pneumococcal infections. 25th 25th Annual meeting of the European society for paediatric infectious diseases; Porto, Portugal, May 2-4, 2007. Abstract book, n.18. 19. Azzari C, Moriondo M, Massai C. et al. Incidence of pneumococcal invasive infections in a paediatric population as evaluated by molecular methods. 25th Annual meeting of the European society for paediatric infectious diseases; Porto, Portugal, May 2-4, 2007. Abstract book, n.118. CORSO DI FORMAZIONE 36 EPIDEMIOLOGIA E CLINICA DELLE MENINGITI M. Resti, G. Giusti, F. Ghiori, E. Laudani, C. Canessa, C. Azzari Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze In Italia sono notificati ogni anno circa 900 casi di meningite batterica. Circa un quarto delle meningiti batteriche si verifica nei bambini tra 0 e 14 anni e il patogeno chiamato in causa più frequentemente è N. meningitidis, che provoca circa 100 casi di meningite all’anno, con 2 picchi d’incidenza, fino ai 5 anni e negli adolescenti, ed una letalità del 15%. In Italia i meningococchi più diffusi sono il B e il C. Fino al 2005 prevalevano le forme da ceppo C; da allora, con l’introduzione della vaccinazione anti-meningococco C, l’incidenza in generale si è ridotta e la situazione si è capovolta a favore del ceppo B. Il germe provoca una grave meningite ad esordio improvviso, che nei casi più gravi si associa meningococcemia; questa può essere lieve, con manifestazioni cutanee di tipo petecchiale, o di tipo fulminante, che evolve in stato settico, con porpora, CID e morte in poche ore. La meningite da S. pneumoniae invece, in età pediatrica colpisce elettivamente i bambini di età inferiore ai 5 anni, fascia d’età in cui ogni anno si verificano da 1 a 3 casi ogni 100.000 bambini, con una letalità del 10% circa. Dei 90 sierotipi noti, il 4, 6, 9A, 9V e 23 F sono quelli principalmente associati a meningite. Esordisce con febbre, irritabilità, cefalea, fotofobia, nausea e vomito, confusione mentale, letargia e sintomi più specifici, quali rigidità nucale, segni di irritazione meningeale, convulsioni, fontanella bombata nel lattante e, tardivamente, coma. Da entrambe le forme, possono derivare esiti permanenti, quali epilessia, ritardo mentale e difetti neurosensoriali, più frequenti e gravi nella forma pneumococcica. L’incidenza di meningite da H. influenzae tipo B, con caratteristiche cliniche sovrapponibili a quelle delle altre forme batteriche, è drasticamente diminuita con l’introduzione dal 1995 della vaccinazione dei nuovi nati. E’disponibile in Toscana una nuova metodica per la sorveglianza di queste ed altre malattie invasive batteriche, basata su tecniche di biologia molecolare, che non solo consente la diagnosi eziologica di un numero di casi di meningite molto maggiore rispetto a quello ottenuto con i metodi tradizionali, ma permette anche di effettuare un’analisi dei sierotipi responsabili delle varie forme. Ciò consentirà in futuro di definire ancora meglio l’epidemiologia delle meningiti nel nostro paese. Epidemiologia e clinica delle meningiti batteriche in Italia Le meningiti batteriche sono infezioni acute delle meningi causate da batteri molto gravi soprattutto in età pediatrica e sono considerate vere e proprie emergenze neurologiche per l’elevata incidenza di complicanze acute e di sequele nonché per l’alto grado di letalità (1). L’incidenza annuale nei paesi occidentali è circa 2-5 casi su 100 000. I tre maggiori agenti patogeni sono lo Streptococcus pneumoniae, il Neisseria meningitidis e l’Haemophilus influenzae di tipo b (Hib) (2), anche se, soprattutto in età neonatale, possono essere coinvolti altri batteri tra cui Streptococcus di gruppo B, Listeria Monocytogenes, Staphilococchi, Eschierichia Coli e Klebsiella (3). In Italia sono notificati ogni anno circa 900 casi di meningite batterica, delle quali circa un quarto si verifica nei bambini tra 0 e 14 anni. In questa fascia di età (in particolare dopo i 2 anni di vita) il patogeno chiamato in causa più frequentemente è N. meningitidis (2), che provoca circa 100 casi di meningite all’anno. In Italia vengono notificati in media per anno circa 3-6 casi su un milione di abitanti, quota più bassa della media europea che è di circa 14 casi per milione di abitanti l’anno. L’infezione ha abitualmente due picchi d’incidenza: nei primi 5 anni di vita e in età adolescenziale. Il secondo picco che precedentemente si osservava tra i 15 e 19 anni, adesso si è spostato verso i 20-25 anni. La letalità in età pediatrica è di circa il 15% (4). CORSO DI FORMAZIONE 37 Esistono diversi sierotipi di meningococco, tra questi i più importanti dal punto di vista epidemiologico sono: A, B, C, W 135, Y. In Italia i meningococchi più diffusi sono il B e il C. Fino al 2005, anno in cui è stata introdotta la vaccinazione anti-meningococco di gruppo C, prevalevano le forme da ceppo C; da allora l’incidenza in generale si è ridotta e la situazione si è capovolta a favore del ceppo B, evento che può ritenersi positivo in quanto il sierotipo B è meno frequentemente causa di infezioni fatali (5). La vaccinazione è prevista dal 2005 oltre che per le categorie ad alto rischio (soggetti con patologie croniche quali talassemia, anemia falciforme, DM tipo 1, asplenia, insufficienza renale, immunodepressione, malattie cardiovascolari, epatopatie croniche, deficit del complemento) anche per tutti i nuovi nati (1 dose al 3° mese, 2 dose al 5° mese, 3 dose spostata dal 1° al 2° anno di vita nel 2007). Da luglio 2008 il calendario vaccinale è stato modificato e adesso comporta la vaccinazione in dose singola di due coorti: 13°-15° mese di vita e al 12°-14° anno di età. La meningite da S. pneumoniae invece, in età pediatrica, colpisce elettivamente i bambini di età inferiore ai 5 anni, fascia d’età in cui ogni anno si verificano da 1 a 3 casi ogni 100.000 bambini (6), con una letalità del 10% circa (4). Dei 90 sierotipi noti, quelli principalmente associati a meningite sono il 4, 6, 9A, 9V e 23 F. Anche per lo Pneumococco esiste un vaccino di tipo coniugato eptavalente, che copre i 7 sierotipi principalmente implicati nelle forme di infezione più gravi (sierotipi 4, 6B, 9V, 14, 18C, 19F, 23F) (7, 8). In Toscana dal luglio 2008 la vaccinazione sarà resa gratuita per alcune categorie a rischio (Broncopneumopatici cronici, cardiopatici cronici, asplenismo, DM..) e per tutti i nuovi nati. Il calendario vaccinale prevede la somministrazione di tre dosi in associazione all’esavalente. La meningite da H. Infuenzae colpisce prevalentemente i soggetti minori di 4 anni di età con un picco nel primo anno di vita. L’incidenza di meningite da H. influenzae di tipo B è drasticamente diminuita con l’introduzione nel 1995 della vaccinazione per tutti i nuovi nati (9). Sicuramente l’introduzione del vaccino coniugato nell’esavalente ha contribuito in modo decisivo ad aumentare la copertura vaccinale per l’effetto di trascinamento dei vaccini obbligatori contenuti nell’esavalente. Infatti fino all’introduzione del vaccino circa il 70% delle meningiti batteriche nei minori di 5 anni erano determinate da questo agente patogeno. In Italia nel 1995 l’H. Influenzae è stato il responsabile del 20% delle meningiti totali, mentre già nel 2004 la quota è scesa all’ 1, 8%. Di queste meningiti, la maggior parte è inoltre causata ad oggi da ceppi di H. Influenzae non B. La letalità della meningite da H. Influenzae è di circa il 5% (4). Le meningiti batteriche in Italia hanno subito alcune variazioni nel corso degli ultimi 10 anni: l’incidenza generale è in diminuzione, l’infezione da N. Meningitidis ha avuto un picco nel 2004-2005 e attualmente (grazie anche all’introduzione della vaccinazione) è in discesa, l’infezione da S. Pneumoniae resta tuttora stabile, la meningite da H. Influenzae di tipo B è diminuita progressivamente in seguito all’introduzione della vaccinazione e attualmente è quasi assente in Italia (10). Le meningiti batteriche si trasmettono tramite il contatto diretto con il malato o con un portatore del batterio patogeno o per inalazione di drops attraverso le alte vie aeree superiori e conseguente colonizzazione delle superfici mucose. Nel periodo neonatale il contatto con l’agente infettivo avviene prevalentemente nel passaggio attraverso il canale del parto (forme a esordio precoce, nei primi 5 giorni di vita) oppure è causato da germi nosocomiali acquisiti in occasione del ricovero per contatto diretto con il personale assistenziale (forme tardive, dopo il settimo giorno di vita). L’infezione si sviluppa in seguito alla penetrazione dell’agente patogeno nello spazio subaracnoideo. Essa può avvenire per via ematogena con il superamento della barriera ematoencefalica a livello dei plessi corioidei e dei capillari cerebrali, per contiguità da infezioni delle vie aeree superiori (otiti, mastoiditi, sinusiti) e dall’esterno per soluzioni di continuo (congenite, traumatiche, iatrogene)(11). L’invasione delle meningi da parte dei patogeni determina un’intensa risposta infiammatoria sostenuta dall’ospite contro il batterio e i suoi componenti strutturali che è concausa del danno neurologico. Infatti il contatto con il patogeno e la sua replicazione a livello del sistema nervoso centrale determinano la liberazione da parte delle cellule endoteliali cerebrali e dei macrofagi di citochine proinfiammatorie (TNF-alfa, IL-1, IL-6, IL-8) che determinano la chemiotassi dei leucociti polimorfonucleati e aumentano la CORSO DI FORMAZIONE 38 permeabilità capillare generando edema cerebrale e flogosi (12). Per tale motivo è di comprovata utilità l’impiego di desametasone in corso di meningiti batteriche. Il farmaco infatti è in grado di prevenire il danno neurologico irreversibile riducendo le sequele permanenti, in particolar modo se dato prima della somministrazione dell’antibiotico che genera lisi batterica e quindi incrementa il processo flogistico. Le caratteristiche cliniche delle meningiti batteriche non ci permettono di fare una diagnosi differenziale tra le varie forme. Esse presentano segni e sintomi aspecifici di infezione, manifestazioni di irritazione meningea ed ipertensione endocranica e segni di tipo neurovegetativo. La malattia è solitamente preceduta da un periodo prodromico caratterizzato da febbre accompagnata da sintomi di infezione delle alte vie respiratorie o di gastroenterite. In particolare la meningite da pneumococco è frequentemente preceduta da un’infezione delle vie aeree determinata dallo stesso agente (otite media, sinusite, polmonite). Anche la meningite da Hib può essere preceduta da un’infezione determinata dall’ Hib stesso delle alte o basse vie aeree. Questi primi segni e sintomi sono poi seguiti da aspecifici segni di interessamento del SNC quali irritabilità e letargia. Durante il periodo di stato, la malattia è accompagnata da segni e sintomi di compromissione generale quali febbre elevata (39-40°), quadro francamente settico, anoressia e diminuzione del peso corporeo, possibile presenza di rash cutaneo con tendenza allo sviluppo di petecchie (condizione più frequente in corso di meningite meningococcica). Contemporaneamente si sviluppano i segni da irritazione meningea e delle radici nervose (rigidità nucale, segno di Kernig, segno di Brudzinsky, segno di Lasegue, segno di Binda, posizione a cane di fucile), segni caratteristici di ipertensione endocranica (cefalea intensa, vomito a getto senza nausea, fontanella bombata nel lattante, papilla da stasi), segni di sofferenza cerebrale (convulsioni, paresi o paralisi dei nervi spinali, spasmi tonici di gruppi muscolari, alterazione dei riflessi e dello stato di coscienza fino al coma), segni neurosensoriali e vegetativi (fotofobia, ipersensibilità ai rumori, iperestesia, dermografismo, alterazioni del respiro, bradicardia, stipsi, paralisi vescicale) (13-16). In età pediatrica molto spesso è difficile porre diagnosi di meningite sulla base della clinica perché i segni caratteristici sono rari e tardivi (17). Soprattutto nel periodo neonatale il quadro resta spesso sfumato, aspecifico e indistinguibile da una sepsi ed è generalmente caratterizzato da febbre, irritabilità, letargia, pianto non consolabile, anoressia e perdita di peso. Sono possibili segni quali vomito e diarrea o segni di distress respiratorio (14, 18). Caratteristica può essere la presenza di fontanella bombata mentre i tipici segni di Kernig, Brutzinski e la rigidità nucale sono spesso assenti (19). L’infezione può avere decorso molto variabile (fulminante, acuto o subacuto). La meningite meningococcica ha solitamente un esordio improvviso con un’incubazione breve da 2 a 10 giorni (media 3-4 giorni). Essa può in alcuni casi evolvere in una forma settica di tipo fulminante caratterizzata da porpora, CID, necrosi surrenalica e morte in poche ore (Sindrome di Waterhouse Friderichsen) (20). L’infezione delle meningi, soprattutto in epoca neonatale, può essere seguita da alcune complicanze acute che peggiorano il quadro e più frequentemente comportano gravi sequele o sono causa del decesso del paziente: idrocefalo acuto, ascesso, empiema subdurale, edema cerebrale, infarti emorragici (4). Dalle meningiti batteriche possono derivare inoltre esiti permanenti anche gravi quali epilessia, ritardo mentale, difficoltà di apprendimento, alterazioni del comportamento, disabilità neuromotorie, e difetti neurosensoriali (perdita di udito prevalentemente), più frequenti e gravi nella forma pneumococcica (21). La diagnosi di meningite batterica si basa sull’analisi del liquor e sulla positività dell’esame colturale su liquor cefalorachidiano (LCR) o su siero (17, 22). Nel sospetto quindi di meningite va eseguita prima possibile una puntura lombare (1). In alcuni casi (in presenza di segni neurologici focali, instabilità cardiovascolare ed edema della papilla), al fine di escludere la presenza di ascesso cerebrale o di edema cerebrale generalizzato è opportuno effettuare prima della puntura lombare un esame radiologico (TC/ RMN) per non mettere il paziente a rischio di erniazione cerebrale. L’esame chimico fisico del LCR in corso di meningiti batteriche è caratterizzato da aspetto torbido, presenza di numerosi leucociti, prevalentemente di tipo polimorfonucleato, bassi livelli di glicorrachia (eseguita in rapporto alla glicemia), aumentata CORSO DI FORMAZIONE 39 proteinorrachia. L’esame del sedimento può mostrare l’agente eziologico, attraverso varie colorazioni (Gram, blu di metilene o Giemsa). Esame diagnostico di prima scelta resta la coltura. Purtroppo l’esame colturale ha il limite di richiedere la presenza del batterio vivo all’interno del campione preso in esame e il risultato è notevolmente influenzato dalla terapia antibiotica (23). Il ritardo di esecuzione del prelievo di LCR comporta che questo sia effettuato spesso dopo aver iniziato l’antibiotico empirico. La sensibilità dell’esame colturale nella diagnosi di meningite è di circa l’85-90% nelle prime 24-48 ore e scende al 56% se è stata effettuata una terapia antibiotica (23). Per tali motivi consideriamo l’incidenza delle meningiti batteriche una sottostima del reale valore dato che la diagnosi si basa sull’esame colturale. Le nuove metodiche di biologia molecolare (PCR e Real-time PCR) permettono una valutazione epidemiologica più accurata in quanto non richiedono la presenza del batterio vivo né sono influenzate dalla terapia antibiotica (24). La sensibilità di questi test è infatti del 95-100% e, confrontata con essi, la coltura ha una sensibilità almeno del 30% inferiore. Un ulteriore vantaggio è dato dalla rapidità della risposta che ci permette una diagnosi molto precoce e l’immediata scelta della terapia specifica (25). In Toscana è disponibile una nuova metodica per la sorveglianza di queste ed altre malattie invasive batteriche, basata su tecniche di biologia molecolare, che permette la diagnosi eziologica di un numero di casi di meningite molto maggiore rispetto a quello ottenuto con i metodi tradizionali e consente inoltre di effettuare un’analisi dei sierotipi responsabili delle varie forme. Grazie a questa tecnica è anche possibile individuare contemporaneamente geni specifici di germi diversi. Sono stati pertanto creati pannelli diversi per la ricerca combinata dell’insieme di batteri che più probabilmente è causa di malattia: ad esempio il pannello per meningite nel bambino comprende Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae, Hib mentre quello per meningite nel lattante minore di 3 mesi comprende Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Streptococcus pneumoniae, Streptococcus β emolitico del gruppo B. Ciò consentirà in futuro di definire ancora meglio l’epidemiologia delle meningiti batteriche nel nostro paese. La terapia delle meningiti di sospetta eziologia batterica si attua in maniera empirica tramite antibiotici efficaci contro i germi più probabilmente implicati nella patogenesi della malattia in relazione all’età del paziente. Nel neonato attualmente si usa l’associazione di ampicillina e cefotaxime, farmaco con un buon passaggio della barriera ematoencefalica e meno tossico degli aminoglicosidi che venivano usati precedentemente. Nel bambino senza allergie alle penicilline sono di prima scelta le cefalosporine di terza generazione (1). Fatta la diagnosi il trattamento di scelta per le meningiti da Hib restano le cefalosporine di terza generazione, per le meningiti pneumococciche si predilige la Vancomicina (26) mentre per quelle da meningococco è in uso tuttora la Penicillina G. Bibliografia 1. Chaudhuri A, Martin PM, Kennedy PGE et al. EFNS guideline on the management of community-acquired bacterial meningitis: report of an EFNS Task Force on acute bacterial meningitis in older children and adults. European Journal of Neurology 2008; 15: 649-659 2. Theodoridou NM et al. Meningitis registry of hospitalized cases in children: epidemiological patterns of acute bacterial meningitis throughout a 32-year period. BMC Infectious Diseases 2007; 7:101 3. Dickinson OF and Pérez EA. Bacterial Meningitis in children and adolescents: an observational study based on the national surveillance system. 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Azzari Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze Le malattie batteriche invasive (sepsi, meningiti, polmoniti complicate) sono molto diffuse in età pediatrica, e, se non tempestivamente riconosciute e trattate, possono essere anche mortali. La loro incidenza tuttavia è sottostimata, in quanto è ottenuta utilizzando metodi colturali che sono scarsamente sensibili; infatti, richiedendo la presenza del germe vivo nel campione analizzato, risentono dell’eventuale terapia antibiotica instaurata prima dell’esame. La più alta incidenza di forme invasive da pneumococco in Italia registrata utilizzando i metodi tradizionali è stata di 6-11/100.000 nei bambini di età inferiore ai 2 anni. Utilizzando metodiche di biologia molecolare, si ottengono dati d’incidenza molto superiori; tali indagini infatti non richiedono la presenza di germi vivi nel campione biologico, ma permettono di identificare il DNA di origine batterica e quindi di porre la diagnosi del patogeno con estrema sensibilità. Uno studio effettuato nel nostro Ospedale per valutare l’incidenza di malattia invasiva da pneumococco nei bambini di età inferiore ai 2 anni nella provincia di Firenze, utilizzando entrambi i metodi, ha mostrato valori di 11.5/100.000 casi con la coltura e 51.8/100.000 casi con i metodi molecolari. L’incidenza di malattia invasiva pneumococcica appare dunque da 5 a 10 volte maggiore utilizzando la biologia molecolare rispetto ai metodi colturali. I batteri sono responsabili di numerosi casi di infezione, alcuni dei quali particolarmente gravi da causare la morte del paziente se non diagnosticati e trattati in tempo. La reale incidenza delle infezioni invasive (polmoniti, meningiti, batteriemie, sepsi) è probabilmente sottostimata. Questo dipende in gran parte dal fatto che le metodiche tradizionali colturali, usate routinariamente per la diagnosi, non possiedono un’alta sensibilità. La diagnosi colturale richiede la presenza del germe vivo nel campione analizzato (liquor, sangue) ed è resa difficoltosa dall’autolisi batterica nei terreni di coltura e dalla terapia antibiotica spesso eseguita dal paziente all’inizio dello stato febbrile (1). I sistemi diagnostici colturali presentano anche altri svantaggi: gli antisieri utilizzati hanno un elevato costo e richiedono un’adeguata competenza tecnica. Tra i patogeni responsabili di infezioni in età pediatrica, lo Streptococcus pneumoniae è uno dei più frequenti. La più alta incidenza di forme invasive da pneumococco in Italia, registrata utilizzando i metodi tradizionali, è di 6-11/100.000 nei bambini di età inferiore ai 2 anni (2). La ricerca diretta del germe su campioni biologici può essere eseguita anche avvalendosi del metodo molecolare, importante e sensibile strumento nella diagnosi di infezioni invasive (3). Il metodo molecolare non richiede batteri vivi e raggiunge una sensibilità molto alta (10 genomi/100 μl) (4). Inoltre le tecniche Real-time polymerase chain reaction (RT-PCR) permettono di quantificare i batteri coinvolti nell’infezione, un’importante informazione per seguire il decorso e l’esito della malattia (5). I metodi di biologia molecolare, applicati direttamente su campioni biologici, permettono anche di ottenere dati sulla distribuzione sierotipica degli pneumococchi. Attualmente però la sierotipizzazione si avvale ancora di tests capsulari standard effettuati dopo coltura (6) o su isolati (7, 8); non possono quindi essere applicati a campioni colturali negativi. Nell’Ospedale pediatrico Meyer è stato messo a punto uno studio per valutare l’incidenza delle infezioni causate da uno dei patogeni più frequenti, lo Streptococcus pneumoniae, utilizzando metodi molecolari applicati direttamente su campioni biologici. E’ stato effettuato uno studio di coorte prospettico per valutare l’incidenza di infezioni pneumococciche invasive (IPD) nella popolazione pediatrica della provincia di Firenze, in un periodo di 12 mesi (tra il 1 Dicembre 2005 e il 30 Novembre 2006). Questo studio utilizza un metodo diagnostico molecolare, messo a punto nel Laboratorio di Immunologia Pediatrica dell’Università di Firenze, applicato direttamente su CORSO DI FORMAZIONE 42 campioni biologici. Sono stati arruolati tutti i bambini di età compresa tra 0 e 14 anni pervenuti all’Ospedale Pediatrico Anna Meyer. Poiché tale Ospedale è il centro di riferimento per la diagnosi e cura di tutte le infezioni invasive per la provincia di Firenze e vi giungono pazienti da tutte le regioni d’Italia, per non sovrastimare l’incidenza delle infezioni pneumococciche invasive, tutte le analisi sono state effettuate unicamente nei bambini residenti nel distretto di Firenze (dati ottenuti dall’Italian National Institute of Statistic, ISTAT, 2007 http:// demo.istat.it/). Sono stati inclusi nello studio i bambini fiorentini giunti all’ospedale Meyer con febbre, leucocitosi e/o aumento dei livelli sierici di proteina C reattiva e con diagnosi clinica di meningite, sepsi, polmonite complicata, osteomielite o artrite. Oltre al sospetto clinico basato sulla ricerca di segni e sintomi caratteristici delle diverse infezioni, tali patologie sono state confermate con indagini diagnostiche: analisi del sangue per la sepsi; tests (colturali o molecolari) chimici e microbiologici nel liquido cerebrospinale per la meningite; indagini radiologiche per polmonite, artrite e osteomielite. Lo studio ha quindi compreso i bambini pervenuti all’Ospedale Meyer nel periodo di studio con una delle sopra menzionate patologie e la presenza di Streptococcus pneumoniae in campioni di sangue e/o liquido cerebrospinale e/o liquido pleurico accertate con metodi colturali e/o molecolari. E’ stato ottenuto il consenso informato dai genitori dei bambini. Da tutti i pazienti inclusi nello studio è stato prelevato un campione di sangue intero; dai bambini con sospetto clinico di meningite è stato ottenuto anche un campione di liquor cerebrospinale. Campioni di liquido pleurico sono stati ottenuti da due pazienti con polmonite che hanno necessitato di drenaggio pleurico. Tali campioni sono stati ottenuti il prima possibile dopo il ricovero ospedaliero e usati sia per analisi colturali che molecolari con Real-Time polymerase chain reaction (RT-PCR) e multiplex-sequentialPCR. E’ stato estratto il DNA genomico batterico da 200 μL di campione biologico utilizzando QIAmp DNeasy Blood & Tissue kit (Qiagen, Hilden, Germany), seguendo le istruzioni del produttore. Per costruire le sonde e i primers è stato utilizzato l’ABI Primer Express Software Package, basandosi sui geni precedentemente pubblicati ctrA (capsular transfer meningococcico), bexA (capsule exporting di Haemophilus influenzae) e lytA (autolisina pneumococcica) (9, 10). Le sonde specifiche per tali sequenze sono state marcate diversamente, rispettivamente con FAM, NED e JOE. Per eseguire l’amplificazione RT è stato utilizzato un volume di reazione di 25 μL contenente 2x TaqMan Universal Master Mix (Applied Biosystem, Foster City, CA, USA); la concentrazione dei primers utilizzati è di 300 nM; 25nM per le sonde marcate FAM e 50 nM per quelle marcate NED e JOE. Per ogni reazione sono stati impiegati 6 μl di DNA estratto. Tutte le reazioni sono state eseguite in triplicato. Per ogni ciclo è stato inserito un controllo negativo e uno positivo. Per amplificare il DNA è stato utilizzato ABI 7000 sequence detection system (Applied Biosystem, Foster City, CA, USA) nelle seguenti condizioni: 95°C per 10 minuti seguiti da 45 cicli composti da due fasi di temperatura: 95°C per 15 secondi e 60°C per 1 minuto. La sierotipizzazione dello Streptococcus pneumoniae è stata eseguita, in campioni positivi con RT-PCR, tramite la PCR multiplex sequenziale su DNA estratto su campioni biologici. Trentuno coppie di primers (11, 12) sono state raggruppate in nove reazioni multiple. Come prova di conferma sono stati inclusi in tutte le reazioni multiple i primers CpsA. Per le PCR sono stati utilizzati volumi di 25µl contenenti una miscela di 1x PCR Master Mix (Qiagen, Hilden, Germany) e di primers (0.2-0.5 mM ciascuno); per ogni PCR è stato utilizzato 5 µl di DNA purificato. L’amplificazione è stata eseguita con Perkin-Elmer GeneAmp PCR system 2720 (Applied Biosystems, Foster City, CA, USA) con i seguenti parametri per ogni ciclo: 95°C per 15 minuti seguiti da 35 cicli di amplificazione a 94°C per 30 secondi, 54°C per 90 secondi, e 72°C per 60 secondi. Un ultimo passaggio è stato eseguito a 72°C per 10 minuti. L’analisi del prodotto della PCR è stata effettuata con elettroforesi su gel di agarosio al 2% NuSieve gels (Cambrex Bio Science, Inc., Rockland, ME) in 1x TAE buffer. Sono stati quindi registrati i prodotti ottenuti sul gel precedentemente trattato con bromuro di etidio (0.5 µg/ml). Sono stati infine utilizzati markers di peso molecolare standard (100-bp ladder; Novagen, Inc.) che hanno permesso di determinare, attraverso CORSO DI FORMAZIONE 43 il metodo del confronto, le dimensioni dei prodotti della PCR. La coltura su sangue è stata eseguita in ambiente aerobio BACTEC TM PLUS (Becton Dickinson and Company, Sparks, MD, USA). Sono stati così isolati Streptococcus pneumoniae, la cui identificazione è stata effettuata con tecniche convenzionali (13) quali la solubilità biliare e la suscettibilità all’optochina. La sierotipizzazione è stata ottenuta attraverso metodi molecolari. I risultati sono stati espressi come livello medio e deviazione standard. Tutte le variabili continue sono state espresse come media ± SD. Quando appropriato sono stati usati il Fisher exact test, il McNemar test e il test chi-quadro. Complessivamente sono stati arruolati nello studio 92 bambini: 53 maschi (57.6%) e 47 femmine (42.4%). Ottanta di questi sono stati inclusi nella diagnosi di polmonite, 8 nella diagnosi di meningite e/o sepsi e 4 in quella di artrite. Ventidue casi di IPD -12/53 maschi (22.6%) e 10/39 femmine (25, 6%)sono stati diagnosticati con RT-PCR su campioni biologici e confermati dalla positività al cpsA durante la sierotipizzazione con PCR multiplex sequenziale. Sono risultati positivi con metodi molecolari tutti i campioni di sangue prelevati dai 22 pazienti, 3/3 CSF ottenuti da pazienti con meningite e 2/2 campioni di liquido pleurico prelevati da pazienti con polmonite. I metodi molecolari hanno inoltre permesso la sierotipizzazione in 19/22 pazienti (86.4%). L’impossibilità di sierotipizzare alcuni campioni può essere dovuta alla presenza di sierotipi non inclusi nella miscela utilizzata o ad una carica batterica sotto il limite di sensibilità della PCR multiplex (14). I metodi colturali avrebbero permesso di sierotipizzare meno del 20% dei campioni, fornendo meno informazioni sui dati epidemiologici. L’incidenza dei casi di IPD che è stata ottenuta attraverso metodi colturali varia in relazione all’età, raggiungendo valori di 3.6/100.000 nei bambini di età inferiore ai 14 anni, 4.7/100.000 al di sotto dei 5 anni, 11.5/100.000 tra 0 e i 2 anni di età e 11.2/100.000 nel primo anno di vita. Utilizzando i metodi molecolari, i dati di incidenza nelle varie fasce d’età risultano rispettivamente di 19.9/100.000 sotto i 14 anni, 35.1/100.000 fino ai 5 anni, 51.8/100.000 sotto i 2 anni 55.8/100.000 nei bambini nel primo anno di vita. Questi dati confermano che, come in altri paesi del mondo, la più alta incidenza di IPD si osserva nei bambini di età inferiore ai 2 anni (2), mentre l’incidenza diminuisce con l’aumentare dell’età. Questo studio mostra che l’incidenza di IPD nella popolazione pediatrica dell’area fiorentina, valutata attraverso metodi molecolari, risulta significativamente più alta, superando 50/100.000 nei bambini sotto i 2 anni ed è ancora più alta nei bambini nel primo anno di vita. Come dimostrato da Rodriguez e collaboratori, tale incidenza è probabilmente maggiore di quella stimata da questi risultati. I pazienti con febbre, spesso associata a batteriemia pneumococcica occulta (4), non sono infatti stati inclusi. Inoltre questo studio valuta solo i pazienti pervenuti in ospedale, mentre in genere molti pazienti con polmonite sono seguiti a domicilio. Nessuno dei bambini negativi con RT-PCR è risultato positivo con metodi colturali; tra i 22 pazienti positivi con metodi molecolari, 4/22 (18.2%) erano positivi anche con metodi colturali. L’RT-PCR appare quindi significativamente più sensibile dei metodi colturali nella diagnosi di IPD. La maggiore sensibilità dei metodi molecolari è ancora più evidente nei pazienti con polmonite rispetto ai casi di meningite. Si possono proporre due ipotesi per spiegare questa diversa sensibilità. In primo luogo, nei pazienti con meningite/ sepsi la carica batterica è probabilmente più elevata (5); per questo motivo i metodi colturali hanno una maggiore probabilità di dimostrare la crescita batterica in questo gruppo di pazienti. In secondo luogo, i pazienti affetti da meningite/sepsi di solito hanno una rapida progressione della malattia, ed è meno probabile che abbiano effettuato prima del ricovero, a domicilio, una terapia antibiotica, o comunque questa ha in genere una durata inferiore. Una storia clinica di precedente terapia antibiotica (15) riduce infatti la capacità dei metodi colturali di diagnosticare un’infezione pneumococcica, mentre ha un effetto assai minore sui metodi molecolari (16, 12). La RT-PCR e la PCR multiplex sequenziale sono quindi dei metodi estremamente sensibili (17) e il loro uso direttamente nei campioni clinici può aiutare a ottenere una stima della reale incidenza di IPD. CORSO DI FORMAZIONE 44 Tuttavia, nel caso in cui si ottenga un risultato positivo in campioni risultati negativi con il “gold standard” (coltura di sangue o CSF), ciò potrebbe essere attribuito alla scarsa specificità della PCR invece che alla migliore sensibilità. Per questo motivo, per ogni campione di questo lavoro sono stati utilizzati due diversi target individuati in due diversi geni dello Streptococcus pneumoniae non correlati: lytA (estremamente sensibile e specifico) (4) nell’RT-PCR e csp nella PCR multiplex sequenziale. La positività di entrambi i bersagli nello stesso campione rafforza la presunzione che il campione sia realmente positivo. L’RT-PCR e PCR multiplex sequenziale potrebbero essere destinati a diventare strumenti essenziali per stimare la reale incidenza non solo delle infezioni pneumococciche, ma anche di numerose altre infezione batteriche causate da microrganismi il cui genoma sia parzialmente conosciuto. Bibliografia 1. Tarallo L, Tancredi F, Schito G. et al. Italian Pneumonet Group (Società Italiana Pediatria and Associazione Italiana Studio Antimicrobici e Resistenze). Active surveillance of Streptococcus pneumoniae bacteremia in Italian children. Vaccine. 2006;24(47-48):6938-6943. 2. D’Ancona F, Salmaso S, Barale A. et al.; Italian PNC-Euro working group. Incidence of vaccine preventable pneumococcal invasive infections and blood culture practices in Italy. Vaccine. 2005;23(19):2494-500 3. Corless CE, Guiver M, Borrow R et al. Simultaneous detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae, and Streptococcus pneumoniae in suspected cases of meningitis and septicemia using real-time PCR. 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I ceppi non capsulati di solito si trovano albergati come normale flora batterica, ed una minoranza di individui sani (37%) è portatore occasionale dell’H. Influenzae tipo b a livello delle vie respiratorie superiori, ciò permette la trasmissione del batterio da un individuo all’altro (2). Prima della diffusione dell’uso del vaccino coniugato, avvenuta nel 1988 (1), L’Haemophilus Influenzae rappresentava una delle principali cause di malattie invasiva nei bambini, e nel 95% dei casi il ceppo coinvolto era rappresentato dal sierotipo b (1;2). In bambini al di sotto dei 5 anni di età il sierotipo b è capace di provocare batteriemia, meningite batterica acuta, talvolta epiglottite, polmonite, cellulite ed osteomielite. In seguito alla vaccinazione di massa contro l’Haemophilus tipo b, l’incidenza negli ultimi anni si è notevolmente ridotta, ed i casi sono limitati ai bambini non vaccinati. Alcune condizioni, notoriamente, aumentano il rischio di malattia invasiva, quali l’anemia a cellule falciformi, l’asplenia, le immunodeficienze congenite ed acquisite, le neoplasie e particolari condizioni socioeconomiche, tra cui la frequenza in comunità, la presenza di fratelli o sorelle in età scolare o più piccoli. Inoltre, le infezioni da forme non tipizzabili sono attualmente diventate le forme più frequenti di malattia invasiva da Haemophilus Influenzae nei soggetti di tutte le età (3). La patogenicità dell’Haemophilus, come sappiamo è ospite mediata; infatti l’organismo infettato spesso non riesce ad attivare un’adeguata risposta nei confronti dell’agente infettante (4). Il fattore di virulenza più importante dell’Haemophilus Influenzae di tipo b è un polisaccaride capsulare, PRP (polimero del ribosil-ribitol-fosfato), che in assenza di anticorpi ed altre opsonine, inibisce la fagocitosi (1) ed è incapace di stimolare la via alternativa del complemento nel soggetto non immune (5). L’elemento di difesa più importante a disposizione dell’organismo ospite è costituito dalla produzione di Ab diretti contro questo polisaccaride, in epoca preantibiotica acquisiti progressivamente con l’età. La suscettibilità all’effetto battericida del siero dipende anche dalla presenza di Ab diretti contro un numero di altri siti antigenici, compreso il lipopoligosaccaride e proteine di membrana quali la P2 e la P6. Con l’introduzione e la diffusione del vaccino coniugato, le forme invasive da Hib si sono notevolmente ridotte e l’attenzione si è inevitabilmente spostata verso le infezioni sostenute da ceppi non capsulati (6). Nella maggior parte dei casi i ceppi non capsulati si comportano da commensali, colonizzando il faringe di un’alta percentuale della popolazione (7); un commensalismo adeguato richiede una riduzione della risposta immunitaria ed una evasione dei meccanismi di difesa dell’ospite, questa ultima ottenuta anche per mezzo della variazione di fase. La colonizzazione da parte dei singoli ceppi di NTHi è solitamente transitoria, e nuovi ceppi vengono acquisiti periodicamente dall’ospite (4;5). Le manifestazioni di infezione da NTHi sono solitamente associate ad infezioni della mucosa quali: otite media, che interessa circa il 50-80% dei bambini nei primi tre anni, tra il 30% ed il 52% di questi episodi sono da attribuirsi ad una infezione da NTHi (7;8;9); sinusite; bronchite cronica e polmonite acquisita in comunità (5;10;11). Il batterio penetra nei siti come l’orecchio o la cavità dei seni mediante estensione diretta dal faringe, soprattutto quando le difese mucociliari sono compromesse (12), come in seguito ad infezioni virali delle vie aeree, o quando si ha una disfunzione della tuba di Eustachio. CORSO DI FORMAZIONE 47 La patogenicità dell’Haemophilus è ospite mediata, infatti, l’organismo infettato spesso non riesce a attivare un’adeguata risposta nei confronti dell’agente infettante (4). Tra i fattori di virulenza ricordiamo la presenza di una IgA-proteasi in più del 97% dei ceppi patogeni di NTHi, ed assente in ceppi non patogeni (5); il biofilm, prodotto dai ceppi non capsulati, capace di proteggere i batteri dall’azione degli antibiotici e dall’azione innata di clearance da parte dell’epitelio respiratorio (5; 12). L’elemento di difesa più importante, a disposizione dell’ospite, è rappresentato dalla produzione di anticorpi diretti contro una o più proteine della membrane esterna. La P6, ad esempio, richiama gli Ab battericidi ed evoca la risposta proliferativi dei linfociti (13). La P6 e la P2 sono deboli antigeni capaci di stimolare l’attività macrofagica, con conseguente rilascio di citochine proinfiammatorie (13). La risposta macrofagica viene, invece, attivata dal lipopolisaccaride (Los), endotossina dell’NTHi, capace di stimolare per primo il rilascio di citochine proinfiammatorie dalle cellule macrofagiche, in particolare l’IL-10, il TNF-α e l’IL-8 (13). La risposta infiammatoria viene innescata anche dal biofilm in cui si trova di solito immerso il batterio ed è caratterizzata dall’attivazione del processo di immunità innata ed adattativa (14). L’infiammazione indotta dall’invasione dell’Haemophilus, in pazienti con patologie sottostanti, quali la Fibrosi Cistica o la broncopneumopatia cronica, dà inizio ad un danno polmonare che predispone alla colonizzazione batterica cronica (14). I batteri solitamente coinvolti in questa sovrainfezione sono rappresentati dallo P. Aeruginosa e dallo S. Aureus, l’eliminazione dell’infezione da Haemophilus riduce il rischio di colonizzazione batterica cronica(14). Per ciò che riguarda le forme invasive di infezione da NTHi, è probabile che alcuni ceppi presentino specifiche caratteristiche che ne facilitano la sopravvivenza nella circolazione sanguigna (6). Senza dubbio la variabilità nell’espressione di diversi fattori batterici è capace di condizionare l’evoluzione dell’acquisizione di ceppi NTHi in malattia o una colonizzazione asintomatica (7). A tal proposito sono stati individuati i ceppi che nella maggior parte dei casi causano otite media (il ceppo 86-028NP ed il R2846, detto anche ceppo 12) (4). Inoltre, dallo studio del genoma di diversi ceppi di NTHi è emerso che l’espressione dei geni codificanti per fattori presumibilmente coinvolti nella patogenesi della malattia da Haemophilus è variabile (15). Presumibilmente, dunque, i diversi ceppi differiscono tra loro nei meccanismi della patogenesi, anche se non è ancora chiaro come ceppi diversi possano dare un’infezione limitata alle mucose respiratorie o infezioni sistemiche e come elementi dell’ospite siano fondamentali nell’acquisizione di un nuovo ceppo di Haemophilus. Per la comparsa di una malattia invasiva è importante anche la presenza di condizioni predisponenti quali la prematurità e la presenza di malattie polmonari sottostanti. Una particolare forma di malattia invasiva è quella che interessa i neonati, essa viene solitamente diagnosticata nei primi giorni di vita e la prematurità rappresenta un fattore di rischio (10); in questi casi sono stati riscontrati episodi setticemici, batteriemici con distress respiratorio ed un quadro radiografico polmonare suggestivo di polmonite(15;4). Dato che il problema delle infezioni invasive da ceppi non tipizzabili di Haemophilus sta diventando una realtà emergente, un possibile obiettivo nella prevenzione delle malattie invasive dell’età pediatrica potrebbe essere rappresentato dalla sintesi di un vaccino per i ceppi non tipizzabili. Attualmente la migliore candidata per tale scopo è rappresentata dalla proteina P6, proteina altamente immunogena ed estremamente conservata tra i diversi ceppi di NTHi (13). CORSO DI FORMAZIONE 48 Bibliografia 1. Nelson WE, Behrman RE, Kliegman RM. et al. “Trattato di pediatria” XVII edizione ed. Minerva Medica, 2003. 2. Haemophilus Influenzae; Kenneth Todar University of Wisconsin-Madison Department of Bacteriology. 3. Sarah W. Satola, Julie T. Collins, Ruth Napier, and Monica M. Farley Capsule Gene Analysis of Invasive Haemophilus influenzae: Accuracy of Serotyping and Prevalence of IS1016 among Nontypeable Isolate. Journal of Clinical Microbiology, oct. 2207, p. 3230-3238 4. Alice L. Erwin and Arnold L. Smith Nontypeable Haemophilus influenzae: understanding virulence and commensal behaviour. Trends in Microbiology Vol.15 No.8 5. Arne Forsgren, Kristian Riesbeck, and Ha°kan Janson Protein D of Haemophilus influenzae: A Protective Nontypeable H. influenzae Antigen and a Carrier for Pneumococcal Conjugate Vaccine. Clinical Infectious Diseases 2008; 46:726-31 6. Derek K. Ho, Sanjay Ram, Kevin L. Nelson, Paul J. Bonthuis, and Arnold L. Smith2 lgtC Expression Modulates Resistance to C4b Deposition on an Invasive Nontypeable Haemophilus influenzae1. The Journal of Immunology 2007, 178: 1002-1012. 7. Yukie Sekiya1, Masahiro Eguchi, Masahiko Nakamura, Kimiko Ubukata et al. Comparative efficacies of different antibiotic treatments to eradicate nontypeable Haemophilus influenzae infection. BMC Infectious Diseases 2008, 8:15 8. Casselbrant M. L., E. M. Mandel, P. A. Fall, H. E. Rockette, M. Kurs-Lasky, C. D. Bluestone, and R. E. Ferrell. 1999. The heritability of otitis media: a twin and triplet study. JAMA 282:2125-2130. 9. Teele, D. W., J. O. Klein, and B. Rosner. Epidemiology of otitis media during the first seven years of life in children in greater Boston; a prospective cohort study. J. Infect. Dis. 160: 83- 94. 10. Catharina W. Wieland, Sandrine Florquin, and Tom van der Poll Interleukin 18 Participates in the Early Inflammatory Response and Bacterial Clearance during Pneumonia Caused by Nontypeable Haemophilus influenzae. Infection and Immunity Oct. 2007, p. 5068-5072 11. Haa-Yung Lee1, Ali Andalibi1, Paul Webster, Sung-Kyun Moon et al Antimicrobial activity of innate immune molecules against Streptococcus pneumoniae, Moraxella catarrhalis and nontypeable Haemophilus influenzae BMC Infectious Diseases 2004, 4:12 12. Wenzhou Hong, Bing Pang, Shayla West-Barnette, and W. Edward Swords Phosphorylcholine Expression by Nontypeable Haemophilus influenzae Correlates with Maturation of Biofilm Communities In Vitro and In Vivo. Journal of Bacteriology Nov. 2007, p. 8300-8307 13. Charles S. Berenson, Timothy F. Murphy, Catherine T. Wrona, and Sanjay Sethi Outer Membrane Protein P6 of Nontypeable Haemophilus influenzae Is a Potent and Selective Inducer of Human Macrophage Proinflammatory Cytokines.Infection and Immunity May 2005, p. 2728-2735 14. Timothy D. Starner, Niu Zhang, GunHee Kim, Michael A. Apicella, and Paul B. McCray, Jr. Haemophilus influenzae Forms Biofilms on Airway Epithelia Implications in Cystic Fibrosis. Am J Respir Crit Care Med Vol 174. pp 213-220, 2006 15. Joshua M. O’Neill, Joseph W. St. Geme, David Cutter et al Invasive Disease Due to Nontypeable Haemophilus influenzae among Children in Arkansas. Journal of Clinical Microbiology July 2003, p. 3064-3069 CORSO DI FORMAZIONE 49 LA NUOVA METODOLOGIA DIAGNOSTICA DAL LATTANTE ALL’ANZIANO C. Azzari, E. Laudani, G. Giusti, F. Ghiori, C. Canessa, M. Resti Azienda Ospedaliero-Universitaria Anna Meyer, Firenze Le malattie invasive (meningiti, sepsi, polmoniti, batteriemie ed altri quadri clinici con isolamento di batteri da siti normalmente sterili) rappresentano una importante causa di morbosità, e sono caratterizzate da una elevata frequenza di gravi complicanze (1;2). Dal punto di vista clinico, tali malattie presentano spesso una sintomatologia scarsamente specifica per singolo agente eziologico. L'accertamento della loro eziologia è quindi di estrema importanza, non solo ai fini terapeutici, permettendo l’inizio precoce di un’adeguata terapia antibiotica e per la eventuale profilassi dei contatti, ma anche per quanto riguarda la loro prevenzione primaria. Come è noto, sono infatti ad oggi disponibili vaccini per la prevenzione delle infezioni da Haemophilus influenzae di tipo b, da Neisseria meningitidis di tipo C e da sette sierotipi di Streptococcus pneumoniae (3), efficaci già nel primo anno di vita. La conoscenza dei casi causati da questi patogeni è quindi fondamentale per stimare la quota di casi prevenibili, e l’impatto delle strategie intraprese. La ricerca del patogeno si avvale attualmente dei tests colturali, che consentono di saggiare, nel terreno di incubazione del campione, la presenza di un unico ipotetico patogeno. Essi non hanno caratteristiche di sensibilità soddisfacenti: infatti sono lenti e possono risultare falsamente negativi a causa di molteplici fattori tra cui un volume di liquido biologico troppo piccolo (evenienza non rara in pediatria), condizioni inadeguate di conservazione o di trasporto del campione, ed un’eventuale precedente terapia antibiotica. In molti casi, infatti, prima che il paziente venga inviato alla struttura ospedaliera e sottoposto ad esami quali emocoltura o coltura su liquidi biologici (ad esempio liquido pleurico o il liquido cefalorachidiano) spesso è già stata effettuata terapia antibiotica domiciliare per giorni, il che riduce la vitalità del germe e la sua possibilità di crescere su terreni di coltura. Ricordiamo, inoltre che la probabilità che un esame colturale risulti negativo correla significativamente con la durata della terapia antibiotica precedente (4). L’analisi molecolare mediante PCR è indubbiamente un esame molto più sensibile, perché non richiede la presenza di germi vivi, e può essere utilizzata anche per la sierotipizzazione dei patogeni presenti. Le metodiche molecolari ricercano il genoma dell’agente patogeno, ed in particolare la Multiplex PCR Real-time in cui vengono inseriti contemporaneamente più primers specifici per sequenze geniche note per ogni agente patogeno da ricercare, permette di saggiare la contemporanea presenza di più germi utilizzando numerose sonde, marcate con diversi fluorocromi, ognuna specifica per il segmento genico del patogeno sospetta causa di malattia. Tale metodica consente di ottenere un risultato definitivo in poche ore, con possibilità di impostare quindi precocemente una terapia antibiotica sia nel paziente che in eventuali contatti (in particolare in caso di meningite). Un’adeguata diagnosi eziologica diventa anche importante per poter effettuare un monitoraggio epidemiologico e stimare con maggiore precisione il peso che ogni singolo agente ha sulla comparsa e diffusione di malattie invasive nella popolazione pediatrica ed adulta. Per rendere ancora più rapida la diagnosi eziologica e tempestiva la terapia antibiotica possono essere utilizzati numerosi pannelli diagnostici che permettono contemporaneamente di ricercare più agenti patogeni. I pannelli per la meningite individuano contemporaneamente meningococco, pneumococco ed H. infleunzae (5;6); i pannelli per la polmonite individuano, tra gli altri, pneumococco, C. pneumoniae, M. pneumoniae (7;8); i pannelli per l’artrite, individuano, oltre lo pneumococco, la Salmonella, lo Stafilococco ed altri germi (9). Nell’Ospedale pediatrico Meyer è stata messo a punto uno studio per valutare la capacità dei metodi molecolari di diagnosticare infezioni batteriche invasive (sepsi, meningite, polmonite, artrite settica, osteomielite) nei bambini di età inferiore ai 3 mesi. Tale studio ha dimostrato la capacità dei tests CORSO DI FORMAZIONE 50 molecolari di diagnosticare l’80% delle infezioni invasive nei neonati valutati, ricercando in un'unica reazione la presenza del DNA dei 4 germi maggiormente in causa in tali forme (Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Streptococcus pneumoniae, Streptococco β emolitico del gruppo B). Adottando gli opportuni accorgimenti riguardo la diversa epidemiologia, tali metodiche possono essere applicate direttamente su campioni biologici prelevati dai pazienti, sia in età pediatrica che negli adulti-anziani. Ad esempio, per ciò che riguarda le polmoniti, ricordiamo che prima dei tre mesi di vita prevalgono enterobatteri Gram-negativi, Staphylococcus aureus, streptococchi di gruppo B e Chlamydia trachomatis; tra i 3 mesi e i 5 anni l’agente eziologico più importante è lo Streptococcus pneumoniae, seguito da Haemophilus influenzae e da Mycoplasma pneumoniae; dopo i 5 anni di età i principali patogeni in causa sono Mycoplasma pneumoniae e lo Streptococcus pneumoniae seguiti da Chlamydia pneumoniae e da Haemophilus influenzae (10). Nell’adulto lo pneumococco, il Mycoplasma e l’Haemophilus Influenzae sono gli agenti eziologici coinvolti con maggiore frequenza; nell’anziano lo pneumococco è il principale agente patogeno (11). Per quanto riguarda la meningite, nei primi 2 mesi i bacilli Gram-negativi intestinali di origine materna, Streptococchi di gruppo B e la Listeria monocytogenes sono gli agenti eziologici più frequenti (10); nei bambini dai 2 mesi ai 12 anni di età la meningite è in genere causata da Streptococcus pneumoniae e Neisseria meningitidis (12), questo ultimo ha due picchi di incidenza, uno tra il 6° e 24° mese di vita, e il secondo durante l’adolescenza. L’Haemophilus influenzae tipo b, divenuto attualmente il meno frequente dei germi meningotropi, grazie all’introduzione della vaccinazione anti-Hib (13), non causa quasi mai meningite dopo i 5 anni di vita. L’incidenza della meningite pneumococcica, per quanto si conosce dai dati ottenuti con metodi colturali standard è di 1-3/100.000 (11); può presentarsi a qualsiasi età, ma colpisce preferenzialmente bambini di età inferiore ai due anni (l’incidenza si riduce tra il 3° e 5° anno e diventa rara dopo tale età) con un picco stagionale nei mesi invernali (12). Il rischio di meningite da Streptococcus pneumoniae dipende, per lo meno in parte, dal sierotipo (12). Alterazioni delle difese dell’ospite, dovute a difetti anatomici o a deficit immunitari, aumentano il rischio di patogeni meno comuni come P. aeruginosa, S. aureus, Salmonella, L. monocytogenes. Nel soggetto adulto gli agenti eziologici di meningite più frequenti sono rappresentati da Streptococcus pneumoniae (50%); Neisseria meningitidis(25%) e L. monocytogenes (10%) (11). Per quanto riguarda l’eziologia della sepsi, nei neonati i germi più frequentemente isolati sono gli streptococchi di gruppo B (agalactiae, responsabile soprattutto delle forme a esordio precoce), seguiti dai germi gram negativi come E. Coli, Enterobacter, Salmonelle, Klebsielle, Pseudomonas aeruginosa (10). I bambini tra i 3 mesi ed i 3 anni sono a rischio di batteriemia occulta che talvolta può progredire in sepsi (12), in questo caso gli agenti coinvolti con maggiore frequenza sono lo Streptococcus pneumoniae, l’ Haemophilus Influenzae tipo b, la Neisseria meningitidis e talvolta la Salmonella. Nell’adulto circa il 70% delle sepsi è causato da batteri Gram-positivi e Gram-negativi, ed il rischio di sviluppare una sepsi severa è strettamente correlato a fattori quali l’età (>50anni) e presenza di patologie infettive primarie che interessano il polmone, l’addome o il nevrasse (11). Questo rapido cenno all’eziologia di alcune delle malattie invasive dell’età pediatrica ed adulta, rende ancora più evidente l’importanza di una diagnosi tempestiva in tutte le fasce di età, con particolare attenzione, tuttavia, ai bambini ed agli anziani. Questi ultimi sono predisposti maggiormente a contrarre gravi infezioni data la frequente presenza di malattie croniche sottostanti. CORSO DI FORMAZIONE 51 Bibliografia Tunkel A, Schilder AG. Acute Meningitis. In: Mandell GL, Douglas RM, Bennet JE, editors. Mandell, Douglas, and Bennett's Principles and practice of infectious diseases. Sixth Edition ed. Philadelphia: Elsevier; 2005. p. 1083126. Angus DC, Linde-Zwirble WT, Lidicker J, Clermont G, Carcillo J, Pinsky MR. Epidemiology of severe sepsis in the United States: analysis of incidence, outcome, and associated costs of care. Crit Care Med 2001 Jul;29(7):130310. Azzari C, Resti M. Reduction of carriage and transmission of Streptococcus pneumoniae: the beneficial “side effect” of pneumococcal conjugate vaccine. Editoria commentary. Clin Infect Dis 2008, 47: 997-999. Le Monnier A, Carbonnelle E, Zahar JR. et al. Microbiological diagnosis of empyema in children: comparative evaluations by culture, polymerase chain reaction, and pneumococcal antigen detection in pleural fluids. Clin Infect Dis. 2006;42(8):1135-40 Corless CE, Guiver M, Borrow R. et al. Simultaneous detection of Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae, and Streptococcus pneumoniae in suspected cases of meningitis and septicemia using real-time PCR. J Clin Microbiol. 2001;39(4):1553-8 Azzari C, Moriondo M, Indolfi G, Massai C, Becciolini L, de Martino M, Resti M. Molecular detection methods and serotyping performed directly on clinical samples improve diagnostic sensitivity and reveal increased incidence of invasive disease by Streptococcus pneumoniae in Italian children. 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J Microbiol Methods. 2007;68(1):88-93 Vierucci A, Careddu P, Castello MA, Giuffrè L, Principi N, Rubino A. “Pediatria generale e specialistica” casa editrice Ambrosiana, 2002 cap.11:pp.335-39 Harrison. “Principi di Medicina Interna” XV edizione, McGraw-Hill, 2002 Nelson WE, Behrman RE, Kliegman RM, Jenson HB. “Trattato di pediatria” XVI edizione ed. Minerva Medica, 2002 cap.174:pp.740-47 CORSO DI FORMAZIONE 52 SITUAZIONE EPIDEMIOLOGICA E POSSIBILITÀ DI DIAGNOSI IN CAMPANIA F. Nunziata Ospedale “Landolfi”ASL AV2 Nonostante la Meningite sia in costante diminuzione, ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa 900 nuovi casi, di cui: 1/3 causato dal Meningococco 1/3 da Pneumococco 1/3 altri batteri EMBED Excel.Sheet.8 INCIDENZA DELLE PRINCIPALI MALATTIE INVASIVE NEI BAMBINI DI ETÀ INFERIORE AI 2 ANNI IN ITALIA (media per anno) EMBED Excel.Sheet.8 Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2005 GBS: 1 Pn: 14 M: 16 H: 0 Mt: 0 Listeria: 0 N.I.: 1 Altri: 5 Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2006 GBS: 2 Pn: 24 M: 15 H: 1 Mt: 0 Listeria: 0 N.I.: 2 Altri: 2 Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2007 GBS: 1 P: 21 M: 5 H: 0 T: 0 L: 0 N.I.: 2 Casi di Meningite segnalati in Campania suddivisi per agente etiologico nel 2008 GBS: 0 Pn: 10 M: 3 H: 0 Mt: 0 Listeria: 0 N.I.: 0 Dati aggiornati al 3 luglio 2008 CORSO DI FORMAZIONE 53 Streptococcus pneumoniae per quadro clinico EMBED Excel.Sheet.8 Haemophilus influenzae per quadro clinico EMBED Excel.Sheet.8 Neisseria meningitidis per quadro clinico EMBED Excel.Sheet.8 L’ Haemophilus influenzae è un Gram- presente nelle alte vie respiratorie Il 75% delle infezioni invasive compare nei primi 2 anni di vita Frequente la colonizzazione asintomatica Praticamente assente lo stato di portatore nelle aree in cui è stata praticata estensivamente la vaccinazione Riduzione dei casi dovuti all’ Hib: Dal centinaio degli anni ’90 alle poche unità attuali Hi provoca patologia invasiva (prevalentemente da ceppi capsulati che si dividono in 6 sierogruppi e al 95% da Hib: Polmonite, meningite, sepsi, epiglottite, porpora fulminante, ecc.) e non invasiva (ceppi non tipizzabili: Otite, sinusite, congiuntivite, bronchite Diagnosi: La sierotipizzazione dell’Hib, culture da liquor, PCR, sangue, liquido sinoviale Non molto affidabile la ricerca di antigeni su siero e urine, perché riscontrabili nelle urine di soggetti vaccinati o portatori e per la possibilità di reazioni crociate con altra flora batterica. Streptococcus Pneumoniae E’ un batterio Gram+, si distingue in 90 sierotipi in base alle caratteristiche della capsula polisaccaridica Oltre l’80% delle malattie invasive in età pediatrica è legata a soli 7 sierotipi (4, 6B, 9V, 14, 18C, 19E, 23F) La capsula dello S.Pn importante per: E’ un fattore di virulenza La produzione di anticorpi verso gli zuccheri della capsula è dovuta alle IgG2 che scarseggiano nel bambino < 2 anni che invece ne produce soprattutto di classe IgM con conseguente modestissima protezione nei confronti del polisaccaride capsulare dello S.Pn che è un antigene T-indipendente Il rischio di malattia invasiva è più elevato in: Affetti da patologie croniche e HIV + Nelle comunità chiuse: Portatori sono stati descritti anche nel 97% della popolazione con un rischio di colonizzazione > in inverno, con variazioni regionali Lo stato di portatore è “fisiologico”a tutte le età (lo è il 91% dei bambini fino a 4 anni, compare intorno al 6° mese): Lo S.Pn può persistere anche anni senza provocare malattia La Meningite da Pn segue frequentemente ad un infezione virale che produce danno mucoso con < attività ciliare epiteliale e conseguente depressione della funzione dei macrofagi alveolari La gravità è correlata alla virulenza e al numero di Pn e all’integrità delle difese specifiche dell’ospite (deficit di opsonofagocitosi), nonostante una terapia antibiotica adeguata Letalita’ Meningite: 12, 5% Il 30% dei sopravvissuti ha esiti neurologici Il ruolo del Meningococco come causa di Meningite batterica è diventato più importante per il declino delle Meningiti da: Haemofilo b e da Pneumococco (grazie all’introduzione dei nuovi vaccini coniugati) Listeria (ridotta contaminazione degli alimenti) GBS (Profilassi Antibiotica Intrapartum) CORSO DI FORMAZIONE 54 Neisseria Meningitidis è un batterio Gram -, in base alla struttura della capsula polisaccaridica può essere tipizzato in 13 sierogruppi ma solo 5: A, B, C, W-135 e Y sono causa di patologia invasiva Il polisaccaride della capsula determina la virulenza: I meningococchi privi di capsula invadono più facilmente l’organismo dal nasofaringe ma solo i ceppi capsulati possono sopravvivere al riconoscimento del sistema immunitario I gruppi A, B e C: - 90% delle infezioni Il sierogruppo A: Grandi epidemie nel III mondo I sierogruppi B e C: Malattia endemica e piccoli focolai nei Paesi industrializzati Sierogruppo C: Più letale con sequele gravi (danno cerebrale, sordità, setticemie) La capsula del sierogruppo B non viene riconosciuta dal sistema immune perché identica al glicoconiugato della superficie cellulare prodotta durante lo sviluppo del SN fetale: Motivo per il quale per allestire vaccini per il sierogruppo B sono utilizzati antigeni non capsulari Perché solo alcuni soggetti presentano sepsi o meningite da Meningococco mentre i ceppi patogeni di Neisseria meningitidis si ritrovano, come commensali senza conseguenze, in circa l’1% della popolazione? Per spiegare la bassa incidenza della malattia invasiva nei portatori, è stata data importanza alla lectina legante il mannosio (MBL), un’opsonina plasmatica che inizia una delle vie dell’attivazione del complemento. La proporzione dei pazienti omozigoti per gli alleli varianti della MBL è stata più alta fra i soggetti con malattia meningococcica che fra i controlli. Le varianti della MBL sono determinanti critici della suscettibilità alla malattia meningococcica e queste varianti sono le responsabili di circa un terzo di tutti i casi di malattia. Deficit di: Complemento: rischio di meningococciemia ricorrente (Utilità della vaccinazione che accresce la fagocitosi rispetto all’attività battericida sierica) Properdina: malattia a decorso fulminante con mortalità nel 40% dei casi Almeno 2/3 dei casi da Meningococco sono segnalati come sporadici Non rari piccoli focolai epidemici “Cluster”: Negli ultimi 7 anni in Italia 48 piccoli cluster: Almeno 2 casi nell’arco di 30 giorni in un raggio di Km 50 Contagio: Da persona a persona con contatti stretti, in ambienti affollati, mentre il batterio non sopravvive nell’ambiente, né in alimenti o su oggetti per cui non è richiesta la DISINFEZIONE ambientale Condizioni per sviluppare la malattia invasiva: Contatto con ceppo patogeno Colonizzazione del nasofaringe Passaggio dal nasofaringe nel torrente ematico Sopravvivenza del batterio nel sangue Si possono presentare diversi quadri clinici: Batteriemia di grado lieve: Breve episodio febbrile senza sequele Batteriemia grave: Rilascio di endotossine e citochine Importante il rapporto tra: Meningite-Sepsi-Sepsi+Meningite Casistica dell’ISS in Italia delle malattie invasive da Meningococco: Meningite: 68% CORSO DI FORMAZIONE 55 Sepsi: 16%(prognosi peggiore) Sepsi+Meningite: 14% (prognosi migliore delle sepsi pure) Primi accertamenti di laboratorio nel caso del sospetto di una meningite Il liquor una volta prelevato ed osservato dal clinico, va subito inviato, se possibile, al laboratorio, che procederà ai primi accertamenti. In particolare qualora si sospetti una meningite meningococcica è opportuno procedere subito a coltivazione di una parte di esso su terreni arricchiti al sangue ad es. Thayer Martin e preparare al contempo degli strisci su vetrino per una prima osservazione microscopica, che ovviamente sarà molto utile anche per le altre forme microbiche. Nuovi metodi di diagnosi SEPTIFAST: DIAGNOSI di sepsi IN MENO DI 6 ORE Test molecolare (LightCycler SeptiFast), che permette la diagnosi microbiologica di sepsi in meno di 6 ore, a partire da 1, 5 ml di sangue intero in provette contenenti EDTA. Il sistema è una PCR (polymerase chain reaction) real-time in grado di rilevare ed identificare a livello di specie un pannello di più di 40 patogeni batterici e fungini, complessivamente responsabili di più del 90% dei casi di sepsi microbiologicamente confermati Batteri che si possono testare: Escherichia coli; Klebsiella (pneumoniae/oxytoca); Serratia marcescens; Enterobacter (cloacae/aerogenes); Proteus mirabilis; Pseudomonas aeruginosa; Acinetobacter baumannii; Stenotrophomonas maltophilia; Staphylococcus aureus; 11 diverse specie di stafilococchi coagulasi-negativi; Streptococcus pneumoniae; 17 altre specie di streptococchi; Enterococcus faecalis; Enterococcus faecium; Candida albicans; Candida tropicalis; Candida glabrata; Candida krusei; Candida parapsilosis; Aspergillus fumigatus. Batteri che non si possono testare: Neisseria e Brucella PCR Real time I prelievi possono essere effettuati a tutti i pazienti con sospetta patologia invasiva batterica Prelievo di sangue periferico in provetta con EDTA e, se possibile, un tampone faringeo (tampone NON in gel, inserito in provetta tappo rosso in 1 cc di soluzione fisiologica) Durata del test: 1 ora L’incidenza di malattia invasiva fino a 10 volte maggiore utilizzando la PCR rispetto ai metodi colturali Prevenzione Farmacologia: Di impiego immediato e da attuare solo nei soggetti che abbiano avuto un contatto”stretto”con pazienti affetti da malattia invasiva: NON E’ PREVISTA per le forme da Pneumococco Malattia Meningococcica Invasiva RIFAMPICINA: 10mg/kg 2 volte/die X 2 giorni per os CEFTRIAXONE: <12 anni 125 mg i.m. in dose singola >12 anni 250 mg i.m. in dose singola CIPROFLOXACINA: >18 anni 500 mg in dose singola per os Malattia da Hib Invasiva RIFAMPICINA: 20mg/kg una volta/die X 4 giorni per os SESSIONE SATELLITE PEDIATRIA PRATICA E MANAGEMENT 28 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Giuseppe Colucci, Luciano Pinto Moderatori: Elio Caliendo, Gennaro Golia, Renato Vitiello Alberto Villani, Gianni Messi, Achille Tolino SESSIONE SATELLITE 57 LA TERAPIA MODERNA DELLA DIARREA A. Staiano Dipartimento di Pediatria “Federico II”, Napoli La diarrea acuta, con oltre 3 milioni di decessi anno in bambini di età inferiore ai 5 anni, rappresenta, insieme alle infezioni respiratorie, la causa principale di mortalità infantile a livello mondiale. La diarrea acuta infantile riconosce nella maggior parte dei casi una causa infettiva. L’agente più comune è rappresentato dal Rotavirus, virus estremamente comune che ha la massima circolazione nei mesi invernali, a trasmissione oro-fecale e con un’elevatissima capacità di contagio, determinando epidemie nelle comunità infantili. Il quadro clinico di gastroenterite è caratterizzato da diarrea, con febbre e vomito che per lo più precedono, in quest’ordine, la comparsa della diarrea, determinando come conseguenza una disidratazione grave. Il trattamento della diarrea acuta si basa su: 1. Reidratazione; 2. Corretta alimentazione; 3. Eventuale somministrazione di farmaci. La reidratazione orale deve coprire le perdite fisiologiche, correggere la disidratazione e prevenire la disidratazione subentrante. La soluzione reidratante orale ideale per il bambino è quella raccomandata dall’ESPGHAN, mentre la reidratazione parenterale è indicata in caso di vomito persistente o in caso di disidratazione grave con shock e perdita di coscienza. L’alimentazione orale deve essere ripresa precocemente già dopo solo 3-4 ore di reidratazione, utilizzando gli stessi alimenti che assumeva precedentemente il bambino. Per quanto riguarda la terapia farmacologica, bisogna prendere in considerazione gli antibiotici, da utilizzare in caso di gastroenterite da particolari agenti eziologici (Salmonella typhi, Shigella, Entamoeba histolitica, Vibrio cholera, Giardia lamblia), in caso di sintomatologia grave (sepsi, compromissione neurologica, diarrea persistente) o in caso di particolari condizioni legate all’ospite (età neonatale, pazienti immunocompromessi). Vi è attualmente evidenza in letteratura dell’efficacia dei probiotici nel trattamento della diarrea acuta; in particolare nella diarrea da Rotavirus risulta particolarmente efficace la somministrazione di Lactobacillus casei GG. Farmaci antidiarroici quali la diosmectite e la colestiramina sono indicati in particolari situazioni. Il Racecadotril, un potente inibitore selettivo dell’encefalinasi intestinale, rappresenta un promettente farmaco nella terapia antisecretoria della diarrea acuta in età pediatrica. SESSIONE SATELLITE “MALATTIE RARE” 28 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Bruno Nobili, Marco Somaschini Moderatori: Alfonso D’Apuzzo, Ennio Del Giudice, Vincenzo Riccardi Carlo Tolone, Annamaria Staiano, Salvatore Vendemmia, Maurizio Ivaldi SESSIONE SATELLITE 59 EPIDEMIOLOGIA DELLE MALATTIE RARE R. Della Casa, F. Vitiello Dipartimento di Pediatria “Federico II”, Napoli Le Malattie Rare costituiscono un gruppo eterogeneo di affezioni caratterizzate solo dalla comune bassa prevalenza. Esse, per tale motivo, risultano scarsamente conosciute dalla stessa classe medica e sono quindi poco studiate, con la conseguenza che per molte di esse manca spesso una terapia adeguata, anche per difetto di ricerca o di investimenti da parte dell’industria farmaceutica. Per quanto concerne la frequenza di tali patologie una definizione di “rarità” valida per tutti i paesi non esiste. Negli Stati Uniti, dove peraltro esiste una definizione ufficiale di patologia rara (quella che colpisce meno di 200.000 individui nella popolazione statunitense) le classificazioni disponibili comprendono un numero di malattie che varia dalle 1.109 della National Organization for Rare Disorders (NORD) alle 2.117 dell’Office of Rare Disease (ORD del National Institutes of Health). Il centro francese Orphanet propone una lista di circa 5.000 nomi, sinonimi compresi, di patologie rare. Secondo le indicazioni della Unione Europea nel programma sulle malattie rare 1999-2003, accettate anche in Italia, vengono definite rare le malattie che hanno una prevalenza inferiore a 5 per 10.000 abitanti della comunità. Per la maggior parte delle malattie rare mancano dati precisi sulla loro frequenza, poiché per pochissime di loro esiste un sistema di notificazione dei casi a livello nazionale o internazionale. In Italia l’allora Ministero della Sanità ha pubblicato, alcuni anni orsono, un elenco di malattie rare o gruppi di malattie, esenti dalla partecipazione al costo, che comprende circa 200 malattie (DM279/01). Il regolamento, emanato contestualmente, prevedeva anche la realizzazione di una rete clinicoepidemiologica, costituita da presidi accreditati individuati dalle regioni, istituendo presso l’Istituto Superiore della Sanità il Registro Nazionale delle Malattie Rare (art. 3 del suddetto DM). Successivamente con l’autonomia regionale della sanità, le singole regioni si sono progressivamente attivate, non senza qualche problema, nella identificazione dei presidi da accreditare e nella creazione di una rete assistenziale che ha tra i suoi fini anche quello di poter, in qualche modo, censire la reale portata delle singole malattie onde poter prevedere un adeguata valutazione epidemiologica e una idonea programmazione sanitaria. Nelle regioni si è così via via realizzato un Registro Regionale che ha dovuto tener conto delle indicazioni sancite dal tavolo di concertazione Stato-Regioni che nel maggio 2007 che ha previsto un minimo di informazioni inerenti le Malattie Rare da comunicare al Registro Nazionale con sede presso l’ ISS. In Campania questo lungo ed articolato processo ha portato alla realizzazione di centri accreditati ed alla assegnazione all’ AOU Federico II della responsabilità di coordinare il registro regionale. Questo registro dovrà contenere, oltre ai dati inerenti la malattie, identificata mediante il codice d’esenzione, anche dati relativi le modalità e tempi della diagnosi. La realizzazione di tale registro potrà migliorare le conoscenze sulle malattie rare sul piano clinico ed epidemiologico, favorire la ricerca di un miglior piano assistenziale ed anche, si spera, razionalizzazione della spesa sanitaria in questo campo. PRIMA SESSIONE 28 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Antonio Correra, Giovanni Corsello, Luigi Falco, Luciano Tatò Moderatori: Raffaele Iorio, Riccardo Longhi, Pietro Vajro Momenti congressuali RELAZIONI PRIMA SESSIONE 61 IL CHALLENGE NELLA ALLERGIA ALIMENTARE: METODOLOGIA E ORGANIZZAZIONE M. Duse, L. Leonardi Dipartimento di Pediatria Università “La Sapienza”, Roma Premesse L’allergia alimentare (AA) consiste in una reazione avversa ad antigeni proteici di origine alimentare mediata da meccanismi immunologici, in larga misura -ma non esclusivamente- innescati dalla produzione di IgE specifiche con lo sviluppo di una infiammazione prevalentemente Th2, come conseguenza del mancato sviluppo o della perdita della tolleranza orale alle proteine alimentari. La complessità delle reazioni coinvolte e le limitate acquisizioni nell’uomo non consentono ancora di delineare con certezza il meccanismo fisiopatologico che sottende al fallimento della tolleranza orale. Come per altre malattie allergiche, anche per la AA è probabilmente necessario il concorso di più fattori: dal backgroud genetico predisponente -ad oggi in gran parte ignoto- al difetto di integrità e di funzione della barriera intestinale, alle alterazioni della risposta immunitaria locale fino ad arrivare a squilibri della microflora residente. Questi co-fattori non sono con ogni probabilità nè tutti necessari, né mutuamente esclusivi, ma il loro reciproco peso patogenetico e le ricadute cliniche nell’uomo sono solo parzialmente noti. La prevalenza dell’allergia alimentare è stimata intorno al 6-8% nei bambini di età inferiore ai 3 anni e progressivamente diminuisce fino ad arrivare a circa l’1-2% in età adulta. Gli alimenti più frequentemente incriminati sono latte, uovo e pesce nei primi 2 anni di vita; frutta, verdura e legumi sono invece responsabili di manifestazioni allergiche dopo il secondo anno di vita, spesso in associazione con allergia ad inalanti (pollini). La diagnosi di allergia alimentare si basa ovviamente prima di tutto su una attenta anamnesi e un accurato esame obiettivo: gli altri esami, come Prick Test e RAST, sono solo di supporto e il gold standard diagnostico rimane ancora oggi il challenge alimentare che viene comunemente chiamato Test di Provocazione Orale o TPO. Sono stati fatti molti sforzi per cercare di evitare il ricorso al TPO, in quanto se positivo, è connotato non solo dalla ricomparsa dei sintomi, ma da manifestazioni cliniche che sono spesso tanto gravi da comportare un coinvolgimento sistemico fino ad arrivare allo shock anafilattico. Sulla base della constatazione che quanto più alto era il titolo di IgE specifiche, tanto maggiore era la probabilità che si avessero reazioni anafilattiche, molti gruppi di ricerca hanno cercato di individuare il valore di positività soglia, oltre il quale la probabilità di avere reazioni anafilattiche fosse talmente alta da rendere inutile il TPO. Purtroppo ogni gruppo ha riportato valori diversi per ogni alimento per cui a tutt’oggi non possiamo sostituire il TPO o differirlo sulla base di test di laboratorio validati. TPO e dieta di eliminazione Il TPO deve seguire una dieta di eliminazione, definita diagnostica, che prevede l’esclusione dell’alimento incriminato per un periodo sufficiente a consentire il miglioramento o addirittura la scomparsa dei sintomi. La dieta va pertanto prescritta per un periodo breve e variabile a seconda delle manifestazioni cliniche (2 settimane per le reazioni immediate, 4 settimane per la dermatite atopica, 8 settimane per le manifestazioni gastrointestinali) ed è finalizzata solo ad evitare i sintomi derivanti dall’esposizione al cibo offendente, mentre non è assolutamente provato che essa sia in grado anche di accelerare l’acquisizione della tolleranza. Una volta ottenuta la remissione dei sintomi, il nesso causale tra alimento sospettato e reazione avversa va comunque dimostrato con il TPO, che andrà effettuato in ambiente ospedaliero in tutti i casi di precedenti reazioni gravi (anafilassi, orticaria/angioedema generalizzato, crisi asmatiche severe) o quando siano 62 RELAZIONI PRIMA SESSIONE presenti SPT o dosaggi estremamente elevati di IgE specifiche per l’alimento da testare. Nel caso la dieta abbia eliminato più alimenti, questi devono essere introdotti singolarmente, in genere uno per settimana, e con la stessa gradualità, osservando attentamente l’insorgenza di sintomi allergici, tanto immediati quanto tardivi. Infatti, uno degli elementi più confondenti è proprio la grande variabilità nel lasso di tempo che può intercorrere tra l’assunzione dell’alimento incriminato e la comparsa dei sintomi. Se il test risulta positivo, il TPO va in seguito ripetuto ogni 6-12 mesi di dieta priva di quell’alimento per sorvegliare l’eventuale comparsa di tolleranza. Metodologia e organizzazione del TPO Prima di eseguire il TPO dovranno essere sospesi i farmaci che possono mascherare la reattività individuale: antistaminici e corticosteroidi per via sistemica. Gli steroidi topici non costituiscono, al contrario, una controindicazione formale al test. Prima di iniziare il challenge, è pratica piuttosto comune eseguire il test della goccia, ovvero la stimolazione sulla mucosa labiale con una goccia del cibo da testare per evidenziare una eventuale abnorme reattività che potrebbe controindicare l’esecuzione del test o indurre a particolare cautela nella sua prosecuzione. Quantità di cibo da somministrare, modalità di aumento delle dosi, intervallo tra le dosi e intervallo di tempo tra diversi test nei casi di polisensibilizzazione sono protocollati diversamente a seconda dei gruppi di ricercatori: ognuno ha elaborato una propria strategia e solo di recente si sta cercando di standardizzare una metodica da proporre e condividere. Di fatto si inizia con piccole quantità di alimento che vengono aumentate gradualmente fino a raggiungere la quantità che generalmente induce la reazione. Nei bambini di età inferiore ai 2 anni il TPO può essere effettuato “in aperto”, cioè somministrando quantità crescenti ad intervalli di 15-20 minuti dell’alimento immodificato. Quando l’interpretazione dei sintomi da parte dei familiari è dubbia o il bambino è abbastanza grande o addirittura adolescente, è più indicato procedere con il test “in singolo cieco” (il paziente e i familiari ignorano se la somministrazione sia di alimento sospetto o di placebo) o “in doppio cieco” (anche lo stesso medico non sa quale sia l’alimento e quale il placebo): quest’ultimo, meglio noto come DBPCFC (double- blind placebo controlled food challenge) è unanimemente considerato per la sua affidabilità il “gold standard” per la diagnosi di allergia alimentare e rappresenta il test di riferimento con cui comparare altri sistemi di valutazione. Terminata la somministrazione, l’osservazione diretta del bambino in ospedale andrà protratta per 6 ore; se entro i 7 giorni seguenti compaiono i sintomi allergici caratteristici, il test viene considerato positivo e interrotto. In questo caso l’alimento viene eliminato dalla dieta e nuovamente testato periodicamente (ogni 8-12 mesi) per verificarne l’acquisita tolleranza. Gli alimenti eliminati dopo test di provocazione definiscono la dieta di esclusione terapeutica. TPO positivo Se il TPO risulta positivo, i sintomi possono essere anche molto gravi e pericolosi per la vita e richiedere una pronta assistenza di personale non solo esperto nella procedura del challenge con alimenti, ma anche qualificato nel trattamento farmacologico e rianimatorio degli eventuali casi di anafilassi. Inoltre la struttura destinata all’ esecuzione del test deve essere sempre attrezzata per affrontare tali eventuali urgenze. Dovranno pertanto essere prontamente disponibili adrenalina, corticosteroidi e antistaminici per somministrazione im/ev, beta 2 agonisti per via inalatoria, ecc. Uno studio retrospettivo di 349 TPO in bambini con dermatite atopica riporta reazioni avverse in oltre la metà dei casi (51%); di questi il 67% aveva richiesto un intervento medico: orale in 78 casi (65%) e parenterale in 42 casi (35%); inoltre 26 erano i casi di shock anafilattico (14, 6%). E’ dunque indispensabile che il TPO venga effettuato sempre in ospedale e con la pronta disponibilità di un rianimatore. Purtroppo, da un’indagine condotta nel nostro territorio nazionale emerge il dato allarmante che un rianimatore è prontamente disponibile solo in 75 centri dei 268 che eseguono abitualmente il TPO (pari al 27, 9% dei casi). RELAZIONI PRIMA SESSIONE 63 Bibliografia 1. Bindslev -Jensen C. et al. Standardization of food challenges in patients with immediate reactions to food. Allergy. 2004; 59: 690-97. 2. Chapman JA et al. Food Allergy: A practice parameter. Annals of Allergy, Asthma & Immunology. 2006; 96: S1-S68. 3. Hill DJ et al. Reducing the need for food allergen challenges in young children: a comparison of in vitro with in vivo tests. Cl Exp Allergy 2001; 31: 1031-35. 4. Hugh A. Update on food allergy. J Allergy Clin Immunol. 2004; 113: 805-19 5. Martelli A. et al. Oral food challenge in children in Italy. Allergy. 2005; 60: 907-11 6. Niggemann B. et al. Controlled oral food challenges in children -when indicated, when superfluous? Allergy, 2005 Jul; 60(7): 865-70. 7. Niggemann B, Beyer K. Pitfalls in double-blind placebo controlled oral food challenges. Allergy. 2007 Jul; 62(7): 729-32 8. Perry TT et al. Risk of oral food challenges. JACI. 2004; 114: 1164-8. 9. Reibel S. et al. What safety measures need to be taken in oral food challenges in children? Allergy. 2000; 55: 940-44 10. Sampson HA, HO DG. Relationship between food-specific IgE concentrations and the risk of positive food challenges in children and adolescents. J Allergy Clin Immunol, 1997; 100: 445-51 11. Sicherer SH et al. Current approach to the diagnosis and management of adverse reactions to food. J. Allergy Clin Immunol. 2004; 114: 1146-50. 64 RELAZIONI PRIMA SESSIONE Il TRATTAMENTO OLISTICO-ODONTOIATRICO DEL PAZIENTE PEDIATRICO CON BISOGNI SPECIALI D. Lauritano, M. Maddalone, M. Baldoni Università degli Studi di Milano-Bicocca - Facoltà di Medicina e Chirurgia La Clinica Odontoiatrica dell’Università di Milano-Bicocca ha sviluppato, durante il suo percorso scientifico, numerosi filoni di ricerca, indagando tematiche di significativa attualità, all’interno delle quali un’attenzione particolare è stata riservata al trattamento odontoiatrico dei pazienti con bisogni speciali. La Clinica ha inoltre concordato, con alcuni reparti ospedalieri e altre strutture sanitarie, programmi di integrazione multidisciplinare delle competenze odontostomatologiche e mediche, per migliorare la collaborazione con le realtà assistenziali del territorio ed offrire al paziente con bisogni speciali un servizio accurato ed efficiente, frutto del percorso scientifico e di ricerca. Infatti numerosi dati scientifici dimostrano che la prevenzione, l’intercettamento e l’avvio alla terapia precoce delle manifestazioni orali nel soggetto con bisogni speciali è un atto sanitario di estrema rilevanza. Gli Autori descrivono inoltre i protocolli operativi della Clinica Odontoiatrica dell’Università Milano-Bicocca per un corretto approccio al paziente con bisogni speciali, e illustrano le varie tecniche diagnostico-terapeutiche differenziate in base al tipo di patologia ed al grado di collaborazione del paziente. L’esperienza maturata nel trattamento dei pazienti con bisogni speciali ha permesso alla Clinica Odontoiatrica dell’Università di Milano-Bicocca di diventare centro di riferimento per altre strutture sanitarie e specialisti del territorio di Monza e Brianza. RELAZIONI PRIMA SESSIONE 65 RARE E NEGLETTE S. Bruni, L. Loschi Modena Le malattie rare sono un gruppo di oltre 7.000 patologie, molte delle quali fatali o croniche invalidanti, che rappresentano nel loro complesso circa il 10% delle malattie che colpiscono l’umanità. La Commissione Europea, chiamata ad esprimersi in questo senso, ha definito rare quelle patologie la cui incidenza non è superiore a 5 su 10.000 abitanti. Negli Stati Uniti il parametro è leggermente diverso: meno di 7 persone ogni 10 mila. Se dagli Usa passiamo al Giappone la definizione è ancora diversa: meno di 4 abitanti su 10 mila. Si stima che in Italia ci siano circa 2 milioni di persone affette, moltissime delle quali in età pediatrica. L’80% delle malattie rare ha origini genetiche, con coinvolgimento di uno o più geni o cromosomi. Possono essere ereditarie o derivare da una mutazione ex novo e colpiscono il 3-4% dei nati vivi. Altre malattie rare sono provocate da infezioni (batteriche o virali), allergie, o sono dovute a fattori degenerativi, neoproliferativi o teratogeni (chimici, radiazioni, etc.). Alcune malattie derivano dall’interazione tra cause genetiche e ambientali, ma la maggior parte delle malattie rare ha una patogenesi sconosciuta, anche per la mancanza di ricerca scientifica. Le malattie rare sono caratterizzate da grande eterogeneità di segni e sintomi che variano non solo da una malattia all’altra, ma anche all’interno della stessa malattia. Tuttavia, esistono alcuni tratti comuni e possono quasi sempre essere caratterizzate come: gravi o molto gravi, croniche, spesso degenerative e generalmente letali; nella metà dei casi, insorgono in età infantile; disabilitanti: la qualità della vita dei pazienti affetti da malattie rare è spesso compromessa in seguito alla carenza o alla perdita di autonomia; molto gravi in termini psicosociali: la sofferenza dei pazienti e delle loro famiglie è aggravata dalla disperazione psicologica, dalla mancanza di opzioni terapeutiche e dalla mancanza di supporti pratici nella vita quotidiana; malattie incurabili, per la maggior parte senza reali cure. In alcuni casi i sintomi possono essere trattati per migliorare la qualità e l’aspettativa di vita; difficili da gestire: le famiglie trovano insormontabili ostacoli nel trovare una cura efficace. Tra le malattie rare, un gruppo molto importante è rappresentato dalle malattie metaboliche ereditarie che colpiscono i bambini generalmente nei primi anni di vita ma i cui sintomi possono anche esordire in età giovanile o adulta. Sono malattie gravi, molte delle quali, se non riconosciute tempestivamente, causano gravi handicap fisici e mentali e spesso sono causa di morte precoce. Molte altre si manifestano con sintomi subdoli e progressivamente ingravescenti fino a quadri di patologia d’organo irreversibile. In molti casi la malattia rara si presenta con un quadro clinico così evidente che sarebbe impossibile non diagnosticarla correttamente fino dalla prima occhiata. Purtroppo però questo non è sempre vero: in molte altre occasioni individuare la patologia non è facile in quanto questa si manifesta con sintomi e segni sfumati, spesso aspecifici. Nell’ambito delle malattie rare e, più in particolare, delle malattie metaboliche, le malattie da accumulo lisosomiale rappresentano un vasto gruppo di affezioni dovute al deficit di enzimi preposti alla degradazione di specifiche sostanze. La mancanza di un enzima determina l’interruzione di una via metabolica con conseguente accumulo progressivo nei lisosomi di materiale non degradato. Le malattie lisosomiali vengono denominate in base alle principali sostanze accumulate in: Mucopolisaccaridosi, Mucolipidosi, Glicoproteinosi, Lipidosi, Glicogenosi tipo II (malattia di Pompe). Malgrado sia ormai accertato che queste malattie, considerate nella loro totalità, colpiscono un numero significativo di persone, rimane tuttavia vero il paradigma secondo il quale raro significa poco conosciuto e/o negletto. 66 RELAZIONI PRIMA SESSIONE I dati epidemiologici disponibili per la maggior parte delle malattie rare sono inadeguati a fornire dati certi sul numero di pazienti con una specifica malattia rara. In generale le persone affette da malattia rara non sono registrate su database. Molte malattie rare sono raggruppate sotto la definizione di “altri disordini metabolici o endocrini” e, di conseguenza, salvo rare eccezioni, è difficile registrare in modo affidabile e organico su base nazionale o sopranazionale le persone affette da malattie rare. Nel caso di tumori rari, per esempio, molti registri non forniscono dati sufficienti a classificare questi tumori, nonostante la disponibilità di materiale anatomopatologico proveniente dai reperti operatori. Per la loro rarità, queste malattie sono difficili da diagnosticare e, spesso, sono pochi i Centri specializzati nella diagnosi e nella cura; per molte di esse, inoltre, non esistono ancora terapie efficaci. Se prendiamo ad esempio la malattia di Fabry, una patologia da accumulo lisosomiale, dati pubblicati in letteratura riportano che la misdiagnosi è comune e il ritardo medio di una diagnosi corretta rispetto all’esordio dei sintomi è di circa quattordici anni nei maschi e sedici anni nelle femmine. Quindi, in assenza di un precedente familiare che abbia già avuto una diagnosi definitiva di malattia di Fabry, molti casi non sono diagnosticati prima dell’età adulta (età media 29 anni) quando la malattia può avere raggiunto uno stadio già avanzato. Le informazioni sia sulla malattia che sulle sedi in cui sia possibile ricevere aiuto sono carenti e mancano figure professionali qualificate che possano fungere da riferimento. Lo stesso ragionamento vale per le conoscenze scientifiche, la cui scarsità si concretizza nella difficoltà di sviluppare una corretta strategia terapeutica e nel reperire sia prodotti farmaceutici che apparecchiature mediche appropriate. I pazienti possono vivere per diversi anni in situazioni precarie senza attenzioni mediche adeguate e rimanere esclusi dall’assistenza del sistema sanitario nazionale perfino una volta ottenuta la diagnosi. Inoltre, le cure innovative sono spesso diversamente accessibili nei paesi dell’unione europea a causa dei ritardi nel determinare il prezzo dei farmaci e/o nelle decisioni relative alla rimborsabilità, della scarsa familiarità con queste terapie da parte dei medici che trattano i pazienti (numero insufficiente di medici coinvolti nei trial) e dell’assenza di linee guida o raccomandazioni relativi al trattamento. Vivere con una malattia rara ha implicazioni in ogni campo della vita quotidiana e di relazione: nella scuola, nella scelta della professione, nel tempo libero con gli amici o nella vita affettiva. Può condurre all’isolamento sociale, esclusione dalla comunità, discriminazioni a fini assicurativi e spesso a opportunità professionali ridotte (quando non del tutto irrilevanti). Sebbene il numero di malattie rare conosciute sia ancora molto limitato, è possibile iniziare a parlare di risveglio di alcune parti dell’opinione pubblica e, di conseguenza, alcune azioni sono state intraprese dalle autorità pubbliche. In Italia, il Piano Sanitario Nazionale (PSN) 1998-2000 indicava fra le priorità la "tutela dei soggetti affetti da malattie rare" e tra gli interventi prioritari la realizzazione di una rete nazionale delle malattie rare. Nel maggio 2001 è stato emanato il Decreto Ministeriale 279/2001 "Regolamento di istituzione della rete nazionale delle malattie rare e di esenzione dalla partecipazione al costo delle relative prestazioni sanitarie, ai sensi dell'articolo 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 29 aprile 1998, n. 124". A partire dal 2001 le Regioni hanno iniziato a individuare i Presidi per l'assistenza ai pazienti affetti da malattie rare e attualmente le reti regionali sono individuate su buona parte del territorio nazionale. Dal Luglio 2002 è stato istituito nell'ambito della conferenza Stato-Regioni un gruppo tecnico interregionale permanente, al quale partecipano il Ministero della Salute e l'ISS, il cui obiettivo è rappresentato dall'ottimizzazione del funzionamento delle reti regionali e dalla salvaguardia del principio di equità dell'assistenza per tutti i cittadini. Il 10 maggio 2007 è stato siglato il secondo accordo tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sul riconoscimento di Centri di coordinamento regionali e/o interregionali, di Presidi assistenziali sovraregionali per le patologie a bassa prevalenza e sull'attivazione dei registri regionali ed interregionali delle malattie rare. Nell’ottobre del 2004, il documento introduttivo sulle malattie orfane per il rapporto dell’Organizzazione RELAZIONI PRIMA SESSIONE 67 Mondiale della Sanità sulle politiche sanitarie prioritarie nell’UE e nel mondo affermava che, malgrado la crescente consapevolezza pubblica sulle malattie rare negli ultimi due decenni, ci sono ancora molte lacune relativamente alle conoscenze necessarie per lo sviluppo di trattamenti per le malattie rare. I politici devono comprendere che le malattie rare sono un problema sanitario cruciale per circa 30 milioni di persone in Europa. Il programma 2008-2013 di salute pubblica dell’UE continuerà a considerare gli aspetti delle malattie rare come una delle principali priorità. Per quelle malattie rare, per le quali sia disponibile un trattamento preventivo semplice, è di grande importanza pensare a uno screening neonatale. Qualcosa si sta facendo nell’ambito delle malattie metaboliche ereditarie. Nella Regione Toscana, attualmente, viene eseguito per legge lo “Screening Neonatale Metabolico Allargato”con l’ausilio di una speciale apparecchiatura - Tandem-mass spettrometria - che consente di individuare, a poche ore dalla nascita, circa quaranta malattie metaboliche ereditarie, suscettibili di trattamento dietetico o farmacologico, ritardando così il più possibile l’evoluzione della malattia e quindi il danno irreversibile di organi ed apparati. Lo screening neonatale metabolico allargato permette: il riconoscimento in fase pre-clinica di una malattia potenzialmente letale o comunque gravemente invalidante; il trattamento immediato della patologia metabolica laddove disponibile un trattamento; di evitare l’insorgere dello scompenso metabolico acuto che rappresenta la principale causa di morte di queste patologie. Il 30 aprile 2008 è stato presentato il Disegno di Legge n. 288, “Norme in materia di diagnosi precoci neonatali obbligatorie”:tra gli obiettivi si trova quello di diagnosticare, in tempo utile, malattie per le quali è oggi possibile effettuare una terapia. Tale disegno di legge ha origine dalla stessa Ricerca comunitaria del maggio 2004 della Commissione europea che, nell’emanare le venticinque raccomandazioni concernenti le implicazioni etiche, giuridiche e sociali dei test genetici, nella raccomandazione 18, relativa alle malattie rare, raccomanda che gli Stati membri istituiscano in via prioritaria uno screening neonatale generalizzato per le malattie rare ma gravi, per le quali esista una cura. Il crescente impegno del mondo politico nei confronti di questo tema è dimostrato anche dall’impegno della XV legislatura italiana nei riguardi delle malattie rare che ha riempito l’agenda politica, grazie ad una serie di interventi mirati a sviluppare la rete di assistenza per le malattie rare. Infatti, in data 5 giugno 2007, si è insediata presso il Ministero della salute la Consulta per le malattie rare, composta da 34 rappresentanti di varie realtà associative, ma soprattutto la legge finanziaria 2008 ha introdotto le risorse economiche, tre milioni di euro, per poter effettuare la diagnosi precoce a tutta la popolazione neonatale. Visto lo stanziamento, manca solo il provvedimento che ne stabilisca l’obbligatorietà. 68 RELAZIONI PRIMA SESSIONE THE LINKS BETWEEN ASTHMA AND RESPIRATORY INFECTIONS G. Piedimonte West Virginia University School of Medicine, WVU Children’s Hospital A number of studies have implicated viral lower respiratory tract infections early in life as a risk factor for the subsequent development of asthma (1). In particular, it has been suggested that respiratory syncytial virus (RSV) infection may enhance the development of “allergic” inflammatory responses when the host is exposed to allergens after an episode of bronchiolitis. Some predisposing conditions frequently associated with severe RSV disease are also independent risk factors for chronic airway dysfunction: preterm birth per se is known to result in persistent alterations of lung function (2, 3) and chronic lung disease of prematurity (CLD) is associated with the development of obstructive lung disease and airway hyperreactivity (4). This lecture will review new hypotheses concerning the mechanisms involved in the pathogenesis of childhood asthma. RELAZIONI PRIMA SESSIONE 69 TRAPIANTO DI FEGATO PEDIATRICO G. Mieli Vergani, A. Mowat Institute of Liver Studies - King’s College Hospital, Denmark Hill, London Il trapianto di fegato e’ divenuto un trattamento standard in pediatria all’inizio degli anni 90. Le indicazioni per il trapianto di fegato pediatrico comprendono epatopatie croniche scompensate di varia eziologia (per esempio atresia delle vie biliari dopo una enterostomia di Kasai che non ha avuto successo, deficienza di alfa 1 anti-tripsina, colangite sclerosante, colestasi progressive familiari, malattia di Wilson, epatite autoimmune, fibrosi cistica, ecc); gravi malattie metaboliche incompatibili con una vita normale e dovute a difetti enzimatici confinati solo o soprattutto al fegato (per esempio sindrome di Crigler Najjar tipo 1, ipercolesterolemia familiare, acidemia propionica, difetti del ciclo dell’urea, ecc); tumori che rispondono alla chemioterapia ma rimagono inoperabili; insufficienza epatica acuta; complicazioni di malattie eaptiche croniche associate a povera qualita’ di vita (per esempio prurito e xantomatosi nella sindrome di Alagille). In pediatria, la decisione di procedure a trapianto non e’ presa solo sulla base di una diminuita possibilita’ di sopravvivenza, ma anche sulla necessita’ per il bambino di crescere, di studiare e di vivere normalmente, completamente integrato nella societa’. Il bambino e la famiglia hanno bisogno di accurati accertamenti medici e psicologici prima che il bimbo sia messo in lista per trapianto e devono essere pronti ad accettare la dipendenza dalla struttura sanitaria per molti anni a venire. Durante gli ultimi 20 anni, ci sono state numerose innovazioni tecniche che hanno migliorato in modo drammatico la disponibilita’ ed la prognosi del trapianto epatico pediatrico: trapianti con fegato ridotto, split e da donatore vivente hanno aumentato il pool di organi per bambini di tutte le eta’ e dimensioni. Particolarmente eccitante e’ la procedura del trapianto ausiliario, che permette di correggere malattie metaboliche con gravi effetti sistemici, ma associate ad una normale funzionalita’ epatica, come la sindrome di Crigler Najjar tipo 1 or l’ipercolesterolemia familiare, senza i rischi associati ad un trapianto di organo intero, e di offrire a pazienti con insufficienza epatica acuta un periodo ponte per una guarigione del loro fegato nativo, evitando cosi’ la necessita’ dell’uso di farmaci anti rigetto a lungo termine. Una nuova tecnica e’ il trapianto di epatociti, attualmente sperimentata in centri specializzati per la cura parziale di difetto metabolici come la sindrome di Crigler Najjar tipo 1, la deficienza di fattore VII, i difetti del ciclo dell’urea e la glicogenosi di tipo 1. In via di sperimentazione e’ anche il trapianto di epatociti per bimbi con colestasi familiare progressiva o insufficienza epatica acuta. Sebbene il trapianto di fegato abbia diminuito drasticamente la mortalita’ delle malattie epatiche in eta’ pediatrica, e’ importante ricordare che non porta ad una completa ‘guarigione’. Infatti, avere il fegato di un’ altra persona e di per se una ‘malattia’. Vi sono numerose possibili complicazioni a breve termine: infezioni, disfunzione renale, malattie dermatologiche, linfoma correlato ad infezione con virus di Epstein Barr, cardiomiopatie, diabete, malattie autoimmuni. Inoltre vi sono molte possibili complicazioni a lungo termine: insufficienza renale cronica, cancro, epatopatia cronica che puo’ portare ad un ulteriore trapianto. Una delle cause piu’ comuni di disfunzione epatica, particolarmente negli adolescenti e giovani adulti, che porta alla perdita dell’organo trapiantato e’ la mancanza di aderenza alla terapia anti-rigetto. 70 RELAZIONI PRIMA SESSIONE VIRUS EPATOTROPICI ED AUTOIMMUNITÀ D. Vergani Institute of Liver Studies - King’s College Hospital, Denmark Hill, London Tra i virus epatotropici, quello piu chiaramente associato a manifestazioni autoimmuni e’ il virus dell’epatite C (HCV). Alla base di queste manifestazioni e’ la presenza sui linfociti B della molecola CD81, il recettore principale per l’HCV. La molecola CD81 e’ una tetraspanina che ha come legante naturale la proteina enveloppe 2 del virus (E2). Strettamente associate al CD81 sono le proteine specifiche del linfocita B, CD21 e CD19. CD21 e’ il recettore per il frammento del complemento C3d, mentre CD19 transduce segnali di attivazione all’interno della cellula. Quando l’HCV, ricoperto da C3d, si lega a CD81, la soglia per l’attivazione policlonale dei linfociti B si abbassa e questo risulta nella produzione di autoanticorpi e crioglobuline. Altri fattori comunque devono essere coinvolti nell’espressione clinica di questi fenomeni dal momento che un’alta proporzione di pazienti con autoanticorpi non sviluppa crioglobuline. Autoanticorpi non organo specifici sono stati descritti consistentemente nella infezione cronica da HCV con prevalenze riportate fino al 70%. Gli autoanticorpi piu’ frequentemente riscontrati sono l’anti muscolatura liscia (SMA), a cui segue in ordine di frequenza l’anti nucleo (ANA) e, in una minoranza di casi, l’anti liver kidney microsomal di tipo 1 (anti-LKM1). Il pattern all’immunofluorescenza dello SMA nella epatite C e’ diverso da quello dell’actina, tipico dall’epatite autoimmune di tipo 1, e l’ANA solitamente e’ non omogeneo ma speckeld. In contrasto, il pattern all’immunofluorescenza dell’ anti-LKM1 non e’ distinguibile da quello dell’epatite autoimmune di tipo 2. I bersagli molecolari di ANA e SMA sono sconosciuti, mentre quello dell’anti-LKM1 e’ il citocromo P4502D6 (CYP2D6). In soggetti infetti da HCV la presenza di autoanticorpi e’ associata a danno epatico. Durante uno screening per la presenza di segni clinici e/o laboratoristici di malattia di fegato in una popolazione non selezionata di 7.000 soggetti, 226 furono trovati positivi per marcatori dell’HCV. Autoanticorpi non organo specifici erano presenti nel 25% di questo gruppo, una prevalenza molto piu’ elevata di quella riscontrata in 226 soggetti non infetti dall’HCV, ma simili caratteristiche demografiche. La presenza di autoanticorpi era significativamente associata con segni di malattia epatica sia clinici che di laboratorio. Positivita’ per anti-LKM1 e’ stato ripetutatmente descritta in associazione allo sviluppo di effetti collaterali durante la somministrazione di interferone, in particolare e’ stato comunemente descritto un flare delle transaminasi, che puo’ portare alla necessita’ di sospendere il trattamento. Recentemente, e’stato dimostrato che pazienti HCV positivi con anti-LKM1 hanno un rischio di sviluppare tiroidite 10 volte piu’ elevato che quelli senza anti-LKM1. Diversi sono i possibili meccanismi alla base delle manifestazioni autoimmuni in corso di infezione HCV, anche se il mimetismo molecolare sembra essere il piu’ probabile essendo supportato da dati sperimentali. RELAZIONI PRIMA SESSIONE 71 ATTUALITÀ SULLE VACCINAZIONI A.G. Ugazio Dipartimento di Medicina pediatrica Ospedale Bambino Gesù lo sviluppo di nuovi vaccini sembrava essersi arrestato fino agli anni 90 dello scorso secolo, ma da allora stiamo assistendo ad una crescente accelerazione delle ricerche di base, applicative ed alla produzione di nuovi vaccini. C’è alla base, certamente, la crescente consapevolezza che l’uso degli antibiotici genera resistenze, che la produzione di nuovi antibiotici richiede sempre più tempo ed investimenti. Anche in termini meramente economici, prevenire è meglio che curare. Abbiamo assistito così alla nascita e stiamo assistendo allo sviluppo dei vaccini polisaccaridici coniugati: dopo quello diretto contro i polisaccaridi dello Haemophilus influenzae, i vaccini antipneumococcico e antimeningococcico. Attualmente non disponiamo di un vaccino polisaccaridico coniugato contro il meningococco di tipo B che in questi ultimi anni ha superato il meningococco di tipo C come causa principale di meningite meningococcica (fig.1). Figura 1. Numero di casi di meningite meningococcica in Italia per anno dal 2002 al 2008 Grazie agli sviluppi di tecnologie basate sul DNA ricombinante (“riverse vaccinology”) è però già iniziata la sperimentazione di un nuovo vaccino diretto contro il meningococco di tipo B e basato sull’impiego di 5 proteine ottenute dal DNA ricombinato (fig.2). 72 RELAZIONI PRIMA SESSIONE Figura 2. 5CVMB (Vaccino a 5 componenti contro il meningococco di gruppo B) Giuliani M.M. et Al., 2006 Quanto al vaccino antipneumococcico coniugato eptavalente contro lo pneumococco si è dimostrato estremamente efficace e sicuro nella prevenzione delle malattie invasive del bambino (meningite, sepsi, polmonite batteriemica e batteriemia febbrile). Studi più recenti su ampie popolazioni, condotti soprattutto in Nord America, hanno dimostrato che il vaccino è molto efficace anche nella prevenzione delle polmoniti e otiti medie acute pneumococciche. Lo studio di ampie popolazioni ha inoltre dimostrato che la vaccinazione genera un rilevante “effetto gregge” (herd immunity) proteggendo dalla polmonite in misura assai significativa anche gli anziani non vaccinati. Riducendo drasticamente i sierotipi maggiormente circolanti, la vaccinazione ha anche ridotto in misura significativa l’antibiotico resistenza. Unica preoccupazione sostanziale è quella che i sierotipi attualmente più frequenti possano venir rimpiazzati come causa di malattia da altri sierotipi attualmente più rari. I dati disponibili suggeriscono che questo fenomeno può essere favorito dalla vaccinazione su larga scala e limitare, sia pure in misura assai modesta, l’efficacia complessiva della vaccinazione. In realtà è ormai prossimo alla commercializzazione un vaccino 13-valente che comprende i sierotipi frequenti nel nostro paese ma assenti dalla formulazione eptavalente. Ha certamente rappresentato una autentica sorpresa il rapidissimo sviluppo del vaccino diretto contro alcuni tipi di HPV, in particolare contro quelli maggiormente cancerogeni. L’impiego su larga scala di questo vaccino è destinato a ridurre in misura sostanziale il cancro della cervice uterina. Numerosi altri vaccini verranno resi disponibili nel prossimo futuro. Un vaccino anti-influenzale con virus vivo attenuato somministrabile per via nasale, un vaccino tetravalente diretto contro morbillo, rosolia, parotite e varicella…In particolare il vaccino antinfluenzale con virus vivo attenuato si è ormai ampiamente dimostrato più efficace del vaccino inattivato che solitamente utilizziamo (fig.3). RELAZIONI PRIMA SESSIONE 73 Figura 3. Efficacia del vaccino antinfluenzale con virus vivi attenuati in confronto a quella del vaccino inattivato (Robert B. Belshe et al. N Engl J. Med 356, 7; 2007) Purtroppo questo vaccino è stato sperimentato soltanto nei bambini di età superiore ai 5 anni. Certamente, se si dimostrasse efficace anche al di sotto di tale età, essendo per giunta somministrabile per spray nasale, quindi senza necessità di iniezione alcuna, riproporrebbe in termini assai meglio praticabili l’opportunità di una vaccinazione universale anche in età pediatrica. La WHO stima che nel 2015 disporremo di un numero di vaccini doppio rispetto a quello di cui disponiamo oggi. Dai nuovi vaccini ci aspettiamo soprattutto armi efficaci in grado di proteggere i bambini poveri del mondo dai microrganismi che ancora mietono ogni anno milioni di vittime: la malaria, la tubercolosi e l’HIV. SECONDA SESSIONE 29 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Pasquale Di Pietro, Claudio Fabris Moderatori: Gerardo Chirichiello, Franco Messina, Luigi Orfeo, Gennaro Vetrano Momenti congressuali RELAZIONI SECONDA SESSIONE 75 IL CORRETTO USO DEGLI ANTIBIOTICI IN TERAPIA INTENSIVA NEONATALE M. Stronati, A. Borghesi Neonatologia, Patologia Neonatale e Terapia Intensiva, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia Le infezioni costituiscono una delle principali cause di mortalità in epoca neonatale, e rappresentano la causa di oltre due milioni di decessi ogni anno. Gli antibiotici sono l’arma più efficace a nostra disposizione contro le infezioni, ma la loro somministrazione empirica e prolungata ad ampio spettro seleziona ceppi batterici resistenti e favorisce l’insorgenza di infezioni fungine (1). Gli antibiotici sono ancora oggi i farmaci più utilizzati in Terapia Intensiva Neonatale (UTIN) (2), e, nei paesi industrializzati, circa l’1% dei neonati è sottoposto ad antibioticoterapia; si rende quindi necessario mettere in atto precise strategie per prevenire e ridurre il fenomeno dell’antibioticoresistenza. Il neonatologo di fronte al solo sospetto di una grave infezione neonatale ha l’esigenza di non somministrare antibiotici non necessari per evitare il possibile sviluppo di resistenze, ma nello stesso tempo deve tener presente che una grave infezione non trattata tempestivamente può avere conseguenze devastanti. L’atteggiamento oggi ritenuto più corretto e confermato recentemente da Isaacs è quello di iniziare una terapia empirica ogni qual volta vi sia il sospetto di una grave infezione, e di sospenderla non appena questa possa essere esclusa (dopo 48-72 ore) (1, 3-4). È raccomandabile inoltre utilizzare antibiotici a spettro ristretto quando possibile, e ad ampio spettro soltanto in pazienti selezionati; inoltre è necessario tenere sempre in considerazione le caratteristiche del farmaco e le peculiarità cliniche del paziente. Le sepsi early-onset (ad insorgenza nelle prime 72 ore di vita) sono causate più frequentemente da microrganismi quali streptococchi di gruppo B, enterococchi, Enterobacteriaceae e Listeria monocytogenes, ma comunque è necessario prendere sempre in considerazione l’eventuale microrganismo causa di infezione materna. Mtitimila e Cooke, in una meta-analisi Cochrane (5), hanno individuato solamente due piccoli studi che hanno messo a confronto diversi regimi di terapia antibiotica (Timentin vs Piperacillina/Gentamicina e Ceftazidime vs Benzilpenicillina/Gentamicina) per le sepsi neonatali early-onset, e concludono che non esiste evidenza sufficiente per raccomandare una associazione antibiotica piuttosto che un’altra. Tuttavia la maggior parte degli Autori sono concordi nell’affermare che l’associazione empirica da preferire nelle sepsi early-onset è una penicillina o una penicillina semisintetica (ampicillina) con un aminoglicoside dal momento che l’associazione risulta efficace nei confronti dei microrganismi più frequentemente isolati (4). Le sepsi late-onset (ad insorgenza dopo le prime 72 ore di vita, e a patogenesi nosocomiale) sono più spesso causate da microrganismi quali gli stafilococchi coagulasi negativi (CONS), Enterobacteroaceae, Pseudomonas e funghi. Per la scelta degli antibiotici è opportuno tener presente l’ecologia batterica del proprio reparto e lo spettro di sensibilità dei microrganismi più comunemente isolati. Gordon e Jeffery, in una meta-analisi Cochrane, non hanno individuato dati sufficienti per raccomandare un determinato regime antibiotico (6). La maggior parte degli Autori sono concordi nell’utilizzare un aminoglicoside associato ad una penicillina antistafilococcica (oxacillina, flucloxacillina, ecc.) in associazione con un aminoglicoside e riservare la vancomicina associata ad un aminoglicoside ai casi di infezione causata da stafilococchi meticillino-resistenti (MRSA) (1). I dati della letteratura mettono in luce come l’uso prolungato e inappropriato degli antibiotici continui ad essere diffuso nelle UTIN. Grohskopf et al. (7) hanno effettuato uno studio per valutare l’utilizzo degli antibiotici nelle terapie intensive neonatali e hanno quindi condotto una indagine di prevalenza in collaborazione con il Pediatric Prevention Network per il progetto ICARE (Intensive Care Antimicrobial Resistance Epidemiology) in 29 UTIN. Il 54% dei neonati era in terapia antimicrobica; in particolare il 22, 7% riceveva 1 antimicrobico, il 58, 5% ne riceveva 2, il 15, 5% ne riceveva 3, il 2, 9% ne riceveva 4 e lo 0, 4% ne riceveva 5 (7). In tale studio l’antibiotico più utilizzato era la gentamicina (22, 3% dei pazienti), seguito da ampicillina (20, 76 RELAZIONI SECONDA SESSIONE 4%), vancomicina (10, 9%), cefotaxime (6, 6%), tobramicina (3, 1%); l’associazione più frequente è stata ampicillina/gentamicina (15, 5% dei pazienti), seguita da vancomicina/gentamicina (3, 8%) e ampicillina/ cefotaxime (2, 3%). Gli antibiotici in UTIN possono essere utilizzati come profilassi (definita come terapia volta a prevenire un’infezione in un paziente sottoposto a intervento chirurgico o a procedure invasive), come terapia mirata (terapia basata sui risultati delle emocolture e dell’antibiogramma) o come terapia empirica (definita come terapia basata su segni e sintomi, in assenza di esami colturali o prima che questi siano disponibili). Nell’indagine del Pediatric Prevention Network la prescrizione di gentamicina, ampicillina, cefotaxime, tobramicina, metronidazolo e nistatina avveniva prevalentemente su base empirica; l’uso di ceftazidime, amfotericina B, oxacillina e nafcillina era prevalentemente come terapia mirata; l’uso dell’amoxicillina avveniva prevalentemente per profilassi. La vancomicina era prescritta nel 55% dei casi su base empirica. In uno studio (8) condotto su 6956 neonati di peso molto basso alla nascita (VLBW) ricoverati tra il 1998 ed il 2000 nei centri che aderiscono al National Institute of Child Health and Human Development (NICHD) Neonatal Research Network complessivamente il 56% di tutti i neonati inclusi nello studio ha ricevuto almeno 1 ciclo di terapia antibiotica iniziato dopo la 3° giornata di vita, nonostante episodi di sepsi tardiva dimostrati dalla positività di una emocoltura siano stati registrati soltanto nel 21% di tutti i pazienti inclusi. Gli antibiotici più utilizzati sono stati gentamicina, vancomicina, cefotaxime, ampicillina e tobramicina, ed il 44% di tutti i neonati inclusi nello studio ha ricevuto vancomicina dopo il 3° giorno di vita. L’uso della vancomicina è stato tanto maggiore quanto più basso era il peso alla nascita (401-500 g, 78%; 501-750 g, 75%; 751-1000 g, 60%; 1001-1250 g, 36%; 1251-1500 g, 18%); il 93% dei pazienti con sepsi microbiologica ha ricevuto la vancomicina, ma anche il 30% dei pazienti senza una infezione dimostrata ha ricevuto lo stesso antibiotico. Un recente studio basato su database elettronici di 56 diverse UTIN negli USA ha dimostrato una grande variabilità nell’uso della vancomicina nelle diverse UTIN. In tale studio la percentuale di pazienti trattati con vancomicina variava dal 18 al 70% (9). Gli Stafilococchi coagulasi negativi (CONS) sono i principali agenti eziologici delle sepsi late-onset in UTIN, e sempre più frequentemente sono segnalati ceppi di CONS resistenti ai β-lattamici, per i quali è necessario utilizzare antibiotici quali i glicopeptidi. D’altra parte l’uso della vancomicina è un importante fattore di rischio per l’emergenza di microrganismi resistenti (enterococco e S. aureus vancomicinoresistenti) (10) e per tale motivo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) (11) raccomandano di evitarne l’uso su base empirica e di limitarne la somministrazione ai pazienti con infezione causata da microrganismi con dimostrata resistenza alle penicilline. Lawrence et al. (10), in uno studio retrospettivo hanno valutato gli effetti dell’uso in prima intenzione di un regime costituito da vancomicina e gentamicina (utilizzato nella loro terapia intensiva tra gennaio e dicembre 1999=periodo 1) rispetto a un regime costituito da cloxacillina e gentamicina (tra aprile 2000 e marzo 2001=periodo 2) per le sepsi da CONS; durante il 2° periodo, la cloxacillina poteva essere sostituita dalla vancomicina qualora l’antibiogramma dimostrasse un’infezione da parte di un microrganismo resistente. Nel loro studio non si è potuta osservare alcuna differenza tra il primo ed il secondo periodo nella durata della sepsi (3, 6+2, 5 vs 3, 4+3, 0 giorni); nel primo periodo non si sono registrati casi di morte associata a sepsi da CONS, mentre nel secondo periodo è stato registrato un solo caso di morte attribuibile alla sepsi da CONS. Gli Autori concludono che la limitazione dell’uso della vancomicina ai casi di sepsi da CONS resistenti all’oxacillina è sicuro, efficace, ed è in grado di ridurre significativamente l’utilizzo di tale antibiotico in UTIN. La sempre maggiore diffusione all’interno delle UTIN di microrganismi resistenti agli antibiotici comunemente utilizzati è riportata in letteratura anche per bacilli gram-negativi, in particolare quelli produttori di ESBL (Extended Spectrum β-lactamase) che trovano nel tratto gastroenterico dei neonati ricoverati il reservoir (12). La persistenza di tali microrganismi multiresistenti e la loro trasmissione da paziente a paziente è favorita dalla scarsa igiene delle mani da parte del personale sanitario, dalla RELAZIONI SECONDA SESSIONE 77 contaminazione di oggetti inanimati, e dall’eccessivo uso degli antibiotici ad ampio spettro. In uno studio prospettico di sorveglianza (13) condotto tra gennaio 2003 e gennaio 2004 il 55, 2% dei neonati ricoverati è risultato colonizzato da bacilli gram-negativi multiresistenti. Gli antibiotici più utilizzati erano Ampicillina/sulbactam e gentamicina (somministrati per un tempo medio rispettivamente di 9, 2 giorni e 6, 8 giorni). La durata dell’esposizione di entrambi gli antibiotici presi singolarmente non differiva significativamente tra neonati colonizzati da microrganismi multiresistenti, neonati colonizzati da microrganismi sensibili agli antibiotici, e neonati non colonizzati. Tuttavia, considerando i giorni complessivi di esposizione a qualsiasi antibiotico, la durata totale di esposizione era significativamente maggiore nei neonati colonizzati da microrganismi multiresistenti rispetto alla durata di esposizione in neonati non colonizzati o colonizzati da microrganismi sensibili (8, 0 giorni vs 5, 5 vs 2, 3; P<0, 1). De Man et al. (14) in uno studio su 436 neonati hanno dimostrato che l’uso empirico di antibiotici ad ampio spettro (amoxicillina-cefotaxime) seleziona più ceppi resistenti rispetto a regimi antibiotici costituiti da una penicillina (Penicillina G o flucloxacillina) e tobramicina (41 casi di colonizzazione da parte di batteri resistenti vs 3 casi, P<0, 0001). Calil et al. (15) riportano un riduzione della colonizzazione dal 32% al 10, 8% e delle infezioni nosocomiali da 18 a 2 casi/anno causate da batteri multiresistenti dopo l’attuazione di un programma educativo e la sospensione dell’uso delle cefalosporine di terza generazione. In un recente studio retrospettivo Clark et al. (2) hanno messo a confronto neonati con sospetta sepsi earlyonset trattati con ampicillina-cefotaxime e neonati trattati con ampicillina-gentamicina. La regressione logistica multivariata identificava nel trattamento con ampicillina-cefotaxime un fattore di rischio indipendentemente associato a morte prima della dimissione, anche se gli Autori stessi sottolineano che non è possibile escludere che il risultato sia stato alterato da vizi di selezione dei pazienti. Le et al. riportano una riduzione significativa delle infezioni causate da ceppi produttori di ESBL dopo introduzione di un regime empirico costituito da vancomicina e tobramicina al posto di un regime precedentemente usato costituito da vancomicina e cefotaxime (7, 8 vs 0, 8%, P=0, 008) (16). Numerosi lavori hanno dimostrato che l’eccessivo uso di cefalosporine di 3° generazione aumenta il rischio di infezioni fungine invasive. Recentemente Cotten et al. (17) in uno studio su 3702 neonati ELBW hanno studiato il ruolo dell’uso di antibiotici ad ampio spettro e della durata della terapia come fattori responsabili della differenza di incidenza di candidiasi invasiva tra diversi centri. Nella loro indagine la differenza di incidenza di candidiasi invasiva è correlabile alla durata dell’esposizione alle cefalosporine di 3° generazione (coefficiente di correlazione 0, 67, P=0, 017). Numerosi studi in vivo ed in vitro hanno dimostrato che l’utilizzo di carbapenemi (imipenem, carbapenem) e delle cefalosporine di 3° generazione per brevi periodi è in grado di fornire copertura e protezione verso un’ampia gamma di microrganismi, ma il loro uso intensivo e prolungato esercita una forte pressione selettiva sui microrganismi favorendo la comparsa di ceppi produttori di β-lattamasi e multiresistenti; non è pertanto raccomandabile iniziare un trattamento empirico della sepsi neonatale con cefalosporine di 3° generazione o carbapenemici, ed è necessario limitare il loro utilizzo a peculiari situazioni cliniche (1) anche se l’uso di una cefalosporina di 3° generazione in sinergia con un aminoglicoside può, in selezionati casi, rappresentare una opzione terapeutica ragionevole. In particolare le cefalosporine di 3° generazione, attive contro numerosi batteri gram-negativi, raggiungono molto più facilmente e molto più velocemente concentrazioni terapeutiche nel liquor cefalorachidiano (concentrazioni da 50 a 100 volte superiori alla MIC) rispetto ad altri antibiotici quali gli aminoglicosidi (che nel liquor raggiungono concentrazioni circa 2, 5 volte superiori alla MIC) e possono quindi migliorare la prognosi (18); in caso di meningite, in attesa degli esami colturali, può essere giustificato l’uso di una tripla associazione: ampicillina/aminoglicoside/cefalosporina di 3° generazione (18-19). L’uso dei carbapenemici andrebbe riservato, alla luce dei risultati colturali e dell’antibiogramma, a quelle forme infettive causate da microrganismi resistenti ad altri regimi antibiotici. Oltre all’imipenem e al 78 RELAZIONI SECONDA SESSIONE meropenem ricordiamo l’ertapenem somministrato in monodose giornaliera il cui uso in epoca neonatale è raro (4). Un nuovo antibiotico, il Linezolid, appartenente alla classe degli oxazolidinoni, ha la stessa efficacia della vancomicina nei confronti dei microrganismi resistenti ai β-lattamici ed è ben tollerato anche in età neonatale, anche se il suo utilizzo in UTIN è ancora oggetto di studio in trials clinici (20). L’uso di antibiotici “in rotazione” per ridurre il reservoir di batteri resistenti all’interno delle UTIN è stato studiato da Toltzis et al. (21). Tuttavia gli Autori non hanno potuto osservare differenze di incidenza di colonizzazione da parte di batteri resistenti tra il gruppo trattato ed il gruppo di controllo (55% vs 42%, P=0, 09). La profilassi antibiotica di neonati a rischio infettivo è stata oggetto di numerosi studi, ed in molti casi non viene oggi considerata corretta. In particolare, la somministrazione di antibiotici per via sistemica non sembra ridurre l’incidenza delle infezioni legate a CVC (22), ed è fortemente sconsigliato dalle linee guida del 2002 dell’Hospital Infection Control Policy Advisory Comitee dei CDC (23). Cinque trials clinici presi in considerazione da una meta-analisi Cochrane (24) hanno valutato l’utilizzo della vancomicina per la profilassi delle infezioni nosocomiali in pazienti portatori di Catetere Venoso Centrale (CVC). Dati i minimi benefici clinicamente importanti, ed il rischio (teorico, ma non dimostrato) della comparsa di ceppi batterici resistenti, gli Autori sconsigliano l’uso di routine della profilassi con vancomicina. Un approccio alternativo per la profilassi “locale” delle infezioni legate al CVC è la tecnica “antibiotic flush” o “antibiotic lock”. In un trial clinico prospettico randomizzato su 90 neonati (22), 0, 4 ml di soluzione fisiologica eparinata contenente vancomicina (25mcg/ml) venivano instillati due volte al giorno nel catetere e lasciati in sede per 20 minuti, quindi erano aspirati, ed il catetere veniva lavato con soluzione fisiologica. Gli autori hanno potuto registrare una significativa differenza di incidenza tra il gruppo trattato ed il gruppo non trattato (24, 9 vs 8, 2/1000 cateteri-giorno, RR 0, 33; 95% CI:0, 12-0, 80; P=0, 004) e non si è osservato un impatto della profilassi sulla colonizzazione o infezione da parte di enterococchi o stafilococchi vancomicinaresistenti. Benché vi sia iniziale evidenza dell’efficacia di tale tecnica nella profilassi delle sepsi CVC-correlate, è necessario che i risultati vengano confermati da trials clinici randomizzati controllati perché possa essere validata. Rimangono infatti aperte alcune problematiche; è necessario ancora definire con precisione: 1) quali debbano essere i tempi ottimali di permanenza dell’antibiotico nel CVC, 2) l’esistenza di eventuali incompatibilità tra l’antibiotico utilizzato e l’eparina, 3) se esista la possibilità che parte dell’antibiotico rimanga legato al catetere perdendo la sua efficacia o passando nel torrente circolatorio durante le fasi di lavaggio del catetere, ed infine 4) i rischi di emergenza di resistenze all’antibiotico e 5) di tossicità dei farmaci utilizzati (25). Particolarmente discussa oggi è l’utilità della profilassi antifungina, che si è dimostrata efficace per la prevenzione della candidiasi invasiva nei neonati VLBW o ELBW. Una revisione Cochrane sulla profilassi orale con antifungini prende in considerazione 3 studi che hanno valutato rispettivamente l’uso di nistatina orale vs nessun trattamento, miconazolo orale vs placebo o fluconazolo orale vs nistatina orale. Gli autori della review concludono che in assenza di trials clinici randomizzati controllati non c’è sufficiente evidenza per consigliare la profilassi orale con antifungini nei neonati VLBW (26). Un recente studio condotto da Ozturk et al. su 3991 neonati ricoverati in UTIN ha valutato l’effetto della profilassi orale con nistatina in neonati ricoverati in UTIN; gli Autori hanno potuto riscontrare una significativa differenza di incidenza di candidiasi invasiva tra i tre gruppi di neonati: non trattati, trattati solo se identificati come colonizzati, o trattati indipendentemente dalla colonizzazione (rispettivamente 14, 2%, 5, 6% e 1, 8%; P=0, 004) (27). RELAZIONI SECONDA SESSIONE 79 Una meta-analisi Cochrane del 2004 (28) dimostra un ridotto rischio di infezione fungina invasiva (RR=0, 20; 95% CI 0, 07-0, 64) e di morte (RR=0, 44; 95% CI 0, 21-0, 91) per i neonati VLBW che avevano ricevuto la profilassi con fluconazolo e.v.. Di recente pubblicazione è uno studio retrospettivo su 465 neonati VLBW (29). Gli Autori hanno potuto osservare tra il gruppo dei trattati ed il gruppo dei controlli una significativa riduzione della colonizzazione da candida (RR=0, 406) e delle infezioni fungine invasive (RR=0, 233). Benché vi sia iniziale evidenza dell’efficacia della profilassi con fluconazolo e.v. nei neonati ELBW, in assenza di trials clinici randomizzati controllati multicentrici che definitivamente escludano la presenza di effetti collaterali e la comparsa di resistenze al fluconazolo non è ancora possibile raccomandarla in tutte le UTIN e deve essere limitata a gruppi selezionati di pazienti con elevato rischio di infezioni fungine sistemiche (30). È in fase di pubblicazione uno studio multicentrico randomizzato condotto dalla task force sulle infezioni fungine del Gruppo di Studio di Infettivologia Neonatale della Società Italiana di Neonatologia; in tale studio è stato possibile osservare una significativa riduzione della frequenza di colonizzazione da parte di Candida tra neonati che avevano ricevuto la profilassi con fluconazolo e controlli (8, 8% vs 29, 2%, P<0, 001) e una minor frequenza di infezioni sistemiche fungine nei neonati che avevano ricevuto la profilassi (3, 2% vs 13, 2%, P=0, 001). Benché in letteratura non esista evidenza della superiorità di un antifungino rispetto a un altro (31), la maggior parte degli Autori sono concordi nel consigliare come farmaco di scelta per la terapia delle infezioni fungine invasive neonatali l’amfotericina B, eventualmente in associazione con la 5-fluorocitosina che si impone in presenza di meningite. Il caspopfungin sembra essere attivo verso specie di Candida resistenti ai comuni antifungini, e, in un recente studio, sembra essere efficace, sicuro e ben tollerato anche in età neonatale, è tuttavia ancora oggetto di valutazione (32). In conclusione, riportiamo i dieci punti che Isaacs ritiene essenziali per favorire il corretto uso degli antibiotici e ridurre i fenomeni di resistenza (Tabella); l’utilizzo giudizioso degli antibiotici secondo tali regole rimane uno strumento di fondamentale importanza per la prevenzione delle infezioni nosocomiali nelle UTIN. Tabella Dieci regole per ridurre l’antibioticoresistenza (modificato da Isaacs, Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed, 2006). 1. Eseguire sempre esami colturali (sangue, liquor, ecc.. prima di iniziare una terapia antibiotica. 2. Usare sempre antibiotici a spettro più ristretto possibile (penicillina + aminoglicoside.. 3. Come regola generale non iniziare terapie empiriche con una cefalosporina di terza generazione o un carbapenemico. 4. Mettere in atto strategie mirate a ridurre l’uso di antibiotici ad ampio spettro. 5. Avere fiducia nei risultati degli esami colturali del proprio laboratorio. 6. Tests aspecifici, come l’aumento della PCR, non danno la certezza che il neonato sia affetto da sepsi. 7. Se le colture sono negative dopo 2 o 3 giorni, è generalmente opportuno e sicuro sospendere gli antibiotici. 8. Evitare di utilizzare antibiotici per lunghi periodi. 9. Trattare la sepsi, non la colonizzazione. 10. Fare tutto il possibile per prevenire le infezioni nosocomiali, migliorare le strategie di prevenzione, in modo particolare l’igiene delle mani. 80 RELAZIONI SECONDA SESSIONE Bibliografia 1. Isaacs D. Unnatural selection: reducing antibiotic resistance in neonatal units. Arch Dis Child Fetal Neonatal Ed. 2006 Jan;91(1):F72-4. 2. Clark RH, Bloom BT, Spitzer AR, Gerstmann DR. 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Alla nascita il sistema immunitario è infatti in larga parte immaturo e, soprattutto, inesperto dal punto di vista dei contatti con gli antigeni, in quanto il feto vive in un ambiente "germ-free". Il deficit immunologico è più accentuato e persistente nel neonato pretermine. Le possibili conseguenze negative dell’immunodeficienza neonatale sono attenuate da alcuni meccanismi naturali di compenso. Il trasferimento di anticorpi di classe IgG ad alta avidità attraverso la placenta dalla madre al feto nel corso della seconda metà della gravidanza assicura al neonato la protezione offerta dagli anticorpi, mentre dopo la nascita il collegamento immunologico materno-neonatale viene mantenuto grazie all’apporto delle proprietà immunomodulanti ed antinfettive del latte materno. Le gravi conseguenze delle infezioni, nonostante i miglioramenti della terapia specifica e generale di supporto, sono legate alle complesse interazioni tra organismo infettante ed ospite. Il quadro clinico della sepsi, in particolare, viene innescato dal patogeno che induce l’attivazione della risposta infiammatoria e coagulativa, ma la successiva evoluzione dei sintomi risulta strettamente correlata al complesso e delicato equilibrio tra fattori pro- e anti-infiammatori. Le citochine e gli altri mediatori, quali trombossani, leucotrieni, monossido d’azoto, PAF, prostaglandine, complemento attivano la cascata della coagulazione e la liberazione di proteasi e sostanze ossidanti. Le complicanze a breve (risposta infiammatoria sistemica, CID, shock settico e disfunzione multipla d’organo) o a lungo termine (sequele neurologiche, respiratorie e disturbi dell’accrescimento) della sepsi neonatale dipendono dagli effetti di questi mediatori,. La risposta immunitaria neonatale Tra gli aspetti maggiormente studiati dell’immunodeficienza neonatale, ricordiamo l’immaturità dei T e B linfociti, che presentano differente espressione fenotipica degli antigeni di superficie, ridotta capacità di differenziazione verso cellule di memoria (Th1), minore sintesi di citochine, in particolare di Interferon-γ, minore cooperazione ed attivazione dei B linfociti e ridotta sintesi anticorpale. In presenza di stimoli appropriati tuttavia il neonato è in grado di attivare una valida risposta immunitaria, il che suggerisce come l’immaturità dei linfociti sia soprattutto legata all’inesperienza antigenica più che ad un vero e proprio deficit strutturale dei componenti del sistema immunitario. Infatti, ad esempio, se da un lato la somministrazione dei vaccini in epoca neonatale non è in grado di indurre una rapida risposta anticorpale, d’altra parte le vaccinazioni possono favorire una efficace sensibilizzazione con migliore risposta ai richiami successivi. Le vaccinazioni nel neonato possono pertanto favorire una precoce protezione, come è stato dimostrato nel caso della somministrazione al momento della nascita del vaccino anti-epatite B, od anti-pertosse, anche nel pretermine. I livelli sierici dei singoli fattori del complemento e l'attività funzionale della via classica e della via alterna sono pure ridotti nel neonato, con una stretta correlazione con l'età gestazionale che condiziona un deficit più spiccato nel pretermine. Inoltre l'innesco della "cascata" è ritardato nel neonato a termine, ed ancora di più nel pretermine. Un deficit così complesso del complemento implica un'importante riduzione del potere opsonizzante del siero. I linfociti natural Killer (NK) nel neonato sono rappresentati prevalentemente da sottopopolazioni immature e l'attività NK è ridotta, in particolare nel pretermine, e raggiunge valori normali verso i 4-5 anni. I granulociti neutrofili sono particolarmente coinvolti nell’immunodeficienza neonatale: essi sono carenti sia dal punto di vista quantitativo, per la riduzione del pool di riserva midollare, sia qualitativo, per il deficit funzionale che comprende l’espressione dei recettori di membrana, l’adesione, la chemiotassi, la fagocitosi, il metabolismo ossidativo e l’attività battericida. RELAZIONI SECONDA SESSIONE 83 La funzione dei leucociti è sotto lo stretto controllo dei fattori di crescita mieloidi, che stimolano la differenziazione, proliferazione e sopravvivenza dei precursori midollari e modulano la funzione dei monociti-macrofagi e neutrofili,,. Nel neonato la produzione di questi fattori risulta insufficiente; il deficit potrebbe condizionare la deplezione midollare e la neutropenia che si osservano in corso di sepsi neonatale, entrambi fattori di aggravamento della prognosi. Inoltre, i livelli dei fattori mieloidi sono particolarmente ridotti nel neonato pretermine, con una stretta correlazione tra livelli sierici e peso od età gestazionale e con bassa sintesi in risposta alle infezioni. Immunoterapia nelle infezioni Queste premesse hanno giustificato gli studi eseguiti per valutare l’efficacia dell’impiego dei fattori di crescita emopoietici G-CSF (Granulocyte Colony Stimulating Factor) e GM-CSF (Granulocyte-Macrophage Colony Stimulating Factor). Sono stati condotti diversi studi preliminari nelle seguenti condizioni: neutropenia nella sepsi del neonato, allo scopo accelerare la risposta neutrofilica; neonati pretermine con infezione, anche in assenza di neutropenia, per migliorare la funzione dei neutrofili; profilassi delle infezioni nel pretermine di peso estremamente basso. I risultati sembrano suggerire che il G-CSF o GM-CSF alla dose di 5-10 μg/kg/die per via sottocutanea o endovenosa per 3-10 giorni siano in grado di migliorare la conta dei neutrofili in neonati neutropenici con sepsi. I fattori di crescita emopoietici sono risultati ben tollerati e non sono stati osservati effetti collaterali a breve termine o a distanza di due anni. Queste ricerche sono state inserite per la valutazione in due metanalisi,, la più recente delle quali ha considerato sette studi comprendenti 257 neonati con infezione e tre studi di profilassi su 359 neonati, ed ha evidenziato le seguenti conclusioni: Terapia della sepsi Neonati non neutropenici: non è stato rilevato un vantaggio significativo sulla mortalità a 14 giorni dell’impiego del G-CSF o GM-CSF in aggiunta all’antibioticoterapia ed alla terapia generale di supporto: rischio relativo (RR) 0.71 (95% CI 0.38, 1.33); differenza del rischio (RD) -0.05 (95% CI -0.14, 0.04). Neonati neutropenici (tre studi con 97 neonati): in questo caso è stata osservata una differenza statisticamente significativa nella mortalità a 14 giorni dei trattati rispetto ai controlli: RR 0.34 (95% CI 0.12, 0.92); RD -0.18 (95% CI -0.33, -0.03); numero di pazienti da trattare per ogni neonato in più sopravvissuto (NNT) 6 (95% CI 3-33). Profilassi delle infezioni L’impiego del GM-CSF non è apparso significativamente efficace: RR 0.59 (95% CI 0.24, 1.44); RD -0.03 (95% CI -0.08, 0.02). Le conclusioni indicano che non ci sono al momento prove sufficienti per raccomandare l’uso dei fattori di crescita mieloidi nel neonato, nella terapia o nella profilassi delle infezioni. Tuttavia, in considerazione della possibile efficacia nelle infezioni accompagnate da neutropenia, e vista l’ottima tollerabilità di questi farmaci, si ritengono giustificati studi ulteriori su casistiche più ampie. Inoltre sono stati segnalati i primi risultati della valutazione dei fattori di crescita emopoietici (in particolare di soluzioni contenenti G-CSF ed eritropoietina) somministrati per via enterale allo scopo di favorire la maturazione dell’intestino in corso di nutrizione parenterale totale, o dopo enterocolite necrotizzante o interventi chirurgici per anomalie del tratto gastroenterico. La valutazione dell’associazione di differenti citochine o della loro combinazione con altri fattori, come le immunoglobuline per uso endovenoso, potrebbe rappresentare un interessante argomento per la ricerca neonatale. Le immunoglobuline per uso endovenoso (IgG ev), in particolare, sono state utilizzate in numerose ricerche effettuate per valutarne l’efficacia per la profilassi o la terapia delle infezioni nel neonato ad alto 84 RELAZIONI SECONDA SESSIONE rischio, di peso molto basso. Gli studi riguardanti l’uso profilattico delle IgG ev sono stati valutati da Ohlsson e Lacy attraverso una metanalisi comprendente più di 5000 neonati di peso molto basso. Il rischio relativo (RR) per l'incidenza di infezioni era 0, 82, e gli intervalli di confidenza al 95% 0, 74-0, 92; non vi erano differenze significative per la mortalità. Un’altra metanalisi di Jenson and Pollock, effettuata su 4933 neonati pretermine, ha pure evidenziato l’associazione negativa, statisticamente significativa (p=0.0193) tra uso di IgG ev ed incidenza di infezioni. La riduzione di incidenza di infezioni che questi dati dimostrano, anche se statisticamente significativa, non sembra tuttavia sufficiente a giustificare l’impiego su larga scala della profilassi con IgG ev, a causa del numero elevato di soggetti che risulta necessario trattare per prevenire un caso d’infezione: NNT (number needed to treat)= 25 (95% CI= 17, 50). Gli studi clinici sull'impiego delle immunoglobuline per uso endovenoso come terapia collaterale della sepsi hanno fornito risultati incoraggianti, nonostante la difficoltà di studiare popolazioni di neonati con caratteristiche omogenee ed in numero sufficiente per una valutazione statistica attendibile. Nella metanalisi di Jenson e Pollock è stata evidenziata l’efficacia delle IgG ev nel ridurre di circa sei volte il rischio di mortalità in corso di sepsi (p= 0.007, OR = 0.173, CI: 0.031 - 0.735). Ohlsson e Lacy in una più recente metanalisi su 262 neonati con diagnosi d’infezione hanno osservato una riduzione significativa della mortalità (RR 0.55; 95% CI: 0.31, 0.98). Nella terapia della sepsi in neonati pretermine con bassi livelli di IgG e gravi complicanze settiche si può pertanto prendere in considerazione il trattamento con IgG ev alla dose di 0, 5 g/kg/die per 4-5 giorni, senza superare la dose totale di 2, 5 g/kg. Le imunoglobuline specifiche anti-Stafilococco si sono rilevate inefficaci nella prevenzione della sepsi tardiva nel neonato di peso molto basso. In conclusione, le nuove conoscenze sull’immunodepressione fisiologica del neonato hanno consentito di chiarire come questa sia legata più alla immaturità ed alla mancanza di esperienza e di stimolazione antigenica che a veri deficit strutturali delle componenti del sistema immunitario. E’ stato inoltre possibile mettere a punto efficaci strategie di prevenzione, in particolare grazie alla somministrazione precoce della profilassi immunitaria attiva e passiva, e di terapia mediante utilizzo sostitutivo dei fattori, quali CSF o immunoglobuline, transitoriamente carenti nel neonato. Bibliografia 1. Remington JS, and Klein JO (eds), Infectious Diseases of the Fetus and Newborn Infant, Sixth Edition, Elsevier Saunders Company, Philadelphia, 2006. 2. Lewis DB, Tu W: The physiologic immunodeficiency of immaturity. In Immunologic disorders in infants and children. fifth Edition. Edited by Stiehm ER, Ochs HD, Winkelstein JA. Elsevier Saunders Company, Philadelphia. 2004: 687-760. 3. 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Phase III, randomized, double-blind, placebocontrolled multi-center clinical trial of safety and efficacy of INH-A21 for the prevention of nosocomial staphylococcal sepsis in premature infants. J Pediatr 2007;151:260-5. RELAZIONI SECONDA SESSIONE 87 NEONATO DI PESO MOLTO BASSO E PROBLEMI MOLTO GRANDI: SOPRAVVIVENZA E PROGNOSI R. Paludetto, M.V. Andreucci, L. Capasso, A. Romano, F. Sauro, C. Mercogliano, T. Ferrara, P. Di Martino, R. Pisanti, A. M. Spera, F. Landolfo, F. Raimondi Dipartimento di Pediatria, Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale, Università Federico II, Napoli Negli ultimi 40 anni a partire dall’introduzione della ventilazione meccanica sono stati fatti notevoli passi in avanti nella gestione dei neonati prematuri (1). I progressi tecnologici e terapeutici hanno portato ad un incremento sempre maggiore dei tassi di sopravvivenza dei neonati di peso estremamente basso, soprattutto a partire dagli anni 90 (2). L’aumento dei tassi di sopravvivenza in neonati così prematuri ha generato preoccupazione riguardo il possibile aumento degli esiti neuropsicomotori tra i bambini sopravvissuti, con implicazioni mediche, etiche ed economiche molto dibattute nella comunità scientifica (2). Dagli anni 90, virtualmente in tutte le terapie intensive neonatali si è raggiunta una sopravvivenza ≥ 90% in neonati di peso alla nascita > 1.000 gr. Anche nei neonati di peso estremamente basso la mortalità si è ridotta rispetto alla decade precedente e tale miglioramento è risultato particolarmente evidente per neonati di peso alla nascita compreso tra 450 e 700 gr, in cui il tasso di mortalità è comunque generalmente più alto rispetto alle altre classi di peso (3). Infatti, sebbene i neonati di peso alla nascita < 1.000 g costituiscano circa l’1% di tutti i nuovi nati, questa categoria di neonati contribuisce in maniera cospicua alla mortalità e morbilità neonatale. Nella nostra struttura, la Terapia Intensiva Neonatale della Università Federico II di Napoli, conformemente all’andamento generale, si è assistito ad un incremento della sopravvivenza di neonati di peso alla nascita < 1.500: dal 66% nel triennio 2001- 2003 all’81% nel 2007. Il miglioramento dei tassi di sopravvivenza dei neonati pretermine negli ultimi 20 anni ha portato come conseguenza alla rianimazione di soggetti in epoca gestazionale al limite della vitalità (4). Analizzando la letteratura scientifica è interessante osservare come il tasso di sopravvivenza di nati vivi estremamente pretermine mostri valori molto variabili tra i Paesi europei, l’Australia e il Canada. Una recente revisione della letteratura mondiale di Hack e Fanaroff ha riportato, negli anni 90, una sopravvivenza tra il 2 e il 35% a 23 settimane di età gestazionale, del 17- 58% a 24 settimane e del 35- 85% a 25 settimane (5); nella nostra struttura, nel 2007 abbiamo osservato una sopravvivenza pari al 40% in caso di neonati di 24 e 25 settimane di età gestazionale. La presenza di range così ampi a livello mondiale è forse spiegabile analizzando le differenze nei livelli decisionali per iniziare la rianimazione in sala parto e la variabilità della popolazione considerata per calcolare i tassi (inclusione o meno di nati morti con malformazioni congenite, valutazione dei soli neonati ammessi in terapia intensiva neonatale, definizione di “nato vivo” in neonati di peso ed età gestazionali precedentemente indicativi di aborto, etc.) (6). Sono da considerare inoltre, nella valutazione dei diversi studi della letteratura, alcuni fattori confondenti riguardanti la classificazione del neonato quali l’età gestazionale ed il peso; infatti, la valutazione dell’età gestazionale soffre delle possibili diversità di determinazione (calcolo in base alla data dell’ultima mestruazione, datazione ecografica della gestazione, determinazione dell’età gestazionale in caso di fecondazione in vitro, difficile determinazione post- natale in caso di neonati estremamente pretermine). Per quanto riguarda la classificazione di questi neonati in base al peso è da considerare confondente la presenza di IUGR e SGA ed è importante valutare la definizione dei sottogruppi di peso. Come esempio del possibile effetto confondente di questi determinanti, è da citare il caso della piccola Amillia Taylor, nata il 24 ottobre 2006 a Miami in Florida con peso alla nascita di 283 grammi ed EG di 21 wk e 6/7, considerata la neonata sopravvissuta maggiormente prematura. In questo famoso caso l’età gestazionale era stata determinata sulla data del concepimento (mediante fecondazione in vitro) e non sulla data dell’ultima mestruazione; ne è così derivata un’assegnazione di 2 settimane in meno, rispetto al 88 RELAZIONI SECONDA SESSIONE calcolo in base alla data dell’ultima mestruazione che invece corrisponde a 23 wk e 6/7. Per neonati così piccoli le cause di morbilità con possibili conseguenze successive sullo sviluppo del neonato sono costituite principalmente da: malattia cronica polmonare, danno cerebrale severo, enterocolite necrotizzante, infezioni nosocomiali e retinopatia del prematuro. La malattia cronica polmonare è associata a distrofia, scarsa alimentazione, ospedalizzazioni prolungate, infezioni nosocomiali. La presenza di danno cerebrale è documentata principalmente dall’ecografia cerebrale effettuata nel corso del ricovero in terapia intensiva neonatale; le lesioni associate a disabilità neurologica includono emorragia periventricolare di 3° e 4° grado, infarcimento periventricolare, leucomalacia periventricolare e/o dilatazione ventricolare persistente. Il tasso di retinopatia severa varia tra i diversi centri in base ai criteri utilizzati per la diagnosi e terapia. Sebbene i tassi di cecità si siano ridotti in seguito all’introduzione della laser e crioterapia, i bambini trattati possono presentare miopia severa residua e difetti della visione periferica. La sepsi resta la causa principale di morbidità neonatale; la maggior parte delle infezioni sono nosocomiali e associate a prematurità estrema, determinate principalmente dall’utilizzo di linee infusive centrali e di altre manovre invasive. Le infezioni nosocomiali inoltre, sono associate a tassi maggiori di malattia polmonare cronica, prolungata ospedalizzazione e scarsa crescita. L’enterocolite necrotizzante è solitamente complicata da sepsi e scarsa crescita (6). Mentre la sopravvivenza di neonati di peso ed età gestazionale sempre più bassi continua ad aumentare, parallelamente si sta assistendo ad un incremento dei tassi di disabilità, con peggioramento della qualità della vita per i sopravvissuti. Un amento della prevalenza di danno cognitivo e di scarso rendimento scolastico con stati ripetutamente riportati tra i bambini di età scolare di peso estremamente basso alla nascita, se comparati con i nati a termine (7). Lo studio EPICURE, uno studio osservazionale prospettico di dieci mesi effettuato nel 1995 con neonati di età gestazionale 20- 25 settimane in Gran Bretagna, ha mostrato un numero relativamente alto di nati vivi di 22- 25 settimane, rispetto ad altri studi effettuati negli anni 90 (4). La valutazione dell’outcome a 30 mesi ha mostrato che il 24% dei sopravvissuti presentava disabilità severa. La presenza di una prevalenza così alta ha indicato la necessità di una valutazione degli stessi bambini in età scolare, quando il grado di disabilità può essere più chiaramente definito ed è maggiormente predittivo di problemi che continueranno durante l’infanzia e nella vita successiva. Tale valutazione ha mostrato un’alta prevalenza di disabilità anche a 6 anni: una disabilità severa era presente nel 22% dei casi, una percentuale analoga a quella riscontrata a 30 mesi. La metà di questi casi presentava paralisi cerebrale con disabilità motoria moderata o severa. (4). Come già citato alla base dell’aumentata sopravvivenza di neonati sempre più piccoli di peso e di età gestazionale sempre più bassa vi sono i progressi della terapia intensiva neonatale. Ma quali sono i principali determinanti in gioco? Il miglioramento della sopravvivenza dei neonati estremamente pretermine e di basso peso nella prima metà degli anni 90 è solitamente attribuito a tre fattori prinicipali: l’esposizione prenatale agli steroidi, la terapia con surfactante, la centralizzazione delle nascite a rischio. I neonati pretermine sono ad alto rischio di malattia polmonare neonatale. La sindrome da distress respiratorio, come risultato della immaturità del polmone, è la principale causa di mortalità neonatale precoce. Un singolo ciclo di steroidi prenatali somministrati alla madre resta la più efficace strategia prenatale per la riduzione di eventi avversi nel neonato pretermine essendo in grado di stimolare la maturazione polmonare e la sintesi di surfactante nel polmone fetale (8). L’esposizione prenatale agli steroidi riduce la severità della sindrome da distress respiratorio, la mortalità, l’utilizzo di surfactante e l’emorragia intraventricolare nei nati a meno di 34 w di gestazione (9). Dalla fine degli anni 90, la maggior parte dei neonati pretermine partoriti a meno di 34 settimane di età gestazionale, ha ricevuto terapia steroidea prenatale; al momento questa è da considerare una terapia standard per donne a rischio di parto pretermine. Lo studio EPICURE precedentemente citato ha mostrato RELAZIONI SECONDA SESSIONE 89 che più del 60% dei bambini sopravvissuti era stato esposto a terapia steroidea prenatale. Recentemente, la letteratura scientifica sta valutando i possibili benefici derivanti dalla somministrazione ripetuta di steroidi ma anche dei possibili rischi associati agli effetti avversi da uso ripetuto di steroidi sullo sviluppo del SNC oltre a chiarire il reale rapporto costo/ benefici di tale strategia terapeutica. (8) La terapia con surfactante ha cambiato in maniera significativa la pratica clinica neonatologica degli ultimi 25 anni. La somministrazione di surfactante è stata definita come terapia efficace e sicura per il deficit di surfactante nel polmone immaturo a partire dai primi anni 90. Revisioni sistematiche di trial clinici randomizzati e controllati hanno confermato che questo trattamento riduce la frazione inspiratoria di ossigeno e la necessità di ventilazione così come l’incidenza di distress respiratorio, morte, pneumotorace ed enfisema polmonare interstiziale. Molti studi hanno investigato il timing ideale della somministrazione di surfactante. Una revisione sistematica della letteratura scientifica internazionale ha mostrato una riduzione nell’incidenza di pneumotorace, enfisema polmonare interstiziale, malattia polmonare cronica e mortalità in caso di somministrazione precoce (a meno di 2 ore di vita) versus somministrazione tardiva e la riduzione di pneumotorace e mortalità con la somministrazione profilattica versus la terapia rescue. (10) E’ stato inoltre dimostrato che la terapia con surfactante, somministrato come profilassi o come terapia rescue, riduce l’incidenza e la severità della sindrome da distress respiratorio, oltre all’outcome combinato displasia broncopolmonare e morte. (9) Ne risulta pertanto che, dal punto di vista clinico, il surfactante dovrebbe essere somministrato a neonati con sindrome da distress respiratorio non appena possibile dopo l’intubazione indipendentemente dall’esposizione a steroidi prenatali o all’età gestazionale e che la terapia profilattica con surfactante dovrebbe essere considerata per i neonati estremamente pretermine ad alto rischio di sindrome da distress respiratorio, specialmente se non esposti a steroidi prenatali (9). Lo studio EPICURE precedentemente citato ha mostrato che l’ 84% dei bambini sopravvissuti aveva ricevuto surfattante in epoca neonatale. Il surfactante maggiormente utilizzato e dai migliori risultati è di derivazione porcina. Le novità riguardanti l’utilizzo di surfactanti sintetici sono promettenti, anche se al momento nessuna preparazione sintetica si è dimostrata superiore ai surfactanti naturali. Un numero sempre maggiore di studi sta valutando inoltre il ruolo di modalità alternative di somministrazione così come l’utilizzo della CPAP per minimizzare la necessità di ventilazione meccanica. Nuove evidenze suggeriscono la possibilità che altre patologie, come la sindrome da aspirazione da meconio, la polmonite neonatale e l’ernia diaframmatica possano beneficiare di questa terapia (10). Se per l’utilizzo della terapia con steroidi e con surfactante esiste ormai un accordo pressoché unanime e un’aderenza ormai ventennale a tale tipo di comportamento, la situazione è certamente diversa per quanto riguarda la centralizzazione delle nascite a rischio. Infatti, se è vero che anche in questo caso la letteratura internazionale mostra evidenze riguardanti il miglioramento dell’outcome di sopravvivenza in caso di adeguata razionalizzazione delle strutture di assistenza neonatale, tale obiettivo non è ancora stato raggiunto appieno nel nostro Paese. L’Italia è caratterizzata da una marcata disomogeneità nella distribuzione di numerosi indicatori socioeconomici, come il numero e l’outcome delle strutture sanitarie, con un aumento della mortalità neonatale e infantile con un trend Nord- Sud. Lo studio di Corchia pubblicato nel 2007 riguardante la situazione dei VLBW in Italia nel 2001 ha messo in evidenza come nel Sud Italia, dove mortalità infantile e neonatale sono superiori rispetto a Nord Italia, Centro Italia e media del Paese, vi sia un numero maggiore di punti nascita, con dispersione delle risorse della Sanità, presenza di un alto numero di strutture per assistenza ai neonati di livello non adeguato e quindi maggior numero di trasporti neonatali da queste strutture a quelle di III livello (11). Tale situazione non è migliorata negli ultimi anni; riguardo la nostra regione nel 2007 erano ancora presenti in Campania ben 84 punti nascita, con un Indice di Trasporto Neonatale (ITN) pari al 2, 8% (quindi più del doppio del ITN ideale, pari all’1%), questo in difformità con quanto affermato nelle Linee Guida Regionali pubblicate nel 2005, che indicavano come interventi prioritari la riduzione della dispersione dei punti nascita, l’accorpamento di 90 RELAZIONI SECONDA SESSIONE quelli con meno di 400 parti all’anno e quindi la riduzione dei Trasporti Neonatali. Inoltre, esistono ormai evidenze scientifiche riguardanti la stretta correlazione presente anche tra volume di attività dei centri per le cure intensive neonatali e mortalità nel neonato di peso alla nascita molto basso. Sopra i 50 ricoveri all’anno i valori di mortalità di questi pazienti si abbassano sensibilmente, mentre i risultati migliori si ottengono nei centri con un numero di accessi annuali di VLBW superiore a 100 (12); sempre nel 2007 tale volume di utenza è stato raggiunto in Campania da un unico centro laddove nell’ambito delle cure intensive neonatali, in particolare per le più basse fasce di peso, è fondamentale che l’assistenza venga erogata da personale sanitario altamente specializzato ed in un reparto con attrezzature tecnologicamente avanzate. Sembra, quindi, che la Regione di nascita rappresenti ancora in Italia un importante fattore predittivo di mortalità neonatale e infantile. Secondo gli ultimi dati ISTAT del 2004 la regione italiana con risultati migliori in termini di mortalità risulta il Friuli Venezia Giulia con una Mortalità Infantile (MI) pari a 1, 78 per mille nati vivi e una Mortalità Neonatale (MN) pari a 1, 39 per mille nati vivi. La regione Campania presenta invece rispettivamente valori di MI e MN pari a 4, 62 e 3, 49 per mille nati vivi, quindi ben superiori non solo ai valori del Friuli, ma anche a quelli della media italiana (MI: 3, 7 per mille nati vivi; MN: 2, 71 per mille nati vivi). E’ importante che la regione Campania applichi una politica volta al miglioramento dell’assistenza del neonato, cominciando dall’attuazione delle Linee Guida Regionali ormai pubblicate da anni ma non ancora correttamente applicate per raggiungere un adeguato livello di centralizzazione delle nascite al fine di ridurre la mortalità neonatale nella nostra regione. Bibliografia 1. Buchh B, Graham N, Harris B, Sims S, Corpus M, Lantos J, Meadow W. Neonatology has always been a bargain, even when we weren’t very good at it. Acta Paediatrica 2007;96: 659- 663 2. Wilson- Costello D, Friedman H, Minich N, Fanaroff AA, Hack M. 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RELAZIONI SECONDA SESSIONE 91 PROBLEMI DI ALIMENTAZIONE NEL NEONATO DI PESO MOLTO BASSO P. Gancia, C. Dalmazzo Terapia Intensiva Neonatale - Neonatologia, ASO S. Croce e Carle, Cuneo L’obiettivo della nutrizione del pretermine è il raggiungimento di una velocità di crescita postnatale (taglia e composizione corporea) prossima a quella del feto normale di pari età gestazionale (American Academy of Pediatrics, 1998). In pratica, spesso si configura una restrizione di crescita extrauterina che rimane un grave problema nei neonati pretermine. Nella nutrizione di questi neonati le proteine sono sempre un fattore limite, mentre più di rado l’apporto di energia è fattore limite. Un intake insufficiente di minerali e vitamine si riflette sulla composizione corporea. Il fabbisogno proteico del neonato pretermine è stato rivalutato considerando che (1) il guadagno di massa magra fetale e il contributo del guadagno proteico al guadagno di massa magra sembrano riferimenti più affidabili dell’incremento ponderale assoluto (2) deve essere fornito un supplemento di proteine per la crescita di recupero, a compenso del deficit cumulativo proteico che si sviluppa nelle prime settimane di vita (3) un aumento del rapporto proteine-energia è essenziale per migliorare l’accrezione di massa magra e limitare la deposizione di grassi (4) l’assorbimento frazionale di azoto e l’efficienza proteica (rapporto ritenzione/assorbimento di N) variano a seconda della dieta (5) l’apporto proteico deve essere adattato all’età postconcezionale invece che all’età gestazionale o al peso alla nascita, per integrare gli aspetti dinamici della crescita e del metabolismo proteico Quindi, l’apporto raccomandato per i pretermine di età postconcezionale compresa tra 26 e 30 settimane è di 3.8 - 4.4 g di proteine/kg/die con un rapporto proteine-energia 3 - 3.3 g/100 kcal, in accordo con la restrizione di crescita postnatale, e dovrebbe diminuire progressivamente fino la momento della dimissione. Va sottolineato che i supplementi proteici non sono equivalenti in termini di utilizzo (immaturità, qualità proteica, tecnologia) Nel pretermine, la scarsa crescita dovuta ad un intake subottimale di nutrienti ha effetti sfavorevoli a breve ed a lungo termine. Gli effetti a breve termine comprendono una riduzione delle difese immunitarie, una ridotta produzione di glutatione con danno da radicali liberi ed un aumento del fabbisogno ventilatorio. Gli effetti a lungo termine incidono sullo sviluppo neuroevolutivo e sulla suscettibilità alle malattie cardiovascolari. L’uptake nutrizionale in utero è notevole, non solo per la crescita di nuovi tessuti ma anche per la sostituzione dell’acqua corporea con proteine e lipidi. Il feto viene continuamente rifornito di aminoacidi (AA) attraverso il cordone ombelicale. Il parto pretermine interrompe questa situazione, mentre nel feto di pari età la continuazione dell’apporto rimane vitale per la crescita e lo sviluppo neuroevolutivo. Nel modello animale in condizioni fisiologiche l’ossidazione intrauterina degli AA è molto elevata e l’uptake è molto superiore alle necessità di AA per la crescita. Le strategie nutrizionali attuali consigliano nel pretermine una dieta ricca di lipidi e carboidrati con una moderata quota proteica. Sebbene una dieta altamente calorica possa stimolare la crescita del pretermine, la composizione corporea che ne risulta è differente rispetto a quella del feto in utero. Una composizione corporea più vicina a quella fetale implica un notevole apporto di aminoacidi, che deve essere raggiunto prima possibile dopo la nascita. In assenza di nutrizione parenterale (NP) e con insufficienti apporti enterali nel primo periodo postnatale, il neonato è dipendente dalla proprie riserve proteiche. Nei neonati che ricevono solo glucosio, il catabolismo proteico incide giornalmente per l’1-2% delle riserve proteiche, mentre un feto di pari età accresce la sua composizione proteica di circa 1, 5 g/Kg/die. In genere, l’apporto di AA nel pretermine viene iniziato tra 0 e 36 h dalla nascita, con ampie variazioni (0, 5-1 g/Kg/die) fino a 3 g/Kg/die. L’apporto di AA deve iniziare in prima giornata di vita, almeno a una dose di 1.5 g/kg/die, che sembra sufficiente per evitare il catabolismo ed è ben tollerata dalla maggioranza dei 92 RELAZIONI SECONDA SESSIONE neonati. Per ottenere un guadagno proteico in prima giornata, è necessaria una dose di almeno 2-2, 5 g/kg/die, da aumentare ad almeno 3- 3, 5 g/kg/die in 2° - 3° giornata per ottenere una deposizione proteica simile a quella intrauterina. Non vi sono prove sperimentali a favore di un incremento più graduale della quantità di AA. Richieste di aminoacidi condizionalmente essenziali nel neonato I fabbisogni individuali di AA nei neonati pretermine in nutrizione parenterale non sono conosciuti, fatta eccezione per la tirosina. Un fattore importante nella nutrizione del pretermine è l’immaturità biochimica. Vari processi metabolici non sono completamente sviluppati in utero e si attivano dopo la nascita. Vengono quindi considerati condizionalmente essenziali alcuni aminoacidi (Tab. 1) Non essenziali Essenziali Condizionalmente essenziali Alanina Valina Cisteina Serina Leucina Tirosina Asparagina Isoleucina Glutamina Aspartato Metionina Arginina Glutamato Fenilalanina Prolina Triptofano Treonina Glicina Taurina Lisina Istidina Tab. 1 - Classificazione degli aminoacidi Arginina: è il precursore della sintesi di creatina, prolina, glutammato, poliamine e ossido nitrico (NO). Nell’animale neonato, la sintesi endogena di arginina avviene a partire dalla glutamina della dieta o dalla prolina negli enterociti del piccolo intestino. Dato che la NP totale è associata con atrofia degli enterociti, la sintesi endogena di arginina è molto ridotta. Il NO endoteliale ha attività anti-infiammatoria e vasodilatatrice, ed è coinvolto nel mantenimento dell’integrità della mucosa, nella funzione di barriera e nella regolazione del flusso ematico in presenza di danno o infiammazione. Nel tratto gastrointestinale degli animali prematuri la produzione di NO è insufficiente a causa di un relativo deficit di nitrossido-sintetasi (NOS); inoltre nel pretermine la concentrazione plasmatica di arginina è ridotta. Nei pretermine di peso < 1250 g e di EG < 32 settimane, la supplementazione parenterale e orale con L-arginina riduce l’incidenza di NEC. Cisteina: viene sintetizzata de novo a partire dalla metionina. È il precursore della taurina e del glutatione e la sua sintesi è ridotta nel pretermine a causa di una ridotta o assente attività della cistationasi. La cisteina è instabile in soluzione e si ossida a cistina, che è insolubile. Le soluzioni di aminoacidi sono povere o prive di cisteina, mentre hanno una quota più elevata di metionina, che non viene però utilizzata per la sintesi della cisteina. La metionina inoltre induce nell’animale un danno epatico strutturale e funzionale, e può avere un ruolo nella colestasi associata alla NPT. Glicina: si forma per conversione dalla serina, che viene sintetizzata de novo. È metabolizzata nel fegato dove fornisce ammonio, nel sistema nervoso centrale si comporta come neurotrasmettitore inibitorio, e come la cisteina, è un precursore del glutatione. Il fabbisogno di glicina potrebbe essere almeno temporaneamente maggiore durante stress ossidativo. RELAZIONI SECONDA SESSIONE 93 Prolina: è sintetizzata de novo dal glutammato ed è l’aminoacido più rappresentato nelle proteine tissutali; è un precursore del collagene, ha un ruolo nella riparazione del danno muscolare, connettivale e cutaneo, e nella funzionalità tendinea ed articolare. I pretermine in NP non sintetizzano la prolina e presentano concentrazioni plasmatiche ridotte. Taurina: si forma a partire dalla cisteina, ed è importante per lo sviluppo neurologico fetale, ma non è sintetizzata dal feto. Non è utilizzata nella sintesi proteica e rimane libera nell’acqua intracellulare. I bassi livelli plasmatici conseguenti alla somministrazione di soluzioni prive di taurina possono condizionare uno scarso assorbimento dei lipidi, un’insufficiente secrezione di acidi biliari e interferire con la funzionalità epatica e retinica. La decarbossilasi specifica è l’enzima limitante della sintesi della taurina e la sua attività è ridotta nel pretermine, che si trova in condizioni di insufficiente apporto di cisteina. Tirosina: è un aminoacido condizionalmente essenziale a causa della ridotta idrossilazione della fenilalanina a tirosina. La sua scarsa solubilità rende difficile garantire un adeguato intake nei neonati in NP. I neonati supplementati con fenilalanina mostrano un aumento dell’idrossilazione, ma non è chiaro se vengano raggiunti livelli sufficienti di tirosina, tenuto conto del fatto che il fabbisogno rappresenta il 3-4% degli AA totali. Le soluzioni commerciali di AA contengono <1% di tirosina, insufficiente per il neonato in NPT. Energia e proteine: si discute se considerare gli aminoacidi come fonte energetica. La loro principale funzione è la sintesi proteica, ma non è chiaro fino a che punto sia fisiologica l’ossidazione degli AA per produrre energia. Gli AA vengono ossidati per evitare accumulo nel caso che uno o più AA siano presenti in eccesso rispetto alla quota necessaria per le proteine da sintetizzare. La somministrazione di AA con 30 kcal/kg/die non-proteiche può portare il bilancio di azoto da negativo a zero o anche a valori leggermente positivi. Le strategie nutrizionali aggressive hanno modificato il rapporto proteine /calorie da 1 g AA per circa 30 kcal non-proteiche a 1 g AA per 15 kcal non-proteiche: dato che questo non è un rapporto ideale per la sintesi proteica, verrà ossidata una notevole quantità di AA. Un intake di 25-40 kcal non-proteiche per g di proteine aumenta la deposizione di proteine, benché questo obiettivo non sia raggiungibile nel pretermine con il solo glucosio se l’apporto proteico è elevato. L’effetto dell’aumento di intake energetico sulla deposizione proteica è maggiore al disotto di 50-60 kcal/ kg/die; oltre questo limite l’effetto dell’aumento di energia cessa. La somministrazione precoce di lipidi potrebbe fornire calorie utili per la sintesi proteica, anche perchè il neonato dipende dagli acidi grassi essenziali per lo sviluppo cerebrale. Il feto riceve una piccola quota lipidica a partire dal 3° trimestre e ciò solleva la questione se il grande pretermine sia in grado di metabolizzare un elevato apporto lipidico. I dubbi sulla tolleranza metabolica e sulle relazioni con la BPD hanno condizionato un ritardo nella somministrazione oltre le 24 ore di vita. Una recente review non mostra effetti positivi della somministrazione precoce rispetto a quella ritardata. In realtà gli studi analizzati sono stati condotti senza somministrare AA, che avrebbero potuto aumentare l’utilizzo dei lipidi. Oggi vengono trattati neonati ELBW che hanno un deficit di proteine ed energia inversamente proporzionale al peso alla nascita. Oltre agli effetti anabolici, la somministrazione di AA può aumentare l’intake calorico non-proteico massimale, almeno in parte per lo stimolo alla secrezione insulinica esercitato dagli AA, soprattutto arginina e leucina. Lipidi: la quota di acidi grassi essenziali (EFA) presente nelle emulsioni lipidiche endovenose è sufficiente, ma solo se l’apporto energetico è in grado di mantenere un metabolismo ed una crescita normale. In caso contrario tutti gli acidi grassi vengono ossidati, aumentando il rischio di deficit di EFA, dannoso soprattutto per i neuroni, le cellule della glia, la mielina e le membrane dei globuli rossi. Esistono alternative alle emulsioni di olio di soia: gli MCT, l’olio di pesce, l’olio d’oliva. L’uso di MCT o di olio d’oliva si propone di fornire una minore quota di acido linoleico e quindi di evitare 94 RELAZIONI SECONDA SESSIONE i possibili svantaggi di un eccesso di acidi grassi polinsaturi (PUFA) ω-6. L’uso di olio di pesce si propone non solo di ridurre i livelli di ω-6, ma anche di fornire PUFA ω-3 che possono influenzare il metabolismo lipidico, i processi infiammatori ed il sistema immunitario, Gli studi in vitro e sull’animale mostrano che l’emulsione di olio d’oliva evita la depressione della funzione immunitaria (specie della risposta delle cellule T) che si presenta con le emulsioni di olio di soia. Le esperienze su neonati e adulti mostrano che l’emulsione di olio d’oliva aumenta il contenuto in acido oleico dei lipidi ematici e che evita la deplezione di derivati dei PUFA ω-6 a lunga catena che si osserva con le emulsioni a base di olio di soia. La minore insaturazione dell’emulsione di olio d’oliva può ridurre la possibilità di stress ossidativo. Gli studi di confronto non hanno però mostrato una differenza significativa nella perossidazione lipidica a favore dell’emulsione di olio d’oliva. Uno studio suggerisce possibili vantaggi dell’emulsione di olio d’oliva in termini di metabolismo glucidico nel pretermine. Conclusioni La maggioranza degli studi è stata condotta su pretermine “sani” o in condizioni stabili, e non vi sono molti dati sull’impatto metabolico delle varie malattie, sulle differenze tra neonati AGA e SGA e sulle variazioni dei fabbisogni condizionate da queste situazioni. I dati disponibili confermano gli effetti benefici della somministrazione precoce di AA anche nel neonato estremamente pretermine. Le quantità infuse devono essere sufficienti per sostenere una sintesi proteica simile a quella intrauterina. Insieme agli AA va fornita una quota sufficiente di energia non-proteica. La migliore conoscenza dei fabbisogni dei singoli AA potrà migliorare la composizione delle soluzioni commerciali di AA. Le complicanze associate alla prematurità sono state messe in relazione con lo stress ossidativo e al danno cellulare e tessutale dai radicali liberi. Lo stress ossidativo può essere definito come uno sbilanciamento tra fattori pro- e antiossidanti che risulta in un effetto complessivo proossidante. Per aumentare la difesa antiossidante nei neonati delle età gestazionali più basse, da un lato deve essere migliorato l’apporto proteico postnatale per promuovere lo sviluppo del sistema del glutatione, dall’altro occorre minimizzare lo stress ossidativo, dato che l’incremento del contenuto cellulare di glutatione può essere lento e dipendente dal grado di maturità. Le strategie possibili per ridurre lo stress ossidativo e stimolare le difese antiossidanti comprendono: - inizio nei primi giorni di vita della NP e di una bassa dose di lipidi e vitamine resistenti alla perossidazione lipidica, con un incremento graduale verso la dose piena da raggiungere entro breve tempo. - somministrazione di lipidi endovenosi a ridotta insaturazione, e quindi maggiore resistenza alla perossidazione (preparazioni a base di olio d’oliva); incorporazione nei lipidi di acidi grassi polinsaturi immuno-modulatori ω-3, presenti nell’olio di pesce. Vari studi hanno messo in evidenza i vantaggi del supporto nutrizionale precoce e dell’apporto di aminoacidi fino dalle prime ore di vita per rendere positivo il bilancio azotato e aumentare l’apporto calorico. Non sono riferiti effetti sfavorevoli quali acidosi metabolica, ipercolesterolemia o ipertrigliceridemia. Di fronte a queste evidenze, rimangono tuttavia aperti vari problemi. La velocità di crescita fetale è 15-20 g/kg/die, molto difficile da ottenere in un neonato ELBW nelle prime settimane. L’incremento di peso assoluto non riflette necessariamente una crescita corretta: l'obiettivo è la composizione corporea del feto di riferimento. Infine, mancano linee guida per ottenere la velocità di crescita fetale: le pratiche correnti variano ampiamente nei diversi centri. È possibile migliorare l’alimentazione iniziale del VLBW iniziando la nutrizione parenterale subito dopo la nascita, con aminoacidi a concentrazioni superiori rispetto all’utilizzo, glucosio per soddisfare le necessità energetiche e lipidi come ulteriore fonte di energia e di acidi grassi essenziali. RELAZIONI SECONDA SESSIONE 95 Bibliografia 1. Rigo J, Senterre J : Nutritional needs of premature infants: current issues. 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Mediante la NCPAP è quindi possibile realizzare una assistenza respiratoria efficace e ridurre in maniera significativa il numero dei pazienti che necessitano di intubazione tracheale e ventilazione meccanica. La NCPAP è comunemente usata nel trattamento delle apnee della prematurità, nella fase di divezzamento dal respiratore e nella terapia del distress respiratorio; quando associata a somministrazione di surfattante esogeno (tecnica INSURE), riduce ulteriormente la necessità di ventilazione meccanica anche in neonati di età gestazionale <30 settimane (1). Malgrado la sua efficacia rimane però un 30-40% di neonati di basso peso (VLBW) affetti da RDS in cui bisogna ricorrere alla ventilazione meccanica invasiva perché la sola CPAP, anche se associata al surfattante, non è sufficiente ad arrestare l’evoluzione della malattia verso l’insufficienza respiratoria; tale percentuale di fallimento aumenta in maniera inversamente proporzionale al ridursi dell’età gestazionale. Tale constatazione ha portato allo sviluppo di tecniche più efficaci di ventilazione non invasiva ed in particolare alla realizzazione della NIPPV (nasal intermittent positive pressure ventilation). La NIPPV è una modalità di ventilazione non invasiva che eroga dei cicli di pressione positiva sovraimposti alla CPAP e la sua maggior efficacia è probabilmente dovuta all’applicazione di una pressione media più elevata a livello delle vie aeree. Già nei primi anni ’80 il nostro gruppo aveva utilizzato con successo la NIPPV nasale per il trattamento di neonati con peso alla nascita <1200 g che presentavano crisi di apnea intrattabili (2): tale tecnica è stata (3) ed è ancora oggi largamente utilizzata in molte TIN al fine di evitare l’intubazione tracheale. Negli ultimi anni i progressi della tecnologia hanno permesso di ottimizzare questa tecnica permettendo di sincronizzare gli atti del respiratore con il respiro spontaneo del bambino (SNIPPV). Tale aspetto è di grande importanza nella ventilazione non invasiva in quanto manca, con tale tecnica, una connessione diretta tra circuito di ventilazione e vie aeree del paziente; la sincronizzazione fa si che l’onda di pressione (e quindi il flusso aereo verso i polmoni) venga erogata dal respiratore esattamente durante la fisiologica dilatazione delle glottoide durante la fase inspiratoria. Al contrario, durante la fase espiratoria la glottide tende a chiudersi, in particolare nel neonato con distress (grunting), ed il flusso aereo viene così deviato prevalentemente verso lo stomaco. In tre trials controllati e randomizzati sono state messe a confronto l’efficacia della SNIPPV realizzata con la capsula di Graseby (sensore che rileva l’aumento della pressione addominale durante la fase inspiratoria) vs. la NCPAP per l’assistenza respiratoria nel neonato prematuro nella fase post-estubazione (4). In tutti e tre gli studi la percentuale di pazienti estubati con successo era significamente più alta nel gruppo dei neonati trattati con SNIPPV (~ 90%) rispetto al gruppo trattato con NCPAP (~ 60%). Gli autori di questi trials concludono che la SNIPPV può aumentare il successo dell’ estubazione nei neonati prematuri, senza effetti collaterali. Alla metà degli anni ’90 nel nostro centro è stato realizzato un sensore di flusso da applicare a livello delle cannule nasali e collegato ad un respiratore pressumetrico fornito di un software in grado di leggere il segnale del flusso malgrado la presenza di perdite variabili dalla bocca del paziente. Rispetto alla capsula il sensore di flusso ha il vantaggio di rilevare un segnale determinato direttamente dalla inspirazione spontanea del paziente, mentre il segnale proveniente dalla capsula è sensibile anche a movimenti della RELAZIONI SECONDA SESSIONE 97 parete addominale non finalizzati alla respirazione con frequenti fenomeni di “autotrigger”. Sono stati poi analizzati gli effetti di questa tecnica di ventilazione non invasiva flusso-sincronizzata sulla fisiologia respiratoria di neonati con peso alla nascita <1500 g subito dopo l’estubazione, confrontandoli con la NCPAP (5). Nel confronto è emerso che la SNIPPV aumenta significativamente il volume corrente e il volume minuto e riduce lo sforzo inspiratorio. Inoltre, durante la SNIPPV è stata osservata una diminuzione della frequenza respiratoria e dei valori di pCO2. CPAP e SNIPPV sono state poi confrontate nella fase di divezzamento dal respiratore in neonati con peso alla nascita < 1250 g (6). In questi pazienti la SNIPPV ha permesso di estubare con successo il 92% dei neonati vs. il 56% ottenuto con la nCPAP (p <0.05). In conclusione, la SNIPPV flusso-sincronizzata sembra essere una tecnica promettente di assistenza respiratoria, anche se sono necessari ulteriori studi randomizzati controllati su una popolazione di neonati prematuri per poter comprendere appieno le sue potenzialità. Bibliografia 1. Verder H, Robertson B, Greisen G, et al. Surfatant therapy and nasal continuous positive airway pressure for newborns with respiratory distress syndrome. N Engl J Med 1994; 331:1051. 2. Moretti C, Marzetti G, Agostino R, et al. Prolonged intermittent positive pressure ventilation by nasal prongs in intractable apnea of prematurity. Acta Paediatr Scand l981; 70:211. 3. Lin CH, Wang ST, Lin YJ et al.. Efficacy of nasal intermittent positive pressure ventilation in treating apnea of prematurity. Pediatr Pulmonol 1998; 26: 349. 4. Davis PG, Lemyre B, de Paoli AG. 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Robert Chevalier Department of Pediatrics, University of Virginia, Charlottesville, VA, USA Increasing evidence suggests that the long-term outcome of many renal disorders is worse if the number of nephrons is reduced. Whereas it was previously thought that there are normally one million nephrons in each kidney, it is now clear that the number varies nearly 10-fold (from 200, 000 to nearly 2, 000, 000). 1 While nephron number can be decreased due to fetal maldevelopment, nephrons can also be lost postnatally. This can occur through glomerular sclerosis, but also by a process of glomerulotubular disconnection, resulting in the formation of atubular glomeruli (ATG). Significant numbers of ATG have been described in kidneys of patients with renal artery stenosis and pyelonephritis. 2, 3 Dramatic changes develop at the glomerulotubular junction of nephrons in children with nephropathic cystinosis, and cystine induces apoptosis of renal proximal tubular cells in vitro. 4, 5 Examination of kidneys from a 10 year-old child who died with cystinosis showed many ATG (J. Thoene, personal communication). This is consistent with cystinosis-induced injury to the glomerulotubular junction, leading to the formation of ATG. Glomerulotubular disconnection follows proximal tubular injury, due to ischemia, hypoxia, oxidant, or toxic injury. Proximal tubules are particularly prone to hypoxia in the neonate, 6 and depletion of ATP causes apoptosis or necrosis in proximal tubular cells. 7 We have reported recently that kidneys from neonatal mice with knock out of endothelial nitric oxide synthase (eNOS) develop focal areas of proximal tubular apoptosis and necrosis. 8 These progress to focal renal scars in the adult containing large numbers of ATG. 8 Importantly, although eNOS is localized to the endothelium in the adult, expression of this enzyme is restricted to the proximal tubules in the neonatal mouse. 8 This suggests that eNOS acts as a tubular survival factor, and that reduced renal eNOS in the fetus or neonate may lead to formation of ATG later in life. Reports of more severe progression of renal disease in patients with mutations of the eNOS gene are consistent with this view, 9, 10 and underscore the importance of genetic factors in the progression of congenital renal disorders. Congenital obstructive nephropathy is a major cause of renal failure in infants, and proximal tubules produce the majority of renal transforming growth factor-β1 (TGF-β1) following experimental ureteral obstruction. 11 Production of TGF-β1, in turn, leads to tubular apoptosis in the obstructed kidney. 12 Chronic partial ureteral obstruction in the neonatal mouse leads to apoptosis and necrosis of the proximal tubule, and to the formation of ATG. 13 Similar lesions have been described in children with congenital obstructive nephropathy. 14 We conclude that both genetic or environmental factors may contribute to damage of the glomerulotubular junction in congenital renal disorders, thereby leading to the formation of nonfunctional ATG.15 There are a number of factors which may increase susceptibility of the fetal or neonatal kidney to such injury. These include ischemia, hypoxia, generation of reactive oxygen species (ROS), and activation of the renin-angiotensin system. 15 Manipulation of such factors may provide a new therapeutic approach to improving the long-term outcome of patients with congenital nephropathies. Bibliografia 1. Hughson, M. D., Farris, A. B., Douglas-Denton, R., Hoy, W. E. & Bertram, J. F. 2003. Glomerular number and size in autopsy kidneys: The relationship to birth weight. Kidney Int. 63, 2113-2122. 2. Marcussen, N. 1991. Atubular glomeruli in renal artery stenosis. Lab. Invest. 65, 558-565. RELAZIONI 100 TERZA SESSIONE 3. Marcussen, N. & Olsen, T. S. 1990. Atubular glomeruli in patients with chronic pyelonephritis. Lab. Invest. 62, 467-473 4. Darmady, E. M. & Stranack, F. 1957. Microdissection of the nephron in disease. Br. Med. Bull. 13, 21-26 5. Park, M., Helip-Wooley, A. & Thoene, J. 2002. Lysosomal cystine storage augments apoptosis in cultured human fibroblasts and renal tubular epithelial cells. J. 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There is substantial indication that the incidence of AKI is rising at an alarming rate, and the associated mortality and morbidity have remained high despite improvements in clinical care (6). While the worst outcomes in AKI have traditionally been associated with dialysis requirement, there is now mounting evidence to suggest that even very small increases in serum creatinine portend a significant amplification in mortality and morbidity rates (7). While recent advances have suggested novel mechanistic insights and therapeutic approaches in animal models, translational efforts in humans have yielded disappointing results. The reasons for this include a lack of a consensus definition of AKI, an incomplete understanding of the underlying pathophysiology, and the lack of early biomarkers for AKI, akin to troponins in acute myocardial disease, leading to an unacceptable delay in initiating therapy (8). In current clinical practice, AKI is typically diagnosed by measuring serum creatinine. Unfortunately, creatinine is an unreliable indicator during acute changes in kidney function (9). First, serum creatinine levels can vary widely with age, gender, muscle mass, muscle metabolism, medications, and hydration status. Second, serum creatinine concentrations may not change until about 50% of kidney function has already been lost. Third, at lower rates of glomerular filtration, the amount of tubular secretion of creatinine results in overestimation of renal function. Fourth, during acute changes in glomerular filtration, serum creatinine does not accurately depict kidney function until steady state equilibrium has been reached, which may require several days. However, animal studies have shown that while AKI can be prevented and/or treated by several maneuvers, these must be instituted very early after the initiating insult, well before the serum creatinine even begins to rise. Not surprisingly, the lack of early biomarkers has negatively impacted on a number of landmark clinical trials investigating highly promising therapies for AKI in humans. Conventional urinary biomarkers such as casts and fractional excretion of sodium have been insensitive and non-specific for the early recognition of AKI. The concept of developing a new toolbox for earlier diagnosis of disease states is also prominently featured in the NIH Road Map for biomedical research (10). Fortunately, the application of innovative technologies such as functional genomics and proteomics to human and animal models of kidney disease has uncovered several novel candidates that are emerging as biomarkers and therapeutic targets (11-14). Desirable properties of Aki Biomarkers In addition to aiding in the early diagnosis and prediction, biomarkers may serve several other purposes in AKI. Thus, biomarkers are also needed for: (a) identifying the primary location of injury (proximal tubule, distal tubule, interstitium, or vasculature); (b) pinpointing the duration of kidney failure (AKI, chronic kidney disease, or “acute-on-chronic”); (c) discerning AKI subtypes (pre-renal, intrinsic renal, or post-renal); (d) identifying AKI etiologies (ischemia, toxins, sepsis, or a combination); (e) differentiating AKI from other forms of acute kidney disease (urinary tract infection, glomerulonephritis, interstitial nephritis); (f ) risk stratification and prognostication (duration and severity of AKI, need for renal replacement therapy, length of hospital stay, mortality); (g) defining the course of AKI; RELAZIONI 102 TERZA SESSIONE (h) monitoring the response to AKI interventions. Furthermore, AKI biomarkers may play a critical role in expediting the drug development process. The Critical Path Initiative issued by the FDA in 2004 stated that “Additional biomarkers (quantitative measures of biologic effects that provide informative links between mechanism of action and clinical effectiveness) and additional surrogate markers (quantitative measures that can predict effectiveness) are needed to guide product development”. Desirable characteristics of clinically applicable AKI biomarkers include: (a) they should be non-invasive and easy to perform at the bedside or in a standard clinical laboratory, using easily accessible samples such as blood or urine; (b) they should be rapidly and reliably measurable using a standardized assay platform; (c) they should be highly sensitive to facilitate early detection, and with a wide dynamic range and cut-off values that allow for risk stratification; (d) they should be highly specific for AKI, and enable the identification of AKI sub-types and etiologies; (e) they should exhibit strong biomarker properties on receiver-operating characteristic (ROC) curves. The search for novel Aki Biomarkers The biomarker development process has typically been divided into five phases (15). The preclinical discovery phase requires high-quality, well-characterized tissue or body fluid samples from carefully chosen animal or human models of the disease under investigation. Typically, tissue analysis utilizes genomic approaches whereas body fluids are best analyzed by proteomic techniques. Identifying biomarkers in the serum or urine is most desirable, since these samples are easily obtained and allow for non-invasive testing. Urine is more likely to contain biomarkers arising from the kidney, more applicable for easy patient self-testing, and more amenable to proteomic screening due to the limited number of protein species present. However, urine samples are more prone to protein degradation, and biomarker concentrations may be confounded by changes in urine flow rate. Serum samples are readily available even in anuric patients, and serum biomarkers exhibit better stability. On the other hand, serum markers may reflect the systemic response to a disease process rather than specific organ involvement, and the presence of a large number of normally abundant proteins (such as albumin and immunoglobulins) in blood renders proteomic approaches difficult. The widespread availability of enabling technologies such as functional genomics and proteomics has accelerated the rate of novel biomarker discovery. The advent of the microarray, or cDNA chip, allows investigators to search through thousands of genes simultaneously, making the process very efficient. Such gene expression profiling studies have identified several genes whose protein products have emerged as AKI biomarkers, as detailed below. However, microarray-based methods cannot be used for the direct analysis of biological fluids, and usually require downstream confirmation by proteomic techniques prior to clinical use. Proteomics is the study of both the structure and function of proteins by a variety of methods, such as gel electrophoresis, immunoblotting, mass spectrometry, and enzymatic or metabolic assays. Each method is used to determine different types of information and has its own set of strengths and limitations. Advancing technologies have radically improved the speed and precision of identifying and measuring proteins in biological fluids, and proteomic approaches are also beginning to yield novel AKI biomarkers (16), as detailed below. Conclusions The tools of contemporary proteomics have provided us with promising novel biomarkers for the clinical investigation of AKI in humans. These include a plasma panel (NGAL and cystatin C) and a urine panel (NGAL, KIM-1, IL-18, cystatin C, α1-microglobulin, Fetuin-A, Gro-α, and meprin) (17-30). Since they represent tandem biomarkers, it is likely that the AKI panels will be useful for timing the initial insult and assessing the duration and severity of AKI (analogous to the cardiac panel for evaluating chest pain). Based on the differential expression of the biomarkers, it is also likely that the AKI panels will help distinguish between the various types and etiologies of AKI, and predict clinical outcomes. However, they RELAZIONI TERZA SESSIONE 103 have hitherto been tested only in small studies and in a limited number of clinical situations. It will be important in future studies to validate the sensitivity and specificity of these biomarker panels in clinical samples from large cohorts and from multiple clinical situations. Such studies will be markedly facilitated by the availability of commercial tools for the reliable and reproducible measurement of biomarkers across different laboratories. Ongoing and future proteomic studies will likely yield additional sensitive and specific biomarkers for the investigation of AKI resulting from diverse etiologies. Such tools will be indispensable for the early diagnosis and initiation of timely therapeutic measures. References 1. Mehta RL, Kellum JA, Shah SV, et al. Acute Kidney Injury Network: report of an initiative to improve outcomes in acute kidney injury. Crit Care. 2007;11:R31. 2. Lameire N, Van Biesen W, Vanholder R. 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Fanos Introduzione L’iponatremia neonatale è un problema clinico complesso che presenta ancora molti lati oscuri riguardo sia la fisiopatologia sia la frequenza e può essere causato da scenari opposti. Un abbassamento della concentrazione sierica di sodio può essere secondario ad aumentate perdite (deplezionale) o ad aumentato apporto idrico (diluizionale); può associarsi ad alti valori di AVP (Arginin Vasopressina) oppure a bassi valori di AVP. Qualora l’AVP sia elevato occorre stabilire se questo aumento è secondario ad uno stimolo osmotico o meno e, in caso negativo, sarà necessario chiedersi perché. Curiosamente anche la terapia dell’iponatremia può basarsi su una restrizione idrica o, viceversa, su un aumentato apporto di fluidi. La correzione di un’iponatremia infine, può essere rapida, qualora si voglia trattare un edema cerebrale oppure lenta se si vuole prevenire la demielinizzazione osmotica. La frequenza dell’iponatremia, ben conosciuta nel pretermine (variabile dal 25 al 65% dei ricoverati in Terapia Intensiva), e nei bambini più grandi ospedalizzati (3% dei ricoverati), è meno conosciuta nel nato a termine. La stessa definizione di iponatremia (sodio sierico <135mEq/l) presenta dei limiti perché si basa sulla concentrazione sierica del sodio e non ci dà indicazioni quantitative sul liquido extracellulare (LEC) né tanto meno sullo stato effettivo del contenuto sodico corporeo totale. E’ molto importante sottolineare che la concentrazione sodica è determinata dal rapporto sodio/acqua nel compartimento ematico e non dal valore assoluto del sodio. Un eccesso d’acqua si accompagna infatti a iponatremia, viceversa un difetto può portare ad un’ipernatremia. L’iponatremia è un importante problema clinico in quanto può causare gravi problemi a livello cerebrale, tali meccanismi sono ben conosciuti nell’adulto, meno nel neonato: 1. Entro pochi minuti dall’inizio di un’iponatremia si verifica un edema cerebrale. 2. Dopo alcune ore segue un adattamento rapido che risulta da una fuoriuscita di elettroliti dalle cellule. 3. Entro diversi giorni (adattamento lento) si verifica una fuoriuscita compensatoria di osmoliti organici dalle cellule (aminoacidi e fosfolipidi). L’elevata compliance del cranio neonatale (legata alla presenza di fontanelle e ossa craniche non ancora ossificate), rappresenta un meccanismo che si oppone alla rapidità con la quale si instaura una sintomatologia legata all’iponatremia, non si conoscono inoltre i tempi necessari in età neonatale affinché si instauri il meccanismo di adattamento lento. Classificazione dell’iponatremia Esistono tre tipi di iponatremia classificati sulla base dell’osmolarità plasmatica: - L’iponatremia isotonica (280-295mOsm/L) è rara in età pediatrica ed è dovuta solitamente ad un errore di laboratorio. Sono infatti rarissime, nel neonato, le pseudoiponatremie secondarie a iperlipemia e iperproteinemia. - L’iponatremia ipertonica (>295mOsm/L) si può verificare occasionalmente in caso di iperglicemia con conseguente spostamento di fluido dal liquido intracellulare (LIC) al LEC ed è aggravata dalla diuresi osmotica che si verifica in questi casi. - L’iponatremia ipotonica è la forma più frequente nel neonato e si può verificare in un contesto di LEC contratto (ipovolemia), normale o espanso. Di conseguenza differenti quadri patologici possono presentare lo stesso sintomo: l’iponatremia. La valutazione del LEC si basa sullo studio della la storia clinica, dei segni clinici e di risultati degli esami di laboratorio. Le cause di iponatremia ipovolemica possono essere renali o extrarenali, dovute a perdita di sodio renale (cerebral salt wasting CSW). o gastrointestinale (vomiti, diarrea), perdite nel terzo spazio (ostruzione intestinale ed enterocolite necrotizzante), uso di diuretici, emorragia surrenalica, deficienza RELAZIONI 106 TERZA SESSIONE di mineralcorticoidi. In caso di iponatremia ipovolemica (LEC contratto) andranno ricercati nel neonato segni clinici di contrazione di volume quali: - bassa pressione arteriosa; - elevata frequenza cardiaca, fontanella depressa, mucose asciutte, ridotto turgore cutaneo; - ridotto riempimento delle camere cardiache e bassa gittata all’ecocardio; - ridotto tempo di refill capillare alla digito-pressione. Per quanto riguarda gli esami di laboratorio possiamo riscontrare: - > livelli sierici di urea, creatinina e acido urico; - < escrezione frazionata del Sodio (FENa) (<1%); - < concentrazione urinaria di sodio in uno spot urinario (< 30 mmol/L) a meno che il rene non rappresenti la causa della perdita di sodio. L’iponatremia ipotonica ipervolemica può essere secondaria ad insufficienza cardiaca acuta o cronica e a insufficienza renale acuta o cronica. Quest’ultima è caratterizzata da segni clinici quali: - edema sottocutaneo; - ascite; - edema polmonare; - versamento pericardico e/o pleurico. Gli esami di laboratorio saranno caratterizzati, come nella forma ipovolemia, da bassi livelli di FeNa e sodio urinario. L’iponatremia euvolemica L’iponatremia euvolemica nel neonato è un’iponatremia da diluizione, generalmente legata ad un eccessivo apporto idrico e esacerbata dalla difficoltà del rene neonatale a smaltire un carico d’acqua. Si tratta di una diagnosi di esclusione. Possiamo parlare infatti di iponatremia euvolemica in caso di assenza di segni clinici di deplezione o di espansione di volume associati a: - >FE Na (>3%); - concentrazione urinaria di sodio > 30 mmol/L. Le malattie che causano sofferenza respiratoria (comprese le perdite d’aria, enfisema interstiziale, pneumotorace e pneumomediastino) e la stessa ventilazione meccanica, si associano a elevati livelli di AVP, la cui secrezione è stimolata dall’abbassamento della pressione arteriosa e dalla successiva attivazione dei barocettori aortici, carotidei e polmonari. In tutti questi casi l’iponatremia è in genere transitoria e scompare col trattamento della causa sottostante. In altri casi alla base vi è la Sindrome da Inappropriata Secrezione di Adiuretina (SIADH), la deficienza isolata di glucocorticoidi e l’ipotiroidismo. La SIADH è una causa comune di iponatremia individuata nel 1967 da Bartter e Schwartz. I criteri diagnostici sono specifici e includono: l’iponatremia, l’ipotonicità, l’inappropriata concentrazione delle urine (>100mOsm/Kg di acqua), l’elevata concentrazione urinaria di sodio (>20 mEq/L), l’euvolemia e la normale funzione renale, surrenalica e tiroidea. Dal momento che difficilmente si osservano casi che soddisfano tutti i punti necessari per la diagnosi la sua frequenza nel neonato è probabilmente sovrastimata. In ogni caso più frequentemente la SIADH, malattia nel neonato generalmente transitoria e autolimitante, si associa a un’iponatremia acuta (della durata inferiore a una settimana). In età pediatrica (ma in nessun caso neonatale), sono stati osservati solo 15 casi di SIADH cronica (della durata superiore a una settimana). La deficienza isolata di glucocorticoidi è un disordine ipotalamico che si può osservare in caso di malformazioni cerebrali quali oloprosencefalia oppure ipofisario che interessa la secrezione di ACTH ma si accompagna a una normale secrezione di aldosterone. In questi casi la presenza di aldosterone impedisce la perdita di sodio renale, l’ipovolemia e l’ipercaliemia. Il meccanismo che causa la ritenzione RELAZIONI TERZA SESSIONE 107 idrica sarebbe secondario all’aumento dell’AVP non secondario a uno stimolo ipovolemico e neanche osmotico. In adulti trattati con inibitori del recettore si osserva una quasi completa normalizzazione dell’iponatremia. L’iponatremia da ipotiroidismo è rara nel neonato, nonostante la più elevata frequenza dell’ipotiroidismo rispetto alle due malattie già citate. La causa dell’iponatremia sarebbe legata, secondo alcuni autori, al fatto che gli ormoni tiroidei regolano la Na/K ATPasi a livello dei tubuli renali; secondo altri, sarebbe invece da attribuire un’alterata escrezione dell’acqua secondaria a variazioni della perfusione renale e della filtrazione glomerulare dovute agli effetti dell’ipotiroidismo sulla gittata cardiaca e sulle resistenze periferiche vascolari. Nei casi in cui la valutazione del LEC non sia facile, oppure le urine abbiano una concentrazione di sodio < 40mmol/L sarà utile fare una prova dinamica con soluzione salina isotonica poiché l’iponatremia ipovolemica si correggerà, mentre l’euvolemica no. Un caso clinico di iponatremia neonatale precoce, severa e persistente Riportiamo di seguito un caso clinico di iponatremia neonatale precoce, severa e persistente che potrà forse risultare utile ai neonatologi che affrontano tale disturbo elettrolitico. Lorenzo è primogenito di genitori non consanguinei, nasce asfittico, con parto spontaneo, dopo una gravidanza fisiologica. Dopo rianimazione cardio-polmonare con intubazione e massaggio cardiaco esterno, il paziente viene trasferito presso il Reparto di Terapia Intensiva Neonatale dell’Università di Cagliari. All’ingresso presenta un grave quadro di sofferenza neurologica caratterizzato da ipotonia diffusa, letargia, debolezza dei riflessi arcaici, scarsa reazione agli stimoli. Dopo circa 7 ore dalla nascita compaiono inoltre convulsioni tonico-cloniche. Tale quadro è inquadrabile in una encefalopatia-ipossicoischemica di grado II secondo Sarnat e Sarnat. Nei primi tre giorni la diuresi è contratta, per cui il piccolo viene sottoposto ad un elevato carico idrico onde forzare la diuresi. Nei giorni successivi presenta una rapida ripresa della funzione respiratoria, per cui viene estubato e anche le sue condizioni neurologiche migliorano tanto che, dal momento che il piccolo mostra capacità di suzione, la sua alimentazione è mista: in parte spontanea per il resto parenterale. Molto precocemente il neonato presenta valori di sodio sierico bassi che richiedono supplementazione con 8 mEq/L/Kg di NaCl. Nei giorni successivi la sodiemia si mantiene bassa (con valori compresi tra 130-132 mEq/l nella prima settimana di vita) nonostante la supplementazione. Il paziente è un nato asfittico e i neonati asfittici presentano una escrezione sodica elevata associata ad una bassa capacità di eliminare un carico idrico. I quozienti idrici ai quali il piccolo viene sottoposto nei primi giorni di vita sono elevati (60ml/Kg in prima, 90ml/Kg in seconda e 120ml/Kg in terza giornata) allo scopo di forzare la diuresi che è contratta. Alla fine della prima settimana il piccolo non presenta calo fisiologico e il suo peso, al contrario, aumenta di 500 grammi. Dopo la prima settimana, nonostante l’apporto idrico e l’introito di sodio siano normali, l’iponatremia, non solo persiste ma diventa severa (120 mEq/l), l’osmolarità plasmatica è bassa e la natriuresi elevata. Il primo provvedimento terapeutico adottato è la restrizione idrica (70% dell’apporto fisiologico per l’età) associata ad un normale apporto sodico. Tale tentativo terapeutico si rivela ben presto inefficace e, alla fine della terza settimana di vita, i livelli di sodio plasmatici sono drammaticamente bassi (109 mEq/L). Dopo aver consultato esperti nefrologi pediatri si tenta normalizzare il sodio sierico con infusioni endovenose di soluzione fisiologica isotonica, normalizzazione dell’apporto idrico e due dosi estemporanee di diuretici (Lasix 1 mm/Kg dose), in questo modo i livelli di sodio plasmatici salgono lentamente fino a valori lievemente più bassi della norma (130 mEq/L). Considerati i dati anamnestici di encefalopatia ipossico-ischemica, iponatremia e ipernatrieuresi viene presa in considerazione inizialmente la diagnosi differenziale tra SIADH e Cerebral Salt Wasting. Sia la CSW che la SIADH si possono associare ad un danno cerebrale. Nella CSW (visto che l’evento scatenante è la perdita di sodio nelle urine con secondaria riduzione del volume intravasale e successivo aumento dell’AVP), l’iponatremia è di tipo ipovolemico e si associa a segni di disidratazione (ridotto turgore cutaneo, ipotensione, aumento della frequenza cardiaca, ematocrito alto, uricemia normale). Il piccolo non presenta né segni clinici né di laboratorio di disidratazione per cui, una volta escluse le cause RELAZIONI 108 TERZA SESSIONE sintomatiche di iponatremia euvolemica quali: ipotiroidismo, mancata produzione di glucocorticoidi, si valuta l’uricemia che risulta bassa. Di seguito riportamo un algoritmo da noi approntato che riteniamo utile, a nostro avviso, in caso di iponatremia euvolemica neonatale prolungata. L’approccio diagnostico si basa sulla valutazione clinica del volume di liquido extracellulare e sull’escrezione sodica. Fig. 1. Algoritmo per la diagnosi differenziale delle iponatremie neonatali Nel nostro caso l’orientamento clinico depone per la SIADH. Si dosa pertanto l’AVP che risulta inaspettatamente normale. Alla luce di questi risultati ci orientiamo verso la diagnosi di Nephrogenic Syndrome of Inappropriate Antidiuresis. Lo studio molecolare per la ricerca della mutazione del gene R137C risulta positivo per la mutazione in emizigosi del bambino ed in eterozigosi della madre confermando il sospetto clinico. Successivamente il piccolo viene trattato con una soluzione orale di urea al 30% alla dose 0.1g/Kg/die divisa in quattro dosi, aumentata progressivamente fino a 1.2g/Kg/die, come suggerito da Huang e coll., e si assiste a una progressiva normalizzazione della natremia. A 9 mesi l’urea viene discontinuata e successivamente sospesa a causa della normalizzazione della sodiemia ma il piccolo è portatore di gravi esiti neurologici legati presumibilmente alla encefalopatia ipossico-ischemica pregressa (paralisi cerebrale di tipo distonico). Il paziente descritto rappresenta il quarto caso di NSIAD causato da mutazioni del gene AVPR2 finora descritto in bambini e il primo caso ad esordio neonatale. L’evoluzione clinica del nostro caso è diversa rispetto alle due segnalazioni della letteratura, poiché il decorso neonatale è stato complicato da una grave sindrome ipossico-ischemica. RELAZIONI TERZA SESSIONE 109 Nephrogenic Syndrome of Inappropriate Antidiuresis (NSIAD) Nel maggio 2005 Feldman e altri autori, hanno descritto due lattanti con sintomi suggestivi di SIADH, ma con valori di adiuretina sierica non misurabili. Nel primo paziente la malattia era esordita a tre mesi di età con irritabilità e nel secondo a due mesi e mezzo con convulsioni. Entrambi i pazienti avevano presentato un normale decorso neonatale. L’esame fisico e gli esami di laboratorio avevano mostrato una lieve ipertensione sistolica e iponatremia associata a potassio sierico e bicarbonato nella norma. I piccoli presentavano inoltre un’osmolarità sierica bassa con aumento inappropriato dell’osmolarità e dei livelli di sodio urinario. Altre caratteristiche includevano urea plasmatici bassa, livelli di aldosterone normali e attività reninica bassa o soppressa. Gli autori, dopo aver ipotizzato una mutazione del gene V2R, identificano due differenti mutazioni nel gene AVPP2 (R137C e R137L) che causano eccesso di funzione del gene del recettore dell’ormone antidiuretico arginina-vasopressina (AVPR2) localizzato nel cromosoma X e coniano il termine di Nephrogenic Sindrome of Inappropriate Antidiuresis. La peculiarità della NSIAD sta nel fatto che differenti mutazioni nel gene AVPR2 consistenti nella sostituzione di un unico aminoacido, determinano due forme morbose caratterizzate da una patogenesi opposta. Nel Diabete Insipido Nefrogenico di tipo 1 (CNDI), la mutazione è detta inattivante poiché comporta l’inattivazione del recettore V2, mentre nella NSIAD si verifica un’attivazione del recettore V2 che si associa ad una eccessiva funzionalità (TAb.1). Successivamente Bes ha riscontrato la malattia in un bambino di 5 anni che aveva presentato saltuarie convulsioni iponatremiche trattate con restrizione idrica e somministrazione di NaCl. Nel nostro paziente l’ecografia cerebrale evidenzia inizialmente un’ecogenicità dei talami e dei gangli della base seguita da uno slargamento marcato del terzo ventricolo (indice di atrofia talamica) associato a modesto slargamento dei ventricoli laterali e della scissura interemisferica. La Risonanza Magnetica conferma tale reperto evidenziando una lieve ectasia delle camere ventricolari associata a un’ anomala intensità di segnale a livello dei gangli della base e dei talami compatibile con esiti di grave encefalopatia ipossico-ischemica. L’EEG evidenzia anomalie epilettiformi plurifocali biemisferiche. La NSIAD potrebbe non essere rara, la sua frequenza è probabilmente sottostimata e, a nostro avviso, dovrebbe essere inclusa nella diagnosi differenziale delle iponatremie neonatali euvolemiche, a decorso protratto, associate a natriuresi elevata e a livelli normali o bassi di AVP. CNDI (tipo1) NSIAD Genetica X linked Gene AVPR2* Istidina X linked Gene AVPR2* Leucina o Cisteina Conseguenza Inattivazione recettore V2 Iperattivazione recettore V2 Sintomi Poliuria, disidratazione ipernatremica, ipertermia, difetto di crescita, ritardo mentale e morte Irritabilità e convulsioni Dati di laboratorio Ipernatremia, iperosmolarità, bassa osmolarità urinaria Iponatremia, iposmolarità, aumentata osmolarità urinaria Terapia Aumentato apporto idrico, basso apporto di sodio e idroclortiazide Ridotto apporto idrico, elevato apporto di sodio e urea orale Tab.1 Confronto tra Diabete Insipido Nefrogenico Congenito e Sindrome da Inappropriata Antidiuresi Renale RELAZIONI 110 TERZA SESSIONE Bibliografia 1. Robertson GL (2001) Antidiuretic hormone: normal and disordered function. Endocrinol Metab Clin North Am 30: 671-694. 2. Morello JP, Bichet DG (2001) Nephrogenic diabetes insipidus. Annu Rev Physiol 63: 607-630. 3. 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Differences in the effects of these drug in the molecular and clinical levels have been shown and may be considered in the selection of these therapeutic agents in newborn infants. QUARTA SESSIONE 29 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Carlo Vosa, Giuseppe Caianiello Moderatori: Fiorina Casale, Carla Navone, Lodovico Perletti, Alberto Podestà Fiorina Casale RELAZIONI QUARTA SESSIONE 113 BAMBINO E SOCIETÀ: ASPETTI STORICI, ARTISTICI, CULTURALI E SOCIALI G. Parisi, G. Senese U.O. Pediatrico-Neonatologica Vasto (Ch), A.S.L. 03 Lanciano-Vasto, Regione Abruzzo Premessa Il 2008 è stato designato dalle Nazioni Unite e dall’IDF come l’Anno del bambino ; i termini iniziali del titolo della presente relazione potrebbero tranquillamente essere invertiti senza rischio alcuno di distorsione semantica (Società per i bambini), se si volesse porre l’accento su come i bambini sono influenzati dalla Società e su come la Società possa migliorare e migliorarsi attraverso l’investimento e l’attenzione sui bambini: appunto la Società per i bambini. Investire sui bambini significa creare nuove prospettive di sviluppo economico, culturale, sociale e di stabilità mondiale. Per quanto ovvia e scontata possa oggi apparire questa affermazione, pur tuttavia sappiamo bene che non è stato sempre così. Le radici del problema Andando a ritroso nel tempo, Lloyd de Mause (1983)ci ricorda che “la storia dell’infanzia è un incubo dal quale solo di recente abbiamo cominciato a destarci. Più si va addietro nella storia, più basso appare il grado di attenzione per il bambino…..”. Ragion per cui la famosa massima di Giovenale (55-137 D.C.)della XIV Satira, “Maxima debetur puero reverentia “, lungi dal rappresentare una presa d’atto di comportamento o costume acquisito, suona piuttosto come monito ed esortazione per la realtà di quell’epoca. Nei primi decenni del II Secolo d. C. Adriano emanava un editto sugli stranieri che chiedessero la cittadinanza romana per sé e per i propri figli, condizionando la concessione dello status civitatis ai componenti di questi nuclei familiari, compresi figli impuberi o non conviventi, indipendentemente dall’attribuzione della potestas al padre, qualora questa risultasse non di giovamento ai figli (criterio del “si expedit filis”); col che l’ordinamento giuridico antico compì uno straordinario passo in avanti sull’organismo familiare ma anche sui figli. Altri progressi in termini di riconoscimento giuridico e considerazione sociale provennero dal “Corpus Juris Civilis” di Giustiniano (535 ca d. C.). Ma bisognerà attendere l’editto di Rotari (643 D.C.) ed i “Capitularia” di Carlo Magno (802 D.C.) perché il concetto di infanzia e quello di adolescenza trovassero una più precisa delimitazione (età “legittima”) traducentesi in un minimo di tutela. Quelli che con espressione retorica ma inevitabile vengono chiamati “i secoli bui del Medioevo”, vedono senz’altro una infanzia negletta ed una adolescenza negata. Ciò è sicuramente vero se si considera che persino la rappresentazione figurativa ed artistica dei bambini era deficitaria e deformata (“adulto miniaturizzato”): bisognerà arrivare fino al secolo XVI per trovare una singolare narrazione del mondo dell’infanzia, credibile anche dal punto di vista della medicina costituzionalistica, nell’opera del grande maestro fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio (1525-1569)quando fissò sulle sue tele torme di fanciulli affaccendati in infiniti giochi e passatempi, più di 80, in una sorta di allegoria dell’infanzia, o satira del genere umano, dove comunque grandi e piccoli si mescolano insieme senza distinzione di età o separazione ludica o di occupazione. Sviluppi ed evoluzione della tematica J.C. Schmitt (1982) ha ricordato che “l’infanzia non costituisce ancora nel Medioevo una categoria ben definita….”. Ma, nei secoli terminali, è individuabile il germe, in determinate circostanze, di un riconoscimento e delimitazione benché confusi di fasi diverse nell’infanzia e persino di investimenti genitoriali di risorse nella loro prole (S.Shahar, 1990). Solo a far tempo dal XVIII secolo, il cosiddetto “secolo dei lumi”, osserva Burgio (2007), la dimensione dell’infanzia nel mondo occidentale è giunta ad acquisire un decoroso livello di dignità e di considerazione (“scoperta” dell’infanzia da parte della società borghese, valorizzazione Illuministica dell’uomo e del bambino) che ha generato nel successivo XIX secolo la Pediatria, disciplina medico-scientifica specificamente indirizzata alla tutela della salute dei bambini. Occorre però rammentare e sottolineare lo sfruttamento minorile che segnò il sorgere e lo svilupparsi della società industriale dell’epoca, con deprecabili diffusi fenomeni di impiego di minori RELAZIONI 114 QUARTA SESSIONE come “forza lavoro” (nelle fabbriche, da 9 anni in su), ferocemente stigmatizzati da scrittori come C. Dickens (“Oliver Twist”) in Inghilterra, mentre il conflitto della libertà e spontaneità fanciullesca con gli schemi convenzionali soffocanti della società dell’epoca era ironicamente tematizzato in America da M. Twain (“Le avventure di Tom Sawyer “) e, in Italia, gli accenti lirici e di dolente partecipazione da parte di Matilde Serao per l’infanzia sofferente (“Il ventre di Napoli”) si affiancavano all’ideale di scrittore popolare e pedagogico attento all’infanzia di E. De Amicis (“Cuore”). Il XX secolo appena spirato è quello delle grandi enunciazioni di principio ufficiali nazionali e sopranazionali, entusiasticamente accolte ed universalmente diffuse, condivise e codificate allo scopo di sancire e difendere i diritti dei bambini ovunque, nel mondo. Il trattato sui diritti umani “maggiormente ratificato nella storia”, la Dichiarazione ONU sui Diritti dei Bambini (Convenzione Internazionale di New York, novembre 1989) ha visto “a cascata” susseguirsi azioni concrete, come la nascita dell’Unicef ed altre organizzazioni internazionali, allo scopo di proseguire e rafforzare l’azione intrapresa a divulgazione e difesa di una nuova moderna Cultura dell’Infanzia. A che punto siamo? Oggi, agli albori del XXI secolo, qual è e come si può valutare la situazione acquisita? il bambino del III millennio è “stella supernova o buco nero” o l’una e l’altra cosa assieme? in quanti paesi od aree geografiche ancora molta infanzia rimane negletta, sfruttata e privata di diritti e di una degna qualità di vita? La considerazione che larghe fasce di bambini vivono ancora in profondo disagio socio-familiare ed ambientale, molto spesso in povertà (c.d. Paesi in via di sviluppo, ampi segmenti di disagio, diseguaglianza e nuova povertà nel mondo occidentale per fenomeni autoctoni o legati a flussi migratori e/o a difficoltà di integrazione e scollamento sociale), mentre chiama in causa precise responsabilità sia istituzionali che di variegata soggettualità (forme vecchie e nuove della socialità e della scienza), costituisce comunque prima di tutto per il pediatra una “chiamata alle armi” o, meglio, una “convocazione-evocazione-ordinazione”, secondo la visione di Emmanuel Lévinas, il filosofo franco-lituano dell’alterità e dell’accoglienza, che parte dal “visage” interrogante del bambino sofferente e genera una risposta di coscienza ed empatia. Molteplicita’ di compiti, specificita’ di funzioni, unicita’ di ruolo A tali compiti occorre essere preparati, ampliando l’angolo visuale ed acuendo la sensibilità emozionale della nostra osservazione (pediatra come ”antenna sociale”, alleato ed avvocato del bambino e della sua famiglia) ma anche espandendo i confini delle nostre funzioni (non solo medico ed uomo di scienza ed esperto di evidenze ma un educatore proiettato nel socio-psico-affettivo-pedagogico, un “bridgethrower” di salute benessere e cultura che conosce Montessori, Piaget, Winnicott e Freud ma riconosce l’Internet Addiction Disorder (K.Young), che ha risolto l’antinomia tra teoria riduttivista-razionalistica e quella fenomenologico-relazionale, personalista (come radice filosofica della Scienza Medica), a favore della seconda, che pratica l’”Ermeneutica “ di Gadamer e mitiga l’aspro rigore della medicina dell’evidenza con la dolcezza e l’umanità di quella “Narrativa”; in definitiva e soprattutto un intellettuale, capace in ogni momento di sentire la centralità del binomio bambino-famiglia, agire nel rispetto di un principio di equità perseguendo l’obiettivo di “guadagnare salute”, generando una rinnovata attitudine ad utilizzare conoscenze, riconoscere bisogni, esprimere competenze, attivare strategie di interventi: un pediatra nuovo per una società nuova, a misura di bambino. 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Casale Servizio di Oncologia Pediatrica Dipartimento di Pediatria - Seconda Università degli Studi di Napoli Attualmente, in circa il 70% dei bambini affetti da tumore, l’obiettivo guarigione rappresenta un obiettivo reale, per cui, se negli anni ’80 l’obiettivo degli oncologi pediatri era costituito dalla guarigione ad ogni costo, oggi l’obiettivo è spostato nel garantire un’ottimale qualità della guarigione, anche a lungo termine. Tale problematica è ancora più pressante che si considera che nel 2010 un giovane adulto su 1000 sarà un soggetto guarito da un tumore contratto in età pediatrica. La strategia terapeutica alla base dei risultati attuali può essere racchiusa nell’evoluzione delle armi terapeutiche tradizionalmente impiegate: chirurgia, chemioterapia, radioterapia e terapia di supporto. Attualmente la chirurgia viene utilizzata in maniera diversificata rispetto al passato, limitandosi ad una biopsia diagnostica nel caso di neoplasie voluminose e sempre più spesso utilizzata in associazione a chemio e/o radioterapia. Per quanto riguarda la chemioterapia, la sua evoluzione nel tempo è rappresentata dall’impiego di nuove molecole più specifiche, oltre a dosaggi, talvolta molto più elevati grazie alla possibilità del supporto con cellule staminali. Anche la radioterapia si è modificata nel tempo con l’utilizzo di nuove tecniche e dosaggi e tempi di impiego sicuramente più mirati rispetto al tipo di neoplasia ed allo stadio di presentazione della stessa, oltre all’età del paziente. La stessa terapia di supporto ha contribuito notevolmente al miglioramento dei risultati con la scoperta di nuove molecole contro le infezioni da batteri, virus e miceti, causa frequente di morte in questo tipo di pazienti. In relazione al progressivo aumento del numero dei pazienti guariti, è emersa una serie di problematiche, i cosiddetti danni tardivi, risultato dell’interazione tra i mezzi terapeutici impiegati e la risposta dell’ospite. Molteplici sono gli organi o apparati che possono risultare coinvolti nel prezzo da pagare alla guarigione, non solo, ma con l’allungarsi del follow-up di sorveglianza sono emerse anche altre problematiche quali i secondi tumori, la prole dei soggetti guariti e gli aspetti psicologici e psico-sociali connessi a tale popolazione. Tra gli organi compromessi, sicuramente il polmone e il cuore rappresentano quelli che necessitano di un attento e prolungato monitoraggio. I danni tardivi a carico del polmone sono correlati essenzialmente all’impiego della radioterapia e della chemioterapia, anche se è importante l’età all’erogazione delle cure. Per quanto riguarda la radioterapia, gli effetti sul parenchima polmonare sono correlati non solo al volume irradiato, ma anche alla dose totale erogata, al frazionamento di essa e, non ultimo, alla sua qualità. Per quanto riguarda la chemioterapia, la Bleomicina rappresenta il prototipo della tossicità polmonare da farmaci. Le antracicline ancora oggi rappresentano un’efficace arma terapeutica contro la maggior parte delle neoplasie pediatriche, anche se il loro impiego, fin dai primi anni ’60, è stato limitato da una tossicità talvolta acuta, ma più spesso tardiva. Difatti è stata dimostrata l’insorgenza di una cardiotossicità che può verificarsi da alcune settimane fino a molti anni dalla sospensione delle terapie, che può evolvere verso un’ insufficienza cardiaca congestizia (ICC), ad evoluzione spesso fatale. Molteplici sono i fattori che possono determinare una ridotta tolleranza cardiaca alle antracicline. E’ ormai opinione comune che il più importante è rappresentato dalla dose cumulativa dei farmaci, anche se diversi altri fattori sono stati identificati quali la modalità degli schemi di somministrazione dei farmaci, la concomitante o precedente irradiazione del mediastino, l’impiego di Ciclofosfamide o Ifosfamide ad elevati dosaggi oltre all’età, il sesso e, non ultimo, la lunghezza del follow-up di sorveglianza. Anche sotto il profilo igienico-dietetico sicuramente questi pazienti devono evitare fattori aggiuntivi di rischio cardiologico, quali diete ricche in grassi, l’assunzione di alcool, il fumo o, ancor peggio, l’uso di droghe anche leggere. Ancora oggi non abbiamo risposte chiare relativamente ad alcune problematiche quali: Dobbiamo sconsigliare ai pazienti trattati con antracicline, sports faticosi, agonistici, soprattutto muscolari o pesistica? RELAZIONI 116 QUARTA SESSIONE È necessario ravvicinare i controlli cardiologici nei periodi di maggior rischio, quali la crescita puberale, o, per le femmine, la gravidanza? Bisogna temere problemi cardiologici durante l’invecchiamento? Attualmente, i bambini trattati per tumore, grazie alla maggiore attenzione verso le problematiche esposte, possono diventare adulti sani, ben integrati nel tessuto sociale e capaci di assumere responsabilità sia personali che professionali. RELAZIONI QUARTA SESSIONE 117 GLI SCENARI DEGLI STATI DI SHOCK NEL NEONATO P. Giliberti, A. Santantonio, G. Chello U.O.C. di Neonatologia e Terapia intensiva neonatale dell’A.O. V. Monaldi di Napoli Col termine di shock si definisce una complessa disfunzione della perfusione d’organo che si riflette in un insufficiente apporto di ossigeno e di nutrienti ai tessuti. La compromissione della perfusione d’organo si esprime sul piano clinico col prolungamento > 3 secondi del tempo di riempimento capillare1, valutato nel distretto superiore ed inferiore, col rilievo di estremità fredde2, con modifiche del colorito (cianosi, pallore) o con lo stabilizzarsi di una cute marmorata. Completano il quadro clinico dello shock la comparsa di segni respiratori, che esprimono un aumento del lavoro respiratorio o il suo esaurimento, di alterazioni della frequenza cardiaca (dalla bradicardia alla tachicardia), di anomalie dei polsi (polsi deboli, polsi scoccanti, differenze distrettuali), di contrazione della diuresi e di segni neurologici di letargia. In presenza di questa costellazione clinica, completa od incompleta che sia, è fondamentale tener presente tutte le cause possibilmente in gioco, che tra l’altro possono essere contemporaneamente presenti, dalle cause ipovolemiche, rappresentate dalle emorragie intrapartum e post - natali, alle cause cardiache, alle cause infettive3. Gli scenari dello shock: esami strumentali e di laboratorio Nella valutazione del neonato critico, oltre ad una accurata anamnesi, che da sola può permettere un rapido orientamento e ad un esame obiettivo completo ed accurato, spesso ripetuto, si aggiunge inevitabilmente un insieme di esami strumentali e di laboratorio, possibilmente mirati. Questi comprendono : Gli esami di laboratorio del neonato critico [ Ht, Emocromo, Indicatori infettivi (PCRq), Esami colturali, Test della coagulazione, Glicemia, Calcemia, Elettrolitemia (Sodio, Potassio, Cloro, Calcio), Emogasanalisi4, Indici della funzione renale, Controllo della diuresi, Emogasanalisi, Esami della funzione epatica, Esami per gli errori congeniti del metabolismo (Ammoniemia, aminoacidogramma, ricerca degli acidi organici, sindrome adreno - genitale), etc. ] L’Ecocardiogramma5 Rx del torace6 L’ECG7 Terapia degli stati di shock L’approccio terapeutico dovrà essere necessariamente mirato con l’obiettivo della normalizzazione della gittata cardiaca attraverso l’uso razionale della somministrazione di volume8 e degli inotropi, della normalizzazione della perfusione e dell’ossigenazione, dell’interruzione del metabolismo anaerobico e dello smaltimento del carico in acido lattico, fino alla normalizzazione del pH ematico. Il principio della personalizzazione della terapia degli stati di shock presuppone il riconoscimento dei meccanismi fisio - patologici in atto. Ciò è possibile sul piano clinico con l’inquadramento del singolo caso negli scenari clinici tipici dello shock nel neonato : A.Il neonato di peso alla nascita < 1500 g nell’immediato periodo post - natale, nel quale agiscono nel determinismo di un basso flusso sistemico la disregolazione del tono vasomotorio e l’immaturità del miocardio, incapace di reggere all’aumento del post - carico. B.Il neonato a termine o pretermine depresso da cause asfittiche, il cui meccanismo principale è la disfunzione miocardica, che impedisce allo stesso di rispondere agli effetti delle catecolamine endogene. C.Il neonato pretermine con pervietà del dotto di Botallo, in cui il meccanismo predominante è il furto diastolico di perfusione della maggior parte degli organi e l’effetto dello shunt sn - dx sul parenchima polmonare con aumento del rischio di emorragia RELAZIONI 118 QUARTA SESSIONE D.Il neonato con shock settico, il cui meccanismo è l’ipovolemia relativa, la disfunzione miocardica e la vasodilatazione periferica. E.Il neonato pretermine con ipotensione resistente ai farmaci, di solito a partire dal secondo giorno di vita, il cui meccanismo è il deficit relativo di cortisolo, l’insufficienza e la down - regulation dei recettori adrenergici. Nel primo caso, il neonato di peso alla nascita < 1500 g nell’immediato periodo post - natale, oltre a correggere tutti i fattori inotropi negativi, quali l’ipossia, l’acidosi, l’ipoglicemia ed eventualmente l’ipocalcemia9 ed a regolare la pressione media delle vie aeree in caso di ventilazione assistita, la terapia dell’ipotensione prevede, in attesa delle misurazioni ecocardiografiche, l’uso della dobutamina alla dose di 5 - 10 mcg/Kg/min, che, se senza effetto entro 30 minuti, sarà seguito da un’espansione di volume di 10 ml/Kg/dose di Ringer lattato in 30 minuti10. Il mancato incremento della pressione arteriosa media > 30 mm Hg a 30 minuti dal termine della correzione di volume, condurrà all’uso della dopamina, partendo da 2.5 - 10 mcg/Kg/min11. Nel caso del neonato a termine o pretermine depresso da cause asfittiche e con disfunzioni multiorganiche, oltre a prestare attenzione al management degli apporti idro - elettrolitici al fine di prevenirne un sovraccarico ed il conseguente scompenso cardiaco, l’inotropo di prima scelta è la dobutamina ed eventualmente il milrinone. Tale terapia può essere completata con la dopamina a 2.5 mcg/Kh/min per utilizzarne gli effetti dopaminergici. Particolare attenzione va inoltre prestata allo stato della circolazione polmonare12, ricorrendo in presenza di una ipertensione polmonare persistente, all’utilizzazione dell’ossido nitrico nei neonati di EG > 34 settimane Nel caso del neonato pretermine con pervietà del dotto di Botallo e shunt sn - dx, il principale obiettivo è la chiusura del dotto con l’uso dell’ibuprofene. Quando sono presenti segni ecocardiografici di compromissione della contrattilità, l’inotropo di prima istanza è la dobutamina o il milrinone, da titolare in base ai valori della pressione arteriosa. Va inoltre regolata la pressione di fine espirazione per contenere l’entità dello shunt sn - dx, in attesa degli effetti dell’ibuprofene. Nel caso di neonato in shock settico, il primo provvedimento terapeutico è l’infusione di volume alle dosi di 10 - 20 ml/Kg/dose di Ringer - lattato, da somministrare in 30 minuti per pompa a siringa. L’espansione volumetrica è seguita dall’uso della dopamina alla dose iniziale di 5 mcg/Kg/min, incrementabili in assenza di risposta fino a 15 - 20 mcg/Kg/min. La mancata risposta può condurre all’adrenalina13 partendo da 0.05 mcg/Kg/min ed incrementando i dosaggi fino a 0.3 mcg/Kg/min in base ai valori pressori. Nei casi più gravi, non rispondenti ai farmaci precedenti va considerata la terapia steroidea a bassi dosaggi Nel caso del neonato pretermine con ipotensione resistente ai farmaci, di solito a partire dal secondo terzo giorno di vita, l’idrocortisone14 alla dose di 3 mg/Kg/die per 3 - 5 giorni si rivela efficace in ~ 2 ore. Letteratura 1. Al Aweel I. et al. : J. Perinatol., 21, 272, 2001 2. Allan L.D. et al. : Br. Heart. J., 57, 528, 1987 3. Barr P.A. et al. : Pediatrics, 60, 282, 1977 4. Baure K. Et al. : Arch.Dis.Child., 69, 521, 1993 5. Engle W.D. et al. : Early Hum. Dev., 62, 97, 2001 6. Evans N. Et al. : Arch. Dis. Child., 72, F156, 1995 7. Fauser A. et al. : Eur. J. Pediatr., 152, 354, 1993 8. Goldenstein R.F. : Pediatrics, 95, 238, 1995 9. Helbock H.J. et al. : Pediatrics, 92, 715, 1993 10. Heckmann M. Et al. : Acta Paediatr., 91, 566, 2002 11. Heuchan A.M: et al. : Arch. Dis. Child., 86, F86, 2002 12. Hoffman T.M. et al. : Circulkation, 107, 996, 2003 RELAZIONI QUARTA SESSIONE 119 13. Hunt R.W. et al. : J. Pediatr., 145, 588, 2004 14. Kimble K.J. et al. : Anesthesiology, 54, 423, 1981 15. Kissack C.M. et al. : Pediatr. Res., 55, 400, 2004 16. Kluckow M. et al. : Arch. Dis. Child., 82, F188, 2000 17. Kluckow M. et al. : Semin. Neonatol., 6, 75, 2001 18. Kluckow M. et al. : J. Pedaitr., 137, 68, 2000 19. Kopelman A.E. et al. : J. Pediatr., 135, 345, 1999 20. LeFlore J.L. et al. : Early Hum. Dev., 59, 37, 2000 21. Leviton A. Et al. : Pediatrics, 91, 1083, 1993 22. Osborn D.A. et al. : J. Pediatr., 140, 183, 2002 23. Osborn D.A. etr al. : Arch. Dis. Child., 88, F477, 2003 24. Osborn D.A. et al. : Arch. Dis. Child., 89, F168, 2004 25. Osborn D.A. et al. : Cochrane database Syst. Rev., CD002055, 2004 26. Padbury J.F. et al. : In Polin R.A. and Fox W.W.(eds) Fetal and Neonatal Physiology, 2nd ed. W.B. Sanders, pag. 194, 1998 27. Paradisis M. Et al. : Pediatr. Res., 55, 525A, 2004 28. 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Verrà di seguito discusso l’impatto delle principali variabili fisiche sul neonato ricoverato in UTIN, e si farà infine un breve cenno alla developmental care, approccio assistenziale finalizzato a minimizzare lo stress generato dall’ambiente della UTIN in tale categoria di neonati. Temperatura ed umidità La temperatura e l’umidità dell’ambiente che circonda il neonato influenzano notevolmente la sopravvivenza di quest’ultimo, specie se è un neonato pretermine. Tale concetto è supportato da una lunga serie di studi clinici condotti nell’arco temporale di oltre un secolo. Partendo da tale consapevolezza, sono state progettate e costruite delle apparecchiature, definite incubatrici neonatali, preposte ad assicurare al neonato, specie se prematuro o affetto da gravi patologie, un microambiente a temperatura ed umidità adeguatamente controllate. Nell’ultimo secolo si sono registrati notevoli progressi nella realizzazione delle incubatrici neonatali, le quali hanno acquisito caratteristiche di efficienza, sicurezza e comfort sempre maggiori. Un’incubatrice moderna è un’apparecchiatura in grado di assicurare al neonato un ambiente chiuso, controllato, in cui egli viene riscaldato attraverso una circolazione di aria calda che entra a contatto con la sua cute. Il calore viene poi trasferito all’interno del corpo del neonato per conduzione tessutale e convezione ematica. Le attuali incubatrici dispongono di diverse modalità di controllo della temperatura: 1) servocontrollo della temperatura cutanea del neonato; 2) servocontrollo della temperatura dell’aria; 3) servocontrollo misto (variabili multiple in ingresso); 4) controllo manuale. Il bilancio termico del neonato è in equilibrio quando la produzione di calore eguaglia le perdite di calore. Se, al contrario, le perdite di calore superano la produzione, la temperatura corporea si abbassa. Le 4 modalità con cui il neonato perde calore sono la conduzione, la convezione, la radiazione e l’evaporazione. Di particolare importanza è la perdita di calore per evaporazione: essa avviene attraverso la cute ed i polmoni, ed è influenzata dall’età gestazionale e dall’età postnatale del neonato, e dall’umidità relativa dell’ambiente. Nel primo periodo neonatale, i neonati pretermine, specie i più immaturi, hanno elevate perdite evaporative di calore a causa di una elevata perdita transepidermica d’acqua. Infatti, la cute del prematuro ha uno strato corneo sottile, scarsamente cheratinizzato, che offre scarsa resistenza alla diffusione dell’acqua. La vita post-natale accelera notevolmente lo sviluppo della barriera epidermica nel neonato pretermine, [1] con conseguente rapido declino della perdita transepidermica d’acqua durante la prima settimana di vita, ed ulteriori sue riduzioni con l’aumentare dell’età postnatale.[2] Il management clinico dei neonati con prematurità di alto grado, nella prima settimana di vita, è reso difficile dalle peculiari caratteristiche della loro cute: il provvedimento più importante per ridurre l’elevata perdita evaporativa di calore e prevenire la disidratazione è quello di aumentare l’umidità relativa (fino all’80-90%) all’interno dell’incubatrice. Esiste un range di temperatura ambientale, definito range termoneutrale, all’interno del quale la produzione di calore del neonato è al suo minimo, la temperatura corporea è normale, e non vi è RELAZIONI QUARTA SESSIONE 121 sudorazione. I neonati sono assistiti nel modo migliore ad una temperatura ambientale compresa in questo range. Quando la temperatura ambientale scende al di sotto di esso, il neonato mette in atto una risposta omeotermica per mantenere costante la temperatura corporea profonda, che si basa su reazioni fisiologiche mediate dal SN simpatico (non-shivering thermogenesis, vasocostrizione periferica) e su risposte comportamentali (aumento dell’attività motoria, riduzione del sonno, postura in flessione). Se la temperatura ambientale diminuisce oltre le capacità metaboliche massime del neonato, egli va incontro ad ipotermia. Ambiente sonoro Il rumore ha un impatto negativo sulla salute del neonato pretermine. Infatti esso può essere causa di disturbi uditivi, disturbi del sonno (frequenti risvegli, cambiamenti dello stato di sonno, stress), effetti somatici (tachicardia, tachipnea, apnea, cali di SaO2, aumento della press. arteriosa), [3, 4] ed effetti negativi sulla percezione uditiva e sullo sviluppo emozionale. Per quanto concerne gli effetti del rumore sull’apparato uditivo, è stato documentato che i neonati ricoverati in UTIN hanno un rischio 10 volte maggiore di sviluppare una perdita uditiva neurosensoriale o mista rispetto ai non ricoverati in UTIN, [5] e che l’esposizione al rumore, da sola o in sinergia con altri fattori di rischio (ipossia o farmaci ototossici), potrebbe contribuire alla perdita uditiva.[4] Molteplici sono le fonti di rumore in UTIN: alcune di esse sono strettamente legate all’attività umana (conversazione ad alta voce dello staff, apertura o chiusura brusca degli sportelli dell’incubatrice, contatti volontari o involontari con l’incubatrice, attività infermieristiche ecc.), mentre altre sono rappresentate dalle apparecchiature utilizzate (motori delle incubatrici, lettini riscaldati, ventilatori, allarmi, aspiratore ecc.). In considerazione delle possibili conseguenze, sui prematuri e sul personale di assistenza, dell’esposizione al rumore, l’American Academy of Pediatrics ha stabilito per le UTIN un livello massimo di rumore pari a 45 dB.[6] Tuttavia, anche nelle UTIN costruite di recente con un’attenzione particolare all’abbattimento del suono, il livello di rumore continua ad essere superiore a quello raccomandato dall’AAP, essendo compreso tra 60 e 90 dB, con picchi fino a 120 dB.[7-9] Misure utili per attenuare il rumore nelle UTIN sono rappresentate da una progettazione di tali reparti secondo criteri acustici di abbattimento del suono, [10] dallo sviluppo di un programma di controllo e riduzione del rumore, [11] dall’introduzione nelle UTIN di un allarme luminoso di rumore, [12] e da un adeguato training dello staff.[6, 7] E’ stato dimostrato che interventi ambientali mirati a ridurre il rumore in UTIN si associano ad una minor durata della ventilazione e dell’ossigenoterapia in neonati VLBW.[13] Un altro aspetto di particolare rilevanza per il neonato concerne il livello di rumore che si viene a creare all’interno dell’incubatrice, dove confluiscono i suoni provenienti dall’esterno, quelli generati dal funzionamento dell’incubatrice e quelli prodotti dal neonato. A tal proposito, occorre sottolineare che le incubatrici sono considerate ambienti riverberanti, capaci di amplificare il pianto del neonato ed altri rumori prodotti al loro interno.[14] L’esposizione al rumore del neonato in incubatrice può essere minimizzata attraverso misure ambientali, uso di incubatrici moderne, [15] implementazione di pannelli fono-assorbenti[14] o di schiuma acustica[16] nelle incubatrici, copertura di queste ultime, [17] o applicando al neonato cuffie auricolari protettive.[18] Ambiente luminoso Solo in anni recenti è stato riconosciuto che l’esposizione incontrollata alla luce ambientale ha un impatto negativo sulla salute del neonato ricoverato in UTIN. Molti neonati prematuri sono esposti ad un’illuminazione continua anzichè ciclica, poichè la maggior parte delle UTIN vengono illuminate con luce intensa e continua per facilitare le procedure assistenziali. E’ stato documentato che l’esposizione dei neonati prematuri ad un’illuminazione ciclica a bassa intensità in una nursery induce distinti patterns riposo-attività già evidenti entro la prima settimana dopo la dimissione, mentre la comparsa di tali patterns è ritardata nei neonati esposti ad un’illuminazione continua.[19] Pertanto, l’esposizione circadiana alla RELAZIONI 122 QUARTA SESSIONE luce sembra essere di beneficio per i neonati pretermine. Riguardo il ruolo del livello di illuminazione ambientale in UTIN nello sviluppo di retinopatia della prematurità (ROP), esistono dati contrastanti. Molti studi indicano che l’esposizione retinica dei neonati pretermine alla luce ambiente non svolge alcun ruolo nello sviluppo di ROP.[20-22] Inoltre, in un recente trial randomizzato controllato, la riduzione dell’esposizione alla luce non ha avuto alcun effetto sull’incidenza di ROP.[23] D’altro canto, è stato stabilito che la fotoeccitazione può condurre ad un’aumentata produzione di radicali liberi nella retina costantemente esposta alla luce, [24, 25] che potrebbe condurre ad un danno dei vasi retinici in sviluppo ed all’insorgenza di ROP.[26] Recentemente, è stata segnalata una ridotta incidenza di ROP, [25] o un miglioramento del suo decorso clinico, [27] in prematuri esposti ad una limitata illuminazione ambientale. In conclusione, sono necessari studi ulteriori per definire il ruolo dell’esposizione alla luce nella patogenesi della ROP, e quindi per stabilire standard sicuri per l’illuminazione delle UTIN. L’uso di covers per incubatrici sembra avere un certo effetto a breve termine sui patterns del sonno in neonati prematuri in fase di stabilità, anche se il significato clinico ed i possibili effetti a lungo termine di tale misura non sono noti.[28] Campi elettromagnetici Gli effetti dell’esposizione dei neonati in incubatrice ai campi elettromagnetici (CEM) sono scarsamente conosciuti. Dati contrastanti sono stati pubblicati sulla possibile associazione tra esposizione dei neonati in incubatrice a CEM a bassissima frequenza e sviluppo di leucemia.[29, 30] Inoltre, i CEM potrebbero aumentare il rischio a lungo termine di sviluppare tumore al seno, alterazioni della riproduzione e depressione, alterando la funzione della ghiandola pineale.[31] Assai recentemente, è stato dimostrato che i CEM generati dal motore delle incubatrici influenzano l’attività del sistema nervoso autonomo del neonato, ed in particolare la variabilità della sua frequenza cardiaca.[32] L’esposizione ai CEM del neonato ricoverato in UTIN dipende dal tipo di incubatrice usata, [33] dalla posizione del sistema di controllo elettronico, del riscaldatore elettrico, e della spina elettrica principale nell’incubatrice, [33, 34] dalla posizione del neonato nell’incubatrice, [33] e infine dal tipo di apparecchiature elettroniche di monitoraggio e terapia usate e dalla loro posizione rispetto all’incubatrice.[33, 34] L’esposizione ai CEM di un neonato ricoverato in UTIN può essere ridotta attraverso l’impiego di moderni criteri nella costruzione delle incubatrici, l’implementazione di pannelli ferromagnetici nelle stesse incubatrici, [35] e l’allontanamento (almeno 20-30 cm) dal neonato delle sorgenti di CEM, interne ed esterne all’incubatrice. Developmental care L’ambiente fisico dell’UTIN e le procedure in essa utilizzate possono influenzare negativamente lo sviluppo cerebrale dei neonati prematuri e di quelli a rischio, per cui l’assistenza a tali neonati dovrebbe prevedere un approccio finalizzato a ridurne il livello di stress. La developmental care include un’ampia categoria di interventi medici ed infermieristici finalizzati a minimizzare lo stress generato dall’ambiente dell’UTIN.[36] I principali tra questi interventi comprendono il controllo degli stimoli esterni (vestibolari, visivi, uditivi, tattili ecc), il “clustering” delle attività assistenziali, ed il posizionamento o il contenimento del neonato pretermine. Dalla combinazione di singole strategie sono stati elaborati dei programmi come il “Neonatal Individualized Developmental Care and Assessment Program” (NIDCAP). Secondo una recente revisione sistematica Cochrane sull’argomento, sono necessarie più forti evidenze a supporto degli effetti favorevoli della developmental care su importanti outcomes clinici a breve e lungo termine, prima che possa essere raccomandato il suo impiego nella pratica clinica.[36] Conclusioni Negli ultimi decenni, i notevoli progressi nell’assistenza ai neonati ad alto rischio ricoverati nelle UTIN RELAZIONI QUARTA SESSIONE 123 hanno determinato una drastica riduzione della mortalità e della morbosità neonatale. Ciò nondimeno, tale categoria di neonati è tutt’oggi esposta ad una ampia gamma di noxae fisiche potenzialmente patogene, che sono spesso misconosciute o sottovalutate dal personale di assistenza medico ed infermieristico. Solo una maggiore sensibilizzazione al riguardo e l’attuazione di programmi integrati volti al monitoraggio e ad un più rigoroso controllo di tali noxae renderanno le UTIN più sicure, a tutto vantaggio della salute dei neonati. Bibliografia 1. 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Developmental care for promoting development and preventing morbidity in preterm infants. Cochrane Database Syst Rev. 2006;(2):CD001814. RELAZIONI QUARTA SESSIONE 125 NUOVE LINEE GUIDA NEL TRATTAMENTO DELL’ASMA DEL BAMBINO F. Paravati, A. Cirisano, M. Cretella, G. Frandina, N. Lazzaro, C. Pacenza, A.F. Palermo, S. Sisia Struttura Complessa di Pediatria, Azienda Sanitaria Provinciale di Crotone L’asma è la principale malattia cronica tra i pazienti pediatrici dei paesi industrializzati. Esistono diverse linee guida (LG) sulla diagnosi e il trattamento dell’asma bronchiale, la più nota è il documento GINA (Global Initiative on Asthma) introdotto nel 1992 allo scopo di fornire ai medici strumenti interpretativi semplici per riconoscere la malattia, definire la sua gravità ed impostare quindi una corretta terapia. Tali linee guida vengono aggiornate periodicamente ed ultimamente sono stati presentati gli aggiornamenti italiani, di questi una sezione è dedicata all’asma in pediatria. Altre LG di recente pubblicazione sono quelle della British Thoracic Society e la consensus Practall voluta dall’ European Academy of Allergy and Clinical Immunology e dalla American Academy of Allergy, Asthma and Immunology per trovare un consenso per servire come guida per la pratica clinica in Europa così come in Nord America. Le novità delle ultime LG GINA rispetto alle precedenti stesure sono: - la classificazione secondo il livello di controllo della malattia. Infatti viene proposta la rilevazione della gravità iniziale dell’asma (espressa rigidamente nei vari livelli secondo la frequenza dei sintomi, la presenza di sintomi notturni e la rilevazione del FEV1 e del PEF), poi, nel paziente in trattamento, viene considerato, nel giudizio di gravità dell’asma, il livello di terapia necessario per ottenere il controllo dell’asma. Questo perchè la precedente classificazione era statica, mentre nella vita reale occorre una valutazione dinamica che risulta maggiormente predittiva della risposta al trattamento. Nella nuova classificazione, il “buon controllo” dell’asma costituisce l’obiettivo principale del trattamento, viene rilevato da tutte le principali misure cliniche e funzionali (fig.1) e la sua determinazione periodica permette di modificare la terapia, con riduzione della stessa in caso di buon controllo (step-down) oppure aumento in caso di cattivo controllo (step-up). Resta sempre, rispetto alle precedenti stesure delle LG, l’indicazione al controllo dei fattori di rischio per l’asma (infezioni, allergeni, inquinanti ambientali, comorbidità, etc) al fine di prevenire, da un lato, lo sviluppo della malattia e dall’altro le riacutizzazioni. - La possibilità di utilizzo in monoterapia del montelukast nella terapia di fondo nell’asma non controllata dal β2 agonista (figg. 2-3). Viene consigliato (evidenza A) per i pazienti che non possono / vogliono utilizzare gli steroidi inalatori. Un’ulteriore segnalazione indica che “l’uso intermittente del montelukast ai primi segni di una riacutizzazione asmatica o di una infezione delle vie aeree superiori comporta un risparmio della utilizzazione di risorse sanitarie”. - L’aumento dei livelli di trattamento (da 4 a 5) (figg. 2-3). - La revisione delle dosi giornaliere equipotenti di steroidi inalatori (Fig.4), che vengono per alcune molecole riviste a dosaggi più bassi. RELAZIONI 126 QUARTA SESSIONE Fig. 1. GINA: livelli di controllo dell’asma Fig. 2. GINA:trattamento dell’asma nei bambini maggiori di 12 anni RELAZIONI QUARTA SESSIONE Fig. 3. GINA: trattamento dell’asma nei bambini minori di 12 anni 127 RELAZIONI 128 QUARTA SESSIONE Fig. 4. GINA: Dose giornaliera comparativa degli steroidi inalati in età pediatrica L’impatto delle LG sulla gestione della malattia (valutata dal ricorso di visite dal curante o di visite di emergenza al Pronto Soccorso, dalla prescrizione di farmaci anti-asmatici) in età pediatrica non sempre è stato soddisfacente, occorrono nuove strategie per implementare la diffusione delle LG sull’asma in età pediatrica tra i medici. Bibliografia 1. National Heart, Lung and Blood Institute (NHLB). International Consensus report on diagnosis and management of asthma. NIH publication n° 92-3569, 1992GINA International Guidelines. Update 2007. www. ginasthma.org 2. British Thoracic Society Scottish Intercollegiate Guidelines Network. British Guideline on the Management of Asthma. Thorax. 2008 May;63 Suppl 4:iv1-121 3. Bacharier LB, Boner A, Carlsen KH, Eigenmann PA, Frischer T, Götz M, Helms PJ, Hunt J, Liu A, Papadopoulos N, Platts-Mills T, Pohunek P, Simons FE, Valovirta E, Wahn U, Wildhaber J; European Pediatric Asthma Group. Diagnosis and treatment of asthma in childhood: a PRACTALL consensus report. Allergy. 2008 Jan; 63(1):5-34. QUINTA SESSIONE 29 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Giuseppe Claps, Alessandro Settimi Moderatori: Antonio Campa, Alfio Cristaldi, Maurizio Ivaldi, Antonio Vitale xxxx RELAZIONI 130 QUINTA SESSIONE ASPETTI FARMACO ECONOMICI DELL’IMMUNOTERAPIA SPECIFICA D. Minasi U.O C di Pediatria-Polistena Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria Il forte incremento dei costi dell’assistenza sanitaria, la scarsità delle risorse disponibili e l’esigenza di razionalizzare la spesa sono alcuni dei fattori alla base del crescente interesse nei paesi industrializzati per i temi di economia sanitaria e della necessità di applicare, anche in questo settore, le tecniche di valutazione tipiche dell’analisi economica(1). Il medico è uno dei principali attori nei processi di spesa sanitaria e farmaceutica ed è pertanto indispensabile che sia coinvolto nelle analisi di farmaco economia, o che almeno ne acquisisca gli elementi fondamentali, per poter operare le scelte relative alla cura dei propri pazienti non soltanto in funzione dell’efficacia del trattamento ma anche in considerazione del miglior rapporto costo-beneficio(2-4). Questo può determinare un miglioramento delle capacità prescrittive e, di conseguenza, una riqualificazione della spesa farmaceutica nel contesto più ampio della spesa sanitaria globale. In tal senso quindi una particolare attenzione dovrebbe essere prestata nella gestione terapeutica delle malattie, soprattutto di quelle ad elevato impatto sociale come ad esempio l’asma e la rinite allergica. La spesa per queste malattie, come dimostrano studi recenti, è difatti molto elevata specie per quanto riguarda i costi diretti (farmaci, visite mediche, test diagnostici, ricorso a Pronto Soccorso (PS), ricovero (ordinario o day hospital) stimati negli USA tra i 2 ed i 5 miliardi di dollari(5-6). Se a questi costi si aggiungono quelli indiretti (assenza da scuola/lavoro, ridotto rendimento a scuola/ lavoro) queste cifre possono addirittura raddoppiare, senza considerare poi i costi intangibili legati alla riduzione della qualità della vita(7-10). E’pertanto evidente che ogni strategia preventiva finalizzata a ridurre la severità delle allergopatie respiratorie ha come effetto quello di diminuire la spesa per le cure delle stesse L’Immunoterapia specifica(ITS) è l’unico trattamento che può modificare la storia naturale delle malattie respiratorie allegiche ed è stata associata ad un miglioramento dei sintomi in pazienti con rinite allergia e asma, ad una riduzione statisticamente significativa del rischio di comparsa di asma in bambini con rinite allergica, alla riduzione della comparsa di nuove sensibilizzazioni o ad entrambe. I suoi effetti benefici persistono da 3 a 12 anni dopo la sospensione del trattamento(11-24).. L’ITS limitando nel lungo periodo i sintomi delle allergopatie respiratorie ed il consumo dei farmaci è pertanto in grado di ridurne i costi. Recenti studi hanno affrontato questa problematica applicando all’ITS i diversi tipi di analisi farmaco economica, in particolare quella costo efficacia(24-29) Gli studi non sono numerosi, riguardano prevalentemente casistiche di pazienti adulti, si riferiscono all’ITS per via sottocutanea mentre i più recenti riguardano la terapia per via orale. Canonica e coll.(27) hanno condotto in quattro paesi europei (Spagna, Francia, Italia e Austria) l’ analisi farmacoeconomica costo-efficacia di una nuova formulazione di immunoterapia specifica per via orale in pazienti adulti con rinocongiuntivite allergica. End-point primario era la qualità della vita espressa in QALYs.Nei pazienti con con rinite allergica la qualità della vita è risultata migliore nel pazienti trattati con ITS rispetto a quelli con trattamento farmacologico esclusivo cosi come gli altri end-points di efficacia considerati(riduzione dei sintomi, ridotto consumo dei farmaci, minor numero di ore perse al lavoro). L’analisi farmacoeconomica ha inoltre dimostrato che l’ITS è un intervento costo-efficace se confrontato con il trattamento tradizionale. In alcuni paesi del nord Europa(30), nell’ambito di uno trial multicentrico su un gruppo di pazienti adulti con rinite allergica stagionale è stata effettuata un analisi costo efficacia del trattamento con ITS per via sottocutanea. Anche in questo lavoro i risultati dimostrano che il trattamento con ITS per via sottocutanea è costo-efficace con un controvalore economico stimato tra 10000 e 25000 euro/QALY. Schadlich(31) invece ha condotto uno studio in Germania per determinare, in un follow up di 10 anni, le conseguenze economiche di tre anni di trattamento con ITS nei confronti di un terapia sintomatica continua in pazienti adulti con rinite allergica da acari o pollini. Sono stati calcolati i costi diretti ed indiretti, RELAZIONI QUINTA SESSIONE 131 il “break even point “dei costi totali, il rapporto incrementale costo beneficio(ICER) per i pazienti senza sintomi di asma. Il “break even point” fu raggiunto tra 6 e 8 anni dall’inizio ella terapia con un risparmio netto tra 650 e 1190deutschmarks(DM) per paziente dopo 10 anni, mentre l’ICER dell’ITS fu tra -3640DM e7410DM in funzione del tipo di allergia. Questi dati evidenziano come un trattamento per 3 anni con ITS sia economicamente vantaggioso, in un follow up di 10 anni, nei pazienti con rinite da pollini o acari che non controllano adeguatamente i sintomi con l’ uso continuo di farmaci Anche Ariano e coll, (32) hanno confrontato l’immunoterapia allergene specifica per via sottocutanea con i farmaci sintomatici in un gruppo di pazienti adulti con rinite allergica Già dopo un anno una significativa differenza di costi era evidente nel gruppo dell’Immunoterapia associata al trattamento farmacologico rispetto a quello della sola terapia farmacologica usuale (-15%). A partire dal terzo anno la riduzione diventava evidente e significativa (- 48%) per arrivare all’80% al sesto anno, tre anni dopo l’interruzione dellITS Il risparmio netto per ogni paziente allo fine dello studio è stato valutato in €623/anno In un recente studio costo-efficacia condotto in Italia(33) sono stati valutati i costi e le conseguenze dell’Immunoterapia Sublinguale (SLIT) ad alte dosi associata con trattamenti sintomatici cronici nella rinite ed asma allergiche rispetto al solo trattamento farmacologico. Lo studio, effettuato in 25 Centri italiani su 2230 pazienti con rinite(68%) ed asma(32%) per 6 anni, ha evidenziato che i costi per i pazienti che eseguivano terapia farmacologica associata alla SLIT rispetto a quelli in esclusivo trattamento farmacologico erano rispettivamente €2, 400 e €3, 026 per i costi diretti, €1, 913 e €3, 400 per quelli indiretti. L’utilizzo della SLIT risulta pertanto economicamente più vantaggioso rispetto alla sola terapia con farmaci sintomatici con un “break even point” a 3 anni e mezzo dall’inizio della terapia. Non sono molti gli studi che, ad oggi, hanno utilizzato la farmacoeconomia applicata all’immunoterapia allergene specifica per confrontarla con i farmaci sintomatici in bambini con rinite allergica e asma Uno studio condotto recentemente in USA(34) su un gruppo di bambini con rinite allergica ha valutato i patterns di cura, l’utilizzo di farmaci ed i costi diretti prima e dopo il trattamento con ITS per via sottocutanea In questi soggetti nei 6 mesi successivi al periodo di cura il consumo dei farmaci($330vs $60)(P<.0001) ed il ricorso a visite specialistiche ($735vs $270)(P <.0001) è stato significativamente minore rispetto a quello dei mesi antecedenti. Anche i costi totali(compresi quelli per l’ITS) sono risultati ridotti ($1850 vs $1635)(P <.0001).L’impatto economico del trattamento con alte dosi di immunoterapia sublinguale (SLIT) è stato invece valutato in un gruppo di bambini italiani (35) con rinite allergica ed asma da almeno un anno senza trattamento con SLIT e con tre anni successivi di trattamento Sono stati valutati i costi diretti (spesa per farmaci, visite specialistiche, SLIT) che indiretti (i costi risultanti dalle assenze dal lavoro dei familiari legate alle assenze da scuola dei ragazzi) di 135pazienti, 46 con allergie perenni e 89 con allergie stagionali comparabili per sesso ed età. Durante il trattamento con SLIT i costi indiretti medi per anno per paziente sono risultati meno onerosi (€506 vs 224) rispetto al pre-trattamento e la somma complessiva dei costi diretti ed indiretti è è stata 3 volte più bassa (€ 629 vs 2.672). In questi studi l’analisi farmaco-economica dell’immunoterapia specifica ha determinato dei risultati favorevoli, sia dal punto di vista clinico che dell’effetto sui costi diretti e indiretti, rispetto ai trattamenti sintomatici cronici ed ha evidenziato che l’Immunoterapia Specifica può consentire un risparmio economico (minor costo globale di patologia) rispetto all’uso esclusivo dei farmaci nel trattamento a lungo termine dell’asma e della rinite allergica Bibliografia 1. Marini A., Colombo G.L., Pana’ A., Govoni S., Zacchetti G., Fuga F., Terranova L., Il costo sociale delle malattie Rivista di Igiene e Sanità Pubblica Volume LVIII N. 5 Settembre / Ottobre 2002 2. Arrigo C- Epidemiology and economics of allergy treatment Clin Exp All Rev 2005; 5:36-39 3. K.B.Weiss, S.D Sullivan The Health economics of asthma and rinitis. Assessing the economics impact.I J Allergy Clin Immuno2001, 107;3-8 3. Malone DC, Lawson KA, Smith DH, et al. 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In Terapia Intensiva Neonatale sono favorite da numerosi fattori fra cui le ridotte difese immunitarie dei neonati, soprattutto pretermine e/o di basso peso, il sovraffollamento delle strutture e la sempre più ampia varietà di procedure mediche e tecniche invasive che se da un lato permettono la sopravvivenza di neonati sempre più pretermine, dall’altro facilitano l’insorgenza e la trasmissione di infezioni. Quanto più il neonato è pretermine e di basso peso tanto più i sintomi di infezione sono sfumati e difficili da riconoscere precocemente ed è necessario spesso iniziare una terapia ad ampio spettro sulla base del minimo sospetto clinico. La prognosi è inversamente proporzionale all’età gestazionale ed al peso alla nascita ed è influenzata dal microrganismo in causa. Le sepsi ad insorgenza tardiva hanno un rischio di mortalità più elevato. L’atteggiamento terapeutico che presenta il più vantaggioso rapporto costo-beneficio è quello di iniziare una terapia antibiotica empirica con l’associazione ampicillina/aminoglicoside sostituita dalla terapia antibiotica mirata. Per le infezioni fungine vengono consigliate le formulazioni lipidiche di amfotericina B, perché presentano meno effetti tossici e consentono pertanto di somministrare dosaggi più elevati. La strategia vincente è però rappresentata dalla prevenzione che si realizza attraverso sistemi di sorveglianza attiva orientata al paziente e ai dati di laboratorio e mediante una politica di formazione continua del personale mirata al monitoraggio dei patogeni responsabili di infezione ed alla loro modalità di trasmissione. RELAZIONI QUINTA SESSIONE 135 L’ASMA E’ SEMPRE DA RICOVERARE? G. Messi, F. Mastrobuoni, M. Copertino, S. Norbedo SC Pediatria d’Urgenza con Servizio di Pronto Soccorso, Irccs materno infantile Burlo Garofolo, Trieste L’asma è una malattia cronica delle vie aeree caratterizzata da infiammazione, aumento della reattività bronchiale e bronco-ostruzione reversibile, spontaneamente o dopo trattamento. All’interno di una storia cronica, l’asma si può caratterizzare per accessi acuti (AAA) scatenati da numerose cause ambientali quali esposizione a sostanze irritanti o allergeni, cambiamenti climatici, esercizio fisico, emozioni. L’AAA è un episodio ingravescente che si evidenzia clinicamente con distress respiratorio, ridotto ingresso d’aria, tosse, respiro sibilante (wheezing) e/o senso di costrizione toracica. Vi è quasi sempre riduzione del flusso espiratorio, misurabile (nei soggetti di età > a 5 anni) mediante le prove di funzionalità respiratoria (PEF e FEV1) e circa tutti gli episodi di asma acuto si caratterizzano per una più o meno grave desaturazione da ipossia. L’approccio e il trattamento dell’AAA è stato puntualizzato dall’elaborazione di linee guida (LG) che includono le evidenze scientifiche sul trattamento dell’ accesso asmatico acuto (AAA) patologia che molto spesso rappresenta un’urgenza-emergenza respiratoria, (1-2-3-4). Esse in particolare aiutano a definire i criteri per le decisioni sulla destinazione dei bambini che accedono al Pronto Soccorso per questa patologia. L’utilizzo dell’Osservazione Temporanea e Breve incidono sui comportamenti tanto da determinare una progressiva diminuzione dei ricoveri senza un peggioramento nella qualità delle cure (4, 5). Nel tempo più recente c’è quindi stato un miglioramento nella qualità delle cure dell’AAA, raggiunta attuando percorsi di prevenzione, trattamento terapeutico e di procedure decisionali, basati sulle indicazioni dell’Evidence Based Medicine (EBM). Le indicazioni delle LG per il primo intervento L’attacco d’asma acuto può presentarsi con livelli di gravità differenti che valutabili secondo le linee guida internazionali in base a parametri soggettivi ed oggettivi (Tab 1). Il grado di distress, la frequenza respiratoria e cardiaca, la saturazione dell’Ossigeno, l’intensità dello sforzo respiratorio, il colorito, la terapia già eseguita a domicilio, la durata della crisi. forniscono gli elementi già indirizzare verso un diversificato approccio terapeutico dell’AAA. Come riportato in letteratura, la saturazione che all’ingresso risulta essere <92%, di per sé significa che l’AAA in questione è grave e che verosimilmente non vi sarà un miglioramento del paziente nella prima ora tale da permettere una dimissione (1). Le LG concordano che le priorità iniziali sono (tab 2): somministrare O2, qualora la saturazione riscontrata all’ingresso sia <94%; iniziare prontamente una terapia broncodilatante con salbutamolo 0, 15 mg/kg per via aerosolica. Se la risposta non è soddisfacente e, di fronte ad un quadro clinico moderato o grave, nella prima ora possono essere ripetuti fino a 3 aerosol con broncodilatatore, corticosteroidi per os (betametasone 0, 1mg/kg), e se il bambino ha un’età > 1 anno è possibile aggiungere l’ipatropio bromuro nell’aerosol. Dopo la prima ora di trattamento, a seconda dell’evoluzione del distress e dei parametri si può decidere cosa fare I criteri per le decisioni operative dopo il primo trattamento in PS Il paziente è dimissibile quando, dopo il primo ciclo di terapia broncodilatante aerosolica (fino a 3 aerosol in un 1 ora), si raggiunge stabilmente per 1-2 ore una normalità della FR, FC e una saturazione >95%. Come criterio aggiuntivo in letteratura viene riportato il raggiungimento del PEF > 70-80%, con una stabilità del risultato per almeno 3-4 ore del suo valore normale e con variabilità circadiana <20-25%. Per chi ha esperienza di PS, è però poco verosimile realizzare una misurazione del PEF in PS tanto che nell’area di emergenza solitamente non viene usualmente eseguito.€ Le indicazioni per trattenere il bambino in Osservazione Breve sono rappresentati dalla necessità di mantenere un supporto di O2 per raggiungere delle saturazioni adeguate (possibilmente >95%), da RELAZIONI 136 QUINTA SESSIONE un’ insoddisfacente risposta ai beta-2-agonisti, uno scarsa garanzia assistenziale a domicilio sostegno familiare o infine se il distress respiratorio non si risolve in PS e non richiede un supporto rianimatorio. Il paziente inoltre potrà essere ricoverato nel caso in cui vi sia una ridotta percezione dei sintomi o appartenga al gruppo di pazienti ad alto rischio per asma grave. Il ricovero va riservato a quei quadri clinici difficilmente risolvibili nelle 24 ore previste come durata massima dell’OB Fanno parte di questo gruppo i bambini con un’insufficienza respiratoria importante dopo somministrazione di broncodilatatore (dispnea associata all’uso della muscolatura accessoria, cianosi) confermata da una persistenza dell’alterazione dei parametri clinici, quali una SaO2 < 92%, ed un PEF basale <33% o PEF<60% (valori riferiti al valore personale migliore) oppure gli accertamenti radiologici evidenzino la presenza di complicanze (pneumotorace, pneumomediastino, atelectasie, polmonite). Questi pazienti richiedono un adeguato trattamento e monitoraggio clinico e laboratoristico. L’aggravamento della sintomatologia nonostante la terapia in atto o la presenza delle condizioni che indichino il rischio di un imminente arresto respiratorio richiedono l’invio all’unità di terapia intensiva (UTI). I criteri di ricovero in TI sono rappresentati da una persistenza di deterioramento del PEF (< 50%) o SaO2 < 90, dopo terapia adeguata, un peggioramento o persistenza dell’ipossia, ipercapnia (PCO2 > 45 mm Hg), segni di affaticamento muscolare: respiro flebile, confusione, sonnolenza., ed infine coma. E’ chiaro che laddove vi sia stato un arresto respiratorio con pronta risoluzione dopo rianimazione, sarà comunque inevitabile l’invio in ambiente protetto quale la TI. La nostra esperienza IL Pronto Soccorso dell’Irccs materno infantile Burlo Garofolo rappresenta per le sue peculiari caratteristiche un ottimo osservatorio per valutare i riflessi e l’efficacia dell’approccio all’asma acuto proposto dalle recenti linee guida e della riduzione dei ricoveri conseguente. Rappresenta l’unico riferimento per una popolazione pediatrica, ha un alto indice di attrazione e comprende tra le altre offerte ospedaliere un Centro di riferimento regionale per le malattie allergiche che è in costante contatto con la pediatria territoriale. Per questi motivi abbiamo ritenuto indicativo analizzare le caratteristiche, aggiornate al 2007, delle prestazioni per distress respiratorio da broncospasmo acuto infettivo e non per valutare l’efficacia ma soprattutto l’effetto dell’approccio terapeutico decisionale attuato secondo le indicazioni della recente letteratura (3-4). Sono stati esclusi dall’indagine i bambini con età inferiore ad un anno e quelli tra 1-2 anni con quadri clinici ed epidemiologicamente o clinicamente associabili ad infezioni da Virus Respiratorio Sinciziale. Gli accessi in PS per quadro asmatico acuto, nel periodo 1 gennaio-31 dicembre 2008 nel nostro ospedale, sono stati 189 su 18.500 prime visite (1%). L’età prevalente è stata al di sotto dei 5 anni di vita (tab. 3). 155 bambini (82.0%) sono stati dimessi dal PS dopo un primo trattamento, consistito nella somministrazione di corticosteroide per os nel 79.3%, in 1 aerosol con broncodilatatore nel 67 bambini (43.2%), in 2 aerosol in 20 (12.9%), in 3 aerosol in 26 26.7%. 4 bambini sono stati ricoverati direttamente dal PS; 30 casi, le cui caratteristiche parametriche all’ingresso sono descritte nella tabella 5, sono stati trattenuti in Osservazione e di essi 4 sono poi stati dimessi entro 6 ore dall’ingresso, 23 sono rimasti in Osservazione Breve (OB) e sono tornati a domicilio tra le 6 e le 36 ore dall’accesso; 3 sono stati, dopo un periodo di OB, ricoverati per persistenza della necessità di ossigenoterapia. Complessivamente sono stati quindi ricoverati 7 bambini (3.7%). Questi dati risultano ancora migliori di quelli precedentemente pubblicati dalla nostra équipe, quando confrontando i ricoveri per AAA del 1993 con quelli del 2003 si è constatata una flessione nei ricoveri dal 10, 6% al 7.7%. C’è da segnalare che dal 2006 la terapia aerosolica d’attacco che si esegue PS, prima di prendere decisioni sulla destinazione, è passata a 1-3 somministrazioni, a seconda della gravità. Commento I dati più recenti evidenziano come l’andamento dei ricoveri per accesso asmatico acuto sia in progressivo calo e sempre più limitato rispetto agli anni scorsi. Questo è stato possibile per la probabile riduzione epidemiologica della gravità delle crisi, ad una terapia più aggressiva già dalla fase iniziale, indicata RELAZIONI QUINTA SESSIONE 137 dalle linee guida recenti, e ad un efficace follow-up quando questo coinvolge nella gestione la medicina pediatrica del territorio. Bibliografia 1. Cincinnati Children Hospital Medical Center. 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Piccinini R., Mastrobuoni F., Messi G., L’ asmaIN Atti: 6° Congresso nazionale Simeup, Trieste 18-20 settembre 2008, Rivista di Emergenza Urgenza Pediatrica 0 (suppl): 30-2 Tabella 1. Classificazione di gravità dell’asma acuto (3-4) RELAZIONI 138 QUINTA SESSIONE Tabella 2. Approccio terapeutico decisionale (3-4-7) ATTACCO LIEVE RELAZIONI QUINTA SESSIONE ATTACCO MODERATO 139 RELAZIONI 140 QUINTA SESSIONE ATTACCO GRAVE 2007 Accessi in PS 1-2 aa 84 3-5 aa 59 6-9 aa 27 >10 aa 19 Totali 189 Tabella 3. Accessi in PS per asma nel 2007: distribuzione per età RELAZIONI QUINTA SESSIONE pazienti in osservazione valori n. pazienti ≤ 90 %: 10 91-95 % 18 >95% 2 1 aa 149, 5 8 2-5aa 140 13 >5 aa 126 9 1 aa 55 8 2 aa 60 13 >3 aa 44 9 <6h 4 >6h 26 saturazione fc valore medio per età fr per età numero di ore in ot Tabella 4. Descrizione parametri all’ingresso dei 30 pazienti trattenuti in Osservazione 141 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 29 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Arturo Giustardi, Ippolito Pierucci, Carlo Cioffi Moderatori: Raffaele Coppola, Domenico Perri, Giuseppe Della Corte Francesco Raimondi, Edoardo Bancalari, Roberto Paludetto RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 143 ASSISTENZA AL BAMBINO CON MENINGOENCEFALITE ACUTA: UN LAVORO D’EQUIPE C. Russo1, P. De Ninno1, R. Coppola2, R. Mormile1 1 2 UOC di Pediatria e Neonatologia - P.O. San G. Moscati - Aversa Università Campus Biomedico - Roma Le meningoencefaliti sono entità nosologiche relativamente frequenti in età pediatrica, caratterizzate da una infiammazione non purulenta dell’encefalo con la contemporanea compromissione delle meningi. Sono provocate più frequentemente da infezioni virali dirette (con replicazione virale intracerebrale: Coxackie, Echovirus, HSV I e II, HHV6, Adenovirus, EBV, CMV, morbillo, parotite, etc), in rari anche da quelle batteriche, fungine o protozoarie. Tuttavia nella maggior parte dei casi il microrganosmo non può essere identificato. Esse possono essere causate anche da una reazione immunologica insorta a seguito di una infezione prevalentemente virale o a vaccinazione (morbillo), con una fase di latenza tra la malattia e l’esordio dei sintomi neurologici. Questo tipo di encefaliti sono siglate con l’acronimo ADEM (Acute Disseminated Encephalo-Myelitis). Le meningoencefaliti talvolta vengono classificate più per la localizzazione anatomica che per l’agente eziologico così ad esempio viene distinta l’encefalite del troncoencefalico con deficit dei nervi cranici, quella limbica con disturbi di comportamento, quella frontale con convulsioni focali caratteristiche etc. Il quadro anatomopatologico delle meningoencefaliti acute da infezione virale diretta o primaria è rappresentato da infiammazione perivascolare associata a distruzione neuronale, neuronofagia, necrosi tissutale prevalentemente della sostanza grigia, mentre quello delle meningoencefaliti post-infettive, secondarie a meccanismo immunomediato, consiste in lesioni demielinizzanti della mielina che circonda le vene di piccolo calibro, con essudazione perivascolare e proliferazione neurogliale diffusa con precipuo interessamento della sostanza bianca ma talvolta anche della sostanza grigia. Non vi sono segni clinici e paraclinici specifici di meningoencefalite acuta per cui si tratta il più delle volte di una diagnosi di esclusione. L’esordio più comune è sotto forma di malattia sistemica con febbre, vomito, cefalea ed astenia. Il sospetto clinico si pone davanti a un quadro ad insorgenza acuta di interessamento neurologico con alterazione dello stato di coscienza (da letargia a coma), crisi convulsive o altro deficit neurologico focale con eventuali segni infiammatori clinici (febbre). Segni specifici di alterazione della sostanza grigia sono un esordio clinico brutale, turbe della coscienza sino al coma, crisi epilettiche frequenti, segni piramidali ed extrapiramidali, mentre quelli di localizzazione della sostanza bianca sono costituiti da moderate turbe della coscienza, crisi epilettiche poco frequenti., coinvolgimento dei nervi cranici. In regime di ricovero è importante fare tempestivamente una diagnosi differenziale con altre patologie che presentano una sintomatologia simile e che necessitano di un trattamento specifico urgente, in particolare le meningiti batteriche, la meningite tubercolare, gli ascessi e gli empiemi intracranici, lo stroke, l’encefalopatia uremica e/o epatica, la sindrome di Reye, l’ ipoglicemia, la sindrome di Miller-Fisher. La raccolta anamnestica e la presenza di segni peculiari all’esame obiettivo possono orientare verso la diagnosi. La gestione del bambino con meningoencefalite acuta richiede un lavoro di equipe medico-infermieristico. Bisogna eseguire immediatamente la puntura lombare o rachicentesi per escludere una meningite batterica a meno che non siano presenti segni neurologici focali o evidenza di aumento della pressione endocranica. In tal caso è indicato prima lo studio dell’encefalo mediante RMN o TAC, preferibilmente con mezzo di contrasto poiché l’estrazione del liquor, comportando una diminuzione della pressione liquorale, potrebbe provocare l’incuneamento delle tonsille cerebellari attraverso il grande forame occipitale con sofferenza bulbare, crisi toniche e/o morte immediata. La RMN encefalo è di maggior sensibilità diagnostica rispetto alla TAC permettendo di differenziare una forma virale diretta da una forma post-infettiva. Prima do eseguire la puntura lombare, dovrebbero essere escluse anche piastrinopenie e/o deficit emocoagulativi per il rischio di ematomi spinali. La puntura lombare è una tecnica diagnostica che consente il prelievo del liquor o liquido cefalorachidiano RELAZIONI 144 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA normalmente presente all’interno dello strato meningeo (pia madre) dal canale midollare. L’analisi del liquor fornisce informazioni essenziali sul coinvolgimento del SNC in un eventuale processo patologico rivelando la presenza di danno tissutale e/o infiammazione. La chiave per eseguire tale procedura è la corretta posizione del paziente e pertanto è essenziale la collaborazione dello staff infermieristico nel tenere il bambino in posizione immobile ma non troppo stretto per il rischio di un arresto cardiocircolatorio. Il paziente deve essere posizionato al bordo del lettino da visita in decubito laterale, mantenuto fisso in posizione fetale con il collo flesso a toccare lo sterno e le ginocchia raccolte sul petto. Le spalle e il dorso devono essere perpendicolari al lettino. Alternativamente il bambino può essere messo in posizione seduta con le gambe penzoloni al bordo del lettino con un cuscino contro l’addome da abbracciare il più possibile per arrotondare il dorso e facilitare l’apertura degli spazi interspinosi. Nel neonato, si adotta principalmente la posizione verticale con il collo parzialmente esteso poiché la flessione completa di questo può provocare ipoventilazione. La regione lombare sino alle creste iliache deve essere detersa con una soluzione chirurgica (iodopovidone) richiedendo tale indagine la massima sterilità. Al fine di rendere meno traumatico l’esame, soprattutto nei bambini al di sopra dei 5 anni, è consigliabile applicare della crema anestestica locale (EMLA) o anche una piccola anestesia locale con un sottilissimo ago circa un’ora prima dell’esame sul punto dove sarà effettuata la puntura. Inoltre, avvenendo tale manovra in entrambe le posizioni, “dietro le spalle del bambino”, egli sarà inevitabilmente spaventato e pertanto bisognerà rassicurarlo e confortarlo. Dopo aver identificato con la palpazione l’apofisi spinosa posto in linea con la parte postero-superiore della cresta iliaca che corrisponde al processo spinoso di L4 si inserisce gradualmente l’ago nello spazio a livello di L4-L5, in un piano rigorosamente sagittale e appena inclinato di 15°-20° verso l’alto, in direzione dell’ombelico. L’ago può essere introdotto anche uno spazio sopra o sotto ossia negli interspazi lombari/sacrali L3-L4 e L5-S1 poiché a questi livelli comunque si ha la certezza di non provocare danni alle strutture midollari che si estendono sino al margine superiore della seconda vertebra lombare. Deve essere usato un ago spinale con mandrino, in genere di calibro 20-22 G a seconda dell’età. E’ sconsigliato l’uso di un ago semplice per il rischio di inoculazione di frammenti di epidermide nel canale midollare. Il liquor (circa 1-2 ml) deve essere raccolto in apposite provette per l’esame colturale e chimico-fisico. Sia la puntura che il prelievo devono essere eseguite con materiale sterile per prevenire infezioni meningee. Il raggiungimento dello spazio subaracnoideo è identificato sia dall’improvvisa cessazione di resistenza all’inserimento dell’ago per il superamento delle strutture legamentose e della dura madre, sia per la fuoriuscita di liquor. Quest’ultimo viene raccolto in apposite provette sterili con una leggera aspirazione. Le alterazioni del liquor in corso di meningoencefalite acuta sono modeste e spesso aspecifiche. Generalmente si rilevano pleiocitosi, lieve proteinorrachia, glicorrrachia normale o lievemente aumentata. Al termine della procedura il bambino deve essere riadagiato lentamente e deve restare disteso per almeno 2-4 ore per il rischio di cefalea, vomito, lipotimia legati all’abbassamento della pressione intrarachidea. Incovenienti della rachicentesi sono anche il dolore da puntura accidentale di una radice spinale e/o una piccola emorragia locale. L’EEG evidenzia un generico rallentamento dell’attività elettrica cerebrale e può essere di aiuto nella eziologia; nelle forme erpetiche c’è il rilievo di complessi lenti periodici focali a localizzazione tipicamente temporale mentre nelle encefaliti post-infettive si rilevano generalmente onde delta lente polimorfe generalizzate. La sintomatologia varia con l’età. Tra i 6 mesi e i 2 anni di vita è frequente l’encefalite e/o meningoencefalite erpetica; dopo i 4 - 5 anni sono più comuni le meningoencefaliti post-infettive. Nel bambino al di sotto dei 3 aa, crisi localizzate brachiofaciali o segni di emilato con febbre, che si ripetono, con secondaria alterazione dello stato di coscienza e paralisi, fanno sospettare un’infezione erpetica. L’encefalite erpetica frequentemente trova come agente eziologico l’HVS I labialis nel bambino mentre nel neonato l’HSVII genitalis. Aspetti peculiari della presenza del virus erpetico sono i segni neurologici di interessamento del lobo temporale caratterizzati da allucinazioni visive, uditive e olfattive e l’ideazione alterata con comportamento “bizzarro”. Il paziente con meningoencefalite acuta richiede uno stretto monitoraggio dei parametri vitali e dell’equilibrio idroelettrolitico. Vanno controllati continuamente lo stato di alterazione del sensorio, l’eventuale insorgenza RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 145 di crisi epilettiche, la gravità dei disturbi neurovegetativi (PA, FC, FR, TC). In presenza di peggioramento dello stato di coscienza e dei sintomi di ipertensione endocranica (aggravamento del coma, alterazione parametri vitali, crisi toniche, appiattimento del tracciato EEG) è necessario il trasferimento in rianimazione. La terapia sintomatica per l’ipertensione endocranica prevede il mannitolo, corticosteriodi, restrizione idrica. Il fenobarbital è impegato nelle crisi epilettiche e acyclovir nelle forme erpetiche. La presa in carico di un bambino con meningoencefalite prevede anche un idoneo supporto psicologico alle famiglie dei pazienti. I casi di meningoencefaliti acute devono essere notificati per Legge. Bibliografia 1. RM Barkin - P Rosen Emergenze pediatriche - Edizioni Minerva Medica 2007. 2. EF Crain - JC Gershel - Manuale Clinico delle Urgenze pediatriche - Piccin 2006. 3. V Cumitech. Laboratory diagnosis of Central Nervous System Infections. Am Soc. Microbiol. 1-16.1993. 4. Negrini B., Kelleher K.J. Wald E. R. Cerebrospinal fluid findings in aseptic versus bacterial meningitis. Paediatrics, 105:316-319, 2000. 5. Pavone L. Ruggeri M. Neurologia Pediatrica - Masson 2006. 6. R. Riccardi - Vademecum di Diagnosi e Terapia Pediatrica - Margiacchi -Galeno Editore 2008. RELAZIONI 146 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA GESTIONE DEL BAMBINO IN FOTOTERAPIA P. Errico, D. Meoli L’ittero neonatale è una condizione nota da molto tempo, cui viene dedicata particolare attenzione solo agli inizi del 900. Fu Schmorl nel 1903 che attraverso uno studio anatomo-patologico condotto su un gruppo di neonati deceduti per ittero o sopravvissuti ma con gravi esiti neurologici a coniare il termine di “KERNICTERUS” (dal greco: nucleo giallo). Per ittero s’intende una colorazione giallastra presente alle sclere, sulle mucose e sulla cute dovuta all’accumulo nel sangue della bilirubina. La bilirubina è una sostanza che viene prodotta dall’organismo in seguito alla distruzione dei globuli rossi invecchiati. Così formatasi, la bilirubina viene definita “indiretta” o “non coniugata”, questa essendo liposolubile circola nel sangue legata all’albumina; così legata viene captata dal fegato, metabolizzata e trasformata in “bilirubina diretta” ed idrosolubile per cui eliminabile in parte attraverso le feci ed in parte per azione di alcuni batteri viene deconiugata a bilirubina libera. Quest’ultima può essere eliminata tale oppure, riassorbita, viene nuovamente captata dal fegato (circolo entero-epatico). Nel neonato la maggiore produzione di bilirubina è legata al turnover dei globuli rossi (vita media eritrocitaria 80-90gg rispetto ai 120gg dell’adulto) e alla ridotta capacità di escrezione dovuta ad una limitata coniugazione. Si considera così meritevole di attenzione in un neonato un livello di bilirubina che superi i 12, 9mg/dl e naturalmente la gravità dell’ittero è valutabile in funzione di alcuni fattori: - Inizio precoce; - Incremento del valore della bilirubinemia >5mg/dl/die; - un picco troppo elevato(>12-13mg/dl nel neonato a termine e >15mg/dl neonato pretermine; - persistenza oltre i limiti cronologici usuali. Ogni qualvolta esistono queste condizioni ci troviamo di fronte ad un ittero patologico ed una delle cause più frequenti è la malattia emolitica neonatale (MEN) conseguente ad incompatibilità per il sistema ABO o per il fattore Rh. In questi casi la diagnosi si avvale della determinazione immediata della BT, degli emogruppi e dell’esecuzione di un Test di Coombs diretto. Tutt’altro evento è “l’ittero fisiologico“ che si manifesta di solito dopo 2-3 gg di vita, dura circa 7-10 gg e solitamente regredisce spontaneamente. Una considerazione meritano anche gli itteri cosiddetti “protratti”come l’ittero da latte materno che compare più tardivamente, può durare fino a 3-10 settimane, non compromette lo stato di salute del bambino, non necessita di terapia e della sospensione del latte materno. L’ittero da “latte materno” non deve essere confuso con l’ittero del neonato allattato al seno perché questo è legato non all’allattamento al seno ma ad un insufficiente apporto di calorie nei primi giorni di vita. In conclusione gli itteri nel neonato possono classificarsi in: Itteri a Bilirubina indiretta (itteri da iperemolisi, da accentuato circolo entero-epatico, da deficit della captazione da parte del fegato, da deficit della glicuronazione). Itteri a Bilirubina diretta o coniugata (itteri da deficit di escrezione della bilirubina dall’epatocita, da ostruzioni della vie biliari). Itteri a Bilirubina mista (itteri da cause dismetaboliche, da sepsi). L’ittero indipendentemente dalle cause che lo hanno provocato è pericoloso quando i valori della BT tendono a superare i 20mg/dl nel nato a termine e valori nettamente inferiori nel nato pretermine perché insorge il rischio di neurotossicità. Nel 1958 sister Ward, una infermiera inglese, notò che i bambini affetti da ittero neonatale miglioravano se esposti alla luce solare. Il suo capo, Cremer, divenne famosissimo per questa scoperta e oggi migliaia di bambini vengono curati in questo modo. Il trattamento consiste nell’esposizione della cute alle radiazioni emesse da lampade fluorescenti con lunghezza d’onda tra 420 e 480 nm. La Bilirubina sotto l’influenza della luce va incontro a processi di fotoossidazione e fotoisomerizzazione RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 147 con formazione di prodotti di degradazione più semplici, idrosolubili e di pronta eliminazione. Esistono diversi tipi di apparecchi: a luce bianca, a luce blu, a luce bianca e blu ed ultimamente è stata proposta l’utilizzazione anche di una luce verde fluorescente. Il tipo più usato per la sua efficacia è quello a luce blu. Per ottenere il massimo rendimento bisogna usare fototerapie costituite da almeno 8 tubi che siano schermati per motivi di sicurezza da una superficie di plexiglass. La fototerapia è usata in tutti i neonati, anche in quelli di basso peso e nelle varie forme di iperbilirubinemia come profilassi in attesa o meno di exanguinotrasfusione. Nell’indicazione alla fototerapia si tiene solitamente conto dell’età del bambino, del peso alla nascita e del tasso di BT Alcuni studi hanno dimostrato modificazioni del comportamento del neonato e dell’interazione madre-bambino durante la fototerapia, non è facile definire quanto sia da attribuire all’iperbilirubinemia piuttosto che alla fototerapia. L’infermiera nell’ assistenza al neonato in fototerapia deve tener conto del distacco traumatico per la diade madre-figlio per cui deve rendere partecipi i genitori ed in particolare la madre non può che essere di giovamento sia per l’aspetto relazionale che per favorire la conservazione dell’allattamento al seno. Utile informare i genitori sulla normalità di alcuni eventi quali: il bendaggio degli occhi quando il piccolo è in fototerapia, sulla presenza di scariche spesso diarroiche e verdastre, sulla comparsa di esantema cutaneo o di colorito bronzeo. Nel nostro reparto, durante l’esposizione alla fototerapia, la mamma può rimanere vicino al figlio dopo la poppata, per tutto il tempo necessario a consolarlo e calmarlo. Durante la fototerapia è necessario che siano seguite con scrupolo determinate norme: Controllo periodico dell’apparecchio per la fototerapia con fotomisuratori dell’energia radiante delle lampade (420-450mn) e delle ore di funzionamento (le lampade vanno cambiate ogni 200-300 ore di attività). E’ preferibile l’uso di incubatrici dotate di servo-controllo della temperatura, diversamente si raccomanda il rilievo della temperatura corporea ogni 3-4 ore. Esporre il neonato nudo, la distanza consigliata delle lampade rispetto al bambino è di 50cm. La copertura degli occhi deve essere eseguita con benda confortevole e non trasparente alla luce (attenzione agli sfregamenti causa talvolta di lesioni corneali o di congiuntiviti), viene rimossa durante l’allattamento e la visita dei genitori. Cambiare ad intervalli regolari la postura e preferire una esposizione continua e non intermittente perché meno efficace. Lo stato di idratazione ed il peso del neonato devono essere controllati 1-2 volte al giorno per compensare le perdite idriche. Il controllo della BT deve essere eseguito almeno ogni 12 ore, in nessun caso il colorito cutaneo può essere preso come parametro per giudicare l’entità dell’ittero. A conclusione si consideri che occorre adottare criteri guida univoci sui livelli di bilirubina da considerare per il trattamento con fototerapia. RELAZIONI 148 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA INFEZIONI OSPEDALIERE IN NEONATI CON PESO ALLA NASCITA INFERIORE A 1500 GRAMMI G. Cecere1, R. Frontini1, G. Latorre2, L. Esposito2 1 IP referente CIO Dir. Medico U.O.C. di Neonatologia - Terapia Intensiva Neonatale - Ente Ecclesiastico Ospedale Generale Regionale "Miulli" - Bari 2 Introduzione Le infezioni ospedaliere rappresentano una delle principali cause di morbosità e mortalità nelle terapie intensive neonatali (TIN) con una incidenza tra l’11% e il 32%, con differenze significative tra le TIN. I neonati con peso alla nascita inferiore a 1500 g sono quelli a più alto rischio di infezione. 1 L'adozione di pratiche assistenziali "sicure", che sono state dimostrate essere in grado di prevenire o controllare la trasmissione di infezioni, comporta la riduzione del 35% almeno della frequenza di queste complicanze. Per questo motivo, le infezioni ospedaliere rappresentano un indicatore della qualità dell'assistenza prestata in ospedale. Materiali e metodi Dal 1 gennaio 2000 al 31 dicembre 2007 abbiamo condotto una sorveglianza delle infezioni nosocomiali nei nati pretermine con peso inferiore a 1500 g. I dati sono stati raccolti nel nostro database (NEOCARE ®). Sono stati considerati gli eventi “sepsi”, “polmonite”, “infezione delle vie urinarie (IVU)” definiti secondo i criteri del Center of Disease Control (CDC) 2 e “SIRS”, quest’ultima definita come incremento della PCR in un neonato con segni clinici di infezione che hanno indotto il clinico ad utilizzare terapia antibiotica empirica in assenza o negatività di esami colturali. E’ stata calcolata l’incidenza cumulativa (IC) totale e dei singoli eventi. Risultati I risultati sono riportati nella Tab I e nella Fig 1 Anno 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 No ricoveri 42 56 46 48 41 30 48 46 IC (%) 47, 6 39, 3 67, 3 52, 0 80, 5 76, 6 45, 8 47, 8 SIRS 2, 3 7, 1 15, 2 10, 4 36, 6 23, 3 8, 3 26, 1 Sepsi 26, 2 12, 5 13 12, 5 7, 3 6, 6 8, 3 2, 2 Polmoniti 9, 5 8, 9 13 10, 4 7, 3 6, 6 4, 1 2, 2 IVU 9, 5 10, 7 26 18, 7 29, 3 40 22, 9 17, 3 RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 149 Discussione Come mostrato in tabella, nel triennio 2002-2005 abbiamo registrato un incremento del numero di infezioni. Le possibili cause di tale incremento sono molte e non sempre identificabili. Si è comunque ritenuto indispensabile iniziare una verifica di tutte le procedure ed i comportamenti utilizzati in reparto (sino a quel momento esistevano solo procedure non scritte) al fine di proporre, anche sulla scorta di dati della letteratura, nuove procedure assistenziali. Si è inoltre provveduto ad una valutazione dei disinfettanti in uso presso il nostro ospedale al fine di ottenere ed utilizzare quelli più idonei. Tutti i nuovi protocolli e le nuove procedure sono state scritte e poste in rete (intranet). Per la attuazione dei protocolli sono state realizzate alcune riunioni con lo scopo sia formativo che organizzativo. In particolare sono stati indicati quali requisiti preliminari per il raggiungimento degli obiettivi: la precisa attribuzione dei compiti e la ottimizzazione della organizzazione. L’applicazione delle nuove procedure e il nuovo assetto organizzativo hanno consentito una riduzione del numero totale delle infezioni. Conclusioni Sebbene i progressi in terapia intensiva neonatale abbiano portato a un miglioramento nella sopravvivenza dei neonati con peso molto basso alla nascita le sepsi ad esordio tardivo, costituiscono ancora un’importante e potenzialmente letale complicazione per i neonati con peso alla nascita inferiore a 1500 g. Con la crescente sopravvivenza di neonati pretermine le sepsi tardive continueranno a rappresentare una complicanza problematica in grado di influire su altre morbilità, sulla durata della degenza, sui costi dell’assistenza e sui tassi di mortalità. Bibliografia 1. Stoll BJ, Hansen N, Fanaroff AA et al. Late-onset sepsis in very low birth weight neonates: a report from the National Institute of Child Health and Human Development Neonatal Research Network. Pediatr 2002;14:1291:349 2. Horan TC, Gaynes RP. Surveillance of nosocomial infections. In:Hospital Epidemiology and Infection Control, 3rd ed., Mayhall CG, editor. Philadelphia:Lippincott Williams & Wilkins, 2004:1659-1702.ve RELAZIONI 150 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA INFERMIERI PEDIATRICI: I MOTIVI DELLA NOSTRA SCELTA E. Bernabei1, M. Elena Capasso2 1 2 U.O.C. Pediatria e Neonatologia Ospedale S.G.Moscati - Aversa Seconda Università di Napoli Partiti da una situazione e una considerazione del tutto ausiliare e subalterne, oggi gli infermieri e le infermiere italiane sono giunti alla conquista di una professionalità e di una autonomia che li pone fra gli strumenti più essenziali del sistema sanitario nazionale. Il cammino è stato lungo ed ancora non è terminato, grazie al decreto de 2 dicembre 1991 si sono aperte le porte delle Università per gli infermieri e nel ’99 sono stati tolti i vincoli ormai anacronistici ed inopportuni, dando più autonomia all’assistenza infermieristica con la premesse di far decollare la stessa. Tutto questo ci porta lontano, ma a volte ci allontana anche dalle motivazioni che anni fa ci hanno portato su questa strada. La situazione critica in cui lavoriamo, la perenne carenza di personale ormai cronicizzata e purtroppo invisibile agli occhi dei dirigenti, la scarsa gratificazione economica, ci portano inevitabilmente ogni giorno a dimenticare un po’ alla volta perché siamo diventate infermiere e soprattutto come svolgere il nostro lavoro. Tra i motivi di maggiore insoddisfazione nello svolgere oggi la professione infermieristica, non c’è tanto la posizione di ausiliarietà rispetto al medico, quanto la presa di coscienza di essere forzati, dall’organizzazione sanitaria nel suo insieme, ad interpretare un ruolo inadeguato e insufficiente alle necessità espresse dai pazienti. Anche i rapporti con i colleghi costituiscono una dimensione critica, a volte sono tesi altre critici altri conflittuali, nel contempo, stare bene con i colleghi è uno dei principali motivi che fanno rimanere a lungo in un contesto. Solitamente una forte motivazione e le gratificazioni che si ricevono dagli assistiti, sono la chiave per fare di questo lavoro una fonte di soddisfazioni a cui, poi, diventa difficile rinunciare, contribuendo, inoltre, a favorire gli esiti delle terapie. La biografia professionale degli infermieri però non può non considerare il modo di stare nel mondo del lavoro, i pazienti costituiscono la priorità della professione infermieristica,, le organizzazioni, l’ambito in cui tali priorità possano esprimersi, tutti questi contesti dovrebbero aiutare gli infermieri a dare il meglio di se e a sentirsi valorizzati per il contributo che offrono. Secondo alcuni autori, il clima organizzativo è determinante per le motivazioni che ci portano a perseguire i nostri obbiettivi ed è composto dai seguenti fattori: i rapporti con i capi, con l’azienda, con i colleghi ed il contenuto del lavoro, la modalità del lavoro e l’autovalutazione della prestazione lavorativa. Il primo fattore che definisce la qualità del rapporto con il proprio capo, è correlato alla qualità della comunicazione, al grado di coinvolgimento nelle decisioni ed alla sua capacità di tenere in giusta considerazione e valutazione il lavoro che gli altri svolgono. Il secondo fattore si riferisce alla valutazione di come vengono fatte le cose nell’organizzazione, si configura come la percezione dell’attenzione che l’azienda rivolge alle risorse umane, attraverso la comunicazione ed alla valutazione dell’equità distributiva. Il terzo fattore si riferisce soprattutto al grado di cooperazione esistente nell’ambiente di lavoro. Questi primi tre fattori, pare siano quelli maggiormente influenti sulla percezione del clima lavorativo. In fine, da un’indagine condotta dai vari collegi IPASVI è emerso che la gran parte degli infermieri hanno la volontà di approfondire la comunicazione con l’assistito, le competenze in area critica ed i fattorini rischio per l’assistenza. La frequenza dei corsi con ECM incoraggiano gli infermieri ad autovalutarsi e a riflettere sulle priorità formative. Questo impegna in una nuova progettualità che non è determinata da altri ma che è sostenuta prioritariamente da come quanto ciascun infermiere vuole investire. Le condizioni di lavoro attuali consentono appena la risposta ai bisogni essenziali, mentre per prendersi cura del paziente ci vuole tempo: tempo per ascoltare, tempo per parlare, tempo per coltivarci, tempo per studiare, tempo per fermarci a riflettere se il nostro agire è coerente con il nostro sentire. RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 151 Gli ospedali sono ancora troppo spesso basati su un’organizzazione del lavoro per compiti, in cui prevale la logica delle tante cose da fare, più che dei risultati da raggiungere o delle priorità da garantire. I tempi sono ancora troppo spesso scanditi dalle esigenze che non sono quelle dei nostri piccoli pazienti. Il lavoro diventa caotico, fatto di corse, interruzioni con un ritmo frenetico in cui molti faticano a definire qual è il loro contributo. Se da una parte gli infermieri vorrebbero investire sui momenti più critici come l’accertamento, la dimissione, la continuità, la presa in carico, dall’altra è sempre più difficile conciliare questi propositi con tutte le pressioni quotidiane. Altro fattore importante è quello generazionale, le generazioni, infatti hanno sempre avuto rapporti conflittuali tra loro. Indipendentemente dal punto in cui ci si trova, sembra quasi una costante che si ritiene, presuntuosamente che la propria sia la generazione migliore. Nell’ambito professionale, non si tratta solo di fare i conti con età anagrafiche diverse, ma soprattutto di conciliare modelli di infermieri totalmente diversi ciascuno frutto del proprio momento formativo e della migliore pratica, ne consegue una profonda disunità e come accade in molte situazioni, sentirsi parte di qualcosa che fa fatica a stare insieme, rischia di alimentare i timori di una possibile prevaricazione tra infermieri di serie “A” e di serie “B”. La formazione accademica è profondamente diversa dalla pratica. La scuola non insegna ad analizzare le situazioni, a porsi dei quesiti sulla pratica, a discutere quando il paziente non va come dovrebbe, a lavorare con altri professionisti in una posizione paritaria, perché non è tanto il contributo di un operatore ad essere rilevante, ma la ricerca continua di risultati integrati. Questa è un'altra fonte di tensione perché la conoscenza dei nuovi infermieri è formale e rigorosa, il neo laureato non ha ancora quel bagaglio di esperienze che è patrimonio dei vecchi, ma come dice un vecchio adagio “ bisogna salire sulle spalle dei giganti per guardare lontano”. Ed indipendentemente dal fatto che ci si senta “grandi” o “piccoli” lasciar salire i giovani sulla proprie spalle è una delle gratificazioni più forti che ci possano essere. In ogni caso, a prescindere dalle motivazioni che ci hanno spinto in tempi più o meno lontani alla scelta del nostro lavoro, stare con i bambini, prendersi carico di loro è uno dei privilegi per contribuire allo sviluppo della pratica ed è uno dei maggior motivi che spingono gli infermieri a restare nella professione. Un privilegio perché permette, attraverso i pazienti, di approfondire la conoscenza della vita e le sue potenzialità. Stare vicino ai nostri piccoli pazienti è un privilegio, ma anche molto difficile. Le pressioni che riceviamo ogni giorno sono tante, la fatica emotiva è continua e a volte schiacciante. Occuparsi degli altri partendo da un elevato concetto di nursing e fare i conti poi con la routine delle cosa fatte in fretta ci può far sentire falliti e questo senso di fallimento può far scegliere di abbandonare la strada del nursing. La fuga può essere un meccanismo di difesa individuale, ma rischia di diventare un fenomeno collettivo quando coinvolge molti nella ricerca delle vere ragioni della professione. La nostra professione è radicalmente cambiata il buon cuore e l'intraprendenza che bastavano qualche anno fa, non possono ovviamente essere sufficienti: essere infermieri non vuol certo dire rincuorare la gente che soffre, bensì intervenire con tempismo e competenza in casi di urgenza e rendere la migliore possibile la qualità della vita dei pazienti ricoverati in ospedali sempre più affollati. In ogni caso essere infermieri richiede notevoli doti morali e di autocontrollo, capaci di sostenere l'innegabile bagaglio di pressioni psicologiche ed emotive alle quali è sovente sottoposto e dalle quali riceve, altrettanti benefici in termini di crescita personale. Questo e tanti altri, i motivi per cui continuare la nostra professione. Essere infermieri vuol dire: sostenere la vita, salvare la vita, aiutare la vita…a mantenere il suo posto in questo mondo. Aiutiamo la vita a restare tale. E’ un compito immenso e, che se ne dica, è uno dei lavori più difficili che esistano. Bibliografia 1. I quaderni dell’infermiere - Maggio 2004 2. In & out IPASVI Padova - Maggio 2001 RELAZIONI 152 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA Promozione dell’ Allattamento al Seno M. Stablum1, R. Coppola 1 2 Neonatologia Ospedale Bressanone Università Campus Biomedico - Roma Numerose ricerche, soprattutto negli anni più recenti, hanno documentato i numerosi ed indubbi vantaggi dell’allattamento materno per i neonati, le madri, le famiglie e la società. Tutti conosciamo infatti i benefici di salute, nutrizionali, immunologici e sullo sviluppo del bambino, ma anche quelli psicologici, sociali, economici e ambientali. Il latte materno è specie specifico e possiede caratteristiche uniche che lo contraddistinguono notevolmente dagli altri alimenti possibili nel primo anno di vita. Numerose ricerche di tipo epidemiologico hanno dimostrato che il latte materno e l’allattamento al seno assicurano molteplici vantaggi in termini di salute generale, sulla crescita e sullo sviluppo, diminuendo nello stesso tempo il rischio di contrarre numerose malattie acute e croniche sia nel bambino che nella madre. Il latte materno nel neonato diminuisce l’incidenza e la severità di diarrea, di stenosi ipertrofica del piloro, di enterocolite necrotizzante, di ernia inguinale, di malattie delle basse vie respiratorie, di otite, di sepsi, di meningite batterica, di botulismo e di infezioni delle vie urinarie. Inoltre altri studi hanno provato che il latte materno nel neonato possiede effetto protettivo verso la SIDS, il diabete mellito tipo I, il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, altre malattie croniche gastrointestinali, i linfomi e le malattie allergiche. Infine, stimola e migliora lo sviluppo cognitivo e comportamentale del bambino. Per quanto concerne la madre l’allattamento al seno procura alla donna diversi benefici come una migliore involuzione uterina, il ritorno ad un peso ideale più veloce, una migliore remineralizzazione ossea un minor rischio di K ovarico e mammario e numerosi altri benefici. Nel nostro paese la gran parte delle nascite avviene negli ospedali pubblici e privati, per cui un'attenzione speciale va diretta all'incoraggiamento ed al sostegno dell'avvio dell'allattamento al seno in queste strutture, indipendentemente dalla precocità della dimissione del neonato dopo il parto. E' noto che il cambiamento delle procedure assistenziali che riguardano la madre ed il neonato sono in grado di promuovere l'allattamento al seno nelle strutture sanitarie anche se sono altrettanto note le difficoltà ad esso collegate. Nel percorso nascita il pediatra-neonatologo, con la sua cultura e la sua competenza può giocare un ruolo determinante nella promozione dell'allattamento al seno, a livello individuale e/o nell'ambito dell'organizzazione dei servizi sanitari, con particolare riferimento alle attività formative e di aggiornamento professionale rivolte al personale dei ruoli sanitari, agli ostetrici/ che, infermieri/e, vigilatrici d'infanzia/puericultrici. Il pediatra/neonatologo dovrebbe organizzare corsi di educazione prenatale per le donne che in modo da informare, prima ancora della nascita, sui benefici dell'allattamento al seno anche per motivare le future madri soprattutto se adolescenti primipare, prospettando anche le difficoltà più frequentemente incontrate e le possibili soluzioni, attuando una istruzione pratica sulle tecniche dell'allattamento al seno per rafforzare le competenze e la sicurezza materna che deriva dal fare qualcosa di veramente speciale per il proprio bambino (empowerment). Un effetto positivo sull’allattamento al seno è dato per certo dal contatto precoce fra madre e figlio subito dopo la nascita, inoltre, riduce la pratica di somministrare supplementazioni e riduce il pianto del bambino senza pregiudicare il suo adattamento alla nuova vita extrauterina. Il contatto pelle-a-pelle supervisionato dal personale addetto alle cure immediate alla nascita va proposto non appena possibile dopo il parto ed idealmente protratto durante le prime 2 ore, creando le condizioni microclimatiche favorenti la suzione del bambino al seno, che non sempre avviene spontaneamente nella prima ora di vita. L'intervento degli operatori sanitari deve attenersi a criteri di sicurezza e di opportunità. Nel promuovere l'allattamento al seno in sala parto ed i primi contatti fra madre e bambino non si deve infatti rinunciare alla valutazione delle condizioni di benessere del neonato. Inoltre, l'avvio dell'allattamento al seno non deve essere forzato nei modi e nella precocità, per evitare effetti controproducenti. Un’altra pratica che favorisce un buon inizio per l’allattamento al seno è il rooming-in, con cui si intende la permanenza di madre e bambino nella stessa stanza per il periodo di tempo più lungo possibile nelle 24 ore, sia di giorno che di RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 153 notte, ad eccezione del tempo strettamente necessario alle procedure assistenziali, e con inizio a partire dal momento in cui la madre risulti in grado di rispondere dopo il parto alle richieste del suo bambino. Il rooming-in è suggerito come modello organizzativo valido a promuovere l'allattamento al seno in quanto favorisce le poppate al seno a domanda, riduce il bisogno di supplementi diversi dal latte materno, è un'utile periodo di conoscenza fra madre e neonato e di addestramento della madre nella gestione del bambino nell'affrontare e superare le varie difficoltà dell’allattamento al seno come rifiuto di succhiare, pianto, ritmi di poppata frequenti. L'allattamento a domanda del bambino, con attaccamento corretto per evitare una poppata inefficiente e l'insorgenza di ragadi mammarie anticipa e stimola la galattopoiesi, aiuta a prevenire l'ingorgo mammario, diminuisce l'incidenza e l'entità dell'ittero neonatale, riduce il calo ponderale, anticipa il successivo recupero di peso, aumenta la durata dell'allattamento al seno, ma l'esclusività dell'allattamento al seno correttamente intesa (WHO 1993) è un elemento predittivo positivo della durata dell'allattamento al seno e va per quanto possibile incoraggiata. Secondo un'accezione allargata di rooming-in, si possono includere nella stessa stanza il padre ed altri membri della famiglia (specialmente se le stanze sono ad un letto solo). Così, quando la madre non sia disponibile, il padre od un altro familiare può condividere la cura del neonato. Un'altra caratteristica positiva del rooming-in è quella di poter contare sulla capacità materna di rilevare precocemente nel neonato le manifestazioni proprie dei comuni disturbi dell'adattamento neonatale e segni di allarme di eventuali patologie. Il rooming-in risulta nel complesso gradito alle donne, nonostante fattori di carattere sociale e culturale possano creare concrete difficoltà di implementazione. In letteratura è riportato che la durata dell'allattamento materno si correla positivamente sia con la salute infantile, sia con la salute materna. Le madri devono essere correttamente e compiutamente informate non solo sui vantaggi dell'allattamento al seno, ma anche sulle modalità di conduzione e sulle possibili difficoltà e relative soluzioni. La competenza del personale sanitario e del neonatologo/pediatra sulla gestione dell'allattamento al seno risulta determinante a differenti livelli per una corretta educazione sanitaria con elaborazione di protocolli di promozione all'interno delle strutture sanitarie e per aiutare la donna a risolvere problemi relativi all'allattamento. Bibliografia 1. Giustardi A. Rooming -in(stare in camera con la madre) Rivista Italiana di Medicina Perinatale Volume 4 n°1 Gennaio 2002. 2. Giustardi A. collaboratore libro:” l’ allattamento al seno del tuo bambino come e perchè “ marzo 2003 Editeam. 3. Neifert MR:Prevention of breastfeeding tragedies.Pediare Clin North Am. 2001 Apr 2001. 4. Davanzo R., Giustardi A. Il romming-in. Strumento organizzativo essenziale per promuovere l’allattamento al seno. Pediatrics & Neonatology Review 4, 29-32, 1999. 5. Tully MR :Raccomandations for handling of mother’s own milk. J Hum Lact 2000;16:149. Arnold LDW:Racommendations for Collection, Storage and Handling of a Mother’s Milk for Her Own Infant in the Hospital Settino.Colorado, the Human Milk Banking Association of North America, 1999. 6. Pisacane A et al. Il counselling per il sostegno all’ allattamento al seno.Prospettive in Pediatria 30;349356;2000. 7. Hale T. Medications and Mother’s Milk 10 th Ed. Amarillo, Texas, Pharmasoft, 2002. 8. Lawrence RM, Lawrence RA Given the benefits of breastfeeding, what controindications exist ?Pediatr Clin North Am 48 (1), 235-252, 2001. 9. Leon-Cava N.et al. Quantifying the benefits of breastfeeding:a summary of the evidence. Washington, DC: PAHO, 2002. 10. Giustardi A. coll.Raccomandazioni sull’ allattamento materno per i nati a termine di peso appropriato, sani. Rivista Italiana di Medicina Perinatale vol 4 -n°2 maggio2002. RELAZIONI 154 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA STRATEGIE ORGANIZZATIVE DEL LAVORO NELLE UTIN D. Pisano Unità di Patologia e Terapia Intensiva Neonatale - Azienda Ospedaliero-Universitaria Cagliari Premessa L’assistenza al neonato critico, in particolare al pretermine o di basso peso alla nascita, ha subito in questi ultimi decenni un radicale cambiamento dovuto alle incessanti acquisizioni della neonatologia. Sono cambiate le strategie di diagnosi e terapia, sono cambiate le prospettive di sopravvivenza e la qualità della vita, difficilmente ipotizzabili in passato. In questo processo di crescita, hanno sicuramente giocato un ruolo chiave lo sviluppo di nuove e sofisticate tecniche di assistenza respiratoria rivolta ai neonati con immaturità polmonare, l’introduzione di nuovi farmaci salvavita, ma anche l’alta specializzazione del personale sanitario, sia medico che infermieristico dedicato all’assistenza al neonato critico. In questo contesto di crescita e sviluppo, emergono per la terapia intensiva neonatale nuove sfide al quale è necessario rispondere in maniera sinergica e multidisciplinare e, non di meno, con un’azione infermieristica globale ed efficace. Infermieri nelle TIN: dove tutti fanno tutto Pur riconoscendo aree di eccellenza e grandi professionalità nei vari gruppi di lavoro infermieristico delle TIN diffuse sul territorio nazionale, raramente si tiene conto dell’esigenza di valorizzare le risorse umane ed economiche, di contenere i rischi professionali e clinici e di una distribuzione razionale dei carichi di lavoro. Nella maggioranza dei casi, l’attività infermieristica è attuata attraverso l’applicazione di piani di lavoro secondo compiti e protocolli condivisi, nella quale, ad ogni singolo infermiere è richiesto, oltre all’assistenza al neonato, anche la gestione di tutte le attività ad essa correlate. In altre parole, ad uno stesso infermiere compete prestare assistenza specializzata al neonato critico e, allo stesso tempo, provvedere alla manutenzione delle attrezzature, alla gestione delle emergenze, alla formazione e all’addestramento di nuovo personale, ai rapporti con i genitori dei piccoli ricoverati, ecc; Il tutto, senza alcuna specificità di ruoli e senza una formazione specifica. Ogni operatore si trova così a farsi carico quotidianamente di un segmento casuale di queste attività con un’evidente dispersione di energie e, spesso, in assenza di una linea di condotta pianificata. Si tratta di un’eccessiva mole di lavoro, afferente all’assistenza al neonato, che non è solo associabile al numero di infermieri impegnati nelle strutture, ma è anche conseguenza di modelli organizzativi obsoleti. Infatti, se è vero che la cronica carenza di personale infermieristico, è un elemento che ostacola in maniera significativa la qualità dell’assistenza, non meno determinante è il “modo” con il quale si lavora in equipe. È altresì evidente che una malripartizione del carico di lavoro ha serie ripercussioni sul fisico, sulla spinta motivazionale e sulla qualità del lavoro del team ed espongono il neonato (e l’infermiere) a rischi che possono essere evitati. Una fotografia realistica della TIN Nella realtà quotidiana del nostro gruppo di lavoro, si è assistito ad un progressivo aumento del numero di attribuzioni e del carico di lavoro. Alla base di ciò, una concomitanza di fattori sia legati alla carenza di personale (insufficiente turn-over del personale trasferito o in pensione, mancata o parziale sostituzione del personale in maternità, maggiore ricorso alla legge 104/92 e ai contratti part-time, lunghe assenze per malattia e infortunio, assenza di figure di supporto, ecc.), sia conseguenti a nuove acquisizioni in campo neonatale: ad esempio la maggiore flessibilità nelle strategie di assistenza respiratoria, nuovi protocolli per l’alimentazione del neonato, studi e ricerche sul campo che prevedono la collaborazione di tutto il gruppo infermieristico, ecc. Nel loro insieme questi fattori non sono però del tutto sufficienti a giustificare una condizione di maggiore impegno infermieristico. È facile quindi supporre che esista un ragionevole margine di miglioramento RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 155 dell’efficacia assistenziale, attuabile in tempi relativamente brevi e che potrebbe compiersi attraverso un cambiamento nelle dinamiche organizzative. Un progetto, ad esempio Partendo dal presupposto che “lavorare in team” significa lavorare in squadra, è ipotizzabile che i componenti della squadra abbiano tutti lo stesso ruolo? È possibile valorizzare razionalmente le diverse esperienze e attitudini di ogni componente del gruppo di infermieri, per dare maggiore incisività all’azione assistenziale? Un progetto, ancora in fase iniziale di studio, propone un’attività infermieristica per aree di riferimento, ovvero la diversificazione di ruoli e competenze in base alle diverse attività infermieristiche di terapia intensiva. Ogni area di riferimento, costituita da 2-4 professionisti appartenenti al team, studia e propone soluzioni migliorative inerenti al proprio ambito al resto dell’equipe individuando i progetti che meritano priorità di intervento e studio. In questa prima fase abbiamo individuato le seguenti macro-aree di intervento: - emergenze, trasporto neonatale e pratiche invasive; - analgesia e Care neonatale; - allattamento e nutrizione; - protocolli e linee guida; - farmaci, terapia e rischio clinico; - sorveglianza microbiologica e infezioni; - documentazione infermieristica; - materiali, presidi e attrezzature; - comunicazione genitore-infermiere e dimissione. L’adesione del singolo infermiere ad un gruppo piuttosto che ad un altro è basata su scelte volontarie legate essenzialmente alla sensibilità/attitudine degli operatori verso un particolare settore di attività. Ogni area è rappresentata da un referente, scelto all’interno del gruppo di lavoro, che coordina e promuove i progetti pertinenti alla sua area di riferimento. Naturalmente è indispensabile una costante interazione, con un flusso continuo di informazioni, sia con gli altri gruppi che con la caposala ed il direttore. Un’organizzazione infermieristica per aree di riferimento, potrebbe avere effetti positivi diretti; ad esempio: - Ridurrebbe il carico di lavoro quotidiano di ogni singolo componente del team per ripartizione razionale delle attribuzioni; - motiverebbe e responsabilizzerebbe gli operatori impegnati; - creerebbe un rapporto di collaborazione critico tra gli operatori e tra i gruppi; - aumenterebbe le occasioni di aggiornamento professionale; - produrrebbe risultati divulgabili all’esterno ed il confronto specifico con altre realtà; - migliorerebbe l’integrazione del personale di nuova assunzione. Allo stesso tempo, tuttavia, vi sono alcuni aspetti che devono essere presi in considerazione e che potrebbero rappresentare un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi prefissati; tra questi, evidenziamo: - situazioni di conflittualità (interpersonali e tra i gruppi) per aspettative di efficienza; - impegno personale degli operatori (in termini di tempo) non sempre ottenibile o sufficiente; - scarso interesse per gli obiettivi e per i risultati raggiungibili. Occorre sottolineare inoltre, che i cambiamenti che agiscono su consuetudini consolidate in anni di attività, specie se introducono nuove dinamiche di gruppo, sono sempre accolti con particolare diffidenza e scetticismo dagli operatori e, nella maggior parte dei casi, necessitano di un avvio a piccoli passi, a partire ad esempio dalla sperimentazione di progetti-pilota che portino a risultati dimostrabili e condivisibili. RELAZIONI 156 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA In conclusione, riteniamo sia indispensabile la ricerca di nuove strategie che siano capaci di implementare un ottimale management delle risorse umane per offrire una migliore e più qualificata assistenza ai nostri neonati con il minore impatto fisico e psicologico per gli operatori. In una terapia intensiva neonatale, un’impostazione del lavoro che comprenda sia l’assistenza diretta al neonato che la diversificazione dei ruoli e dei campi di attribuzione nelle attività, potrebbe tradursi in un miglior utilizzo delle risorse umane e delle attitudini professionali e, in ultima analisi, in maggiore efficienza: tutto a beneficio del neonato e del gruppo di lavoro. RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 157 TRATTAMENTO DELLE LESIONI DA STRAVASO DI FARMACI: DESCRIZIONE DI UN CASO CLINICO T. Carra, C. Coppola, A. Pagluica, R. Mormile UOC di Neonatologia e Pediatria - Ospedale San G. Moscati - Aversa Lo stravaso dei farmaci rappresenta un evento avverso della terapia infusionale di una certa rilevanza nella pratica clinica il cui aspetto peculiare è rappresentato dalla formazione delle ulcerazioni cutanee. Secondo gli ”Intravenous Nursing Standards of Practice” realizzato dalla “Infusion Nursery Society”, per stravaso si intende la fuoriuscita accidentale dal sito della venipuntura nei tessuti perivenosi di un farmaco o di una soluzione vescicante ossia di quegli agenti che per il loro meccanismo di azione si fissano nei tessuti permanendovi a lungo causando una grave reazione locale. Quando invece si assiste alla fuoriuscita di agenti non vescicanti si parla di infiltrazione. Lo stravaso realizza una cellulite chimica. Esso rappresenta un’emergenza medica a tutti gli effetti che richiede nella presa in carico l’attuazione di norme procedurali e comportamentali specifiche. Il processo di distruzione tissutale inizialmente è caratterizzato da una temporanea irritazione con bruciore o dolore locale, a cui nelle ore successive fanno seguito la possibile comparsa di eritema, gonfiore, indurimento cutaneo, desquamazione secca o flittene. Dopo 1 o 4 settimane si assiste allo sviluppo di necrosi con formazione di escara o di ulcerazione, la quale può estendersi in modo tale da interessare i tessuti sottostanti con coinvolgimento anche di nervi e tendini con gravi danni estetico-funzionali a distanza. L’incidenza di stravaso da vene periferiche viene stimata intorno allo 0, 6 - 6% di tutte le reazioni avverse in corso di terapia infusionale; tale percentuale arriva al 30% in età pediatrica. I bambini sono maggiormente a rischio di sviluppo di lesioni cutanee in relazione ad una immaturità della cute con predisposizione delle cellule all’ipossia con conseguente facilità al cedimento dell’integrità cutanea. I neonati presentano danni più gravi in relazione alla necessità di infondere soluzioni elettrolitiche e nutrizioni parenterali ed inoltre per l’incapacità di riferire bruciore e dolore nella sede di infusione. Agenti vescicanti di comune utilizzo in età neonatale sono le soluzioni di destrosio al 10%, il gluconato di calcio, il bicarbonato di sodio. E’ stato riportato che circa un terzo degli stravasi evolve in ulcerazione. La gravità delle lesioni è correlata al potenziale vescicante del farmaco, al volume di materiale stravasato, alla concentrazione del farmaco. Più precoce è il riconoscimento di uno stravaso minore saranno i danni e ciò in relazione ad un minore volume di stravaso e ad una tempestiva messa in opera di tutta quella serie di interventi richiesti a contrastare l’azione lesiva del farmaco in causa. Bisogna sospendere immediatamente l’infusione in caso di segni di sospetto stravaso (bruciore, dolore, eritema, gonfiore, mancanza di reflusso ematico) tentando di aspirare delicatamente ogni residuo di farmaco stravasato mediante il dispositivo endovena utilizzato per l’infusione e se ciò non fosse possibile, si procede alla rimozione dello stesso. Non si devono mai applicare né compressione umida o impacchi né alcool sull’area interessata da stravaso. Le aree cutanee con scarso tessuto sottocutaneo presentano una più elevata morbilità per la più facile esposizione di nervi e tendini. La lesione da stravaso deve essere mantenuta pulita e coperta e se la cute è integra si dovrebbe utilizzare un film trasparente per proteggere l’area interessata dall’ attrito e dalle forze di tensione. Le lesioni a spessore parziale o totale richiedono secondo i principi del Moist Wound Healing e sui principi del Wound-Care, la rimozione di tessuto necrotico, il controllo dell’infezione, la gestione dell’essudato in eccesso, il riempimento degli spazi cavi, il mantenimento del letto della lesione costantemente umido e la protezione della stessa da ulteriori traumi e batteri. Tra i prodotti da medicazione più frequentemente utilizzati per il trattamento delle lesioni tissutali stravaso-correlate si annoverano placche di idrocolloidi, alginato e idrogel. L’approccio terapeutico conservativo prevede l’utilizzo di antidoti da somministrare nell’area della lesione. Gli antidoti attualmente consigliati dalla Letteratura sono la jaluronidasi, la fentolamina, il DMSO topico, il tiosolfato di sodio. La jaluronidasi rappresenta l’antidoto più usato in pediatria trovando impiego negli stravasi di destrosio al 10%, sali di calcio e potassio, nutrizioni parenterali totali. Questo enzima sembra ridurre l’estensione del danno tissutale poiché è in grado di modificare la permeabilità favorendo il riassorbimento RELAZIONI 158 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA sistemico della sostanza stravasata. Dovrebbe essere somministrata entro un’ora dall’evento per via endovenosa o sottocutanea. Come approccio alternativo viene utilizzata la tecnica invasiva del “ flush out “di pertinenza del chirurgo plastico indicata nei danni da stravaso più severi. Il persistere del gonfiore, eritema e dolore dopo la terapia conservativa e/o il rilievo di necrosi cutanea con o senza ulcerazione, indirizzano verso l’intervento chirurgico. L’uso della sulfadiazina nel trattamento delle ulcere cutanee è scoraggiato nell’età neonatale a causa della mancanza di studi che confermino la sua reale efficacia e in particolare per la potenziale tossicità. Il mantenimento dell’integrità della cute viene considerato come una priorità della ricerca infermieristica ed un indicatore di qualità dell’assistenza erogata al paziente. Lo sviluppo della professione infermieristica in Italia ha significato anche il progresso in particolari aree come il “ Wound Care” (WOUND: alterazione dell’integrità cutanea, CARE: prendersi cura). L’infermiere, secondo il codice deontologico, deve fondare il proprio operato su conoscenze validate e aggiornate, così da garantire al paziente le cure e l’assistenza più efficaci. Il profilo professionale pone l’attenzione sulla formazione post-base, intesa a fornire agli infermieri di assistenza generale conoscenze cliniche avanzate che diano loro la capacità di eseguire prestazioni dedicate per patologie specifiche. L’infermiere esperto è un professionista che opera in autonomia decisionale e in collaborazione con altre figure professionali. Egli deve raggiungere gli obiettivi inerenti alla prevenzione e alla cura delle lesioni cutanee, avvalendosi delle sperimentazioni più recenti, sicure ed efficaci allo scopo di garantire i risultati migliori. Riportiamo la nostra esperienza circa un neonato che, in corso di terapia infusiva reidratante con soluzione di destrosio al 10% contenente calcio gluconato, presentava una zona di eritema nella sede limitrofa all’accesso venoso profondo, in corrispondenza del terzo medio della gamba sinistra. Rilevato ciò, si sospendeva immediatamente l’infusione con rimozione dell’agocannula e sostituzione della sede di infusione. Veniva eseguita la disinfezione prima mediante ipoclorito di sodio a diluizione appropriata, indi lavaggio con soluzione fisiologica allo 0.9%. Dopo alcune ore dall’evento, la zona che era stata interessata dallo stravaso appariva bluastra e progressivamente si assisteva alla formazione di un’escara. Venivano eseguite medicazioni giornaliere con stimolatori della crescita tissutale. Veniva effettuata anche la consulenza di un chirurgico plastico. La guarigione della lesione con caduta dell’escara avveniva in circa 10 giorni. Residuavano esiti estetici. Secondo la recente Letteratura le nuove metodiche di trattamento per la cura delle lesioni cutanee da stravaso consentono una più efficace riparazione tissutale con una netta riduzione degli esiti a distanza. Grande successo sta riscuotendo l’utilizzo del collagene, modalità di approccio già in uso da alcuni anni presso diversi centri ospedalieri italiani. Il collagene è la proteina che prevale in percentuale più elevata nella composizione del corpo umano. Esistono diversi tipi di collagene ognuno dei quali è preposto a svolgere una partcocolare funzione: - emostasi: il collagene, che si trova nello strato sotto endoteliale dei vasi sanguigni, si lega al recettore specifico sito sulle membrane cellulari delle piastrine, che si dissolvono e liberano sostanze necessarie per iniziare l’emostasi; - debridment: il collagene funziona da chemiotattico per i monociti e i leucociti. I monociti si trasformano in macrofagi che fagocitano i corpi estranei e i tessuti morti; - granulazione e angiogenesi: questa proteina richiama i monociti che stimolano la fibroplasia e l’angiogenesi ; - attività fibroblastica: il collagene si lega alla fibronectina, che promuove l’ancoraggio delle cellule e la fibrinogenesi. Inoltre è una sostanza chemiotattica nei confronti dei fibroblasti, che presiedono alla preparazione del nuovo tessuto; - riepitelizzazione: in questa fase il collagene supporta direttamente la crescita, l’attecchimento, la differenziazione e la migrazione dei cheratinociti; - rimodellamento della ferita: il collagene riduce la dimensione della cicatrice, orientando opportunamente le fibre. Viste le molteplici funzioni del collagene, è apparso ovvio l’impiego di tale proteina nella guarigione delle RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 159 lesioni cutanee. Attualmente esistono in commercio prodotti a base di collagene facilmente applicabili e in grado di ridurre la frequenza delle medicazioni consentendo una buona guarigione delle lesioni cutanee. L’infermiere ricopre un ruolo specifico che prevede mansioni ben definite nella presa in carico di ogni paziente con lesioni cutanee da stravaso di farmaci: pianificazione e valutazione dell’assistenza infermieristica, mirata alla prevenzione e cura delle lesioni cutanee; monitoraggio dei dati epidemiologici relativi alle lesioni; collaborazione con altre figure professionali nella gestione delle lesioni cutanee; aggiornamento continuo; collaborazione nell’acquisizione dei presidi e degli ausili di più recente introduzione e di più dimostrata efficacia. Bibliografia 1. American Nurses Association. (1995). Nursing care report card for acute care. Washington, DC: American Nurses Publishing. 2. Baharestani M.M. An Overview of Neonatal and Pediatric Wound Care Knowledge and Considerations. Ostomy Wound Manage. 2007; 53: 34-55. 3. Garland JS, Dunne WM, Havens P, et al. Peripheral intravenous catheter complications in critically ill children : a prospective study. 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Morganti Dipartimento Materno-Infantile - Area Pediatrica/Neonatologia - Ascoli Piceno Parole chiave Gestione infermieristica, analisi dei bisogni, complessità assistenziale, dotazione organica, risorse, gravità dei pazienti, classificazione dei pazienti, carico di lavoro. L’impianto normativo attualmente in vigore ha attribuito all’infermiere la responsabilità di pianificare, gestire e valutare le attività assistenziali, riconoscendolo come portatore esclusivo della specificità relativa al processo di assistenza infermieristica. Per poter pianificare le proprie attività e quelle del personale di supporto, coinvolto in modo sempre più significativo nelle cure, l’infermiere pertanto ha necessità di disporre di strumenti che gli permettano di misurare il grado di dipendenza del paziente e dei care givers, di poter documentare, controllare e verificare l’efficacia dell’intervento assistenziale. Per questo motivo, l’implementazione di un metodo di rilevazione del grado di dipendenza del paziente assistito concepita in modo da poter essere utilizzata come strumento per il cambiamento organizzativo, è ritenuta la metodologia migliore, per raggiungere l’obiettivo di coinvolgere il personale infermieristico rendendolo proattivo, partecipe ed attore principale, nella pratica quotidiana, di tutti i mutamenti che oggi sono stati enunciati dalla normativa. A tal fine risulta fondamentale monitorizzare una variabile icastica in ogni modello assistenziale qual’ é la complessità dei pazienti e l’intensità del lavoro (carico di lavoro), onde ottimizzare la distribuzione delle risorse infermieristiche, ridurre la spesa, quindi uniformare i servizi offerti e la qualità della care. Aumentano, infatti, pur nella loro debolezza metodologica, gli studi che sostengono l’associazione tra esiti clinici e quantità/qualità degli infermieri che erogano assistenza diretta (il termine di confronto non è più gli infermieri in organico), pertanto in un’ ottica di implementazione del sistema Qualità e nel rispetto del Risk Management risulta efficace definire il numero massimo o atteso di pazienti che ciascun infermiere dovrebbe gestire. Il compito primario nel classificare le tipologie di pazienti è quello di riuscire a cogliere tutte le varietà e i costanti mutamenti dei bisogni delle persone assistite. I sistemi per la classificazione dei pazienti solitamente si basano o su studi incentrati sul tempo (time studies), che prevedono ad esempio la campionatura delle mansioni, oppure su studi incentrati sia sul tempo che sui gesti (time and motion studies). Misurare il “peso” assistenziale del paziente significa analizzare nel dettaglio: - gravità della patologia; - acuità della patologia; - instabilità della patologia; - livello di dipendenza dalle cure infermieristiche; - tempo necessario a compiere le azioni infermieristiche; - livello delle procedure necessarie; - tecnologia necessaria per erogare l’assistenza; - competenze prof.li/livello di formazione necessari. Il primo ostacolo rilevato nell’analisi dei suddetti fattori attiene alla individuazione della complessità assistenziale, un concetto ambiguo dove le certezze sono davvero poche: mancano definizioni univoche del concetto di complessità assistenziale, il modello che definisce la C. deve tener conto delle specificità dell’approccio infermieristico, orientato ai bisogni e all’autonomia più che alla patologia, è necessaria una misurazione/valutazione della complessità anche dal punto di vista infermieristico, non solo clinico. Infatti complessità clinica e complessità assistenziale infermieristica NON necessariamente coincidono. Mentre la complessità clinica viene definita in base ad alcuni criteri standardizzati quali: RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 161 - durata degenza - DRG - spese per farmaci - spese per esami diagnostici - spese per consulenze, - quella infermieristica a tutt’oggi in Italia non è determinata da criteri standard univocamente riconosciuti. La valutazione dell’ intensità assistenziale infermieristica può essere definita come una misura dei bisogni individuali di assistenza dei pazienti presenti in reparto e gli atti e le misure adoperate dagli infermieri per soddisfarli in un dato periodo di tempo (Fagerström & Bergbom Engberg, 1998; Fagerström e coll., 1998a). La difficoltà di definire standard certi e riproducibili deriva essenzialmente dalla molteplicità e complessità delle variabili che influenzano il fenomeno. In letteratura sono indicate le seguenti variabili: - Expertise dello staff: la tipologia di formazione, le competenze specialistiche presenti e le esperienze professionali maturate dal gruppo; - Autonomia gestionale: la possibilità di assumere decisioni assistenziali, la distribuzione dei pazienti in rapporto all’intensità assistenziale; etc….; - Caratteristiche dei pazienti: la tipologia dei bisogni assistenziali, il numero di prescrizioni diagnostiche e terapeutiche, la durata della degenza, il livello di compliance, l’indice di turn over dei pazienti, le caratteristiche e bisogni dei care giver, la tipologia di dimissione del paziente; etc….; - Intensità del lavoro: la mancanza di apparecchiature e materiali sanitari, l’organizzazione caotica del lavoro, le continue interruzioni; i tempi di inattività collegati agli approvvigionamenti, alle risposte degli esami, alle richiesta dei medici,..; - Struttura architettonica: la disposizione degli spazi, l’ubicazione dei materiali, la necessità di percorsi ripetuti; la distanza dai servizi diagnostici, la disponibilità di servizi igienici, …; - Ulteriori risorse: la disponibilità di altro personale di assistenza strutturato o volontario; - Presenza di studenti/tirocinanti; - Elementi organizzativi: lo stile di leadership del coordinatore; la capacità di lavorare in gruppo; la resistenza allo stress; la stabilità / instabilità del posto di lavoro, i flussi informativi ed il passaggio delle comunicazioni all’interno dell’equipe (contraddittorietà/incoerenza), la difficoltà di interpretazione delle prescrizioni, la presenza/assenza delle linee guida, procedure e protocolli di lavoro. La principale difficoltà incontrata nella ricerca di uno strumento valido allo scopo è legato alla criticità attinente la specificità assistenziale pediatrica, difatti i vari metodi di rilevazione validati sono pertinenti per l’adulto, scarsamente applicabili in ambito pediatrico. Il sistema PANDA Paediatric Acuity and Nursing Dependency Assessment (2006) Great Ormond Street Hospital, Londra risulta essere l’ Unico sistema di misurazione della complessità assistenziale PEDIATRICO. Il Sistema Panda parte da uno standard qualitativo definito a priori derivante da quelle codificate dal National Health Service britannico (numero di pazienti per infermiere, secondo le Linee Guida del RCN) e, attraverso la rilevazione della complessità dei pazienti di un reparto, mediante, una scheda a matrice consente di stabilire se quel reparto rispetta lo standard minimo assistenziale. Tale scheda a matrice riporta sulle righe i bambini ricoverati e sulle colonne 50 possibili caratteristiche assistenziali del paziente, le 50 caratteristiche sono raggruppate in 9 categorie, contrassegnate da un diverso colore. Ognuna delle 50 possibili caratteristiche assistenziali è descritta in un'apposita Guida. RELAZIONI 162 PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA RCN CATEGORIES standard minimo Categoria Rapporto numerico Infermiere/pazienti secondo il RCN Necessità di cure intensive in reparto non TI 01:01 Livello di dipendenza infermieristica alto 01:02 Livello di dipendenza infermieristica normale, età 01:03 inferiore a 2 anni Livello di dipendenza infermieristica, età superiore 01:04 a 2 anni Tabella 1 Il Goshman Panda tools Il tools è basato su 50 item ‘‘care categories’’ dei quali 44 derivano dal DoH document che è raggruppato in 9 “ colour - coded systems’’ e 6 di identificazione di “nursing care” I 9 gruppi di categoria colour - coded ‘‘systems’’ analizzano: 1. Via aerea 2. Respiratorio 3. Post-intervento/Procedure 4. Cardiaco/Aritmie 5 Monitoraggio/Terapia 6. Shock/sepsi/Immunodeficienza 7. Renale/bilancio idrico- 8. Neurologico 9. Altro. A loro volta ogni gruppo classifica ulteriori campi attinenti le macroaree di apparteneza. I 6 gruppi di dipendenza di nursing care sono suddivisi: Fasce di età - collocazione/bisogno clinico -complessità emotiva- complessità psichica -complessità sociale - mobilità. In Italia, per stabilire la quantità di personale da assegnare alle diverse strutture sanitarie sono stati emanati numerosi provvedimenti che, per motivi diversi, difficilmente hanno trovato applicazione: -DPR 128/1969 - Ordinamento interno dei servizi ospedalieri - superato da successive norme legislative; -Delibera CIPE 20.12. 1984; -Decreto 13/9/1988 - Determinazione degli standard del personale ospedaliero -contestato e non applicato dalle regioni. - Successivamente, le norme non hanno più definito standard; il fabbisogno di personale (dotazione organica) è stato correlato ai carichi di lavoro (DL n. 29, 3 febbraio 1993 e successive modificazioni). In California, ma anche in altri Stati Americani, l’American Nurses Association ha condotto una dura battaglia politica per definire il numero massimo o atteso di pazienti che ciascun infermiere dovrebbe gestire. Questo rapporto (nurse to patient ratio) esprime una misura di sintesi che deve essere garantita sulle 24 ore: include solo infermieri e non gli operatori di supporto, aiuta la dirigenza degli ospedali a negoziare la migliore quantità di risorse per i pazienti; garantisce omogenei livelli assistenziali (paradossalmente proprio in un sistema non pubblico) e la possibilità per gli infermieri di lavorare, esprimendo le massime potenzialità dell’assistenza, che comprendono la capacità di giudizio, di monitoraggio e di sorveglianza. Gestire pochi pazienti, infatti, permette agli infermieri di conoscerli bene, di individuare precocemente variazioni cliniche, di monitorarle, di ipotizzare problemi potenziali e di attivare strategie efficaci. Un buon rapporto infermieri/pazienti dovrebbe aggirarsi su 1 a 5 o comunque inferiore a 6, per ridurre il rischio di complicanze e di mortalità dei pazienti. (Aiken LH, Clarke SP, Sloane DM, Sochalski J, Silber J. Hospital nurse staffing and patient mortality, nurse burnout and job dissatisfaction. JAMA 2002; 288: 1987-93.) Conclusioni I manager del personale infermieristico oggi hanno bisogno di strumenti pratici per l’amministrazione del personale dato che i servizi sanitari e l’assistenza infermieristica sono in uno stato dinamico che coinvolge sia dei grandi cambiamenti organizzativi sia dei tagli economici radicali. Sono stati creati dei sistemi di classificazione dei pazienti come metodo per una pianificazione efficiente del personale in grado di RELAZIONI PRIMA SESSIONE INFERMIERISTICA 163 rispondere ai bisogni di assistenza dei pazienti in continuo cambiamento. Secondo Hoffman (1998), la creazione di sistemi per la classificazione dei pazienti è stata influenzata da una linea di pensiero tipica dell’industria e le limitazioni di tali misurazioni non sono state prese sufficientemente in considerazione. Per la creazione di sistemi per la classificazione dei pazienti sarebbe opportuno tenere a mente le assunzioni ideologiche di base dell’assistenza infermieristica (Athlin e coll., 1992; Fagerström & Bergbom Engberg, 1998) ed essi dovrebbero essere compatibili con la filosofia predominante della leadership. La leadership professionale nel frattempo deve imporre al potere politico di inserire nell’agenda la questione del rapporto numerico infermiere/paziente e del benessere lavorativo degli infermieri in quanto strettamente correlato alla sicurezza del paziente. Bibliografia 1. Editoriale 204 Assistenza infermieristica e ricerca, 2006, 25, 4. 2. Aiken LH, Clarke SP, Cheung RB, Sloane DM, Silber JH. Educational levels of hospital nurses and surgical patient mortality. JAMA 2003; 290: 1617-23. 3. Aiken LH, Clarke SP, Sloane DM, Sochalski J, Silber J. Hospital nurse staffing and patient mortality, nurse burnout and job dissatisfaction. JAMA 2002; 288: 1987-93. 4. Doran D, Kerr M, McGillis Hall L, Zina M, Butt M, Ryan L. Commitment and care: The benefits of a healthy workplace for nurses, their patients and the system. Rapporto presentato al Canadian Health Services Research Foundation, Ottawa, ON, 2001. 5. Palese, L. Saiani: Carenza di infermieri, standard assistenziali, sicurezza dei pazienti.Assistenza infermieristica e ricerca, 2006, 25, 4 205. 6. Aiken LH, Clarke SP, Sloane DM, Sochalski J, Silber J. Hospital nurse staffing and patient mortality, nurse burnout and job dissatisfaction. JAMA 2002; 288: 1987-93. 7. Doran D, Kerr M, McGillis Hall L, Zina M, Butt M, Ryan L. Commitment and care: The benefits of a healthy workplace for nurses, their patients and the system. Rapporto presentato al Canadian Health Services Research Foundation, Ottawa, ON, 2001. 8. Defining staffing levels for children’s and young people’s services.RCN guidance for clinical professionals and service managers.2003. 9. Ellis J, Joyce C.Identifying patient acuity and nursing dependency in paediatrics:The GOSHman PANDA project. Great ormond Street Hospital NHS trust. 10. Guccione A., Morena A., Pezzi A., Iapichino G., “I carichi di lavoro infermieristico” Min Anestesiol 2004; 70: 411-6. 11. Cavaliere B., “Sistema integrato di misurazione della complessità assistenziale” Management Infermieristico 2006; 2:13-22. 12. Agency for Healthcare Research and Quality “Nurse staffing and Quality of patient care” AHRQ Pubblication n° 07- E005 March 2007. SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 29 NOVEMBRE 2008 Presidenti: Andrea Colella, Gabriella De Cicco, Luciano Musi Moderatori: Franca Piccolo, Maria Franzese, Raffaella Mormile Gennaro Vetrano, Carla Navone, Marzia Duse RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 165 ASSISTENZA INFERMIERISTICA PRE- E POST-OPERATORIA AL NEONATO AFFETTO DA ERNIA DIAFRAMMATICA CONGENITA (CDH) C. Cervoni, G. D’Agostino U.O. TIN-Immaturi - Ospedale Pediatrico Bambino Gesù - IRCCS - Roma Obiettivi L’ernia diaframmatica congenita (CDH) è una malformazione che consiste nella mancata o incompleta chiusura del diaframma, con fuoriuscita dei visceri dall’addome verso la cavità toracica attraverso una breccia nel diaframma. Oggi è possibile effettuare la diagnosi prenatale tramite l’ecografia. Tale diagnosi consente di attuare un trattamento precoce volto sia alla predisposizione del parto cesareo, sia all’assistenza del bambino che al supporto psicologico ai genitori. La tipologia del paziente è particolarmente delicata e richiede una appropriata gestione di tipo infermieristico. Materiali e metodi L’assistenza del neonato con CDH ha inizio in sala parto dove l’infermiere collabora con il neonatologo all’immediata intubazione del neonato e successivo posizionamento di un catetere centrale in un vaso ombelicale (venoso o arterioso). All’arrivo in TIN il neonato viene posto in culla aperta e l’infermiera inizia il monitoraggio delle funzioni vitali, esegue i prelievi pre-operatori, imposta le infusioni di farmaci (sedativi, isotropi se necessari). Quando le condizioni cliniche del neonato si sono stabilizzate il chirurgo neonatologo procederà all’intervento chirurgico direttamene in TIN. Dopo l’intervento si procederà al prelievo di sangue, all’esecuzione di un RX torace-addome e alla rilevazione continua dei parametri vitali. Risultati Con la collaborazione del personale infermieristico, delle caposala e del personale medico, si è cercato di “standardizzare” alcune procedure per la gestione del paziente critico ed in particolare di quello affetto da CDH, tenendo conto di un aspetto fondamentale dell’assistenza infermieristica pre-, intra- e postoperatoria di questi pazienti che è il controllo del dolore e, più in generale del “discomfort”. I genitori ai quali è stata già diagnosticata la malformazione in utero, vengono seguiti costantemente dal tutto il personale sanitario, in particolare da quello infermieristico, che li accompagna nel difficile percorso pre- e post-operatorio del loro bambino. Conclusioni La sopravvivenza nei casi di CDH isolata, cioè non associata ad altri difetti, è del 70%; qualora siano presenti altre anomalie varia dal 40 al 70%. I bambini, in genere, sono in grado di condurre una vita di relazione, scolastica e sportiva normale. Le complicanze possono riguardare una certa difficoltà di alimentazione, deformità della gabbia toracica, scoliosi. RELAZIONI 166 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA LA FORMAZIONE A DISTANZA COME RISORSA PER L’EDUCAZIONE CONTINUA IN MEDICINA: POTENZIALITÀ DELLA FORMAZIONE A DISTANZA (FAD / E-LEARNING) M. Di Martino1, F. Caserta2 1 2 Azienda Ospedaliera Universitaria "Federico II" Napoli Seconda Università di Napoli Introduzione Il programma del Ministero della Salute: “Educazione Continua in Medicina” (ECM) è di particolare attualità nel nostro Paese, esso comprende “l’insieme organizzato e controllato di tutte quelle attività formative, sia teoriche sia pratiche, allo scopo di mantenere elevata e al passo con i tempi la professionalità degli operatori della Sanità”. Come previsto dal Ministero della Salute, l’ECM offre l’opportunità agli operatori sanitari di maturare crediti formativi, intesi come “una misura dell’impegno e del tempo che ogni operatore della Sanità ha dedicato annualmente all’aggiornamento e al miglioramento del livello qualitativo della propria professionalità”. L’ECM può essere veicolata da corsi a carattere residenziale (seminari, workshop o altro), da congressi e convegni, da materiali editoriali di tipo tradizionale (riviste o monografie) o innovativi, come: la formazione a distanza (FAD) che ha subito nel corso degli anni una notevole evoluzione (Tabella 1). Attualmente gli “studenti a distanza” hanno la possibilità di scegliere fra diverse offerte: corrispondenza, CD-Rom, video, teleconferenze, educazione via web. Tabella 1. Dalla FAD all’e-learning: passaggio storico La comunicazione mediata dal computer Esistono due modalità di comunicazione mediata dal computer (CMC): quella sincrona e quella asincrona (Tabella 2). Si ha una CMC sincrona quando la comunicazione avviene simultaneamente fra due o più persone, in tutti gli altri casi si parla di CMC asincrona. La differenza fondamentale tra le due tipologie è legata alla presenza di una connessione in tempo reale tra i computer degli utenti coinvolti. Ciascuna delle due soluzioni ha punti di forza e punti di debolezza. RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 167 Tabella 2. Principali tipologie di CMC. Le soluzioni adottabili per realizzare formazione on line variano per tempi, contenuti, strumenti utilizzati e modalità di fruizione, le scelte sono condizionate sia dagli obiettivi e dalle caratteristiche degli utenti sia dalle risorse a disposizione. Entrambe le suddette forme di CMC, sincronica e asincronica, sono duttili, hanno carattere interattivo e modulare e possono ricorrere alla figura di uno o più tutor. Elementi di flessibilita’ La FAD introduce nel processo formativo diversi elementi di flessibilità: - Temporale: in quanto ciascuno può seguire i corsi negli orari a lui più consoni e secondo i propri ritmi di apprendimento; - Geografica: ogni allievo segue il corso da casa, dall’ufficio…, evitando eventuali problematici spostamenti; - Dei materiali didattici: i materiali presentati in forma modulare, consentono una fruizione semplice e personalizzata. Si parla d’interattività, invece, quando docenti, tutor e studenti si confrontano costantemente, si scambiano informazioni, esperienze e materiali. Le soluzioni tecniche utilizzate a tale scopo possono essere strumenti di comunicazione asincrona (forum, mailing list, e.mail) e/o sincrona (chat, videoconfereze etc). Si ha interazione anche attraverso un’organizzazione e articolazione dei contenuti che preveda la libera esplorazione ipertestuale dei materiali offerti e infine attraverso la possibilità di verificare il proprio personale percorso attraverso una gamma articolata di operazioni di feed-back. La modularità è intesa come suddivisione dei contenuti oggetto di apprendimento in moduli didattici. La struttura informatizzata e le potenzialità della rete Internet possono favorire: - la progettazione dei percorsi d’apprendimento; - le attività di controllo in itinere, tramite test e verifiche cui sottoporre periodicamente gli allievi - la verifica e valutazione delle funzionalità del modulo. - L’individualizzazione dei percorsi da parte degli allievi. Il Blended Learning Le strategie pure di formazione in rete, anche se ad alta interazione, non sempre sono consone a ogni situazione educativa. Ci sono, ad esempio, contenuti che sono poco adatti a essere trattati in rete o persone che non riescono a prendere confidenza con il tipo di comunicazione che s’instaura attraverso il collegamento online, basato quasi esclusivamente sul testo scritto. Anche un intervento in sola presenza porta con sé alcuni elementi problematici: un corso di poche settimane non può avere la pretesa di rendere il partecipante competente a tal punto sugli argomenti trattati da riuscire autonomamente ad approfondire i contenuti e ad applicare ciò che ha appreso nel suo contesto lavorativo. La formazione mista o blended, ha lo scopo di dare “la possibilità di condurre un’azione formativa che possa avvalersi delle caratteristiche specifiche sia della formazione in presenza (lezione frontale) sia quella in rete (esercitazioni assistite a distanza ecc.) ”. Una formazione mista permette anche di sopperire alle difficoltà insite nel processo di valutazione, poiché RELAZIONI 168 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA fornisce la possibilità di interagire periodicamente e di osservare da vicino le attività svolte dai partecipanti e, grazie alla comunicazione scritta on line, permette di usufruire degli apporti di ogni singolo corsista ad esempio con la computer conferencing. La formazione on line non si deve intendere come una metodologia sostitutiva all’ aula, ma si dovrebbe pensare ad un sistema che integri le due forme e che, quindi, non annulli completamente la dimensione fisica dell’ interazione tra gli studenti e tra questi ed il docente. Il mantenimento d’incontri in presenza può favorire il riconoscimento degli attori del processo e può quindi sostenere le relazioni, la socializzazione, ma anche la motivazione a partecipare alle fasi via rete. Vantaggi della Fad Non c’è dubbio che lo sviluppo delle tecnologie per la comunicazione abbia migliorato, in termini di tempo ed efficienza, la trasmissione dei messaggi, offrendo un enorme contributo allo sviluppo della formazione a distanza. Dal punto di vista economico, i mezzi di comunicazione di massa (radio, TV, stampa, ecc.) come sostituti dei docenti in aula, si sono rilevati dei canali appropriati per l’insegnamento a distanza, consentendo anche economie di scala, dal momento che un dato messaggio può essere ricevuto da un numero elevato di potenziali allievi. La FAD, infatti, consente di ottimizzare la gestione delle risorse e di eliminare le spese di trasferta riducendo notevolmente i costi (Tabella 3). Tabella 3. Principali vantaggi della FAD. Svantaggi della Fad Tra i problemi più rilevanti dei corsi FAD (Tabella 4), c’è quello dell’elevato numero di abbandoni (per cause diverse) da parte degli allievi, rispetto alle forme più tradizionali d’istruzione. L’abbandono può essere ridotto fornendo adeguati materiali didattici, informando adeguatamente gli allievi affinché siano perfettamente a conoscenza del corso che stanno per intraprendere, fornendo attività di supporto, tutoraggio durante lo svolgimento del corso stesso, mantenendo elevati motivazioni e interessi, creando un clima coinvolgente. Tabella 4. Principali svantaggi della FAD. RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 169 Conclusioni Affinché, l’insegnamento a distanza, possa essere efficiente è necessario che: - la metodologia utilizzata e le tecnologie scelte siano conformi agli obiettivi cui è finalizzato l’apprendimento; - Sia assicurata l’interazione costante fra gli studenti e tra gli allievi e i docenti/tutor; - Si abbia la possibilità di far riferimento a materiali organizzati e figure professionali in grado di favorire l’orientamento, evitando una frammentazione smisurata e disarticolata dei contenuti, che fungano da supporto nei momenti di difficoltà e che aiutino nella fruizione dei materiali offerti. I benefici in termini di riduzione dei costi e di maggiore flessibilità spaziale e temporale nella fruibilità degli argomenti fanno dell’e-Learning la nuova frontiera della formazione. La scarsa dimestichezza all’interattività e il rischio di demotivazione individuale, tuttavia, impongono la massima cautela dal punto di vista delle aspettative di crescita del fenomeno. Dal punto di vista delle potenzialità, l’ambiente esterno di riferimento evolve in una direzione assolutamente favorevole alla diffusione dell’e-Learning, grazie allo sviluppo di fattori abilitanti quali la banda larga e l’informatizzazione. La FAD è particolarmente adatta a rispondere alle esigenze di adulti che hanno l’obiettivo di rinnovare la propria formazione, di aggiornarsi o semplicemente per interesse personale. In particolare sono le aziende che godono delle opportunità offerte dall’e-learning, ricorrendo alla formazione online per i propri programmi di formazione e riqualificazione del personale. Bibliografia-Sitografia 1. Alfredo Pisacane, Isabella Continisio Come fare educazione continua in medicina: Dalla individuazione dei bisogni alla valutazione degli eventi formativi (a cura di) Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2007. 2. Federici A Educazione continua in medicina. In: Le parole della nuova sanità A Federici (a cura di) Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 2002. 3. Valerio Eletti, Che cos’è l’e-learning, Carocci, Roma, 2002. 4. Antonio Calvani, Mario Rotta, Fare formazione in Internet. Manuale di didattica on-line, Trento, Erickson, 2000. 5. Guglielmo Trentin, Fare formazione in Internet, Zanichelli, Bologna, 1998. www.ecm.sanità.it www.asfor.it www.wbt.it www.epict.it RELAZIONI 170 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA IL NEONATO PATOLOGICO: STABILIZZAZIONE E TRASPORTO C. Sollo TIN. / TNE. AORN “ S. Anna e S. Sebastiano” di Caserta Il Trasporto neonatale d’emergenza rappresenta, fin dalla sua istituzione, il necessario anello di congiunzione fra il centro nascita e il reparto di patologia neonatale o TIN. Da allora sono trascorsi dodici anni, durante i quali la mortalità perinatale è diminuita del 50 % circa, sicuramente grazie anche al nostro piccolo contributo. Team del Trasporto Neonatale Il team d'assistenza è composto da un neonatologo e da una vigilatrice che devono avere esperienza di terapia intensiva neonatale e devono essere in grado di fronteggiare qualunque problema che si presenti durante il trasporto. In ogni caso è l’U.O. di TIN. che fornisce il personale sia medico che infermieristico ed istituisce corsi di addestramento che prevedono un tirocinio pratico a fianco di operatori già esperti. Sono inoltre necessarie particolari competenze, come la perfetta conoscenza di tutte le attrezzature in dotazione così da individuare prontamente e rimuovere, quando è possibile già in itinere, qualsiasi causa di malfunzionamento. Un adeguato numero di trasporti alternando periodi di “training “ in TIN consente di conservare e migliorare queste capacità. Attrezzature Il mezzo di trasporto in dotazione è un ambulanza allestita come un centro di rianimazione mobile; un’ incubatrice da trasporto fornita di un ventilatore, cardiomonitor, pompa di infusione, aspiratore, bombole di O2 ;valigia da trasporto che contiene i presidi sanitari indispensabili per garantire in qualsiasi luogo, anche al di fuori dell’ambulanza la prima assistenza al neonato ;borsa farmaci da trasporto che contiene farmaci da portare al seguito in ogni trasporto, considerando che alcuni di essi devono essere conservati abitualmente in frigorifero. Chi trasferire? I neonati trasferiti mediante TNE sono quelli che hanno bisogno subito dopo la nascita di assistenza adeguata che non può essere erogata dal centro nascita essendo questi di I° livello. E’ importante dunque che tutti i neonati per i quali si prevedono cure intensive nascano nei centri di III° livello e, che il trasporto avvenga prima della nascita, cioè nel grembo materno.Poiché ciò non è sempre possibile, perchè il rischio non è sempre prevedibile in ogni caso, può accadere che anche i centri nascita con centri T.I.N possono trasferire il neonato verso centri ad alta specializzazione (cardiochirurgia, neurochirurgia) o, non accogliere il neonato, per saturazione temporanea dei posti letto. Dai dati raccolti il TNE di Caserta dal 1/1/2007 al 31/12/2007 ha eseguito 523 trasporti ; di cui: 269 patologia respiratoria, 179 prematurità, 58 patologie varie, 32 cardiopatie congenite, 43 affezioni chirurgiche e malformazioni. Le condizioni cliniche del neonato all’arrivo del team di trasporto al centro nascita sono per il 58 % discrete; 23 % gravi ; 11 % critiche. Assistenza al neonato prima del trasporto (stabilizzazione) L’attività per un servizio di trasporto neonatale inizia già al momento della chiamata con la disponibilità a fornire consigli telefonici per la stabilizzazione. All’arrivo nel centro trasferente, valutate le condizioni cliniche, l’ anamnesi e gli esami disponibili, si provvede ad assicurare, il mantenimento della temperatura corporea, la funzione cardiorespiratoria, l’equilibrio metabolico, si valutano la condizione neurologica del neonato, si provvede ad assicurare un accesso vascolare ed a somministrare, se richiesto, farmaci o soluzioni glucosate, con l’ obiettivo non solo di trattare la patologia già esistente ma anche prevenire l’eventuale deterioramento delle condizioni cliniche durante il trasporto. Mantenimento dell’omeostasi termica L’attuazione delle manovre di rianimazione e stabilizzazione nonché il trasporto stesso sono situazioni RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 171 ad alto rischio di stress termico, quindi è necessario adottare tutte le misure idonee a limitare la perdita di calore e assicurare al neonato un ambiente termico neutro. Tutte le manovre di rianimazione vanno eseguite sotto una fonte di calore radiante. Il passaggio dall’incubatrice di reparto all’ incubatrice da trasporto deve avvenire ad una temperatura di 20-22° C e in assenza di correnti d’ aria. L’apertura dell’ incubatrice da trasporto deve essere limitata al tempo strettamente necessario per posizionare il neonato, mentre tutte le altre manovre vanno effettuate attraverso gli oblò. Stabilizzazione della funzione respiratoria In presenza di insufficienza cardiorespiratoria, è molto problematico, date le circostanze, eseguire eventuali accertamenti diagnostici, e quindi la condotta terapeutica più razionale consiste in: Assicurare la pervietà delle vie aeree. Assicurare un’adeguata ventilazione. Fornire una supplementazione di ossigeno, se necessario. Eseguire un EAB. Se necessario correggere un' eventuale acidosi. Intraprendere un’infusione di glucosio Monitorizzare FC, PA, e SpO2. Per garantire la pervietà delle vie aeree e migliorare la respirazione, la Vigilatrice eseguirà un’ accurata aspirazione nasale, faringea utilizzando un sondino monouso provvisto di raccordo che permetta l’ interruzione del flusso e con depressioni non superiori a 40 cmH2O. Il piccolo sarà collegato al cardiomonitor per il rilievo della saturazione, FC e PA. Tutti i neonati con distress respiratorio dovrebbero eseguire un EAB, se possibile, al fine di stabilire le corrette modalità e parametri di ventilazione e di supplementazione di ossigeno. A questo scopo il T.N.E. di Caserta ha in dotazione, in ambulanza, un apparecchio per l’emogasanalisi portatile. Funziona a batteria e a rete, non richiede riscaldamento, utilizza cartucce monouso e offre dei risultati precisi e riproducibili. L’emogasanalisi fornisce i valori del pH ematico, della pressione parziale di ossigeno (PaO2) ed anidride carbonica (PaCO2), la concentrazione di bicarbonati (HCO3) e l’ eccesso basi (BE). Il campione può essere arterioso (sede più frequente l’arteria radiale), venoso (sede più frequente la vena cefalica) o capillare arterializzato (sede tallone dopo opportuno riscaldamento). Il prelievo può essere fatto anche dai vasi ombelicali, nel caso siano stati incannulati; ovviamente i valori della PaO2 e della PCO2 sono differenti a seconda il tipo di campione, ma non l’ equilibrio acido-base. La PaO2 è correlata, comunque, alla saturazione periferica di O2, in condizioni di perfusione adeguata e di temperatura corretta. Se non è possibile eseguire un EAB, la valutazione della quantità di ossigeno da somministrare si può basare sul dato del saturimetro. La somministrazione di O2 può essere effettuata: A flusso libero in incubatrice: è opportuno l’ uso di un ossimetro. I limiti derivano dalle percentuali limitate di ossigeno che è possibile raggiungere (30 - 50 %) e dalla perdita ogni qualvolta si aprono gli oblò dell’ incubatrice. Con cappetta: con tale metodo è possibile raggiungere elevate concentrazioni di ossigeno, ma con bassi flussi di gas fresco ; ciò aumenta la percentuale di anidride carbonica nell’aria ispirata. Il supporto ventilatorio può essere manuale o meccanico. Diviene necessario quando l’attività spontanea non sia sufficientemente valida e può essere somministrato mediante: Mascherina: non indicata durante il trasporto perché di uso scomodo e difficile in ambulanza ; infatti perde efficacia se non é tenuta ben aderente al volto del bambino ; CPAP nasofaringea: consiste nella somministrazione di una pressione positiva continua (PPC) mediante una cannula posizionata nel naso-faringe. Ventilazione meccanica convenzionale: é somministrata previa intubazione oro-tracheale. RELAZIONI 172 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA Stabilizzazione della funzione cardio-circolatoria Stabilizzazione metabolica Ipoglicemia Prima di ogni trasferimento va reperito un accesso venoso: periferico oppure centrale seconda delle condizioni cliniche. Vanno determinati i valori glicemici a tutti i neonati di cui si richiede il trasporto. La diagnosi si avvale obbligatoriamente del destrostix, non essendo disponibili immediatamente altre tecniche di laboratorio. In caso d'ipoglicemia (glucosio plasmatico < 40 mg/dl) va somministrato un bolo di glucosio endovena seguito da un infusione continua. Acidosi metabolica L’asfissia perinatale comporta un aumento di produzione di acido lattico con conseguente stato di acidosi metabolica. Un' acidosi grave determina una diminuzione della contrattilità del miocardio ed una vasocostrizione polmonare, riducendo ulteriormente l’ossigenazione del sangue. I bicarbonati da somministrare vanno sempre diluiti al 50% con acqua bidistillata ed infusa lentamente in vena. Valutazione neurologica I neonati critici sottoposti a rianimazione possono andare incontro a encefalopatia ipossico-ischemica. Un neonato con indice di Apgar al 5’< 5 probabilmente può andare incontro a una patologia neurologica acuta o cronica. Un altro parametro importante e predittivo è l’entità dell’acidosi metabolica rilevata con EAB arterioso entro 1h di vita: un pH = 7.1, e/o un BE di - 10 vengono considerati valori limite per l’instaurarsi successivo di un danno neurologico. Un deficit neurologico può essere dovuto anche a cause metaboliche o squilibri idroelettrolitici. La compromissione neurologica può manifestarsi inizialmente con ipotonia, ma in seguito possono comparire ipertono e convulsioni. Un'adeguata valutazione clinica può inizialmente essere fatta adottando la stadiazione di Sarnat-Sarnat. Chiaramente la valutazione del tracciato EEG andrà rimandata alla fase successiva del ricovero in TIN. Andranno poi valutati il Destrostix e gli Elettroliti dall 'EAB per escludere cause metaboliche. Sindrome da astinenza: Il problema delle donne tossicomani gravide in questi ultimi tempi sta presentandosi con sempre maggiore frequenza nei reparti di maternità per il diffondersi dell’uso degli stupefacenti. I sintomi sono comuni, qualunque sia la droga o il farmaco assunto dalla madre. I più frequenti sono: iperagitazione, tremori, ipertonia, iperreflessia, sudorazione, suzione rabbiosa e concitata ma meno valida, diarrea e vomito, tachipnea, febbre, convulsioni. Per permettere al centro TIN di accoglienza è opportuno prelevare dei campioni di sangue materno per le ricerche sierologiche e un campione di urine materne per la ricerca cromatografica della sostanza stupefacente. Durante il trasporto il piccolo sarà ovviamente monitorato nei suoi parametri vitali, incannulata una vena per la somministrazione di soluzione glucosata al 10% e di eventualmente farmaci anticonvulsivanti. Accessi vascolari Durante il trasporto è importante che sia reperito un accesso venoso “sicuro”, per somministrare farmaci o soluzioni glucosate. Pungere una vena in condizioni d’urgenza negli spazi angusti di un'ambulanza, è un esperienza sicuramente da evitare. Data per scontata, quindi, di reperire un accesso venoso rimane da decidere se incanalare una vena periferica o piuttosto una vena ombelicale. Accesso venoso periferico: Andrebbe limitato a casi meno critici (somministrare solo soluzioni glucosate 5-10%); si preferiscono utilizzare i vasi della piega del gomito o sulla mano che opportunamente fissati possono essere stabili durante il trasporto. Accesso venoso centrale (vena ombelicale): permette l’infusione di grosse portate e di soluzioni ipertoniche, va reperita in condizioni di assoluta sterilità utilizzando il kit chirurgico per ombelicale in dotazione nel borsone TNE. RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 173 Analgo-sedazione Il controllo del dolore e dello stress nel neonato è stato ampiamente sottostimato fino a venti anni fa. Oggi è invece accertato che non solo il neonato percepisce il dolore giacché possiede tutte le componenti anatomiche e funzionali necessarie per la percezione degli stimoli dolorosi fin dalla nascita, ma ha anche memoria delle esperienze dolorose. Il dolore ha poi delle conseguenze: il rilascio di amminoacidi eccitatori e l’aumento della pressione arteriosa sono fattori di rischio di danno celebrale, comportando una maggiore incidenza di emorragie intraventricolari e di leucomalacia periventricolare. I farmaci sicuramente i più efficaci rimane gli oppioidi (Fentanil) e le benzodiazepine (Midazolam). Il nostro problema (organizzativo e normativo) maggiore durante il trasferimento di un neonato è legato al trasporto e all’uso degli oppioidi al di fuori della struttura ospedaliera, per cui la pratica dell’analgo-sedazione finisce per essere trascurata. Neonato stabilizzato Il neonato stabilizzato presenta, quindi: - Ventilazione adeguata; - Cute e mucose rosee; - FC tra 120-160 b/m; - TC ascellare di 36, 5-37° C; - Problemi metabolici corretti; - Problematiche particolari affrontate. Altre incombenze 1) Cartella clinica Prima della partenza dal Centro Trasferente vanno raccolte, su un' apposita cartella clinica di trasferimento, le varie anamnesi (familiare, materna, ostetrica, e perinatale), i radiogrammi e gli esami di laboratorio disponibili ; inoltre, è sempre utile prelevare un campione di sangue materno. 2) Counselling Prima di partire dal Centro nascita è nostro compito informare adeguatamente i genitori del piccolo paziente, in maniera sintetica ma chiara, sui suoi problemi, sull’assistenza effettuata e sul centro dove sarà ricoverato.Le abilità tecniche nella gestione della patologia del trasporto neonatale non possono prescindere da una considerazione essenziale: il nostro incontro nell’emergenza del trasporto non è tra il team e una qualsiasi delle patologie descritte (RDS, sepsi, ecc.). Noi non trasportiamo “patologie” bensì tanti “Francesco, Maria, Luca ecc…”, piccoli esseri che sono venuti al mondo circondati dai loro familiari, quindi da un' infinità di diverse ansie, aspettative, desideri, contesti socio-culturali. L’intervento medicoinfermieristico dovrà essere rispettoso prioritariamente della vita del neonato, ma non può prescindere dalla sua famiglia. Assistenza del neonato durante il trasporto Durante il trasferimento bisogna controllare continuamente le condizioni del neonato valutandone la FC, la FR, il colorito cutaneo, la temperatura e l’ossigenazione. Ogni manovra d'assistenza complessa deve essere effettuata ad ambulanza ferma. Inoltre anche durante il trasporto vanno ridotte al minimo le perdite di calore. La temperatura del vano sanitario dell’autoambulanza dovrà essere mantenuta fra 2024° C. Per tenere sotto stretto controllo la velocità d’infusione, e quindi la quantità di liquidi da infondere, viene utilizzata una pompa a siringa funzionante a rete e a batteria. Giunti al centro TIN ricevente il piccolo é affidato alle cure del personale con relativa documentazione del caso inclusa una copia della cartella clinica del trasporto, correttamente compilata in ogni sua parte. Conclusioni Il TNE è ormai da dodici anni una realtà ben radicata nella regione Campania.E’ un' attività molto complessa che comprende non solo la gestione e il trasporto di neonati gravi, se non critici, ma anche l’ interazione con diversi operatori sanitari (medici e personale infermieristico del centro nascita e del RELAZIONI 174 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA centro accogliente)e con i familiari del piccolo paziente. E’ necessario pertanto un team esperto e affiatato che disponga di attrezzature moderne e idonee per ottimizzare il prezioso lavoro eseguito. Bibliografia 1. Vademecum del trasporto neonatale d’emergenza III Edizione di L. Falco a cura di M. Panico, 2008. 2. “American Accademy of Pediatrix: Textbook of Neonatal Resuscitation” Ed 4 Elk Grove Village, Ill, American Accademy of Pediatrics, 2001. 3. “Assistenza Infermieristica in patologia e terapia intensiva neonatale” di C.Poggi Clivio, Professore Giovanni Serra ed. CSH Srl. 1999. RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 175 LE INFEZIONI DELLE VIE URINARIE: METODI DI RACCOLTA DELLE URINE M.C. Regia Corte U.O. Pediatria-Nido Osp. S. Pio da Pietralcina Vasto (Ch) L’interesse per le infezioni delle vie urinarie (IVU), è legato alla loro morbilità e all’enorme impatto economico-sanitario ad esse relativo. Le vie urinarie, ad eccezione dell’ultimo tratto dell’uretra, sono sterili. I pazienti con IVU presentano in genere una batteriuria pari o superiore a 105 unità formanti colonie (UFC)/ml (batteriuria significativa), mentre una carica inferiore a 104 UFC/ml in pazienti asintomatici indica l’assenza di infezione (batteriuria non significativa) o una contaminazione. Il concetto di batteriuria deve essere comunque interpretato in relazione al quadro clinico e a tutti i possibili fattori interferenti sulla diagnosi microbiologica, primo fra tutti la modalità di raccolta delle urine, il contenitore impiegato per la raccolta, il tempo trascorso tra il prelievo e l’esame, l’entità della diuresi, il pH urinario, la recente assunzione di farmaci antibatterici ed infine una elevata leucocituria, con numerosi batteri che sfuggono al conteggio in quanto adesi alla superficie dei globuli bianchi. La batteriuria può associarsi a sintomi indicativi di un’IVU o essere del tutto asintomatica. Un’accurata anamnesi infermieristica consentirà di conoscere perfettamente le condizioni cliniche del bambino e i motivi dell’esecuzione del prelievo delle urine. Si potrà cosi evitare il posizionamento del catetere vescicale nel paziente pediatrico con fratture di bacino documentate o supposte, in quanto tale manovra potrebbe aumentare le possibilità di complicanze quali danni ad organi interni o le cosiddette “false strade”. In questi casi il cateterismo avverrà in presenza di un medico specialista (urologo). Prima di iniziare qualsiasi manovra i genitori vanno educati ed informati dettagliatamente sulla procedura che si intende attuare e se il bambino è cosciente e in grado di capire bisogna informarlo del procedimento e degli scopi di tale manovra. I metodi di raccolta delle urine per eseguire una urinocoltura variano in base all’età del bambino e alla sua capacità di controllare la minzione. - Raccolta tramite mitto intermedio; - Raccolta tramite sacchetto autoadesivo; - Raccolta tramite cateterismo; - Puntura sovrapubica. Per avere risultati attendibili, la raccolta delle urine mediante BARATTOLO, è importante che venga eseguita nel modo più corretto possibile, e, come nella nostra esperienza, facendo una attenta formazione e informazione completa ed esaustiva al bambino e ai genitori, anche con brochure scritta. Se si è da soli o si hanno delle difficoltà a procedere con il metodo classico, è possibile raccogliere le urine con il SACCHETTO AUTOADESIVO (questa modalità, anche se eseguita scrupolosamente, può dare dei risultati dubbi, per cui può essere talora necessario ripetere l'esame). I CATETERI VESCICALI utilizzati nei pazienti pediatrici sono di materiale al 100% silicone definiti come categoria di cateteri molli. Su ogni catetere vescicale sono stampati due numeri, il primo corrisponde al diametro esterno espresso in CHARRIER (CH) o in FRENCH (F) che equivale a 1/3 mm. Nel paziente pediatrico vengono utilizzati C.V. con diametro variabile da CH 8 - CH 10 - CH 12.Il secondo numero corrisponde alla quantità minima/ massima contenibile nel palloncino d’ancoraggio del C.V. in numero è espresso in ml. CH 8 - 3 ml; CH 10 - 3/5 ml; CH 12 - 5/10 ml I cateteri vescicali di misura CH 8 e CH 10 sono dotati di guida semirigida plastificata definito mandrino che aiuta il posizionamento del catetere molle pediatrico, il quale deve essere necessariamente sfilato dopo la valutazione di una corretta introduzione. Poiché la raccolta tramite cateterismo è considerata manovra invasiva, l’infermiere deve possedere abilità manuale e capacità tecnica. La raccolta del campione rappresenta un momento critico nella diagnosi perchè numerosi fattori quali RELAZIONI 176 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA una cattiva pulizia, tempi lunghi di raccolta, inadeguata conservazione prima della semina possono comportare una diagnosi scorretta di IVU. L’utilizzo del sacchetto per la raccolta delle urine comporta un rischio di inquinamento molto alto se si pensa che soggetti senza IVU a cui è stata raccolto un campione urine mediante sacchetto presentavano una percentuale di falsi positivi del 10%. E’ quindi preferibile per ridurre il rischio di falsi positivi eseguire due raccolte consecutive e, quando possibile, raccogliere le urine, anche nel bambino piccolo, mediante barattolo. La raccolta del campione nel bambino piccolo mediante catetere o puntura sovrapubica riduce notevolmente il rischio di inquinamento del campione ma trova delle resistenze sia nel personale medico e paramedico che nei genitori dei pazienti vista l’invasività della manovra. RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 177 LO SCREENING UDITIVO IN TIN A.Filippelli, A. Coccia A.O.R.N. “San Sebastiano e Sant’Anna” di Caserta Obiettivo Studi recenti hanno evidenziato che lo screeening uditivo neonatale rappresenta il migliore metodo per la diagnosi precoce di ipoacusia infantile. Ciò garantirà un trattamento riabilitativo entro il sesto mese di vita e avrà influenze positive sulle competenze uditive, sul linguaggio, sul futuro inserimento sociale e scolastico del bambino. Ad oggi i mezzi a disposizione in epoca neonatale per ridurre al minimo l’incidenza di deficit dell’udito sono la prevenzione primaria e secondaria. Le procedure elettrofisiologiche attualmente più utilizzate per lo screening uditivo dei neonatio sono: - le TEOAE (Transient Evoked Otoacoustic Emissions) - l’ ABR (Auditory Brainstem Responses) Metodi e materiali Attualmente per l’esecuzione dello screening neonatale sono raccomandati test di valutazione fisiologica della funzione uditiva periferica che utilizzano le otoemissioni acustiche. La registrazione avviene nelle prime 48-72 ore di vita. In caso di primo test positivo (REFER), l’indagine viene ripetuta prima della dimissione e, se necessario, in base a considerazioni cliniche, viene effettuato anche un terzo controllo a distanza di 10 -15 giorni. I soggetti che passano il test (PASS) sono dimessi senza programmi di ulteriori controlli presso il punto di nascita. I genitori sono tuttavia informati con documentazione scritta al momento della dimissione che la presenza di un esame otoacustico negativo non esclude il possibile rischio futuro di ipoacusia di tipo neurosensoriale. Tutti i pazienti screenati vengono segnalati, con apposita scheda, alla struttura di audiologia per programmare l’esecuzione di una visita specialistica all’età di 8-9 mesi. I neonati che sono confermati come “REFER” eseguono, dopo il 2° mese di vita, il controllo degli ABR presso la sezione di Audiologia della Centro di Riferimento Regionale. Risultati In Regione Campania negli anni 2006-2008 l’incidenza di sordità è stata di 33/42116 neonati testati = 0.08 x 100. Tali neonati sono stati protesizzati entro il 6-7 mese di vita in modo da intervenire rapidamente per migliorare la prognosi a distanza. I reparti di Terapia Intensiva Neonatale (TIN) in Campania coinvolti nel progetto dello screening sono 18, avendo un ruolo rilevante in quanto tra i neonati ricoverati in TIN la frequenza di ipoacusia è circa 10 volte più frequente rispetto ad altri neonati (si passa ad una incidenza di 1 ogni 1000 nati e circa 1 ogni 100 nati). Problematiche Alcune TIN inviano i propri nati con fattori di rischio per la sordità (peso nascita < 1500g, ventilazione assistita, sepsi, familiarità per ipoacusia, uso di farmaci ototossici, infezioni connattali, iperbilirubinemia, sindromi malformative) presso strutture per una conferma della diagnosi, le quali purtroppo non comunicano l’esito del test ABR nè inviano i bambini, per i quali l’esito di tale test fosse dubbio, al Centro di Riferimento Regionale. RELAZIONI 178 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA PROFILO ASSISTENZIALE DEL NEONATO SANO. LA RIORGANIZZAZIONE DEL PERCORSO NASCITA VERSO L’UMANIZZAZIONE DELL’ASSISTENZA: L’ESPERIENZA DEL DIPARTIMENTO MATERNO INFANTILE DELLA AUSL 3 PISTOIA D. Ammazzini Responsabile Aziendale Implementazione Modelli e Percorsi Assistenziali - AUSL 3 PISTOIA Background Tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70 il parto è stato fortemente caratterizzato da una massiccia medicalizzazione che ha condotto le donne a partorire in ospedale. Parallelamente a questa corrente nacquero i primi gruppi femminili che rivendicavano: maggior controllo sulla loro esperienza della nascita, continuità dell’assistenza e libera scelta su dove, come e con chi partorire. Contemporaneamente medici ed ostetriche, consapevoli degli effetti nocivi iatrogeni dell’uso sistematico delle procedure tecnologiche invasive, si attivarono per riportare la donna ed il bambino al centro della loro assistenza, considerando prioritario il principio etico della medicina “…Non nuocere..” (Ippocrate), fu così che fu avviato il processo di umanizzazione dell’evento nascita. Negli anni ’80 anche l’Evidence Based Medicine (Cochrane Data Base) sottolineò l’importanza del modello dell’assistenza appropriata, riportando il care sulla donna e sul bimbo. L'approccio alternativo, di supporto e sostegno, considera infatti la gravidanza ed il parto eventi naturali; si parte dall'assunzione che la donna è competente e adeguata e viene coinvolta nelle decisioni. L'assistenza dell'ostetrica è sufficiente a promuovere la fisiologia e a seguire in autonomia gravidanze e parti normali, mentre il medico specialista interviene nella gestione del rischio, secondo le modalità consolidate dall'evidenza scientifica. Anche il Changing Childbirth (Commissione Governativa del Ministero della Sanità Inglese) nel 1992 affermava che l’assistenza all’evento nascita doveva attivarsi ed offrire sostegno tramite la scelta informata, il controllo, la cura centrata sulla donna e sul bambino e la continuità dell’assistenza e quindi lo stabilirsi fra donne e professionisti di una efficace relazione d’aiuto e di fiducia nel tempo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1996 ribadì l’aspetto fisiologico della nascita affermando che: "Il fine di una moderna assistenza perinatale è quello di ottenere una mamma ed un bambino in perfetta salute con il livello di cure più basso compatibile con la sicurezza". In Italia, la necessità di sviluppare un approccio umanizzato al Percorso Nascita è stata riconosciuta, a livello istituzionale e normativo, attraverso il Progetto Obiettivo Materno Infantile (P.O.M.I.) previsto dal DM 24 aprile 2000. La Regione Toscana ha recepito il progetto dedicando particolare attenzione nei Piani Sanitari Regionali ai temi della sicurezza, del rispetto della fisiologia e della continuità assistenziale attraverso i Punti Nascita. Il Piano Sanitario Regionale 2008/2010 ribadisce l’importanza di garantire alti livelli qualitativi delle prestazioni erogate attraverso percorsi assistenziali omogenei e condivisi tra ospedale e territorio. La revisione del percorso nascita però è una necessità correlata anche ai cambiamenti che ci sono stati all’interno dei vari gruppi professionali, vedi ad esempio la formazione universitaria e ed il Profilo Professionale degli Infermieri ed Ostetriche che definiscono nuovi ruoli e nuovi approcci assistenziali mirati alla personalizzazione delle prestazioni erogate. Inoltre nel tempo anche la domanda di assistenza e le aspettative degli utenti sono modificate, è diventata sempre più pressante la richiesta di prestazioni personalizzate e la completezza delle informazioni relative al programma terapeutico ed assistenziale, delle possibili alternative e dei risultati ottenibili. Obiettivi specifici del progetto Il progetto della nuova organizzazione del Percorso Nascita della AUSL 3 di Pistoia si colloca all’interno del nuovo scenario sanitario con l’intento di rispondere ai vari bisogni emergenti, ottimizzando la risposta RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 179 assistenziale e l’organizzazione del lavoro. Gli obiettivi individuati prevedono: l’adozione di un modello assistenziale che assicuri la presa in carico della triade mamma, neonato, padre, attraverso l’integrazione dei professionisti che intervengono nel percorso garantendo la continuità assistenziale nelle fasi della gravidanza-parto-puerperio, l’uso di strumenti informativi, condivisi da tutti i professionisti, che garantiscono un flusso delle informazioni appropriato al fine di assicurare la correttezza delle decisioni di cura ed assistenza. Materiali e metodi Modelli e Percorsi Il modello assistenziale attuale pone il consultorio come punto di riferimento del Percorso Nascita, l'intera équipe accompagna la donna durante le fasi della gravidanza e del puerperio, sostenendola fisicamente ed emotivamente. Presso il consultorio è stato istituito l’ambulatorio della gravidanza fisiologica dove la donna può essere seguita esclusivamente dall’ostetrica. Intorno al settimo mese di gestazione la donna può partecipare gratuitamente e su prenotazione, ad un corso di educazione alla nascita organizzato dalle ostetriche del consultorio o dei punti nascita che prevede dodici incontri: tale corso prepara fisicamente e psicologicamente la donna all’evento nascita, fornisce preziose informazioni che vanno dall'alimentazione all'allattamento ed a tutto ciò che concerne la cura del bambino. Ogni donna può visitare il punto nascita con il proprio partner, attraverso un incontro programmato durante il quale il personale del reparto illustra la struttura, i servizi erogati e la modalità di presa in carico durante il ricovero. L’innovazione del Percorso Nascita è relativa al progetto della nuova organizzazione dell’assistenza ospedaliera che prevede l’implementazione del modello della Midwifery Care e Primary Nursing: l’Ostetrica e l’Infermiere di Riferimento. Questo modello garantisce la presa in carico della mamma e neonato da parte dell’Ostetrica e dell’Infermiera, che diventano per loro di Riferimento e sono responsabili di tutta l’assistenza programmata, dei risultati raggiunti, ed anche per la programmazione della continuità assistenziale alla dimissione. L’Ostetrica e l’Infermiera di Riferimento elaborano il programma assistenziale per garantire lo sviluppo dell’autonomia della mamma nella cura del proprio bambino attraverso una stretta collaborazione ed integrazione sul percorso. L’Ostetrica di Riferimento si prende carico della donna, se possibile già dalla fase del parto nel caso questo avvenga di mattino o di pomeriggio, mentre per le donne che partoriscono di notte l’ostetrica di riferimento è la collega che entra in servizio la mattina successiva (questa modalità garantisce una maggiore presenza dell’ostetrica di riferimento durante il ricovero). L’Infermiera di riferimento invece si prende carico del bambino, infatti nel Punto Nascita sono state inserite le Infermiere che fino ad ora lavorano nella Nursery, struttura fisicamente distaccata dalle stanze di degenza delle mamme. Con la riorganizzazione sono state apportate modifiche architettoniche e logistiche, i neonati con le proprie culle sono stati trasferiti definitivamente all’interno delle stanze di degenza delle mamme. In questo modo si è voluto intensificare il già avviato Rooming in, in quanto viene garantita la possibilità alla neo mamma di tenere il bimbo nella propria stanza 24 ore su 24 e occuparsi fin da subito dei suoi bisogni e necessità, ovviamente nel caso la mamma lo desideri può affidare il neonato alle cure del personale per il tempo che lei ritiene opportuno. E’ stata modificata anche la modalità della visita pediatrica per i neonati, infatti ogni mattina il Pediatria, dopo il briefing tenuto con l’Infermiera e l’Ostetrica di Riferimento, si reca con loro al letto della mamma ed in sua presenza controlla il neonato, garantendole così la completezza delle informazioni ed il massimo coinvolgimento e condivisione nelle scelte del percorso personale. La nuova organizzazione permette inoltre di sviluppare ulteriormente alcuni programmi assistenziali già esistenti come ad esempio: il “ contatto pelle-pelle” e “allattamento al seno”. RELAZIONI 180 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA Il “contatto pelle -pelle” prevede che la mamma appena dopo il parto possa accogliere il suo bambino, prenderlo in braccio e portarlo a se, verso il suo corpo nudo. Il bambino viene così scaldato, nutrito e coccolato dalla pelle, dal corpo e dalla voce della madre. Fisiologicamente è ciò che il bambino si aspetta di ricevere: essere accolto, protetto, contenuto, (nutrito a livello sensoriale), così da rispettare la legge del continuum (delle aspettative genetiche). Questo è utile poi per proseguire nel periodo successivo al parto con l’assistenza ostetrica ed infermieristica rivolta alla promozione dell’allattamento al seno. L’Ostetrica e l’Infermiera di Riferimento infatti impostano insieme un programma di informazione, educazione personalizzato alla mamma e neonato che prevede la spiegazione dei vantaggi dell’allattamento materno, le modalità relative alla postura, al contatto con il proprio bambino, il rispetto dell’ambiente confortevole, ecc.. 1 Ai fini della dimissione l’Infermiera e l’Ostetrica di Riferimento verificano con la mamma quali sono stati i risultati raggiunti e la mamma viene informata sull’opportunità di ricevere l’assistenza ostetrica puerperale anche al proprio domicilio. Nel caso la donna sia favorevole l’Ostetrica attiva, attraverso una richiesta via fax, la continuità assistenziale per il puerperio alle colleghe del consultorio. Il percorso assistenziale nel puerperio prevede una visita a domicilio dell’ostetrica che valuta il bisogno della mamma e neonato, elabora un programma assistenziale, garantisce la consulenza telefonica, propone il corso dopo-parto per sviluppare ulteriormente le competenze della mamma nel prendersi cura del proprio bambino. Da qualche anno nel percorso nascita si pone molta attenzione alle problematiche delle donne straniere, relative a difficoltà inerenti la comunicazione e la cultura del paese di provenienza. In risposta alle esigenze specifiche sono state individuate un gruppo di mediatrici linguistico-culturali che sostengono e lavorano con il personale ostetrico, infermieristico e le mamme al fine di garantire una socializzazione ed integrazione che superi le difficoltà legate alla non conoscenza della lingua e cultura di appartenenza di ogni donna. Strumenti Informativi Il progetto della riorganizzazione del ricovero ospedaliero nel Punto Nascita prevede l’adozione di nuovi strumenti informativi che garantiscono la tracciabilità del percorso progettato e realizzato alla mamma ed al neonato. L’obiettivo è quello di elaborare ed adottare la cartella clinica integrata (C.C.I.) della mamma e del neonato, che contenga tutta la documentazione medica ed assistenziale ostetrica ed infermieristica. La C.C.I. è uno strumento di lavoro uniforme che tiene conto comunque delle specificità proprie dei vari professionisti che intervengono e che apportano il proprio contributo nel Percorso Nascita. In particolare la documentazione assistenziale infermieristica ed ostetrica prevede: la scheda per l’accertamento generale della mamma e del neonato, che ha lo scopo di definire le condizioni generali, le eventuali alterazioni fisiologiche, e le competenze possedute dalla donna per gestire con serenità e consapevolezza l’evento nascita e la cura del proprio bambino, lo schema del programma assistenziale, contenente l’individuazione del bisogno assistenziale, gli aspetti da considerare, i risultati attesi, gli interventi programmati e realizzati, la verifica finale del risultato ottenuto. Questo schema permette di tracciare e documentare tutto il percorso progettato e le effettive prestazioni erogate in base al bisogno identificato. Questa modalità apporta valore aggiunto ai fini della valutazione della qualità dell’assistenza erogata, infatti nei precedenti documenti queste informazioni non venivano trascritte in modo strutturato, con la conseguente difficoltà nel rilevare i risultati di salute, relativi all’assistenza ostetrica ed infermieristica, raggiunti dalla mamma e dal neonato, la scheda della dimissione ospedaliera della coppia madre-bambino, che dovrà contenere (attualmente non ancora definita) tutte le informazioni necessarie ai colleghi del consultorio ed agli altri professionisti che si prenderanno carico della mamma e del neonato e che dovranno assicurare la continuità assistenziale. RELAZIONI SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA 181 Strategie progettuali Una volta elaborato il progetto, abbiamo ritenuto indispensabile individuare le giuste strategie che potevano garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti. I principi che ci hanno guidato e che abbiamo ritenuto essere vincenti sono stati: 1.la condivisione di tutto il progetto (obiettivi, interventi, strategie, risultati attesi, vantaggi, svantaggi, vincoli, ecc.) con tutto il personale interessato al cambiamento, 2.il coinvolgimento nell’elaborazione della documentazione assistenziale delle Ostetriche ed Infermiere che lavorano insieme nel Punto Nascita, nella Pediatria e nella Patologia Neonatale. Una volta definiti i principi di riferimento ritenuti le pietre miliari per la gestione delle attività progettuali, abbiamo individuato tre modalità di intervento: 1.corso “Nuova Assistenza Percorso Nascita” rivolto a tutte le Coordinatrici, Infermiere, Ostetriche ed O.S.S. dell’Area Materno Infantile (130 operatori). Il corso, organizzato come evento formativo, è stato strutturato in cinque giornate di quattro ore ciascuna, durante le quali è stato presentato il progetto e ribaditi alcuni contenuti ritenuti importanti per guidare il cambiamento, quali: l’evoluzione dell’assistenza alla triade madre-bambino-padre, lo sviluppo della professione ostetrica ed infermieristica, nuovi modelli assistenziali: il Primary Nursing e Midwifery Care e le innovazioni del processo organizzativo assistenziale previste; 2.laboratori per l’elaborazione della documentazione assistenziale. Sono stati creati tre gruppi di lavoro, costituiti da Infermiere ed Ostetriche che attualmente stanno lavorando insieme per definire le schede sopra descritte. Gli incontri programmati sono dieci per un totale di trenta ore. Gli operatori hanno fatto una ricerca bibliografica, si sono confrontati con altri colleghi di altre strutture esterne alla nostra AUSL, al fine di raccogliere strumenti descritti in letteratura e/o utilizzati in altri Punti Nascita; 3.laboratori per ridisegnare l’organizzazione dell’assistenza ospedaliera del Percorso Nascita. Anche per questa attività sono previsti dieci incontri, e i partecipanti ai gruppi di lavoro saranno gli stessi colleghi che attualmente stanno elaborando la documentazione assistenziale, questo poiché essi hanno acquisito ed interiorizzato i contenuti teorici del nuovo modello, e riteniamo pertanto che la loro competenza possa facilitare il proseguimento dei lavori, ottimizzando tempi e risorse impiegate. Risultati Il cammino verso il cambiamento non è ancora terminato, sono state comunque realizzate alcune attività previste dal progetto: la condivisione del cambiamento in atto e del nuovo modello da implementare, la ristrutturazione architettonica del nuovo reparto, l’integrazione del personale, infatti le Infermiere del Nido sono state inserite definitivamente nell’organico dell’Ostetricia. Sono in corso i laboratori per definire la cartella Clinica Integrata e le nuove modalità organizzative, che prevediamo si concludano per la fine dell’anno. La fase finale del progetto prevede la sperimentazione del nuovo modello per un periodo di sei mesi, la valutazione dei risultati raggiunti ed implementazione a regime. Il progetto sarà valutato attraverso indicatori di processo ed esito, rivolti a rilevare: il numero di casi presi in carico in ospedale dalle Infermiere ed Ostetriche di Riferimento il numero di casi segnalati al consultorio con la dimissione correttamente documentata il livello di competenza in autocura raggiunto dalle mamme dimesse gli atteggiamenti e la soddisfazione del personale relativamente al miglioramento dell’assistenza il gradimento dell’assistenza percepito dalle mamme. Conclusioni Il modello che implementiamo nel Dipartimento Materno Infantile ha la potenzialità di sviluppare la competenza infermieristica ed ostetrica, di migliorare la relazione interpersonale infermiere-ostetrica assistito, ma anche quella interprofessionale. In letteratura, ad oggi non ci sono certezze scientifiche che dimostrino quale modello assistenziale sia RELAZIONI 182 SECONDA SESSIONE INFERMIERISTICA più efficace in base ai costi sostenuti ed i benefici ottenuti in termini di soddisfazione del personale, esiti di salute delle mamme e neonati, ecc. Pertanto al termine della fase sperimentale del progetto dovremo realizzare i necessari studi di approfondimento. Bibliografia 1. D’Innocenzo M., “Nuovi Modelli organizzativi per l’assistenza infermieristica” Centro Scientifico Editore Torino 2002 2. Patrizia Di Giacomo, Luisa Anna Rigon “Assistenza infermieristica e ostetrica in area materno-infantile” Casa Editrice Ambrosiana, Milano 2002 3. Placenti F., P. Giacomuzzi “L’immagine degli Infermieri: investire sul gruppo più che sulle procedure” in Nursing Oggi, N. 2, 2005 p. 14 4. Terranova G, Cortesi E, Briani S, Giannini R. Analisi di qualità della cartella clinica come strumento del risk management. Ig San Pubbl, 2006; 4(62): 371-85 5. Zanotti R. Uso ottimale delle risorse. Infermiere ed OTAA nella nuova organizzazione dell’assistnza. Padova, Edizioni SUMMA, 2003 6. Barelli P., Pallaoro G., Perli S., Strimmer S., Zattoni M.L., “Modelli di organizzazione dell’assistenza: sono efficaci?”, 2006, 25, 1, 37-38 7. Zanotti R. “”Modelli Organizzativi dell’assistenza centrati sulla persona per il contesto italiano”, Mondo Infermieristico, 2004, 1, 2-6 8. Piano Sanitario Regione Toscana 2005/07 e 2008/10 9. Agenzia Sanitaria Regione Emilia Romagna “Il Profilo assistenziale neonato sano” Dossier 137/2006 http://asr.regione.emilia-romagna.it/wcm/asr/collanadossier/doss 137.htm (8 ottobre 2008) 10. Marco Rotondi “Facilitare l’apprendere. Modi e percorsi per una formazione di qualità” Franco Angeli 2000 11. Bury B. Staffing maternity wards: Where are the new posts? BMJ. 2007 Nov 10;335(7627):953. 12. P. Maghella - S. Venuti “Formazione ed integrazione per l’umanizzazione del percorso nascita” http://www.mipaonline.com/rubriche/parto/Formazione%20ed%20integrazione%20degli%20operatori.pdf (10 ottobre 2008) 13. Marzia Basso - “Procedure assistenziali al neonato sano” http://www.marsupioscuola.it/ostetrica_informa/modules.php?name=News&file=article&sid=6 (16 ottobre 2008) XII PREMIO DI STUDIO CITTÀ DI AVERSA - OSPEDALE REAL CASA SANTA DELL’ANNUNZIATA SAN G. MOSCATI Gianni Bona assegna il Premio Città di Aversa PREMI 184 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA GRUPPO NORMANNO DI NEFROUROLOGIA NEONATALE E PEDIATRICA È un gruppo di studio apolitico, senza scopi di lucro, che intende perseguire i seguenti scopi: - promuovere e favorire lo studio, la diagnosi, le cure e la prevenzione nel campo della nefrourologia pediatrica e neonatale, sin dal periodo prenatale; - favorire lo sviluppo, la standardizzazione e la valutazione delle metodologie di ricerca e di applicazione clinica in nefrourologia neonatale e pediatrica; - promuovere un'attiva collaborazione scientifica, didattica, organizzativa ed assistenziale con operatori ospedalieri, extraospedalieri ed universitari, con gruppi e società italiane e straniere ed in particolare con altre società o gruppi operanti nel campo neonatale e pediatrico, favorendo anche la formazione scientifica di giovani ricercatori, stabilendo, in particolare, stretta collaborazione con il Gruppo di Studio di Nefrologia Neonatale della Società Italiana di Neonatologia e con la Società Italiana di Chirurgia ed Urologia Pediatrica; - promuovere e favorire la diffusione di conoscenze e l'insegnamento nel campo della nefrourologia neonatale e pediatrica attraverso riunioni di gruppo, convegni e corsi di aggiornamento in sede e fuori sede. Favorire iniziative rivolte alla prevenzione delle malattie nefrourologiche (dando maggiore impulso alla medicina perinatale); - promuovere una più accurata preparazione dei medici del gruppo e soprattutto stimolare la già attiva e valida "taskforce" Normanna ad operare con una preparazione sempre più qualificata; - assegnare borse di studio a giovani medici, a giovani specialisti ed a studenti delle scuole superiori che si affacciano al mondo universitario, affinché la conoscenza del problema possa essere uno stimolo ad impegnarsi in tali studi; - favorire con incontri regionali e nazionali la conoscenza del territorio aversano e delle sue peculiarità artistiche, gastronomiche, culturali e sociali. Far conoscere ad un agro di circa mezzo milione di abitanti che gli operatori ospedalieri sono stati sempre impegnati attivamente e con pochi mezzi a loro disposione nella ricerca clinica, nello studio e nel progresso; - promuovere gemellaggi culturali con ospedali ed istituzioni universitarie italiane e straniere allo scopo di favorire contatti professionali ed interscambi per una migliore reciproca preparazione e qualificazione. PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 185 CONSIGLIO DIRETTIVO Presidente Salvatore VENDEMMIA Presidente onorario Robert CHEVALIER(USA) Vice Presidente Sergio CERRATO Vice Presidente onorario Alberto G.UGAZIO (Roma) Tesoriere: Carlo CIOFFI Consiglieri onorari Fiorina CASALE (Napoli) Luigi CATALDI (Roma) Vincenzo Pio COMUNE (Giugliano - Na) Rosanna COPPO (Torino) Roberto DELGADO (Napoli) Alberto EDEFONTI (Milano) Vassilios FANOS(Cagliari) Mario LIMA(Bologna Antonio MARTE (Napoli) Luciano MUSI (Vicenza) Carmine PECORARO (Napoli) Antonio SAVANELLI (Napoli) Alessandro SETTIMI (Napoli) Umberto SIMEONI (Marsiglia) Consiglieri Gennaro GOLIA Maria VENDEMMIA Nicola VENDEMMIA Revisori dei Conti Andrea COLELLA Raffaele COPPOLA Franca PICCOLO Consulenti legali onorari Nicola CANTONE (Aversa) Francesco VENDEMMIA (Napoli) Segretario Generale Maria Pia CAPASSO Sede 81031 AVERSA - Piazzetta Madonna di Casaluce, 239 Tel. 081 890 14 94 (ore 16-18) Codice Fiscale: 90008920614 Coordinate bancarie italiane E 01030 74790 5129-09 europee IT92 R 01030 74790 512909 Consulenza Fiscale Amministrativa C/o Studio Commercialisti “Guida & Pezone” Via Salvo D’acquisto, 117 - 81031 Aversa Tel. 081/5044999 PREMI 186 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA Accuracy of oximetry in diagnosis of childhood Obstructive Sleep Apnea Syndrome (OSAS) M.G. Paglietti1, M. Pavone1, A. Petrone1, E. Verrillo1, M. Cuttini2, V. Di Ciommo2, R. Cutrera1 1 2 Respiratory Unit, Department of Pediatrics, Bambino Gesù Children’s Hospital Rome Unit of Epidemiology, Bambino Gesù Children’s Hospital Rome Keywords Sleep, apnea, children, oximetry, polysomnography, accuracy Running title Oxymetry in diagnosis of sleep apnea Summary A total of 167 children and adolescents were investigated for Obstructive Sleep Apnea Syndrome (OSAS) to define diagnostic accuracy of pulse oximetry in children. Patients were investigated with polysomnography (PSG) too, which was considered the gold standard; patients with a Mixed Obstructive Apnea Hypopnea Index (MOAHI) ≥ 1 were considered affected. When positivity criterion for pulse-oximetry was set at Obstructive Desaturation Index (ODI) ≥ 3, sensitivity was 74% (95% CL 64.5 - 82.1) and specificity was 55.6% (95% CL 42.5 - 68.1). The positive likelihood ratio was 1.7, corresponding to a modest increase of disease probability from pre-test value of 62.3% to post-test of 73.8%. Physician’s evaluation of the oxygen saturation showed 28.8% positive patients (all affected, no false positive) and 46.1% negative (38 affected); results were inconclusive in 35.9% of patients (36 affected). If these patients were considered test-negative, sensitivity was 28.8% (95% CL 20.4 - 38.6) and specificity 100%. Restricting analysis to 116 patients without overt disease at presentation or to patients with adenotonsillar hypertrophy, accuracy of oxymetry did not substantially change. Pulse-oximetry interpreted by a sleep laboratory physician can be a useful screening test in children with suspected OSAS; patients with definitely positive pulse-oxymetry recordings (28.8% of the affected children) can be confidently excluded from further assessment through PSG. Introduction Obstructive sleep apnea syndrome (OSAS) in children is defined by the American Thoracic Society as “a disorder of breathing during sleep characterized by prolonged partial upper airway obstruction and/or intermittent complete obstruction (obstructive apnea) that disrupts normal ventilation during sleep and normal sleep patterns” (1). OSAS is common in children, affecting 2.2 - 13% of children (2-5). OSAS symptoms include habitual snoring, restless sleep, mouth breathing when awake, periods of observed apnea (6). At wake time patients can often refer irritability, confusion, oral dryness; in daytime they can show attention deficit and scholar impairment (7, 8). Long-term sequelae of OSAS include behaviour disturbances, hypertension and growth abnormalities (8, 9); in appropriate patients an effective treatment, adenotonsillectomy, can be advised (10 - 12). Polysomnography (PSG) is considered the reference test to investigate sleep disordered breathing (10, 13, 14), allowing simultaneously neurological and cardio-respiratory parameters monitoring. This exam is intrusive, expensive and not widely available. Therefore, some sleep laboratories investigated the utility of pulse oximetry, a low cost, non invasive, easy to practice diagnostic device for diagnosing OSAS, but their results are discordant (11-14); criteria for a physician’s interpretation of oximetry graphs have been introduced by Brouillette, comparing pulse oximetry to PSG in children and adolescents (15). PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 187 Aim of our study was to determine the accuracy of nocturnal pulse oximetry for the diagnosis of OSAS in our clinical context. We investigated the possibility of improving the interpretation of nocturnal pulse oximetry, combining trend and event graphic interpretation with ODI. Methods We performed a cross-sectional study of 167 consecutive children referred to the Department of Pediatrics, Division of Lung Diseases, Sleep Laboratory of Bambino Gesù Children’s Hospital from January 2003 to December 2004 with suspected OSA for a history of sleep disturbances (snoring, night sweating, nocturnal oral breathing, apnea referred by parents). Instruments and technique Pulse oximetry and PSG were performed on each patient: on the first night pulse oximetry was performed, and PSG on the following night; both exams were performed during hospital stay. All subjects underwent monitoring in a dark room. No sedation or sleep deprivation was used. One parent stayed with his/her child throughout the night. Pulse oximetry A portable pulse - oxymeter NONIN 8500 M (Nonin Medical, Inc; Plymouth Minnesota) was used, which measures arterial Oxygen Saturation (SaO2), pulse rate and pulse waveforms. It is a small (cm. 7.62 x 15.24 x 2.54), light (gr. 280) device with batteries that allows about 80 hours monitoring. We applied two different methods in the exam evaluation. The first one, following Brouillette (15), consists in classifying the examination in positive, inconclusive or negative. Two sleep laboratory physicians examined independently the graphs and classified the result as positive, inconclusive or negative on the basis of the following criteria: 1) desaturation was defined as a decrease in SaO2 ≥ 4%; 2) a cluster of desaturations was defined as 5 or more desaturations occurring in a 10 to 30 minute period; 3) on the oximetry trend graphs, periods of relative tachycardia, usually 10 to 25 beats per minute, at the beginning and at the end of nocturnal pulse oximetry, and periods of relative tachycardia and increased heart rate variability exceeding 30 minutes were regarded as wakeful time and not considered; 4) event graphs for SaO2 were used to distinguish true desaturations from movement artifacts and low signal amplitude artifacts using a method already described; 5) a positive oximetry trend graph had 3 or more desaturation clusters and at least 3 desaturations to <90%; 6) a negative oximetry trend graph had no desaturation clusters and no desaturations <90% and 7) an inconclusive oximetry trend graph was one that did not meet the criteria for positive or negative. Any discordance of interpretation was discussed and a consensus was reached. The second diagnostic criterion was the Obstructive Desaturation Index (ODI), a continuous measure that quantifies the number of desaturations per hour of sleep. We considered as positive the exams with ODI ≥ 3. Polysomnography (PSG) PSG was performed by a polysomnographic 7 channel recorder (SomnoStar PT2, Sensor Medics Corporation, Yorba Linda, California). We followed the guidelines of the American Thoracic Society (16): we measured heart rate, pulse rate, pulse waveforms, arterial oxygen saturation (SaO2) and calibrated respiratory inductive plethysmography (RIP; thoracic, abdominal and sum channel). Technical details of this instrument are published elsewhere (17). Initial calibration of rib cage and abdominal signals was performed during the first 5 minutes of operation using the quantitative diagnostic calibration procedure. Sleep respiratory events and behaviour were videotaped by an infrared videocamera. We could obtain the following respiratory parameters: Obstructive apneas: presence of chest/abdominal wall motion associated with an 80% or greater decrease in amplitude on the RIP summation channel. Obstructive hypopneas: presence of chest/abdominal wall motion associated with an 50-80% decrease in amplitude on the RIP summation channel with a drop in SaO2 ≥4%. Obstructive apnea/hypopneas were considered only if longer than two respiratory cycle PREMI 188 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA times. Central apneas: absence of chest/abdominal wall motion associated with an 80% or greater decrease in amplitude on the RIP summation channel. Central apneas ≥10 seconds and of any length associated with desaturation ≥4% were taken into consideration. Obstructive apnea/hypopneas index (OAHI): number of obstructive apnea/hypopneas per hour of sleep. Mixed apneas: apneas having both central (≥ 3 seconds duration or twice the respiratory cycle length) and obstructive components (of any length). Mixed apneas were included in the obstructive apnea/ hypopnea index (see below). Apneas occurring immediately following body movements or sighs were excluded. Mixed Obstructive apnea/hypopnea index (MOAHI): number of mixed/obstructive apnea/hypopneas per hour of sleep. Oxygen desaturation index: number of haemoglobin desaturations (drop in SaO2 ≥ 4% of baseline value) per hour of sleep. Sleep and wakefulness were distinguished by pattern of cardio-respiratory signals, behavioural observation and subject’s appearance on video and Total Sleep Time (TST) was also measured. OSAS was defined as a MOAHI (mixed/obstructive apnea/hypopnea index) equal or greater than 1 event per hour accordingly to published standards (14). Statistics Sensitivity is the proportion of patients with OSA who have a positive oximetry test, specificity is the proportion of subjects without OSA who had a negative oximetry; positive predictive value (PPV) is the proportion of patients with positive test results who have OSAS and negative predictive value (NPV) is the proportion of subjects with negative oximetry who do not have OSAS. Positive likelihood ratio (LR+) is the ratio of the probability of a positive test result in people who do have the disease to the probability in people who do not, and it is calculated as: sensitivity/(1 - specificity). Receiver Operator Characteristic (ROC) is constructed by plotting sensitivity against 1 - specificity (the false positive rate) for several choices of the positivity criterion. For data that were not normally distributed results were expressed as median (interquartile ranges). Correlation has always been calculated with Spearman’s rho for non-parametric data. The statistical package SPSS 11.5 has been used for analysis. Results The study group of 167 subjects consisted of 104 (62.3%) boys and 63 girls. Median age was 46 months (2469, min.- max. 12-215); most of patients were ≤ 5 years old and 116 were referred to the sleep laboratory without any major diagnosis potentially interfering with sleep (Tab. 1). Among these, adenotonsillar hypertrophy was diagnosed in 67 by an otolaryngologist. Obesity was diagnosed in 12 patients and was defined as BMI > 25; gastroesophageal reflux was diagnosed in 13 patients by pH-recording, 12 patients had impairment of central nervous system (CNS) as diagnosed by a child neurologist and 14 patients had cranio-facial malformations. PSG Mean duration of TST was 507.5 minutes (Standard Deviation -SD- 75.1). The median MOAHI was 2 (interquartile range 0.4 - 8.9) with relevant overlapping among different diagnostic groups; the highest median was in obese patients (7.1) and the lowest in those with gastroesophageal reflux (0.7). The median desaturation index was 2.1 (0.7 - 6.7) and the nadir of the SaO2 was 87% (82.5 - 90); as expected desaturation index was inversely correlated with SaO2 nadir (rho = -0.8) and positively correlated with MOAHI and OAHI (rho = 0.7), always with high significance (p < 0.001). Pulse oximetry Mean duration of TST was 402.2 minutes (SD 98.3). Considering physician’s interpretation of oximetry results with Brouillette criteria about one-third of patients were in the “grey zone”, neither definitely positive nor negative (Tab. 2); some overlapping occurs PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 189 among the three differently diagnosed groups (Fig. 1), especially between negative and inconclusive results (MOAHI median 0.9 versus 2.6), positive patients showing a much higher MOAHI median (10.9) and more dispersed values. If we consider inconclusive results as negative, the test sensitivity is rather low (28%), but with a specificity of 100%. On the other hand if we consider these patients as positive, sensitivity increases from 28.8% to 63.4 % with an expected decrease of specificity from 100% (no false negative) to 62.9 % (Tab. 3). ODI median was 4.6 (2.2-11.8), significantly correlated with MOAHI and OAHI (rho=0.5 in both, p < 0.001). ODI results were firstly plotted in a ROC curve (patients affected if MOAHI ≥1), looking for the best compromise between sensitivity and specificity (Fig. 2); the curve appeared rather flat, never approaching the upper-left corner (high sensitivity with high specificity), with an area under the curve of 0.75 (95% CL 0.67 - 0.82, p < 0.001). A cut-off point of 3 was applied, with sensitivity of 74% and specificity of 55.6% (Tab. 3); correctly classified patients were 112 (67.1%). Our prevalence of OSAS (or pre-test probability) is 62.3% (Odds = 1.6), and if we apply the LR of a positive test of 1.7 (Brouillette criteria considering positive patients those with positive or inconclusive results or those with ODI ≥3) we increase post-test probability only to 72%. Subgroup analysis. We have restricted our analysis to the 116 patients referred to the Sleep Laboratory for suspected OSAS without overt evidence of other diseases, the most relevant group for relative frequency and for therapeutic decision. Prevalence of OSAS was significantly higher in patients with adenotonsillar hypertrophy than in those without (76.1 % vs 40.8 %, p < 0.001, Odds Ratio - OR - 4.6, 95% CL 1.9 - 11.2). Again inconclusive results represented a large proportion of patients (39.7%), and no false positive was observed when considering positive results only those definitely abnormal, with a sensitivity of 29.6% and a specificity of 100% (Tab. 4). Otherwise, including inconclusive results in positive ones, we obtain an higher sensitivity (70.4 %) and a lower specificity (62.2 %, PPV 74.6%, NPV 57.1%). Accuracy of ODI criteria for OSAS does not differ considerably from accuracy observed in all patients (Tab. 4). Further restricting the analysis to the 67 patients with adenotonsillar hypertrophy, as expected no major change of sensitivity and specificity was observed combining inconclusive and negative tests (sensitivity 31.4%, specificity 100%) and no patient was classified as false positive by the physician (PPV 100%, NPV 68.6%). ODI criteria did not change substantially sensitivity, specificity and positive LR with respect to previous groups. Combined tests. Data were analyzed considering as affected the subjects with positive Brouillette criteria (positive defined as patients classified as definitely positive) or with ODI ≥ 3, as in “parallel” testing. After redistributing results accordingly (Tab. 5) no subject was tested positive by physician’s reading when ODI criteria was negative, and physician’s reading was never positive when ODI was positive in unaffected patients (no false positive, like for physician’s reading alone) (Tab. 5). As expected for “parallel testing” an higher sensitivity (74%) with a lower specificity (52.4%) than physician’s reading alone was obtained, but nothing more than the ODI criteria (Tab. 3). Taking in consideration only the patients classified as negative with physician’s interpretation ODI discrimination between affected and not affected was not satisfactory (sensitivity 63.5%, specificity 55.5%, LR + 2.2). PREMI 190 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA Discussion Most of recommended methods suggested in an extensive review of studies on portable monitoring for diagnosing sleep apnea were followed in our study, the most important being interpreters blind to results of PSG (18). In our referred pediatric population a patient tested positive by physician’s interpretation of the oximetry exam can be confidently diagnosed as affected by OSAS, at least as currently defined. The increase of PPV is expected when prevalence increases and when the test is more specific than sensitive. Probably the low sensitivity and the absence of false positives is due to very stringent criteria of positive results; when less stringent criteria are applied, including “grey zone” results in positive ones, results of oximetry carry poor diagnostic yield. An instrumental continuous measure like desaturation index has shown limited diagnostic utility (19). Our results are similar to those obtained by some others in adults (19, 20), applying much higher cut off points both of MOAHI and ODI (>15), and confirm those obtained by Brouillette in one of his published studies in children (15). In this series only three false positive oximetry tests occurred in patients who did not have the diagnosis of adenotonsillar hypertrophy and positive LR was 19.4, raising the probability of OSAS from 60% (pre-test) to 97% (post-test); in patients with only adenotonsillar hypertrophy to explain the sleep disorder (257 on 349, 73.6%, a proportion close to the 69.5% of the same subgroup of our patients). No false positive was observed, as we observed in our whole population. Comparison with an imperfect gold standard may lead to erroneous conclusions: this can explain the results of the adult study, in which patients were classified as affected by OSAS on the basis of >10 desaturation episodes/h with a MOAHI >10. Different cut-off points of MOAHI (>1 or >5) have been used on 58 children and adolescents presenting to a sleep laboratory but diagnostic yield based on ODI was unsatisfactory (19). In a population with a prevalence of 10 % of OSA (in our highly selected population the prevalence was 62.3%) we would obtain, with a LR+ of 1.7, a post-test probability of 15.8%; in a more selected population, with a prevalence of 30%, for example, the same LR could yield a post-test prevalence of 41.8%. Anyway, the test seems useless except when we use Brouillette’s criteria, assuming as affected only those patients tested as definitely positive; unfortunately, many affected children can have an inconclusive or negative result and should be tested with more sophisticated devices. Our protocol excluded the possibility of calculating inter-rater reliability, because the two raters of oximetry graphs could discuss together their interpretation to obtain a consensus on the final classification of the test. Anyway similarity of our results with the published ones (15) is in accordance with generalizability of the criteria. Agreement beyond chance was investigated among three raters with k statistics, but analysis and impact on diagnosis was not displayed (15). Kirk could demonstrate good test-retest reliability of oximetry ODI (19) but physician’s interpretation was not applied. Traditional measures of accuracy (sensitivity, specificity, PPV, NPV) force the observer to dichotomise continuous measures but one has to keep in mind that PSG or ODI can give the information about severity of OSAS and therefore about risk of complications (10): decreasing oxygen saturation levels have been associated with progressive impaired school performance in mathematics in a dose-effect relationship pattern (6). Clinical decisions about treatment should take into account the clinical spectrum of the disease (13), as shown in a study on prioritisation of adenotonsillectomy (20). In summary, we conclude that physician’s interpretation of oximetry graphs with the criteria published by Brouillette can be viewed as a first-line test to diagnose OSAS in children; it does not rule out this diagnosis and patients tested negative or inconclusive should receive PSG. Acknowledgments Financial support was given from the Italian Ministry of Health (Grant Research); Dr. L. Sirianni has retrieved clinical documentation; Mrs. A. Santoro reviewed the English version; Mrs. S. Soldini gave nursing advice; Dr.ssa F. Lariccia helped in drawing graphs. PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA The Authors state that they have no conflict of interest. Fig. 1 MOAHI by physician’s reading results Fig. 2 ROC curve for ODI 191 PREMI 192 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA References 1. American Thoracic Society. Standards and indications for cardiopulmonary sleep studies in children. Am J Respir Crit Care Med 1996; 153: 866-78. 2. Castronovo V, Zucconi M, Nosetti L, Magazzini C, Hensley M, Veglia F, Nespoli L, Ferini-Strambi L. Prevalence of habitual snoring and sleep-disordered breathing in preschool-aged children in an Italian community. J Pediatr 2003 Apr; 142(4): 377-82. 3. 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Settimi Università degli Studi di Napoli “Federico II” Dipartimento di Pediatria, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica.Settore di Urologia Pediatrica Obiettivo Valutare l’efficacia a lungo termine del trattamento endoscopico (puntura) nel ridurre la necessità di un trattamento chirurgico in pazienti con ureterocele ectopico. Pazienti e metodi Abbiamo rivalutato retrospettivamente i dati clinici di 24 pazienti con diagnosi di ureterocele giunti alla nostra osservazione negli ultimi 7 anni (1998- 2007). Di questi 24 sono stati considerati soltanto i 15 sottoposti a puntura endoscopica dell’ureterocele. L’età media era di 3 mesi (range 4 giorni- 10 mesi) I pazienti sono stati raggruppati in base all’ anatomia, modalità di presentazione, associazione con RVU. Risultati 7 pazienti (46,5%) hanno ricevuto il solo trattamento endoscopico ed 1 di questi ha necessitato di un second- look. In 8 pazienti è stata praticata una procedura di chirurgia open: in 7 total reconstructive bladder surgery ed in un caso una nefrectomia. In 2 casi persisteva un RVU monolaterale (di I e III grado) e sono stati trattati con la sola profilassi antibiotica. Conclusioni La puntura endoscopica dell’ureterocele è una procedura semplice, efficace e sicura in molti casi consente di ridurre le indicazioni all’intervento chirurgico e di migliorarne la prognosi Introduzione Il termine ureterocele, utilizzato per la prima volta da Leshnew nel 1912, descrive una dilatazione cistica dell’ uretere intravescicale. Ericsson nel 1954 proponeva la prima classificazione degli ureteroceli dividendoli in “semplici” ed “ ectopici”. I primi erano contenuti completamente all’ interno della vescica i secondi si estendevano al collo vescicale e nell’ uretra. In base a questa classificazione la Commitee on Terminology of the Urologic section of the American Academy of Pediatrics proponeva la seguente nomenclatura: per gli ureteroceli completamente contenuti in vescica “ ortotopici o intravescicali”, per quelli che presentavano una porzione permanentemente al di fuori della vescica “ ectopici”1. Nel 1971 Stephens2 classificava gli ureteroceli associati a duplicazioni ureterali secondo la posizioni o la presenza di ostruzione intrinseca dell’ orifizio ureterale in: Intravescicale: stenotico non ostruttivo Extravescicale sfinterico sfinterostenotico caecoureterocele L’ incidenza varia tra 1/ 4000 ed 1 / 15000 3,4 ed è più frequente nel sesso femminile. Nell’ 80% dei casi l’ ureterocele, si associa ad una duplicazione ureterale completa, interessando il distretto superiore5. Nel sesso femminile il 95% dei casi è associato a doppio distretto renale mentre nel sesso maschile il 66% si associa a distretto unico. Il riscontro dell’ ureterocele può verificarsi in uno o più dei modi seguenti: PREMI 194 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA Dilatazione dell’ uretere intravescicale dovuta ad ostruzione Displasia renale o nefropatia ostruttiva riguardante il polo superiore od il rene affetto RVU nell’ emidistretto inferiore ipsilaterale o nell’ uretere controlaterale (rispettivamente nel 50% e 25% del casi)7 Ostruzione dell’ emirene inferiore o controlaterale dovuto ad una voluminosa sacca ureterocelica Difficoltà o completa ostruzione allo svuotamento vescicale per prolasso dell’ ureterocele Nei casi di doppio distretto la percentuale di displasia del distretto superiore varia tra il 43 ed il 73% e nel 20% dei casi si tratta di displasia di grado severo8. Il numero dei neonati con diagnosi prenatale di ureterocele si è incrementato dal 2 al 28% negli ultimi 20 anni9 e la diagnosi di ureterocele riguarda il 15% di tutte le diagnosi di duplicazione renale. Dopo la nascita l’infezione delle vie urinarie rappresenta la più frequente forma di presentazione in entrambi i sessi. Nelle femmine la presenza di una massa protrudente interlabiale e l’ ostruzione uretrale acuta rappresentano un’ altra modalità di presentazione in caso di ureterocele prolassato, più raramente nei maschietti. Scopo degli esami strumentali è quello di: identificare l’ ureterocele, definirne la sede, valutare lo stato dei distretti ipsilaterali ed il rene controlaterale e le condizione della vescica. identificare la presenza di RVU e/o malformazioni controlaterali valutare la presenza di difficoltà o ostruzione allo svuotamento vescicale. Il work- up diagnostico si avvale dell’ ultrasonografia, della cistografia e della scintigrafia renale. L’ urografia endovenosa è stata per anni considerata il gold standard diagnostico ed oggi, meno utilizzata, ha lasciato spazio ad indagini quali l’ uro- RMN, soprattutto in casi di diagnosi dubbia. Scopo del trattamento è quello di: preservare al massimo la funzionalità renale, provvedendo ad un corretto drenaggio delle urine dall’ uretere in vescica, eliminando ogni possibile causa di infezione. Trattamento del RVU Prevenzione e trattamento dell’ ostruzione allo svuotamento vescicale Preservazione della continenza Prevenzione e trattamento di ogni difetto della parete vescicale (diverticoli, alterato rilasciamento detrusoriale). Le differenti strategie chirurgiche mirano ad ottenere i precedenti risultati con la minima morbidità per il paziente. L’ ureterocele può essere trattato mediante: Incisione o Puntura endoscopica. Eminefrectomia Completa asportazione della sacca ureterocelica e reimpianti ureterale. Terapia conservativa Pertanto, i fattori che influenzano la scelta del trattamento sono: Tipo di presentazione (prenatale o sintomatici) Età del paziente Tipo di ureterocele (ectopico o intravescicale) Funzionalità renale Presenza di RVU ed IVU Obiettivo Valutare l’efficacia a lungo termine del trattamento endoscopico (puntura) nel ridurre la necessità di un trattamento chirurgico in pazienti con ureterocele ectopico. PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 195 Materiali e metodi Da gennaio 1998 a gennaio 2007 sono stati osservati presso la nostra struttura 24 pazienti affetti da ureterocele ectopico. La nostra attenzione è stata rivolta in questo studio retrospettivo ai pazienti, 15 (8 femmine e 7 maschi), sottoposti a puntura primaria endoscopica dell’ ureterocele al fine di valutare la reale efficacia di questa procedura nel ridurre le indicazioni al trattamento chirurgico o migliorarne la prognosi. I pazienti sono stati raggruppati in base all’anatomia (singolo o doppio distretto), modalità di presentazione, dividendoli in asintomatici (solo diagnosi prenatale) e sintomatici (dolore o infezione), associazione con RVU e in caso di doppio distretto numero di unità refluenti in base al reperto cistografico. Inoltre veniva considerata la comparsa di RVU dopo puntura endoscopica. Risultati L’ età media al momento della procedura era di 3 mesi (range 4 giorni- 10 mesi). In 6 pazienti (40%) era stata posta un sospetto diagnostico all’ ecografia prenatale, in 7 (46,6%) in corso di screening neonatale per dilatazione pielica, in 2 (13,3%) in seguito ad infezione delle vie urinarie. In tutti i pazienti era stata eseguita prima del trattamento endoscopico una cistouretrografia minzionale che mostrava presenza di RVU in 6 pazienti (40%) ed in 2 (13,3%) di questi era presente RVU bilateralmente. In 11 pazienti (73,3%) l’ ureterocele si associava ad un doppio distretto renale, in 4 (26,7%) a distretto renale unico. Il range di follow- up variava dai 6 mesi ai 9 anni. In 7 pazienti (46,5%) è stata sufficiente la sola puntura endoscopica, in uno di questi è stata eseguita a distanza di 3 mesi un second look. In 8 casi (53,3%), invece, dopo puntura endoscopica si è reso necessario un intervento chirurgico e precisamente: in 7 ureterocelectomia e reimpianto ureterale (in un solo caso rimodellamento ureterale) ed in 1 caso una nefrectomia totale in paziente con rene muto alla scintigrafia. In 2 casi (13,3%) persisteva un RVU monolaterale, rispettivamente di I e II grado. I pazienti sono stati seguiti clinicamente, con antibiotico-profilassi per 6 mesi, senza infezioni documentate. Entrambi i pazienti risultano ad oggi guariti. Discussione Ancora oggi non esiste un consenso unico sul trattamento dei pazienti con ureterocele ectopico. La puntura endoscopica rappresenta in accordo con i dati riportati in letteratura, il trattamento iniziale e in alcuni casi definitivo. Scopo del trattamento è quello di preservare la funzionalità renale, prevenire le infezioni e mantenere la continenza riducendo al minimo le procedure potenzialmente lesive. L’incisione endoscopica dell’ureterocele è stata proposta perla prima volta da Tank11e più recentemente modificata da Monfort12; normalmente viene utilizzata come procedura in elezione, può rappresentare talvolta il trattamento di scelta anche in emergenza in caso di: IVU, insufficienza renale o prolasso che determini ostruzione allo svuotamento vescicale. Ad ogni età il trattamento endoscopico ha il vantaggio di essere una procedura semplice, veloce, non invasiva, che richiede una minima degenza ospedaliera. Consente, inoltre, di ridurre il rischio di ostruzione, permettendo una migliore valutazione renale o dell’emirene coinvolto, e di migliorare la prognosi in caso di trattamento chirurgico. Il trattamento endoscopico nell’ureterocele ectopico poiché raramente questo rappresenta un trattamento definitivo. La necessità di un intervento chirurgico secondario dopo trattamento endoscopico varia in letteratura dal 48 al 100%.14. La presenza di reflusso e duplicazioni sono tutti fattori che concorrono ad un alto tasso di reintervento dopo trattamento endoscopico nell’ureterocele ectopico. Riguardo la possibilità della comparsa di un RVU secondario alla procedura endoscopica, a livello dell’ uretere corrispondente, un attento controllo delle dimensioni e la sede della puntura è estremamente importante. L’ureterocele dovrebbe infatti essere punto in una singola volta alla base della cisti in posizione quanto più distale e laterale possibile al fine di evitare danni all’orifizio ureterale e ridurre il rischio di un conseguente reflusso. Per quanto sia PREMI 196 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA discutibile il ruolo del trattamento endoscopico nel miglioramento della funzione renale, che nella nostra casistica è risultata notevolmente peggiorata in un solo caso tale da programmare una nefrectomia, va sottolineato il ruolo importante che esso riveste nel miglioramento della prognosi in pazienti sottoposti successivamente ad una procedura open. Il trattamento endoscopico, in particolare la puntura consente infatti di ridurre la stasi e di conseguenza la dilatazione dell’ uretere coinvolto, riducendo così la possibilità di rimodellamento dell’ uretere, che è stato effettuato in un solo caso nella nostra serie, e rendendo più semplice la fase reimpianto ureterale. Conclusioni La puntura endoscopica rappresenta una procedura semplice, efficace e sicura, che consente di ridurre le indicazioni all’intervento chirurgico in circa il 50% dei casi secondo la nostra esperienza ed in caso di procedure chirurgiche di semplificarne l’esecuzione e migliorarne la prognosi. Bibliografia 1. Glassemberg KI, Braren V, Duckett JW et all: suggested terminology for duplex system, ectopic ureter and ureteroceles. Report of Commitee on Terminology, Nomenclature and Classification. American Academy of Pediatrics. J Urol 1984; 132: 1153. 2. Stephens FD: Caecoureterocele and concepts on the embryology and etiology of ureteroceles. Aust NZ j Surg 1971; 40: 257 3. Campbell M: Ureterocele: a study of 94 instances in 80 infant and children. Surg Gynecol Obstetr 1951; 93: 705 4. Malek RS, Kelalis PP, Sticker GB et al. (1972) Observations on ureteral ectopy in children. J Urol 107:308–311 5. Coplen D, Duckett JW (1995) The modern approach to ureteroceles.J Urol 153:169 6. 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The useful finding of the case described, is, in our opinion, in confirming the high variability of the clinical presentation of IgA nephropathy and the importance of renal biopsy in distinguishing between tubular damage, usually associated to a spontaneous recovery of renal function, and rapidly progressive glomerulonephritis, characterized, instead, by a irreversible impairment of renal activity, especially in order to choose the more adequate therapy. Case report A 14-year-old American boy was admitted to our hospital because of a significantly asthenia and “tea colored” urine. His past medical history was mute; family history was positive for kidney stones. He reported that approximately three weeks before, he developed a febrile upper respiratory tract infection, than, two weeks later he presented with gross hematuria, anorexia, nausea, malaise and abdominal pain. At the admission to our department physical examination revealed a well developed and well nourished male in no apparent distress with normal blood pressure (110/60 mmHg); he only presented with pharyngitis and purulent spots on right tonsil. No periorbital or generalized edema were detected. Laboratory investigations showed increased blood urea nitrogen (65 mg/dl v.n. 7-40 mg/dl), serum creatinine levels (2, 5 mg/dl, v.n 0, 8-1, 3 mg/dl) and inflammatory markers (ESR 37 mm/h, RCP 2, 35 mg/ dl v.n. 0, 8-11, 2 mg/l), hypertriglyceridemia and hypercholesterolemia. C3, C4, IgG, IgM, IgA serum levels were normal. Urinalysis was characterized by foam aspect, revealing the presence of glomerular hematuria and leucocituria; at the beginning no proteinuria was detected but subsequently it appeared (3, 7gr/24h). Ultrasound examination showed normal renal sizes and structure with cortical hyperechogenicity. During hospitalization his urine output was normal (2000-2500 ml/die), gross hematuria persisted approximately for ten days such as proteinuria. So that renal biopsy was performed; light microscopy revealed a diffuse interstitial edema with mesangial hypercellularity, acute tubular necrosis, tubular obstruction and infrequent crescents. Immunofluorescence showed IgA mesangium deposits. So he was started on high dose of prednisone 60 mg b.i.d., Ramipril 2, 5 mg p.o. daily, Eskimo 1000 mg p.o. daily, as well as omeprazole 1 capsule daily. Since that time he has been steadily weaned down on his prednisone, and he is currently taking 6, 5 mg every other day. Now his renal function is normal (cretinine 0, 9 mg/dl) such as protein to creatinine ratio (0, 04), he also denies any lower back pain nor other episodes of dark urine. Discussion IgA nephropathy is an immunologically mediated glomerulonephritis with variable histological findings that range from minimal mesangial hypercellularity or matrix expansion to diffuse proliferative glomerulonephritis with cortical tubular atrophy or loss (1). Definitive diagnosis of IgA nephropathy consists on the demonstration of IgA deposition in the glomerular mesangium, even if it is possible detecting a variety of other immunoglobulins and complement, including IgG, IgM and C3. Clinical presentation (2) is mostly characterized (40-50%) by recurrent episode of gross hematuria concomitant with upper respiratory infections or other mucosal inflammatory processes; it rarely occurs after vaccination or heavy physical exercise (3); in other patients (30-50%) asynthomatic hematuria with or without proteinuria are the only signs. Nephrotic syndrome is unusual (6%) such as a nephritic syndrome (5%) progressing to chronic renal failure due to the presence of crescentic lesions. Approximately 10% to 20% of patients with IgA nephropathy present with estabilished chronic renal failure, perhaps only PREMI 198 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA because they did not come early to medical attention. Few patients (5%), moreover, can develop acute renal failure during severe episodes of macrohematuria (1); so that it’s mandatory for the physician distinguishing between two clinical settings: acute renal failure dued to tubular obstruction (usually reversible) from that one caused by rapidly progressive glomerulonephritis with severe crescentic lesions. Therefore acute renal failure without a rapid recovery of renal function require renal biopsy for obtaining a correct diagnosis. The useful finding of the case described, is, in our opinion, in confirming the high variability of the clinical presentation of IgA nephropathy (4), underling the close relationship between the severity of tubulointerstitial damage and renal prognosis (5). On the basis of the histological examination performed, infact, it seemed unlikely that the scant glomerular abnormalities found could fully explain the severity of the clinical course of our patient, so it was reasonable thinking that the real cause of acute renal failure was the acute tubular necrosis, so predominantely present. It’s possible understanding a such severe tubular involvement only having knowledge of pathogenetic mechanisms. The interaction with mesangial cells is the cause of cellular activation consisting in the acquisition of a proinflammatory and profibrotic phenotype and in a secretory or synthetic activity (2); the latter feature regards especially the production of PDGF (6), which seems to have a particularly important role in mesangial proliferation, and TGFβ, involved in matrix accumulation and fibrosis (7). The activation of mesangial cells leads to cell contraction, hemodynamic modifications and activation of the rennin-angiotensin system (RAS) (8). Angiotensin II enhances the activation of cytokines and chemochine and potentiates the action of PDGF and TGFβ as grow and profibrotic factors for mesangial cells, favouring proliferation and accumulation of extracellular matrix. From this point on, it is unclear which is the link between IgA mesangial deposition and tubulointerstitial injury. Lupo et al (9; 10) advocated disorders in in glomerular hemodynamics and microcirculation. An important role is attributed to RBC casts either for intratubular obstruction or a direct toxic effect on the tubular epithelial cells. Praga et al (11; 10) infact underlined the possible nephrotoxicity of haemoglobin’s iron contained in RBC casts of obstructed tubule, which may promote free radicals formation (12), which in turn cause lipid peroxidation, destruction of cell membrane, shedding of the proximal tubule brush border, mislocalisation of adhesion molecules and other membrane proteins such as the sodium/potassium ATPase, oxidative DNA damage and finally loss of cell viability, either via necrotic or apoptotic pathways (13). An other interesting hypothesis on pathogenetic mechanisms of tubulointerstitial injury in IgA nephropathy has been formulated by L.Y.Y. Chan et al (5), who showed that beyond classical mechanisms implicated (monocyte/macrophage infiltration and release of inflammatory mediators, proteinuria; direct toxic effect following tubular binding of IgA) it’s possible to speculate of a sort of “tubuloglomerular crosstalk” via humoral factors released from mesangial cells and activating tubular epithelial ones, which in turn may amplify the inflammatory cascade by local production of chemotactic mediators promoting a positive feedback loop that leads to the overproduction of extracellular matrix components, fibrosis and finally loss of renal function. This discussion, therefore, suggests that the diagnosis of acute tubular necrosis should be systematically considered (14) in any patient who develops acute renal failure soon after a haematuric episode; so that renal biopsy it’s mandatory to distinguish between tubular damage, usually associated to a spontaneous recovery of renal function, and rapidly progressive glomerulonephritis, characterized, instead, by a irreversible impairment of renal activity, especially in order to choose the more adequate therapy, renal replacement therapy in the former, immunosuppressive in the latter. In conclusion, until now, there has been no unique treatment for IgA nephropathy, just because the several pathogenetic mechanisms involved. Surely the main goal is reducing its progression towards end stage renal disease, so that, our attention has to be focused not only on typical crescentic glomerular lesions but also on tubulointerstitium involvement, because of its active role in orchestrating the inflammatory cascade. PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 199 References 1. Haas M: Histological subclassification of IgA nephropathy: a clinico-pathologic study of 244 cases, Am J Kidney Dis 29:829-42, 1997 2. Floege J: IgA nephropathy: recents developments, J Am Soc Nephrol 11: 2395-2403, 2000 3. Geary D: Comprehensive pediatric nephrology, Mosby Elsevier, 2008 4. D’Amico: Natural history of idiopatic IgA nephropathy, Am J Kidney Dis 36: (2), 227-37, 2000 5. LYY Chan: Novel mechanism of tubulointerstitial injury in IgA nephropathy: a new therapeutic paradigm in the prevention of pregressive renal failure, Clin Exp Nephrol 8: 297-303, 2004 6. 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In particolare, il riempimento ventricolare, successivo alla decontrazione isovolumetrica, può essere considerato come organizzato in una fase “non atriale” (riempimento precoce + diastasi) e in una fase “atriale” (sistole atriale). Ad ogni ciclo, mediante variazioni cicliche della pressione e del volume intraventricolari, il ventricolo (sinistro o destro) espelle (rispettivamente in aorta o in arteria polmonare) una quota di sangue definita gittata sistolica. È ben noto che la durata dei cicli cardiaci (frequenza cardiaca) si modifica in maniera significativa in età differenti di crescita di un individuo, ma non è ancora ben definito l’adattamentoi sisto-diastolico ventricolare durante la crescita. Lo studio dei soggetti sani di età differente consente di definire l’adattamento funzionale del ventricolo nella crescita. In particolare, la definizione delle fasi del ciclo cardiaco rappresenta una stima delle condizioni funzionali del miocardio ed è condizione necessaria per lo studio degli effetti dei determinanti del ciclo cardiaco (pre-carico, post-carico, contrattilità, frequenza cardiaca, massa miocardica, geometrica ventricolare) sullo stesso. L’ecocardiografia (in particolare con tecnica Doppler) consente di studiare in maniera agevole le fasi che compongono un ciclo cardiaco ventricolare sinistro, mentre è più complessa un’analisi ecocardiografica del ciclo ventricolare destro. Scopo dello studio Valutare il ciclo cardiaco ventricolare sinistro in soggetti sani di differente età. Metodi Da Maggio a Settembre 2008, sono afferiti al nostro ambulatorio di ecocardiografia pediatrica 288 pazienti. Sono stati reclutati 78 soggetti (48M/30F) sani consecutivi che, in relazione ad età e peso corporeo, sono stati distinti in cinque gruppi. Criteri di inclusione erano l’assenza di anomalie ecocardiografiche, un ritmo cardiaco regolare in assenza di extrasistoli, l’assenza di patologie sistemiche. Tutti i soggetti sono stati sottoposti ad esame ecocardiografico Doppler per la definizione dell’anatomia e della funzione cardiaca. Tutti gli esami ecocardiografici sono stati effettuati da un singolo operatore (CS). La visualizzazione Doppler di un ciclo cardiaco è stata ottenuta da una proiezione quattro camere modificata per leggermente anteriorizzazione della sonda, posizionando il “campione” del Doppler pulsato tra il lembo mediale della mitrale e il setto interventricolare. La durata di ogni singola fase del ciclo cardiaco è stata considerata come valore assoluto e come valore percentuale del ciclo, così da rendere possibile il confronto tra soggetti con frequenza cardica differente. L’analisi statistica è stata effettuata mediante SPSS (Statistical Package for Social Sciences, rel 10.1; SPSS Inc., 444 North Michigan Avenue, Chicago, IL 60611, USA). I dati continui sono stati espressi come media (SD). La differenza tra valori medi è stata definita mediante il test t di Student a due code per dati non appaiati. I dati qualitativi sono stati espressi come percentuali. È stato considerato statisticamente significativo un valore di P inferiore a 0,05. PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 201 Risultati Le caratteristiche generali dell’intera popolazione di studio e dei 5 sottogruppi sono riassunte nella Tabella 1. i neonati, in relazione al peso corporeo, sono stati assegnati al gruppo A (peso inferiroe a 2Kg) o al gruppo B. Le fasi del ciclo cardiaco e i parametri di flusso transmitralico nella popolazione studiata e nei cinque sottogruppi sono riassunte nella Tabella 2a; la significatività statistica del confronto di questi parametri tra i 5 sottogruppi è riassunta nella Tabella 2b. PREMI 202 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA Discussione Questo è il primo studio che ha valutato con tecnica ecocardiografica il ciclo cardiaco in età differenti di vita. Il principale risultato del nostro studio è che a parità di durata del ciclo cardiaco (p=0.8486), la durata della diastole “non-atriale” (tempo di rilasciamento isovolumetrico e diastasi) è significativamente inferiore nel neonato con peso inferiore a 2Kg rispetto al neonato con peso medio di 3.30±0.57Kg (p=0.0390). La durata della diastole “non atriale” aumenta progressivamente negli anni, raddoppiando nei bambini di età superiore ai tre anni (25.09±4.89 nei neonati del gruppo B; 35.89±8.55 nei bambini del gruppo E; p=0,0294). I nostri dati suggeriscono che il miocardio ventricolare modifica progressivamente le proprie caratteristiche funzionali ed è probabile che questo sia conseguente a modifiche funzionali sistemiche (stato autonomico, fattori ormonali, etc) e a modifiche anatomiche cardiache (in particolare della componente interstiziale). Nel tempo, il ventricolo utilizza meglio la diastole e si rende progressivamente meno dipendente dall’attività atriale. Questo è confermato anche dal progressivo aumento del rapporto E/A che equivale ad un riempimento precoce progressivamente più rapido del ventricolo sinistro del bambino con età superiore ai tre anni rispetto al bambino di pochi mesi di vita e di questo rispetto al neonato. La definizione dello stato funzionale miocardico è utile non solo per conoscere le modalità di adattamento con l’età ma anche per avere valori di riferimento da utilizzare per la definzione dei carichi imposti da differenti cardiopatie congenite. Study limitation Nel confronto tra i gruppi A, B, C le misure non sono influenzate dalla frequenza cardiaca (la durata del ciclo cardiaco è sovrapponibile). Nel confronto tra i gruppi A, B, C e i gruppi D, E, potrebbe esserci un’influenza PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 203 della frequenza cardiaca. Considerando però che i risultati di confronto tra i gruppi A, B, C, con frequenza cardiaca sovrapponibile, sono già significativi, possiamo ritenere che l’effetto della frequenza cardiaca sulla fase diastolica del ventricolo dei gruppi D, E, sia solo parziale. Non è stata valutata l’influenza dell’età gestazionale sulla funzione ventricolare del neonato sano (gruppi A e B). Un futuro ampliamento del campione di studio consentirà di definire anche questo aspetto. PREMI 204 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA The Association between Obesity, Diabetes and Asthma in Children M.K. Perez Department of Pediatrics West Virginia University School of Medicine An epidemic rise in overweight has occurred concurrently with a rise in diabetes and asthma nationally and internationally (National Center for Health Statistics, 1999; World Health Organization, 1998). At present, more than 9 million children over 6 years of age are said to be obese, and about 154, 000 children and adolescents in the United States have diabetes [1]. Additionally, 4 million children up to 14 years of age have asthma symptoms [2], the prevalence of which has been increasing steadily. Over the past two decades, these rates have more than doubled leading many to speculate about potential connections between these health concerns. However, the relationship between obesity, diabetes and asthma is not as clearly defined and understood among children as it is for adults [3]. Epidemiologic studies on large samples of children and adolescents have provided evidence that an association exists, but only among girls and certain age groups. Other studies have demonstrated no relationship between obesity and asthma. Studies based on adult samples have shown that individuals’ weight status, measured by BMI, contributes to a “chronic state of inflammation”. Because of this systemic inflammatory status, overweight individuals may become vulnerable to other health problems such as heart disease, diabetes and asthma. These findings imply the possibility of intervening more effectively on the multiple health problems related to obesity by better understanding and addressing the deleterious effects of chronic inflammation. While research on adult obesity has progressed over the past decade, studies examining childhood obesity and its relationship to other health problems, such as diabetes and asthma, remain limited in number and comprehensiveness. This is unfortunate in light of the steadily increasing rates of childhood obesity, type-2 diabetes, and asthma over the last decades. Childhood obesity and chronic diseases - Obesity has in general a substantial effect on heart disease risks, and childhood obesity in particular is directly linked to several adult cardiovascular risk factors including hypertension, dyslipidemia, and hyperinsulinemia [4, 5]. Our own work has shown that 10.6% of fifth graders in West Virginia have two or more of the following cardiovascular risk factors: systemic hypertension (systolic and diastolic ≥ 95th percentile), elevated triglycerides (> 120 mg/dl) or total cholesterol (> 200 mg/dl), low HDL (< 40 mg/dl), and a strong family history of high cholesterol, premature heart disease, or diabetes [6]. Obese children have also been shown to have a higher prevalence of impaired glucose tolerance, insulin resistance, and type-2 diabetes [1]. Sinha and colleagues demonstrated that impaired glucose tolerance could later develop into overt diabetes among their subjects [7]. While the authors rejected obesity as a significant risk factor for glucose intolerance, certain limitations of their sample have been noted calling these results into question. Specifically, the authors only examined the relationship between obesity and type-2 diabetes among obese children (≥ 95th BMI percentile). In contrast, Sinaiko and colleagues have reported a significant association between BMI and insulin resistance based on a sample with broader range of adiposity [8]. Growing evidence also suggests that childhood obesity may contribute to the development of childhood asthma through non-allergic pathways [9-13] and several studies have demonstrated a multidirectional association between obesity and asthma in childhood. Obesity is more common among children with asthma [10, 11, 13] and increasing new cases of asthma are diagnosed among obese children [2, 10, 14]. Obesity and type-2 diabetes: the role of inflammation - With obese children being five times more likely to develop early onset type-2 diabetes, researchers have attempted to better understand the mechanisms underlying this connection [15]. Study samples thus far have been limited to North America and to small tribal groups who have historical data on children over a significant period of time [15-18]. Overall, the PREMI XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA 205 mechanism by which obesity might be related to type-2 diabetes is unknown [19], but several studies have shown an association between obesity and abnormal glucose and insulin levels [15]. While the information on the prevalence of glucose intolerance and insulin resistance is limited among children [4], much more data are available in adults [20]. Investigators using both in vivo and in vitro models of obesity have argued that obesity creates a chain of events within the body that separately inhibit insulin production and/or glucose absorption. Molecular studies focusing on the role of inflammation in this process have linked the synthesis of specific inflammatory mediators to the peroxisome proliferatoractivated receptors (PPARs). PPARs exist in three forms, one of which (PPAR◊) controls the expression of specific target genes involved in a series of intercellular processes, ranging from inflammation to lipid metabolism (see Figure 1). Figure 1: PPAR forms and roles in the regulation of lipid metabolism and inflammation In particular, PPAR◊ has an immunosuppressive effect associated with prolonged inflammatory responses in animal models. This inhibitory effect has not only been found among individuals who have a genetic predisposition to type-2 diabetes, but also among those who are healthy carriers of the PPAR gene. Obesity and asthma: the role of inflammation - The epidemiologic association between obesity and asthma has promoted the investigation of a number of potential mechanisms involving a causal relationship between abnormal body weight and airway obstruction [21]. One of the proposed pathways involves the impact of obesity on local immuno-inflammatory responses in the respiratory tract. As noted earlier, obesity is being described as a chronic inflammatory state, and there is a well documented associations between weight and the expression of inflammatory biomarkers like tumor necrosis factor alpha (TNF-◊), interleukin 6 (IL-6), and C-reactive protein (CRP) [22-26]. The same biomarkers are frequently elevated in asthma, a disease characterized by chronic inflammation of the airways, which leads to mucosal edema and bronchospasm with consequent airflow obstruction. However, findings from previous studies conducted to examine differences in airway inflammation related to the presence of obesity conflict with one another. Leung and colleagues assessed airway inflammation in relation to children’s BMI by examining cytokine production [27], but did not find statistically significant differences. The same group also investigated the association between obesity, exhaled nitric oxide (FENO), and leukotriene B4 (LTB4) synthesis in a cross-sectional sample of children with asthma (n = 92) and in healthy controls (n = 23), reporting increased FENO and LTB4 concentrations among asthmatics, but no significant differences in inflammatory biomarkers between obese and non-obese children with asthma. PREMI 206 XII PREMIO DI STUDIO - CITTÀ DI AVERSA References 1. Rocchini, A.P., Childhood obesity and a diabetes epidemic. N Engl J Med, 2002. 346(11): p. 854-5. 2. Gilliland, F.D., et al., Obesity and the risk of newly diagnosed asthma in school-age children. 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Visser, M., et al., Elevated C-reactive protein levels in overweight and obese adults. Jama, 1999. 282(22): p. 2131-5. 26. Visser, M., et al., Low-grade systemic inflammation in overweight children. Pediatrics, 2001. 107(1): p. E13. 27. Leung, T., Li CY, Lam CWK, Au CSS, Yung E, Chan IHS, Wong GWK, Fok TF, The relation between obesity and asthmatic airway inflammation. Pediatric Allergy & Immunology, 2004. 15(4): p. 344-50. VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” Assegnazione del Premio "Flora Sciaudone" al dott. Roberto Trunfio PREMI VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” 209 INFEZIONI CONNATALI E DIAGNOSI TARDIVE O MISCONOSCIUTE NEL NEONATO DI MADRE IMMIGRATA: UN PROBLEMA EMERGENTE NELLO SCENARIO PEDIATRICO ITALIANO R.Mormile¹, A. Orsini² UOC di Pediatria e Neonatologia - P.O. San G. Moscati Aversa A partire dagli anni’80 l’immigrazione in Italia è diventato un fenomeno consolidato. La spinta alla ricerca di migliori condizioni di vita incrementano sempre più il numero di persone che lasciano il proprio paese di origine per stabilirsi in una nazione economicamente più ricca. L’Italia lentamente si è trasformata in una società multiculturale. Secondo la stima del Dossier Caritas/Migrantes gli immigrati in Italia erano circa 3.690.000 alla fine del 2006 con una incidenza sulla popolazione totale del 6.2%. L’aumento degli immigrati non è più determinato solo dai nuovi arrivi ma anche dalle nascite di figli di cittadini stranieri in costante espansione. I neonati di madri immigrate rappresentano oramai il 10.3% del totale delle nuove nascite. Sino a dieci anni fa in Italia il parto di una donna immigrata era un evento eccezionale, oggi invece fa parte del quotidiano. Rumene, cinesi, africane, bengalesi, filippine fanno parte integrante della realtà italiana. Le leggi italiane in tema di immigrazione hanno definito alcune garanzie in termini di accesso ai diritti sociali e ai benefici del sistema di welfare. Attualmente in Italia le donne immigrate con permesso di soggiorno hanno il diritto/dovere di iscriversi al SSN. Tuttavia anche a coloro che presentano una condizione di irregolarità giuridica sono garantite le prestazioni urgenti in una logica di tutela del singolo che diventa poi tutela della collettività. All’immigrazione è legata la recrudescenza di malattie che si pensava oramai debellate nello scenario infettivologico italiano come la tubercolosi e la lue; isolare tempestivamente il caso-indice significa curarlo impedendo che l’infezione si diffonda nella collettività. Nonostante i minori e le donne godano di particolari garanzie come l’assistenza gratuita, la popolazione delle donne immigrate in gravidanza resta un gruppo particolarmente vulnerabile per l’estrema suscettibilità a fattori di rischio” ambientali” cui possono essere esposte sin dal periodo preconcezionale. La donna immigrata è più soggetta a complicanze in relazione alla scarsa conoscenza dei percorsi sanitari e ad un ridotto accesso ai servizi di supporto ostetrico-ginecologico spesso connessi al disagio interculturale ancora vivo nella gran parte delle regioni italiane. Esse presentano una incidenza significativamente più elevata di infezioni come epatite B, HIV, Lue, Tubercolosi, CMV con inevitabili danni sul prodotto del concepimento. Spesso tali malattie non sono diagnosticate nel neonato fatta eccezione per l’epatite B, con perpetuazione del processo patologico. E’ stato riportato che il primo controllo in gravidanza, laddove effettuato, viene generalmente effettuato da costoro dopo la 12 settimana. Nella gran parte dei casi si registra la mancanza totale di una storia ostetrica e di controlli sia ematochimici che strumentali per tutto il decorso della gravidanza. I neonati di madre immigrata mostrano una frequenza più elevata di basso peso o di età gestazionale inferiore alle 37 settimane di gravidanza con una maggiore morbosità e mortalità perinatale. Giocano certamente un ruolo i numerosi fattori di rischio materni come infezioni dell’apparato genito-urinario, anemia, maggior numero di gestanti minorenni e ragazze madri, basso reddito familiare, attività lavorativa meno garantita e più pesante, alimentazione incongrua, carenti condizioni igieniche ed abitative, cure ostetriche e perinatali precarie o addirittura assenti. Alcune infezioni connatali possono essere silenti alla nascita e restare così misconosciute nel neonato. E’ il caso della la toxoplasmosi, delle infezioni da CMV, della lue, della TBC con gravi esiti a distanza sul neonato. Bisognerebbe pertanto sottoporre ogni neonato di madre immigrata con gravidanza non controllata ad un approfondimento labororatoristico e/o strumentale. Ogni neonato con evidenza di infezione connotale dovrebbe essere reclutato per un follow-up a medio e lungo termine. Per una corretta gestione del problema, ogni struttura dovrebbe fornirsi di traduttori ed interpreti, i cosiddetti mediatori culturali, per facilitare il contatto tra operatori sanitari e popolazione straniera. E con tali figure si dovrebbero organizzare incontri con le gravide per renderle esaustivamente edotte circa la necessità di indagini seriate PREMI 210 VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” nel corso della gestazione e alla possibilità di poterle eseguire gratuitamente presso i centri del SSN di riferimento. A tal fine si dovrebbe costituire uno staff medico-infermieristico dedicato creando così una continuità assistenziale con queste donne. Sarebbe auspicabile inserire il TORCH, il TPHA e/o la Mantoux in ogni neonato di madre extra-comunitaria con gravidanza decorsa senza alcun indagine laboratoristicostrumentale e fattori di rischio concreti. Una diagnosi tempestiva può concretamente migliorare la vita di un bambino nel rispetto del dettato costituzionale di tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo salvaguarrdando anche l’interesse della collettività. PREMI VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” 211 L’ADOLESCENTE E IL RICOVERO IN OSPEDALE: ATTUALI PROBLEMATICHE E FUTURE PROSPETTIVE (REQUISITI DI UNA UNITÀ PER ADOLESCENTI) A. Montano U.OC. Pediatria e Nido Ospedale S.G.Melorio - S. Maria Capua Vetere Prefazione L’ospedalizzazione rappresenta per il paziente un “momento di crisi” indipendentemente dalla sua età. Ma è nostra e comune esperienza che il ricovero di un Adolescente in Ospedale pone degli interrogativi e fa nascere delle problematiche del tutto particolari, diverse, sia da quelle del bambino sia da quelle dell’adulto direttamente correlabili all’età del paziente. Ricoveri Anche se gli Adolescenti di rado si ammalano seriamente, negli ultimi anni stiamo assistendo ad un aumento degli accessi in Ospedale. Escludendo i pazienti affetti da “leucemie” o da altre patologie oncologiche di cui si occupano centri specializzati, gli Adolescenti si ricoverano in Ospedale o per malattie insorte durante l’infanzia e progredite fino all’adolescenza (malattie reumatiche, fibrosi cistiche, diabete e altre malattie endocrine) o più spesso per “necessità di ordine chirurgico” ed eventi traumatici. Il maggior grado di indipendenza dei giovani, la sempre più ampia libertà di movimento ha aumentato notevolmente il numero degli incidenti e quindi dei ricoveri. L’anticipazione della maturazione biologica, emotiva e sociale ha determinato una maggiore precocità delle esperienze sessuali favorendo la diffusione dell’abuso di alcol e di droghe rendendo più freguanti i motivi psicogeni a volte essi stessi cause di ricovero Accettazione Spesso i primi problemi insorgono gia al momento dell’accettazione. Ci si può trovare a dover gestire un adolescente taciturno poco incline al colloquio o addirittura depresso. La procedura dell’accettazione deve svolgersi in maniera semplice e diretta, cercando di valutare le modalità di percezione della malattia da parte dell’adolescente, comprendendone la condizione di ansia per una patologia della quale non afferra il meccanismo e la gravità e che lo preoccupa anche per i possibili effetti sul proprio aspetto esteriore. Degenza Nel corso della degenza devono essere spiegate al giovane paziente le ragioni della sua ospedalizzazione, le motivazioni per cui vengono effettuati gli esami e praticati i trattamenti riconoscendogli il diritto ad una certa riservatezza. E’ importante che tutto il personale nei contatti con il paziente eviti qualunque contraddizione e non faccia previsioni che possano risultare imprecise allo scopo di creare un rapporto di fiducia e di buona volontà. Requisiti di una Unità per Adolescenti L’Ospedale riconosce all’adolescenza una sua importanza particolare non solo negli atteggiamenti emotivi e nei contatti umani ma anche nella strutturazione ambientale. Molto si è discusso sull’opportunità di creare Unità per Adolescenti che sorge per esigenze di età piuttosto che per un orientamento terapeutico specialistico. D’altra parte non tutti gli Adolescenti possono essere ricoverati nello stesso Ospedale e non ogni Ospedale può permettersi la creazione di un reparto riservato ad essi. Ciò nonostante l’Ospedale di una piccola comunità in cui: l’utilizzazione statistica dei suoi posti letto, il maggior bisogno di spazio, i costi non consentono la creazione di un reparto per Adolescenti potrebbe organizzare una piccolissima sezione adiacente alla divisione di pediatria. In questo modo le camere possono essere occupate in maniera elastica ma si eviterebbe comunque all’Adolescente l’assegnazione di un posto in compagnia di un bambino che strilla in continuazione o di un adulto o peggio ancora di un anziano che mal tollera le PREMI 212 VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” sue abitudini. Arredamento E’ bene che la stanza contenga da due massimo a quattro letti, con un adeguato isolamento tra i letti allo scopo di salvaguardare l’intimità e il pudore: l’Adolescente è particolarmente vulnerabile di fronte alla violazione della sua intimità. La stanza deve essere dotata di un armadio o di un mobile in cui sistemare i vestiti, i pigiami e la biancheria. Un tavolino da letto per gli hobbie la lettura o i compiti scolastici. Vale la pena di soffermarsi su questo aspetto: le attività scolastiche, anche se spesso non lo denunciano chiaramente, costituiscono una parte vitale per gli interessi dei giovani. La perdita delle ore di studio o dei contatti con i compagni rappresentano un importante motivo di turbamento. Quando non è possibile per il numero dei degenti o per i tempi di degenza troppo brevi isituire una cattedra di insegnamento ospedaliero è bene incoraggiare i genitori a far pervenire al giovane paziente i libri e l’assegno scolastico giornaliero. Alimentazione Compatibilmente con le restrizioni dietetiche imposte dal motivo del ricovero è bene che il menù sia variato e gradevole e che allo scopo di stimolarne l’appetito sia consentito all’Adolescente una libera scelta dei cibi Attività ricreative Fondamentale per l’Adolescente è la compagnia dei coetanei per ciò se lo spazio e i costi lo consentono sarebbe auspicabile creare una sala di ricreazione fornita di un televisore, di tavoli da gioco, libri e riviste per favorire le attività di gruppo. Questo ambiente che non richiede arredamenti sofisticati spesso lasciati alla fantasia degli stessi ragazzi, deve essere ubicato in modo tale che i rumori e i suoni non disturbino gli altri ricoverati. Norme e Regolamenti Per quel che riguarda le norme e i regolamenti del reparto bisogna tener presente che spesso l’ospedalizzazione e la malattia determinano nell’Adolescente una sorta di regressione di tipo infantile per cui essi spesso assumono un comportamento capriccioso e oppositorio nei confronti delle norme e dei regolamenti ospedalieri. Spesso tali regolamenti mal si adattano alle abitudini che l’adolescente aveva prima del ricovero in ospedale per cui sarebbe auspicabile, sia che esiste un reparto solo per Adolescenti, sia che vengono ospitati in un reparto comune, che le norme da osservare vengano selezionate con cura, limitate al minor numero possibile salvaguardando quelle veramente indispensabili al funzionamento del reparto. Conclusioni Il trattamento ospedaliero degli adolescenti, sia che venga svolto in un reparto esclusivo, sia che venga svolto in un reparto comune, deve andare oltre la sola terapia e deve sempre tener conto dei problemi psicologici educativi e sociali che caratterizzano i pazienti di questa fascia di età. L’assistenza deve essere svolta nel rispetto dei diritti dell’Adolescente per fare in modo che, una volta dimesso, sia che sia guarito, sia che per sempre debba fare i conti con una malattia cronica, l’esperienza fatta in ospedale possa essere ricordata dal giovane paziente come un momento di crescita emotiva facente parte del suo vissuto. Bibliografia 1. Cassani e Andreani: Trattato di Endocrinologia 2. Bernasconi S. e Lughetti L.: Endocrinologia Pediatrica 3. La clinica pediatrica del Nord America vol. 6, n. 1 4. Society for Adolescent Medicine: Report of the Committee on Hospital Practie and Bed Care, 1971 PREMI VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” 213 PROGETTO BENONE Associazione Benone I Laboratori e le attivita’ Le attività consisteranno in varie discipline di laboratorio strettamente collegate ad efficaci strategie di comunicazione (proprie del progetto) miranti alla promozione ed alla divulgazione del Progetto Benone stesso, in Italia ed all’ estero. I laboratori incentrati su attività pratiche, formative e culturali saranno tenuti CON IL SUPPORTO INDISPENSABILE DI UNA MASCHERA RAFFIGURANTE IL LEONE MEDICO, unica in Italia, alla stregua di quella americana rappresentata, invece, dal clown, Dr. Patch Adams, non più per tre ore solo due volte a settimana per 24 settimane ma quotidianamente, per 3 ore al giorno per tutto l’ anno e per i PROSSIMI TRE ANNI. Inoltre, sia i laboratori di socioanimazione che musicali, da quest’ anno, saranno realizzati IN CINQUE POLI PEDIATRICI E NON PIU’ SOLTANTO IN DUE (come per la durata del progetto pilota) ovvero, presso il I Policlinico di Napoli della Seconda Università, e presso gli Ospedali di Salerno, di Caserta, di Benevento e di Avellino (o in alternativa ancora presso il Pausilipon ed il Cardarelli di Napoli), dei quali si allegano adesioni. Tutte le attività di socioanimazione e di educazione alla musica, INCENTRATE SULLA PRESENZA DELLA MASCHERA (INDOSSATA DA UN MIMO) IN OGNUNO DEGLI OSPEDALI, saranno dirette e curate dalla Associazione Benone che organizzerà coordinandolo, il lavoro delle Associazioni che già collaborano e di eventuali altre, Nazionali ed Internazionali (le cui spese, naturalmente, rientreranno nel budget richiesto), al fine di offrire al PROGETTO BENONE un respiro interregionale ed internazionale. Il progetto Le attivita’ dei laboratori collegate alla comunicazione “QUI STIAMO BENONE” è un progetto sociale a favore dei bambini ricoverati nei poli pediatrici ed oncologici di Napoli che, attraverso un percorso di socio-animazione, di alfabetizzazione alla musica e di comunicazione, strettamente collegato, intende proporre immediate e positive soluzioni a due tipi di problematiche: a)quelle più strettamente legate al dolore, grazie alla offerta di proposte di familiarizzazione e di solidarietà ai piccoli pazienti da parte del “DOTTOR BENONE” (dal quale il progetto trae spunto), esperto in quella terapia del dolore tanto cara ai pediatri americani, i quali se ne servono proprio per lenire le sofferenze dei piccoli degenti e, complice dei medici e paramedici, ai quali si affianca quotidianamente, nei panni di un collega vero e proprio, offrendo di sé una immagine giocosa ma, al tempo stesso, rassicurante e protettiva; b)quelle relative agli effetti (sovente ancor più gravi della stessa patologia o, se non altro, di pari importanza) causati dalla malattia e dalla conseguente, “forzata” degenza in vari ospedali, ovvero in quei luoghi che, per tutti i bambini del mondo, sono “posti bruttissimi”, da dimenticare subito, anzi da non ricordare più per tutta la vita ma che poi, nella realtà non dimenticheranno mai. Il DOTTOR BENONE, in questo senso, è di grande aiuto perché, sia direttamente, sia attraverso i suoi più stretti collaboratori (operatori sociali, volontari ed esperti di varie discipline umanistiche) opera in una grande mediazione tra la malattia, la terapia ed il tempo da trascorrere in ospedale, proponendosi come protagonista di un grande progetto di socioanimazione e, grazie alla collaborazione di artisti, musicisti in particolare ed anche Vip, giornalisti e personalità dello spettacolo, della televisione e della cultura, di un vero e proprio avviamento alla musica, attraverso specifici corsi e lezioni fatte con strumenti musicali veri (chitarre, percussioni e tastiere) che difficilmente verranno dimenticati dopo la tanto sospirata guarigione ed il conseguente ritorno a casa. Il DOTTOR BENONE è, pertanto, una sorta di mascotte dei “POLI PEDIATRICI” italiani, creata dal giornalista Mariano Piscopo, in collaborazione con esperti grafici e bravi creativi, raffigurante un cartone animato a PREMI 214 VII PREMIO “FLORA SCIAUDONE” grandezza naturale, realizzato materialmente da una azienda leader del settore della animazione in Italia, fornitrice anche della Rai e di altri network televisivi e non. Pure la sua criniera è realizzata con capelli naturali assemblati da un’ altra azienda leader sempre fornitrice anche delle stesse reti televisive nazionali e non. Il costume, originale e pertanto UNICO in Italia, è stato in passato utilizzato da attori e mimi della stessa Rai, come ad esempio il mitico Maurizio de Bortoli, nonché da Gianfranco d’ Angelo e Stefano Masciarelli e, nei prossimi tre anni, seguiterà ad essere indossato da testimonial (vip e personaggi) famosi e cari particolarmente ai bambini. BENONE segue la logica scientifica dell’ efficacia della terapia del dolore, sostenuta nei poli pediatrici americani dove finanche l’ attore Roby Williams, dopo il film Patch Adams (che lo ha visto in passato protagonista nei panni di un clown-dottore), attualmente seguita nel suo impegno sociale a favore dei bambini e dei ragazzi degenti, operando in qualità di testimonial. All’ interno delle strutture ospedaliere, conseguentemente a vari incontri preparatori di di formazione sul progetto, sulle modalità e sugli scopi, che costantemente si tengono con gli psicologi e con il personale medico e paramedico, unitamente alle riunioni effettuate per monitorare l’ andamento delle varie attività, ogni giorno saranno realizzati incontri di 3 ore ciascuno, destinati ai piccoli pazienti, ai quali BENONE, supportato da socioanimatori, musicisti, operatori sociali, assistenti sociali, personale medico e paramedico, psicologi, FARÀ COMPAGNIA ATTRAVERSO: a)l’ assistenza morale, psicologica nei momenti più “dolorosi”, ovvero quelli del mattino quando i medici fanno il tradizionale giro per constatare le condizioni dei piccoli pazienti, quelli più “invasivi”, cioè dei prelievi per le analisi di laboratorio fino all’ accompagnamento nei vari reparti per le terapie (sovente chemioterapiche) o in sala pre-operatoria ma anche e soprattutto all’ uscita dalle sale operatorie dopo gli eventuali interventi chirurgici; b)l’ assistenza nei giochi e nei laboratori didattici, in particolare quelli di socioanimazione, di musica e di educazione alla musica; c)l’ assistenza nel momento delle dimissioni dagli ospedali, attraverso i doni materialmente consegnati dal DOTTOR BENONE (ad esempio, i “bracciali dell’ allegria” che consentiranno di poter usufruire gratuitamente di tutte le giostre dell’ Edenlandia, unitamente ai propri familiari). Ma BENONE, in realtà, è molto di più che un cartone animato: BENONE è la Vita, è la Speranza, come sostiene il Cardinale di Napoli, Guida Spirituale del progetto. L’ Associazione BENONE, poi, sempre in collaborazione con operatori e fornitori altamente specializzati nel settore, realizzerà anche Opuscoli contenenti fiabe e novelle “inventate” con fantasia dai piccoli degenti, DVD riassuntivi delle varie fasi dei laboratori, CD musicale, una storia di 10 puntate di 5’ ciascuna di un cartone animato, da produrre anche con il contributo della Film Commission Campania, da presentare auspicabilmente nel corso della rassegna internazionale “Cartoons on the bay”. VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Momenti congressuali PREMI 216 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA DIAGNOSIS OF ASYMPTOMATIC CEREBRAL THROMBOEMBOLIC EVENTS IN CHILDREN TREATED FOR ACUTE LYMPHOBLASTIC LEUKAEMIA: THE ROLE OF MAGNETIC RESONANCE IMAGING AND MAGNETIC RESONANCE VENOGRAPHY. A PILOT STUDY M. Grassi1, P. Giordano1, V. Cecinati1, G.C. Del Vecchio1, F. Dicuonzo2, M. Palma2, D. De Mattia1, N. Santoro1 1 Division of Pediatric Oncology-Hematology - Department of Biomedicine in Childhood, University of Bari 2 Department of Neurological and Psychiatric Sciences, Section of Neuroradiology, University of Bari Introduction Acute Lymphoblastic Leukaemia (ALL) is the most common childhood malignancy (1;2). With the advent of aggressive multimodality therapy, the survival of children with ALL is better than the past despite possible complications and side effects after chemotherapy (2). Thromboembolism is a well recognized complication in association with ALL therapy in children: the reported incidence of thromboembolic events (TEs) in childhood ALL varies from 0.95% to 36.7% (2-5); this wide variation seems to be related to the definition of TEs (symptomatic versus asymptomatic), diagnostic methods, study design and ALL treatment protocols. The majority of thromboembolic events are cerebral sinovenous thromboses (SVT) and deep venous thromboses (DVT) (1;5). The Prophylactic Antithrombin Replacement in Kids with ALL treated with Asparaginase study (PARKAA) reported a prevalence rate of 36.7% TEs in 60 children screened whilst undergoing induction chemotherapy; these were largely asymptomatic DVT diagnosed by screening with bilateral venography or magnetic resonance imaging (MRI) (6). Santoro et al reported a prevalence of 0.47% symptomatic cerebrovascular thromboembolic events (ETEC); all these ones were SVT and MRI with or without venography revealed it in 100% of cases (7). Although the majority of patients with cerebral SVT are symptomatic, in some patients SVT are an incidental findings (8). Early diagnosis with consequent early beginning of treatment could be effective to improve the prognosis of patients. In this pilot study, conducted on a cohort of paediatric patients during chemotherapy for ALL, we attempted to assess the incidence of cerebral thromboembolic events (ETEC) found in patients submitted to cerebral MRI and Magnetic Resonance Venography (MRV) only at the appearance of suggestive signs and symptoms, compared with the incidence of ETEC found with repeated cerebral MRI and MRV assessments at established times of study, by cerebral MRI and MRV, in patients without any suggestive sign or symptom. Patients and methods The study was performed in accordance with the Helsinki Declaration and it was approved by local ethics committee; informed consent was given by parents. In our prospective pilot study, unpaired case, randomized, we evaluated children with ALL, treated in our Division of Pediatric Hematology/Oncology, according to the AIEOP ALL 2000 protocol, during the induction phase of chemotherapy. Children greater than 1 year of age and younger than 18 years with acute onset of ALL treated according to the AIEOP ALL 2000 protocol between January 2003 and August 2005 were included in this study and were randomized in two groups. In the group defined “A”, ETEC were suspected following the appearance of suggestive signs and symptoms and then confirmed by cerebral MRI and MRV; in the group defined “B”, patients were submitted, at times set, to repeated instrumental evaluations by cerebral MRI and MRV, in absence of symptoms. Leukemic children younger than 1 year of age and greater than 18 years, leukemic children having a PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 217 family history of thrombosis, patients with known prothrombotic defect or alterations of cerebral flow or congenital cerebral arteriovenous malformations, were excluded from the study. This pilot study was conducted during the induction phase of the AIEOP ALL 2000 protocol; patients of the group B were submitted to cerebral MRI and MRV at the following times of study: T0 before receiving any treatment, T1 at day 24th at the moment of fifth administration of L-Asparaginase (L-Asp), T2 at day 36th at the moment of first administration of ciclophosphamide (CMP), T3 at day 52th at the moment of third block of cytosine arabinoside (Ara-C). The induction phase of AIEOP ALL 2000 protocol includes combination chemotherapy with: L-Asp (5000 U/m2) on days 12, 15, 18, 21, 24, 27, 30, 33; prednisone (60 mg/m2 oral) on day 1 to 36; vincristine (1.5 mg/ m2) and daunorubicin (30 mg/m2) on days 8, 15, 22, 29; CMP (1 g/m2) on days 36 and 64; daily Ara-C (75 mg/m2) on day 38 to 41, 45 to 48, 52 to 55, 59 to 62; daily 6mercaptopurine (60 mg/m2) on day 36 to 63; in addition children received prophylactic intrathecal methotrexate on days 1, 15, 29, 38, 52. MR images were obtained with a 1.5 Tesla scanner (GE Sigma). The imaging sequences consisted of spin echo T1-weighted, axial and sagittal images with sections obtained before and after intravenous injections of gadopentetate dimeglumine, T2-weighted axial images and additional fluid liquor attenuate inversion recovery (FLAIR) sequences. Time-of-flight MRV was performed; the scanning planes of the MR angiograms were axial, obliquecoronal, and sagittal, selected for different segments of the dural sinus. MR images were read by a blinded radiologist. At T0, we dosed, in both groups of patients, thrombin-antithrombin complexes (TAT), markers of prothrombotic activation, to compare the initial characteristics of patients. Blood was collected by venipunture in 1/10 volume of 3.8% buffered trisodium citrate; we expected a thorough washing with saline if there was a central venous line after making sure that irrigation by heparin had not been performed in the two hours before the venipunture. TAT were measured using an ELISA kit from Behringwerke (Germany). An age matched control group was recruited from healthy controls for the comparison of TAT levels. We have assumed a frequency of 5% symptomatic ETEC (in the group A) and a greater frequency in Group B to the extent of 30% and, considering a power of study higher than 60% and a level of significance of 95%, we enrolled 23 patients per group. Data were expressed as median (min-max) and as percentage and analyzed by Mann Whitney-U test and Fisher Exact test. The Stat View program (Abacus Concepts, Berkley, CA) was used for statistical analysis. A value of p < 0.05 was considered statistically significant. Results We enrolled 46 cases; 23 patients have been assigned to the group A (15 M and 8 F) and 23 patients (14 M and 9 F) have been assigned to the group B. The two groups showed no significant differences in sex and age and ALL immunophenotypes (data reported in Table I). The evaluation of TAT at T0 did not show significantly different values between the two groups; but in both groups TAT values were significantly higher if compared to values of a matched control group (5.2 and 6.75 vs 3). We observed one ETEC in group A and one ETEC in group B but in this last case we suspected it only after the appearance of suggestive symptoms. Discussion Thrombosis is a frequent complication in children with ALL. The etiopathogenesis of this complication is thought to be multifactorial: a prothrombotic effect of leukemic cells, genetic predisposition, central venous catheters, septic complication and use of drugs such as steroids and L-Asp have all been implicated (8;9;10). A recent meta-analysis of prospective studies in 1752 children with ALL found the global risk of PREMI 218 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA symptomatic thrombosis to be 5.2% (11). In a previous study, led in AIEOP (Italian Association of Pediatric Hematology and Oncology) centres, we evaluated the prevalence of symptomatic TEs in a group of 2318 children with ALL and found that it was 0.95%; 77% of TEs were reported during induction (4). The majority of thromboembolic events are venous and are represented by central nervous system (CNS) thromboses and deep venous thromboses (DVT) (1;5). The Prophylactic Antithrombin Replacement in Kids with ALL treated with Asparaginase study (PARKAA) reported a prevalence rate of 36.7% in 60 children screened whilst undergoing induction chemotherapy; these were largely asymptomatic events diagnosed by screening with bilateral venography or MRI, echocardiography and cranial MRI while only three children (5%) had a symptomatic thrombosis (6). In a recent paper Male et al compared venography and ultrasound for the diagnosis of asymptomatic DVT in the upper body in children with ALL: only one of 19 DVT occurred in 66 patients was identified because of clinical symptoms while the remaining 18 were detected on venography/ultrasound screening (12). Approximately 52% patients with CNS thromboembolic events had SVT compared to 43.7% with parenchymal lesions; 4.3% of patients had involvement of both parenchymal and sinovenous regions (2). A recent our paper reported a prevalence of 0.47% symptomatic ETEC on 2318 children with ALL, treated according to the 1991 and 1995 AIEOP protocols: all these events were SVT and MRI with or without venography revealed it in 100% of cases (7). Although the majority of patients with cerebral SVT are symptomatic, in some patients SVT are an incidental finding (8). Clinical manifestations of SVT are often non-specific and may be subtle; diagnosis of SVT could be missed or delayed, causing complications such us stroke, hemorrhagic infarct, systemic venous thrombosis, long-term neurological deficits, recurrence and death (13;14). Early imaging is mandatory even in the case of mild neurological symptoms. MRI and MRV are very useful for early characterization of central nervous system (CNS) abnormalities related to cerebrovascular disorders (15-19). Neurological manifestations of ETEC are often age related. Younger children show irritability, decreased level of consciousness and seizures; older children often undergo increasing headaches, focal neurological deficit (hemiparesis, visual impairment, cranial nerve palsies, speech impairment, ataxia) and seizures (7;16). The symptoms and signs of ETEC are not specific so diagnosis is often delayed and may be missed altogether; the clinical presentation is highly variable, including discrete symptoms such as headache alone, but also severe neurological and often multifocal deficits (15). Clinical suspicion and the choice of appropriate diagnostic instrumental methods is crucial for early diagnosis. MRI with venography is the investigation of choice for diagnosis and follow-up of cerebral venous thromboses; computed tomography alone will miss a significant number of cases (19;20). In this pilot study, we tried to compare the incidence of ETEC found in patients submitted to evaluation by cerebral MRI and MRV only at the appearance of suggestive signs and symptoms of ETEC (group A), against the incidence found after repeated evaluations, at appointed times, by cerebral MRI and MRV in patients without any suggestive clinical presentation (group B). We enrolled 23 patients per group; both groups of patients were similar to the initial features considered. Patients with T immunophenotype, previously associated with a higher risk of thrombosis in ALL (4) were equally distributed in the two groups. Neither cases of ETEC, reported in this study, occurred in patients with T-ALL. At the onset of the disease we dosed TAT complexes, markers of prothrombin activation, before the administration drugs; we found TAT levels not significantly different between the two groups observed, but higher in both groups studied compared to control group, confirming a state of prothrombotic activation at the onset of ALL (21). In their paper Mitchell et al aimed to determine the prevalence of TEs in pediatric patients with ALL so children were screened for TEs at the end of L-Asp treatment using bilateral venograms, ultrasound, MRI, and echocardiography; twenty-two of 60 children had TEs but only three patients presented with clinically PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 219 symptomatic TEs (6). Male et al compared venography and ultrasound for the diagnosis of asymptomatic deep vein thrombosis in the upper body in children with ALL and found DVT prevalence of 29% patients (19/66): only one event was identified because of clinical symptoms and the remaining were detected on venography/ultrasound screening (12). We supposed to find a higher incidence of ETEC in patients undergoing screening with MRI and MRV compared to not screened patients, due to the detection of asymptomatic ETEC. We observed one ETEC in group A and one ETEC in group B but in this last case we suspected ETEC only after the appearance of suggestive symptoms. The patient of group A presented with seizures in absence of fever, visual deficits and clouding of sensory, at day 22nd of induction phase, after the administration of the fourth dose of L-Asp; following the appearance of these symptoms, the child was submitted to a cerebral MRI that showed areas of abnormal signal compatible with venous ischemic necrotic lesions bilaterally in parietal and occipital regions; cerebral MRV showed thrombosis of left transverse sinus, slowing of flow in the right transverse sinus and steno-occlusion in the posterior part of superior sagittal sinus (fig.1). We treated the patient with Low Molecular Weight Heparins (LMWH) and administration of L-Asp was finally suspended. The patient of group B presented with persistent headache, vomiting and neck stiffness, after administration of the second dose of L-Asp; so the patient was submitted to cerebral MRI and MRV that showed thrombosis of right transverse and superior sagittal sinus (fig.2- fig.3). He was immediately treated with the administration of LMWH and L-Asp was finally suspended. This child, showed cerebral MRI and MRV normal at T0 (before receiving any treatment); it is important to note that, at day 18th of the induction phase, six days before T1 (24th), he was submitted to instrumental evaluation only after the appearance of suggestive symptoms and signs and subsequent clinical suspicion. Data from Mitchell et al (6) and Male et al (12) seem to suggest it could be useful to practice a screening for asymptomatic DVT in children with ALL, because of the reported high incidence of this complication, discovered in absence of symptoms. Unlike data about DVT (6;12), our data did not seem to suggest a screening for asymptomatic ETEC in children with ALL; although our study is a pilot study and our study population is very small, we have not found differences in early detecting ETEC and asymptomatic ETEC among monitored patients and not monitored patients, since in the patient of group B (group of monitored patients) instrumental evaluation and diagnosis of ETEC followed only the appearance of characteristic symptoms and signs. Mitchell et al (6) described only one ETEC in their work but still this TE was symptomatic, presenting particularly with headache and extra ocular movement abnormalities; we reported two ETEC, both with symptoms. Repeated cerebral MRI and MRV assessments, in the absence of acute events, are usually burdened by a reduced compliance in patients and parents, linked to psychophysical stress of the procedure (venipuncture, mobilization of patient, need for prolonged immobility during examination, lack of acceptance by the patient and the family) and, in young children, to the need to perform such instrumental examinations in narcosis, a practice not free from risks. We should not underestimate that these diagnostic procedures are burdened by high costs so it is recommended their use only in case of real need and appropriateness. Undoubtedly the small sample size represents a critical point in an incidence study but according to our power calculations, the number of cases could be sufficient to provide an asymptomatic detection rate of ETEC of 30%. Although our results have to be interpreted with caution and no definitive conclusions can be drawn from these results, our study doesn’t seem suggest to perform a screening for asymptomatic ETEC and for early diagnosis of ETEC using repeated instrumental evaluations by cerebral MRI and MRV in children with ALL, during induction phase. Although further larger studies are surely needed, we could consider useful subjecting patients to cerebral MRI and MRV evaluations only after the appearance of symptoms even PREMI 220 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA minimally suggestive of ETEC, in the phases of chemotherapy where the incidence of TEs is higher, such as the induction but also the re-induction phase, for obtaining an early diagnosis as soon as possible. An high index of clinical suspicion is needed to diagnose this condition so the appropriate treatment can be early initiated. The clinical suspicion seems to be fundamental to guide the choice of an appropriate instrumental assessment followed afterwards by an adequate treatment. Acknowledgments We thank Antonio Santacroce (MD) for assistance in writing this manuscript. References 1. Pui CH, Evans WE. Acute lymphoblastic leukaemia. N Engl J Med 1998:339:605-15. 2. Athale UH, Chan AK. Thrombosis in children with acute lymphoblastic leukemia: part I. Epidemiology of thrombosis in children with acute lymphoblastic leukaemia. Thromb Res 2003:111:125-31. 3. Mitchell LG, Sutor AH, Andrew M. Hemostasis in childhood acute lymphoblastic leukaemia; coagulopathy induced by disease and treatment. Semin Thromb Hemost 1995:21:390-401. 4. Giordano P, Santoro N, Del Vecchio GC, Rizzari C, Masera G, De Mattia D. T-immunophenotype is associated with an increased prevalence of thrombosis in children with acute lymphoblastic leukemia. A retrospective study. Haematologica 2003:88:1079-80. 5. Payne JH, Vora AJ. 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Thrombin generation in children with acute lymphoblastic leukemia: effect of leukaemia immunophenotypic subgroups. Pediatr Hematol Oncol 2000:17:667-72. PREMI 222 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA LA VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE IN ETÀ PEDIATRICA: FATTORI INFLUENZANTI LA COPERTURA VACCINALE NEI BAMBINI SANI ED IN QUELLI CON MALATTIA ONCOLOGICA D. Amato1, V. Cecinati1, G.C. Del Vecchio1, E. Praitano2, N. Santoro1, D. De Mattia1 1 Clinica Pediatrica “F.Vecchio”, Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva Università degli Studi di Bari Pediatra di Famiglia ASL Bari 2 Introduzione L’impatto clinico e socioeconomico dell’influenza in età pediatrica è spesso sottovalutato. E’ stato dimostrato che durante la stagione influenzale il bambino di età inferiore ai 2 anni ha, anche in assenza di situazioni capaci di aggravare la prognosi, un rischio di ricovero da 2 a 20 volte superiore a quello del bambino sano più grande, rischio che risulta analogo a quello che si osserva nel paziente con situazioni patologiche di base o in quello di età superiore ai 65 anni. Inoltre, i bambini sani di età pre-scolare e scolare rappresentano coloro che più spesso si ammalano di influenza e costituiscono la principale causa di diffusione della malattia all’interno della comunità in quanto la trasmettono ai contatti familiari condizionando in modo significativo l’attività lavorativa dei genitori, costretti a rimanere a casa per accudire i figli o perché essi stessi si ammalano. Tutti questi dati suggeriscono che nel bambino sano l’influenza comporta notevoli conseguenze pratiche non solo di carattere medico ma anche di ordine economico e sociale comportando un aggravio della spesa assistenziale e di non poche problematiche familiari. Inoltre le autorità scientifiche e istituzionali, compreso il Ministero della Salute Italiano, raccomandano la vaccinazione antinfluenzale dei soggetti di età pediatrica superiore ai sei mesi con le seguenti patologie croniche:1) malattie croniche a carico dell’apparato respiratorio 2) malattie dell’apparato cardiovascolare comprese le cardiopatie congenite e acquisite. 3) diabete mellito 4) malattie renali con insufficienza renale 5) malattie degli organi emopoietici compresi i tumori infantili 6) immnodeficenze congenite e acquisite 7) malattie infiammatorie coniche e sindromi da malassorbimento intestinali 8) malattie che richiedono un trattamento a lungo termine con acido acetilsalicilico, a rischio di sindrome di Reye in caso di influenza. Se pur tali raccomandazioni sull’impiego del vaccino contro l’influenza nel bambino con patologia cronica sono condivise da tutti gli esperti, il suo uso nella pratica quotidiana è molto limitato.I dati disponibili nella letteratura nazionale e internazionale indicano infatti che nei bambini con patologia cronica come i pazienti affetti da tumori infantili ormai fuori terapia la copertura vaccinale contro l’influenza varia dal 9% al 25%.Tale dato diventa ancora più considerevole se si considera che i pazienti che hanno terminato la chemioterapia (associata o meno a radioterapia e/o a trapianto di midollo osseo) per effetto di una temporanea immunodepressione sono più esposti a infezioni respiratorie e gastrointestinali rispetto ai pazienti sani. Le ragioni dei bassi livelli di copertura sia nei bambini sani e nei bambini affetti da patologie croniche o debilitanti sono rappresentate dalla mancanza di una chiara percezione sia da parte dei genitori che della classe medica dell’importanza clinica dell’influenza, del rischio di complicanze gravi ad essa connessa e dei vantaggi offerti dalla vaccinazione. Una possibile spiegazione dell’erroneo atteggiamento mentale assunto dai medici in genere e dai pediatri in particolare nei confronti della vaccinazione antinfluenzale può derivare dalla considerazione che l’importanza della prevenzione di questa malattia nei bambini a rischio è dimostrata da dati indiretti. Se infatti esistono alcun recenti lavori clinici che dimostrano che l’influenza può aumentare in modo significativo la frequenza di ospedalizzazione, il numero di visite ambulatoriali e il consumo di farmaci minima è la disponibilità di studi che mettono in evidenza come la vaccinazione contro l’influenza sia utile nel ridurre le complicanze secondarie alla malattia. Il nostro centro, da tempo impegnato nella ricerca e nell’assistenza clinica di pazienti affetti da patologie oncologiche ed ematologiche pediatriche, si è impegnato nell’affrontare l’impatto dell’influenza e dei mezzi per farle fronte in tale specifico ambito. PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 223 Obiettivi dello studio Avendo studi recenti evidenziato il significativo impatto socio-economico dell’influenza in età pediatrica, in particolare nel bambino affetto da patologia cronica grave ma anche nel bambino sano, e avendo pure messo in evidenza uno scarso utilizzo nella pratica quotidiana della vaccinazione antinfluenzale in entrambe le categorie di pazienti, il nostro studio si è posto 3 obiettivi principali: Valutare, in una prima fase, la copertura vaccinale antinfluenzale nei bambini sani ed in quelli con patologia oncologica cui è raccomandata la vaccinazione; Studiare i fattori influenzanti la pratica vaccinale nei bambini sani ed in quelli con patologia oncologica; Successivamente in una seconda fase studiare l’impatto di diverse misure di intervento finalizzate ad aumentare la copertura vaccinale contro l’influenza esclusivamente nei bambini con patologia oncologica. In più la nostra ricerca ha previsto una fase di sorveglianza prettamente clinica delle coorti di pazienti studiate, durante il periodo di circolazione del virus influenzale. Materiali e Metodi Lo studio è stato articolato in due fasi: Fase 1 Fase di tipo descrittivo osservazionale, basata sulla valutazione retrospettiva di dati anamnestici relativi alla vaccinazione antinfluenzale nei soggetti arruolati mirati all’identificazione delle ragioni che portano ad eseguire o a non eseguire la vaccinazione antinfluenzale. La suddetta fase è stato condotta dal mese di Febbraio 2006 al mese di Aprile 2006 presso uno studio di una Pediatra di Famiglia e presso l’ambulatorio di Oncoematologia Pediatrica dell’Unità Operativa di Pediatria Generale e Specialistica “F. Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva dell’Università degli Studi di Bari. Sono state definiti tre gruppi di bambini: bambini sani, bambini con Leucemia Linfoblastica Acuta (LLA) e bambini con altre neoplasie, previo consenso informato dei genitori e seguendo i criteri della buona pratica clinica. I criteri di arruolamento in ciascuna coorte sono: Età: 2-18 anni Gruppo: - Sani: soggetti non affetti da patologie croniche note. LLA: soggetti con diagnosi di Leucemia Linfoblastica Acuta secondo protocolli AIEOP in uso, in off therapy da meno di 5 anni. Altre neoplasie: soggetti con diagnosi di Linfoma di Hodgkin o Linfoma Non Hodgkin o Tumore di Wilms o Rabdomiosarcoma o Epatoblastoma o Istiocitosi secondo protocolli AIEOP in uso e in off therapy da meno di 5 anni. Si è previsto di arruolare due soggetti sani per ogni soggetto oncologico. E’ stata utilizzata una scheda raccolta dati contenente delle domande, rivolte ai genitori, riguardanti l’esecuzione della vaccinazione antinfluenzale negli anni scorsi, in particolare nella stagione 2005/2006, come viene percepita l’influenza dai genitori, le motivazioni che li hanno spinti a scegliere o meno di vaccinare il proprio figlio e quali sono stati i soggetti che hanno suggerito la vaccinazione stessa. Fase 2 Fase di tipo prospettico, randomizzato a blocchi finalizzato alla verifica della metodologia migliore per ottenere una più ampia adesione alla vaccinazione antinfluenzale nel paziente oncologico. I criteri per l’arruolamento sono stati: Età: 2-18 anni Patologia: - Pazienti affetti da LLA in off therapy da meno di 5 anni. - Pazienti affetti da Linfoma (Hodgkin e non Hodgkin) in off therapy da meno di 5 anni. Dunque si è proceduti a suddividere tutto il campione di bambini oncologici secondo una specifica lista di randomizzazione in tre gruppi. A ciascuno di questi è stata proposta, nel periodo di Novembre 2006, PREMI 224 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA una diversa metodologia di offerta e di somministrazione del vaccino. Specificatamente: GRUPPO A: i genitori dei soggetti inclusi nel gruppo A sono stati contattati direttamente dai medici dell’Ambulatorio di Oncoematologia che normalmente seguono questi bambini per quanto riguarda il follow up della patologia di base. Ai genitori e al paziente con più di 8 anni, è stato spiegato che la vaccinazione antinfluenzale è raccomandata dalle autorità sanitarie e stata loro offerta la possibilità di praticarla gratuitamente nel centro stesso; GRUPPO B: i genitori dei bambini inclusi nel gruppo B sono stati ugualmente contattati dai medici dell’ Ambulatorio di Oncoematologia e ad essi, e in casi opportuni anche al bambino, è stato chiarito il problema della raccomandazione della vaccinazione antinfluenzale. E’ stato spiegato che la vaccinazione sarebbe stata praticata nel Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva me che essi avrebbero dovuto condurre il bambino in un altro ambulatorio appositamente predisposto (Ambulatorio di Pediatria Preventiva e Sociale); GRUPPO C: i genitori dei bambini inclusi nel gruppo C sono stati contattati da medici non facenti parte del centro di riferimento (Ambulatorio di Pediatria Preventiva e Sociale) e quindi ad essi in precedenza sconosciuti. Questi medici, del suddetto ambulatorio, hanno avuto il compito di chiarire il problema della raccomandazione della vaccinazione antinfluenzale nei soggetti a rischio. Per l’esecuzione della vaccinazione questi bambini sono stati condotti in un ambulatorio appositamente predisposto (Ambulatorio di Pediatria Preventiva e Sociale) diverso da quello del centro di riferimento. La vaccinazione è stata eseguita nei soggetti, i cui genitori hanno aderito alla strategia vaccinale previa compilazione di un consenso informato, con il vaccino, virosomiale adiuvato, Inflexal V (Berna Biotech, Italia), già da tempo commercializzato, secondo le indicazioni ministeriali (0, 25 ml, pari a mezza dose, nei primi 3 anni di vita e due somministrazioni per i bambini mai vaccinati in precedenza di età inferiore ai 9 anni). E’ stata messa in atto una sorveglianza clinica della efficacia della vaccinazione mediante la raccolta di informazioni, su una apposita scheda di raccolta dati, riguardanti malattie simil-influenzali e loro morbidità ottenute tramite interviste telefoniche mensili ai genitori compiute nel periodo Gennaio-Maggio 2007. La definizione di malattia simil-influenzale utilizzata nell’analisi ha incluso qualsiasi infezione delle alte e basse vie respiratorie e qualsiasi infezione gastrointestinale, riferita dai genitori durante la sorveglianza. Le infezioni delle alte vie respiratorie includevano: faringite, definita come presenza di mal di gola con o senza febbre; rinosinusite acuta, definita come presenza di rinorrea persistente più di 10 giorni e meno di 3 settimane. Le infezioni del basso tratto respiratorio includevano: bronchite acuta, wheezing, e polmoniti (febbre, tosse, tachipnea e riduzione dei rumori respiratori o presenza di rantoli localizzati). Le infezioni gastrointestinali includono episodi di vomito e diarrea accompagnati o meno da febbre. La scheda di raccolta dati ha previsto quesiti ai genitori relativi al numero di conviventi del bambino, al numero di locali dell’abitazione, alla presenza di fumatori tra i conviventi (fumo passivo), all’esecuzione della vaccinazione antinfluenzale nella stagione 2005-2006, al numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali del bambino nell’arco del 2006 ed in particolare nei primi sei mesi dello stesso anno, e, ad ogni contatto telefonico mensile, sono stati somministrati quesiti riguardanti la comparsa di infezioni respiratorie o gastrointestinali in quel mese. Analisi statistica I dati sono stai espressi come: Media ± deviazione standard; Minimo, massimo e mediana; Percentuale ed analizzati mediante: analisi della varianza (ANOVA), test del chi-quadro per tavole di contingenza 2 x 4 e test della somma dei ranghi di Wilcoxon. PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 225 Risultati Nella Fase 1 sono stai arruolati 599 bambini suddivisi in tre gruppi: 400 bambini nel gruppo dei sani (208 maschi e 192 femmine), 100 pazienti nel gruppo LLA (51 maschi e 49 femmine) e 99 pazienti nel gruppo altre neoplasie (51 maschi e 48 femmine). I tre campioni sono risultati sovrapponibili per età e per sesso come si può osservare in tabella 1. Tabella 1. Distribuzione del campione per sesso e per età (Fase 1). I soggetti vaccinati almeno una volta nella vita contro l’influenza sono risultati tra i sani 72 su 400, 31 su 100 nel gruppo LLA e 22 su 99 nel gruppo altre neoplasie. In figura 1 tali risultati vengono espressi sottoforma di percentuali di soggetti vaccinati almeno una volta nella vita nei tre gruppi. Fig. 1 Percentuale di soggetti vaccinati almeno una volta nella vita Riguardo l’esecuzione della vaccinazione nella stagione 2005/2006 nel gruppo dei sani erano vaccinati 60 su 400 (15.1 %), nella coorte LLA 30 su 100 (30%) e nel gruppo altre neoplasie 19 su 99 (19%), come enunciato in figura 2. PREMI 226 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Fig. 2 Percentuale di bambini vaccinati contro l’influenza nel 2005 La percentuale di copertura per la stagione 2005-2006 nei primi è stata in media del 24% e nei secondi del 15%, rivelando quindi una maggiore attenzione da parte dei genitori di pazienti affetti da patologia cronica grave al problema dell’influenza e delle sue possibili complicanze. Ciò risulta ugualmente se si considerano i dati relativi alle percentuali di bambini vaccinati almeno una volta nella vita (fig. 1). Abbiamo poi analizzato, in tale quota di bambini vaccinati almeno una volta nella vita contro l’influenza, il numero di coloro che hanno ripetuto la vaccinazione ogni anno. Sul campione considerato tale numero è risultato del 7% nei sani, 10% nella LLA e 9% nelle altre neoplasie. Riguardo i fattori influenti la mancata pratica vaccinale ogni anno, essi sono stati indagati mediante un’apposita domanda sul questionario “perché non è stato rivaccinato?” con 5 possibilità di risposta, i risultati sono riportati in figura 3. Fig.3 Fattori influenzanti la mancata pratica vaccinale annuale. Nella popolazione di soggetti vaccinati in precedenza, si è andati anche ad indagare sulle motivazioni per le quali un genitore aveva preso tale decisione tramite una domanda diretta “perché?” con 5 possibilità di risposta. Nelle figura 4 è riportata la frequenza delle suddette motivazioni nei 3 gruppi di soggetti. Si può notare una netta prevalenza della risposta “Raccomandato dal medico” nei soggetti con altre neoplasie (79%) ed PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 227 LLA (70%) rispetto ai sani (50%). In questi ultimi la eventuale gravità dell’infezione influenzale è risultata essere l’altra motivazione principale(27%) (fig.4). Fig. 4 Percentuali delle motivazioni all’esecuzione della vaccinazione Inoltre abbiamo analizzato nel dettaglio la fonte specifica della raccomandazione medica ed il risultato è stato una preponderanza del Medico del Centro di Riferimento per i soggetti con LLA e altre neoplasie e del Pediatra di Famiglia per i soggetti sani. Nel gruppo dei soggetti che non erano mai stati vaccinati contro l’influenza il mancato suggerimento del Pediatra di Famiglia o del Medico del Centro di Riferimento incide in misura preminente nella classe LLA (48%) e altre neoplasie (53%), attestandosi al 33% nei sani. Lo scarso timore della gravità dell’influenza è addotto come motivazione dal 37% nei sani, 16% nelle altre neoplasie e 14% nella LLA. Il timore dell’inefficacia del vaccino è del tutto sovrapponibile nelle tre classi attorno al 5%, mentre il timore della comparsa di possibili effetti collaterali è il 10% nei sani, 16% nella LLA e il 12% nelle altre neoplasie (Fig.5). Fig.5 Percentuali delle motivazioni per non aver eseguito la vaccinazione Infine abbiamo voluto indagare come viene percepita l’influenza nelle famiglie, e abbiamo chiesto al genitore intervistato “pensa che l’influeza possa essere pericolosa per suo figlio?” I risultati ottenuti sono riportati in figura 6. PREMI 228 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Fig. 6 Percentuale di intervistati che ritengono l’influenza pericolosa per il bambino Nella Fase 2 sono stati arruolati 149 bambini di cui in 93 bambini affetti da patologia oncologica (69 affetti da LLA e 24 affetti da Linfoma) e 56 controlli sani (37 maschi e 19 femmine). La coorte di bambini oncologici è risultata così distribuita nei tre gruppi di randomizzazione: GRUPPO A contenente 32 piccoli (20 maschi e 12 femmine), GRUPPO B composto da 25 soggetti (18 maschi e 7 femmine) e GRUPPO C costituito da 36 bambini (23 maschi e 19 femmine). I gruppi suddetti sono risultati sovrapponibili per sesso e per età come si evince dalla tabella 2. Tabella 2. Coorte di bambini oncologici e sani I gruppi sono risultati sovrapponibili anche in base al numero di conviventi e numero di locali dell’abitazione che vengono espressi come minimo, massimo e mediana e anche in base alla presenza di fumo passivo e frequenza di una comunità. Valutandoli in base al numero di conviventi vaccinati è risultata una maggiore prevalenza nei gruppi A, B, C rispetto ai controlli sani (tabella 3 e tabella 4). PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 229 Tabella 3. Condizioni di vita Tabella 4. Conviventi vaccinati In figura 7 è riportata la percentuale dei soggetti in off therapy per patologia oncologica vaccinati nel 2006, a seguito della campagna vaccinale, nei tre gruppi. Fig. 7 Percentuale di vaccinati nei diversi gruppi di appartenenza Si può evincere che le tre strategie si sono rivelate egualmente efficaci nel determinare un aumento della copertura vaccinale nella coorte di bambini studiata rispetto alla fase 1. Infatti mettendo a confronto la percentuale di copertura vaccinale nella stagione 2005-2006 della PREMI 230 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA popolazione oncologica afferente presso il nostro centro, desunta dalla fase 1 e attestatasi ad una media del 24% circa, con la percentuale media di copertura raggiunta nei tre gruppi nella stagione vaccinale 2006-2007, che è del 52, 6% circa, si può affermare con certezza la utilità e la validità delle nostre strategie che hanno determinato un incremento del 28, 6% del numero di pazienti vaccinati contro l’influenza (figura 8). Fig. 8 Copertura vaccinale nelle stagioni 2005-2006 e 2006-2007 L’efficacia della vaccinazione antinfluenzale è stata valutata mediante parametro clinico. Dalla popolazione di 49 bambini in off therapy per neoplasia vaccinati nella stagione 2006-2007, sono stati esclusi 9 soggetti che avevano eseguito la vaccinazione antinfluenzale nella stagione 2005-2006. Dall’analisi dei dati è scaturita una significativa (p<0, 001) riduzione della mediana del numero di infezioni da 2 nel I° semestre del 2006 ad 1 nel I° semestre del 2007 (tabella 5). Tabella 5. Numero di infezioni influenzali nel I° semestre 2006 e 2007 Oltre a ciò si è registrata una significativa differenza nel numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali tra i sani ed i soggetti in off therapy per malattia oncologica (tabella 6). Dunque, si evince che il bambino con patologia oncologica in off therapy va incontro ad un numero maggiore di infezioni durante la stagione influenzale rispetto al bambino sano. PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 231 Tabella 6. Incidenza delle infezioni respiratorie e gastrointestinali. Discussione L’influenza è un’infezione molto comune tra i bambini: essi sono la principale fonte di diffusione del virus all’interno della comunità e delle proprie famiglie perché eliminano il virus per un tempo più lungo rispetto agli adulti con punte, ad esempio in pazienti con leucemia, anche di 21 giorni. Dunque l’influenza non ha solo un importante impatto clinico, ma a ben vedere anche un impatto socio-economico significativo. Uno studio italiano del 2003 ha dimostrato un significativo aumento del numero di visite mediche, giorni di scuola o di lavoro persi nei conviventi di bimbi affetti da influenza rispetto a bambini senza influenza. Ciò è risultato in particolare per i genitori di piccoli affetti da influenza di tipo B rispetto ai genitori di altri affetti da influenza A, e per i genitori dei bambini tra 2 e 5 anni rispetto a quelli di bambini oltre i 5 anni d’età. Il ruolo dei bambini nella trasmissione dell’influenza alla comunità è stato anche indirettamente confermato da studi che analizzano l’impatto sui conviventi della vaccinazione antinfluenzale nel bambino. Ciò risulta ancor più evidente se si considera che nel bambino affetto da patologia cronica come la patologia neoplastica l’influenza comporta conseguenze notevoli di ordine prettamente medico-pratico e che comportano aggravio della spesa assistenziale e svariate problematiche familiari. In tutto il mondo le autorità scientifiche e sanitarie raccomandano la vaccinazione antinfluenzale in pazienti affetti da patologie croniche gravi associate ad un aumentato rischio di complicazioni legate all’infezione stessa, includendo i pazienti affetti da patologia oncologica. Seppure tali raccomandazioni sull’impiego del vaccino contro l’influenza nel bambino con patologia cronica siano condivise da tutti gli esperti, il suo uso nella pratica quotidiana è molto limitato Il nostro studio ha evidenziato la suscettibilità del paziente oncologico verso le malattie infettive, oltre che durante il trattamento chemioterapico e radioterapico anche quando il piccolo è in off therapy. Infatti abbiamo documentato nella nostra analisi all’interno di una coorte di pazienti in off therapy da meno di 5 anni, affetti da LLA o da Linfoma, un maggior numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali nell’arco dell’anno 2006 rispetto ai controlli sani. Ciò potrebbe ricondursi al fatto che un bambino che è stato sottoposto in passato a terapie immunosoppressive ed antiblastiche potrebbe risultare nei primi anni dopo il termine della terapia immunologicamente meno capace di contrastare aggressioni dall’esterno da parte di patogeni. Il nostro lavoro ha valutato, in linea con una serie di studi nazionali ed internazionali, i livelli di copertura della vaccinazione antinfluenzale nella popolazione di bambini oncologici dell’area pugliese, lucana ed in parte calabra. In linea con un trend generalizzato la quota di bambini affetti da neoplasia che si vaccinano contro l’influenza è molto inferiore a quanto auspicato dalla Circolare del Ministero della Salute n. 2 - 18/04/2006, Prevenzione e controllo dell’influenza. Raccomandazioni per la stagione 2006-2007, che è di circa l’85%. Nella stagione 2005-2006 essa si è attestata a valori attorno al 24%. Eppure i bambini oncologici costituiscono un gruppo a rischio, in cui l’influenza dura quasi il doppio, e in cui noi stessi abbiamo documentato un numero maggiore di infezioni durante la stagione 2005-2006 rispetto ai bambini sani. PREMI 232 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Per spiegare tale situazione abbiamo indagato quelli che sono i determinanti di vaccinazione tra le famiglie e la loro percezione dell’influenza. Sicuramente l’infezione influenzale è considerata alla stregua di un banale raffreddore anche se, come si può immaginare, il genitore di un bambino affetto da neoplasia appare maggiormente preoccupato della severità o di eventuali complicanze legate all’infezione. Il 37% dei genitori dei bambini sani non usufruisce della vaccinazione perché non ritiene l’influenza una malattia pericolosa. Ma soprattutto c’è il mancato consiglio da parte dei pediatri alla vaccinazione come motivazione essenziale a livelli così bassi di copertura, anche nei sani. La nostra ricerca è giunta alla conclusione che: i genitori riferiscono che a consigliare loro la vaccinazione antinfluenzale è principalmente il Pediatra di Famiglia per i bambini sani, il Medico del Centro di Riferimento per i pazienti oncologici. Infatti, è proprio la raccomandazione del medico a diventare la ragione principale per un genitore, sia di un bambino sano che di un piccolo con patologia neoplastica, a far somministrare la vaccinazione contro l’influenza al proprio figlio. Inoltre nelle classi di bambini oncologici gioca un ruolo importante anche il timore che l’infezione influenzale possa aggravare la patologia di base. E’ dunque di forte impatto il ruolo che i genitori affidano al Pediatra di Famiglia o al medico del Centro di Riferimento, nel consigliare e motivare all’esecuzione della vaccinazione. Lo abbiamo sperimentato direttamente mettendo in atto tre strategie vaccinali, basate su una corretta informazione sull’influenza ed i suoi rischi da parte dei pediatri del Centro di Riferimento e di pediatri non appartenenti allo stesso e sull’offerta della vaccinazione gratuita. Esse si sono rivelate ugualmente efficaci nel determinare un aumento al 53% nella stagione 2006-2007 della copertura vaccinale antinfluenzale in una popolazione di bambini affetti da LLA e Linfoma. Tenendo conto che i bambini con patologia oncologica hanno frequenti contatti con il sistema medico, ciò si traduce in molte opportunità per proporre e somministrare il vaccino antinfluenzale. L’efficacia del vaccino antinfluenzale nel prevenire o attenuare la malattia, varia a seconda dell’età e dell’immunocompetenza del soggetto vaccinato. Non è facile confrontare i vari studi che trattano l’argomento, dato che i parametri utilizzati per effettuare la diagnosi di influenza sono diversi. In alcuni si utilizza infatti la conferma dell’infezione attraverso coltura virale, in altri vengono valutate tutte le malattie febbrili se associate ad incremento del titolo anticorpale e in altri ancora solo il parametro clinico. L’efficacia varia nei diversi studi, tra il 30 e il 90%.Se si valuta l’efficacia contro l’influenza provata con coltura virale, il risultato dimostra un’efficacia di circa il 60% nel primo anno dopo la vaccinazione. Il vaccino può comunque evitare il diffondersi di un’epidemia, sopratutto quando vengono vaccinati i bambini che, come detto, rappresentano il veicolo d’ingresso dell’infezione nelle famiglie. L’esperienza giapponese sull’efficacia della vaccinazione nei bambini nel ridurre il numero di morti negli anziani è ormai ben conosciuta. Il vaccino antinfluenzale riduce inoltre la morbilità per malattie infettive delle vie aeree superiori nei bambini vaccinati e nei conviventi. I nostri risultati, relativi ad un’esclusiva valutazione clinica, sono stati in linea con la letteratura poiché documentano una riduzione di circa il 50% del numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali in bambini oncologici in off therapy vaccinati nella stagione 2006-2007 rispetto alla stagione 2005-2006 in cui gli stessi non erano stati sottoposti a vaccinazione antinfluenzale. Tale riduzione si traduce in un ipotizzabile guadagno in termini di qualità di vita per il bambino, di risparmio in termini di spese assistenziali, di utilizzo di farmaci e di impatto per le famiglie. Conclusioni E’ dunque la sinergia tra il Pediatra di Famiglia e il Pediatra del Centro di Riferimento Oncologico che può accrescere la consapevolezza che l’influenza non è un raffreddore, ma una malattia infettiva con i suoi rischi e le sue complicanze e soprattutto con un ingente impatto sociale ed economico e che la vaccinazione è uno strumento efficace e sicuro di prevenzione. PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 233 Bibliografia 1. Principi N, Esposito S, Marchisio P. Socioeconomic impact of influenza in healthy children and their families. Pediatric Infect Dis J 2003; 22: 5207-5210. 2. Neuzil KM, Mellen BG, Wright PF et al. The effect of influenza on hospitalization, outpatient visits, and courses of antibiotics in children. N Engl J Med 2000; 342: 225-231. 3. Kempe A, Hall CB, Mac Donald NE et al. Influenza in children with cancer. J Pediatr 1989; 115: 33-39. 4. Feldman S, Webster RG, Sugg M. Influenza in children and young adults with cancer. Cancer 1977; 39:350353 5. Esposito S, Marchisio P, Droghetti R, Lambertini L et al. Influenza vaccination coverage among children with high-risk medical conditions. Vaccine 2006; 24:5251-5255. 6. Daley MF, Crane LA, Chandramouli V, Beaty BL et al. Misperceptions about influenza vaccination among parents og healthy young children. Clin Pediatr (Phila) 2007; 46: 408-417. 7. Porter CC, Poehling K, Hamilton R et al. Influenza immunization practices among pediatric oncologists. J Pediatr Hematol Oncol 2003; 205: 134-138. 8. Chisolm JC, Devine T, Charlett A et al. Response to influenza immunization during treatment for cancer. Arch Dis Child 2001; 84: 496-500 PREMI 234 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA PROGETTO: “MIGLIORARE LA QUALITÀ DELL’ACCOGLIENZA AL BAMBINO E AI SUOI FAMILIARI” C. Pernice U.O. Ematologia e Oncologia Pediatrica - Seconda Università degli Studi di Napoli Premessa L’Unità Operativa di Oncoematologia Pediatrica della Seconda Università degli Studi di Napoli segue bambini e adolescenti affetti da patologie ematologiche e/o oncologiche. L’impegno principale della struttura è quello di aumentare la possibilità di guarigione da malattie rare nell’infanzia, che ancora oggi, nonostante i progressivi miglioramenti sono gravate da prognosi severa. Per raggiungere quest’obiettivo il centro partecipa alla definizione e all’applicazione di protocolli di diagnosi e terapia condivisi con analoghi Centri nazionali ed europei, continuamente aggiornati e migliorati. Impegnata a garantire un livello di prestazioni di alta specialità, la struttura lavora a tutt’oggi per accrescere la qualità dell’accoglienza del bambino e dei suoi familiari e inoltre per assicurare ospitalità e disponibilità di specifici servizi dedicati al benessere del bambino. La “ tutela della salute è un diritto fondamentale dell’individuo, come recita l’art. 32 della Costituzione. Pertanto l’Accoglienza, portando l’attenzione sui bisogni dei pazienti, risponde al diritto soggettivo dell’utenza e a un preciso dovere del personale sanitario. Il livello di qualità dell’accoglienza non dipende solo dai comportamenti del singolo operatore, ma dalla modulazione dell’intera organizzazione del lavoro. Da ciò scaturisce la necessità di individuare procedure in grado di verificare la corrispondenza tra singole prestazioni e standard di qualità definiti a priori, in linea con gli obiettivi del sistema sanitario. Ogni persona è un individuo unico, con problemi e caratteristiche diverse che necessita di essere accolta nell’organizzazione sanitaria, modulando gli interventi secondo i problemi che presenta, espliciti o meno che siano. I contenuti e le modalità con cui si accoglie un paziente non potranno quindi essere uniformati in una procedura standard, ma al contrario i percorsi dell’accoglienza nella struttura ospedaliera dovranno essere modulati in base alla tipologia d’utente che ci si trova ad affrontare, rendendo improponibile il parlare d’accoglienza in termini generali. Descrizione sintetica del progetto Il progetto analizza le componenti del processo di accoglienza dei bambini e dei loro familiari. Si pone l’obiettivo di migliorare ed uniformare la qualità dell’Accoglienza, riorganizzandone e sviluppandone le attività già esistenti a livello di U.O., partendo dall’ipotesi che, il momento dell’accoglienza non sempre sia adeguato e che tale attività viene svolta attualmente in modo difforme. In relazione all’accoglienza e alla valutazione infermieristica sono presi come riferimento gli standard e i corrispettivi elementi misurabili definiti dalla J.C.I. Per conoscere la situazione e mettere alla luce tutte le aree di criticità in merito al problema, è condotta un’indagine nell’unità operativa di degenza (somministrazione di un questionario ai genitori dei piccoli pazienti).Altro obiettivo è di introdurre per tutti i bambini ricoverati, la valutazione all’ingresso dei bisogni assistenziali mediante la compilazione e conservazione in cartella della “scheda di accoglienza / valutazione”. Il progetto prevede l’elaborazione di una linea guida per la costruzione di un “protocollo di accoglienza”(allegato n. 1), la realizzazione di un “opuscolo informativo” e di una scheda di accoglienza/ valutazione (allegato n. 2). Soggetti destinatari I destinatari del progetto sono i bambini ricoverati e le loro famiglie con il coinvolgimento degli operatori sanitari. PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 235 Caratteristiche del progetto Il progetto vuole ottenere risultati immediati in termini di miglioramento dell’accoglienza e creare un coordinamento e una sinergia tra i vari soggetti che si occupano degli aspetti di umanizzazione delle cure al bambino. Obiettivi Fornire al bambino ricoverato e ai suoi familiari un’immagine positiva e rassicurante della struttura terapeutica per contenere i traumi da ospedalizzazione. Garantire un livello adeguato di qualità dell’assistenza infermieristica in relazione al processo di accoglienza basato su requisiti oggettivi e misurabili (standars e indicatori). Migliorare ed uniformare le modalità di accoglienza e di informazione in ospedale garantendo, nella relazione con l’utenza, massima professionalità e competenza, chiarezza nell’informazione, relazione d’aiuto, privacy. Vantaggi attesi Miglioramenti delle condizioni di accoglienza e permanenza del bambino in ospedale. Soggetti coinvolti (partnership) Personale sanitario: infermieri, caposala, psicologi, medici, volontari. Fasi di realizzazione Le fasi principali d’attuazione del progetto sono: 1.Comunicazione interna volta alla presentazione del progetto; 2.Somministrazione di un questionario avente lo scopo di rilevare la modalità di accoglienza e la soddisfazione del cliente; 3.Costituzione di un gruppo di lavoro per la costruzione (basandosi sulle raccomandazioni fornite dalle linee guida, partendo cioè dai risultati degli studi condotti da centri di ricerca specializzati) di un protocollo di accoglienza; 4.Corso di formazione volti agli operatori per l’acquisizione di competenze relazionali e linguistiche per entrare in relazione col bambino e la sua famiglia; 5.Applicazione sistematica del protocollo di accoglienza e introduzione della scheda di accoglienza/ valutazione inclusa nella cartella clinica; 6.Somministrazione di un questionario ai ricoverati, in tempi successivi, per verificare che l’accoglienza sia avvenuta nelle modalità previste. Applicazione del progetto Nel periodo compreso tra l’1 luglio 2007 e 31 dicembre 2007, abbiamo condotto un’indagine volta a rilevare il livello di soddisfazione degli utenti ricoverati presso la nostra struttura. I questionari, distribuiti a tutti i genitori dei bambini ricoverati all’atto dell’accettazione, sono stati compilati dagli stessi all’atto della dimissione. Il campione esaminato nel periodo di riferimento è pari a cinquanta bambini ricoverati. Strumenti e metodi di rilevazione Sono stati distribuiti 50 questionari, ciascuno composto da 14 domande chiuse ed una aperta. Tutti riconsegnati compilati. Le domande riguardavano le modalità del ricovero, i tempi di attesa, le figure professionali coinvolte nel processo di accoglienza, il luogo dove si era svolto l’accoglienza, la chiarezza delle informazioni ricevute e il rispetto della privacy. Altre variabili riguardavano giudizi sull’assistenza ricevuta e suggerimenti per migliorare l’accoglienza. I questionari, una volta raccolti, sono stati codificati e sottoposti ad elaborazione dei dati. Analisi dei risultati Dai dati esaminati emerge una buona sensibilità, da parte del personale sanitario, verso il momento dell’accoglienza, anche se una maggiore rilevanza viene data prevalentemente agli aspetti umani e PREMI 236 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA all’inserimento del bambino nella struttura. I bisogni dell’utente sono compresi, ma vengono fornite informazioni al paziente e/o alla sua famiglia solo verbalmente. Non viene, infatti, consegnato al paziente e/o ai suoi familiari, l’opuscolo informativo previsto dalla “Carta dei Servizi”. Inoltre, sono trascurati gli elementi più qualificanti del processo assistenziale, quali l’assenza di spazi dedicati e la mancanza di procedure scritte e condivise dall’equipe. Certamente i vincoli legati alla struttura (assenza di spazi dedicati) possono limitare molto la creazione di un “clima” favorevole all’accoglienza, ma l’assenza di procedure scritte e condivise dall’équipe, nonché l’assenza di dati sulla reale attività infermieristica, da un lato non permettono di utilizzare il momento dell’accoglienza quale indicatore della qualità assistenziale e dall’altro rendono difficile un comportamento omogeneo degli operatori. Ne consegue che, essendo il processo strettamente legato all’esito, potrebbe risultare molto difficile valutare la qualità degli interventi erogati, anche perché non esiste una valutazione formalizzata e sistematica della qualità percepita dagli utenti. Conclusioni Da quanto finora esposto, si evidenzia la mancanza di procedure uniformi per l’accoglienza dell’utente nell’ambito dell’U.O. esaminata. Le considerazioni esposte nella premessa, sul valore che l’accoglienza assume nel rapporto operatore sanitario/paziente, inducono a considerare necessaria la formulazione di procedure precise in tal senso. Se l’accoglienza ha solo valore informativo, lo standard minimo è facilmente raggiungibile con buona educazione e rispetto e fornendo le informazioni essenziali riguardo ai servizi disponibili. Se invece i contenuti dell’accoglienza vogliono essere fortemente professionalizzati, diventa predominante la necessità di realizzare un PROGETTO che preveda l’utilizzo della SCHEDA DI ACCOGLIENZA (per la raccolta dei dati), del PROTOCOLLO DI ACCOGLIENZA (strumento indispensabile per la pianificazione assistenziale) e dell’OPUSCOLO INFORMATIVO. La formalizzazione dell’accoglienza tramite un protocollo richiede la sua definizione e condivisione da parte di tutti gli operatori. Gli strumenti che facilitano tale processo sono: un’attenta gestione delle risorse umane, che tenga conto delle specifiche competenze e delle necessità formative di ogni singolo operatore, correlandole correttamente alle esigenze dell’utenza e dell’organizzazione. Inoltre, una procedura formalizzata di accoglienza può senza dubbio essere assunta quale indicatore di qualità, sia per la struttura, sia per il processo che per l’esito (valutando la soddisfazione degli operatori e dei pazienti). “Accogliere” il paziente in un reparto indica “attenzione” nei confronti del paziente stesso e la qualità assistenziale marcatore di professionalità e di organizzazione. Bibliografia 1. Axia V. - Elementi di Psico-oncologia pediatrica - Ed. Carocci Faber, Roma, 2004 2. Casati M. - La documentazione infermieristica - Ed. Mc Graw-Hill, Milano, 2005 3. Destrebecq A. Terzoni S. - Managment infermieristico - Ed. Carrocci Faber, Roma, 2007 4. Fain James A. - La ricerca infermieristica - Ed. 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La prevalenza attualmente stimata è di 1 caso su 7000 nascite e ci sono circa 800 nuovi casi di neuroblastoma ogni anno negli Stati Uniti ma evidenze dimostrano che la diffusione è uniforme in tutto il mondo. Il 35% di queste neoplasie compare entro il primo anno di vita, il 20% durante il secondo. Nell'insieme, 1'85-90% di queste neoplasie insorge entro i primi 5 anni di vita e i casi diventano molto più rari nelle età successive; la diagnosi è eccezionale nell’ adolescente e nell’ adulto. Attualmente l’eziologia del neuroblastoma è sconosciuta e nessun agente ambientale, fisico, chimico o virale è stato identificato come fattore di rischio nella patogenesi del tumore. C'è pertanto grande interesse intorno alle scoperte sulle caratteristiche genetiche e sulla biologia molecolare di questa neoplasia. Molti studi hanno dimostrato e valutato le basi genetiche della predisposizione al neuroblastoma. È stato ipotizzato che l’ alterazione di geni che partecipano al normale sviluppo delle componenti noradrenergiche del sistema nervoso sia alla base della trasformazione maligna. Attualmente uno dei parametri più importanti da valutare è l' amplificazione dell’ oncogene N-myc localizzato sul braccio corto del cromosoma 2 nella regione 2p24: l’ N-myc amplificato conferisce un vantaggio selettivo alle cellule tumorali. L’ amplificazione è caratteristica delle forme avanzate, a rapida progressione e a decorso sfavorevole sia nei neonati sia nei bambini più grandi; si associa alle strutture "double minutes" (DMs); più è alto il numero di copie di N-myc, più strutture a "double minutes" si osservano a livello genomico, più risulta essere infausta la prognosi. Va tuttavia ricordato come alcuni pazienti, pur mostrando la presenza di una sola copia del gene N-myc, siano andati incontro a evoluzione particolarmente sfavorevole. Pertanto non è di per sè il numero di copie di questo gene a determinare la prognosi, quanto il livello finale della sua espressione. Delezioni delle bande cromosomiche 1p36 e 11q14-23 sono presenti: queste regioni sono coinvolte soprattutto nella trasformazione maligna di gran parte dei neuroblastomi che insorgono come forme sporadiche. La perdita dell’ allele 11q è presente nel 35% - 45% dei casi ed è associata a caratteristiche sfavorevoli quali stadio avanzato, fenotipo sfavorevole, età avanzata. La delezione del braccio corto del cromosoma 1 posto in posizione distale rispetto alla banda p32 è presente nel 30% dei casi e modifica significativamente la prognosi: la perdita di questo allele infatti predisporrebbe al rischio di ricadute in pazienti con tumore localizzato; essa rappresenta senz'altro l'anomalia citogenetica più caratteristica di queste neoplasie, implicando la perdita di uno o più geni soppressori coinvolti nella patogenesi del neuroblastoma. Anche la ploidia delle cellule tumorali influenza la prognosi. Nel neuroblastoma si può riscontrare contenuto anomalo di DNA, sia esso iperdiploide che aneuploide. Sta di fatto che cellule neoplastiche con contenuto in DNA quasi diploide o tetraploide mo strano una prognosi intermedia o peggiore. Dal punto di vista anatomo-patologico, i neuroblastomi variano da noduli minuti " lesioni in situ " a grandi masse di peso anche superiore al Kg. I neuroblastomi a caratteristiche clinicamente manifeste possono presentare una spontanea regressione o, alternativamente, differenziarsi maturando nella forma relativamente più benigna del ganglioneuroma. Distinguiamo tre sottotipi istopatologici di questo tumore: Neuroblastoma: istotipo più maligno con cellule indifferenziate di piccole dimensioni, rotondeggianti, con scarso citoplasma, nuclei picnotici spesso aggregate a formare le pseudorosette di Homer-Wright PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 239 sopra menzionate (Schwannian stroma poor) Ganglioneuroblastoma: cellule neuroblastiche associate a cellule gangliari mature ("Intermixed", Schwannian stroma rich) Ganglioneuroma: cellule gangliari ben differenziate e fibre nervose (Schwannian stroma dominant). In questo caso, in mezzo alla gran parte di cellule ad aspetto scarsamente differenziato (a tipo di neuroblasto primitivo), si può cogliere la presenza di elementi cellulari di più grandi dimensioni, singolarmente dispersi o formanti piccoli aggregati, dotati di citoplasma abbondante, nucleo grande di aspetto vesci colare e nucleolo prominente. La localizzazione del tumore al momento della diagnosi è variabile potendo il neuroblastoma insorgere ovunque lungo la catena simpatica. Nei bambini, in circa il 65% dei casi il neuroblastoma insorge a livello addominale (surrene); la regione paravertebrale del mediastino posteriore rappresenta la seconda sede anatomica per incidenza ed è più frequente nei bambini con meno di un anno d’ età. A quest' ultima fa seguito la regione paravertebrale in corrispondenza del basso addome, e numerose altre sedi meno frequenti sono la pelvi, il collo e l'encefalo. Le metastasi, quando si sviluppano, sono precoci ed ampiamente distribuite. Per la stadiazione il sistema oggi utilizzato è quello stabilito dall’ ”International Neuroblastoma Staging System” (INNS): Stadio I: tumore localizzato unicamente nell’ organo di origine, ed è chirurgicamente asportabile senza residui macroscopici e presenta i linfonodi “ rappresentativi” negativi. Stadio II: tumore che si estende con continuità oltre i confini dell'organo di origine senza però oltrepassare la linea mediana e linfonodi omolaterali sono negativi (2A) o con coinvolgimento dei linfonodi ipsilaterali (2B). Stadio III: il tumore è inoperabile, infiltra la linea mediana con o senza interessamento dei linfonodi regionali o tumore della linea mediana con estensione bilaterale per infiltrazione o interessamento metastatico linfonodale. Stadio IV:il tumore è disseminato e interessa i linfonodi a distanza, l’osso, il midollo osseo, il fegato e altri organi. Stadio IVs: tumori che dovrebbero essere classificati come stadio I o II, ma che presentano coinvolgimento a distanza (fegato, cute o midollo osseo). HtrA1 La proteina HtrA1 appartiene alla famiglia delle serin - proteasi - HtrA che è costituita da quattro proteine: HtrA1, HtrA2, HtrA3, HtrA4. Queste sono coinvolte nei meccanismi deputati al controllo dell’ integrità delle proteine in risposta allo stress e nella degradazione delle proteine della matrice extracellulare (ECM), fondamentali nella progressione e nell’invasione dei tumori (Spiess et al. 1999; Wilken et al. 2004). Inoltre sono coinvolte in vari processi cellulari come l’apoptosi, il differenziamento cellulare e nel cancro nonostante i meccanismi biologici di base non siano ancora ben conosciuti (Clausen et al. 2002; Jones et al. 2003; Suzuki et al. 2004). Infatti diversi studi hanno dimostrato che HtrA1, se down-regolata, gioca un ruolo importante nella progressione maligna di diversi tumori come il cancro ovarico (Shridhar et al. 2002) e il melanoma (Baldi et al. 2002, 2003), ed è stata proposta come un nuovo onco-soppressore in alcuni tumori (Baldi et al. 2002; Chien et al. 2004). Questa serina-proteasi di circa 51 kDa è a localizzazione citoplasmatica, ed è codificata dal gene PRSS11 localizzato sul cromosoma 10 in un singolo locus della regione 10q25.3-q26.2 (Zumbrum e Trueb 1997). Presenta vari domini: il dominio “S” rappresenta il segnale di secrezione (codoni 1-22) che conferisce alla proteina una funzione proteolitica nel momento in cui viene secreta all’esterno della cellula; il dominio “mac25” presenta il 44% di identità e il 58% di similarità con IGFBP-3, proteine leganti il fattore di crescita insulina-simile (Zapf 1995; Bach e Rechler 1995) (codoni 20-140). Questo dominio potrebbe giocare un ruolo regolatorio nell’attivazione o nell’inibizione della serina-proteasi e conferirebbe la capacità ad HtrA1 PREMI 240 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA di interagire con IGF-I o IGF-II. E' stato dimostrato inoltre che il complesso mac 25 può formare un complesso stabile specifico con l’ inibitore delle serin-proteasi alfa-1-antitripsina: ciò suggerisce che HtrA1 abbia un ruolo nella regolazione della crescita cellulare (Hu et al. 1998; Spiess et al. 1999). Segue il piccolo dominio Kazal-type (KI) che inibisce l’attività della proteasi (codoni 97-155). I domini Kazal sono presenti negli inibitori delle serin-proteasi (es. inibitore della tripsina pancreatica) così come nelle proteine follistatinasimili. Il dominio Kazal della proteina HtrA1 umana potrebbe, perciò, essere associato con il sito attivo della serina-proteasi oppure cooperare con il dominio di legame per l’IGF (mac25) nell’interazione con i fattori di crescita (Zumbrunn e Trueb 1996). La presenza del motivo inibitore in HtrA1 umana suggerisce che questa serina-proteasi possa essere un enzima autoregolante. Non è, però possibile, escludere che possa regolare altre serina-proteasi (Hu et al. 1998); un largo dominio “HtrA” (codoni 140-480) (Zumbrunn e Trueb 1996; Hu et al. 1998) che presenta elevata omologia di sequenza con le altre proteine della famiglia HtrA; il dominio “PDZ”, che permette l’attività proteolitica e che sembra determinare un’attività di chaperone (codoni 372-466) (Ponting 1997). La porzione C-terminale della proteina è strettamente correlata alla famiglia delle proteasi batteriche HtrA/Do (Lipinska et al 1988; Seol et al 1991; SkorkoGlonek et al 1995a): queste proteasi possiedono una particolare sequenza amminoacidica (GNSGGAL) nel loro sito attivo contenente residui di serina e istidina che conferiscono loro un‘ attività catalitica. La stessa sequenza è stata trovata in HtrA1 umana in posizione 326-332 e consente di affermare che la proteina umana HtrAl rappresenta una serina-proteasi funzionale (Zumbrum e Trueb 1996). HtrA1 interviene anche nel folding proteico. In generale la stabilità delle proteine, all’interno delle cellule, dipende dall’avvolgimento o da fattori cellulari che possono interferire con il loro ripiegamento. E’ stato dimostrato che a basse temperature, HtrA presenta un’attività di “chaperone” ed è in grado di stimolare il ripiegamento dei substrati chimicamente denaturati. Ad alte temperature, invece, HtrA esprime quasi esclusivamente la sua attività proteolitica (Spiess et al. 1999). Alcuni studi hanno dimostrato il coinvolgimento di HtrA1 in alcuni tumori come il melanoma, tumori ovarici e osteosarcomi. Il gene umano PRSS11 che codifica per questa proteina mappa sul cromosoma 10 (Zumbrum e Trueb 1997). Alterazioni del cromosoma 10, fino alla perdita dell’intero omologo cromosomico, sono comuni nei melanomi umani e sono indicatori di prognosi cliniche gravi (Robertson et al. 1999). Diversi studi di citogenetica indicano che la regione distale del cromosoma 10q ospita più di un gene coinvolto nella formazione del melanoma e che agisce come oncosoppressore (Indsto et al. 1998). L’esatta funzione di PRSS11 e del suo prodotto proteico HtrA1 nel cancro umano è ancora largamente sconosciuta. Tuttavia, la sua “down-regulation” nei fibroblasti umani trasformati con SV40 (Zumbrum e Trueb 1996) e nei tumori ovarici (Shridar et al. 2002) suggerisce che possa avere un ruolo nella trasformazione maligna (Baldi et al. 2002). Inoltre, il dominio mac25 è correlato alla follistatina, che agisce come soppressore di crescita negli osteosarcomi (Kato et al. 1996). Questi dati suggeriscono che l’attività dell’HtrA1 secreta potrebbe essere coinvolta nella regolazione della crescita cellulare attraverso la modulazione della risposta ai fattori di crescita che interagiscono con il dominio mac25 (Baldi et al. 2002). .Inoltre uno studio dell' espressione di HtrA1 nei tessuti normali e durante l’embriogenesi del topo ha evidenziato che bassi livelli di HtrA1 mRNA sono rilevati nell’embrione all’inizio dell’organogenesi e i livelli di espressione aumentano alla fine dell’organogenesi con una intensa positività nei gangli paravertebrali del sistema nervoso autonomo. (De luca et al. 2004). Obiettivi dello studio Scopo della ricerca è stato quello di valutare la modulazione dell’espressione e della localizzazione di HtrA1 alla diagnosi in tessuti tumorali di bambini affetti da neuroblastoma diagnosticati e trattati presso il Servizio di Oncologia Pediatrica della Seconda Universita’ di Napoli. In particolare, poiche’ dallo studio dell’espressione di tale proteina durante lo sviluppo del topo è emerso che HtrA1 ha un ruolo nello sviluppo del Sistema Nervoso sia nella divisione cellulare che nei neuroni PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 241 post-mitotici attraverso l’ inibizione di TGF-beta, ci proponiamo di valutare l’eventuale coinvolgimento di tale proteina nella patogenesi e nella progressione del Neuroblastoma, per individuare nuovi fattori che potrebbero condizionare l’evoluzione di questa neoplasia che, per molti aspetti, rimane ancora oggi sconosciuta. Materiali e Metodi Abbiamo effettuato un' analisi quantitativa e qualitativa della proteina HtrA1 utilizzando campioni di tessuto tumorale appartenenti a pazienti affetti da neuroblastoma (NB, 50/60 bambini) e ganglioneuroblastoma (GNB, 10/60 bambini) In accordo alle linee guida dell’ International Neuroblastoma Staging System (INSS), i pazienti sono stati così classificati: - 26/60 pazienti: stadio I - II - 14/60 pazienti: stadio III - 16/60 pazienti: stadio IV - 4/60 pazienti: stadio IVs Per l’ analisi quantitativa abbiamo effettuato l’estrazione proteica dai prelievi bioptici criopreservati a -80 C° di neuroblastoma mediante omogeneizzazione a 4°C in buffer di lisi di piccolissime porzioni di prelievo bioptico (50 mM Tris ph 7.6, 5 mM EDTA, 250 mM NaCl, 50 mM NaF, 0, 1% Triton X-100, 0, 1 mM Na3VO4) Al buffer di lisi sono stati aggiunti gli inibitori delle proteasi: 4µL/mL di PMSF, 2µL/mL di aprotinina e pepstatina, 1µL/mL di Sodio Ortovanadato. Le cellule lisate sono state centrifugate a 4° C a 14000 rpm per due minuti e le proteine totali sono state estratte dal surnatante residuo. La concentrazione proteica è stata determinata allo spettofotometro a 595 nm con il saggio colorimetrico Bio-Rad, che fa uso del colorante blue di Coomassie. Tale saggio si basa sul metodo Bradford che permette di quantizzare le proteine estratte attraverso il cambiamento di colore del Comassie blu in rapporto alla concentrazione proteica. La retta di taratura è stata ottenuta usando come standard di riferimento l’albumina di siero bovino (BSA), in quantità note da 2 a 20 µg. L’omogenato è stato chiarificato mediante centrifugazione a 15.000 g a 4°C. L’ analisi quantitativa è stata condotta mediante saggio Western Blotting. 30µg di proteine sono state caricate e corse su gel di poliacrilammide 10%. Le proteine all’interno del gel sono state trasferite su una membrana PVDF (Millipor, Marlborough, MA) in buffer CAPS (10 mM CAPS, 20% metanolo, ph 11). La membrana è stata bloccata con latte 5% in tampone TBS-T (2 mM Tris, 13.7 mM NaCl, 0.1% tween-20, ph 7.6) per 1 ora a temperatura ambiente e successivamente lavata in TBS-T. L’anticorpo policlonale anti-HtrA1 è stato incubato sulla membrana diluito 1:1000 in latte 3% per 1 ora a temperatura ambiente e successivamente la membrana è stata lavata in TBS-T. La membrana è stata poi incubata con l’anticorpo secondario anti-rabbit diluito 1: 5000 per 45 min. a temperatura ambiente e successivamente lavata con TBS-T. La presenza dell’ anticorpo secondario sulla membrana è stata evidenziata usando il sistema chemio luminescente ECL (ECL; Millipor, Marlborough, MA) secondo protocollo consigliato dal produttore.. La chemioluminescenza è stata visualizzata con ChemiDoc XRS Sistem che permette la detezione e la quantizzazione delle bande proteiche. Per l’ analisi qualitativa sono state utilizzate le inclusioni in paraffina di neuroblastoma. In sintesi le sezioni tagliate dai blocchetti di paraffina sono state sparaffinate in xilene, reidratate attraverso una serie decrescente di alcool etilico e lavati nel tampone salino fosfato (PBS) a pH 7.4. Il PBS è stato usato per tutti i successivi lavaggi e per la diluizione dell’antisiero, in alternanza con lavaggi in TBS 1X (Tris buffer saline) per le sezioni in esame. Le sezioni di tessuto sono state incubate con perossido di idrogeno (H2O2) 3 % per 15 min, allo scopo di bloccare le perossidasi endogene e successivamente sono state incubate con pronasi (Sigma) per 10 min per smascherare i siti antigenici. In seguito le sezioni sono state incubate con PBS-latte al 6% per 1 h a temperatura ambiente, per bloccare i siti aspecifici. I preparati istologici sono stati poi incubati a 4°C overnight con un anticorpo contro HtrA1 (policlonale di coniglio) diluito 1:100. Dopo diversi lavaggi per rimuovere l’eccesso di anticorpo, i preparati istologici PREMI 242 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA sono stati incubati a temperatura ambiente con un anticorpo secondario biotinilato anti-coniglio (Vector Laboratories) diluito 1:200 per 1 ora. Tutti i preparati istologici sono stati processati con il metodo ABC (Vector Laboratories) per 30 min a temperatura ambiente. La 3, 3’ diaminobenzidina (Vector Laboratories) è stata usata come cromogeno finale per rivelare la reazione di localizzazione. I controlli negativi dei campioni esaminati sono stati fatti sostituendo l’antisiero primario con un siero di coniglio non immune. Tutti i preparati sono stati processati contemporaneamente in modo da esporli al cromogeno per lo stesso tempo. La valutazione dei risultati è stato effettuat da tre indipendenti esaminatori che avevano precedentemente concordato i seguenti parametri: 0:: 0% di cellule positive 1+: 1-20% di cellule positive 2+: 21-60% di cellule positive 3+: 61- 100% di cellule positive Risultati L’ analisi quantitativa da evidenziato che HtrA1 è espressa in 56\60 campioni (93, 3%) con diversi livelli di espressione: - Bassi livelli in 36/56 campioni (64, 3 %) - Alti livelli in 20/56 campioni (35, 7%) di cui 10 sono Ganglioneuroblastoma. I risultati hanno dimostrato, come è evidenziato nelle tabelle seguenti, che i livelli più alti di espressione sono stati individuati maggiormente negli stadi iniziali (I, II e IVs) rispetto agli stadi avanzati (III e IV); al contrario bassi livelli di espressione sono stati rilevati soprattutto negli stadi avanzati. Questa differenza è risultata statisticamente significativa (p<0.05). Tabella 1 Alti livelli di espressione di HtrA1 Tabella 2 Bassi livelli di espressione di HtrA 1 La figura n.1 rappresenta un pannello esemplificativo di Western Blotting che mostra la modulazione della proteina nei diversi campioni: Figura n. 1: Immunoblotting di campioni di neuroblastoma L’ analisi qualitativa effettuata mediante immunoistochimica ha evidenziato che l’espressione della PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 243 proteina HtrA1 risulta direttamente proporzionale al grado di differenziazione del tumore. In particolare nei campioni di neuroblastoma (caratterizzato da rosette costituite da neuroblasti con nuclei fortemente basofili con scarso o quasi assente citoplasma) abbiamo evidenziato aree indifferenziate negative, con livello di espressione di HtrA1 pari a zero. In questi preparati istologici osserviamo, intercalate tra i neuroblasti indifferenziati, strutture del tessuto nervoso più mature come i tubuli neuroidi, vasi, background fibrillare, cellule di Schwann e tessuto connettivo, che esprimono livelli maggiori di HtrA1 pari a 1+ e 2+. Questa caratteristica evidenzia che il livello di espressione della proteina aumenta con il differenziamento delle strutture cellulari. Al contrario i preparati istologici di ganglioneuroblastomi (“Intermixed”, Schwannian stroma rich) mostrano un livello di espressione di HtrA1 più elevato. Nelle aree francamente gangliari la positività di HtrA1 può essere considerata pari ad un valore di 2+ come mostra la figura 2. Gli elementi cellulari di più grandi dimensioni anche qui presenti, ma che in generale sono caratteristici dei ganglioneuromi, mostrano una positività molto marcata pari ad un valore di espressione 3+ come dimostrato nella figura 3. Fig. 2 Bassa espressione di HtrA1 Fig. 3 Alta espressione di HtrA1 Pertanto abbiamo evidenziato che l’espressione di HtrA1 aumenta con l’aumentare del grado di differenziazione del tumore. I risultati ottenuti sui campioni esaminati per immunoistochimica sono stati confermati anche valutando l’espressione negli stessi campioni sui loro lisati proteici mediante la tecnica dell’immunoblotting. I nostri dati mostrano che l’ iperespressione di HtrA1 sembra essere correlate a un maggior grado di differenziazione cellulare. Inoltre, considerando il coinvolgimento di HtrA1 nei processi di adesione cellulare, possiamo ipotizzare che l’espressione di HtrA1 possa correlare con un meccanismo di maggior adesione cellulare e conseguentemente minore propensione ad acquisire un fenotipo metastatico in quei neuroblastomi che mostrano gradi di differenziazione maggiori e presenza di componenti più differenziate quali cellule di Schwann e di connettivo interstiziale PREMI 244 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Conclusioni I risultati ottenuti con queste due metodiche mostrano come l’espressione di HtrA1 varia notevolmente nei vari neuroblastomi in correlazione allo stadio e al grado di differenziamento del tumore. Dal punto di vista clinico il riscontro di una modulazione dell’espressione proteica di HtrA1 apre nuovi scenari nello studio di questa proteasi e del suo coinvolgimento nella genesi del neuroblastoma. In sintesi i risultati ottenuti dal progetto di ricerca esposto dimostrano che HtrA1 potrebbe rappresentare un nuovo parametro molecolare per identificare fenotipi tumorali più aggressivi in aggiunta ai parametri già noti aprendo nuove conoscenze su questo grave tumore dell’età pediatrica con importanti risvolti prognostico - terapeutici. Obiettivi a lungo termine di questo progetto di ricerca sono quelli di comprendere i meccanismi molecolari che sono alla base di questo fenomeno mediante metodiche come le trasfezioni di HtrA1 o il suo silenziamento in cellule che rappresentano i vari fenotipi del tumore in esame. Questi esperimenti ci consentiranno di comprendere come HtrA1 possa influenzare il differenziamento cellulare dei neuroblastomi, infatti ci consentirà di valutare le modulazioni del ciclo cellulare e dei fenomeni apototitci in seguito al silenziamento o all’overespressione del gene. Bibliografia 1. 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Cecinati Unità Operativa “F.Vecchio”Dipartimento Biomedicina Età Evolutiva Università degli Studi di Bari Febrile Neutropenia (FN) is a complication of chemotherapy in childhood cancer and at the same time secondary deficit of Protein C (PC) is often present during sepsis in children with cancer. In this study we have compared the clinical outcome of two different groups. At the onset of FN during chemotherapy the first group (patients with a secondary deficit of PC) received Protein C Concentrate (PCC) replacement while the other group without PC deficiency received only antimicrobic and symptomatic therapies. We report that PC replacement could shorten duration of FN and improve the clinical outcome. The administration of PCC was safe and without any complications. Keyword Protein C, febrile neutropenia, children, cancer Introduction Febrile neutropenia (FN) is a complication of chemotherapy for the treatment of childhood cancer. Klastersky et al.(1) reported that: in cancer patients post-chemotherapy neutropenia complicates with fever in a rate of about 80% and in 60% of these episodes an infectious etiology was discovered. In cancer patients mortality associated with FN ranges from 5% to 11% in adults (2) and from 2% to 6% in children (3). FN is frequently the expression of sepsis in children with cancer: in a recent work Watson et al.(4) described, among these patients, a high prevalence of sepsis and a significative quota of mortality was due to sepsis (16%). In the general paediatric population they found that sepsis lead to exitus in the proportion of 10%. Management of pediatric patients with chemotherapy-related neutropenia requires a multifactor approach to avoid circulatory shock, and to support haemostasis and immunity. These patients are usually hospitalized and treated with empirical intravenous antibiotic regimens, even if they are afebrile (5). A condition of haemostatic disturbance is often present during sepsis in children with cancer, in particular a secondary deficit of Protein C (PC) is found in more than 85% of patients with sepsis (6). The PC pathway, because of its central role in haemostasis, plays an integral role in the host response to infection. Activated protein C inactivates coagulation factors, enhances fibrinolysis and at high concentration reduces the release of inflammatory cytokines (7, 8). Some studies have demonstrated that low levels of PC in septic patients increase morbidity and mortality (6, 9, 10). Supplementation with Protein C Concentrate (PCC) reduce the duration of the febrile septic states in particular in adult and children with meningococcal sepsis and improve the clinical outcome of paediatric septic patients (11-15), but no studies regarding PCC supplementation are available in children with sepsis during chemotherapy for cancer. Aim of this study was to compare the clinical outcome (duration of fever, clinical conditions and haematological parameters) in two different groups of FN paediatric patients with cancer. The first group patients with a secondary deficit of PC (group A) received PCC supplementation. The other one, patients without a secondary deficit of PC (group B) received only symptomatic therapies. Patients e methods The study was performed in accordance with the Helsinki Declaration and informed consent was given by parents. Participants were eligible if they were: 1) diagnosed with cancer and were younger than 16 years of age at the time of diagnosis treated at our AIEOP centre (Pediatric Haematology Oncology Italian Association) 2) temperature > 38, 3 °C in single measurement or temperature > 38 °C for one hour continuously (otherwise temperature >38 °C in two observations alternating with 12 hours) or else < 36 °C and in addition one or more of the following findings: lethargy, tachycardia, dyspnea 3) neutrophil PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 247 count < 500/mm3 or < 1000/mm3 with a trend to decline over the next 2 days. During a FN episode patients with PC values < 60% of normal PC activity were treated using PCC (Ceprotin ®) until PC levels were normalized, (group A).Patients with PC values > 60% were only monitored during entire length of FN.(group B). All eligible patients were submitted to empirical antimicrobial therapy of febrile neutropenia according to the Italian guidelines for the management of infectious complications in pediatric oncology (16). Blood was collected by venipunture in 1/10 volume of 3.8% buffered trisodium citrate for coagulation studies; we expected a thorough washing with saline if there was a central venous line after making sure that irrigation by heparin had not been performed in the two hours before the venipunture. Prothrombine time (PT), Activated partial thromboplastin time (aPTT), Thrombine time (TT), D-Dimer (DD), Fibrinogen (FBG) were performed by standard methods. PC activity was measured using the kit IL-Test ™ProClot for determining functional coagulation of PC through the test APTT in the presence of activated PC. The use of APTT tests to measure the effect of anticoagulant activated protein C is indicated for its sensitivity to factors V and VIII. The activation of PC in the samples of plasma was obtained through the use of Protac ®, a rapid activator for the reactions in vitro. Complete blood cell counts including platelet counts and reactive c-protein (CPR) were obtained by standard techniques with an automated instrument. The PCC used in this study was manufactured by monoclonal antibody purification of viral-inactivated prothrombin complex concentrate by Baxter Hyland Immuno (Vienna, Austria). This concentrate undergoes viral inactivation by solvent detergent and vapour-heating methods. After reconstitution, the concentrate contains 125 IU/mL of CP. One unit is defined as the amount of PC in 1mL of pooled normal plasma. The concentrate was administered at 100 IU/Kg for two doses daily, but the dose was adjusted with the aim of maintaining a plasma PC level of 80% to 120%. Statistics Data, expressed as median (min-max) and as percentage, were analyzed by MannWhitney-U test and Fisher Exact test. The Stat View program (Abacus Concepts, Berkley, CA) was used for statistical analysis. A value of p < 0.05 was considered statistically significant. Results We enrolled 23 cases. Group A included 13 patients (10 M and 3 F) with a median age of 81 months (minmax: 32-196), PC values < 60% of normal PC activity. Group B included 10 patients (6 M and 4 F) with a median age of 99 months (min-max: 18-163), PC values > 60% of normal PC activity. Both groups showed no significant differences in sex and age. In both groups there have been no deaths as a result of FN and blood cultures and other tissue cultures were negative in all patients of both groups. Diagnosis, phase of AIEOP protocol, chemotherapy agents at the time of the study of Group A and Group B are summarized in Table A and Table B Values of white blood cell were 519/mm3 (29-1500) in group A and 868/mm3 (180-1730) in group B (p=NS).Values of absolute count of neutrophil were: 30/mm3 (2-500) in group A and 190/mm3 (14-450) in group B (p<0, 05). Patients of group A showed PC values of 44% (21-58) at the onset of FN, so they were supplemented with protein C concentrate; patients of group B showed plasmatic PC values of 74% (60-168) (p<0, 0001) so they did not receive PCC. Values of cutaneous temperature were 39°C (38-40) in group A and 38, 5 (38-39) in group B (p<0, 05). Days of fever were 5 (3 - 17) in patients of group A and 6, 5(4-9) in the group B (p<0.05) (figure 1) In patients treated with PCC: RCP, D-dimer and Fibrinogen values improved significantly from the onset of FN to resolution (p<0.05). No statistical difference were noted for PT, PTT activity for these group. In group B, RCP, D-dimer, Fibrinogen PT and PTT values were not significantly different from the onset of FN to resolution (p=N.S).(figure2, 3) Discussion A condition of hemostatic and/or thrombotic disturbance is often present during sepsis in children with cancer. Indeed, there are abnormalities in almost all phases of coagulation with quantitative and PREMI 248 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA qualitative alterations: increase in coagulation factors V, VII, IX, XI and fibrinogen, increase in fibrin degradation products (due to consumptive coagulopathy), increase in thrombin-antithrombin complex, altered fibrinolysis and reduced hepatic anticoagulant factors (antithrombin, protein S and PC) (17, 18). In 1993 Lorente (10) et al. reported data of hemostatic abnormalities regarding forty-eight adult patients with diagnosis of septic shock and they observed that nonsurvivors had a stronger activation of coagulation and a more marked inhibition of fibrinolysis than survivors, with the consequent decreased ability to lyse fibrin Low levels of PC due to the consumption of the coagulation factors were found in a great number of patients with sepsis (17). Moreover the cause of a secondary deficit of PC, during sepsis, was a high binding to ligands due to up-regulation of PC receptors on mononuclear phagocytes and large vessel endothelium (19). Previous studies described the crucial role of PC in sepsis, in fact, this protein represents the most important early predictor factor of outcome during sepsis(6, 9, 10). Recently Shorr et al. characterized PC levels as an important predictor factor of outcome in severe sepsis and they demonstrated that a supplementation with low levels of PC could decrease morbidity and mortality in septic patients (20). In addition to sepsis other conditions, as chemotherapy agents, may contribute to determine a secondary deficit of PC. For this reason there is an increased risk to develop serious haemostatic complications in oncological patients. It has been demonstrated in adult patients, that a decline of functional PC activity occurs after the administration of various therapeutic regimens (for example cyclophosphamide, methotrexate and 5-fluorouracil) used to treat breast carcinoma. (21, 22). Recent studies on paediatric patients confirmed the effects of asparaginase to alter coagulation pathway and to lead toward a PC deficit (23, 24). International therapeutic protocols in children with FN during chemotherapy provide for antimicrobic drugs and supportive cares, but it seems clear that a PC replacement (in case of low PC levels) could improve the course of FN(5). Vapor-heated PC concentrate (human) was supplied by Baxter/Immuno AG (Vienna, Austria). In 2001 the European Medicine Agency (EMEA) approved PC concentrate for patients with severe PC congenital deficiency, confirmed by the Food and Drug Administration in 2006.(25) PCC concentrate is not approved for replacement in patients with acquired PC deficiency, however, there are different experiences on its use in sepsis and in particular in meningococcal sepsis (11-15). In 1997 Smith et al.(12) studied adult patients with purpura fulminans as a consequence of meningococcemia. They concluded that early replacement of PCC may decrease morbidity and mortality of this illness. White et al confirmed these data about PCC replacement therapy in severe meningococcal septicaemia (13). Other authors described the use of PCC in paediatric age, in particular in children with meningococcal sepsis. In 2003 De Kleijn et al. (20) reported a randomized double blinded, placebo-controlled study about the use of PCC in forty children with severe meningococcal sepsis and purpura fulminans. Authors concluded that PCC replacement is safe in these children, it brings back to normal PC levels and corrects coagulation imbalances. Pettenazzo (26). et al. described their experience and concluded that PCC should be considered for off label use, and to treat early coagulation imbalances in children with severe meningococcal sepsis Silvani et al (27). reported data about the PCC use in three Italian Pediatric Intensive Care Units and the authors observed differences between treated and untreated patients, but they found no differences in mortality. Furthermore, they noted that, although PCC therapy is included in guidelines for management of severe sepsis and septic shocks, only in 38% of septic patients received PCC. Probably the high cost of treatment hampers its adequate and full application. We emphasize the positive effects of PCC administration to normalize PC acquired deficiency and to improve clinical conditions and some haematological parameters such as RCP, D-dimer and fibrinogen in FN. In fact group A had, at the onset, worse clinical conditions and laboratory data (higher fever and C-reactive protein values, lower absolute neutrophil count and PC levels) compared to group B. After PCC replacement group A presented a faster resolution of FN (in fever days and normalization of some haematological parametres) than group B. In Conclusion we showed that: 1) The administration of PCC in our patients was safe and without any complications, indeed no adverse PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 249 reactions were observed, during the therapy. 2) The PCC use in paediatric patients with sepsis during chemotherapy for cancer due to FN improve the clinical outcome of these patients as evaluated by a faster reduction in days of fever. 3) The PCC use in these patients can improve the haematological parameters (such as RCP, D-dimer and fibrinogen) in a fewer days than patients of the group B that did not receive PCC To our knowledge this is the first description about the role of PCC in paediatric patients with cancer and we suggest that PCC in addition to antimicrobial and support therapy could be an additional therapeutic presidium for the best resolution of FN in children during chemotherapy for cancer. However due to the nature of our study, additional evidence with more clinical relevant end-points such as mortality and more statistical power are necessary to implement this treatment into clinical practice for paediatric oncologists. Fig. 1 Clinical characteristics and hematological parameters of Group A and Group B Fig. 2 RCP and coagulation parametres in GROUP A at the onset and outcome of FN PREMI 250 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Tabella A Diagnosis, phase of AIEOP protocol, chemotherapic agents at the time of the study of Group A Pat: patient A.I.E.O.P: Pediatric Haematology Oncology Italian Association ALL: Acute Lymphoblastic Leukemia, NHD: Non-Hodgkin Disease, AML: Acute Myeloid Leukaemia, RMS: Rhabdomiosarcoma NHL Non Hodgkin Lymphoma L-ASP: L-Asparaginase; ADM: Adriamicine; VCR: Vincristine; DXM: Desametazone; MTX (i.t): intratecal Methotrexate; PDN: prednisone; DNM: Daunomicine; HD-MTX: High Dose Methotrexate; VP-16: vepeside, ARA-C: citarabine; CPM: ciclophosphamide, IDA: idarubicine, HD-ARA-C: high dose citarabine; C-ARA (i.t.): intratecal citarabine; PDN (i.t.): intratecal prednisone; VDS: vindesine, MIToX: mitoxantrone, CBCDA: carboplatine, EPI:epirubicine, FLU: fludarabina Tabella B Diagnosis, phase of AIEOP protocol, chemotherapic agents at the time of the study of Group B Pat: Patient A.I.E.O.P: Pediatric Haematology Oncology Italian Association ALL: Acute lymphoblastic leukemia, NHD: Non-Hodgkin disease L-ASP: L-Asparaginase; ADM: Adriamicine;VCR:Vincristine; DXM: Desametazone; MTX (i.t): intratecal Methotrexate; PDN: prednisone; DNM: Daunomicine; HD-MTX: High Dose Methotrexate; 6-MP: 6-Mercaptopurine; ARA-C: citarabine; CPM: ciclophosphamide, C-ARA (i.t.): intratecal citarabine; PDN (i.t.): intratecal prednisone; CRB: carboplatine, EPI:epirubicine. 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Results: antithyroglobulin and antithyroperoxidase antibodies were negative in all patients. Increased TSH level was present in 7 patients (8.3%) and 3 controls (5.0%). Free T4 was within the normal limits in all patients and controls. Mean TSH and free T4 levels did not statistically differ between controls and ALL survivors. TSH was negatively correlated with the age at the diagnosis (p = 0.010) and the age at the end of therapy (p = 0.008). TSH was correlated with the age in controls? Antithyroglobulin and / or antithyroperoxidase antibodies were detected in 3 controls (5%; vs study group: p = 0.038), 1 of them with increased TSH. Conclusions: some patients present hyperthyrotropinemia, without anti-thyroid antibodies, with a prevalence comparable to the control group. Chemotherapy may damage the thyroid function more frequently in younger patients, in whom this damage seems to persist after the treatment. We think that a thyroid follow-up ALL survivors may be advisable and differentiated on the basis of the age at the end of treatment. Introduction The survival rate of childhood cancer has increased over the last 30 years due to the significant improvement of treatment. As a result, the monitoring of survivors has become an important part of the overall health care, highlighting the necessity to develop clinical protocols designed specifically to improve the quality of survivorship and to reduce, or at least to identify precociously, the long-term consequences (Friedman and Meadows 2002; Oeffinger, Mertens et al. 2006). Among the systems affected by the treatment, the endocrine system is one of the most frequently involved. In particular, the damage to the thyroid gland, secondary to chemo- (CT) and/or radiotherapy (RT), was evaluated in a large number of studies recruiting patients with different kind of cancer and treated with different therapeutic approaches. It is well acknowledged that in young adults cervical/ cranial RT (Hancock, McDougall et al. 1995; Healy, Shafford et al. 1996; Nishiyama, Kozuka et al. 1996; Mohn A. et al. 1997, Atahan, Yildiz et al. 1998; Stevens, Downes et al. 1998; van Santen, Vulsma et al. 2003) and total body irradiation (Katsanis, Shapiro et al. 1990; Ogilvy-Stuart, Clark et al. 1992; Borgstrom and Bolme 1994) can be associated with permanent thyroid axis damage, including overt hypothyroidism, subclinical hypothyroidism, nodules, thyroiditis, Graves’ hyperthyroidism followed by hypothyroidism, and secondary thyroid malignancies. The thyroid gland seems especially sensitive to the effects of irradiation at a very young age (Socie, Curtis et al. 2000). On the other hand, the thyroid function in Acute Lymphoblastic Leukaemia (ALL), the most frequent childhood cancer, has been poorly described especially in the event of only CT. While the damages induced by RT are quite clear, just 2 studies assessed the prevalence of the thyroid dysfunction in survivors treated only with CT. While Nygaard et al PREMI 254 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA showed that the TSH and the thyroid hormones levels are comparable to the values of the control group, (Nygaard, Bjerve et al. 1988), recently Madanat et al proposed the follow up of thyroid function, due to the frequence of its impairment (Madanat 2007). In the latter paper, it is reported that the thyroid dysfunction in childhood and adolescence is mostly due to autoimmune thyroiditis, but anti-thyroid antibodies was not evaluated in all patients with pituitary-thyroid axis impairment (Madanat, Lahteenmaki et al. 2007), as well as in all papers concerning this matter, at the the best of our knowledge. In consideration of these data, we evaluated the prevalence of thyroid autoimmunity and thyroid dysfunction in a large cohort of childhood ALL survivors treated only with CT. We aimed also to compare these findings with a control group made of age- and sex-matched subjects. Subjects and methods Selection criteria - All patients included were 1) diagnosed with ALL (January 1993-April 2004) in our University Hospital; 2) treated only with CT; 3) younger than 16 years at the time of diagnosis; 4) with an interval of at least 1 year between the end of the treatment and the recruitment; and 5) in their first continuous remission at the time of the recruitment. Thyroid function was evaluated by assay of free T4 (fT4), TSH, antithyroperoxidase (antiTPO) and antithyroglobulin (antiTG) antibodies. From March 2006 to September 2007, all eligible patients were invited to participate. Oral informed consent was obtained from all parents and also from patients if older than 14 years and judged mature. For ethical reasons, the blood sample for the study was only taken from patients and controls when, simultaneously, a sampling for clinical information was necessary. The study was performed in accordance with the Helsinki Declaration. Treatment and follow-up All patients had been treated with standard treatment protocols according to the Italian Association for Paediatric Oncoematology (AIEOP) and included induction, consolidation, reinduction, and maintenance for a period of 2 years. In particular, the induction phase included CT with L-Asparaginase (L-Asp), prednisone (PDN), vincristine (VCR), daunorubicin (DNR), cytosine arabinoside (Ara-C), and 6-mercaptopurine (6-MP). The consolidation phase included 6-MP and high dose of MTX. In the reinduction phase, the patients received dexamethasone (DXM), L-Asp, VCR, cyclophosphamide (CPM), Ara-C, adriamycin (ADM), and thioguanine (TGN). The maintenance phase included 6-MP and MTX. In addition, in all phases but the last one, prophylactic intrathecal methotrexate (MTX) was administered. Since there is no standard protocol for monitoring childhood ALL survivors, after the stop-therapy we use to visit our patients and perform blood tests once a month for the first year, once every two months for the second year, once every three months for the third year, once every six months for the fourth and fifth years, and yearly from the sixth to the tenth year. Six months and two years after the stop therapy, the patients undergo to bone marrow aspirate while once a year, for the first five years, abdominal ultrasound is performed. The distribution of the patients on the basis of the treatment protocols is displayed in Table 1. Subjects Eighty-four patients (50 males and 34 females) met the inclusion criteria, were asked and agreed to participate in the study. None of the patients had any previous clinically evident thyroid disorder or was on any hormone or anticonvulsant treatment. Data about the regimen used, date of start and stop of treatment, and cumulative dose of each drug were collected. The mean age at the time of diagnosis was 5.9 ∼ 3.6 (range 1.2 - 15.9) years, and the mean age at recruitment 12.1 ∼ 4.3 (range 4.1 - 22.6) years. The treatment had been stopped 4.3 ∼ 3.2 years (range 1.1 - 12.2) before the recruitment. The cytological diagnosis was common ALL in 50 patients, pre-B ALL in 14, T-ALL in 8, pre pre B ALL in 5, mature B ALL in 4, hybrid lymphoid leukaemia in 2, leukaemia-lymphoma T-ALL in 1. On the day of recruitment, each patient underwent a detailed physical evaluation to evaluate the presence PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 255 of goitre or any sign or symptom of thyroid dysfunction. The control group was made of 60 healthy subjects, attending our growth clinic, who had no evidence of endocrine dysfunction, chronic illness or dysmorphic features. They had normal growth velocity and were comparable for age and sex with the survivors. Biochemistry Serum TSH, fT4, antiTPO and antiTG antibodies were measured by commercial immunoassay systems (ADVIA Centaur®, Bayer Diagnostics S.r.l., Leverkusen, Germany). Normal values for TSH were 0.3 - 5.5 mU/l. The intra-assay coefficient of variation (CV) for the TSH assay given by the manufacturer was 2.48%, 2.44%, and 2.41% at mean TSH concentrations of 0.74, 5.65, and 18.98 mU/l, respectively. The inter-assay variability, at the same TSH concentrations, was 5.31%, 3.44%, and 2.05%, respectively. FT4 was considered normal in the range of 0.7 - 1.8 ng/dl. The intra-assay CV was 4.69%, 2.31%, and 2.22% at mean fT4 concentrations of 0.47, 1.08, and 3.09 ng/dl, respectively. The inter-assay variability, at the same fT4 concentrations, was 4.59%, 1.95%, and 1.58%, respectively. AntiTG was considered normal if lower than 60 U/ml. The intra-assay CVs were 5.5% and 2.9% at mean antiTG concentrations of 62 and 333 U/ml, respectively. The inter-assay variability, at the same antiTG concentrations, was 1.8% and 2.0%, respectively. AntiTPO was considered normal if lower than 60 U/ml. The intra-assay CVs were 4.1% and 1.6% at mean antiTG concentrations of 71.9 and 441.8 U/ml, respectively. The inter-assay variability, at the same antiTG concentrations, was 8.0% and 3.4%, respectively. Statistics Statistical analysis was performed with SPSS computer software for Windows (version 11.5, SPSS Inc.) and data expressed as mean ∼ standard deviation. The frequencies among groups were compared by the Chi-Square test. ANOVA test was used to compare the mean values between groups. Correlations were determined by Pearson’s correlation coefficient. The prediction model was developed by means of multiple linear regression analysis with a stepwise method fitted by least squares with the variables which resulted statistically correlated. The differences were considered statistically significant if p - value was < 0.05. Results None of the patients showed clinical signs or symptoms of hypo/hyperthyroidism or palpable or visible goitre. AntiTG and antiTPO were negative in all patients. Seven patients (8.3%) showed a mild TSH increase, ranging between 5.6 and 8.0 mU/l, while fT4 was within the normal limits in all the patients (table 2). Ultrasound of thyroid was normal in all these 7 subjects. TSH was negatively correlated with both the chronological age at the diagnosis (r = -0.280, p = 0.010) and the age at the end of therapy (r = -0.289, p = 0.008) (Figure 1), but neither with the mean time from the diagnosis to the recruitment nor the mean time from end of the treatment to the recruitment nor the age at the recruitment. When we wondered which factor between the age at the end and at the start of therapy was stronger in determining the TSH level at recruitment, the regression analysis gave the following model: TSH (mU/l) = 3.658 - 0.129 chronological age at the end of treatment (years), with a standardized error of 1.54 mU/l (r2 = 0.083, p = 0.008), excluding the age at the start of treatment. Three patients in the control group (5%) had positive antiTG and / or antiTPO (2 with both of them, 1 only with antiTG) (vs study group: 2 = 4.289, p = 0.038). Only 1 patient with positive anti-thyroid antibodies showed increased TSH (7.2 mU/l) but normal fT4 (1.4 ng/dl). TSH was increased in 3 controls (5.0%) (vs study group: p = ns). The mean fT4 was 1.2 ∼ 0.1 ng/dl in the ALL survivors and 1.2 ∼ 0.4 ng/dl in the control group. The mean TSH was 2.6 1.6 mU/l and 2.9 ∼ 1.4 mU/l, respectively. Both of them were not statistically different between the two groups. No correlations were found between chronological age and TSH level in the control group. PREMI 256 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Discussion The prevalence of thyroid disorders is increased in survivors of childhood ALL as compared to the general population (Madanat, Lahteenmaki et al. 2008), but, at the best of our knowledge, no authors assessed the prevalence of thyroid autoimmunity in such patients treated only with CT. Despite autoimmune thyroiditis is quite common in adults and present during childhood and adolescence with lower incidence, none of our patients showed biochemical signs of autoimmune thyroiditis, which instead was found in 5% of the controls. Worldwide, in childhood and adolescence anti-thyroid and/or anti-TSH receptor antibodies have been detected in about 5% of otherwise healthy children and teen-agers: 10% of Italian subjects (median age 8.3 years) (anti-thyroid and/or anti-TSH receptor antibodies) (Ansaldi, Palmas et al. 2003), 0.0 - 7.3% (antiTPO and antiTG) in Sardinia (an area with moderate iodine deficiency and high prevalence of autoimmune diseases) (Loviselli, Velluzzi et al. 2001), 4.8% (antiTPO) and 6.3% (antiTG) of white American teenagers (Hollowell, Staehling et al. 2002), 6.8% (antiTPO) of 15 - 17 years old Swedish adolescents (Milakovic, Berg et al. 2001), 3.4% (antiTPO) of German children (median age 11 years) (Kabelitz, Liesenkotter et al. 2003). The thyroid dysfunction prevalence is difficult to compare among different populations because it is affected by iodine intake, susceptibility to autoimmunity, age, gender and differences in the sensitivity and specificity of laboratory methods. To avoid this difficulty, we recruited an age- and sex-matched control group, which showed a prevalence of these antibodies similar to the previously cited epidemiological studies. Under our study condition, the prevalence of anti-thyroid antibodies appears lower in ALL survivors than in the general population and statistically lower than in the control group, but this result might be due just to the sample size. Taking into account all these considerations, we are prone to speculate that the prevalence of autoimmune thyroiditis in these patients is comparable or even lower than in the general population. This might be due to the depression of the humoral immunity present after CT (Kosmidis, Baka et al. 2008). Autoimmune diseases are uncommon under immune suppressive state and CT induces a suppression of haematopoiesis, likely reducing the risk of autoimmunity. Lymphopenia secondary to CT induces changes in immune physiology. In mice, it was recently shown that when any cofactor (such local inflammatory cytokines produced under irradiation) that augments immunity is also present in lymphopenic hosts, loss of self-tolerance with resultant autoimmune disease is a predictable result. On the other hand, in absence of these cofactors, there is restoration of normal T cell homeostasis without evident autoimmunity (Krupica, Fry et al. 2006). This hypothesis needs further studies, hopefully in humans, but it would be charming if confirmed. Contrasting data are available concerning the possible effect of CT on the well known impairment of the hypothalamus-pituitary-thyroid function of children treated with RT, especially if involving head or neck (Oberfield SE et al. 1986, Livesey and Brook 1989; Ogilvy-Stuart, Shalet et al. 1991, Schmiegelow, FeldtRasmussen et al. 2003, van Santen, Vulsma et al. 2003). Furthermore, the effects of CT di per se on the thyroid function have been evaluated in a few studies, with contrasting results (Sutcliff SB 1991, Nygaard, Bjerve et al. 1988, Stuart NSA 1990, Madanat 2007). The discrepancies could partly depend on the differences of diagnosis and protocols. In our study, the TSH was mildly increased in 8.3% of the survivors and in 5% of the control subjects, without levo-thyroxine requirement in anyone because classified as subclinical hypothyroidism. In paediatric age, this condition is about 2%, lower than in adulthood when it is 4-10% worldwide (Arrigo, Wasniewska et al. 2008). In previous papers, thyroid dysfunction was reported in 9 out of 87 ALL / non Hodgkin Lymphoma survivors only-CT treated (Madanat, Lahteenmaki et al. 2007), while the pioneering report by Nygaard et al. (Nygaard, Bjerve et al. 1988) showed no statistical differences in TSH, free and total thyroid hormones between 61 Acute Leukaemia survivors (55 with ALL) and 31 healthy controls. This latter paper evaluated only the mean values and not the rate of patients with hormones levels out of range. Our results suggest that under our study condition no patients require levo-thyroxine tablet and PREMI VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA 257 the rate of increased TSH is statistically similar to the controls. On the other hand, we found higher levels of TSH in subjects younger during treatment, independently from the off-therapy period and the age at recruitment, suggesting that CT may cause a subtle impairment in the thyroid cells especially at younger age, similarly to what described for RT (Socie, Curtis et al. 2000). This increase seems affected more strongly by the age at the end rather than at the start of treatment. In summary, we confirm (Madanat, Lahteenmaki et al. 2007) that some childhood ALL survivors present an impairment of the thyroid function some years after the end of therapy, but it is not autoimmune in nature and its prevalence seems comparable to the general population. CT seems to reduce the risk of thyroid autoimmunity. The thyroid gland seems more prone to be damaged by CT at a younger age. Since our data show that the TSH levels depend on the age at the start and the end of CT, the advisable thyroid follow up should be differentiated on the basis of the age of the patients, with more frequent tests for younger patients. Since in childhood and adolescence, the treatment of subclinical hypothyroidism, which can lead to neuropsychological symptoms such as chronic tiredness, mental fatigue, and learning difficulties is still debated (Arrigo, Wasniewska et al. 2008), follow-up studied about subclinical hypothyroidism and its possible consequences in ALL survivors would be worthy and may clarify whether this advice is reliable or not. Table 1 Total dose of chemotherapies administered in each protocol. L-Asparaginase: L-Asp. Prednisone: PDN. Cyclophosphamide: CPM. Vincristine: VCR. Daunorubicin: DNM. Cytosine arabinoside: Ara-C. 6-mercaptopurine: 6-MP. Methotrexate: MTX. Intrathecal MTX: it-MTX. Adriamycin: ADM. Thioguanine: TGN. Ifosfamide: IFO. Etoposide: VP16. Teniposide: VM26. Dexamethasone: DXM. Table 2 Data of the ALL survivors with increased TSH at the recruitment (in brackets the sex) PREMI 258 VI PREMIO PROVINCIA DI CASERTA Figure 1 TSH at recruitment on the basis of the age at the diagnosis (r = -0.280, p = 0.010) and the end of therapy (r = -0.289, p = 0.008). References 1. Ansaldi, N., T. Palmas, et al. (2003). "Autoimmune thyroid disease and celiac disease in children." J Pediatr Gastroenterol Nutr 37(1): 63-6. 2. Arrigo, T., M. Wasniewska, et al. (2008). "Subclinical hypothyroidism: the state of the art." J Endocrinol Invest 31(1): 79-84. 3. Atahan, I. L., F. Yildiz, et al. (1998). "Thyroid dysfunction in children receiving neck irradiation for Hodgkin's disease." Radiat Med 16(5): 359-61. 4. Borgstrom, B. and P. Bolme (1994). "Thyroid function in children after allogeneic bone marrow transplantation." Bone Marrow Transplant 13(1): 59-64. 5. Friedman, D. L. and A. T. Meadows (2002). "Late effects of childhood cancer therapy." 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I PREMIO “STEFANO GOLISANO” Momenti congressuali PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 261 EPIDEMIOLOGIA DELLE INFEZIONI INVASIVE DA GERMI CAPSULATI: NEISSERIA MENINGITIDIS E STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE M. Resti, C. Azzari, G. Indolfi, C. Massai, M. Moriondo, L. Becciolini, M. Cortimiglia Descrizione del progetto di ricerca Introduzione al problema scientifico La Neisseria meningitidis (meningococco) e lo Streptococcus pneumoniae (pneumococco) sono tra le principali cause di mortalità e morbilità in tutto il mondo. Il meningococco è responsabile di forme invasive quali meningiti e sepsi. Lo pneumococco causa infezioni invasive che si manifestano come polmonite lobare, sepsi o meningite. Per entrambi i germi l’incidenza massima si riscontra in età pediatrica e per le forme di meningite e sepsi, è particolarmente elevata nei bambini di età inferiore a 5 anni. Per quanto riguarda lo pneumococco, fino ad oggi ne sono stati riconosciuti oltre 90 sierotipi (1) in tutto il mondo ma il coinvolgimento dei vari sierotipi nelle forme invasive non è noto. Il sierotipo 1, il 3, il 4, il 6 ed il 14 sono i più frequenti in causa in Europa. Al momento lo strumento più importante per la prevenzione delle forme invasive da pneumococco è rappresentato dalla vaccinazione. Esistono numerosi sierotipi anche di meningococco; quelli più frequentemente associati a patologie invasive sono i ceppi A, B, C, W ed Y135. Nel Piano Nazionale Vaccini 2005 le vaccinazioni anti-pneumococcica ed anti-meningococcica sono state inserite tra quelle consigliabili, per le quali però è necessario un progetto regionale specifico. In particolare, il recente Piano nazionale Vaccini elaborato nel 2005 dal Ministero della Salute, riportando quelli che sono gli obiettivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sottolinea l’importanza delle “..rilevazioni epidemiologiche delle malattie infettive..” (2) e la necessità di valutare “..l’impatto delle malattie infettive prevenibili con vaccino sui servizi di diagnosi e cura e sulle esperienze di mortalità della popolazione…” (2). In molti stati del mondo il vaccino antipnrumococcico è consigliato per i bambini di età inferiore ai 5 anni (3, 4). Considerando che la copertura vaccinale è però limitata ad alcuni ceppi, è fondamentale mantenere un regolare monitoraggio della prevalenza dei vari sierotipi, per evidenziare se programmi di vaccinazione di massa possano indurre la selezione di ceppi non coperti dal vaccino (5). Per quanto riguarda il meningococco esiste un vaccino coniugato, contenete il solo ceppo C ed un vaccino tetravalente non coniugato polisaccaridico) contenente i ceppi A, C, W, Y135. In Italia i ceppi più frequenti sembrano essere il B ed il C, con leggera prevalenza di quest’ultimo in tutte le fasce di età. Fino ad oggi per la diagnosi di malattie batteriche invasive sono state utilizzate metodiche colturali. Questo rappresenta un problema per molti aspetti: 1.innanzitutto i metodi colturali richiedono la vitalità del germe, spesso ridotta dalla precedente terapia antibiotica effettuata prima dell’accertamento diagnostico 2.inoltre la sensibilità dei metodi colturali è proporzionale al volume di sangue utilizzato e questo, soprattutto in pediatria rappresenta un ostacolo importante 3.i metodi colturali sono costosi e richiedono elevate abilità tecniche e laboratori specializzati Per questo motivo nell’Ospedale Meyer, mediante una collaborazione tra le varie strutture dell’ospedale (reparti di clinica, laboratori di ricerca) è stato messo a punto un nuovo metodo basato su tecniche molecolari che ricerca direttamente su campioni biologici la presenza del germe casua di malattia batterica invasiva. Il metodo molecolare, proprio perché non ha biosogno di colrtura e cerca direttamente il DNA del germe, non ha necessità della presenza di germi vivi, non ha necessità di terreni di coltura particolare e può essere utilizzato anche in pazienti già sottoposti a terapia antibiotica.Studi preliminari dimostrano che la sensibilità del metodo è almeno doppia rispettoi al metodo colturale ma che può essere fino a 10 volte superiore in alcune patologie. L’incidenza delle malattie batteriche invasive appare quindi almeno 5 volte superiore a quanto si credeva in passato (7). Il metodo messo a punto nell’ospedale Meyer è stato brevettato e, mediante un progetto sostenuto dal Ministero della Salute è stato utilizzato per effettuare gratuitamente la diagnosi di malattia invasiva PREMI 262 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” batterica per tutta Italia. In una seconda fase il metodo è stato messo a disposizione di tutti i laboratori che ne facessero richiesta mediante stages effettuati presso l’ospedale Meyer. Anche la partecipazione agli stages è stata completamente gratuita e a carico dell’ospedale Meyer. Il proseguimento del progetto prevede che la metodica sia resa disponibile ad un numero sempre maggiore di medici per poter effettuare diagnosi in un numero sempre maggiore di bambini, così da poter offrire, nel minor tempo possibile, una terapia idonea. Per questo il presente progetto di ricerca si propone i seguenti obiettivi: 1. sviluppare un metodo in biologia molecolare capace di effettuare diagnosi non da provetta di sangue ma da goccia di sangue su cartoncino (spot), in modo da offrire la possibilità di diagnosi anche ai pediatri del territorio; 2. sviluppare la diagnostica molecolare nel campo dell’antibiotico resistenza, ricercando le mutazioni del germe che determinano le caratteristiche di antibiotico resistenza; 3. sviluppare un metodo in biologia molecolare che possa determinare in breve tempo la sierotipizzazione del germe che sta causando la malattia invasiva; 4. ampliare il pannello dei germi testati con il metodo molecolare, mettendo a punto, in primis, un metodo indirizzato alla diagnosi delle meningiti e sepsi del lattante. A questo proposito si focalizzerà particolarmente l’attenzione sullo sviluppo di una metodica realtime per la tipizzazione e antibiotico-resistenza sia su provetta che su cartoncini. La metodica realtime presenta le migliori caratteristiche sotto diversi profili: maggior rapidità, minor rischio di contaminazioni, maggior sensibilità, maggiore specificità. Metodi Discriminazione tra infezione da Pneumococco e Meningococco. Dai campioni di sangue periferico e/o di liquor dei soggetti inclusi nello studio, dopo estrazione del DNA, viene valutata la presenza di DNA di origine batterica. La ricerca di DNA batterico viene eseguita con metodica Real Time Polymerase chain reaction (RT-PCR) che prevede l’utilizzo di primers e sonde specifiche sia per il meningococco che per lo pneumococco. La RT-PCR utilizza primers relativi a zone altamente conservate dei due batteri che sono presenti in tutti i sierogruppi/sierotipi (gene che codifica per la pneumolisina per lo pneumococco e il gene coinvolto nel trasporto dei polisaccaridi capsulari per il meningococco) (6). Ogni campione risultato positivo a un primo test viene ritestato per confermare la sua positività. Sierotipizzazione dei campioni positivi per Pneumococco o Meningococco. In quei campioni in cui è stata rilevata la presenza di uno dei due patogeni viene effettuata la sierotipizzazione. Meningococco. I campioni che risultano positivi per meningococco sono tipizzati con metodica PCR utilizzando primer che amplificano per i principali sierogruppi (A, B, C, W, Y) seguita da rivelazione su gel d’agarosio. La PCR utilizza primers relativi a zone sierogruppo/specifiche. Pneumococco. I campioni che risultano positivi per pneumococco saranno sottoposti a tipizzazione. Come risulta dagli obiettivi della presente ricerca, l’indagine di sierotipizzazione verrà ffettuta contemporaneamente con due metodiche, una PCR multiplex sequenziale messa a punto nel nostro laboratorio (7) ed il cui metodo è stato brevettato dai ricercatori del nostro laboratorio (8) e con una nuova metodica di Realime PCR, messa a punto nel nostro laboratorio. Nell’ambito del secondo anno di ricerca si focalizzerà particolarmente l’attenzione sullo sviluppo di una metodica rapida di realtime utilizzabile per la tipizzazione direttamente da campione biologico. In entrambi i casi (tipizzazione realtime e PCR multiplex sequenziale) si utilizzeranno primers specifici per i principali sierotipi (4, 6, 9, 14, 18c, 19f, 23f ) seguita da analisi su software per la Realtime e da rivelazione su gel d’agarosio per la multiplex PCR. PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 263 Analisi statistica L’analisi statistica sarà effettuata con SPSS v 10.0 utilizzando il test del t di Student, il test del 2, il test di Fisher, il McNemar’s test e Cohen’s kappa test quando appropriati. Risultati prevedibili Lo studio, permetterà di valutare l’incidenza dell’infezione da pneumococco nelle forme febbrili e nelle polmoniti dell’infanzia di valutare quali siano i ceppi più frequentemente in causa nelle forme invasive di sepsi e meningite di mettere a punto un metodo nuovo e rapido, con alta sensibilità e specificità per la tipizzazione dei vari sierotipi sia da provetta che da cartoncino Bibliografia 1. Henrichsen J. Six newly recognized types of Streptococcus pneumoniae. J Clin Micorbiol 1995; 33:2759-62. 2. Ministero della Salute. Piano Nazionale Vaccini 2005, p.101. 3. Black, S., H. Shinefield, B. Fireman, et al. Efficacy, safety and immunogenicity of heptavalent pneumococcal conjugate vaccine in children. Pediatr Infect Dis J 2000;19:187-95. 4. Giebink GS. The prevention of pneumococcal disease in children. N Engl J Med 2001;45:1177-83. 5. Spratt BG, Greenwood BM. Prevention of pneumococcal disease by vaccination: does serotype replacement matter? 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Santucci Primario Pediatra Ospedaliero Premessa: bambini vulnerabili e accessibilità delle prestazioni sanitarie Il Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza presso l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel 2003 pubblicò le osservazioni finali del gruppo di lavoro sulla situazione italiana, in cui si esprimeva preoccupazione “per la difficoltà che incontrano i bambini appartenenti a gruppi vulnerabili a utilizzare i servizi sanitari esistenti”, raccomandando all’Italia di adottare misure efficaci per facilitare a tutti i bambini l’accesso ai servizi sanitari. Ciò venne ribadito nel Rapporto di aggiornamento del 2006. Il principio ispiratore di un’integrazione assistenziale nel settore materno -infantile deve essere la centralità di madre e bambino nel progetto; per ottenere questo è indispensabile che le prestazioni ospedaliere e territoriali siano perfettamente integrate e complementari. Un uso inefficiente delle risorse penalizza, infatti, l’accessibilità dei servizi delle fasce di pazienti più fragili. Appare necessario partire da un modello epidemiologico che possa rilevare i bisogni della popolazione di riferimento e individuare aree problematiche da migliorare prioritariamente, in termini di accessibilità, di efficacia e appropriatezza dei servizi, al fine rispettivamente di un’adeguata programmazione e gestione degli stessi. Risulta, cioè, fondamentale il ruolo di un osservatorio epidemiologico ove confluiscano indicatori di salute per bambini e adolescenti raccolti a livello ASL/ distretti sanitari, dalla cui analisi sia possibile progettare un programma di interventi. Un esempio di tali indicatori può essere il seguente: natimortalità, tasso di mortalità neonatale, infantile, 1-14 anni, 15-24 anni, basso P. N., malformazioni congenite, disabilità, abuso infantile, HIV pediatrico, obesità, aborto volontario< 19 anni, tossicodipendenza <19 anni, nati da taglio cesareo, tasso di allattamento al seno, di vaccinazione, di minori istituzionalizzati non penali, di ospedalizzazione. Agli indicatori epidemiologici già riportati, inerenti alle fragilità familiari, infantili e adolescenziali da riferire ai Distretti di riferimento, vanno aggiunte le patologie croniche: allergie gravi, artrite reumatoide infantile, asma bronchiale, celiachia, cerebropatie e paralisi cerebrali infantili, diabete mellito, displasie ossee, disturbi del comportamento, fibrosi cistica, insufficienze renali croniche, insufficienze respiratorie croniche, malattie cromosomiche, genetiche, metaboliche, malattie neuromuscolari, obesità grave, patologie onco-ematologiche. Queste fasce di utenti necessitano di un approccio multidisciplinare integrato tra servizi sanitari di base e di 2° e 3° livello, e dell’apporto di attività di assistenza psico-sociale, come pure l’area di stretta integrazione socio-sanitaria:minori a rischio psico-sociale per maltrattamenti, abuso, trascuratezza, minori sottoposti a provvedimenti giudiziari o appartenenti a comunità vulnerabili (stranieri, immigrati, nomadi), nonché l’area della prevenzione e della cura del disagio adolescenziale. E’, in effetti, del tutto evidente che la scarsa integrazione dei servizi peggiora l’accessibiltà degli stessi da parte delle fasce fragili della popolazione utente. L’ambito naturale di integrazione ospedale-territorio appare il Distretto, che deve prevedere un tavolo di concertazione tra assistenza pediatrica ospedaliera e territoriale e con tutte le professionalità coinvolte nell’assistenza delle fasce di popolazione fragili da un punto di vista sia biologico che sociale. Nell’ambito del Distretto avviene l’incontro tra pediatri e Medici di famiglia e le altre attività assistenziali e sociali di 1° livello (vaccinazioni, profilassi delle malattie infettive e controllo dell’alimentazione nelle comunità infantili, l’educazione sanitaria, gli screening, le visite domiciliari, l’osservatorio epidemiologico), con le attività di servizio sociale (gestione sociale del bambino con malattie croniche, a rischio sociale, a PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 265 rischio di abuso o abusato), con quelle di NPI, riabilitazione e di psicologia, col Consultorio familiare ed eventualmente il Consultorio Giovani. La raccolta di tali dati di popolazione può suggerire a livello macro la priorità degli interventi da predisporre in campo sia preventivo che terapeutico, impegnando in progetti fortemente integrati Pediatria territoriale e ospedaliera insieme con tutte le Agenzie coinvolte nella risposta agli specifici diversi problemi di famiglie, bambini e adolescenti. L’integrazione ospedale-territorio Gli obiettivi dell’integrazione ospedale-territorio riguardano due aspetti principali della continuità assistenziale: - la continuità assistenziale nelle 24 ore; - la continuità delle diverse prestazioni erogate in ambito ospedaliero e territoriale. Occorre intervenire, in merito al primo punto, sull’organizzazione dell’assistenza notturna e prefestiva e festiva, in tema di urgenze pediatriche;ciò allo scopo di ridurre l’attuale tasso di accessi inappropriati alle prestazioni ospedaliere di PS pediatrico. Nell’attuale quadro contrattuale e convenzionalistico un realistico miglioramento della situazione, oltre che con una più opportuna apertura ambulatoriale diurna, si potrebbe avere con un call- center pediatrico con servizio di triage telefonico. La copertura dell’urgenza pediatrica prefestiva e festiva dovrebbe, peraltro, avvalersi di una più stretta collaborazione delle Pediatria ospedaliera e di libera scelta. La continuità delle prestazioni erogate in ambito ospedaliero e territoriale riguardano principalmente le dimissioni: - del neonato sano; - del neonato problematico o del bambino dopo il ricovero; - del bambino dal PS o dopo osservazione breve. Appare, allora, indispensabile un tipo di “governance” che programmi e verifichi i percorsi e organizzi i momenti formativi indispensabili, valutando bisogni e revisioni dei percorsi, giovandosi di una figura di coordinamento delle attività a livello aziendale, e un’articolazione a livello dei Distretti, attraverso l’istituzione di un’Unità Valutativa Distrettuale, dove tutte le figure professionali definiscono i rispettivi ruoli e competenze e decidono volta per volta i referenti dei casi (case/patient managers). In tutto quanto sopra enunciato appare centrale il problema della “continuità assistenziale pediatrica” nell’ambito di un programma di “rete assistenziale” focalizzata sui bisogni di bambino e famiglia e fortemente integrata coi servizi ospedalieri in percorsi condivisi, formalizzati e resi trasparenti agli utenti secondo la logica della carta dei servizi (es.: presa in carico del neonato alla dimissione dall’ospedale, del bambino a rischio clinico e sociale, del bambino con patologia cronica…) e periodicamente valutati in termini di efficacia ed efficienza mediante analisi dei processi assistenziali (audit clinici e organizzativi). Per conseguenza, indicatori di integrazione e continuità assistenziale dovrebbero entrare nel repertorio di valutazione dei servizi pediatrici tanto territoriali quanto ospedalieri. Occorre, pertanto, in questo contesto, definire i luoghi (Ospedale/Territorio) delle attività diagnostico/ terapeutiche in modo coerente con i livelli realmente richiesti da principi di efficacia/efficienza, evitando di duplicare attività di medesimo livello di impegno assistenziale, ed in modo che la distinzione tra cure primarie e cure secondarie sia determinata sempre di più dal livello di intensità necessaria ad affrontare i bisogni di cura e non da aspetti meramente normativi. Ovviamente un programma di così ampia portata deve prevedere alcuni anni di lavoro con un cronogramma ben definito che consideri le priorità legate alle esigenze di salute del territorio, gli interessi degli Utenti e degli Operatori coinvolti, la sostenibilità economica ed organizzativa. L’appropriatezza degli interventi emerge, pertanto, come prerequisito irrinunciabile per l’efficacia e l’efficienza degli stessi; di conseguenza il progetto deve essere fornito degli strumenti validati dall’Evidence Based Medicine: Linee guida e consensus di buona pratica clinica e Percorsi Diagnostico-Terapeutici (PDT) PREMI 266 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” che ne garantiscano l’applicabilità agli specifici problemi di salute degli utenti. Particolare enfasi dovrà essere posta negli aspetti collegati al controllo dell’effettiva presenza della continuità terapeutica e della “tenuta della rete”, con l’obiettivo di individuare con assoluta precisione i nodi in cui la “rete cede” per le opportune azioni di consolidamento, cercando di evitare assolutamente interventi a pioggia. Questa impostazione richiede un approccio integrato multidisciplinare, in cui è anche evidente il rilievo degli aspetti di educazione permanente degli operatori, per l’esigenza di un cambiamento culturale che consenta l’attuazione dei progetti elaborati ponendo al centro il bisogno di salute del bambino e della sua famiglia. L’equità nell’allocazione delle risorse richiede, peraltro, un riaggiustamento più efficiente e mirato dell’intera offerta assistenziale, in modo che la razionalizzazione di prestazioni duplicate o ridondanti consenta maggiori investimenti nella facilitazione dell’accesso ai servizi delle fasce fragili della popolazione. Obiettivi del “reengeneering” dei servizi materno -infantili e territoriali: - Sostegno alla genitorialità, in particolare per genitori di nuovi nati e genitori adolescenti; percorso nascita (Gruppi/incontro pre-parto, disponibilità attiva e precoce del Pediatra di famiglia, identificazione precoce di situazioni a rischio, sostegno dell’allattamento materno anche come primo intervento di prevenzione di patologie future mediante la promozione e la diffusione di stili di vita orientati alla salute). - Formazione e implementazione di gruppi operativi (interdisciplinari -interistituzionali) da concepirsi a livello sovra -distrettuale per diagnosi e trattamento dell’abuso. - Percorsi assistenziali integrati per bambini con patologia cronica e disabilità gravi. - Sperimentazione di modelli di accoglienza socio-sanitaria integrata per bambini e famiglie multiproblematiche. - Prevenzione della dispersione scolastica, della gravidanza in età adolescenziale, della tossicodipendenza, del disagio psichico, della devianza (a seconda della prevalenza locale delle problematiche). Dovendo perseguire la politica della qualità delle cure e garantire la continuità tra gli operatori di interventi multidisciplinari, appare fondamentale completare il processo di informatizzazione integrata tra ospedale e territorio, in modo da consentire una comunicazione efficiente tra i diversi attori del processo assistenziale, sia ospedalieri che del territorio, nonché l’uso di idonei call-center, per presidiare l’efficacia del sistema negli snodi fondamentali dei due versanti, territoriale e ospedaliero: consultori familiari, pediatri di famiglia, UU. OO. di Pediatria e NPI ospedaliere. L’offerta di servizi assistenziali efficaci ed efficienti alle fasce fragili della popolazione richiede, quindi, una rivalutazione dell’intero pannello delle prestazioni sanitarie e di privilegiare gli aspetti della deospedalizzazione e della continuità assistenziale che qui assumono rilevanza vitale, sia per un equo utilizzo delle risorse, sia per incrementare l’accessibilità dei servizi; esse, anzi, costituiscono la ”conditio sine qua non” per lo sviluppo degli obiettivi sopra elencati. Da quanto sopra svolto, si sono individuati i seguenti 3 progetti-obiettivo da implementarsi nei prossimi 3 anni; essi richiedono la formalizzazione tramite una deliberazione congiunta dell’ASL e delle Aziende Ospedaliere coinvolte, per le rispettive assunzioni di impegni. 1. L’ospedalizzazione e la deospedalizzazione Pediatrica La realtà dell’assistenza pediatrica in Italia, nonostante una buona, seppur non completa, diffusione della Pediatria di libera scelta, è caratterizzata da un eccesso di ospedalizzazione per patologie che in buona parte dei casi necessitano di cure ambulatoriali o domiciliari. Ciò è legato a una carente continuità assistenziale offerta ai bambini, all’utilizzo non corretto del pronto soccorso ospedaliero e alla mancanza di un efficace filtro ai ricoveri impropri. La mancanza d’integrazione tra l’area delle cure primarie sul territorio e la Pediatria ospedaliera manifesta, pertanto, i suoi effetti macroscopici nella continua espansione della richiesta di prestazioni pediatriche urgenti. Occorre dare una risposta efficace all’urgenza oggettiva e capire se sotto la gran mole dell’urgenza soggettiva si nascondano bisogni di salute non soddisfatti, oltre un’indubbia quota di ricerca PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 267 di medical shopping. Per riequilibrare domanda e offerta, senza ricorrere unicamente al razionamento esplicito o implicito, che penalizzerebbe i bisogni di salute delle fasce sociali deboli e più a rischio, occorre considerare il problema dell’urgenza ed emergenza pediatrica nell’ambito più vasto della pianificazione e integrazione dei servizi pediatrici territoriali e ospedalieri. E’ necessario, in prima battuta, razionalizzare l’offerta dei servizi, ridisegnandola sui bisogni di salute della popolazione di riferimento, risparmiando risorse allocate in interventi ridondanti o, in ogni caso, non appropriati, in modo da depurare la domanda di prestazioni pediatriche urgenti delle istanze che nascono da un’organizzazione inefficiente dell’offerta Il presente progetto sviluppa il concetto di deospedalizzazione proponendo l’utilizzo di tutti gli strumenti tradizionali già conosciuti e alcuni innovativi con l’obiettivo di limitare il più possibile il ricovero ospedaliero del bambino e, se assolutamente questo è necessario, limitarne al massimo le giornate di degenza. I vantaggi possono subito essere evidenti sia dal punto di vista sociale che di politica economica sanitaria. Il conseguimento di tale obiettivo è possibile solo con il concorso di più fattori (famiglia, livello sociale, istruzione ecc) e di molteplici figure assistenziali (Pediatri Ospedalieri, Pediatri di Base, Consultori, Assistenti sanitarie e sociali) e dalla coesione di varie istituzioni in genere coinvolte nell’assistenza globale del bambino (Ospedale, ASL, Regione, Scuole di Specializzazione, Ministero della salute, Associazioni di volontariato, Amministrazioni locali ecc.). Gran parte delle richieste di prestazioni di Pronto soccorso pediatrico riguarda bambini di età inferiore ai 6 anni ed avviene in modo autonomo, cioè senza alcuna consultazione preventiva del medico curante. Conseguentemente, solo una percentuale relativamente modesta di tali accessi è giustificata da un’oggettiva gravità dello stato di salute dei piccoli pazienti (codici rossi 2-3%, codici gialli 9-10%); i restanti codici verdi e bianchi hanno spesso una componente di giustificazione legata all’ansia o a fattori concomitanti temporali (allarme meningite, bronchiolite, grado di accessibilità alle cure primarie territoriali). Contestualmente, in tema di continuità assistenziale, appare utile segnalare i primi dati della sperimentazione di un Network pediatrico effettuato dal Gruppo di Studio Miglioramento della Qualità della S.I.P., coinvolgente circa 20 ospedali. Nell’ambito delle patologie tenute sotto controllo (asma, meningite, porpora trombocitopenica idiopatica, diabete mellito, leucemia) colpiscono soprattutto la frequenza del rimando presso l’ambulatorio pediatrico ospedaliero, essendo minoritario il riferimento al pediatra curante; inoltre l’alta percentuale di asmatici noti senza terapia all’ingresso in PS (33%), nonché la bassa percentuale di pazienti (69%) trattati adeguatamente con steroidi entro 1 ora dall’ingresso, mentre solo il 61 % riceve alla dimissione informazioni scritte per l’autovalutazione dell’asma. Per quanto concerne il diabete, la durata media della sintomatologia precedente il primo ricovero è risultata molto elevata (22, 5 giorni) e una parte significativa di pazienti si era rivolta direttamente all’ospedale senza fare riferimento al pediatra di famiglia. Il concetto di deospedalizzazione e continuità assistenziale in area pediatrica coinvolge pertanto tutte le fasi dell’assistenza sanitaria: 1 quella di attuazione di modalità programmatiche che consentano in modo efficace ed efficiente l’integrazione ospedale-territorio ai fini di una reale continuità assistenziale post-dimissione; 2 quella della dimissione protetta precoce con creazione di modelli organizzativi atti a garantire la continuità ospedale-territorio; 3 quella dell’educazione sanitaria (possibile prevenzione degli eventi acuti; correzione degli stili di vita dannosi; ottimizzazione dell’assistenza domiciliare nell’ambito delle patologie croniche); 4 quella del controllo/regolamentazione degli accessi al P.S. e della loro appropriatezza, tramite anche il potenziamento della collaborazione tra Pediatri di libera scelta e ospedalieri; 5 quella del controllo dell’appropriatezza dei ricoveri con potenziamento di modalità di assistenza alternative (osservazione breve, Day Hospital, prestazioni ambulatoriali e domiciliari ecc.); PREMI 268 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 6 quella dell’umanizzazione delle strutture ospedaliere (coinvolgente aspetti logistici/ambientali, tecnologici, comfort psico-fisico, aspetti organizzativi e di preparazione del personale, ecc.); 7 quella dell’avvio di strategie operative atte a ridurre la durata dei ricoveri (dimissione precoce), non solo attraverso i sistemi di buona pratica clinica, ma anche mediante quelli di verifica e controllo, di ottimizzazione delle risorse, di riduzione delle variabilità operative e di scollamento dalle linee guida e dai protocolli diagnostici terapeutici. Sul versante della Pediatria ospedaliera gli obiettivi sono molteplici e comprendono: - Riduzione del ricorso a ricoveri urgenti/ordinari. - Riduzione della durata dei ricoveri urgenti/programmati. - Riduzione degli accessi in PS. - Eliminazione dei ricoveri diagnostici. - Umanizzazione delle cure e rispetto psicofisico del bambino. Per ottenere questi risultati è necessario attivare/incrementare in tutti i Presidi Ospedalieri afferenti all’ASL le seguenti iniziative, che richiedono tutte il preventivo sviluppo di attività sinergiche coi PLS e le strutture socio-sanitarie del territorio: - OBI (osservazione breve intensiva):1 posto-letto ogni 4000-5000 accessi in PS;PDT condivisi coi Pediatri di libera scelta per patologie per cui non è appropriato il ricovero immediato (nel breve periodo trauma cranico minore, asma bronchiale, gastroenterite acuta, convulsioni febbrili semplici e non febbrili in terapia;a seguire PDT anche per orticaria/ angioedema, disturbi comportamentali che richiedano osservazione, dolori addominali di dubbia pertinenza chirurgica, sindromi dolorose). - Dimissione precoce- protetta: accordi coi Pls per controllo clinico a breve, attivazione del servizio assistenza domiciliare, telesorveglianza domiciliare, creazione di accessi aperti agli ambulatori. - Day Hospital: solo per terapie o per interventi diagnostici multidisciplinari, o complessi, o richiedenti sedazione. - Potenziamento e facilitazione dell’accesso dei servizi diagnostici ospedalieri ai Pediatri del territorio. - Incremento attività ambulatoriale(ambulatori con libero accesso, tempi d’attesa congrui). - Educazione e attività sanitaria preventiva. Potrebbe inoltre essere utile l’attivazione di un “ call -center pediatrico” di riferimento per le zone territoriali interessate che indirizzi al posto giusto i pazienti a seconda delle patologie, oltre che filtrare con appropriati consigli le richieste di intervento sanitario. Elemento base comune a tutte le iniziative descritte è la compilazione/condivisione di Percorsi DiagnosticoTerapeutici (PDT) e organizzativi tra gli operatori sanitari ospedalieri e territoriali. I PDT e le schede di controllo I PDT consentono la contestualizzazione delle Linee Guida nelle specifiche realtà operative;permettono, in altri termini, di passare dall’ efficacia teorica all’efficacia pratica al letto del paziente. Parte integrante dei PDT sono le schede di controllo che hanno il compito di monitorare lo scostamento tra la teoria del processo assistenziale e quanto concretamente accade. Esse possono rappresentare uno strumento essenziale per un monitoraggio facile, condiviso ed altamente efficace dell’effettiva capacità di garantire la continuità terapeutica. Tale capacità diventa di vitale importanza quando il processo assistenziale governato da uno specifico PDT riguarda Aziende e responsabilità diverse. Sembra opportuno sperimentare nuove modalità di controllo e presidiare gli snodi fondamentali di un processo assistenziale attraverso le schede di controllo dei PDT. Infatti, nell’ambito delle possibilità offerte da un’organizzazione finalizzata alla continuità delle cure, la misura dei risultati ottenuti rappresenta il punto fondamentale per qualsiasi valutazione delle variazioni indotte dalle scelte organizzative effettuate. In particolare è importante il monitoraggio sistematico degli accessi in ospedale e dei ricoveri inappropriati, come input per le successive azioni correttive di miglioramento della rete assistenziale integrata. PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 269 Si ritiene, peraltro, che la reale efficacia attribuita al concetto di “continuità assistenziale” dipenda in modo significativo da una rete informativa che connette i diversi attori e ne consente una buona comunicazione operativa, punto di partenza per l’integrazione di tutte le attività assistenziali indirizzate al singolo paziente. 2. Percorso nascita Presso i Consultori familiari possono essere seguite sia le gravidanze fisiologiche sia quelle patologiche secondo un gradiente di impegno assistenziale da definire secondo PDT da costruire per rendere uniforme la qualità e le modalità dell’intervento. Obiettivi: facilitare la donna e la coppia genitoriale nel “percorso nascita” al fine di creare un imprinting positivo, contrastando le difficoltà di rapporto, celate o manifeste, tramite interventi di supporto. Tale obiettivo appare di particolare rilievo anche in considerazione delle numerose difficoltà che insorgono in questo periodo, con esiti a volte drammatici (depressione grave post partum). Nodi di rete interessati Consultori Familiari. Strumenti: - formazione condivisa ASL/Ospedale sulla costruzione dei PDT inerenti alla gravidanza e ai corsi di preparazione al parto. I servizi territoriali per il bambino I primissimi giorni di vita rappresentano un problema organizzativo difficile da gestire al fine di garantire la continuità assistenziale.La capacità di offrire servizi efficienti sul territorio rappresenta il prerequisito per il passaggio da una dimissione “precoce“, non sempre rispettosa delle esigenze assistenziali della madre e del neonato, ad una dimissione “appropriata” i cui tempi siano coerenti con tali esigenze. Per favorire questo passaggio si propone la sperimentazione presso un punto nascita, allo scopo di valutarne la fattibilità e l’estensibilità a tutti gli ospedali afferenti all’ASL, di un “Punto Unico” per poter consentire alle madri durante la degenza di effettuare la denuncia di nascita, entrare in possesso del certificato di nascita, ottenere il codice fiscale, praticare le scelta del PLS e ottenere, se dovuto, il codice di esenzione del ticket per patologia. Obiettivo fondamentale infatti è favorire la presa in carico da parte del Pls e quindi l’effettuazione precoce del primo bilancio di salute. Dopo la nascita le infermiere dei Consultori, in un percorso integrato con i servizi ospedalieri e i PdF, potrebbero offrire l’opportunità ai neo genitori di momenti per il sostegno dell’allattamento al seno; si costituirebbe in questo modo attraverso l’integrazione un modello di utilizzo appropriato delle risorse lasciando più spazio al Pediatra per aspetti più impegnativi e curativi. Questo intervento deve essere collegato all’ assistenza ai bambini ed agli Utenti in età pediatrica che è nel nostro Territorio è regolarmente effettuata dai PLS. Obiettivi: favorire l’attaccamento tra madre e neonato (bonding) e contrastare la depressione puerperale incrementando gli interventi di sostegno alla relazione madre - bambino; favorire ed incrementare un adeguato follow -up del puerperio materno presso i Consultori; consentire il passaggio, in epoca neonatale da “dimissione precoce” a “dimissione appropriata”, tramite il coinvolgimento dei pediatri di libera scelta, la definizione dei bisogni della diade madre- neonato (programmi personalizzati e integrati tra strutture e professionisti) e la definizione degli standard operativi per soddisfare tali bisogni di assistenza. La promozione e il sostegno dell’allattamento al seno riveste importanza fondamentale non solo sul piano nutrizionale, biologico-clinico, psico-relazionale in tutte le famiglie, e particolarmente in quelle affette da fragilità sia d’ordine fisico che sociale, ma anche sul piano dell’educazione alla salute, come esempio di modificazione e promozione di stili di vita a questa orientati (prevenzione obesità, patologie dismetaboliche). Si propone che essa rappresenti un progetto specifico, finalizzato all’implementazione nei punti nascita e nel territorio rispettivamente dei 10 e 7 punti OMS/UNICEF allo scopo di ottenere la certificazione UNICEF PREMI 270 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” “Ospedale e ASL amica dei bambini”. Questo progetto sarà formalizzato da una deliberazione congiunta ASL -AA.OO., che indicherà gli strumenti, le risorse e il timing dei percorsi formativi, organizzativi e di monitoraggio per l’applicazione di un PDT concordato che applichi nella realtà del territorio le linee guida sulla promozione dell’allattamento al seno. Obiettivo: migliorare i tassi di allattamento esclusivo al seno riscontrati nel 2006 rispettivamente alla dimissione dal punto nascita, a 3 e 6 mesi. Nodi di rete interessati - Punti nascita e UU OO. di Pediatria ospedaliere. - Pediatri di famiglia. - Consultori familiari. - Dipartimento di prevenzione ASL per il monitoraggio dei tassi di allattamento esclusivo al seno in corrispondenza col calendario delle sedute vaccinali. Strumenti Formazione condivisa ASL/Ospedale/PLS su aspetti inerenti alla costruzione degli specifici PDT e con docenti abilitati Unicef. Stesura di PDT specifico su “Dimissione appropriata. Stesura di PDT specifico su “sostegno allattamento naturale”con condivisione del programma Unicef”Amici dei Bambini”. Corsi (18 ore) con docenti abilitati Unicef sul sostegno all’allattamento naturale. Offerta di collaborazione ai gruppi” no profit”di sostegno alle madri nutrici. 3. Assistenza integrata ai bambini e adolescenti con patologie croniche e/o portatori di bisogni speciali Appare importante, anche allo scopo di acquisire una metodologia di lavoro “evidence based”, implementare per una patologia cronica molto diffusa, quale l’asma bronchiale, un PDT integrato dal Territorio all’Ospedale. Il metodo di lavoro sarà poi replicatto per altre patologie da deospedalizzare o comportanti problemi assistenziali complessi e multidisciplinari, riferite a bambini/adolescenti portatori di disabilità e di bisogni speciali (fragilità biologica e/ sociale). Obiettivi del progetto: evitare inefficienti e inefficaci sovrapposizioni d’interventi per gli stessi problemi da parte delle UU. OO. di Pediatria e dei pediatri di famiglia, dare contenuti concreti agli strumenti per l’assistenza al paziente con problematiche di tipo cronico previsti per il pediatra di famiglia. Razionalizzare l’uso dei farmaci secondo le indicazioni della letteratura scientifica. Estendere al massimo livello l’assistenza domiciliare per bambini e adolescenti affetti da patologie e disabilità anche molto gravi, effettuandone un rilevamento epidemiologico e governandone l’assistenza socio-sanitaria integrata a livello dei Distretti, determinandone anche una soglia di gravità che garantisca un accesso equo ai fondi regionali previsti per il Progetto fragilità per la fascia di popolazione 0-18 anni.Avviare e intensificare a livello dei Distretti un metodo di lavoro fondato sulla “case conference” e la gestione multidisciplinare dei problemi, con l’attribuzione delle funzioni e individuazione del “case /patient manager”. Nodi di rete interessati UU. OO. di Pediatria e NPI ospedaliere. Pediatri di famiglia. Distretti Sanitari. Dipartimento ASSI dell’ASL. Collegamento coi servizi sociali dei Comuni e coi gruppi assistenziali “no profit”. Strumenti Formazione condivisa ASL/Ospedale/PLS su aspetti inerenti alla costruzione dei PDT. Stesura, come messa a punto del metodo di lavoro, del PDT specifico su “Asma Cronico”. PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 271 Sviluppo del progetto Senza definire un cronogramma in questa fase, sembra peraltro utile definire alcuni interventi prioritari in quanto o propedeutici per gli obiettivi sopra accennati, o meno complessi da raggiungere, o perché si immagina che i positivi risultati ottenuti in determinati settori possano positivamente evidenziare ai professionisti l’utilità di lavorare in rete e quindi fortemente motivare i successivi comportamenti. Corso di formazione sulla strumento PDT. Con la fine del primo corso teorico sui PDT si può iniziare a stendere primi PDT specifici, quali, come detto, l’asma bronchiale, per estendere poi il metodo di lavoro ad altre patologie che richiedono un’assistenza integrata. Per tali fini sarà utile la definizione e le modalità di utilizzo della scheda di monitoraggio. Durata del progetto e risultati attesi. Il progetto ha una durata triennale.Le aree di risultato identificate sono le seguenti: Ricognizione epidemiologica dei bisogni e degli strumenti attualmente in uso in ambito territoriale e ospedaliero(protocolli, procedure operative, linee guida): per gli specifici sottoprogetti (deospedalizzazione pediatrica e continuità assistenziale, percorso nascita e sostegno all’allattamento naturale, deospedalizzazione e assistenza domiciliare integrata per la fascia di utenti 0-18 anni portatori di patologie gravemente invalidanti) costituzione di gruppi di lavoro interdisciplinari: pediatri ospedalieri, di famiglia, operatori e responsabili ASL, rappresentanti dei pazienti, infermieri. Istituzione di Unità di lavoro e valutazione a livello distrettuale, per presa in carico dei pazienti e indicazione dei “case managers”. Contestualmente si dovrà provvedere all’attivazione della rete informativa di connessione tra i diversi attori e strutture, territoriali e ospedaliere, coinvolte. Definizione delle modalità di utilizzo delle schede di monitoraggio e test pilota del monitoraggio. Implementazione del PDT e avvio del monitoraggio. Verifica dei dati di monitoraggio e analisi delle criticità emerse a. stesura del report di monitoraggio; b. ridefinizione del percorso in base ai risultati dell’audit e delle criticità emerse Nel corso del secondo e terzo anno del progetto, oltre alle azioni correttive volte al miglioramento continuo di quanto implementato, si allestirà analogo percorso per altre patologie individuate come potenzialmente critiche, e si metterà in atto una collaborazione e un’azione di confronto tesa al miglioramento reciproco con altre ASL e istituzioni impegnate sui temi in oggetto. Risultati attesi. L’appropriatezza degli interventi tende a garantirne il maggior grado possibile in termini di efficacia, efficienza e soddisfazione degli utenti. Quindi il progetto intende assicurare ricadute vantaggiose per i pazienti e l’organizzazione. Si ritiene che, in base anche ai dati della letteratura, si possano ottenere i seguenti vantaggi per i pazienti: semplificazione dei percorsi di diagnosi e cura; riduzione degli interventi inappropriati; miglior presa in carico delle situazioni più critiche; riduzione dell’ospedalizzazione e dell’uso improprio dei servizi di emergenza/urgenza pediatrica; aumento della compliance delle famiglie e dei pazienti alle misure educative e preventive e aumento della percezione nell’utenza della continuità e della qualità delle cure erogate dal sistema nel suo complesso. Quanto esposto comporterà per l’organizzazione: aumento dell’efficienza tramite la riduzione degli interventi inappropriati e duplicati; riduzione del carico assistenziale ospedaliero, legato alla possibile inefficienza della presa in carico del paziente potenzialmente critico; PREMI 272 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” aumento della capacità di lavoro in rete da parte di professionisti operanti in ambiti diversi; razionalizzazione delle risorse dedicate allo specifico problema attraverso la previsione delle principali tappe assistenziali; in particolare un appropriato utilizzo di farmaci efficaci per le patologie oggetto del PDT e una riduzione dei ricoveri ospedalieri (5% annuo per i prossimi 3 anni); rilevazione epidemiologica dei bisogni di salute della popolazione 0-18 anni; implementazione dei relativi interventi socio-sanitari integrati a livello distrettuale; riallocazione delle risorse razionalizzate nell’assistenza e nel sostegno di patologie croniche e disabilità gravi; attraverso l’implementazione del Percorso nascita e sostegno dell’allattamento naturale si possono gettare le fondamenta di un programma di educazione sanitaria per la modificazione degli stili di vita della popolazione di riferimento e la prevenzione primaria di possibili patologie future (obesità, malattie metaboliche e degenerative…) Pertanto il monitoraggio degli interventi verrà effettuato a 2 livelli: di governo(ricaduta complessiva sull’ASL dell’applicazione delle linee guida/PDT) e clinico, che si ottiene coi controlli dei singoli casi trattati sulla base di algoritmi e schede assistenziali, parte integrante dei PDT. Scelta importante e condivisa sarà quella di appropriati indicatori per il monitoraggio dei due livelli citati. Periodici report dovranno garantire il monitoraggio in itinere e il governo del processo ai molteplici attori coinvolti. Riassunto Il progetto, triennale, ha l’obiettivo di razionalizzare l’offerta dei servizi, ridisegnandola sui bisogni di salute della popolazione di riferimento, risparmiando risorse allocate in interventi ridondanti o, in ogni caso, non appropriati; ciò allo scopo di destinare risorse per migliorare l’accessibilità dei servizi per le fasce fragili della popolazione pediatrica. Il principio ispiratore di un’ integrazione assistenziale nel settore materno -infantile deve essere la centralità di madre e bambino nel progetto; per ottenere questo è indispensabile che le prestazioni ospedaliere e territoriali siano perfettamente integrate e complementari. E’necessario partire da un modello epidemiologico che possa rilevare i bisogni della popolazione di riferimento e individuare nell’assistenza erogata aree problematiche da migliorare prioritariamente, in termini di accessibilità, di efficacia e appropriatezza dei servizi. Un esempio di tali indicatori può essere il seguente: natimortalità, tasso di mortalità neonatale, infantile, 1-14 anni, 15-24 anni, basso P. N., malformazioni congenite, disabilità, abuso infantile, HIV pediatrico, obesità, aborto volontario< 19 anni, tossicodipendenza <19 anni, nati da taglio cesareo, tasso di allattamento al seno, di vaccinazione, di minori istituzionalizzati non penali, di ospedalizzazione. Si intende, pertanto, realizzare un approccio integrato multidisciplinare, fortemente improntato alla formazione degli operatori e al sostegno anche educativo alla famiglia, per l’esigenza di un cambiamento culturale di tutti gli attori coinvolti nell’assistenza all’età evolutiva. Una volta individuati i bisogni di salute inevasi - in ordine di criticità e di prevalenza - o, all’inverso, trattati con interventi ridondanti - appare logico responsabilizzare pediatri del territorio e pediatri ospedalieri, in una logica dipartimentale intra- ed extraospedaliera, all’elaborazione di percorsi assistenziali integrati e alla valutazione dei servizi erogati mediante adeguati indicatori di esito, in modo da rilevarne gli scostamenti rispetto agli interventi riconosciuti efficaci. Si potrà, allora, innescare una spirale di miglioramento continuo, su cui impostare anche il programma d’educazione permanente, in cui dovrebbe essere opportunamente valorizzata la periodica valutazione delle prestazioni erogate. Per conseguenza, indicatori di integrazione e continuità assistenziale dovrebbero entrare nel repertorio di valutazione dei servizi pediatrici tanto territoriali quanto ospedalieri. Dovendo perseguire la politica della qualità delle cure e garantire la continuità tra gli operatori, appare fondamentale completare il processo di informatizzazione integrata tra ospedale e territorio in modo da consentire una comunicazione efficiente tra i diversi attori del processo assistenziale, sia ospedalieri che PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 273 del territorio, nonché l’uso di idonei call -center, per presidiare l’efficacia del sistema snodi fondamentali nei due versanti, territoriale e ospedaliero: consultori familiari, pediatri di famiglia, UU.OO. di pediatria ospedaliere. Il progetto si varrà di idonea attività formativa a beneficio dei principali attori, in modo da modificare l’attuale configurazione, per molti aspetti ancora focalizzata sull’ospedale e sul ricovero del paziente. Bibliografia 1. Campbell H, Hotchiss R, Bradshow N, Porteous M.” Integrated care pathways”. BMJ 1998; 316:133-7 2. Grilli R, Magrini N, Penna A, Mura G, Liberati A.” Practice guidelines developed by speciality Societies: the need for a critical appraisal”.Lancet 2000; 335:103-6 3. Guarnaccia S, Lombardi A, Gaffurini A, Chiarini M, Domenighini S, D’Agata E, Schumacher RF, Spiazzi R, Notarangelo LD.” Application and implementation of the GINA asthma guidelines by Specialist and primary care physicians: a longitudinal study on 264 children”. Primary Respiratory Journal, www.thepcrj.org doi:10.3132/ pcrj. 2007 ;357-62 4. Parola L, Ortisi MT, Santucci S, Bellù R, Zanini R, Longhi R.” La costituzione di un network pediatrico Nazionale”. Rivista Italiana di Pediatria Ospedaliera, 2008; 1:11-16 5. Santucci S, Parola L.” Indicatori di esito: quali e perché”. Relazione al 57° Congresso Nazionale della S.I.P.(Venezia, 29 settembre-3 ottobre 2001). R.I.P., 2001;27:840-4. 6. Santucci S, Longhi R, Sez. Lombardia GSAQ della S.I.P.”Qualità in Pediatria”. Dossier Comunicazione Area Pediatrica, Febbraio 2003; 4(2):4-28 7. Santucci S, Parola L.” La qualità dell’assistenza: percorsi clinici in Pediatria.Esperienze in Pediatria Ospedaliera”. Relazione al 59° Congresso Nazionale della S.I.P. (Roma, 27 settembre-1 ottobre 2003). Quaderni di Pediatria, 2003;2:294-6 8. Società Italiana di Pediatria Forum Formazione-Assistenza “Quale Pediatra per quale modello di Pediatria” (Pisa, 15-17 giugno 2006) Assistenza integrata Territorio-Ospedale Quaderni di Pediatria, 2006; 5:13-19 9. Wareka A, Valacer DJ, Cooper M, Caplan DW, Di Maio M.”Impact of a pediatric asthma clinical pathway on hospital cost and lenght of stay”.Pediatric Pulmonology, 2001;32:211-16 10. Zanini R, Ortisi MT, Parola L. “Strumenti per il monitoraggio della qualità in Pediatria”.Relazione al 63° Congresso Nazionale della S.I.P. (Pisa, 26-29 settembre 2007) Minerva Pediatrica, 2007; 59: 482-83 PREMI 274 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” L’IMPORTANZA DEI GENITORI: AIUTO E SOSTEGNO ALL’OPERATORE SANITARIO NELLE FASI DI ASSISTENZA AL BAMBINO F. Lorena, G. Sabrina, P.M. Rosaria, R. Patrizia Perché la scelta di questo argomento? Da diversi anni sentiamo la necessità di crescere professionalmente, per questo motivo abbiamo preso parte a numerosi ed importanti corsi di aggiornamento, che ci hanno permesso di elaborare, personalizzare e diffondere all’interno della nostra U.O. una nuova metodologia assistenziale per il benessere del bambino e della sua famiglia. Alla metà degli anni ’80, la partecipazione ad un Congresso di Neonatologia dette l’input per iniziare un nuovo modo di assistere il neonato e di coinvolgere attivamente i genitori. I risultati non tardarono ad arrivare, per questo motivo il personale infermieristico pensò di estendere questo tipo di assistenza anche ai bambini in età pediatrica. Successivamente abbiamo introdotto tecniche per il controllo e la gestione del dolore. La partecipazione ad un progetto aziendale, HPH (Health Promoting Hospital) ci ha indotto ad elaborare una nostra versione della “Carta dei Diritti del Bambino in Ospedale”, pensata e realizzata in relazione alle esigenze specifiche del nostro reparto. Ogni articolo mette in evidenza come gli operatori sanitari ed i genitori devono impegnarsi per il benessere del piccolo paziente durante la degenza breve o prolungata in ambiente ospedaliero. Da circa due anni l’U.O. di Pediatria si è trasferita nella nuova sede: ci sono ampi spazi per il gioco, colori vivaci alle pareti, arredi confortevoli adatti alle diverse età. Un pizzico di humor e una buona dose di risate con i clown dottori ed i giochi delle Tate dell’ABIO, possono sdrammatizzare l’esperienza della degenza in Ospedale. La realtà che il bambino ospedalizzato si trova costretto a vivere, in genere non è adeguata alle sue capacità di comprensione e quindi può apparire fredda e brutale. La paura dell’ignoto, la paura di essere separati dai genitori, la paura del dolore e della morte, sono sicuramente i sentimenti più comuni che un bambino ed un adolescente provano entrando in Ospedale. Per la gestione e il controllo del dolore utilizziamo tecniche non farmacologiche, che intervengono nella sfera psicologica e possono essere attivate insieme al bambino dagli operatori sanitari, medici, genitori e volontari. Alla base di queste tecniche ci sono le capacità immaginative dei bambini che, grazie all’età, non riescono ancora a distinguere bene i confini tra fantasia e realtà. Le procedure più utilizzate sono: le bolle di sapone distrazione desensibilizzazione (guanto magico) Lo scopo dell’applicazione di queste tecniche è quello di allontanare la mente del bambino dal momento di dolore e paura che sta vivendo, attraverso un processo di dissociazione mentale, in cui è possibile modificare le sensazioni fisiche dolorose. La costante presenza dei genitori, in collaborazione con il personale sanitario, assicura un’assistenza personalizzata. Fare assistenza insieme ai genitori, comunque, deve essere un atto spontaneo del personale infermieristico: i genitori vanno considerati come membri dell’equipe che esercitano il ruolo parentale, partecipano alle cure e conservano così la loro identità di genitori, con tutto l’amore e la responsabilità che ciò comporta. I genitori, attraverso un dialogo costante con il personale, riescono a diventare consapevoli e responsabili di ciò che riguarda il loro figlio. Il dialogo serve ad impostare una relazione di collaborazione utilissima, da cui derivano non solo PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 275 ovvi benefici in senso pratico, ma anche una maggiore facilità da parte del bambino nell’accettare l’ospedalizzazione. La famiglia è il tramite privilegiato attraverso cui il bambino comunica con l’esterno e con il resto del mondo. Nell’incontro tra l’infermiere e i genitori entrano in gioco varie dimensioni: la “comunicazione- interazione”, la più evidente, costituita da parole, gesti e suoni. l’emozione, costituita da manifestazioni esterne meno esplicite, di cui spesso è poco consapevole anche chi le prova. la relazione, una sorte di cornice invisibile che tuttavia influenza a fondo sia la comunicazione, sia l’emozione. Ma esiste anche un’altra dimensione finora poco considerata, la consapevolezza, il centro attorno al quale dovrebbe ruotare ogni processo dell’esistenza umana. Per molti l’atteggiamento professionale coincide con il controllo delle emozioni, impresa di difficile realizzazione e rischiosa sul piano relazionale. Molto spesso l’operatore comunica all’interlocutore una sensazione di eccessiva distanza, disinteresse, freddezza e trascura l’ascolto. Saper ascoltare non è facile, sia perché richiede di ripartire l’attenzione su molti canali contemporaneamente, sia soprattutto perché non siamo abituati a farlo. Nessuno ci ha mai insegnato l’importanza di ascoltare; a scuola si lavora molto sulla competenza linguistica, sulla capacità di costruire testi ben formati e significativi, ma non ci viene insegnato niente sulle tecniche e le modalità di ascolto dell’altro. Ascoltare l’altro significa sia cercare di capire il suo messaggio, sia di cogliere le reazioni ai nostri messaggi mentre ci ascolta. “Ogni bambino ha cose nuove da dirci, una ricchezza da trasmetterci, un bisogno da esprimere, una richiesta che aspetta di essere accolta.” Per aiutare gli altri è fondamentale sentire come stanno, sapersi porre in contatto con loro attraverso l’ascolto e -se possibile- l’empatia, per far sentire loro che sono accolti, che ci siamo davvero e che il contatto è reale. L’empatia è una delle dimensioni importanti in ogni campo della comunicazione interpersonale, ma tutta una serie di paure, rigidità e cattive abitudini fanno spesso fermare le persone a una certa distanza e impediscono loro di realizzare il contatto. L’operatore che per professione si propone di aiutare gli altri, tende a mantenere di fatto le distanze sul piano emotivo, un modo per esorcizzare la malattia, di proteggersi da un eccesso di emozioni e sofferenze che non si sanno gestire. Per questi operatori ci sono due possibilità: tenere aperto il canale empatico o chiuderlo. Siccome hanno sperimentato che l’apertura fa stare male, optano per la chiusura. Una terza possibilità chiamata empatia matura, porta ad avere padronanza del proprio sentire, al punto da dirigerlo dove, come e quando vogliamo, accogliendo la sofferenza dell’altro quel tanto che basta a capire quali possano essere gli strumenti di intervento e di aiuto, ma sempre rimanendo centrati su di sé. Attraverso questa modalità non si corre il rischio di perdersi o di annegare nelle emozioni altrui, possiamo capirle, sentirle, essere vicini anche con il nostro calore umano, senza per questo perdere il nostro centro. Se sentiamo che l’intensità cresce oltre i nostri limiti, dobbiamo essere in grado di staccare almeno per un po’ l’interruttore, senza sensi di colpa dovuti ad uno spirito di perfezionismo. Dobbiamo cercare il nostro centro, il nostro mondo interiore, in modo da ritrovare equilibrio ed energia emotiva che ci permettano di avventurarci di nuovo nel mondo dell’altro. Quindi l’empatia è qualcosa che può e deve essere sviluppato: percepire le emozioni dell’altro e stabilire un contatto con lui/lei facendo sentire la nostra presenza e premura. La strada che la nostra U.O. di Pediatria ha intrapreso, sicuramente è un cammino lungo e.....difficile, ma PREMI 276 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” è probabilmente l’unico da seguire. “Comunicare con efficacia e vivere le relazioni con gli altri in modo costruttivo è un’arte complessa che si impara poco a poco” Bibliografia 1. “Le parole del counselling sistemico “ a cura di Giorgio Bert, Mauro Doglio, Silvana Quadrino, Edizioni Change 2. "Relazioni in armonia" di Enrico Cheli PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 277 PIANO D’INTERVENTO RELATIVO A FORME E STRUMENTI DI INFORMAZIONE, COMUNICAZIONE E SOSTEGNO ECONOMICO, A FAVORE DI IMMIGRATI EXTRACOMUNITARI NEI PERCORSI DI EMIGRAZIONE SANITARIA R.Trunfio1, F. Mammi1, P. Raschi2, P. Madaffari2 1 U.O. di Pediatria e Neonatologia ASL 9 Locri (RC) Cooperativa S “Kaleidoscopio” (RC) 2 Premessa Il dossier Caritas 2004 stima circa due milioni e mezzo d'immigrati regolarmente presenti in Italia e di questi più del 21% è costituito da minori in età compresa fra 0-18 anni. La Locride è costituita da 42 comuni con un numero di 140.000 abitanti e risente, in modo particolare, dei flussi di spostamento degli immigrati sia in termini di ricerca di lavoro che di nuova sistemazione. Tale situazione ha inizialmente interessato i grandi agglomerati urbani in particolare Locri, Siderno, Roccella, Gioiosa J., Bovalino e attualmente vede un aumento costante intorno al 20-25% della popolazione immigrata anche nei piccoli Comuni tanto è vero che solo 1 Comune del territorio consortile non ha polazione extracomunitaria residente. Al 1° gennaio 2005 in Calabria risultano residenti 35000 immigrati e di questi 3000 sono nella Locride. La popolazione degli stranieri in età pediatrica(0-18 anni), stimata alla data suddetta intorno a 600, è in continuo aumento e cio’ non solo per i nuovi arrivi ed i ricongiungimenti, ma soprattutto perche la costa jonica della Locride è interessata ai continui sbarchi di stranieri.Provengono da tutti i Continenti ed i piu’ numerosi sono i bambini dell’Est europeo, seguiti dall’Africa, Asia e Medio Oriente. I servizi sanitari, socio assistenziali e comunali sono sempre piu’ coinvolti nell’attivazione di interventi per gli immigrati ed in una azione di informazione e di sostegno alle loro necessità. Le problematiche sono molteplici e spesso viene richiesto l’intervento di piu’ istituzioni pubbliche ed anche all’interno di queste, nonostante la semplificazione amministrativa in atto, non è per loro agevole trovare subito le risposte possibili ed appropriate.Il ricorso presso la nostra U.O. di famiglie straniere con minori disabili è sempre piu’frequente. La presenza di un bambino pluriminorato, disabile o affetto da una malattia cronica in una famiglia di immigrati mette il sistema familiare nelle condizioni di dover interagire con una serie di persone che fanno parte di altri sistemi: quello della cura, quello sociale, quello amicale, associativo, scolastico, ecc.. Spesso hanno da poco, in parte, risolto il problema della sopravvivenza e, improvvisamente, si trovano nella disperazione causata dal dover affrontare per se stessi e per i loro figli patologie gravi o gravissime:Tali patologie necessitano spesso di cure fuori regione che, se talora rimborsabili dal S.S.N., non avvengono in maniera anticipatoria, con impossibilità di diagnosi appropriata, di cura, di follow-up ed eventualmente di guarigione. Si evidenziata la necessità di favorire lo sviluppo di un progetto a sostegno dei minori disabili stranieri con particolare attenzione alle mamme che oltre a vivere i disagi dovuti alla loro naturale condizione di “immigrate” si trovano a dover fronteggiare difficoltà rispetto all’integrazione dei loro figli disabili e alle problematiche legate ad affrontare in solitudine questioni critiche rispetto alla genitorialità e all’handicap. Azioni previste Si deve considerare che nella nostra Regione non esistono specialità di 3° livello per cui spesso è necessario, per un approfondimento diagnostico, inviare tali pazienti in Centri ad alta specialità per una specifica patologia. Il Pediatra Ospedaliero è quello a cui spesso queste famiglie, con grande umiltà e dignità, confessano di non avere risorse economiche tali da poter affrontare tutte le spese necessarie per recarsi fuori regione. L’intervento ipotizzato prevede l’istituzione di un monitoraggio dei minori immigrati transitanti per la nostra U.O. che realmente hanno la necessità di anticipazioni di somme per viaggi extraregione per cure PREMI 278 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” specializzate. Il gruppo di lavoro avrà la possibilità di interfacciarsi con le istituzioni sanitarie preposte al rimborso delle spese di viaggio, garantendo cosi’ la possibilità di cure solo a che ne ha realmente necessità e salvaguardando il sacrosanto diritto alla salute che l’altrettanto sacrosanto contenimento della spesa sanitaria. Monitoraggio e valutazione Modalità e criteri di monitoraggio dell’implementazione del progetto - Verifiche periodiche del gruppo degli operatori relative alla programmazione e andamento delle attività - Valutazione del servizio offerto attraverso strumenti di valutazione statistica (monitoraggio) - Colloqui periodici con gli operatori dei servizi Sanitari, Scolastici, Comunali, dell'Associazionismo, del Privato Sociale, con le Forze dell’Ordine e del Volontariato coinvolti. Modalità e criteri di valutazione finale del progetto realizzato La valutazione finale prevede, a cura dei referenti, la redazione di una relazione - report di progetto con dati statistici, schede di rilevamento e di raccolta della documentazione prodotta anche nella fase di monitoraggio, verbali delle riunioni del Tavolo di Intesa e relazione finale che in particolare sarà riferita ad elementi di efficienza, efficacia e misurazione di valori attraverso i seguenti indicatori: 1. Numero accessi allo sportello 2. Numero contatti telefonici nel periodo di realizzazione del progetto 3. Numero di pratiche prenotate con la Questura 4. Numero di pratiche concluse con la Questura 5. Numero prestazioni avviate (prenotazioni, contatti, ecc.) 6. Numero casi seguiti (regolari, irregolari e provenienti da fuori territorio) 7. Numero Enti e organizzazioni coinvolte 8. Numero iniziative interculturali avviate in forma coordinata 9. Numero di progetti di accoglienza temporanea di donne in difficoltà realizzati PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 279 PREMI 280 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” . Il progetto si inserisce nelle attività di Accoglienza alle donne straniere di Porta Palazzo, che le donne dell’Associazione Spazi al Femminile conducono da circa un anno sul territorio. Il Progetto risponde ad un bisogno rilevato dall’Associazione rispetto La popolazione residente nel quartiere di Porta Palazzo è caratterizzata da una percentuale molto alta (circa il 21%) di famiglie straniere molte delle quali hanno minori a carico. Tale popolazione è in continuo aumento a causa dei nuovi arrivi e dei ricongiungimenti familiari. Da alcune verifiche sull’attività del Servizio Sociale e dall’interazione con la rete a disposizione, l’Associazione Spazi al Femminile ha verificato un aumento di presenze di famiglie straniere con minori disabili. Dal progetto si attende quindi una capillare diffusione dell’iniziativa PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 281 Obiettivi offrire uno spazio in cui promuovere il benessere psicofisico dei bambini stranieri disabili con attività finalizzate all’intrattenimento, alla socializzazione. offrire l’accompagnamento ai servizi del territorio alle mamme e alle famiglie straniere con bambini disabili. favorire la socializzazione tra famiglie italiane e straniere al fine di favorire la creazione di reti di sostegno reciproco favorire la comprensione, l’avvicinamento e la fruizione dei servizi del quartiere e della città rivolti ai minori stranieri e delle loro famiglie. Laboratorio della lingua Italiana e Araba. Laboratorio di cucina tipica e tradizionale. Difficoltà degli immigrati nella gestione della malattia cronica Fotografare il nostro territorio:dati Abbiamo cecato di individuare quali sono le reali possibilità di sostegno Bisogno di follow up in centri specializzati (trapianti, malattie metaboliche, cerebropatie) In questo senso una metafora vale più di molte parole e il groviglio dei bastoncini dello shangai mi pare rappresenti bene l’intreccio di relazioni nel quale sono immersi il bambino e la sua famiglia. È molto difficile toccare un bastoncino senza muoverne altri, lo stesso succede con gli interventi curativi, riabilitativi o scolastici, che inevitabilmente finiscono per coinvolgere anche gli altri sistemi. Intorno alla famiglia ruotano tutti gli altri, gli amici, i vicini e gli amici del bambino con le loro famiglie. Ci sono poi i numerosi professionisti: medici, insegnanti, assistenti sociali, psicologi, riabilitatori e quant’altro. A questi si aggiungono le associazioni di rappresentanza e di volontariato con il loro personale ed i loro professionisti e consulenti. Infine i media con i giornali, la televisione e internet. In ognuno di questi sistemi, parentale, scolastico, lavorativo, ospedaliero, sociale, in qualche modo si parla del bambino e della sua famiglia e allo stesso tempo anche il bambino e la famiglia parlano degli altri. Ogni elemento del sistema è anche ciò che gli altri raccontano di lui. Questa molteplicità di narrazioni dovrebbe costituire una ricchezza alla quale attingere per migliorare il lavoro di gruppo e ottimizzare il sostegno alla famiglia e la riabilitazione del bambino; spesso invece diventa causa di incomprensioni e motivo di scontro. Non sempre infatti in questo complesso sistema tutto fila liscio, ogni elemento infatti ha la sua verità sul bambino e sulla famiglia: il medico, l’insegnante, il neurologo, lo psicologo, l’assistente sociale hanno verità che spesso “valgono di più”. Ma anche i nonni, gli amici e i parenti, hanno le loro verità; è illusorio pensare di sottrarsi all’influenza delle “verità”: possiamo però imparare ad ascoltarle in modo diverso utilizzando le differenze invece di farle diventare motivo di scontro. Al fine di supportare tali famiglie verrà predisposto uno spazio di incontro allestito per poter permettere alle mamme di trascorrere dei momenti di benessere con i propri figli e con altre mamme di bimbi disabili. Tali momenti saranno supportati dalla presenza di un operatore qualificato e dalle donne volontarie dell’Associazione Spazi al Femminile. Essendo l’Associazione Spazi al Femminile una associazione di volontariato con specificità non rivolte al problema dell’handicap, le attività saranno principalmente di avvicinamento e accompagnamento ai servizi del territorio, con caratteristiche tipiche dell’ auto-aiuto e quindi non specialistiche e/o professionali. PREMI 282 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” Azioni 1. contatto delle volontarie dell’Associazione Spazi al Femminile con i Servizi Sociali per conoscere l’entità del problema e il numero delle famiglie straniere con minori disabili in carico ai Servizi. 2. progettazione delle modalità di contatto con le mamme dei minori disabili, dello spazio di accoglienza e delle attività di accompagnamento e di aggregazione per i bimbi e per le famiglie. 3. raccolta dei bisogni delle mamme e dei bimbi disabili 4. attivazione dello spazio di incontro e delle attività di sollievo e di accompagnamento 5. attivazione di relazioni significative e di collaborazione con i soggetti del territorio che si occupano di minori/famiglie/handicap al fine di predisporre percorsi di conoscenza e approfondimento sulle tematiche della disabilità e sulla fruizione dei servizi a disposizione delle famiglie. 6. diffusione dell’iniziativa attraverso i rapporti informali alle famiglie di minori disabili che ancora non sono emersi e che vivono in situazioni di isolamento. PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 283 PRIMO CASO DI MCAD (DEFICIT DI ACIL-COA DEIDROGENASI A MEDIA CATENA) DA “PROGETTO PILOTA PER SCREENING METABOLICO ALLARGATO” IN REGIONE CAMPANIA: ESPERIENZA DELL’ASL SALERNO 1 C. Di Stefano4, A. Sergio4, A. Barbarulo 4, G. Marchesano4, I. Franzese4, R. Nasca4, C. Brengola4, D. Maiorino4, P. Sarnelli4, L. Monfalcone4, N. Nosari4, G. Amendola4, D. Ombrone1-2, F. Catanzano2-3, E. Scolamiero1-2, M. Ruoppolo1-2, F. Salvatore1-2 1 CEINGE Biotecnologie Avanzate s.c.a r.l, via Comunale Margherita 482, 80145 Napoli Dipartimento di Biochimica e Biotecnologie Mediche, Università di Napoli “Federico II”, Via Pansini 5, 80131 Napoli 3 Dipartimento di Scienze Biologiche ed Ambientali, Università del Sannio, Via Port’Arsa, 11 82100 Benevento 4 U.O.C. Pediatria- TIN Ospedale Umberto 1, Via San Francesco 1, 84014 Nocera Inferiore Salerno 2 Introduzione/Obiettivi Le Malattie Metaboliche Ereditarie(MME) colpiscono i bambini nei primi anni di vita. Esse sono“malattie silenti alla nascita” in cui la diagnosi è spesso tardiva e con sviluppo di gravi handicap o esito spesso letale.Che le MME siano rare è un preconcetto, infatti considerate rare se prese singolarmente, diventano frequenti come gruppo (AApatie, B-ossidazione, Acidosi organiche).Esistendo la possibilità di diagnosi precoce di circa 40 MME su spot di sangue si è avviato in tre regioni uno screening metabolico allargato. La Società Italiana Screening Neonatali su nati del territorio nazionale ha dato una incidenza di 1/3600 nati nel gruppo di MME screenate.Al fine di diagnosticare in fase preclinica malattie altrimenti invalidanti, abbiamo iniziato nella nostra Regione, dal Maggio 2007, un progetto pilota in collaborazione con il CEINGE della Federico II. Dal Settembre 2008 il progetto è stato esteso agli altri punti nascita Ospedalieri della Provincia di Salerno per un totale di 11 Ospedali e circa 8000 nati. Materiali/Metodi Nei primi 15 mesi di attività abbiamo sottoposto a screening 2017 neonati con un prelievo di sangue effettuato mediante puntura del tallone entro 72 ore dalla nascita.Previo consenso informato il cartoncino viene consegnato al centro che esegue l’indagine entro la mattina successiva ed avviato all’analisi mediante Spettrometria di Massa Tandem(1). Risultati Abbiamo avuto in un caso diagnosi di MCAD.Questo è il difetto più comune nella ossidazione degli acidi grassi, considerato tra le cause di SIDS. Tale deficit è caratterizzato da intolleranza al digiuno prolungato con episodi di ipoglicemia ipochetotica fino al coma e bassi livelli di carnitina.Il disordine può essere severo fino all’evento letale. In seguito alla diagnosi è stato allargato lo studio ai familiari del probando, consentendo di individuare la stessa patologia nel fratello di 15 mesi. Inoltre è stata eseguita caratterizzazione molecolare del gene ACADM.Tali studi hanno mostrato che i bambini sono entrambi omozigoti per la mutazione A985G, mentre i genitori sono eterozigoti per la stessa mutazione.Tale mutazione rende conto di circa l’80% dei casi di MCAD diagnosticati.E’ stato inoltre allargato lo studio molecolare a tutti i membri della famiglia, questo ci ha permesso di individuare i portatori. Conclusioni L’incidenza della MCAD (1/10000), questa non è poi così lontana da quella della fenilchetonuria (1/12000), esistendo però per quest’ultima lo screening obbligatorio.E’ stato dimostrato che per la MCAD in fase preclinica è possibile un buon outcome neurologico a distanza con un attento follow-up e terapia con integratori (2). Considerando l’incidenza su dati nazionali del gruppo di malattie screenate e il totale di PREMI 284 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” nati negli Ospedali della Provincia di Salerno (1/3600 vs 8000/anno) ci attendiamo per la nostra Provincia circa 3 casi/anno di MME (non più rare!). 1. Wilcken, B.New England Jour Med.348:2304-2312, 2003. 2. Muntau Eur. Jour. Ped.163(2):76-80, 2004 PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 285 PROGETTO DI ATTIVITÀ FORMATIVO-ASSISTENZIALE PRESSO OSPEDALE ITALIANO IN N’DJAMENA (TCHAD) A. Masetti Direzione Generale Sanità Militare La SIMEUP - Società Italiana di Medicina di Emergenza Urgenza Pediatrica - ha tra i suoi scopi quello di formare personale sanitario che possa poi rispondere a situazioni di grandi calamità in Italia e all’estero: all’uopo ha promosso l’isituzione di un gruppo di lavoro, al quale hanno aderito anche S.I.P, S.I.P.P.S. e F.I.M.P. che propone un percorso formativo per sanitari di area pediatrica variamente articolato. Le condizioni logistico-lavorative ipotizzabili in situazione di grande calamità posso essere assimilate a quelle presenti in numerosi ospedali già operativi in Africa o altri paesi in via di sviluppo: per tale motivo e, volendo raggiungere anche altro importante scopo sociale volto alla solidarietà internazionale, si propone di realizzare un progetto di cooperazione formativo-assistenziale con l’Ospedale “Bon Samaritan” operante in N’Djamena (Tchad), diretto da Padre Angelo Ghepardi, un missionario italiano da oltre 40 anni operante sul territorio. Tra le tante ipotesi possibili, la scelta è ricaduto sul suddetto istituto per la particolare cornice di sicurezza presente nella città, assicurata dalla presenza della Forza Multinazionale Europea - EUFOR - impegnata nelle operazioni di sostegno ai profughi del sudanesi del Darfour. Il progetto si articola su costante presenza nell’Ospedale di due medici pediatri (uno con provata esperienza ed uno in formazione) e di un infermiere di area pediatrica, con l’obbiettivo di contribuire alla organizzazione dei servizi ospedalieri in campo pediatrico, alla realizzazione di strutture di assistenza specialistica territoriale (consultori pediatrici, centri vaccinali, ecc.) nonché alla formazione del personale sanitario locale su tematiche pediatriche. Il personale, reclutato su base volontaria, sarà impiegato in turni di circa 15 giorni, con cambi non sincroni tra i medici pediatri, onde consentire la continuità dell’assistenza. Il sostegno logistico del personale impiegato sarà garantito dalla Direzione dell’Ospedale che potrà mettere a disposizione appositi alloggi attigui al nosocomio. Il progetto, per permettere il raggiungimento degli obiettivi sopra esposti, si prevede debba avere una durata di almeno sei mesi. Nel corso della durata del progetto, verrà realizzata una attività formativa per il personale sanitario locale, organizzata dalla SIMEUP con la proposta di appositi corsi specifici per l’emergenza/urgenza in area pediatrica, della durata approssimativa di una settimana, con l’impiego di manichini e simulatori. E’ stata richiesta la disponibilità all’Aeronautica Militare Italiana, già impegnata con alcuni medici in azione umanitaria presso il medesimo ospedale, la disponibilità a trasportare gratuitamente i medici/infermieri pediatrici a bordo dei velivoli militari. Si sottolinea come l’attività prestata dal personale sanitario volontario sia completamente a titolo gratuito e, in molti casi, anche oneroso per gli stessi interessati. PREMI 286 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” PROGETTO TOUCH SCREEN P. Ferrante Dirigente Medico - Pediatra, Presidente SIMEUP-Puglia - U.O. di Pediatria-P.O. “L. Bonomo”-Andria (Bari) Descrizione Evoluzione del prodotto editoriale EDITEAM “DIZIONARIO MULTILINGUE PEDIATRICO PER IL PRONTO SOCCORSO E L’AMBULATORIO” secondo le linee guida della SIMEUP (Società Italiana Medicina di Emergenza e Urgenza Pediatrica). Premessa Il carico di lavoro burocratico con l’aggravante necessità di far fronte alla sempre maggiore mole di moduli cartacei che il Pediatra ospedaliero e soprattutto quello di P.S. ogni giorno deve affrontare impongono l’uso delle più attuali ed ergonomiche tecnologie nell’ottica di un lavoro meno stressante e di un servizio all’utenza più efficiente. Progetto Il Progetto prevede l’uso di tutti i moduli bilingue presenti nel Dizionario EDITEAM che verranno riversati dal supporto informatico (CD) al video. Tali videate conterranno le schede di intervista medico-infermieristiche nelle lingue prescelte a seconda delle nazionalità dei genitori del piccolo utente del P.S. pediatrico. Il tutore del minore darà le risposte (si o no) utilizzando però un supporto interattivo e di notevole immediatezza d’uso come è il touch screen, che utilizzando una tecnologia ormai consolidata e poco costosa affrancherà l’utente dall’uso impreciso e scomodo oltre che lento di un tradizionale mouse o trackball. Quando saranno state date tutte le risposte alle schede in video si potrà passare a seconda di quanto preferisce l’operatore sanitario a riempire la scheda successiva oppure alla traduzione della stessa. Tale innovazione, applicabile anche ad altri ambiti (vedi anamnesi e compilazione di cartella elettronica ove in uso) renderebbe come detto nelle premesse l’uso del Dizionario più facilmente e rapidamente fruibile, allargandone pertanto l’applicazione anche a coloro che sono più restii ad adoperare tale strumento. Inoltre il costo della tecnologia richiesta risulta estremamente basso e alla portata del budget di qualunque ambulatorio e pronto soccorso. PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 287 “Rispettiamo i diritti del bambino : trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!” L. Pinto Azienda Ospedaliera “Santobono-Pausilipon” di Napoli Introduzione L'esperienza del ricovero ospedaliero può causare un significativo trauma psicologico nel bambino e nei suoi genitori, per l’intervento di fattori quali le problematiche legate alla malattia, le difficoltà relazionali con il personale sanitario, le interferenze con le abitudini quotidiane, la brusca interruzione dei naturali ritmi di vita, i bassi livelli di comfort alberghiero. Per evitare o almeno ridurre questo trauma, in diversi reparti di pediatria sono state introdotte modifiche nelle procedure tecniche e nel comportamento del personale di assistenza, e si è intervenuti sugli spazi rimodellandoli in rapporto alle esigenze del bambino e della sua famiglia. Tale cambiamento si è realizzato in particolare nei reparti dedicati all’assistenza dei bambini lungodegenti e/o con malattie croniche o terminali, dove, grazie anche al sostegno di associazioni di volontariato costituite prevalentemente da genitori, sono stati realizzati programmi di umanizzazione molto avanzati, Minore è solitamente l’attenzione per i ricoveri per patologie acute, nonostante siano molto frequenti (rappresentano il 90 % circa dei ricoveri pediatrici ordinari nel nostro paese), e vi sia un'ampia letteratura sui disagi emotivi e relazionali derivanti al bambino ad ai suoi genitori anche da queste esperienze di ospedalizzazione. La natura stessa del ricovero (caratterizzato da una molteplicità di patologie e da una limitata durata della degenza) non favorisce peraltro la costituzione di associazioni locali di genitori, la cui azione potrebbe risultare determinante per una più decisa promozione della umanizzazione. In una regione come la Campania, dove il tasso di ospedalizzazione in età pediatrica è significativamente più elevato della media nazionale, la gestione assistenziale del ricovero per patologie acute costituisce un problema di notevole rilevanza, e rende indispensabile l’adozione di azioni atte a garantire un adeguato livello di umanizzazione nei reparti che partecipano all’emergenza pediatrica Una ragionevole soluzione è rappresentata dal Progetto Andrea, avviato nel 1995 nella Divisione di Pediatria dell’Ospedale S. M. Goretti di Latina, da Lino Claudio Pantano e da Alberto Raponi, con la collaborazione dell'A.Ge. (l'Associazione Genitori Italiani) Il Progetto Andrea Il Progetto Andrea ha come obiettivo generale la garanzia che anche durante il ricovero ordinario di breve durata per patologie acute in pediatria venga assicurato un adeguato livello di umanizzazione, eliminando o riducendo il trauma dell'ospedalizzazione nel bambino e nei suoi genitori. Obiettivi specifici sono Migliorare l’accoglienza in reparto del bambino e dei suoi genitori rendere possibili i normali ritmi di vita del bambino, elevare il comfort alberghiero, modificare le procedure assistenziali, per ridurre i disagi al bambino ed ai genitori migliorare la ristorazione La metodologia seguita dal Progetto Andrea è quella del problem solving o del ciclo P.D.C.A., che costituisce lo “strumento” base dell’approccio alla qualità mediante il Miglioramento Continuo. PLAN (pianificare): decidere cosa fare, come farlo, in che tempi; prima di agire identificare il problema, gli obiettivi da raggiungere, le misure da adottare: DO (fare): fare quanto pianificato, dare attuazione ai processi ; CHEK (controllare): verificare se si è fatto quanto pianificato attraverso dati oggettivi (misurazioni): raggiungimento degli standard e degli obiettivi previsti, eliminazione del problema e delle cause; ACT (agire): adottare azioni per migliorare in modo continuo le prestazioni dei processi. PREMI 288 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” P come pianificare Il Progetto prevede che il personale del reparto (medici, infermieri, ausiliari), nel corso di riunioni periodiche analizzi, insieme ai genitori dei bambini ricoverati, alle associazioni di volontariato ed al mondo della scuola (quando presente), lo stato del reparto, la sua strutturazione, i percorsi assistenziali, i giudizi sul livello di umanizzazione espressi dalle famiglie di bambini dimessi mediante un questionario, gli eventuali reclami pervenuti all’ URP; definiti i punti critici e gli obiettivi da raggiungere, si elabora un piano per realizzare le soluzioni previste, che comprenderà gli obiettivi specifici, le scelte operative, i tempi di attuazione. Nell’esperienza di Latina, una commissione composta da operatori sanitari, da genitori presenti in reparto e da volontari, ha individuato come critiche le seguenti aree dell' assistenza pediatrica: accoglienza (accoglienza del bambino e della sua famiglia, collaborazione del bambino alla visita) comfort (pulizia e ordine del reparto, strutture fisiche di comfort, attività scolastiche, attività ludicoespressive) ristorazione (gradimento dei pasti) trauma psicologico del bambino (esiti negativi sul piano psicologico e sul comportamento psicosociale). Si costruiscono inoltre degli indicatori, sia per avere una misura oggettiva della realtà, che per utilizzarli come confronto per valutare il miglioramento ottenuto. A Latina è stata scelto come principale indicatore la misura della soddisfazione del cliente, espressa dalla percentuale di famiglie di bambini dimessi che avevano manifestato un giudizio positivo attraverso interviste telefoniche. D come fare o fase dell’ attivazione concreta del cambiamento In questa fase vengono realizzate le azioni correttive programmate. L’evoluzione del processo e le novità da esso derivanti, sono valutate dagli operatori del reparto nel corso di riunioni periodiche, mentre continuano a svolgersi incontri tra il personale ed i genitori dei bambini presenti in reparto (in genere la degenza media è breve nei reparti destinati al ricovero ordinario per acuti) per illustrare il progetto, ed accogliere le loro richieste e suggerimenti. C come controllare o fase della verifica dell’esito delle azioni E’ la fase dalla verifica del conseguimento degli obiettivi di miglioramento dei risultati, e del confronto dei risultati ottenuti con quelli attesi. La verifica è fondata su elementi sia soggettivi che oggettivi; particolare importanza ha l’analisi degli indicatori della soddisfazione del cliente (genitori e bambino), per valutare le differenze fra i giudizi espressi dalle famiglie prima dell'inizio del progetto, e quelli raccolti dopo la sua attuazione o anche nel suo corso. Se l’azione non è risultata efficace, si rivaluteranno le cause, le soluzioni proposte, le ulteriori modifiche da introdurre. A come agire o della Spirale continua del miglioramento E’ essenziale che il processo non si arresti dopo la verifica dei cambiamenti positivi ottenuti, ma si consolidi e continui ad evolversi. Nel corso di riunioni periodiche fra il personale del reparto, i genitori dei bambini degenti e le associazioni volontariato, si procede ad un monitoraggio continuo del miglioramento mediante questionari per i genitori dei bambini dimessi, per conoscere il loro parere sulla qualità dell’assistenza erogata e raccogliere ulteriori suggerimenti; alla standardizzazione ed al potenziamento degli interventi efficaci già effettuati: anche quando le modifiche del processo assistenziale vengono considerate soddisfacenti, nella logica del miglioramento continuo si riconfermano gli obiettivi, con livelli più elevati di soddisfazione da raggiungere. Progetto “Rispettiamo i diritti del bambino: trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!” Programma di formazione per la promozione dell'umanizzazione del ricovero nei reparti pediatrici PREMI I PREMIO “STEFANO GOLISANO” 289 dell’A.O Santobono-Pausilipon L’Azienda Ospedaliera "Santobono-Pausilipon" di Napoli, DEA di 2° livello, è il più importante Ospedale Pediatrico del Mezzogiorno, ed ogni anno accoglie nel suo Pronto Soccorso circa 100.000 bambini, e ricovera circa 30.000 pazienti nei 2 Presidi, Santobono e Pausilipon, per problemi sia medici che chirurgici Grazie alla efficace organizzazione di comprovata esperienza ed alla presenza di elevate competenze professionali, è in grado di rispondere al bisogno di salute della popolazione infantile regionale ed extraregionale, sia nell’emergenza/urgenza che nell’elezione. La Direzione Sanitaria dell’ A.O. Santobono-Pausilipon di Napoli, in collaborazione con la SIMEUP - Società Italiana di Medicina dell’Emergenza Pediatrica - Sez. Campania, con il Gruppo di Studio della Pediatria Ospedaliera - Sez. Campania, e con il Network degli “Ospedali di Andrea” - AGe. Associazione Genitori Italiani, nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 14 del D.Lgs 502/92 e s.m., ha dato vita ad un progetto di formazione degli operatori sanitari dedicato all'umanizzazione del ricovero nei reparti dell’Azienda, fondato sul Progetto Andrea (adottato dal Network “Gli Ospedali di Andrea”, di cui fanno parte 46 ospedali di 14 regioni del nostro paese), che ha l’obiettivo di assicurare un adeguato livello di umanizzazione, eliminando o riducendo il trauma dell'ospedalizzazione nel bambino e nei suoi genitori durante il ricovero. Il Progetto Andrea, che si potrebbe definire come una “formalizzazione del buon senso”, ha la caratteristica di essere fondato su di una autonoma e democratica presa di coscienza del personale del reparto (medici, infermieri, ausiliari), che vuole innalzare la qualità dell' assistenza erogata, coinvolgendo in un percorso comune i bambini ed i loro genitori, il volontariato e, dove presente, il mondo della scuola. Il progetto risponde a quanto previsto dal P.O.M.I. 1998-2000, dal P.S.N. 2001-2003, che aveva posto fra gli obiettivi “la riduzione del disagio del Bambino in ospedale” attraverso “l’umanizzazione della assistenza ospedaliera compresa l’attività ludica e la possibilità di ospitare un genitore in area pediatrica”, ed in particolare, con la Carta Europea dei bambini degenti in ospedale, fatta propria dalla Regione Campania con la L.R. n. 24 del 19 dicembre 2006 “Piano Regionale Ospedaliero per il triennio 2007 - 2009”, il bambino in ospedale ha il diritto di avere accanto a sé in ogni momento i genitori gli stessi genitori devono essere informati sull' organizzazione del reparto e incoraggiati a parteciparvi attivamente il bambino e i genitori hanno il diritto di essere informati in modo adeguato all' età e alla loro capacità di comprensione e bisogna fare quanto possibile per mitigare il loro stress fisico ed emotivo il bambino deve essere assistito da personale con preparazione adeguata a rispondere alle necessità fisiche, emotive e psichiche del bambino e della sua famiglia. Attraverso il progetto “Rispettiamo i diritti del bambino: trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!”, la Direzione Sanitaria dell’ AO Santobono - Pausilipon mira ad ottenere un cambiamento significativo delle abitudini che genererà soddisfazione non solo nei bambini e nei loro genitori, ma anche negli stessi attori (personale medico, infermieristico ed ausiliario, associazioni di volontariato e mondo della scuola) a cui viene affidata la responsabilità di comprendere e contenere i vissuti emotivi del bambino e della sua famiglia nel corso della esperienza del ricovero Articolazione del progetto 1. Accettazione da parte dell’ Azienda del programma di formazione e formalizzazione della Task Force della Direzione Sanitaria responsabile del Progetto 2. Valutazione delle schede sul grado di soddisfazione dell’utente, raccolte dalla Direzione Sanitaria grazie anche alla collaborazione delle Assistenti Sociali e dei volontari dell’ AVO (allegato 1) 3. Attuazione di 4 Corsi di Formazione, ognuno per 30 medici e per 70 infermieri dell’ Azienda, (aperti al Volontariato ed al Mondo della Scuola) sulla Carta dei diritti dei bambini in ospedale, sulla umanizzazione, sullo stress dell'ospedalizzazione, sulla comunicazione in Pediatria, sul Progetto Andrea e sul Progetto “Trasformiamo l’Ospedale in una casa ospitale!” che l’ AO Santobono-Pausilipon intende realizzare. Ogni PREMI 290 I PREMIO “STEFANO GOLISANO” Corso ha una durata di 8 ore in due giorni (4 ore di lezioni e 4 ore di lavoro di gruppo e discussione). 4. Attivazione di Gruppi di Lavoro di Reparto, con il supporto di esperti. a. Insieme ai genitori dei bambini ricoverati, ai Rappresentanti dell’A.Ge, dell’AVO o di altre Associazioni di Volontariato già attive nell’Azienda, alle Insegnanti della Scuola in Ospedale, il personale del reparto. Guidato dai medici e dalle infermiere che hanno effettuato il Corso di Formazione, analizzerà lo stato del reparto, la sua strutturazione, i percorsi assistenziali, i giudizi sul livello di umanizzazione espressi dalle famiglie di bambini dimessi. b. Definiti i punti critici e gli obiettivi da raggiungere, il Gruppo elaborerà un piano per realizzare le soluzioni previste, che comprenderà gli obiettivi specifici, le scelte operative, i tempi di attuazione. Si costruiranno degli indicatori, per avere una misura oggettiva della realtà ed utilizzarli come confronto per valutare il miglioramento ottenuto. c. Il Gruppo elaborerà guide all'uso dei servizi delle U.O. a beneficio delle famiglie dei piccoli ricoverati schede per rilevazione della soddisfazione, sia dei clienti (genitori, ragazzi ed adolescenti), che degli Operatori del reparto: le schede per i Genitori verranno distribuite al termine della degenza e successivamente raccolte dall’ URP, dalle Assistenti Sociali e dal Volontariato, mentre quelle per gli Operatori del Reparto verranno raccolte periodicamente dalla Task Force della Direzione Sanitaria d. Nel corso del progetto (durata 12 mesi) i Gruppi di Lavoro effettueranno nei loro Reparti: I. una verifica critica periodica del suo andamento, attraverso confronti e l’analisi collegiale dei dati che emergono dalle schede della soddisfazione dell’utente redatte dopo l’inizio del “cambiamento”, coinvolgendo nella discussione i Genitori dei bambini presenti in reparto, il Volontariato ed il Mondo della Scuola II. l’individuazione dei nuovi obiettivi da raggiungere, del tempo necessario per la loro realizzazione e degli strumenti necessari per monitorizzarne l’evoluzione 5. La Task Force della Direzione Sanitaria a. seguirà il lavoro dei reparti, valuterà periodicamente i dati raccolti e illustrandoli ai Gruppi interessati, fornirà gli ulteriori supporti man mano che si rendono necessari b. organizzerà a fine percorso una riunione per presentare e discutere i risultati ottenuti, premiando i reparti che hanno realizzato i maggiori progressi COMUNICAZIONI E POSTER ADOLESCENTOLOGIA Assegnazione del Premio "Clemente Pascarella" ad Alfonso d'Apuzzo COMUNICAZIONI E POSTER ADOLESCENTOLOGIA 293 ASSISTENZA MINORILE NELLA ZONA ORIENTALE DÌ NAPOLI: REALTÀ DELL’UNITÀ DÌ NEONATOLOGIA DEL P.O. “LORETO MARE” M. R. Cernera, V. Nappo Unita’ Operativa di Neonatologia - P.O. Loreto Mare - ASL Napoli 1 La realtà della zona orientale della città di Napoli presenta: - basso reddito familiare; - bassa scolarizzazione/occupazione; - alto indice di gravidanze in adolescenti (e bambine); - incidenza di LBW superiore alla media nazionale e regionale; - alta incidenza di genitori fumatori; - alta incidenza di madri che abusano di sostanze illecite e di alcol; - abitazioni con basso indice di vivibilità (persone/vani); - madri di età superiore a 25 anni inferiore alla media regionale; - tagli cesarei più del doppio della media nazionale; - alta incidenza e bassa durata dell’allattamento esclusivo al seno; - alta incidenza di scarse cure prenatali; - alta incidenza di familiarità per allergopatie; - alta incidenza di madri HCV- positive. Materiali e metodi In particolare, la realtà dell’utenza del P.O. “Loreto Mare” (essenzialmente composta da cittadini residenti nella zona orientale di Napoli) è la seguente: Anno 2007: Numero di nati: 1070 1- Istruzione (in percentuale) Licenza elementare 31, 6 % Licenza media: 52, 7% Diploma: 13, 5% Laurea 2% Va segnalato che l’1, 5 per mille è analfabeta. 2- Attività dei genitori (riferito all’attività lavorativa del padre o della madre): Disoccupati: 15% Senza fisso lavoro: 34% Operai: 35% Impiegati: 9% Commercianti: 4% Professionisti: 3% Va segnalato che la quasi totalità delle famiglie sono unireddito e quasi sempre le donne sono casalinghe. 3- Il 5% dei genitori ha problemi con la giustizia (detenuti) 4- Fumatori (almeno uno dei genitori): 70% 5- Abuso di sostanze illecite (almeno uno dei genitori): 5% (nr. 2 casi di sindrome di astinenza neonatale) 6- Modalità del parto: Taglio cesareo: 50% Applicazione di ventosa: 0, 99 % COMUNICAZIONI E POSTER 294 ADOLESCENTOLOGIA 7- Tasso di mortalità neonatale precoce: 0, 33% 8- Peso alla nascita (in grammi): < 1000: 0% 1001/2000: 1, 6% 2001/2005: 5, 3% 2501/3999: 92.8% > 4000 3% 9- Pretermine: 4, 6% 10- Parti gemellari: 1, 58% 11- Asfissia alla nascita: Lieve/Media: 4, 7% Grave: 1% 12- Età media materna: 26 +/- 8 13- Età materna inferiore ai18 anni: 2, 7% (di cui 2 casi di età inferiore ai 13 anni e 1 di 14 anni) 14- Età materna superiore a 35 anni: 7, 54% 15- Madre nubile: 1% Va segnalato inoltre che, su un totale di 604 IVG, 15 erano adolescenti. Le condizioni socio-sanitarie dell’utenza sono state valutate in base a indicatori di salute analoghi a quelli presi in considerazione nel Progetto “Healty People 2010” (Tabella 1) Povertà dei bambini Sicurezza degli alimenti Problemi domestici Impiego (lavoro) dei genitori Assicurazione Cure prenatali Mortalità infantile Basso peso alla nascita Uso di tabacco Uso di alcol Abuso di sostanze illecite Vittime del crimine Difficoltà del linguaggio Letture familiari Educazione nella fase precoce dell’infanzia Completamento degli studi Abuso nell’infanzia Fonte “The Federal Interagency Forum on Child a Family Statistic, 1997” COMUNICAZIONI E POSTER ADOLESCENTOLOGIA Conclusioni 295 La realtà dell’utenza del P.O. Loreto Mare testimonia l’esistenza di scarsa equità sociale in termini di qualità della vita e diritto alla salute. Miseria, disoccupazione, degrado igienico-ambientale, criminalità, standard assistenziali insufficienti sono alla base della qualità e dell’aspettativa di vita, quindi della salute dei bambini. La tutela della salute fisica e psichica dell’infanzia, posta come obiettivo principale, può essere realizzata solo mediante una conoscenza dei problemi legati alle particolari realtà; in questo assume particolare importanza la funzione del punto nascita e del consultorio come centro di referaggio, valutazione, informazione e rimozione di varie situazioni di rischio. In particolare, nella nostra realtà assume notevole importanza: la stretta collaborazione tra il team deontologico e quello ginecologico per il riconoscimento delle gravidanze trascurate, la diagnosi prenatale e la gestione successiva dei difetti congeniti, la prevenzione della nascita pretermine e la gestione di sue eventuali complicanze, la presa in carico dei nati da gravidanze complicate da gestosi, diabete, IUGR, etc. Il nostro Centro aderisce al “Sostegno alla genitorialità a rischio”, che prevede la raccolta di dati volto all’individuazione di fattori di rischio sociale che espongono il bambino a problemi di salute anche successivi (malnutrizione, infezioni, disturbi del comportamento, abuso). I dati raccolti vengono trasferiti al Distretto ASL di competenza, che attiva i Servizi Sociali. Questo servizio parte dalla trasmissione di notizie dal ginecologo al neonatologo, al fine di limitare al massimo l’imprevisto e si attua attraverso l’attivazione di personale esperto (team neonatologico), rispettando le linee guida della rianimazione neonatale grazie alla disponibilità di presidi e attrezzature attualmente raccomandati. Promozione dell’allattamento esclusivo al seno. Supporto psicologico alle madri, specie a quelle che presentano depressione post partum. Trasmissione di notizie riguardanti la nascita e collaborazione attiva con il pediatra di base che prende in carico il bambino. COMUNICAZIONI E POSTER 296 ADOLESCENTOLOGIA MALATTIA DI OSGOOD-SCHLATTER: COS’E’ QUESTO “MORBO” CHE AFFLIGGE UNA GRANDE PERCENTUALE DI ATLETI ADOLESCENTI? S. Esposito Pediatria di Base, ASL Napoli 1, Distretto 45 Introduzione La malattia di Osgood-Schlatter o osteocondrosi dell’apofisi tibiale anteriore, è un processo flogisticodegenerativo a carico della tuberosità tibiale. Il meccanismo con cui questa malattia si genera è legato alla situazione della zona anatomica colpita: infatti, la tuberosità (o apofisi) tibiale anteriore ossifica in ritardo rispetto alle altre parti della tibia e, pertanto, rimane più morbida. Durante il movimento di estensione del ginocchio, in risposta alle sollecitazioni provocate dalla trazione esercitata dal tendine rotuleo che vi si inserisce, l’apofisi tibiale non ossificata si può facilmente infiammare. Di solito questa patologia interessa i ragazzi di età compresa tra 10 e 16 anni che praticano sport. Scopo di questo lavoro è presentare un caso di malattia di Osgood-Schlatter mettendo in evidenza segni, sintomi, iter diagnostico ed intervento terapeutico in merito. Caso clinico C. è un’adolescente di 14 anni che abitualmente pratica sport a livello non agonistico. Viene alla nostra osservazione lamentando dolore nei movimenti di estensione del ginocchio destro che, all’esame obiettivo, appare modicamente tumefatto e dolente alla palpazione. Pratica pertanto una radiografia del ginocchio che non evidenzia calcificazioni delle giunzioni osteotendinee in corrispondenza dell’inserzione del tendine del muscolo quadricipite femorale sul margine antero-superire della rotula e mostra regolare morfologia e struttura delle componenti ossee del ginocchio con normale ampiezza della rima articolare femoro-tibiale. La risonanza magnetica, eseguita successivamente, mette in evidenza un’ipertrofia dell’apofisi tibiale anteriore, compatibile con esiti di osteocondrosi. Gli esami praticati confermano pertanto la presenza di esiti ossei, ormai abbastanza stabilizzati, di malattia di Osgood-Schlatter. Alla paziente viene pertanto prescritto riposo assoluto dall’attività sportiva, compresa l’attività di educazione fisica scolastica, per almeno due mesi e l’applicazione di ghiaccio ed eventualmente una pomata ad azione antinfiammatoria localmente. Discussione Durante l’attività sportiva, in cui si verifica una ripetuta estensione del ginocchio, si determinano, nel punto di inserzione del tendine del muscolo quadricipite femorale (chiamato rotuleo) sull’apofisi tibiale, delle microfratture cartilaginee con successivi fenomeni infiammatori locali che provocano dolore, soprattutto dopo lo sforzo, e tumefazione. Quando l’apofisi tibiale si ossifica completamente, l’inserzione del potente tendine rotuleo non avviene più su una debole struttura cartilaginea ma su una zona ossea e così il dolore si esaurisce. Ecco perché la malattia regredisce intorno al diciottesimo anno d’età. Conclusioni La diagnosi di malattia di Osgood-Schlatter è fondamentalmente clinica per la presenza di dolore e tumefazione nella sede dell’apofisi tibiale. E’ utile un esame radiografico, ed eventualmente una risonanza magnetica, per confermare la diagnosi. La terapia prevede l’applicazione di ghiaccio (crioterapia), pomate o cerotti antinfiammatori localmente e, solo occasionalmente, l’assunzione di antidolorifici per os. Nelle fasi di acuzie è utile il riposo funzionale dell’articolazione interessata. Nel complesso l’evoluzione della malattia è quasi sempre benigna, con guarigione spontanea e completa alla fine dell’accrescimento osseo. BRONCOPNEUMOLOGIA Momenti congressuali COMUNICAZIONI E POSTER 298 BRONCOPNEUMOLOGIA Accuratezza della pulsossimetria nella diagnosi di Apnee Ostruttive durante il Sonno in età evolutiva (OSAS) E. Verrillo1, M. Pavone1, M.G. Paglietti1, V. Di Ciommo2, M. Cuttini2, A. Petrone1, R. Cutrera1 1 2 UOC Broncopneumologia UOC Epidemiologia Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma Riassunto La sindrome delle apnee ostruttive durante il sonno (OSAS, Obstructive Sleep Apnea Syndrome) nei bambini è definita dall’ American Thoracic Society come “disturbo della respirazione durante il sonno, caratterizzato da ostruzioni delle alte vie respiratorie prolungate e parziali e/o complete ed intermittenti (apnea ostruttiva), che altera la normale ventilazione ed il normale pattern di sonno”. OSAS è una patologia molto comune che colpisce il 2.2 - 13% dei bambini. Abbiamo studiato 167 bambini ed adolescenti col sospetto di OSAS per definire l’accuratezza diagnostica della pulsossimetria notturna. Tutti i soggetti sono stati sottoposti a pulsossimetria e polisonnografia cardiorespiratoria che è considerata il gold standard per la diagnosi; i soggetti con un indice di apnea/ipopnea ostruttive e miste (MOAHI Mixed Obstructive Apnea Hypopnea Index) ≥ 1 per ora di sonno sono stati considerati patologici. Abbiamo utilizzato due metodi differenti per valutare la pulsossimetria: il primo secondo i criteri di Bruillette, consiste nel classificare gli esami in positivi (quando il grafico mostra 3 o più clustres di desaturazione <90%), negativi e inconclusivi; il secondo criterio è ottenuto dall’ODI (number of desaturations per hour of sleep) ≥ 3. Quando il criterio di positività per la pulsossimetria è stato definito dall’ ODI ≥ 3, la sensibilità era del 74% (95% CL 64.5 - 82.1) e la specificità del 55.6% (95% CL 42.5 - 68.1). La valutazione del clinico della saturazione di ossigeno mostrava il 28.8% di pazienti positivi (tutti patologici, nessun falso positivo) ed il 46.1% negativi (38 patologici); nel 35.9% dei pazienti i risultati erano incoclusivi (36 patologici). Se questi pazienti erano considerati test-negativi, la sensibilità era del 28.8% (95% CL 20.4 - 38.6) e la specificità del 100%. Come atteso dal test parallelo otteniamo una alta sensibilità (74%) ed una bassa specificità (52.4%) con la sola interpretazione dell’esame da parte del clinico, non molto di più che utilizzando il criterio dell’ODI. Prendendo in considerazione solo i pazienti classificati come negativi dall’interpretazione del clinico, la discriminazione con l’ODI tra patologici e non-patologici non è soddisfacente (sensibilità 63.5%, specificità 55.5%, LR + 2.2). In conclusione l’interpretazione della pulsossimetria da parte di un clinico di laboratorio del sonno può essere un utile test di screening nei bambini con sospetto di OSAS; i soggetti con una pulsossimetria positiva (28.8% di tutti i bambini patologici) può essere esclusa da ulteriori accertamenti attraverso la polisonnografia. COMUNICAZIONI E POSTER BRONCOPNEUMOLOGIA 299 L’ossigenoterapia nell’insufficienza respiratoria acuta. A. Ciao, B. Borrelli, C. Ciao, V. Tipo, E.M. Laurito AORN Santobono Napoli L’insufficienza respiratoria acuta è caratterizzata da : a) Tachipnea, tachicardia e diaforesi; b) Scarso o ridotto movimento della parete toracica durante le escursioni respiratorie; c) Alitamento delle pinne nasali; d) Retrazioni sovraclaveari e sottocostali nella fase inspiratoria; e) Retrazioni intercostali; f ) Obnubilamento dello stato di coscienza e/o agitazione; g) Parametri pulsossimetrici bassi. L’ipossia rappresenta il problema principale nel distress respiratorio acuto che trova nell’ossigenoterapia il suo principale presidio terapeutico. Possiamo suddividere i dispositivi per l’ossigenazione in sistemi ad alto e basso flusso.Tra i primi, la maschera non rebreather che rilascia ossigeno ad alta concentrazione (O2>95% ad un flusso di 10-12 l/m); per i bambini più piccoli il tubo di ossigeno viene collegato ad un giocattolo da tenere in mano vicino al viso e se il paziente è ancora agitato risulta opportuno fornire ossigeno con il sistema”blow-by”.I sistemi a basso flusso comprendono, in primo luogo, la semplice maschera per ossigeno, di plastica, in grado di erogare O2 al 35-40% ad un flusso di 6-10 l/m. Vanno menzio-nati, inoltre, la maschera non rebreather parziale (Venturi) con capacità di ossigenazione del 50-60% a 10-12 l/min, la tenda facciale a forma di secchiello, aperta in cima, che proprio per tale conformazione fornisce solo il 40% di O2 a 10-15 l/m o ancora il casco per ossigeno(conchiglia di plastica che avvolge il capo del bambino)in grado di rilasciare l’80-90% di ossigeno ad una portata di 10-15 l/ m. Per il paziente in pre-arresto respiratorio (tachipnea >60 a.r. m/ bradipnea, cianosi periferica o centrale, stato di coscienza alterato, ipotonia muscolare, bradicardia, perfusione periferica ridotta) o ancor più in arresto respiratorio si procede alla ventilazione assistita con pallone-valvola-maschera BMV o Ambu, di cui sonodisponibili tre versioni ovvero neonatale (450ml), pediatrico (750ml) e adulto (1000ml), utilizzando la tecnica ad una mano o a due mani da preferirsi. Si può fare ricorso anche al pallone flusso dipendente che si gonfia solo quando vi fluisce O2 erogato a pressione; quest’ultimo a fronte di alcune criticità quali una necessaria perfetta aderenza della maschera e la disponibilità di una fonte costante di gas per rimanere gonfio oltre alla mancanza di una valvola di sicurezza di pop-off presenta alcuni indubbi vantaggi come la valutazione della rigidità dei polmoni comprimendo il pallone e l’erogazione di O2 libero al 100%. COMUNICAZIONI E POSTER 300 BRONCOPNEUMOLOGIA LA VENTILAZIONE NON INVASIVA COME NUOVO APPROCCIO TERAPEUTICO PER LA BRONCHIOLITE C.S. Barbàra, R. Grossi, P. Papoff, S. Fioravanti, F. Midulla, C. Moretti Dipartimento di Pediatria d’Urgenza e Terapia Intensiva Pediatrica (TIP) - Policlinico Umberto I - Sapienza Università di Roma Obiettivi Negli ultimi anni abbiamo dimostrato che la ventilazione nasale, flusso sincronizzata, a pressione positiva intermittente (NFSIPPV), può essere un valido ausilio nell’assistenza respiratoria nei neonati pretermine, in particolare nel periodo postestubazione. Ad oggi, tuttavia, non è chiaro se la NFSIPPV possa essere utilizzata anche nell’assistenza dei bambini più maturi, quali i lattanti affetti da bronchiolite moderatagrave. Materiali e metodi Durante la stagione epidemica degli anni 2005-06 e 2006-07 tutti i lattanti nati a termine o lievemente pretermine, di età inferiore ai 2 mesi, ricoverati in TIP con diagnosi di bronchiolite da moderata a grave e con un fabbisogno di ossigeno (FiO2) ≥ 0.35 sono stati trattati con NFSIPPV se presentavano segni di distress respiratorio. La NFSIPPV è stata praticata con i seguenti parametri: Ti 0.3- 0.4 s, PEEP 3-8 cmH2O, PIP 15-25 cmH2O, back-up rate 25 bpm e FiO2 adatta a mantenere una saturazione di ossigeno (SaO2) tra 96% e 98%. Risultati In tutto sono stati trattati 21 bambini. Cinque di questi (24%) hanno richiesto intubazione endotracheale e ventilazione meccanica per il presentarsi di frequenti crisi di apnea che non rispondevano alla ventilazione manuale. I pazienti del gruppo che ha richiesto ventilazione meccanica erano significativamente più piccoli di età (media 34 giorni, range 10-61) rispetto a quelli trattati con la sola NFSIPPV (50 giorni, 13-147), inoltre i parametri rilevati al ricovero erano significativamente peggiori: score clinico 8.9 punti (SD 0.6) vs. 7.6 (SD 1.2) punti, PCO2 69 (SD 20) mmHg vs. 58 (SD 11) mmHg, pH 7.21 (SD 0.20) vs. 7.30 (SD 0.1), and FiO2 0.65 (20) vs. 0.46 (0.13)). In entrambi i gruppi i parametri analizzati sono migliorati significativamente già dopo le prime 3 ore di trattamento. Nessuno dei pazienti ha presentato effetti collaterali riferibili alla ventilazione nasale. In tutti i pazienti con bronchiolite sono stati ricercati i virus respiratori sugli aspirati naso-tracheali. Il virus respiratorio sinciziale (RSV) è stato trovato in 7 pazienti (44%) nel gruppo trattato con ventilazione non invasiva e in tutti i pazienti (100%) nel gruppo trattato con ventilazione meccanica. Conclusioni La ventilazione non invasiva, utilizzata nella modalità NFSIPPV, sembra essere un valido ausilio anche nei lattanti affetti da bronchiolite moderata- grave. Sulla base della nostra esperienza questa tecnica appare efficace e sicura e potrebbe essere utile per ridurre i casi di pazienti con bronchiolite trattati con ventilazione meccanica. COMUNICAZIONI E POSTER BRONCOPNEUMOLOGIA 301 PERCORSO DIAGNOSTICO - TERAPEUTICO NEL BAMBINO PICCOLO CON OSTRUZIONE DELLE BASSE VIE AEREE (1) V. Stifano, I. Pierucci, G.Mion, N.Napolitano UOC di Pediatria-P.O.Sapri-Asl-SA-3 Introduzione I ricoveri per bronchiolite in un anno sono rappresentati da circa l’1% dei piccoli con età minore di 24 mesi (2). Prenderemo in considerazione, comunque, l’ostruzione acuta delle basse vie respiratorie in modo da evitare problemi classificativi. Le caratteristiche sono : 1) rinorrea presente alla visita e/o nelle 48 ore prima ; 2) rantoli crepitanti diffusi e/o wheezing ; 3) rientramenti e/o tachipnea; 4) score clinico > 2. Diagnosi I - Accesso Effettuare il triage, valutando frequenza respiratoria, frequenza cardiaca, saturazione di O2 e temperatura corporea. Durante tale fase è bene intervenire sul bambino con una disostruzione nasale con soluzione fisiologica che va fatta prima dei suddetti rilievi, prima dell’alimentazione e prima della terapia inalatoria. Infatti, si è visto che nel 60% dei casi c’è stato un miglioramento del respiro dopo tale tecnica che ha comportato una riduzione dell’impiego dei broncodilatatori e dell’ossigeno, favorendo l’alimentazione in modo sicuro ed economico (3, 4). II - Valutazione iniziale Esame fisico generale, stato di idratazione e score clinico. Quest’ultimo anche se non validato (basato su quello usato al Cincinnati Children’s Hospital Medical Center) è attuabile nel nostro caso (5, 6). Ci si basa sui seguenti parametri : frequenza respiratoria, uso dei muscoli accessori, scambio di aria, presenza di wheezing e rapporto inspirazione/espirazione (vedi Tabella 1). Possiamo avere due condizioni : broncostruzione lieve e broncostruzione moderata-grave che comportano due terapie farmacologiche differenti. Il punteggio va da 2 a 9 con valore limite per distinguere la gravità della broncostruzione che è di 4. La riduzione di almeno 2 punti dello score clinico permetterà di stabilire se vi è stato o meno un miglioramento dopo terapia con farmaci (valori inferiori non sono attendibili per l’azione farmacologica) e solo con questi (non O2 terapia e/o terapia idratante, etc.). III - Procedure Gli esami del sangue non sono indicati di routine (7), ma in presenza di disidratazione e/o grave difficoltà ad alimentarsi, di febbre > 38, 5 da 48 ore, di sospetta sepsi o di opacità lobare o segmentale. Una radiografia del torace si esegue nel sospetto di co-morbidità o diversa diagnosi oppure con score clinico > 4 dopo almeno 24 ore dall’accesso. IV - Ossigenoterapia Con una SpO2 superiore al 90% si garantisce una adeguata ossigenazione del sangue arterioso e dare ancora O2 incrementa di poco l’SpO2 (8). D’altronde, per una SpO2 < 91% piccole riduzioni di PaO2 producono importanti diminuzioni della SpO2 (9, 10). Perciò, abbiamo deciso di introdurre l’ossigenoterapia per valori di SpO2 < 91%. Se, invece, la SpO2 è tra 91% e 93% l’O2 viene somministrato se lo score è > 4 con difficoltà all’alimentazione orale. Si sospende l’O2 terapia se la SpO2 rilevata in due misurazioni successive è > 94% oppure se la SpO2 è tra 91% e 93% con score > 4 e bambino che si alimenta bene (11). V - Monitoraggio SpO2 La pulsossimetria, preceduta dalla disostruzione nasale, è indicata all’entrata. Incide solo sulla supplementazione di O2 e va effettuata durante il ricovero ospedaliero ad intervalli di 4 ore. VI - Ricovero Si ricovera nelle forme più gravi di bronchiolite/broncostruzione acuta o rischio di evoluzione peggiorativa, mentre per il ricovero in terapia intensiva ci deve essere un grave di stress respiratorio in terapia con ossigeno e presenza di apnee ricorrenti (12, 13). COMUNICAZIONI E POSTER 302 BRONCOPNEUMOLOGIA Terapia I - Terapia idratante Somministrare endovena i liquidi se c’è disidratazione, alimentazione orale impedita e grave di stress respiratorio. Si valuteranno i liquidi da infondere in base al fabbisogno giornaliero, evitando la iperidratazione per rischio di insorgenza di congestione polmonare. II - Terapia farmacologica 1. Beta2-agonisti. Mentre non sono indicati nella bronchiolite, i beta2-agonisti trovano indicazione soprattutto in fase iniziale nei bambini più grandi con bronchite asmatiforme, tipo come il trattamento dell’asma acuto. Tale farmaco si mantiene solo se c’è una diminuzione di almeno 2 punti dello score clinico. 2. Steroidi Le sostanze steroidee sono indicate per le forme di broncostruzione con score >4, secondo quanto indicato dalle Linee Guida sull’asma per le forme moderate-gravi (14). 3. Adrenalina L’adrenalina si utilizza solo in casi gravi e non responsivi, ovvero se il bambino presenta affaticamento muscolare e desaturazione in corso di O2terapia dopo aver somministrato steroidi e salbutamolo. 4. Antibiotici L’antibiotico è necessario se vi è sepsi, febbre > 38, 5°C e leucocitosi oppure in caso di opacità lobare o segmentale all’Rx torace. III - Terapia aerosolica Si è evidenziata una riduzione nei tempi di ospedalizzazione ed un miglioramento dello score clinico in bambini di età < 5 anni con wheezing, curati con aerosol con distanziatore rispetto al nebulizzatore, quest’ultimo da preferire nell’età < 2 mesi (15). Si può dimettere il piccolo quando c’è: miglioramento consistente del quadro clinico ; saturazione nella norma ; possibilità di ricontattare il curante ; affidabilità dei genitori che dovranno essere adeguatamente istruiti sulla terapia ed in particolare sulle tecniche di disostruzione nasale. Tabella 1: Score clinico Parametri considerati : frequenza respiratoria, impiego dei muscoli accessori, ingresso d’aria, fischi, rapporto tempo di inspirazione/espirazione.Per ogni parametro attribuito un punteggio che va da 0 a 2. Per il rapporto tempo di inspirazione/espirazione il punteggio va da 0 a 1. Frequenza respiratoria : valutata in base ai valori di riferimento della frequenza respiratoria per età in veglia tranquilla e sonno.Frequenza respiratoria misurata per 1 minuto e non estrapolata in base ad intervalli inferiori. Punteggio minimo-massimo : punteggio minimo 2 (i casi con < 2 non entrano nel percorso in quanto non prevedono un’osservazione prolungata), punteggio massimo 9. Cut-off: 4 Punteggi < 4 eseguono terapia iniziale solo con broncodilatatori. Punteggi > 4 effettuano terapia iniziale con broncodilatatori e steroidi. Miglioramento minimo previsto per valutare la terapia efficace : 2 punti. Bibliografia 1. Ballotti S., De Luca M., Trapani C., Lombardi E., Menicocci C., Poggi G., Fontanazza S., Zuffo S., Rusconi F.. Azienda Ospedaliera -Universitaria “A. Meyer”, Firenze. // Dalle Linee Guida al percorso diagnostico e terapeutico nel bambino piccolo con ostruzione delle basse vie aeree. // Pneumologia Pediatrica 2007 ; 26 : 38-49. 2. Kini NM, Robbins JM, Kirschbaum MS, et al. - Inpatient care for uncomplicated bronchiolitis : comparison with COMUNICAZIONI E POSTER BRONCOPNEUMOLOGIA 303 Milliman and Robertson guidelines. - Arch Pediatr Adolesc Med 2001 ; 155 : 1323 - 1331. 3. Sarrell EM, Tal G, Witzling M, et al. - Nebulized 3% hypertonic saline solution treatment in ambulatory children with viral bronchiolitis decreases symptoms. - Chest 2002 ; 122 : 2015 - 2020. 4. Mandelberg A, Tal G, Witzling M, et al. - Nebulized 3% hypertonic saline solution treatment in hospitalised infants with viral bronchiolitis. - Chest 2003 ; 123 : 481 - 487. 5. Conway E, Schoettker PJ, Rich K, et al. - Empowering respiratory therapists to take a more active role in delivering quality care for infants with bronchiolitis. - Respir Care 2004 ; 49 : 589 - 599. 6. Lierl MB, Pettinichi S, Sebastian KD, et al. - Trial of a therapist-directed protocol for weaning bronchodilator therapy in children with status asthmaticus. - Respir Care 1999 ; 44 : 497 - 505. 7. Levine DA, Platt SL, Dayan PS, et al. - Risk of serious bacterial infection in young febrile infants with respiratory syncytial virus infections. - Pediatrics 2004 ; 113 : 1728 - 1734. 8. Hunt CE, Corwin MJ, Lister G, et al. - Longitudinal assessment of hemoglobin oxygen saturation in healthy infants during the first 6 months of age. Collaborative Home Infant Monitoring Evaluation (CHIME) Study Group. - J Pediatr 1999 ; 135 : 580-586. 9. Young S, O’Keeffe PT, Arnott J, Landau LI - Lung function, airway responsiveness and respiratory symptoms before and after bronchiolitis. - Arch Dis Child 1995 ; 72 : 16-24. 10. Mallory DM, Shay DK Garrett J, Bordley C. - Bronchiolitis management preferences and the influence of pulse oximetry and respiratory rate on the decision to admit. - Pediatrics 2003 ; 111 : 45-51. 11. Cheney J, Barber S, Altamirano L, et al. - A clinical pathway for bronchiolitis is effective in reducing readmission rates. - Pediatrics 2005 ; 147 : 622 - 626. 12. Fitzgerald DA, Kilham HA. - Bronchiolitis : assessment and evidence-based management. - MJA 2004 ; 180: 399 - 404. 13. National Istitutes of Health Consensus Development Panel of Infantile Apnea and Home Monitoring. Pediatrics 1987 ; 79 : 292 - 299. 14. GINA Science Committee. - Global Strategy for Asthma Management and Prevention 2006. - NIH Publication. www.ginasthma.org 15. Castro-Rodriguez JA, Rodrigo GJ. - Beta-agonists through metered-dose inhaler with valved holding chamber versus nebulizer for acute exacerbation of wheezing or asthma in children under 5 years of age: a systematic review with meta-analysis. - J Pediatr 2004 ; 145 : 172 - 177. COMUNICAZIONI E POSTER 304 BRONCOPNEUMOLOGIA Polmoniti batteriche del bambino : risultati di un’indagine policentrica condotta negli ospedali napoletani E.M. Laurito, C. Ciao, B. Borrelli, A.Ciao AORN Santobono Napoli Nel semestre novembre 07-marzo 08 è stata avviata c/o le U.C. di Pediatria degli ospedali napoletani un’indagine policentrica sulle Polmoniti batteriche finalizzata alla valutazione della condotta terapeutica più idonea da adottare in merito all’antibioticoterapia. A questo proposito si è inteso confrontare l’efficacia della terapia orale, ovvero l’associazione amoxocillina + ac.clavulanico ad alti dosaggi, vs la terapia parenterale.Con la casistica di seguito riportata non vogliamo anticipare i risultati di tale studio quanto sottolineare le peculiarità epidemiologiche riscontrate. Nel periodo in esame abbiamo osservato quarantaquattro(44)polmoniti batteriche in soggetti di età compresa fra gli 8 mesi e gli 11 anni.La fascia di età maggiormente colpita fu quella relativa alla1°infanzia (17/44). Il sesso femminile prevalse, anche se di poco 23/41), su quello maschile.Le indagini sierologiche infettive(agglutinine a frigore, IgM-IgA per Chlamydia e Mycoplasma) risultarono positive in 8 soggetti consentendo di porre diagnosi di polmonite atipica.Complicanze respiratorie furono evidenti in un terzo dei bambini osservati (15/44).In questo ambito, la pleurite ebbe l’incidenza più alta manifestandosi in 9 di loro, la scissurite e il pneumotorace in 2, l’idropneumoto-race e il pneumatocele in 1.Le patologie croniche concomitanti, invece, furono presenti in 10 casi prevalendo su tutte la Cerebropatia, vuoi sindromica che post-SAE, presente in 6 soggetti seguita dalla Broncodisplasia in 2 ed, infine, dalla s.di De George e da Cardiopatia complessa in 1.Per quanto riguarda, poi, il quadro radiologico nelle sue varie espressioni va detto che l’addensamento parenchimale prevalse nettamente (33/44)sulle altre manifestazioni radiografiche ovvero sulle chiazzette parenchimali consolidate riscontrate in 8 bimbi e sugli infiltrati periilari in3. In conclusione possiamo affermare che i dati epidemiologici riscontrati sono del tutto sovrapponibili a quelli della letteratura confermando come i principali fattori favorenti le polmoniti batteriche (cerebropatia, broncodisplasia, immunodeficit, cardiopatia)e le loro relative complicanze erano presenti nei bambini osservati e come, da un punto di vista etiologico, i germi atipici rappresentino una realtà emergente se non già emersa. COMUNICAZIONI E POSTER BRONCOPNEUMOLOGIA 305 Ruolo dei biomarkers di infiammazione nel bambino asmatico A. Ciao, B. Borrelli, C. Ciao, E.M. Laurito AORN Santobono Napoli E’ oramai noto dagli albori dell’Allergologia come l’infiammazione giuochi un ruolo importante nella patogenesi dell’asma. E’ nostra intenzione rivisitare le metodiche di valutazione della flogosi delle vie aeree, a disposizione, strumenti utili a diagnosticare correttamente l’asma, a stabilirne il grado di severità ed in ultima analisi ad effettuare un follow up adeguato del paziente asmatico. Lo studio dei mediatori dell’infiammazione può essere effettuato in maniera invasiva o meno. In quest’ultimo ambito va segnalato, in primo luogo, l’Ossido nitrico esalato (FeNO), metodica validata secondo linee guida validate (ATS/ERS), espressione della flogosi eosinofilica delle vie aeree o meglio di aumentata attività infiammatoria innescata dall’esposizione all’allergene.E’ opportuno ricordare, a questo proposito, che l’NO è un gas incolore pressocchè ubiquitario nel nostro organismo che si forma ad opera di un’enzima, l’ossido nitrico sintetasi (NOS) in presenza di NAPDH ed altri cofattori, dall’aminoacido L Arginina e che i suoi livelli nel tratto respiratorio variano in rapporto alla sede, più bassi in quello inferiore(circa 10ppb) più alti in quello superiore fino ai massimi nei seni paranasali (1000-30000ppb). Esistono varie modalità di misurazione del FeNO ma la più usata, nel bambino collaborante (>4aa), è senza dubbio il metodo On line a respiro singolo con analisi immediata del campione tramite analizzatore. Le finalità della misurazione del FeNO nel bambino asmatico sono varie ovvero diagnosticare correttamente l’asma, migliorare la terapia nonché il monitoraggio della compliance della terapia stessa, stabilire il dosaggio ottimale degli steroidi inalatori(anche una singola dose di CSI riduce il FeNO), predire le riacutizzazioni. Altra metodica non invasiva è quella dell’Esalato bronchiale condensato (EBC) dove il condensato è una soluzione acquosa prodotta dalla condensazione, attraverso un sistema di raffredamento, dell’aria esalata durante la respirazione a volume corrente.I biomarkers misurati nell’EBC sono non solo gli abituali mediatori infiammatori quali prostaglandine, leucotrieni, interleuchine, TNFalfa, ECP etc. ma anche il perossido di idrogeno (H2O2)i cui livelli risultano elevati in corso di infiammazione.Il test dello sputo indotto da inalazio-ne di soluzione salina ipertonica con determinazione degli eosinofili ed dell’ECP trova impiegonel monitoraggio dell’infiammazione delle vie aeree. Biomarkers nel sangue periferico, poi, sono rappre-sentati dalla sECP (proteina cationica eosinofila nel siero) ed dalla sEPX (proteina X degli eosinofili nel siero), in vero, scarsamente specifici;al contrario la conta degli eosinofili periferici risulta essere importante nella valutazione dei processi infiammatori dell’asma risultando numericamente proporzionali alla severità della malattia. Metodiche invasive, infine, sono il BAL(lavaggio bronco alveolare) dove, in caso di asma, è presente un aumentato livello di eosinofili e di cellule di sfaldamento dell’ l’epitelio bronchiale e la biopsia che evidenzia, invece, un rimodellamento della parete bronchiale causato, secondo le ipotesi più accreditate, dalla flogosi cronica. In merito al remodeling, vanno segnalati alcuni studi di genomica sul ruolo polivalente dei geni della famiglia ADAM nell’asma; secondo uno dei più recenti su ADAM33 il rimodellamento sembrerebbe essere geneticamente predeterminato e non legato ad un processo infiammatorio di lunga durata iniziando fin dalle prima età di vita indipendentemente e ancor prima della comparsa della malattia asmatica. COMUNICAZIONI E POSTER 306 BRONCOPNEUMOLOGIA UNA POLMONITE CAVITARIA: Caso clinico F. Nunziata1, C. Alfano2, R. Tedesco2, M.D. Genovese2 U.O.C. Pediatria Ospedale Landolfi Solofra 1 Direttore U.O.C. Pediatria 2 Dirigente I Livello Pediatria Background Le polmoniti rappresentano da sempre una comune causa di morbilità in età pediatrica, e se la terapia antibiotica ne ha drasticamente ridotto la mortalità e le sequele, esse rappresentano ancora un problema attuale per l'incremento delle resistenze agli antibiotici da parte di patogeni comuni.Numerosi studi si sono proposti di definire un quadro epidemiologico delle polmoniti sia in termini di eziologia che di caratteristiche cliniche ma giungere ad una diagnosi eziologica è difficile. Infatti l'agente eziologico viene identificato solo nell'85% dei casi pur utilizzando un'ampia gamma di indagini di laboratorio incluse indagini sierologiche e PCR (Polymerase Chain Reaction) come si è verificato nel caso di seguito riportato. Caso clinico Francesca, bambina di 4 anni, arriva alla ns osservazione in Pronto Soccorso in quanto, durante la notte ha presentato febbre (T.C.39°C) e un episodio di emottisi nella mattinata. Nei giorni precedenti, come riferito dalla madre, non aveva presentato sintomi riportabili ad episodi infettivi. Al momento dell'osservazione, le condizioni cliniche generali, appaiono discrete. L'obiettività toracica è caratterizzata da un murmure disomogeneo con lieve riduzione in sede basale sx, lieve tachipnea, SpO2 94%, si decide il ricovero. Vengono praticati esami ematochimici che evidenziano lieve leucocitosi(9440 g.b.con netta neutrofilia 81, 5%)PCR elevata (205mg/l)PCT elevata(73, 6mg/l), e Rx torace che evidenzia presenza di focolaio broncopneumonico a sx.Viene immediatamente iniziata terapia con Cefotriaxone im alla dose di 100mg/ kg e Macrolide per os: pensiamo ad una infezione da streptococco pneumoniae. Dopo circa due giorni, per il persistere della febbre, per gli indici di flogosi in aumento, pratica nuova rx torace che evidenzia una maggiore estensione del focolaio precedente sino alla sottoclaveare sx con assenza di falde fluide per cui si decide di modificare la terapia e passare alla doppia somministrazione ev di Teicoplanina e Meropenem. Nel frattempo si procede ad ulteriori indagini: viene esclusa una infezione mista da mycoplasma per la negatività degli anticorpi specifici. Vengono praticati esami culturali, intradermoreazione alla Mantoux, e ricerca di DNA batterico e virale su sangue periferico e tampone faringeo mediante PCR per meningococco, pneumococco, haemophilus influenzae e adenovirus con esito negativo. Al 5° giorno le condizioni di Francesca, dopo un iniziale miglioramento con apiressia e notevole riduzione della PCR(70mg/l), presentano un improvviso peggioramento:ricomparsa di febbre, tachipnea, condizioni cliniche generali scadute e nuovo aumento degli indici di flogosi(g.b.18.000, neutrofilia 83%, pcr 317mg/l, pct negativa). Viene quindi, praticata una nuova rx torace che evidenzia persistenza del focolaio e versamento pleurico. Si considera, a questo punto, l'ipotesi di una infezione meticillino resistente e si inizia terapia con Vancomicina. Si assiste ad una graduale ripresa delle condizioni generali con apiressia, scomparsa della tachipnea, e normalizzazione degli indici di flogosi (pcr 5mg/l, pct 0, 1mg/L). Dopo circa due giorni di terapia con vancomicina si assiste alla ricomparsa di una nuova puntata febbrile(tc 39°c) per cui si decide di ricontrollare gli indici di flogosi e nel sospetto di una complicanza e/o malformazione polmonare di effettuare TAC toracica che evidenzia: a sn, a carico del lobo inferiore, a sede posteriore si apprezza grossolana formazione ovalare escavata, anfrattuosa, polilobulata a pareti ispessite;soffusione fluida basale posteriore. A questo punto per il nuovo aumento degli indici di flogosi (pcr 300mg/L, leucocitosi con prevalenza di neutrofilia) si pensa ad una polmonite cavitaria e si instaura terapia con linezolid alla dose di 10mg/kg due volte die. Francesca a distanza di 48 h è completamente sfebbrata con indici di flogosi (pcr, pct, emocromo) in COMUNICAZIONI E POSTER BRONCOPNEUMOLOGIA 307 valori di normalità. Si prosegue tale terapia per sette giorni e, al 15° giorno, viene dimessa in terapia domiciliare con mucolitici. Successivi controlli in DH hanno evidenziato dopo circa un mese una completa normalizzazione del quadro clinico. Rx all’ingresso Rx al 5° giorno TAC toracica al 15°giorno COMUNICAZIONI E POSTER 308 BRONCOPNEUMOLOGIA Conclusioni Non è sempre possibile isolare l’agente eziologico della polmonite e il trattamento deve essere in alcuni casi empirico cercando di orientarsi utilizzando valutazioni di tipo epidemiologico e clinico. Inoltre la persistenza della febbre, l’andamento degli indici di flogosi devono far sospettare sempre una complicanza(ascesso, cavitazione), e sicuramente in questi, casi l’esame principe è rappresentato dalla TAC torace che ci permette una definizione accurata di tipo, sede, gravità della lesione nelle polmoniti complicate. Inoltre, l’incremento delle resistenze agli antibiotici, da parte di patogeni comuni, rende sempre più spesso critica la definizione di schemi di comportamento diagnostico e terapeutico. CARDIOLOGIA Assegnazione del Premio "Ferdinando Iafusco" COMUNICAZIONI E POSTER 310 CARDIOLOGIA COARTAZIONE ISTMICA AORTICA IN ADOLESCENTE OBESO: DEFINIZIONE ANATOMICA MEDIANTE ANGIO-TAC S. Caputo1, G. Limongelli2, G. Furcolo2, C. Manganiello3, A.M. Basilicata2, B. Pasquariello2, R. Rabuano2, L.M. Pilla2, A. De Simone2, Q. Ciampi1, B. Villari1, G. Vetrano2 1 U.O.C. di Cardiologia, UTIC, emodinamica, Ospedale Fatebenefratelli, Benevento U.O.C. di Pediatria, Neonatologia, UTIN, Ospedale Fatebenefratelli, Benevento 3 U.O.C. di Diagnostica per immagini, Ospedale Fatebenefratelli, Benevento 2 L’ecocardiografia colorDoppler è una metodica fondamentale nello studio delle cardiopatie congenite di cui consente una precisa definizione anatomica e funzionale. Più complessa è la valutazione delle anomalie vascolari extracardiache in particolare nei soggetti con caratteristiche fisiche che limitano le finestre acustiche utilizzabili. Descriviamo il caso di un adolescente (7 anni), obeso (peso 48Kg; BMI 28, 4), inviato al nostro ambulatorio di cardiologia pediatrica per soffio cardiaco. All’esame clinico si confermava un soffio sistolico rude 2/6 al mesocardio, meglio udibile in sede interscapolo-ventebrale sinistra. La pressione arteriosa era normale e non vi era differenza significativa tra le due braccia. L’ECG era normale. All’ecocardiogramma, il ventricolo sinistro appariva moderatamente dilatato (diametro tele-diastolico 53mm) e globoso, con buona funzione di pompa. Il seno coronarico era marcatamente dilatato per la persistenza della vena cava superiore sinistra in assenza di vena innominata. L’istmo aortico non era ben visualizzabile per un’elevata impedenza acustica dall’approccio soprasternale e per la scarsissima collaborazione del paziente, ma il Doppler continuo evidenziava, un gradiente di 40mmHg, in assenza di run-off. Un soffio con caratteri suggestivi di coartazione in un paziente con un ventricolo dilatato impone un’accurata definizione dell’anatomia istmica aortica, anche se il monitoraggio domiciliare dei valori pressori era normale e l’Rx torace non mostrava incisure costali. Fu pertanto programmata un’angio-TAC (Figure 1-2). COMUNICAZIONI E POSTER CARDIOLOGIA 311 La tomografia computerizzata è una metodica diagnostica non invasiva capace di fornire immagini tridimensionali di elevata definizione. Le radiazioni ionizzanti e la necessità di mezzo di contrasto a base di iodio ne limita l’utilizzo a casi selezionati. Nel nostro paziente (obeso, con elevata impedenza acustica toracica, poco collaborante), l’esame è stato estremamente utile. La coartazione aortica era di media entità, per cui, il management successivo sarà completare la stratificazione funzionale con un ECG dinamico sec Holter e con un test da sforzo (per valutare la risposta pressoria con l’esercizio). COMUNICAZIONI E POSTER 312 CARDIOLOGIA IL CICLO CARDIACO IN FASI DIFFERENTI DI CRESCITA: STUDIO ECOCARDIOGRAFICO DI UNA POPOLAZIONE DI SANI S. Caputo*, A.M. Basilicata, G. Furcolo, R. Rabuano, L.M. Pilla, F. Quarantiello, G. Vetrano, Villari B* *U.O.C. di Cardiologia, UTIC, Emodinamica. Ospedale Fatebenefratelli, Benevento U.O.C. di Neonatologia, TIN, Pediatria. Ospedale Fatebenefratelli, Benevento Introduzione L’attività cardiaca è organizzata in una successione di cicli, ognuno dei quali è costituito da sei fasi, di cui due sistoliche (contrazione isovolumetrica, periodo eiettivo) e quattro diastoliche (rilasciamento isovolumetrico, riempimento ventricolare precoce, diastasi, sistole atriale). La durata dei cicli cardiaci (frequenza cardiaca) si modifica in età differenti, ma non è ancora ben definito l’adattamento sistodiastolico ventricolare durante la crescita. Scopo dello studio. Valutare il ciclo cardiaco ventricolare sinistro in soggetti sani di differente età mediante ecocardiografia Doppler. Metodi Da Maggio a Settembre 2008, sono stati reclutati 78 soggetti (48M/30F) sani consecutivi che, in relazione ad età e peso corporeo, sono stati distinti in cinque gruppi. Per poter confrontare soggetti con frequenza cardiaca differente, la durata di ogni fase del ciclo cardiaco è stata calcolata come valore percentuale. L’analisi statistica è stata effettuata con SPSS (rel 10.1). Risultati Le caratteristiche dei 5 sottogruppi sono riassunte nella Tabella 1 Ciclo cardiaco e flusso transmitralico sono stati confrontati tra i 5 sottogruppi (Tabella 2) COMUNICAZIONI E POSTER CARDIOLOGIA Discussione 313 Questo è il primo studio che ha valutato con tecnica ecocardiografica il ciclo cardiaco in età differenti di vita. Il principale risultato è che a parità di durata del ciclo cardiaco, la durata della diastole “nonatriale” (tempo di rilasciamento isovolumetrico e diastasi) è significativamente inferiore nel neonato con peso inferiore a 2Kg rispetto al neonato con peso medio di 3.30±0.57Kg. La durata della diastole “non atriale” aumenta progressivamente negli anni, raddoppiando nei bambini di età superiore ai tre anni (p=0, 0294). Il miocardio ventricolare, dunque, modifica progressivamente le proprie caratteristiche funzionali: nel tempo, utilizza meglio la diastole, rendendola meno dipendente dall’attività atriale. Questo è confermato anche dal progressivo aumento del rapporto E/A che equivale ad un riempimento precoce progressivamente più rapido. COMUNICAZIONI E POSTER 314 CARDIOLOGIA Un caso di trasposizione corretta delle grandi arterie. (TCGA) N. Napolitano1, I. Pierucci1, G. Mion1, V. Stifano1, P. Sarnicola2 1 2 U.O.C.Pediatria P.O.Sapri ASL-SA-3 B.M. nato a 40 settimane da parto eutocico con peso di 2970 gr.ed Apgar 9-10. Normale l’adattamento neonatale.In terza giornata comparsa di un soffio sistolico la cui intensità aumenta rapidamente. Assenza di cianosi, la F.C. e la F.R. risultano sempre normali. L’EGA, i valori pressori differenziali agli arti nonché la saturazione pre duttale e post duttale dell’O2 risultano sempre normali durante la degenza. La Rx del torace è normale. L’ECG evidenzia un BAV di I° grado. *L’ ECO cuore in quarta giornata evidenzia una (TCGA) con forame ovale pervio e DIV sottopolmonare*. La (TCGA) è una rara malformazione cardiaca con frequenza al di sotto dell’1% fra le malformazioni cardiache, con rapporto 4/1 maschio femmina, caratterizzata da una doppia discordanza atrio ventricolare e ventricolo arteriosa. L’atrio Dx è connesso col ventricolo sinistro(anatomico) posto a destra e questo con l’arteria polmonare. L’atrio Sx è connesso col ventricolo destro(anatomico) e questo con l’aorta. L’arteria polmonare viene a trovarsi a Dx e posteriormente e l’aorta a Sx ed anteriormente. L’anomalia è dovuta ad una cattiva rotazione del tubo cardiaco embrionale. Dal punto di vista fisiopatologico il sangue venoso arriva normalmente ai polmoni ed il sangue arterioso all’aorta però spinti da ventricoli non appropriati. Pertanto, in assenza di malformazioni associate ci si può aspettare un decorso asintomatico per un lungo periodo tanto che le donne possono anche portare a termine una gravidanza. Alcune volte la TCGA è diagnosticata in tarda età per comparsa di insufficienza mitralica, aritmie o turbe della conduzione. Tuttavia, raramente questa malformazione è isolata ma si associa ad altri difetti che ne rendono necessario l’intervento chirurgico. I difetti che si associano alla TCGA sono: -Difetto interventricolare. -Ostruzione dell’efflusso ventricolare Dx fino alla stenosi polmonare. -Insufficienza della tricuspide. Inoltre si sviluppa sempre un disturbo del ritmo e della conduzione tipo BAV di tutti i gradi dovuta ad una fibrosi che si instaura nel punto di giunzione tra il nodo atrio ventricolare ed il fascio atrio ventricolare. I casi di TCGA totalmente asintomatici, perciò, raramente giungono all’età adulta. CHIRURGIA PEDIATRICA Momenti congressuali COMUNICAZIONI E POSTER 316 CHIRURGIA PEDIATRICA INVAGINAZIONE INTESTINALE AD INSORGENZA PRECOCE: UNA NOSTRA ESPERIENZA P. Paladini1, G. Lezzi2 Ospedale “V. Fazzi” - Lecce 1 U. O. di Neonatologia UTIN 2 U.O. di Pediatria L’invaginazione intestinale o intussuscezione è una condizione patologica grave, caratterizzata dalla penetrazione di un segmento di intestino in un altro immediatamente successivo. Sebbene l’invaginazione intestinale sia una patologia che si può verificare in qualsiasi tratto dell’intestino tenue o del colon, nella maggior parte dei casi interessa la zona più prossimale o comprendente la giunzione ileocecale. E’ più frequente nell’infanzia rispetto all’età adulta, soprattutto nei bambini di età superiore ai due anni, con rapporto maschio/femmina pari a 3:2. Può essere idiopatica o secondaria a condizioni anatomiche favorenti come l’adenite mesenterica, il diverticolo di Meckel ecc. La diagnosi clinica può risultare spesso ardua in quanto la classica triade “ dolore addominale, feci ematiche e massa palpabile “ è presente nel 50% dei casi e può essere una delle tante cause di errore diagnostico e di difficoltà gestionale nell’addome acuto. Sintomi precoci sono nausea, dolore addominale, dapprima intermittente e poi continuo, vomito biliare, successivamente compaiono feci muco-sanguinolenti e sanguinamento rettale. Complicanze temibili della patologia sono l’ischemia, la peritonite, la perforazione intestinale e lo shok fino alla morte. L’indagine diagnostica più adeguata è il clisma, con aria o bario come mezzo di contrasto, che possiede anche finalità terapeutiche. Negli ultimi anni si è ben consolidato il ruolo diagnostico dell’ecografia con valori di sensibilità che in alcuni casi raggiungono il 100%. Infatti, considerato il caratteristico aspetto ecografico dell’invaginazione, è spesso possibile distinguere tra una invaginazione ileo-cecale e una ileocolica. Caso clinico : F. L. femmina di 9 mesi nata a termine da parto eutocico e gravidanza decorsa nella norma. La bimba in pieno benessere si sveglia all’improvviso con una crisi di pianto inconsolabile per cui viene inviata in consulenza nel nostro reparto. L’esame clinico all’ingresso accerta discrete condizioni generali: facies sofferente, cute intensamente pallida, lingua umida, faringe roseo, obiettività cardiopolmonare e neurologica negativa, addome trattabile e forse dolorabile; di tanto in tanto la piccola presentava perdita di coscienza, stato soporoso e crisi di pianto di brevissima durata soprattutto durante la palpazione dell’addome in fossa iliaca dx. Dopo aver escluso cause infettive veniva posto il sospetto di probabile invaginazione intestinale e quindi si eseguiva Rx diretta addome che segnalava “ non evidenti livelli idroaerei né segni di paralisi intestinale, presenza di opacità a densità dei tessuti molli a livello della flessura epatica del colon compatibile con invaginazione intestinale”. Veniva, pertanto, eseguito eco addome che segnalva in sede sottoepatica una neoformazione a salsicciotto, lunga circa 5 cm e di diametro di 3 cm con alone ipoecogeno e parte centrale iperecogena, confermando, quindi, la diagnosi di invaginazione ileo colica. La piccola veniva portata in sala operatoria e sottoposta a laparotomia esplorativa urgente che accertava una invaginazione ileo cecale che veniva ridotta manualmente. Decorso post-operatorio nella norma. Conclusioni : L’invaginazione intestinale è una patologia non comune di urgenza, che necessita di una diagnosi molto precoce; il ritardo nella diagnosi e quindi il trattamento non tempestivo può essere causa di gravi complicanze con severi danni tissutali, a volte irreversibili, accompagnati da perforazioni intestinali, infezioni e, non di rado, morte del paziente. L’Rx addome e il clisma opaco, assieme all’ecografia addominale costituiscono il “ gold standard “ diagnostico; il clisma opaco oltre ad essere un ottimo strumento di indagine, spesso risolve oltre il 75% dei casi. COMUNICAZIONI E POSTER CHIRURGIA PEDIATRICA 317 OUTCOME A LUNGO TERMINE DELLA NISSEN LAPAROSCOPICA NEI PAZIENTI PEDIATRICI AFFETTI DA MRGE I. Giurin, C. Esposito, C. De Luca, F. Perricone, F. Alicchio, A. Roberti, S. Scermino, A. Savanelli, G. Ascione, A. Settimi Dipartimento di Pediatria, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica, Università di Napoli “Federico II” Introduzione La plastica antireflusso per via laparoscopica rappresenta il trattamento chirurgico “gold standard” nei pazienti affetti da MRGE. Pochi sono i lavori pubblicati nella letteratura internazionale riguardanti l’outcome a lungo termine dei pazienti operati. Materiali e Metodi: Nel nostro studio, riportiamo i risultati del follow-up a lungo termine di 36 pazienti sottoposti a fundoplicatio sec. Nissen per via laparoscopica da gennaio a novembre 1998. Il follow up è stato di almeno 10 anni. I pazienti sono stati contattati telefonicamente e invitati a sottoporsi ad un controllo clinico. Per valutare i risultati a lungo termine abbiamo utilizzato il questionario QPSG Roma III dell’ESPGHAN. Dei 36 pazienti trattati, 15/36 non sono stati contattati per l’impossibilità di reperire un recapito telefonico, 1/36 ha rifiutato di sottoporsi al questionario e 2/36 non si sono presentati all’appuntamento. Il questionario è stato proposto a 18/36 pazienti (50%) (11 M, 7 F), di età compresa tra 12 e 26 anni (età media: 16,2 anni). I pazienti sono stati intervistati sulle loro condizioni cliniche dopo l’intervento e sulla presenza di dolore addominale, eruttazioni, vomito, disfagia ed eventuale uso di farmaci antiacidi o IPP. Sono stati valutati, inoltre, il peso, l’aspetto delle ferite e la qualità di vita. Risultati Nei 18 pazienti analizzati abbiamo ottenuto i seguenti risultati: nell’89% (16/18) dei pazienti il RGE è guarito anche agli esami strumentali, mentre in 2/18 pazienti (11%) è presente un lieve RGE residuo che viene trattato farmacologicamente. Il 29% dei pazienti (5/18) presenta ancora una lieve disfagia per alcuni cibi. La disfagia era presente nel 60% dei pazienti nell’immediato post-operatorio ed è andata migliorando nei 6 mesi successivi all’intervento nella maggioranza dei casi. 12/18 pazienti (66%) possono eruttare spontaneamente, 5/18 (27%) possono anche vomitare. L’aspetto delle ferite è stato giudicato buono nel 95% dei casi. 16/18 pazienti (90%) hanno un peso soddisfacente per età e altezza. Per quel che riguarda l’uso di farmaci antiacidi o IPP, solo 3/18 pazienti (16%) utilizzano saltuariamente tali farmaci. Per quel che riguarda la percezione della qualità di vita, questa risulta soddisfacente nel 100% dei pazienti ed in particolare buona o ottima nell’89% dei pazienti e discreta nell’11%. Conclusioni Secondo la nostra esperienza, la fundoplicatio sec. Nissen per via laparoscopica rappresenta una tecnica valida ed efficace per il trattamento dei pazienti pediatrici affetti da MRGE. I vantaggi legati al migliore aspetto estetico delle ferite e alla riduzione della degenza post-operatoria si associano a buoni risultati a lungo termine dal punto di vista clinico e ad una qualità di vita sovrapponibile a quella dei coetanei sani. COMUNICAZIONI E POSTER 318 CHIRURGIA PEDIATRICA Ptosi palpebrale: aspetti clinici e chirurgici S. Brongo, A. Altieri, S. Campa, F. D’Andrea Cattedra di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva - Seconda Università degli Studi di Napoli Introduzione Si definisce ptosi palpebrale l’abbassamento del margine palpebrale superiore che risulta localizzato inferiormente rispetto al controlaterale o rispetto alla norma. Può essere monolaterale o bilaterale. È una patologia abbastanza frequente e rappresenta l ‘1% di tutti gli interventi a carico della palpebra superiore. Eziologia La ptosi palpebrale viene classificata in congenita e acquisita. La forma congenita nella maggior parte dei casi è secondaria ad alterazioni distrofiche a carico del muscolo elevatore della palpebra superiore, fanno eccezione la ptosi di Marcus-Gunn, che è dovuta ad una errato orientamento del nervo oculomotore comune, e la blefarofimosi ; la forma acquisita può essere di origine neurogena, miogena, traumatica, meccanica o una pseudoptosi. Clinica e diagnosi La ptosi comporta disturbi visivi dovuti alla parziale o totale copertura del forame pupillare da parte del margine palpebrale superiore ptosico. È molto importante ai fini di un corretto inquadramento diagnostico e terapeutico distinguere tre gradi di gravità per la ptosi palpebrale che pertanto viene definita: lieve, moderata o grave in base all’abbassamento in millimetri del margine palpebrale superiore rispetto alla posizione che dovrebbe normalmente assumere; pertanto la ptosi viene definita lieve se l’abbassamento del margine palpebrale superiore è di 1-2 mm, viene definita moderata quando è di circa 3 mm, viene definita grave quando è di 4 mm o piu. Un altro parametro da prendere in considerazione nell’ inquadramento diagnostico della ptosi palpebrale è la valutazione della funzione del muscolo elevatore della palpebra superiore; questa può essere: eccellente se l’escursione palpebrale determinata dalla contrazione di questo muscolo e di circa 12-15 mm, buona se l’escursione palpebrale è di 8-12 mm, scarsa se è di 5-7 mm e infine cattiva se non supera i 2-4 mm. Terapia Il trattamento è chirurgico. Il tipo di intervento varia in funzione della gravità della ptosi e del grado di funzionalità del muscolo elevatore della palpebra superiore. Nei pazienti con funzione muscolare assente e ptosi grave si esegue come intervento gold standard un bendaggio a fionda. L’ intervento si esegue in anestesia locale negli adulti e in anestesia generale nei bambini e prevede la sospensione della palpebra superiore mediante un tirante che è ottenuto prelevando un frammento di tessuto da un tendine della coscia; il tirante viene poi ancorato al muscolo elevatore del sopracciglio. L’obiettivo di questo intervento è di operare una correzione statica poiché la palpebra viene tirata verso l’alto passivamente dal corrugamento del muscolo elevatore del sopracciglio. Nei pazienti con funzione muscolare sufficiente si esegue un intervento di accorciamento muscolare. Questa tecnica prevede l’eliminazione della parte muscolare non contrattile e il salvataggio della parte muscolare che si contrae normalmente. Il muscolo accorciato viene poi reinserito sul margine superiore del tarso in modo tale da ripristinare l’unità funzionale delle palpebre. L’intervento correttivo di ptosi palpebrale è caratterizzato da una buona riuscita anche se talvolta possono presentarsi complicanze quali: l’ incompleta correzione del difetto, problemi estetici, l’entropion e l’ectropion. COMUNICAZIONI E POSTER CHIRURGIA PEDIATRICA 319 RARO CASO DI GLOBO VESCICALE DA IMENE IMPERFORATO A. Colucci1, M. D’Amato2, G. Colucci1 1 2 U.O.C. di Pediatria -Pres. Ospedaliero di Ostuni (Br) U.O.C. di Chirurgia - Az Osped. Universitaria “Giovanni XXIII” - Bari La ritenzione acuta di urine in età pediatrica è un evenienza poco frequente, e riconosce diverse cause1-2. Il caso di una bambina con globo vescicale secondario ad imene imperforato ci ha indotto ad un’esame della letteratura. Pur essendo una patologia molto rara (l’imene imperforato si verifica all’incirca 1:3000 bambine, e raramente si manifesta con globo vescicale)3 appare chiaro che quasi sempre è sufficiente un esame obiettivo accurato dei genitali esterni per giungere alla diagnosi4. Case report Una ragazza di 13 anni viene ricoverata presso l’U.O. di Pediatria del Presidio Ospedaliero di Ostuni per ritenzione acuta di urine da circa 12 ore, associata ad algie addominali in sede ipogastrica. La piccola non aveva mai sofferto di disuria, infezioni delle vie urinarie e dolori addominali ricorrenti. Presentava addome globoso con globo vescicale e iperemia delle piccole labbra. Durante la cateterizzazione uretrale si evidenzia un imene imperforato. L’esame ecografico rivela la presenza di un ematocolpo del diam. max di circa 12 cm, e lieve dilatazione pielicoureterale destra. La bambina viene quindi sottoposta ad intervento chirurgico di imenotomia crociata con risoluzione della sintomatologia. Discussione In età pediatrica la ritenzione acuta di urine può essere dovuta a processi infiammatori delle vie urinarie o dell’apparato genitale, a farmaci (antistaminici o anticolinergici) o può essere secondaria a vescica neurologica. Infine una neoformazione pelvica può comprimere l’uretra1-2. In questo caso l’ematocolpo causa la ritenzione urinaria o in seguito ad una compressione ab estrinseco sull’uretra, o attraverso l’irritazione che la massa causa sul plesso sacrale. Inoltre l’ematoma vaginale può causare alterazioni dell’angolo tra il collo della vescica e l’uretra, ostacolando la minzione. Poiché il primo trattamento della ritenzione urinaria è rappresentato dalla cateterizzazione, è utile che questa venga eseguita dal medico in maniera tale che possa cogliere l’occasione per analizzare in maniera più accurata l’aspetto dell’introito vaginale. In tale maniera si giungerebbe ad una diagnosi precoce e si eviterebbero esami strumentali e di laboratorio inutili. Conclusioni Poiché generalmente le adolescenti con ritenzione urinaria vengono visitate in prima istanza presso il dipartimento di urgenza, l’ipotesi di imene imperforato deve essere considerato nelle adolescenti con sintomi urinari in assenza di ciclo mestruale. L’ispezione dei genitali esterni, durante la cateterizzazione e l’accurata indagine circa il menarca, possono prevenire errori di diagnosi e indirizzare verso le indagini e il trattamento opportuno. Bibliografia 1. Gatti JM, Perez-Brayfield M, Kirsch AJ, Smith EA, Massad HC, Broecker BH. Acute urinary retention in children. J Urol 2001;165:918-21. 2. Peter JR, Steinhardt GF. Acute urinary retention in children..Pediatr Emerg Care 1993;9:205-7. 3. Ruwaida H. Imperforate hymen with bilateral hydronephrosis in a neonate.Saudi J Kidney Dis Transplant 1998; 9(1):33-35. COMUNICAZIONI E POSTER 320 CHIRURGIA PEDIATRICA 4. Attaran M, Falcone T, Gidwani G. Obstructive Mullerian anomalies. In: Gidwani G, Falcone T, eds. Congenital Malformation of the Female Genital Tract: Diagnosis and Management. Philadelphia: Lippincott Williams & Wilkins, 1999: 145-68. 5. Tompkins P. The treatment of imperforate hymen with hematocolpos: a review of 113 cases in the literature and the report of five additional cases. JAMA 1939;113:913. COMUNICAZIONI E POSTER CHIRURGIA PEDIATRICA 321 TRATTAMENTO DEL DOLORE POST-OPERATORIO DELL’IPOSPADIA NEL PAZIENTE PEDIATRICO V. Ferrara, A. Savanelli, M. Iaquinto, R.M. Festa, S. Iacobelli, A. Farina, I. Giurin, F. Alicchio, S. Scermino, C. Esposito, A. Settimi Dipartimento di Pediatria, Area Funzionale di Chirurgia Pediatrica, Università di Napoli “Federico II” Introduzione L’ipospadia è un’anomalia congenita, con un’incidenza di 1/300 nuovi nati, caratterizzata da: meato urinario non in sede fisiologica, curvatura ventrale dell’asta e schisi del prepuzio. La correzione chirurgica di tale patologia, eseguita preferibilmente durante i primi 18 mesi di vita, prevede la ricostruzione dell’uretra (uretroplastica) ed una prepuzioplastica. Al termine dell’intervento è posizionata una derivazione urinaria sovrapubica temporanea per poter garantire la cicatrizzazione e il consolidamento della neo-uretra. Nel decorso post-operatorio, il bambino può lamentare dolore a livello inguinale, pubico e penieno, soprattutto nei primi 3-4 gg del post-operatorio. Materiali e metodi Nel nostro studio abbiamo realizzato un adeguato programma di prevenzione del dolore, intervenendo durante tutto il periodo peri-operatorio, iniziando con la premedicazione pre-operatoria (midazolam 0,5mg.kg-1 per os), poi con l’anestesia intra-operatoria tramite epidurale caudale (naropina 0,25%) e concludendo con un’adeguata analgesia post-operatoria ed un programma di monitoraggio e valutazione del dolore. L’analgesia post-operatoria, per i nostri pazienti, è così strutturata: I giornata, Contramal, 1mg. kg-1 ogni 6h; Tachipirina, 15mg.kg-1 ogni 6h (entrambi ogni 4h, se è presente dolore); II e III giornata, stessa terapia ogni 8h (od ogni 6h, se è ancora presente dolore); dalla IV in poi, Lonarid supposte (paracetamolo 200mg + codeina fosfato 5mg), solo se strettamente necessario. Per la misurazione del dolore, nel nostro studio abbiamo utilizzato: la Children Hospital of Eastern Ontario Pain Scale (CHEOPS), la Faces Pain Scale (FPS) e la Visual Analogue Scale (VAS). Per ogni scala algometrica abbiamo individuato un valore soglia, che, in particolare, per la CHEOPS è pari a 7, oltre il quale il paziente deve essere automaticamente trattato con i farmaci previsti dal protocollo. È importante verificare anche l’efficacia delle somministrazioni suppletive di analgesici con ulteriori misurazioni del dolore. Risultati Nei 370 pazienti operati per ipospadia nel nostro reparto dal 2003 al 2007 abbiamo valutato il dolore post-operatorio utilizzando i parametri sopraindicati. Il 95% dei casi (351/370) hanno avuto un decorso post-operatorio giudicato privo di dolore sia dai medici che dai genitori. Il restante 5% (19/370), invece, ha presentato dolorabilità ed una valutazione del controllo del dolore nel post-operatorio giudicata insoddisfacente. Cause di insoddisfazione sono state: per il 60% (11/19) vomito; per il 38% (7/19) lievi dolori (dovuti a residui spasmi vescicali) e senso di peso a livello inguinale; per il 2% (1/19) reazioni avverse minori (lieve prurito, bruciore durante la minzione, inappetenza, stipsi etc.). Conclusioni La valutazione del dolore post-operatorio nei pazienti operati di ipospadia rappresenta una metodica estremamente utile per lo studio e la modulazione della terapia antidolorifica da somministrare a questi pazienti. Il nostro studio ha dimostrato che la maggioranza dei pazienti (95%) grazie alla terapia antidolorifica di supporto ha un decorso postoperatorio privo di dolore. Solo il 5% dei genitori ha giudicato il controllo del dolore insoddisfacente. EMATOLOGIA-ONCOLOGIA Antonio Correra COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 323 ANEMIA MEGALOBLASTICA IN UN PAZIENTE AFFETTO DA DEFICIT DI METILENTETRAIDROFOLATO REDUTTASI: IPOTESI DIAGNOSTICHE S. Esposito Pediatria di Base, ASL Napoli 1, Distretto 45 Introduzione L’enzima metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR) catalizza la reazione di riduzione del 5-10 metilentetraidrofolato a 5-metiltetraidrofolato, che fornisce il gruppo metilico necessario per la metilazione dell’omocisteina a metionina. Una sua grave carenza può portare ad accumulo nel plasma di omocisteina, non potendo, quest’ultima, essere trasformata normalmente in metionina. L’aumento dell’omocisteina plasmatica è considerato un fattore di rischio per trombofilia. Il gene che codifica per l’enzima MTHFR è mappato sul cromosoma 1 ed il deficit enzimatico è trasmesso con modalità autosomica recessiva. Le manifestazioni cliniche di tale deficit dipendono dalla sua entità e vanno dalla neuropatia periferica al lieve ritardo mentale e alle convulsioni, nei casi di assenza parziale, fino ad apnea e convulsioni miocloniche, che possono condurre a coma e morte, nei casi di assenza totale. Il deficit di MTHFR è conosciuto anche col nome di omocistinuria di tipo III: infatti le caratteristiche di laboratorio di questa patologia comprendono aumento dell’omocisteina plasmatica ed urinaria con metioninemia bassa o ai limiti inferiori della norma. L’anemia magaloblastica non fa parte del quadro clinico della malattia. Obiettivo del presente lavoro è descrivere un caso di omocistinuria di tipo III accompagnato da anemia megaloblastica secondaria a deficit di vitamina B12 e discutere delle più probabili cause di quest’ultima. Caso clinico A. è nato nel dicembre del 2000 da genitori non consanguinei. Nessuna patologia di rilievo si è messa in evidenza in epoca neonatale ed il piccolo ha goduto di apparente buona salute fino al 2007. All’età di sei anni, viene alla nostra attenzione per pallore, astenia ed irritabilità ingravescenti. Praticato l’emocromo, si evidenzia una macrocitosi ed una riduzione della concentrazione sierica dell’emoglobina. Il piccolo viene indagato per l’anemia megaloblastica ma, nel frattempo, viene diagnosticato un contestuale aumento dell’omocisteina plasmatica, che la consulenza genetica permette di correlare a deficit di MTHFR. In particolare, il nostro paziente presenta un’omozigosi per il polimorfismo A1298C dell’enzima MTHFR, un difetto che ha una frequenza di portatori in eterozigosi del 40% della popolazione ed una frequenza di omozigosi dell’11%. Solo la condizione di omozigosi per la mutazione è responsabile di una ridotta attività enzimatica ed è considerata un fattore di rischio per malattia vascolare se associata ad aumento dei livelli circolanti di omocisteina. Nel nostro paziente, i livelli di omocisteina plasmatica sono molto elevati, fino a tre volte i valori normali. Discussione Nel quadro clinico del deficit di MTHFR è presente una iperomocisteinemia con omocistinuria, di solito di lieve entità. I valori molto elevati di omocisteina plasmatica riscontrati nel nostro paziente, associati alla presenza di anemia megaloblastica, fanno supporre la presenza di una patologia associata, che al momento ci sfugge e che stiamo ricercando. I nostri sospetti si concentrano soprattutto su una forma giovanile di anemia perniciosa o su un difetto geneticamente determinato del recettore per il fattore intrinseco complessato con la vitamina B12 a livello dell’ileo terminale, sede dell’assorbimento intestinale di quest’ultima (sindrome di Imerslund-Grasbeck, associata, tra l’altro, a proteinuria). Entrambe queste patologie si associano ad un ridotto assorbimento intestinale di vitamina B12, responsabile dell’anemia megaloblastica. Tra l’altro, lo stesso deficit di vitamina B12, indipendentemente dalla causa scatenante, può causare un aumento dei livelli sierici di omocisteina. Nel nostro paziente quest’evenienza, sommata al deficit di MTHFR, potrebbe giustificare i valori di omocisteina più elevati di quanto il solo deficit di MTHFR farebbe attendere. COMUNICAZIONI E POSTER 324 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA Conclusioni Il nostro paziente dovrà essere sottoposto ad una serie di indagini per verificare le nostre ipotesi sull’eziologia dell’anemia megaloblastica, tra cui: ricerca di autoanticorpi anti-fattore intrinseco e anticellule parietali gastriche, dosaggio della bilirubina totale e frazionata, test di Schilling, dosaggio della proteinuria delle 24 ore ed analisi genetica per il gene CUBN (mappato sul cromosoma 10p12.1 e responsabile, se mutato, della sindrome di Imerslund-Grasbeck) In ogni caso, andrà avviata una terapia di supplementazione con vitamina B12 intramuscolo (1mg/mese) e dovranno essere sempre tenuti sotto controllo i livelli ematici di omocisteina per monitorare il rischio trombotico. COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 325 Associazione insolita di eritema multiforme e porpora trombocitopenica idiopatica G. D’Urzo1, M. Amendolara1, G. Attianese1, A.M. Aurino1, M.A. Cascone2, R. Di Concilio1, C. Di Filippo1, S. Mauriello1, C. Romano1, A. Stefanelli1, G. Cappuccio1, G. Amendola1 1 2 U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA) U.O.C. Pediatria C/mare Di Stabia (NA) L’eritema multiforme è una rara affezione dermatologica in cui si ritiene che il danno epidermico sia dovuto alla distruzione dei cheratociti da parte di citochine rilasciate da monociti attivati da una abnorme reazione immunologica. Presentiamo il caso di una bambina di sedici mesi che ha presentato tale affezione concomitatamente ad una porpora emorragica conseguente a piastrinopenia acuta idiopatica. A.G. giunge alla nostra osservazione per la comparsa di elementi orticarioidi al volto ed agli arti e di petecchie al tronco. All’anamnesi viene riferito un episodio di otite acuta febbrile trattata con amoxicillina+acido clavulanico una settimana prima della comparsa delle lesioni cutanee. All’esame clinico sono state riscontrate le manifestazioni cutanee descritte e mucosite a carico della alte vie aeree in assenza di linfoadenopatia e di organomegalia. Gli esami ematochimici praticati all’ingresso hanno evidenziato piastrinopenia (PLT 13.000), aumento degli indici di flogosi, aumento dei CD19+, riduzione dei CD8+. Nella norma gli esami di routine, le immunoglobuline sieriche, il profilo coagulativo, lo striscio periferico, il Test di Coombs, negativi gli esami colturali e sierologici. L’esame morfologico del midollo ha evidenziato la presenza di numerosi megacariociti con normalità dei progenitori eritroidi e granulocitari compatibile con la diagnosi di porpora trombocitopenica idiomatica; è stata, inoltre, segnalata la presenza di numerosi istiociti con attività emofagocitica. La terapia con immunoglobuline endovena alla dose di 800 mg/Kg/die per 2 giorni, è stata seguita da un graduale incremento fino alla normalizzazione della conta piastrinica. Le manifestazioni cutanee hanno assunto, nel corso del ricovero, un caratteristico aspetto a ghirlanda tipico dell’eritema multiforme. Ad un mese di follow-up la piccola sta bene, con conte ematiche periferiche nella norma. E’ verosimile che l’episodio febbrile, che ha preceduto la comparsa delle manifestazioni cutanee, abbia innescato nella paziente una abnorme risposta immunologica, come dimostrato dalla espansione del compartimento B linfocitario e dalla emoistiofagocitosi midollare, determinando sia la produzione di anticorpi anti-piastrine e conseguente distruzione piastrinica, sia l’attivazione di una risposta cellulo-mediata e conseguente eritema multiforme. COMUNICAZIONI E POSTER 326 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA BASSA PREVALENZA DI TIROIDITE AUTOIMMUNE IN PAZIENTI CON LEUCEMIA LINFATICA ACUTA FUORI TERAPIA L. Pomponia Brescia U.O. “F.Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva” - Università degli Studi di Bari Introduzione La prognosi per bambini affetti da leucemia linfatica acuta (LLA) è notevolmente migliorata negli ultimi 30 anni e gli studi di follow-up per la valutazione delle complicanze della terapia antineoplastica diventano sempre più importanti. Una alterazione della funzionalità dell’asse ipofisi-tiroide è stata talvolta riscontrata in pazienti trattati sia con chemioterapia (CT) che con irradiazione profilattica del tratto cranio-spinale. Pochi i dati disponibili in pazienti trattati solo con CT. Scopo del nostro studio è valutare la funzione tiroidea e la prevalenza di tiroidite autoimmune in pazienti con LLA fuori terapia trattati solo con CT. Materiali e metodi Criteri di inclusione: Gruppo campione: 1. diagnosi: LLA; 2. trattamento: CT; 3. periodo fuori terapia: almeno 12 mesi. Gruppo controllo: soggetti sani di pari età Criteri di esclusione gruppo campione: 1. recidiva; 2. radio-terapia. Gruppo campione: 73 pazienti (29 femmine). Gruppo controllo: 42 soggetti (24 femmine). Caratteristiche gruppo campione: età alla diagnosi 5.9 ∼ 3.4 aa; età a fine terapia 7.8 ∼ 3.4 aa; età al momento dello studio 12.2 ∼ 4.1 aa; periodo fuori terapia: 4.3 ∼ 3.2 aa. 1. valutazione clinica, con particolare attenzione a sintomi di patologia tiroidea 2. laboratorio: TSH, T4 libera (fT4), anti-tireoglobulina, anti-tireoperossidasi (nel gruppo controllo: solo TSH ed fT4) Risultati Clinica: nessun paziente era in trattamento con levo-tiroxina o presentava anamnesi positiva per patologia tiroidea. Nessun paziente presentava gozzo o sintomi di patologia tiroidea. TSH (v.n. 0.35 - 5.5 μU/ml): Gr. campione: 2.6 ± 1.6 μU/ml. Al di sopra della norma in 6 pz (5.6 - 8.0 μU/ml). Gr. controllo: 2.9 ± 1.2 μU/ml. Al di sopra della norma in 1 pz (7.2 μU/ml) fT4 (v.n. 0.8 - 1.8 ng/dl): Gruppo campione: 1.21 ± 0.15 ng/dl. Nella norma in tutti i pz. Gruppo controllo: 1.22 ± 0.12 ng/dl. Nella norma in tutti i pz Anti-tireoglobulina ed anti-tireoperossidasi: negativi in tutti i pz del campione. Discussione Sebbene alcuni studi dimostrino che la CT eserciti effetti negativi sulla funzionalità tiroidea, altri affermano che un eventuale danno permanente non è da imputare alla CT. Nel nostro studio, circa l’8% dei pazienti del gruppo campione presentava ipotiroidismo subclinico, percentuale leggermente superiore al 2.4% (p = ns) riscontrato nel gruppo controllo ma inferiore al dato del 12% (p = ns) riportato in un uno studio multicentrico Italiano condotto su 199 bambini sani. Nessuno dei nostri pazienti ha presentato positività degli anticorpi specifici per la tiroide, sebbene tale prevalenza nella popolazione pediatrica sia stata del 10% nello studio Italiano citato e dell’1-10% in lavori condotti in altri Paesi europei. Conclusioni La percentuale di ipotiroidismo subclinico non sembra statisticamente superiore rispetto al gruppo controllo e sovrapponibile a quanto già descritto nella popolazione Italiana. Il trattamento con solo CT sembra non aumentare il rischio di tiroidite autoimmune a medio termine in pazienti con LLA in età pediatrica. Sono in corso l’ampliamento della casistica ed il dosaggio degli anticorpi anti-tiroide nei soggetti arruolati nel gruppo controllo al fine di confermare o meno queste conclusioni. COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 327 LA VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE NEI BAMBINI CON MALATTIA ONCOLOGICA D. Amato U.O. “Federico Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari Introduzione e obiettivi L’influenza è una malattia particolarmente severa nei bambini affetti da tumore. Sebbene la vaccinazione antinfluenzale sia raccomandata ai bambini con patologie croniche, e specialmente con patologie neoplastiche, la copertura vaccinale in questo gruppo rimane bassa. L’ obiettivo del nostro studio è stato quello di confrontare la copertura vaccinale antinfluenzale nei bambini fuori terapia per malattie oncologiche ed in bambini sani, di indagare quali fattori influenzino la pratica vaccinale e ricercare modalità per aumentarla. Materiali e metodi Casi: bambini fuori terapia per malattia oncologica; controlli: bambini sani. Studio in due fasi. Fase 1 E’ stato somministrato un questionario ai genitori dei soggetti arruolati riguardante la situazione vaccinale dei loro figli nella stagione influenzale 2005-2006. Fase 2 Ai genitori dei bambini fuori terapia per malattia oncologica è stata proposta la vaccinazione antinfluenzale per i loro figli gratuitamente, per la stagione 2006-2007, con tre modalità differenti, previa randomizzazione dei soggetti in tre gruppi: nel primo gruppo i genitori sono stati contattati direttamente dai medici del centro di riferimento oncologico che hanno offerto la vaccinazione gratuita presso l’ambulatorio di oncologia; nel secondo gruppo i genitori sono stati contattati egualmente dai medici del centro di riferimento che hanno offerto la vaccinazione gratuita nello stesso ospedale, ma in un ambulatorio diverso; nel terzo gruppo i genitori sono stati contattati da un medico esterno al centro di riferimento che ha offerto la vaccinazione gratuita presso un ambulatorio esterno. Risultati Fase 1 72 di 400 (15%) tra i bambini sani e 53 di 199 (24.12%) tra quelli oncologici sono risultati vaccinati contro l’influenza nella stagione 2005-2006, il fattore che maggiormente ha influenzato i genitori nella scelta della pratica vaccinale è risultato essere la raccomandazione del medico, soprattutto nel gruppo degli oncologici. Fase 2 Le tre strategie vaccinali proposte si sono rivelate tutte egualmente efficaci nell’incrementare la quota di copertura vaccinale antinfluenzale tra i bambini oncologici da 24.12% della stagione 20052006 al 52.68% registrato nella stagione 2006-2007. Inoltre, in questo gruppo, la vaccinazione si è rivelata utile nel ridurre di circa il 50% il numero di infezioni respiratorie e gastrointestinali durante la stagione influenzale. Conclusioni Fase 1 La nostra ricerca è giunta alla conclusione che i genitori riferiscono che a consigliare loro la vaccinazione antinfluenzale è principalmente il Pediatra di Famiglia per i bambini sani, il Medico del Centro di Riferimento per i pazienti oncologici. Infatti, è la raccomandazione del medico a diventare la ragione principale per un genitore, sia di un bambino sano che di uno con patologia neoplastica, a far somministrare la vaccinazione contro l’influenza al proprio figlio. Inoltre nelle classi di bambini oncologici gioca un ruolo importante anche il timore che l’infezione influenzale possa aggravare la patologia di base. Fase 2 Le tre strategie vaccinali si sono rivelate egualmente utili nell’incrementare la copertura vaccinale nella popolazione degli oncologici. E’ dunque di forte impatto il ruolo che i genitori affidano al Pediatra di Famiglia o del Centro di Riferimento, nel consigliare e far eseguire la vaccinazione antinfluenzale. COMUNICAZIONI E POSTER 328 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA SINDROME TAR (TROMBOCITOPENIA-ASSENZA DEL RADIO): EVOLUZIONE NEL PRIMO ANNO DI VITA S. Esposito Pediatria di Base, ASL Napoli 1, Distretto 45 Introduzione La sindrome TAR (Trombocitopenia-Assenza del Radio) è clinicamente caratterizzata da trombocitopenia severa con normale volume piastrinico associata ad assenza o ipoplasia bilaterale del radio (in letteratura sono stati riportati solo cinque casi di assenza monolaterale del radio) con mani e dita normali. Questa sindrome, che ha un pattern di ereditarietà autosomico recessivo, è un esempio di citopenia isolata, senza evoluzione verso la pancitopenia o la malignità. I pazienti sono generalmente identificati alla nascita sulla base della combinazione tra l’aspetto fisico e la trombocitopenia. Le manifestazioni emorragiche, spesso già presenti alla nascita, si manifestano nel 95% dei casi entro il quarto mese di vita. Circa il 20% dei pazienti inoltre presenta diarrea sanguinolenta nell’infanzia da riferire ad intolleranza alle proteine del latte vaccino (IPLV). La dieta priva di proteine del latte vaccino, infatti, allevia questo sintomo e può, forse, determinare un miglioramento della trombocitopenia. In ogni caso, la trombocitopenia nella sindrome TAR tende a divenire meno severa dopo il primo anno di vita. Scopo del presente lavoro è illustrare l’evoluzione di un caso di sindrome TAR nel corso del primo anno di vita. Caso clinico La nostra paziente, F., è nata a 38 settimane di età gestazionale, da taglio cesareo d’elezione, dopo una gravidanza normocondotta. Alla nascita il peso è stato 2800 gr, la lunghezza 49 cm, la circonferenza cranica 33 cm e l’indice di Apgar 8 al primo minuto e 9 al quinto. La piccola viene alla nostra attenzione per la prima volta in venticinquesima giornata di vita con una diagnosi di agenesia bilaterale del radio. L’esame obiettivo mostrava polsi e mani introflessi e normoconformati. L’accrescimento staturo-ponderale appariva allora soddisfacente con latte formulato. Al compimento del primo mese di vita si sono evidenziate cianosi delle estremità inferiori e micropetecchie diffuse, da attribuire alla severa trombocitopenia, per la quale si è resa necessaria la terapia trasfusionale. Dopo aver effettuato la consulenza genetica, è stata posta diagnosi di TAR. Nel corso del terzo mese di vita la piccola ha inoltre manifestato una IPLV ed ha iniziato pertanto una dieta priva di proteine del latte vaccino proseguita anche durante e dopo lo svezzamento (iniziato nel quinto mese di vita). Il latte vaccino è stato infatti reintrodotto nella dieta solo al compimento del decimo mese di vita, senza problemi. Attualmente la piccola ha superato l’anno di vita e la sua conta piastrinica, monitorata costantemente, da risultati incoraggianti (in effetti, l’ultima conta piastrinica, di 39.000 elementi/µL, pur confermando la trombocitopenia, non rende necessarie ulteriori trasfusioni). Discussione La trombocitopenia della sindrome TAR ha, dal punto di vista molecolare, un’eziologia ignota. In questa sindrome solo la linea megacariocitaria risulta essere significativamente colpita: infatti le colture cellulari di cellule staminali emopoietiche totipotenti indicano che le linee cellulari mieloide ed eritroide sono normali. L’esame del midollo dei pazienti affetti mostra un ridotto numero di megacariociti mentre in vitro si osserva la mancata crescita delle colonie megacariocitarie in risposta alla trombopoietina, pur in presenza di una normale funzionalità del suo recettore di membrana. Conclusioni La trombocitopenia della sindrome TAR è un enigma poiché spesso regredisce durante i primi anni di vita e le sue basi molecolari restano ignote. La terapia più importante è rappresentata dalle trasfusioni di piastrine necessarie durante gli episodi emorragici e gli interventi chirurgici ed indicate inoltre, come profilassi, nei neonati con trombocitopenia grave. La conta piastrinica dovrebbe essere mantenuta tra le 10.000 e le 15.000 unità/µL. La previsione è che la durata del supporto sia limitata (meno di un anno) COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 329 e la prognosi per i pazienti con TAR è nel complesso buona. I pazienti che superano il primo anno di vita, infatti, presentano uno spontaneo aumento della conta piastrinica fino a livelli che permettono loro anche di sottoporsi agli interventi ortopedici di cui necessitano per correggere le alterazioni a carico degli arti superiori. COMUNICAZIONI E POSTER 330 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA SORVEGLIANZA ANGIO-RMN DEGLI EVENTI TROMBOEMBOLICI CEREBRALI IN PAZIENTI PEDIATRICI AFFETTI DA LEUCEMIA LINFOBLASTICA ACUTA. STUDIO PILOTA M. Grassi1, P. Giordano1, V. Cecinati1, G.C. Del Vecchio1, F. Di Cuonzo2, M. Palma2, D. De Mattia1, N. Santoro1 1 U.O. “F.Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche - Sezione di Neuroradiologia - Università degli Studi di Bari 2 Introduzione Gli eventi tromboembolici (ETE) rappresentano una seria complicanza associata alla terapia della Leucemia Linfoblastica Acuta (LLA) nei bambini. La maggior parte degli ETE cerebrali (ETEC) è rappresentata da trombosi dei seni venosi (TSV). Le TSV nei bambini sono a volte misconosciute perché paucisintomatiche o con sintomi aspecifici. Obiettivi Confrontare l’incidenza di ETEC riscontrati con una strategia basata sul riconoscimento delle sole manifestazioni cliniche e quindi confermati con angioRM encefalo rispetto a quelli riscontrati con AngioRM encefalo seriate indipendentemente dall’obiettività clinica. Materiali e metodi Studio pilota, prospettico, randomizzato. Pazienti: bambini di età compresa tra 1 e 18 anni, affetti da LLA, trattati secondo il protocollo AIEOP LLA 2000, tra Gennaio 2003 e Agosto 2005, durante la fase di Induzione della chemioterapia, randomizzati in due gruppi. Gruppo A: diagnosi di ETEC sospettata per la presenza di segni e sintomi suggestivi, e confermata con AngioRM encefalo; gruppo B: pazienti sottoposti a valutazioni seriate con AngioRM encefalo in assenza di sintomatologia. Ipotizzata una frequenza di ETEC del 5% nel gruppo A e una frequenza maggiore nel gruppo B nella misura del 30% e considerata una potenza superiore al 60% e un livello di significatività del 95%, sono stati arruolati 23 pazienti per ogni gruppo. Tempi dello studio Induzione del protocollo LLA 2000. Nel gruppo B valutazioni AngioRM encefalo: esordio (T0), giorno +24 (T1), giorno +36 (T2), giorno +52(T3). Dosati all’esordio i complessi Trombina-Antitrombina (TAT), markers di attivazione protrombotica, per confrontare le caratteristiche dei due gruppi di pazienti. Dati espressi in mediana, minimo e massimo ed in percentuale e analizzati con test U di Mann-Whitney e test esatto di Fisher. Risultati Abbiamo arruolato 46 pazienti; 23 pazienti (15 M e 8 F) sono stati assegnati al gruppo A e 23 pazienti (14 M e 9 F) sono stati assegnati al gruppo B. I due gruppi non mostravano differenze significative per sesso, età, immunofenotipo LLA e valori dei TAT all’esordio. Abbiamo riscontrato un ETEC nel gruppo A e anche un ETEC nel gruppo B solamente però a seguito della comparsa di sintomatologia suggestiva. Conclusioni Il nostro studio pilota non ha evidenziato differenze significative nell’identificazione precoce di ETEC tra i due gruppi di pazienti e non sembra, quindi, suggerire l’esecuzione di valutazioni seriate mediante angioRM encefalo per la ricerca di ETEC asintomatici nei bambini in chemioterapia per LLA, durante la fase di induzione. Al contrario potrebbe essere utile sottoporre i pazienti a valutazione angioRM COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 331 encefalo a seguito della comparsa di sintomi e segni anche minimamente suggestivi di ETEC nelle fasi di chemioterapia in cui l’incidenza di tali complicanze è più alta, proprio come le fasi di induzione e reinduzione della chemioterapia, al fine di ottenere una diagnosi precoce. Il sospetto clinico sembra essere fondamentale per orientare la scelta di una appropriata valutazione strumentale. COMUNICAZIONI E POSTER 332 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA Studio epidemiologico di una casistica di linfoadenopatie afferenti all’U.O. di pediatria del P.O. di S. Cataldo dal gennaio 2001 al dicembre 2007 G. Tumminelli1, L. G. Tumminelli2, M. Tumminelli2, C. D’Aleo1, S. Attardo1 1 2 Operativa di Pediatria e Neonatologia Ospedale “Maddalena Raimondi” S. Cataldo ASSn°2 Università degli studi di Palermo Le linfoadenopatie sono frequenti nella pratica clinica. Queste vanno da forme banali, ai limiti con il fisiologico, fino a forme gravi e talvolta fatali, attraverso una vasta e polimorfa gamma di quadri clinici. Esse infatti interessano tutte le discipline della medicina. I meccanismi responsabili dell’aumento volumetrico dei linfonodi possono essere intrinseci o estrinseci al linfonodo stesso. I meccanismi intrinseci consistono nella proliferazione attiva di cellule normalmente residenti nel linfonodo proliferazione linfocitaria in risposta a stimoli antigenici(linfadeniti virali, fungine o protozoarie) proliferazione di linfociti correlata ad iperplasia linfoide primitiva(linfomi) proliferazione istiocitaria primitiva o secondaria alla captazione di sostanze prodotte in eccesso(tesaurismosi lipidiche e glicolipidiche) I meccanismi estrinseci sono dovuti alla colonizzazione ed infiltrazione dei linfonodi da parte di cellule non residenti: Infiltrazione di polimorfonucleati Infiltrazione di cellule leucemiche Infiltrazione di cellule tumorali metastatiche Per dare un giudizio sull’ingrandimento patologico di uno o più linfonodi, si deve fare riferimento a tre criteri fondamentali: dimensione, sede e semiologia, e si deve avere una conoscenza completa di tutte le possibili cause di adenomegalia. Una prima distinzione và fatta tra le linfoadenopatie isolate e quelle generalizzate. La maggioranza delle adeniti è rappresentata dalle forme infettive seguite dalla miscellanea quindi dalle forme reattive aspecifiche, dalle forme neoplastiche e infine dalle connettiviti. La conoscenza epidemiologica delle cause è utili per la formulazione di ipotesi diagnostiche. Metodi Allo scopo di poter fornire elementi epidemiologici utili ai fini di un inquadramento etiologico delle linfoadenopatie, abbiamo esaminato le cartelle cliniche dei pazienti ricoverati in regime di DH, dal gennaio 2001 al dicembre 2007, presso l’U.O di Pediatria dell’Ospedale Maddalena Raimondi, dell’azienda AUSL n°2, Caltanissetta. Sul totale di 3.697, i ricoverati con tale diagnosi sono stati 290, con un’incidenza pari all’5%. Risultati L’ età media dei pazienti esaminati è di 8 anni con un rapporto M:F=2:1. Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008 COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 333 La distribuzione in base all’età mostra un picco di prevalenza pari al 65% intorno ai 2-6 anni, seguito da una diminuzione pari al 21% intorno ai 7-10 anni, e una frequenza pari al 14% intorno agli 11 anni. Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008 Le stazioni linfonodali più frequentemente interessate sono: cervicali(75%), con un maggiore interessamento delle Latero-Cervicali; angolo-mandibolari(16%); e sotto-mandibolari(9%). Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008 La distribuzione in base all’etiologia mostra una prevalenza delle forme infettive(72%), di cui il 50% di natura batterica(Streptococco, Stafilococco etc) e il 22% di natura virale(EBN, CMV etc), seguite da forme in cui non è possibile individuare un agente patogeno (18%); nel 5% dei casi si è trattato di iperplasia reattiva aspecifica; nel 2% di Linfoma di Hodking, nell’1% di LLA e infine nel 2 % dei casi si è trattato di Artrite reumatoide giovanile. COMUNICAZIONI E POSTER 334 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA Fonte: Nostra elaborazione su cartelle cliniche; anni 2001-2008 Questi dati concordano con quelli riportati in letteratura. Per l’approccio diagnostico ci siamo basati su anamnesi, esame obiettivo, indagini bioumorali e strumentali e biopsia linfoghiandolare. Conclusioni Data la notevole eterogeneità delle cause responsabili di adenomegalia e l’elevata incidenza e gravità, fra queste, delle patologie neoplastiche, per formulare una esatta diagnosi è necessario ricorrere ad indagini di primo livello(emocromo- transaminasi- LDH- Ac specifici- rx torace ed ecografia addome), di secondo livello(emocultura- aspirato midollare- Ac anti organo e non organo specifici) ed ove queste non fossero in grado di dare un’indicazione diagnostica, si deve ricorrere all’esame bioptico. Bibliografia 1. Margileth M.A:, Classificazione delle cause di linfoadenopatia. Doctor pediatria 1995 (ott): 13-9 2. Leung AKC, Lane W, Robson M. Childhood cervical lymphadenopathy. J Pediatr Health Care 2004, 18:3-7 3. Vecchi V., Burnelli R:, Linfoadenopatia dell’infanzia: studio epidemiologico e approccio diagnosticoterapeutico. Pediatria e Neonatologia, Editeam, Bologna 1997 4. Bugio GR. Linfoadenopatia cervicale. Secondo metodologia di approccio e in cenni clinici. Area pediatrica 2001; 10:5-38 5. Epaud R, Fauroux B, Boule M, Clement A. Deseases of the lymphatic system in children. Rev Pneumol Clin 2003; 59: 7-15 6. Pession A, Burnelli R, Prete A. Malattia di Hodking. In: Ematologia e oncoematologia pediatrica(a cura di Burgio GR e Pession A). UTET Periodici, Milano 2000;161-8 7. Romano V, Di Benedetto V, Lo Nigro L, Bottino D, Di Cataldo A. Quando e perché biopsare un linfonodo nel bambino. Rivista Ped Siciliana 1997;52:227-234 COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 335 Ruolo della Serin- Proteasi HtrA1 nella proliferazione e differenziazione delle cellule di neuroblastoma G. Pecoraro Servizio di Oncologia Pediatrica, Seconda Università Degli Studi Di Napoli Introduzione Il neuroblastoma è un tumore solido caratteristico dell' età pediatrica che origina dalle cellule della cresta neurale e presenta caratteristiche cliniche e biologiche molto eterogenee. La proteina HtrA1 appartiene alla famiglia delle serin - proteasi HtrA che hanno un ruolo centrale nella proliferazione e nel differenziamento cellulare. Obiettivi Scopo della ricerca è stato quello di valutare la modulazione dell’espressione e della localizzazione di HtrA1 alla diagnosi in tessuti tumorali di bambini affetti da neuroblastoma per valutare l’eventuale coinvolgimento di tale proteina nella patogenesi e nella progressione del Neuroblastoma, per individuare nuovi fattori che potrebbero condizionare l’evoluzione di questa neoplasia che, per molti aspetti, rimane ancora variabile. Materiali e metodi In questo studio abbiamo effettuato un' analisi quantitativa e qualitativa dell’espressione e della localizzazione di HtrA1 in 60 tessuti tumorali derivanti da 50 bambini con neuroblastoma (NB) e 10 bambini con ganglioneuroblastoma (GNB) diagnosticati e trattati presso il Servizio di Oncologia Pediatrica della Seconda Università di Napoli. In accordo con le linee guida del sistema classificativo International Neuroblastoma Staging System, il nostro gruppo di osservazione risulta così costituito: 26 pazienti stadio I e II, 14 stadio III, 16 stadio IV e 4 pazienti stadio IVs. L'analisi quantitativa è stata effettuata mediante Western Blotting Assay mentre quella qualitativa è stata effettuata con immunoistochimica. Risultati L’ analisi quantitativa ha dimostrato che HtrA1 è espressa in 56/60 campioni (93, 3%) con livelli proteici bassi in 36/56 (64, 3%) e alti in 20/56 (35, 7 %). I livelli più alti sono stati individuati nei campioni appartenenti agli stadi I e II e IVs con 16/20 (80%). Al contrario, livelli più bassi sono stati individuati negli stadi III e IV (24/36 = 66.6%) con una differenza statisticamente significativa(p<0.05). Inoltre tutti I GNB esprimono (100%) alti livelli di HtrA1. L' analisi qualitativa ha evidenziato la presenza di HtrA1 nelle aree più differenziate, caratteristiche del ganglioneuroblastoma; al contrario, nelle aree indifferenziate del neuroblastoma la proteina è risultata scarsa o non valutabile. Conclusioni I nostri dati evidenziano che l’ iperespressione di HtrA1 nel neuroblastoma sembra essere associata alla differenziazione delle cellule maligne e ad una ridotta diffusione metastatica della neoplasia. HtrA1 potrebbe rappresentare, in aggiunta ai parametri prognostici noti, un nuovo elemento per individuare fenotipi meno aggressivi con importanti risvolti prognostico-terapeutici. COMUNICAZIONI E POSTER 336 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA Subcutaneous immunoglobulin (SCIG) nel trattamento della Sindrome di Wiskott Aldrich (S.W.A.): descrizione di un caso clinico N. Benincori1, G. Pingitore1, A.R. Bellomo1, M. Mottola2, L. Lombardozzi2, F. Paolini1 1 2 U.O.C Pediatria/Neonatologia Ospedale G.B.Grassi - Azienda USL Roma D Area delle Politiche del Farmaco Azienda USL Roma D La SWA è un raro disordine congenito legato al cromosoma X, classificata tra le immunodeficienze primitive combinate. L’incidenza della malattia è di 4 casi ogni 1.000.000 di neonati maschi e si può manifestare sin dalla nascita con segni di emorragia da piastrinopenia con micropiastrine, eczemi e infezioni ricorrenti. La prevenzione delle infezioni si ottiene con l’infusione regolare di immunoglobuline endovena ogni 3-4 settimane, associata a profilassi antibiotica; ma la terapia di elezione della SWA resta il trapianto di midollo osseo. Descriviamo il caso di un ragazzo di 13 anni, affetto da SWA severa, che ha manifestato nel corso dell’ultimo quinquennio 2-4 episodi/anno di infezioni basse vie respiratorie, un episodio di rinosinusite grave, ricorrenti infezioni virali tra cui molluscum contagiosum, varicella zoster, malattia erpetica a localizzazione facciale e cervico-scapolare con residua paralisi facciale periferica. Nell’ aprile 2008 il ragazzo ha presentato un episodio di artrite reumatoide trattata con alti dosaggi di corticosteroidi. Nel luglio 2008 si è iniziata la somministrazione di SCIG (Vivaglobulin), programmata per la ormai scarsa compliance del paziente alla somministrazione di immunoglobuline ev. Il nostro risulta essere il primo caso trattato in Italia con questa metodica. Le SCIG sono state somministrate settimanalmente alla dose di 100 mg/kg pari 0, 6 ml/kg, mediante due pompe infusionali contemporanee, alla velocità di 12 ml/h, per un volume massimo di 10 ml per luogo di inoculazione. Ogni volta venivano infusi 27 ml di prodotto attraverso tre siti di inoculazione, di cui 2 contemporanei ed uno successivo. Le prime 4 dosi sono state praticate in regime di Day Hospital (DH), le successive a domicilio con notevole gradimento del ragazzo. La tollerabilità è stata buona (solo lieve prurito alla seconda inoculazione), non si sono verificate emorragie nel sito di inoculazione, i livelli di IgG pre somministrazione, valutati dopo 3 mesi di utilizzazione delle SCIG, sono risultati maggiori rispetto a quelli raggiunti con le immunoglobuline endovena. Studi di letteratura internazionale confermano la sicurezza, la buona efficacia e la tollerabilità delle SCIG. Bibliografia 1. Nicolay u. et all.:” Health related quality of life and treatment satisfation in North American patients with primary immunodeficiency disease receving subcutaneous IgG self infusion at home”Journal of Clinical Immunology, 2006, Jan; 26(1):65-72 COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 337 Supplementazione di proteina C concentrato in pazienti oncologici pediatrici in corso di neutropenia febbrile V. Cecinati1, P. Giordano1, N. Santoro1, M. Grassi1, L. Brescia1, G.C. Del Vecchio1, M. Delvecchio2, F. De Leonardis1, D. De Mattia1 1 2 U.O. “F. Vecchio” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari U.O. “B. Trambusti” - Dipartimento di Biomedicina dell’Età Evolutiva - Università degli Studi di Bari Introduzione e obiettivi La neutropenia febbrile è una complicanza della chemioterapia utilizzata per la cura dei tumori infantili. Nel 50% dei pazienti neutropenici febbrili è presente una infezione occulta o dimostrata e in quest’ultimo caso è possibile parlare di sepsi. Uno stato di ipercoagulabilità è spesso presente in corso di sepsi. La proteina C attivata (PCa) svolge importanti ruoli nella modulazione della coagulazione. Diversi studi mostrano un severo deficit di PCa in corso di sepsi conclamata, correlato alla gravità dello stato settico, e l’efficacia della supplementazione con concentrati di proteina C nel ridurre la durata dello stato settico febbrile e nel migliorare l’outcome clinico di pazienti pediatrici settici. Scopo: confrontare la durata della febbre in neutropenia in pazienti oncologici pediatrici che hanno ricevuto supplementazione di proteina C concentrato (a valori di PCa < 60%) rispetto a pazienti cui non è stata somministrata perché non ancora disponibile. Materiali e Metodi: studio retrospettivo caso-controllo. Pazienti: bambini affetti da leucemia, trattati presso il nostro centro AIEOP, che presentavano neutropenia (< 500/mmc), febbre (> 38°C) e condizioni cliniche scadenti (torpore, tachicardia, dispnea) Risultati Arruolati 6 pazienti, età 11.1 (2.7-16.3) anni, e 6 controlli storici, età 4.7 (2.1-13.6) anni. I pazienti mostravano valori di PCa pari a 45.6% (29.7-58) e sono stati supplementati con proteina C concentrato. I controlli storici mostravano valori di PC a pari a 60% (21-78). In nessun caso le emocolture hanno permesso di isolare patogeni. La durata della febbre in neutropenia è stata di 4 giorni (3 - 5) nei pazienti e di 6 (3 - 9) nei controlli (p = 0.537). I pazienti hanno mostrato un miglioramento più rapido delle condizioni cliniche generali rispetto ai controlli. Conclusioni Sebbene di dimensioni molto limitate e con risultati non statisticamente significativi, lo studio sembra mostrare che la supplementazione con proteina C concentrato nei pazienti oncologici selezionati con i suddetti criteri, possa abbreviarne la durata della febbre in corso di neutropenia e migliorarne l’outcome clinico rispetto al gruppo controllo che mostrava, inoltre, un valore di PCa iniziale tendenzialmente maggiore rispetto al gruppo supplementato (60% vs 45.6%; p =0.177). COMUNICAZIONI E POSTER 338 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA TERAPIA COMBINATA IN PAZIENTI CON PORPORA TROMBOCITOPENICA IDIOPATICA M.A. Aurino, M. Amendolara, G. Attianese, R. Di Concilio, C. Di Filippo, G. D’Urzo, S. Mauriello, C. Romano, A. Stefanelli, G. Cappuccio, G. Amendola U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA) Introduzione La causa più comune di trombocitopenia in età pediatrica è la porpora trombocitopenia idiopatica (PTI). E’ una patologia che quasi sempre presenta una remissione spontanea entro sei mesi dall’esordio (PTI acuta). Talvolta però la piastrinopenia può persistere per un periodo superiore ai sei mesi con andamento ciclico e dimostrando una refrattarietà-dipendenza dal trattamento farmacologico (PTI cronica).Non ci sono evidenze che dimostrano che la terapia riesce a modificare la prognosi a lungo e breve termine ma bisogna intraprenderla quando si vuole indurre un aumento più rapido della conta piastrinica, un controllo della sintomatologia e quando il rischio di emorragie è importante. Il protocollo terapeutico prevede in prima istanza la somministrazione di IVIG(0.8gr/Kg/die) o, meno frequentemente, di cortisonici ev. ad alto dosaggio o di steroidi per os. Schemi terapeutici diversi sono stati utilizzati quando la clinica (grave sintomatologia associata ad importante diatesi emorragica) e/o la dipendenza refrattarietà lo impongono. La splenectomia non trova consenso in età pediatrica per i possibili rischi infettivi e trombotici che si possono verificare in seguito all’asportazione di questo organo. Scopo del lavoro Valutare l’efficacia e la tollerabilità di una terapia che si avvale dell’uso combinato di IVIG (400 mg/Kg/ die per 1g) e steroidi ev (metilprednisolone 30mg/Kg/die per 1 g) in pz che risultano refrattari alla terapia tradizionale. Materiali e metodi Sono stati studiati 6 pz (3M; 3F), età alla diagnosi 7-168 mesi (media 58.8 mesi) non responsivi alla terapia secondo protocollo. Tutti presentavano recidive dopo terapia con IVIG o cortisone a distanza di 15. In 5/6 pz è stato praticata anche terapia con Rituximab senza successo. Discussione 4/6 pz non hanno presentato più recidive né sintomatologia emorragica, e non richiedonopiù alcun trattamento ad un anno circa di distanza dall’inizio della terapia.In particolare sono andati in remissione parziale 3pz (PLT< 50.000 >150.000), 1 in remissione completa (PLT> 150.000). Gli altri 2 pazienti hanno presentato invece solo un allungamento dei tempi di recidiva e di comparsa della sintomatologia e manifestazioni emorragiche (>30 gg). Conclusioni La terapia combinata IVIG e corticosteroidi laddove non ha garantito la remissione completa o parziale ha consentito di allungare i tempi di recidiva e di controllare le manifestazioni emorragiche e la sintomatologia clinica in pz non controllati con la terapia tradizionale, consentendo di ridurre anche gli effetti collaterali dei farmaci e di evitare e/o procrastinare l’intervento di splenectomia. COMUNICAZIONI E POSTER EMATOLOGIA-ONCOLOGIA 339 Un caso di malattia di Castleman S. Mauriello, M. Amendolara, G. Attianese, M.A. Aurino, R. Di Concilio, C. Di Filippo, G. D’Urzo, C. Romano, A. Stefanelli, G. Cappuccio, G. Amendola U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA) Gli autori descrivono un caso di “malattia di Castleman o iperplasia linfoide angiofollicolare”. La malattia di Castleman è un raro disordine linfoproliferativo con prevalenza di meno di 1: 100. 000, caratterizzato da iperplasia linfoide angiofollicolare. Si conoscono 2 forme: - una localizzata più frequente e ad andamento benigno; - una forma multicentrica ad andamento aggressivo e potenzialmente fatale. L’eziologia non è nota, ma diversi studi confermano un ruolo del virus HHV8 responsabile del “sarcoma di Kaposi” soprattutto nella forma multicentrica. La diagnosi è istologica. Nella forma localizzata è necessaria una completa escissione chirurgica che risolve la patologia. Il paziente, veniva ricoverato a quattro mesi di vita, per processo respiratorio acuto. Durante la degenza veniva evidenziata linfoadenopatia sopraclaveare sinistra. L’ecografia confermava la presenza di multiple linfoadenomegalie tondeggianti ipoecogene, del diametro massimo di 22, 8 mm. L’ecografia dell’addome risultava nella norma senza interessamento di altri distretti linfoghiandolari. Negativi gli indici di flogosi e di lesione. Nella norma: emocromo, ed indagini virali. Data la persistenza della linfoadenopatia il paziente veniva quindi inviato al reparto di chirurgia pediatrica per la biopsia. L’esame morfologico mostrava “parenchima linfonodale sede di numerosi follicoli, con centri germinativi talora in regressione circondati da una spessa zona mantellare con aspetto a bulbo di cipolla, nelle aree interfollicolari, numerosi vasi iperplastici, eosinofili e sparsi blasti CD30+”. Tale reperto è compatibile con “malattia di Castleman “(tipo vascolare ialino). Sulla scorta di tale diagnosi il paziente praticava altre indagini, inclusa TAC total body che escludevano ulteriori localizzazioni di organi ;veniva quindi avviato di nuovo in chirurgia pediatrica per l’escissione completa del pacchetto linfoghiandolare. Da allora pratica controlli periodici clinici ematochimici ed ecografici per escludere nuove localizzazioni della malattia. COMUNICAZIONI E POSTER 340 EMATOLOGIA-ONCOLOGIA Una diagnosi difficile di Malattia di Hodgkin R. Di Concilio, M. Amendolara, G. Attianese, M.A. Aurino, C. Di Filippo, G. D’Urzo, S. Mauriello, C. Romano, A. Stefanelli, G. Cappuccio, G. Amendola U.O.C. Pediatria-TIN P.O. Umberto I Nocera Inferiore (SA) La tumefazione di un linfonodo costituisce un sintomo estremamente vario e può essere indotto da patologie sia benigne che maligne. Il decorso di una linfomegalia merita attenzione ed un approfondimento diagnostico quando l’anamnesi, le dimensioni, la persistenza e/o elementi clinici di allarme, locali o generali, persistono. Presentiamo un caso clinico per il quale l’attento monitoraggio, ed il vivo sospetto diagnostico, non suffragato dalle indagini condotte, ci ha consentito di assumere un corretto approccio diagnostico e terapeutico. E.C. è giunto alla nostra osservazione, nel luglio 2007, quartogenito maschio, di 15 anni di età, in apparente buona salute e con anamnesi familiare e personale negativa; da circa un mese presentava la comparsa di una tumefazione latero-cervicale sinistra isolata e nessun altro dato degno di rilievo. Dopo aver praticato esami ematochimici e strumentali, il paziente, per la persistenza della linfomegalia, veniva avviato all’esame bioptico che evidenziava una iperplasia linfoghiandolare di tipo misto. L’esame istologico oltre ad essere analizzato dal nostro laboratorio di anatomia patologica era stato anche inviato al centro di riferimento nazionale di Bologna che aveva confermato il referto. La persistenza della tumefazione linfonodale, in assenza di altri sintomi obiettivi, ci hanno indotto ad un monitoraggio attento mensile. Nel marzo 2008, nel corso del solito follow up, il paziente segnalava che da qualche giorno presentava febbricola e sudorazione con comparsa di nuovi elementi linfoghiandolari sempre in latero-cevicale sx. Si avviavano i controlli ematochimici e strumentali con esiti sovrapponibili ai precedenti ed una nuova biopsia il cui esito, questa volta, deponeva per diagnosi di “Linfoma di Hodgkin”. Il paziente, sottoposto a stadiazione (stadio II B), è stato avviato a trattamento chemioterapico secondo protocollo AIEOP LH 2004 ed attualmente è in buone condizioni di salute. La persistenza del quadro clinico, l’asimmetria senza segni colliquativi, l’insorgenza di sintomi precocemente riferiti ci hanno consentito di giungere correttamente alla diagnosi suggestiva fin dal primo approccio poichè l’identificazione precoce delle caratteristiche cliniche e biologiche rappresentano un fattore prognostico favorevole nelle malattie neoplastiche. ENDOCRINOLOGIA Momenti congressuali COMUNICAZIONI E POSTER 342 ENDOCRINOLOGIA ASCOLTARE PER COMPRENDERE E CURARE: L'ESPERIENZA DI UN CENTRO REGIONALE DI DIABETOLOGIA PEDIATICA E. Zito, G. Vortice, G. Cannavale, E. Mozzillo, M. Muselli, A. Franzese Dipartimento di Pediatria Università degli Studi di Napoli “Federico II” Nei bambini e adolescenti affetti da diabete mellito i processi psichici non possono essere ignorati da chi affronta l’approccio terapeutico. E’importante che s’instauri una stretta collaborazione tra team terapeutico e pazienti+famiglie che devono trovare una giusta motivazione. Le peculiarità dell'età evolutiva rendono ulteriormente difficile la gestione del diabete. Descriviamo la nostra esperienza come Centro di Riferimento Regionale per la Diabetologia Pediatrica dell’Università “Federico II” di Napoli nella realizzazione di un progetto di assistenza integrata per la cura del diabete. Dal Gennaio 2006, un team pluridisciplinare costituito da pediatri, psicologo, infermieri, dietisti ed assistente sociale utilizza un preciso programma di approccio centrato sull’ascolto, a partire dal primo incontro con il paziente e la sua famiglia. L'attività assistenziale medica prevede: un primo ricovero ospedaliero, di durata 1-2 settimane, per i pazienti di nuova diagnosi, per trattare l’emergenza, individuare il piano di insulinoterapia e fornire un'educazione alimentare e di management;; follow-up con day-hospital annuale e ambulatori trimestrali, eventuali successivi ricoveri in caso di scompenso glico-metabolico. Il sostegno psicologico prevede: un approccio esplorativo su tutte le nuove diagnosi, un servizio di accoglienza, ascolto ed informazione per pazienti e genitori attivo in ambulatorio; colloqui individuali di counselling breve e prolungato per casi di disagio. Nel diabete dell’età evolutiva la gestione terapeutica deve essere necessariamente individualizzata tenendo conto non solo degli aspetti clinici, ma anche di quelli emozionali e psicologici. Un approccio integrato sistematico può riuscire a migliorare significativamente la compliance al trattamento. COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 343 ASSOCIAZIONE DI PIASTRINOPENIA AUTOIMMUNE IN UN CASO DI DIABETE MELLITO TIPO 1 ALL’ESORDIO: PRIMA DESCRIZIONE DELLA LETTERATURA L. Russo, D. Iafusco, C. D’Elia, F. Casaburo, L. Troise, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Caso clinico Anna, 10 anni giunge alla nostra osservazione per la comparsa di petecchie ed ecchimosi spontanee agli arti inferiori e al tronco. A. familiare: nonna paterna tiroidite di Hashimoto; nonna e zie materne diabete di tipo 2; nega familiarità per coagulopatie. A. fisiologica: gravidanza normocondotta, nata a termine da parto distocico, peso alla nascita 2,700 kg. Accrescimento nella norma; allattamento materno; divezzo al V mese, alvo e diuresi regolari. A p. p.: negativa. E. O.: condizioni generali buone, peso 18 kg, apiressia; mucose rosee; numerose petechhie ed alcune ecchimosi di recente insorgenza agli arti inferiori, in regione glutea e mammaria sinistra. Obiettività cardio-toracica nella norma; addome trattabile e non dolente alla palpazione, organi ipocondriaci nei limiti. Assenza di linfoadenomegalia. Stadio puberale PH3 B3. Dagli esami praticati emergeva un quadro di piastrinopenia isolata, PLT 4000 mcL; inaspettatamente, però, la glicemia risultava 313 mg/dL. Elettroliti nella norma., Combur test: pH 6; ps 1010; chetoni - , glicosuria +++, sangue +. La madre negava poliuria, polidipsia, nicturia, calo ponderale. Si inizia per la piastrinopenia acuta ( Ig e. v. 400 mg/ kg/ die per 5 gg) e per l’iperglicemia ( in doppia via: reidratazione con soluzione fisiologica, glucosata, elettroliti ed insulina 0,05/ kg/ h modificata in base alle glicemie controllate ogni due ore secondo G. E .T. REM. modificato). Dagli esami emergeva : funzione epato- renale, profilo coagulativo, Ig sieriche e pattern autoanticorpale ( ANA, antiDNA, SMA) nella norma; profilo infettivologico negativo; HbA1c 11,9 mg/dl; tampone faringeo positivo per Streptococco beta emolitico ( gruppo A ). La piccola veniva dimessa in 5° giornata con 244000 PLT/mcL, con terapia domiciliare insulinica ed antibiotica. Conclusioni Presentiamo questo caso per la peculiare associazione tra piastrinopenia autoimmune (PTI) e DM. L’etiopatogenesi del DM, presumibilmente autoimmune, sarà chiarita con i risultati dei markers autoimmuni ( ICA, GAD, IA2 e IAA). Il DM, paradigma delle malattie Th1 mediate, si associa ad altre patologie autoimmuni Th1 ( tiroidite 14%, celiachia 6%, S. di Addison 1%, ecc.), per cui non ci sorprende che possa associarsi alla PTI anche se, per quanto di nostra conoscenza, esistono pochissime segnalazioni in merito. E’ probabile che la mancanza di sintomatologia del diabete sia dovuta alla precocità della diagnosi posta in maiera casuale per la contemporaneità tra le due patologie. COMUNICAZIONI E POSTER 344 ENDOCRINOLOGIA COSTANTE ADEGUAMENTO DELLA DIABETOLOGIA PEDIATRICA ALLA SOSTITUZIONE DEI PREPARATI INSULINICI:”CHANGING DIABETES” S. Confetto, D. Iafusco, A. Piscopo, F. Casaburo, A. Zanfardino, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Premesse Negli ultimi anni, per quanto riguarda i preparati insulinici in commercio, si sta assistendo ad un totale sovvertimento. Sono stati infatti introdotti analoghi rapidi, quali le Insuline Lispro (Humalog), Aspart (Novorapid), Glulisina (Apidra ). Queste insuline hanno una farmacocinetica più veloce rispetto a quella umana regolare, hanno come vantaggi un rapido assorbimento ed una riduzione del picco iperglicemico postprandiale, la riduzione delle ipoglicemie a distanza, la possibilità di somministrazione postprandiale regolando la dose sulla base dei carboidrati assunti; gli svantaggi sono la riduzione della insulinizzazione a distanza dalla somministrazione, per cui richiedono una buona insulinizzazione basale, il rischio di ipoglicemie precoci e, per i suddetti motivi,la necessità di un assiduo monitoraggio glicemico. Sono stati introdotti in commercio anche gli analoghi lenti Glargine(Lantus), che a pH neutro, come nel tessuto sottocutaneo,precipita in microcristalli che vengono assorbiti lentamente e la Detemir(Levemir)iii che nel tessuto sottocutaneo si lega all’albumina. Esistono, inoltre, delle miscele di Insulina ultrarapida ed intermedia in tutte le proporzioni, come la NovoMix 30, 50, 70; la Humalog Mix 25, 50. Il “Changing Diabetes” può essere datato nel Gennaio 2006, quando la maggiore azienda produttrice di insulina,la Novo Nordisk, ha ritirato dal commercio tutte le insuline umane lasciando solo gli analoghi. E’ stato allora che in Pediatria ci si è dovuti adattare, velocemente, alle nuove insuline inventando, per così dire, nuovi schemi terapeutici. Obiettivi Lo scopo di questo studio è quello di paragonare le terapie praticate nel Servizio di Diabetologia Pediatrica “G.Stoppoloni” prima e dopo il Changing Diabetes. Materiali e metodi Sono stati presi in considerazione 437 pazienti ( 228 Maschi; 209 Femmine) con età media di 16,5±4,7 anni ( range 5,4-23,35 ) ed almeno 2 anni di malattia. In tutti questi pazienti sono state confrontate le terapie insuliniche praticate nei mesi di Luglio-Settembre-Ottobre del 2006 con quelle praticate negli stessi mesi del 2007. Risultati 1. Prima del Changing Diabetes: Il 62% dei pazienti utilizzava le insuline umane secondo uno schema che prevedeva insulina Rapida a colazione; insulina Rapida + Intermedia a pranzo,l’uso di insulina Rapida a cena e di insulina Intermedia al Bed-Time. Il 13% utilizzava le miscele di insulina Regolare secondo uno schema che prevedeva l’uso di insulina Rapida a colazione,una miscela 50/50 a pranzo,una miscela 50/50 oppure 30/70 a cena. Il 22% utilizzava una terapia basal-bolus che prevedeva l’uso, in monosomministrazione, di insulina Glargine ( Lantus ) più boli di rapida in corrispondenza dei pasti. 2. Dopo il Changing Diabetes: Il 40% dei pazienti utilizzava le insuline umane secondo lo schema prima descritto. Il 18% utilizzava le miscele di analogo secondo uno schema che prevedeva l’uso di High Mix (miscele a prevalenza di analogo rapido) a colazione e a pranzo, una Low Mix (Miscele a prevalenza di analogo protaminato ) a cena. Il 41% dei pazienti utilizzava una terapia basal-bolus. Da tali dati, quindi, si evince che attualmente il numero di pazienti che adopera le insuline umane si è ridotto; il numero di pazienti che pratica la terapia basal-bolus è quasi raddoppiato; il numero di pazienti che adoperano le miscele è aumentato, considerando però che oggi si utilizzano miscele a base di Analogo rapido + Analogo protaminato, mentre prima si utilizzavano miscele a base di Regolare + Intermedia. Inoltre, andando a valutare i pazienti per fascia di età, si è visto che i pazienti di età compresa tra i 5 ed i 9 anni continuano a praticare, nella maggior parte dei casi, le insuline umane, utilizzano solo nel COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 345 9% dei casi le miscele, non utilizzano la terapia basal-bolus; i pazienti di età compresa tra i 13 ed i 15 anni hanno ridotto l’utilizzo delle insuline umane,che dal 79% sono passate al 52%; è aumentato l’utilizzo delle miscele e della terapia basal-bolus, soprattutto in pz che vogliono saltare lo spuntino e che richiedono una maggiore flessibilità degli orari dei pasti; inoltre in questa fascia di età si è avuto un aumento delle dosi insuliniche medie che sono passate da uno 0,9±0,20 UI/Kg ad un 1,02±0,27 UI/Kg. Questo significativo aumento,che è sicuramente dovuto al passaggio puberale,è massimo in quei pazienti che utilizzano le insuline umane mentre non riguarda i pazienti che utilizzano una terapia basal-bolus. I pazienti di età compresa tra i 18 ed i 20 anni hanno ridotto l’utilizzo delle insuline umane, dal 49% sono passate al 29%, hanno aumentato l’utilizzo dello schema basal-bolus, che dal 34% è passato al 56% ed utilizzano in ugual misura le miscele. I pazienti di età compresa tra i 22 ed i 25 anni hanno ridotto l’utilizzo delle insuline umane,che dal 51% sono passate al 30% ,mentre hanno aumentato l’utilizzo delle miscele,che dal 18% sono passate al 24%,e l’utilizzo della terapia basal-bolus che,passando dal 28% al 45%, è diventata la terapia maggiormente utilizzata. Conclusioni Il diabete e le insuline stanno cambiando, per cui si rende necessaria una ripersonalizzazione delle terapie insuliniche; pertanto i Pediatri Diabetologi stanno velocemente imparando a “creare” nuovi schemi terapeutici che prevedono l’utilizzo delle nuove insuline e che garantiscano, oltre al buon controllo metabolico, anche una buona qualità della vita. COMUNICAZIONI E POSTER 346 ENDOCRINOLOGIA DATI PRELIMINARI DEL PROGETTO PRISMA (RETE DIABETOLOGICA PEDIATRICA REGIONALE): ADOLESCENTI A RISHIO DI SINDROME METABOLICA NELLA POPOLAZIONE GENERALE S. Genovese, G.F. Mazzarella, L. Baldini, R. Rettura, P. Di Napoli, N. Racioppi, F. Castaldo, G. De Luca, P. Nanni Mancinelli, P. Miranda, G. Formisano, A. Federico, M. Izzo, G. Di Maio, V. Rinaldi, S. Perrotta, C. Di Matteo, M. Matarazzo, M.A. Iuorio, R. Petrenga, E. Ciarma, M.G. Di Nardi, O. D’Amico, F. Califano, G. Cupo, F. Cotugno, P. D’Ambrosio, D. Civitillo, D. Iafusco, A. Franzese, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Obiettivo La maggioranza degli studi pubblicati sulla prevalenza della Sindrome Metabolica (SM) in età adolescenziale riguardano popolazioni selezionate, afferenti o a centri di 2-3 livello o selezionati dai Pediatri di Famiglia. Inoltre sono spesso usate definizioni di SM diverse. Obiettivo del lavoro è stato quello di definire la prevalenza del rischio di SM e di alcune variabili associate in un campione rappresentativo della popolazione generale delle seconde classi delle scuole primarie di secondo grado nella regione Campania. Metodi E’ stato eseguito un campionamento del tipo Cluster Sampling Survey. La lista di campionamento è costituita da tutte le scuole pubbliche e paritarie della regione. L’ unità campionaria (grappolo) era la singola scuola. Dopo un breve studio pilota sono stati rilevati i parametri auxologici e la pressione arteriosa degli alunni; sono inoltre stati somministrati questionari sia ai genitori che agli alunni. Sono stati inviati ad eseguire indagini ematochimiche gli alunni che presentavano un BMI (CDC 200) > = 85 centile o una Circonferenza Addominale > = 90 centile. La definizione di Rischio di SM usata è stata quella suggerita recentemente dalla International Diabetes Federation (IDF) ovvero la presenza contemporanea di almeno 2 dei 5 segni previsti. Risultati Sono stati visitati 303 alunni, età media pari a 12 aa e 4 mesi. Maschi 140 (BMI mediano 22,2), femmine 123 (BMI mediano 21,1). Presentavano 0,1,2,3 segni della SM rispettivamente 261 alunni (86,1 %), 34 (11,2%), 6 (2%) e 2 (0,7%). I dati preliminari mostrano, dunque, che gli alunni che hanno presentato almeno 2 segni di SM sono stati 8 (2,7%). Conclusioni Tali risultati preliminari mostrano che la prevalenza degli adolescenti a rischio di SM nella popolazione generale di età pari a 12-13 anni sembrerebbe essere, utilizzando i recenti criteri suggeriti dalla IDF, inferiore a quella emersa da studi simili ma effettuati su popolazioni per vari motivi selezionate (Medicina di Famiglia o afferenti al 2-3 livello). COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 347 diabete mellito tipo 1: Retinopatia. Prevalenza DOPO 15 anni di Malattia T. Libondi1, D. Iafusco2, A. Piscopo2, V. Fierro2, R. Cricelli2, F. Prisco2 1 2 Seconda Università di Napoli Dipartimento di Oftalmogia Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Introduzione Nell'ambito delle complicanze del diabete mellito la retinopatia si colloca al primo posto e la sua prevalenza e severità sono strettamente correlate alla durata della malattia ed al grado del controllo metabolico. Gli studi sia precedenti che successivi al DCCT hanno dimostrato che, dopo circa 20 anni di malattia, un'alta percentuale di pazienti affetti da diabete mellito di tipo 1 e un certo numero di quelli con diabete mellito di tipo 2 possono sviluppare retinopatia. Dal punto di vista anatomo-palogico si riscontra un diffuso danno dei capillari retinici, a carico dei quali è possibile osservare ispessimento della membrana basale dell'endotelio, deposizione di materiale ialino e sclerosi della parete con perdite di periciti in numerosi tratti dei capillari. L'occlusione dei vasi e la loro aumentata permeabilità vengono ritenute, quindi, le principali vie patogenetiche delle alterazioni retiniche. Importanti fattori di rischio sono rappresentati da iperglicemia, ipertensione arteriosa, fumo di sigarette e dislipidemia. Le evidenze scientifiche oggi disponibili hanno dimostrato che, mediante programmi di screening e trattamento della retinopatia diabetica, è possibile ridurre drasticamente la cecità da diabete. La Retinopatia Diabetica è infatti la patologia per la cui prevenzione vi è il miglior rapporto costo beneficio. Obiettivo Lo scopo di questo studio è stato dunque quello di valutare la prevelenza di retinopatia in pazienti diabetici con una durata di malattia di almeno sedici anni (media 16,8 ± 0,4). Materiali e metodi Sono stati studiati 29 pazienti(14 M;15 F), diagnosticati nel 1991 con età alla diagnosi (aa) 8,4 ± 4,2. Per tale lavoro è stato utilizzato il retinografo KOWA, macchinario innovativo che ci ha permesso la valutazione più dettagliata del fondo oculare e la digitalizzazione delle immagini. Risultati Dalle retinografie effettuate è risultato che soltanto 2 pz. su 29 presentano lieve retinopatia diabetica. Conclusioni Tale studio ha quindi dimostrato che la prevalenza di retinopatia diabetica in pz. in terapia intensificata è sicuramente inferiore rispetto a quanto preventivamente dimostrato dalla letteratura. COMUNICAZIONI E POSTER 348 ENDOCRINOLOGIA EDUCAZIONE ALIMENTARE PER I BAMBINI E GLI ADOLESCENTI CON DIABETE MELLITO TIPO 1 F. Musella, D. Iafusco, C. Malmo, A. Folgore, G. Senatore, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Il diabete di tipo 1 è la malattia metabolica più diffusa in età pediatrica e si calcola che in Italia ne siano colpiti circa 200.000 bambini., è dovuto alla distruzione autoimmune delle cellule β-pancreatiche e riconosce fattori etiopatogenetici, sia genetici che acquisiti. Su un terreno geneticamente predisposto, un’aggressione infettiva o ambientale possono innescare un meccanismo autoimmune contro le cellule del pancreas che producono insulina. Il diabete di tipo 2 è dovuto, invece, a resistenza periferica all’azione dell’insulina; al contrario di quanto avviene negli adulti è molto meno frequente in pediatria; tuttavia, parallelamente all’incremento dell’obesità e della sedentarietà infantile, la sua prevalenza negli adolescenti sta aumentando in modo preoccupante persino nel nostro paese che precedentemente era famoso per la “dieta mediterranea”. La sintomatologia del diabete tipo 1 nel bambino, che spesso emerge dopo stress o infezioni, comporta più comunemente: perdita di peso (almeno nel 60% dei casi), nonostante l’appetito sia conservato, poliuria e polidipsia. La sintomatologia, invece, del diabete di tipo 2 nell’adolescente molto spesso è scarsa o manca del tutto. Si tratta di soggetti obesi che presentano una graduale iperglicemia e che arrivano alla diagnosi di solito per caso. La terapia del bambino con diabete di tipo 1 ha l’obiettivo di consentirgli una vita il più possibile simile a quella dei coetanei e prevede la terapia insulinica, un’alimentazione equilibrata e l’attività fisica. Nel diabete di tipo 2, invece, è sufficiente una corretta alimentazione che permetta al bambino di dimagrire e quindi di ridurre l’insulino-resistenza associato ad un incremento dell’esercizio fisico. Nel servizio di diabetologia pediatrica “G.Stoppoloni” abbiamo elaborato un piano educativo alimentare sia per bambini con diabete di tipo 1 che per bambini con diabete di tipo 2. Nel diabete di tipo 1 si evidenziano due fasi distinte: la prima è la diagnosi, durante la quale è necessario utilizzare una dieta personalizzata con precise indicazioni della grammatura degli alimenti e del tipo di cottura. Superata la fase diagnostica, bisogna fornire gli strumenti utili per modificare autonomamente il piano alimentare. La seconda fase, quindi, prevede il coinvolgimento dei genitori a cui fornire liste di scambio degli alimenti isocaloriche, isolipidiche, isoglicidiche. E’ questa anche la fase durante la quale insegnamo ai genitori la lettura delle tabelle nutrizionali e di conseguenza ad introdurre nel piano alimentare anche prodotti del commercio che per obbligo di legge devono apportare i valori nutrizionali sulla confezione. L’ esperienza nel servizio di diabetologia pediatrica ha apportato una modifica radicale della terapia del paziente con diabete di tipo 1 e soprattutto ha evidenziato l’importanza di un “team” composto dal medico, dal nutrizionista, da un infermiere e dallo psicologo per conoscere il paziente da un punto di vista bio-psico-sociale. Nei casi di diabete mellito tipo 2 i livelli d’insulina sono molto elevati sia in condizioni basali sia dopo stimolo. L’alimentazione nel diabete di tipo 2 ha un ruolo chiave in quanto, molto spesso, questi pazienti non sono trattati con insulina ma grazie ad un piano alimentare equilibrato ed alla conseguente riduzione del peso corporeo, la resistenza all’insulina diminuisce e di conseguenza è possibile “guarire” dalla patologia. Si tratta comunque di adolescenti obesi, con ridotta spesa energetica, con dislipidemie e in particolare ipertrigliceridemie ed ipercolesterolemia. In questi pazienti con un passato di disturbi alimentari, legati soprattutto ad un eccesso di alimenti ad alta densità calorica e poveri di fibre, è stato particolarmente importante insistere sulla regolarizzazione del loro piano alimentare integrato all’esercizio fisico, evitando in particolare gli alimenti ricchi di grassi saturi e di zucchero e mangiare abbastanza da coprire il 70% del fabbisogno energetico giornaliero. COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 349 Importante è la frequenza dei controlli: al fine di favorire il raggiungimento ed il mantenimento degli obiettivi nutrizionali. Sono richiesti almeno 3 - 4 incontri nei primi tre mesi e, successivamente, almeno 4 - 6 incontri/anno. Come per tutte le diete deve prevalere il buon senso puntando al raggiungimento del peso ideale in modo graduale. Nostro scopo è stato e sarà quello di educare il paziente diabetico ad una corretta alimentazione che possa poi essere mantenuta come sana abitudine nell’ambito del proprio stile di vita. COMUNICAZIONI E POSTER 350 ENDOCRINOLOGIA IL BAMBINO E LA SUA FAMIGLIA: UN’ALLEANZA FORTE PER VIVERE CON IL DIABETE,UNA MALATTIA DELL’INTERO SISTEMA FAMILIARE I. Nocerino, D. Iafusco, G. Griso, A. Piscopo, S. Guercio Nuzio, C. D’Elia, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria - Università Federico II, Dipartimento di Pediatria Il diabete altera l’equilibrio che la persona coinvolta ha raggiunto nella propria vita richiedendo ai piccoli pazienti e alle loro famiglie una continua autogestione e un chiaro senso di responsabilità. È necessario molta cura ed attenzione al controllo medico del diabete ma è altrettanto importante considerare che la rigidità delle regole e le eccessive ansie dei genitori possono creare non poche difficoltà di accettazione e di adattamento del bambino alla nuova condizione di “bambino con diabete”. È, sicuramente, vero che il principale attore in questa situazione è il bambino con le sue risorse e capacità, ma è altrettanto importante, se non fondamentale, il ruolo che la stessa famiglia svolge ed il modo in cui la malattia viene da loro vissuta. Attraverso gli occhi dei genitori che il bambino conosce il mondo, esperisce le gioie e i dolori. Come reagiscono i genitori? L’atteggiamento dei genitori, nei confronti del diabete, si riflette sulla capacità di accettazione o non della malattia da parte del bambino; infatti, se il genitore è incerto, insicuro e pauroso rischia di trasmettere le sue sensazioni al proprio figlio e di innescare un circolo improduttivo di pessimismo; se invece, il genitore ha fiducia nel buon adattamento del diabete e delle cure, può riuscire a trasferire questi aspetti positivi al bambino e fornirgli “iniezioni di sicurezza”. È importante, pertanto, che i genitori: SIANO SINCERI CON I PROPRI FIGLI I figli hanno bisogno di verità e di chiarezza per affrontare con coraggio e consapevolezza la loro patologia. Essa non deve essere nascosta ai propri figli ma rivelata con semplicità ed amore adeguandola alle capacità e alle competenze del bambino così da poterlo rassicurare sul loro amore per lui. NON NASCONDANO IL DIABETE Il rifiuto dei genitori di divulgare la diagnosi ai familiari più stretti o alle persone che popolano il mondo del proprio figlio (maestre, amici) determina nel bambino l’acquisizione di un atteggiamento di segretezza e di chiusura che, inevitabilmente, favorisce l’insorgenza della paura e del timore di essere giudicati solo per “il cattivo funzionamento” del proprio corpo piuttosto che per la loro personalità o per il proprio comportamento; ciò impedisce lo sviluppo dell’autostima, ostacolando e ritardando l’ingresso e integrazione nel gruppo dei pari. SIANO UNITI E COERENTI La migliore garanzia che i genitori possono offrire per favorire un buon adattamento e una chiara comprensione del diabete ai propri figli, è rappresentata da un’“unione serena e calorosa” basata sulla reciproca comprensione. Le difficoltà e le ansie legate alla gestione della patologia possono generare o intensificare ostilità o incomprensioni tra i coniugi o tra altri familiari che si riflettono sull’immagine che il bambino si è costruito di sé ossia di un bambino cattivo responsabile delle difficoltà e delle discordie familiari. SIANO CAPACI DI DIRE “HO SBAGLIATO E HO BISOGNO DI AIUTO!” È necessario capire che un buon genitore non è colui che non sbaglia o non commette errori, ma è colui che si assume le proprie responsabilità, che ammette di aver sbagliato, che chiede aiuto all’equipe diabetologia (medici, infermiere, psicologa) per affrontare la situazione, quando diventa insostenibile. NON SI ANNULLINO COME COPPIA È necessario che i genitori non si annullino come “coppia” per garantire al figlio tutto il sostegno necessario, per assicurare regolarità nei ritmi alimentari e regolare la somministrazione dell’insulina. La reazione dei genitori è quella di interrompere drasticamente le abitudini familiari per riorganizzare tutto COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 351 in funzione del diabete: molte mamme decidono di lasciare il lavoro nella convinzione che sia necessario una vicinanza fisica costante con il figlio; altri genitori passano intere notti in bianco accanto al letto del figlio o lo riportano a dormire nella loro camera. Un sereno e graduale adattamento del bambino al diabete può avvenire soltanto se c’è la convinzione e la consapevolezza che il proprio bambino non è diverso dagli altri perché ha diabete, ma è un bambino come tutti gli altri che non deve essere iperprotetto e accontentato in tutto per compensare le privazioni a cui è costretto. COMUNICAZIONI E POSTER 352 ENDOCRINOLOGIA OBESITÀ IN ETÀ EVOLUTIVA: MOTIVAZIONE PERSONALE E COMPLIANCE TERAPEUTICA M. Sticco1, O. Cavaliere1, V. D’Alessandro1, A. Caiazza1, G. Cannavale1, G. Valerio2, A. Franzese1 1 2 Dipartimento di Pediatria, Università Federico II Dipartimento di Studi delle Istituzioni e dei Servizi Territoriali, Università Parthenope, Napoli Il trattamento dell’obesità infantile è notoriamente gravato di alto numero di insuccessi e di drop-out. L’impegno sanitario al trattamento è scoraggiato dal frequente fallimento degli sforzi effettuati. Scopo Valutare se la motivazione personale del paziente costituisce un motivo di migliorata risposta al trattamento negli obesi in età evolutiva. Sono stati osservati longitudinalmente 126 bambini o adolescenti obesi pervenuti nell’ambulatorio del Dipartimento di Pediatria per obesità nel periodo 2005-2006, di cui 36 spinti da una motivazione personale (gruppo A, 37.9%) e 90 spinti da famiglia/scuola/medico di famiglia (Gruppo B, 62.1%). Veniva valutato il BMI z-score (CDC 2000) alla presentazione (tempo 0) e dopo 3, 6 e 12 mesi di follow-up. A tutti i soggetti veniva prescritta una dieta moderatamente ipocalorica e incremento dell’ attività fisica. Risultati I pazienti del gruppo A avevano un’ età significativamente più elevata di quelli del gruppo B (11, 41 ± 1, 67 anni vs 9, 75 ± 2, 33 anni p< 0.0001), erano in prevalenza di sesso femminile (58, 3% vs 41, 6%, p = 0.06), mentre non differivano per gravità di obesità alla presentazione iniziale (BMI z-score 2.17±0, 29 vs 2.31±0.49). Il drop out a 12 mesi riguardava il 63, 8 % nel gruppo A e l’ 83% nel gruppo B (p = 0.017); non vi erano differenze nelle percentuali tra i sessi (mediamente 80%), tranne che nei maschi del gruppo A dove era del 40%. I gruppi A e B avevano la stessa entità di calo ponderale a 12 mesi (Delta BMI z-score -0, 77±0, 29 vs -0, 66±0, 37). Conclusioni La motivazione personale del bambino e dell’adolescente con obesità potrebbe essere un elemento predittore di migliore riuscita del trattamento dell’obesità, come dimostrato dal minore numero di drop out a 12 mesi. Inizialmente sono più motivabili gli adolescenti e i soggetti di sesso femminile, anche se dopo un anno la minore percentuale di drop out riguarda i maschi. Bisognerebbe implementare nuove strategie per aumentare l’adesione al trattamento a lungo termine dell’ obesità in età evolutiva. COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 353 Prevalenza del Sovrappeso e dell’Obesità nei Bambini della II Infanzia. Indagine Multidistrettuale AUSL 6 Palermo G. Anzelmo1, R. Malandrino1, F.P. Volpe2, V. Cucinella1 et al 1 2 U.O.C. di Pediatria P.O. di Partinico Pediatria di Famiglia Prov. di.Palermo Premessa L’Obesità in Età Evolutiva, negli ultimi 25 anni, è notevolmente aumentata in tutto il mondo tanto da costituire,adesso, una Emergenza Socio-Sanitaria Pediatrica per l’aumento di bambini con quadri Dislipidemici,Steatosi Epatica,Sindrome Metabolica,NIDDM,Disturbi Psicosociali. Scopo dell’Indagine Valutare la prevalenza del sovrappeso e dell’obesità nei bambini della 2^ infanzia,in due classi d’età omogenee: 1° gruppo 3 anni +/- 6 mesi e 2°gruppo 6 anni +/- 6mesi (nati nel 2001) Materiali e Metodi Costituzione dell’Equipe: n.6 Pediatri Ospedalieri(Partinico,Termini Imerese,Petraia Sottana) e n.16 Pediatri di Famiglia operanti nell’AUSL 6 di Palermo Lettera di adesione alle Scuole ed ai genitori degli alunni della 1^ classe elementare Questionario sulle abitudini alimentari e sull’attività motoria dei bambini di 1^ elementare Rilevazione dei dati antropometrici (peso ed altezza) per i bambini di 3 anni +/- 6 mesi dal 7° Bilancio di Salute dei Pediatri di Famiglia , per i bambini di 6 anni +/- 6 mesi direttamente a scuola Strumenti e procedure per la rilevazione dei dati Statimetro, rigido o avvolgibile a parete, Bilancia aneroide,Abbigliamento dei bambini al momento della rilevazione del peso: canottiera, mutandine e calzini. Valutazione dei BMI con i Cut-off x età e sesso di Cole et al (BMJ 2000;320:1240-1243) Correzione dell’età cronologica bei bambini (+/-3mesi) L’indagine e stata condotta dal 15 Ottobre 2007 al 15 Dicembre 2007 in N. 7 Distretti Sanitari dell’AUSL 6 di Palermo (n 4 in Provincia e n.3 a Palermo), ed ha coinvolto n.23 Direzioni Didattiche o Istituti Comprensivi (n.19 in Provincia, n. 4 a Palermo) Risultati Sono stati valutati n. 854 (M.463 F.391) bambini di 3 anni +/- 6mesi e n.1.513 (M 806 F.707) bambini di 6 anni +/- 6 mesi con: - Bambini in Eccesso di Peso il 23,37% e Obesi l’8,08% (femmina 8.18% maschio 7.99%) a 3 anni - Bambini in Eccesso di Peso il 31,53%,e Obesi il 13,88% (femmina 14.71% maschio 13.15%) a 6 anni La prevalenza dell’Obesità a 6 anni è stata intorno al 14% in tutti i Distretti Sanitari ,con la percentuale più alta di bambini in Eccesso di Peso nel Distretto di Carini (36.41%) Dai dati ricavati dai 1.124 questionari compilati risulta che solo il 2% dei genitori è cosciente che il proprio bambino sia in eccesso di peso, che il 12% dei bambini non fa colazione,che il 98% fa lo spuntino e la merenda ed i il 90% non fa attività motoria libera o in palestra. Analisi dei dati La prevalenza del Sovrappeso e dell’Obesità riscontrata nel nostro territorio nei bambini di 3 anni di età è ancora più alta di quella riscontrata nel 2006 in una popolazione pediatrica del Salento da De Giovanni (L. De Giovanni et al Pediatria Preventiva e Sociale 2006) mentre viene confermato l’aumento esplosivo(>8 punti %) di bambini in eccesso ponderale nel passaggio dai 3 ai 6 anni di età. Ciò non può non chiamare in causa i pediatri ed i genitori, considerato che sino a questa età i bambini sono di esclusiva competenza COMUNICAZIONI E POSTER 354 ENDOCRINOLOGIA assistenziale pediatrica e l’Obesità è una malattia che nel 95% dei casi riconosce,come causa, un aumentato e squilibrato introito alimentare ed una ridotta attività fisica. Riflessioni E’ deontologicamente corretto pensare all’obesità come una malattia ed attivarsi per trovare gli strumenti per contenere adeguatamente questa epidemia.I pediatri e la famiglia genitoriale “allargata” dovrebbero avere le competenze e gli strumenti adeguati per agire con successo,in questa fascia d’età. E’ necessario che i pediatri continuino a seguire con attenzione l’alimentazione dei bambini,sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo,anche dopo il 1° anno di vita ,responsabilizzando adeguatamente sia i genitori che i nonni e che la condizione di Sovrappeso o di Obesità venga rilevata e segnalata,dai Pediatri Ospedalieri,come diagnosi secondaria,nei bambini ricoverati per altra patologia al fine di accrescerne la consapevolezza nei genitori e nei medici di famiglia. COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 355 Sindrome autoimmune polighiandolare tipo II: descrizione di un caso clinico A. D’Apuzzo1, G. Miranda1, A. Miranda1, R. Coppola2 1 Clinica S.Lucia S.Giuseppe Vesuviano Università Campus Biomedico - Roma 2 La malattia di Addison è un’insufficienza surrenalica di varia eziologia, caratterizzata nella forma acuta da un quadro di schok e nella forma cronica da astenia, anoressia, alterazioni elettrolitiche (iposodiemia, iperkaliemia) ed iperpigmentazione cutanea. La sua prevalenza sarebbe di 6 casi per 100000 abitanti, di cui circa 4 della forma idiopatica. La distruzione primitiva della corteccia surrenalica è una delle cause più frequenti di insufficienza in età pediatrica. La distruzione autoimmunitaria della ghiandola è la causa più frequente, essendo divenute le lesioni tubercolari molto meno frequenti. Nella maggior parte dei casi, sono reperibili anticorpi citoplasmatici anti-surrene, immunoglobuline bloccanti l’ACTH, e spesso sono presenti autoanticorpi anti 21-idrossilasi. La pz. A.B., di anni 16, affetta da ipotiroidismo e in trattamento con levotiroxina, viene alla n/s osservazione con un’anamnesi di astenia e stanchezza protratte; da qualche mese riduzione dell’appetito e del flusso mestruale. E.O.: Condizioni generali discrete, magra, la paziente riferisce della comparsa di numerose aree di iperpigmentazione cutanea da aver alterato il suo aspetto fi sico, nonostante si fosse esposta al sole raramente. Lamenta inoltre malessere, indifferenza comportamentale, perdita dell’affettività, calo ponderale e ipotensione posturale e desiderio insaziabile di sale da circa 1 anno, e sintomi di ipoglicemia (sudorazione e tremori). Esami significativi: Iposodiemia, iperkaliemia ed ipocloremia e ipoglicemia..Nel sospetto di insufficienza surrenalica si dosano i corticosteroidi prima e dopo il test di stimolo con ACTH (250 ùg di ACTH 1-24 in bolo rapido endovena), che non è in grado di aumentare il tasso degli steroidi. Si ha inoltre diminuita escrezione dei 17 ketosteroidi e 17OH corticoidi, bassi valori di aldosterone, aumento di TSH, presenza di anticorpi anti-treoglobulina e anti-perossisomi.. Nella norma l’eco addome, anticorpi antiendomisio e antitransglutaminasi, gli indici infiammatori, la calprotectina fecale, EKG, Ecocardio, reazione alla Mantoux. Assente la ricerca di sostanze tossiche nelle urine. Il morbo di Addison riconosce una patogenesi autoimmune, e va distinto dalla sindrome depressiva, dall’uso di droghe, dalla celiachia, infezioni croniche, malattie infiammatorie croniche intestinali,, diabete mellito, neoplasie. La malattia di Addison si associa alla alla candidosi mucocutanea cronica, celiachia, ipoparatiroidismo, nell’ambito della sindrome poliendocrina tipo1 a trasmissione A.R. il cui gene è stato isolato sul cromosoma 21, e alla tireopatia, celiachia e diabete mellito nella sindrome poliendocrina tipo 2. L’Addison nei maschi va differenziato dalla forma attenuata di Adrenoleucodistrofia, forma recessiva legata all’X, a espressione in età adolescenziale e adulta, che per anni si può manifestare con sola insufficienza surrenalica, e successivamente compaiono i segni neurologici. La paziente inizia terapia con glicocorticoidi, mineralcorticoidi, tiroxina. Un successivo controllo a distanza di qualche anno evidenzia una iperglicemia con positività degli anticorpi anti-insula, antibetacellule pancreatiche. Si ricercano gli anticorpi antisurrene e anti 21-idrossilasi, che risultano positivi, Si pone pertanto diagnosi di Sindrome autoimmune polighiandolare tipo II. COMUNICAZIONI E POSTER 356 ENDOCRINOLOGIA STATURA E INSULINO-RESISTENZA IN BAMBINI CON OBESITÀ AD ESORDIO PRECOCE G. Valerio1, O. Cavaliere, MR Licenziati3, G. Vortice, A. Caiazza, A. Franzese2 1 Dipartimento di Studi delle Istituzioni e dei Servizi Territoriali, Università Parthenope, Napoli Dipartimento di Pediatria, Università Federico II Napoli 3 AORN Cardarelli, Napoli 2 L’alta statura, sia essa assoluta o relativa al potenziale genetico, è un carattere frequentemente associato all’obesità pediatrica. Ciò potrebbe essere spiegato dall’aumento delle concentrazioni della forma libera di IGF-1, secondario all’ iperinsulinismo. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di valutare le relazioni tra statura, eccesso ponderale e insulino-resistenza in bambini con obesità precoce. I dati antropometrici (peso, altezza, BMI, circonferenza vita) e l’ HOMA-IR (glicemia x insulina/22.5) utilizzato come indice di insulino-resistenza sono stati valutati in 88 bambini (36 maschi) con obesità precoce (BMI > 95° percentile, età media di 5.8 anni, range 1.5-10 anni; durata di obesità 3.5 ± 1.8 anni), reclutati presso il Dipartimento di Pediatria, Università Federico II, Napoli. Altezza e BMI sono stati trasformati in z-score secondo i parametri di riferimento del CDC 2000. Sessantanove bambini (78.4%) avevano obesità severa (z BMI > 2.5); 21 bambini (24%) presentavano alta statura (z Altezza > 2 SD); 27 bambini (30.7%) presentavano insulino-resistenza (HOMA-IR > 2.5). I dati antropometrici sono stati confrontati tra bambini insulino-resistenti (IR) e non insulino-resistenti (NIR). I risultati sono mostrati in tabella. Lo z score dell’ altezza correlava con lo z BMI (r = 0.198, p = 0.025) e con la circonferenza vita (r 0.367, p = 0.0001), mentre l’ HOMA-IR correlava positivamente con lo z-BMI (r 0.245, p = 0.024), z altezza (r = 0.244 p = 0.024) (analisi della correlazione parziale, controllando per età e sesso). In un modello di regressione multipla, l’ HOMA-IR era indipendentemente influenzato da sesso, età, z altezza e zBMI (r2 = 0.283, r2 corretto 0.248). In conclusione, una maggiore crescita staturale contraddistingue i bambini prepuberi obesi con insulinoresistenza. Insieme con l’età, il sesso e la severità dell’ eccesso ponderale essa è un predittore indipendente di insulino-resistenza. COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 357 STUDI DELLA PREVALENZA-CONCORDANZA DEL DAIBETE MELLITO TIPO 1 IN COPPIE DI GEMELLI ITALIANI: REGISTRO ITALIANO GEMELLI A. Piscopo, D. Iafusco, F. Casaburo, L. Russo, L. Nisticò, M.A. Stazi, R. Cotichini, A. Galderisi, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Obiettivi Valutare il contributo dei fattori ambientali e genetici allo sviluppo del Diabete Mellito tipo 1 (DMT1) attraverso lo studio della concordanza/discordanza di malattie in coppie di gemelli reclutati attraverso registro nazionale. Disegno I gemelli sono una risorsa unica per la ricerca medica nell’analisi delle possibili cause di numerose patologie, infatti una concordanza di malattia nelle coppie monozigoti maggiore rispetto ai dizigoti, ci porta alla definizione di una patologia prevalentemente genetica mentre un tasso di concordanza uguale nei due gruppi orienta verso una maggiore influenza di fattori ambientali. Diversi sono gli studi in merito, ma fino ad oggi mancava, in letteratura, il dato italiano. Popolazione: 13 coppie di gemelli MZ e 24 DZ, almeno uno dei membri delle coppie è affetto da DMT1. Metodi: Uno dei bias più frequenti negli studi sui gemelli è l’errore di selezione del campione, per cui, affidandosi alla memoria dei curanti, si rischia di includere prevalentemente gemelli in cui entrambi i membri della coppia siano malati. Una selezione attraverso registro evita tale possibile errore. Nell’ambito del Gruppo di Studio sul Diabete della SIEDP abbiamo richiesto a tutti i Centri di Diabetologia ed Endocrinologia Pediatrica italiani gli elenchi completi dei loro pazienti, abbiamo poi confrontato i loro codici fiscali con l’anagrafe del registro nazionale gemelli presso l’Istituto Superiore di Sanità, ottenendo coloro che “probabilmente” avevano un gemello. I singoli centri hanno poi verificato il dato confermando la gemellarità. Materiali e metodi Dopo aver ricevuto il consenso informato dei partecipanti, entrambi i gemelli hanno compilato un questionario, volto ad analizzare le caratteristiche dei componenti della coppia (somiglianza, ordine di nascita, peso alla nascita, gruppo sanguigno), la data d’esordio di DMT1 e la presenza di altre patologie autoimmuni associate (celiachia, Crohn, Graves, Hashimoto, LES, anemia perniciosa, psoriasi, vitiligine, RCU, AR, SM, vitiligine, corea di Huntington). La valutazione della zigosità e lo studio di prevalenza degli alleli HLA più comunemente associati al DMT1 saranno effettuati con l’analisi del DNA ottenuto da un campione di saliva di entrambi i membri della coppia (EngOrageneKit). Risultati Concordanza nei MZ 30,7%; nei DZ 4,1%. Intervallo esordio di malattia nei MZ da 34gg a 1903gg. Nei gemelli discordanti per malattia non c’è una differenza di peso alla nascita (p=0,347). Nei gemelli concordanti per malattia non c’è una differenza di peso alla nascita tra chi ammala prima e dopo (p=0,8) Tra tutti i gemelli, concordanti e discordanti per diabete non c’è mai concordanza per altre patologie autoimmuni. Discussione I nostri dati concordano con i tassi di concordanza osservati in letteratura (0% e 3,8% nei dizigoti e 21% e 70% nei monozigoti). La valutazione della concordanza nei MZ e nei DZ ci permette di fornire un ulteriore dato per la definizione eziologica del DMT1, un orientamento alla ricerca epidemiologica dei fattori di rischio e all’analisi genetica. Nonostante negli ultimi anni, per un sempre maggior numero di casi di diabete in età pediatrica si sia individuata una eziologia genetica e un pattern di trasmissione ben definiti, il DMT1 a eziologia sconosciuta resta la forma più frequente di diabete in questa popolazione. Ribadiamo, comunque, alla luce della esperienza clinica e dei numerosi dati di letteratura che per il DMT1 COMUNICAZIONI E POSTER 358 ENDOCRINOLOGIA non si può parlare di ereditarietà ma di vulnerabilità, e sarà prezioso nel colloquio clinico poter fornire al paziente la stima della probabilità di trasmettere la malattia. (studio realizzato con la Collaborazione dell’Istituto Superiore di Sanità Prof. A.Stazi, dr.L.Nisticò, dr.R.Cotichini e del Gruppo di Studio sul Diabete della SIEDP, Coordinatore dr. D.Iafusco). COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 359 Telarca precoce isolato, follow-up di una coorte A. D’Apuzzo, G. Miranda, A. Miranda Clinica S.Lucia S.Giuseppe Vesuviano Il telarca precoce isolato è un’entità clinica relativamente frequente in pediatria. E’ un fenomeno benigno che va differenziato dalla pubertà precoce. Abbiamo seguito una coorte di 10 bambini affetti da telarca prematuro. Nel 75% dei casi la tumefazione mammaria compariva prima dei due anni. Nel 20% dei casi nel periodo neonatale. Lo sviluppo mammario nella maggior parte dei casi era bilaterale e simmetrico e non si accompagnava a distanza di anni a pubarca precoce, né ad età ossea avanzata. I valori sierici delle gonadotropine e del deidroepiandrosterone erano di tipo prepubere, i valori dell’estradiolo inizialmente erano aumentati per decrescere successivamente. La sequenza degli eventi che caratterizzano il normale sviluppo puberale sia nel maschio sia nella femmina è ben documentato, nella femmina, il primo segno visibile dell’attivazione dell’asse ipotalamoipofisi-ovaio e della secrezione gonadica di estrogeni è la comparsa del bottone mammario (telarca), che si realizza normalmente tra i 10 anni e mezzo e gli 11 anni. La comparsa del pelo pubico (pubarca) e ascellare(axillarca) è dovuta invece alla secrezione di androgeni da parte del surrene. Questo fenomeno, definito adrenarca, spesso precede o comunque accompagna lo sviluppo puberale ma non è espressione di attivazione gonadica e ha luogo normalmente tra i 6 e gli 8 anni. Esiste un ampio range di variabilità individuale con cui possono comparire e sviluppare i vari caratteri sessuali secondari. In presenza di una bambina con segni di sviluppo precoce, bisogna distinguere tra un ampio spettro di manifestazioni che vanno da condizioni benigne e transitorie, come il telarca prematuro alla pubertà precoce. Poiché nella pubertà normale non tutti i caratteri sessuali maturano nello stesso tempo, quindi il telarca potrebbe rappresentare solo il primo segno di un completo processo di sviluppo puberale. L’anamnesi, la valutazione clinica e il riscontro di una maturazione ossea non avanzata ci indirizzeranno verso il carattere non evolutivo della manifestazione e un monitoraggio clinico nei 6-12 mesi successivi sarà sufficiente a confermare la diagnosi. Le cause del telarca prematuro includono un’attivazione parziale dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, un deficit dell’involuzione follicolare, disturbi che producono estrogeni quali la sindrome di McCune-Albright o i tumori secernenti estrogeni, e l’esposizione a estrogeni esogeni. Le condizioni che possono apparire simili allo sviluppo del seno includono anomalie al seno congenite, neurofibromi, sarcomi, cisti da inclusione epiteliale, estasia duttale e mastite. COMUNICAZIONI E POSTER 360 ENDOCRINOLOGIA UN NUOVO PARAMETRO DIAGNOSTICO E PROGNOSTICO: LA POSOLOGIA INSULINICA TOTALE ( PIT ) ENDOVENOSA ALL’ESORDIO NEL DIABETE MELLITO TIPO1 F. Casaburo, D. Iafusco, A. Piscopo, L. Russo, C. Pelliccia, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Premesse Tutti i pazienti che giungono in chetoacidosi presso il Servizio di Diabetologia pediatrica G. Stoppoloni, vengono trattati secondo il protocollo G.E.T.REM.( Glucose Evaluation Trial REMission ) che prevede la somministrazione contemporanea, per via endovenosa, di liquidi (soluzione fisiologica per glicemia superiori a 250 mg/dl; soluzione glucosata al 10% per glicemia inferiori a 250 mg/dl con chetoni e soluzione glucosata al 5% per glicemia inferiori a 250 mg/dl senza chetoni + potassio) tramite l’utilizzo di una macropompa e di insulina rapida tramite una micropompa.1 La velocità di infusione dell’insulina varia a seconda dei valori glicemici riscontrati ogni ora per le prime 4 ore e ogni due ore successivamente. Questo tipo di reidratazione lenta comporta un netto miglioramento delle condizioni cliniche del paziente e consta di due fasi: una prima, di durata variabile,che va dal ricovero fino alla normalizzazione della chetonemia; ed una seconda fase, immediatamente successiva, che dura 72 ore.2 Obiettivi L’obiettivo del nostro studio è stato quello di correlare la PIT con la gravità dello squilibrio metabolico all’esordio e con la prognosi metabolica nei primi due anni successivi alla diagnosi. Materiali e metodi E’ stato individuato ed utilizzato un parametro, definito Posologia Insulinica Totale ( PIT ) che rappresenta la quantità di insulina somministrata durante l’intera durata del protocollo G.E.T.REM. ed è espressa in UI/ Kg/h. Sono stati presi in considerazione 69 pazienti con diabete tipo 1 neodiagnosticato tra il 31/12/2004 e il 1/1/2006, non pre-trattati presso altre strutture e con all’esordio un grado variabile di compromissione metabolica, dalla sola iperglicemia alla chetoacidosi grave; la loro età media era di 8,8+3,4 anni ( range 1,9-16,1 anni ) e la HbA1c all’esordio media era di 10,9+1,8 % ( range 6,8-14 % ) . Di ciascun paziente è stata calcolata la PIT, quindi è stata misurata la mediana di tali valori ( 0,0379 UI/Kg/h ), in base alla quale i pazienti sono stati divisi in due gruppi, con maggiore o minore fabbisogno insulinico. Tenendo sempre presente tale suddivisione, la PIT è stata poi correlata a vari parametri dell’esordio ed oltre. Risultati La PIT si è rivelata correlata in maniera statisticamente significativa con la chetonemia all’esordio ( p=0,00001), con la glicemia all’esordio (p=0,00001),con la glicemia media delle prime 24 ore (p=0,00001) ( Figg. 1, 2, 3 ). Nei pazienti con esordio meno grave, inoltre, la dose insulinica necessaria a mantenere il controllo metabolico è significativamente inferiore all’esordio e si mantiene tale per i almeno i primi due anni di malattia ( Fig. 4 ). Conclusioni La PIT può essere considerato un parametro correlato con la gravità all’esordio e con i primi 15 mesi di malattia. COMUNICAZIONI E POSTER ENDOCRINOLOGIA 361 UNA NUOVA FORMA DI DIABETE NON AUTOIMMUNE IN ETA’ PEDIATRICA: IL DIABETE DA MUTAZIONE DEL GENE DELL’INSULINA C. Gemma, D. Iafusco, S. Guercio Nuzio, L. Russo, F. Pisani, F. Prisco Seconda Università di Napoli, Dipartimento di Pediatria Premessa Il diabete mellito neonatale è una condizione metabolica rara (1: 400000–1:500000 neonati), caratterizzata da iperglicemia, per difetto della funzione e/o della quantità delle β-cellule pancreatiche, che insorge entro il primo mese di vita, richiede terapia insulinica e ha durata superiore a due settimane. Si distinguono due varianti cliniche: il diabete neonatale transitorio (che rappresenta il 50-60% dei casi di Diabete Neonatale e necessita di terapia insulinica per un periodo massimo di 540 giorni) e il diabete neonatale permanente (che non va incontro a remissione). Sono stati descritti diversi casi di diabete neonatale transitorioricorrente, nei quali si è verificata la ripresa della malattia dopo un periodo più o meno lungo di benessere: la ricorrenza si verificherebbe in circa il 40% dei casi di diabete neonatale transitorio. Nonostante tale definizione, nelle varie casistiche descritte in letteratura sono diversi i casi “etichettati” come diabete neonatale ed esorditi oltre tale periodo suggerendo, pertanto, la definizione di diabete early-onset. Se alla definizione temporale vogliamo sostituirne una patogenetica, il cut-off tra la maggioranza di casi di diabete non autoimmune ad insorgenza precoce e i primi casi di diabete autoimmune può essere portato a sei mesi di vita. Il PNDM è geneticamente più eterogeneo ed è associato a mutazioni in 8 geni differenti (IPF-1, EIF2AK3, GCK, FOXP3, KCNJ11, PTF1A, ABCC8, GLIS3). Mutazioni della subunità Kir6.2, codificata dal gene KCNJ11, sono responsabili da un terzo a metà dei casi di PNDM nella razza caucasica. Le mutazioni dominanti di ABCC8 ammontano al 7-12% dei casi di diabete. I pazienti con PNDM hanno bisogno di terapia insulinica ma quelli con mutazioni di KCNJ11 e ABCC8 possono essere trattati con successo con sulfaniluree. Obiettivi In quasi la metà dei casi documentati in Italia le cause genetiche restano sconosciute: la popolazione di 37 pazienti della coorte italiana con diabete “early-onset” presentava in 19 casi mutazioni di KCNJ11 e in uno mutazione di ABCC8. Sulla base di tale premessa, il Gruppo di Studio del Diabete della SIEDP ha intrapreso negli anni scorsi uno studio genetico, immunologico e metabolico in quei pazienti ancora senza diagnosi allo scopo di verificare ulteriori caratteristiche patogenetiche responsabili per l’insorgenza precoce del diabete mellito. Metodi Considerando alcune caratteristiche metaboliche, come il livello di C-peptide al tempo della diagnosi sorprendentemente alto in uno di questi pazienti, si sono trovate alcune analogie con l’IPERINSULINEMIA FAMILIARE, causata da mutazioni puntiformi nelle sequenze codificanti la proinsulina. Si è allora ipotizzato che mutazioni del gene dell’insulina potessero dar vita ad alcune forme di diabete mellito ad esordio precoce e si è sequenziato il gene Ins di questi pazienti con PNDM da mutazioni sconosciute. Risultati. I genetisti del gruppo di studio sul Diabete Mellito Early-onset della SIEDP hanno identificato 7 mutazioni eterozigoti del gene Ins in 10 probandi con diabete early-onset. In tutte, tranne 2 famiglie, la mutazione è originata de novo. Tutti i pazienti erano nati da gravidanza normocondotta: in 9/10 il peso alla nascita era vicino alla norma. Questo riscontro era in netto contrasto con il peso alla nascita di pazienti con mutazioni KCNJ11 (2,455 +/- 370 g). Se i pazienti erano stati ricoverati in ospedale per iperglicemia con chetosi. Al tempo della diagnosi il C-peptide era identificabile in 8 su 10. La diagnosi di diabete nei pazienti con mutazioni di INS può presentarsi dopo il sesto mese di vita. Gli studi di traduzione supportano l’ipotesi che le mutazioni del gene Ins riportate nei pazienti con PNDM causano misfolding proteotossico della proinsulina (cattivo avvolgimento), con ingorgo del RE delle β-cellule e attivazione di segnali apoptotici a valle: le proinsuline mutanti, oltre alla perdita di funzione, COMUNICAZIONI E POSTER 362 ENDOCRINOLOGIA possono anche compromettere la vitalità delle β-cellule (aumento di funzione tossica). Conclusioni Le mutazioni del gene INS sono la seconda causa (10 di 37) dopo le mutazioni attivanti di KCNJ11 (19 di 37). I bambini con mutazione del gene INS possono presentarsi clinicamente come i pazienti con diabete tipo 1. Ciò è particolarmente interessante, visto che l'età della diagnosi del diabete tipo 1 è diminuita nel corso degli anni, con molte diagnosi prima o attorno ai 4 anni di età, mettendo in evidenza la necessità di conoscere lo stato dei markers autoimmuni. Proponiamo di sostituire il termine PNDM con quello di DIABETE MONOGENICO DELL’INFANZIA, definizione più ampia che può includere ogni forma di diabete – permanente o transitoria – riflettendo sulla consapevolezza che l’esordio dell’iperglicemia si estende, a volte, ben oltre il periodo neonatale, esordendo durante il primo anno di vita e riconoscendo come causa il difetto di un singolo gene. Inoltre, una migliore comprensione dei meccanismi che portano a disfunzione delle β-cellule in pazienti con diabete causato da una mutazione del gene INS sarà fondamentale per definire nuove terapie, soprattutto se si considera la possibilità di aumentare la secrezione di insulina attraverso l’upregulating del normale allele del gene INS. EPIDEMIOLOGIA Momenti congressuali COMUNICAZIONI E POSTER 364 EPIDEMIOLOGIA Analisi dei flussi al P.S. - Ospedale Santobono nel primo semestre 2008 A. Ciao, B. Borrelli, C. Ciao, V. Tipo, E.M. Laurito AORN Santobono Napoli Scopo del lavoro è individuare le attuali problematiche organizzative e comportamentali prospettando le soluzioni a migliorare la qualità del servizio stesso. Nel nostro studio sono state presi in considerazione diversi indicatori quali età, sesso, provenienza geografica dell’utenza, tipologia della patologia osservata, andamento temporale dei flussi, percentuale di ricovero nonchè l’interfaccia con i diversi servizi territoriali. Il P.S. dell’ospedale Santobono per la sua localizzazione ma soprattutto per la sua decennale precipua attività pediatrica e tipologia, ovvero presenza nel suo ambito di uu.oo.specialistiche, ha un numero annuale di accessi superiore ai 70.000, la maggior parte dei quali di interesse pediatrico. Tale trend si è confermato anche nel semestre in esame dove il numero di accessi è stato di 36420 di cui 26.870 dedicati esclusivamente all’area pediatrica. L’età maggiormente rappresentata era compresa tra 0 e 5 anni con prevalenza, anche se di poco, del sesso femminile (56%). Per quanto riguarda la provenienza geografica dell’utenza circa il 44% era metropolitana mentre il 50% della provincia ed infine il 6% apparteneva a popolazione di altre province campane. Le patologie più frequenti riscontrate erano a carico dell’apparato respiratorio (41%), dell’apparato digerente (32%), dermatologiche (16%), altre (11%). Analizzando, poi, l’affluenza settimanale si evidenziava un notevole incremento di prestazioni nel week end rispetto a quella nei giorni infrasettimanali nonché una distribuzione giornaliera bimodale con picchi a fine mattinata e nel tardo pomeriggio/prima serata.Il ricovero rappresentava il 10% di tutti gli accessi nel cui ambito quello a bassa/media complessità era prevalente (68%). Risulta evidente che l’enorme numero di prestazioni al ns.P.S. riconosce diverse cause quali “mores partenopeae” ma anche la mancanza di continuità assistenziale specialistica nei fine-settimana ed uno scollamento tra ospedale e servizi territoriali. Tale marea montante prestazionale a volte condiziona negativamente la qualità della prestazione stessa con ricoveri per patologia a bassa /media complessità. Fig. 1 percentuale di accessi in P.S. per fasce di età Fig.2 percentuale delle patologie più frequentemente riscontrate in P.S. GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE Momenti congressuali COMUNICAZIONI E POSTER 366 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE Acido ursodesossicolico nell’ipertransaminasemia cronica sine causa in età pediatrica G. Ranucci, F. Ferrari, A.M. Salzano, A. Vicinanza, V. Terlizzi, M. Tufano, F. Lombardi, S. Minichiello, F. Cirillo, R. Iorio Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli Federico II Obiettivi L’acido ursodesossicolico (UDCA) ha molteplici proprietà: fluidificanti la bile, antiapoptotiche, citoprotettive, antiossidanti, immunomodulatrici e stabilizzanti le membrane. Attualmente è largamente impiegato in età pediatrica per il trattamento delle epatopatie colestatiche. E’ stato riportato che in circa il 13% di bambini con ipertransaminasemia cronica non viene identificata alcuna causa. L’efficacia dell’UDCA nei pazienti pediatrici con ipertransaminasemia cronica sine causa non è stata finora valutata. Il presente studio era finalizzato a valutare la risposta biochimica alla terapia con UDCA in un gruppo di bambini con ipertransaminasemia cronica sine causa afferenti al Dipartimento di Pediatria dell’AOU Federico II di Napoli. Pazienti e metodi Sono stati studiati retrospettivamente 21 pazienti (13 maschi) con ipertransaminasemia cronica sine causa, seguiti presso la nostra struttura dal Dicembre 1993 al Luglio 2008. In tutti i pazienti erano escluse le cause maggiori di ipertransaminasemia: epatiti virali, epatopatie genetico-metaboliche, malattia celiaca, epatiti autoimmuni, epatopatia steatosica da obesità, patologie delle vie biliari diagnosticabili all’ecografia, patologie extraepatiche (ipotiroidismo, miopatie). Di tutti i pazienti erano analizzate: le transaminasi e la GGT alla diagnosi e durante il trattamento con UDCA. Risultati Tra i 21 pazienti (13 maschi) con ipertransaminasemia cronica sine causa (età mediana alla diagnosi 80 mesi, range 7-145), 11 (52%) avevano ipertransaminasemia isolata, i restanti 10 (48%) avevano anche un aumento della GGT. Nessun paziente era iperbilirubinemico. Alla diagnosi, 7 pazienti (33%) avevano storia di dolori addominali, mentre 14 (66 %) erano asintomatici; cinque pazienti (23%) avevano epatomegalia, solo 2 (9%) avevano splenomegalia. All’esordio, i livelli sierici medi delle transaminasi erano: ALT 228, 4 ± 207, 9 UI/L; AST 145, 2 ±153, 7. Nei pazienti con iperGGT i livelli sierici medi all’esordio erano di 86, 3 ± 56, 1 UI/L. I 21 pazienti erano trattati con UDCA ad una dose media 15 mg/kg/die e monitorati per un periodo mediano di 48 mesi (range 2-168). Quattro pazienti (19%) risultavano non-responder alla terapia. Dei 17 pazienti (80%) responder alla terapia: tredici (76 %) normalizzavano le transaminasi dopo un periodo mediano di 3 mesi (range 1-17) e attualmente sono ancora in terapia con UDCA; due pazienti (11%) mostravano una riduzione media del 67, % dei valori delle transaminasi; 2 (11%) normalizzavano le transaminasi dopo un periodo mediano di 2, 5 mesi (range 1-4) e attualmente mantengono valori normali anche dopo la sospensione dell’UDCA. Dei 13 pazienti che sono ancora in terapia con UDCA dopo aver normalizzato le transaminasi, in 10 pazienti (76%) è stata tentata la sospensione della terapia e in tutti si è avuto un incremento dei valori delle transaminasi in un periodo mediano di 5, 5 mesi (range 2-17). Negli stessi pazienti la ripresa del trattamento con UDCA era seguita da normalizzazione delle transaminasi in un periodo mediano di 4 mesi (range 1-20). L’UDCA-dipendenza era pertanto dimostrata in 10 dei 21 pazienti studiati (47%). Conclusioni Nel nostro gruppo di pazienti con ipertransaminasemia cronica sine causa, la terapia con UDCA si è dimostrata efficace nel ridurre i valori delle transaminasi nell’80% dei casi. L’11% di questi pazienti risolveva l’ipertransaminasemia mantenendo livelli normali di transaminasi off-therapy. Nel 58% dei bambini si dimostrava invece una stretta dipendenza della normalizzazione delle transaminasi dalla terapia con UDCA, facendo ipotizzare un meccanismo patogenetico sensibile a tale farmaco. COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 367 ASSOCIAZIONE TRA NODULARITÀ ANTRALE, GASTRITE SEVERA, SIEROLOGIA POSITIVA PER CagA, eta’, sesso e gruppo sanguigno IN BAMBINI AFFETTI DA HELICOBACTER PYLORI T. Sabbi, M.G. Baiocchini, M. Palumbo U.O.Pediatria Ospedale Belcolle, Viterbo Introduzione Helicobacter pylori (Hp) è associato a gastrite ed ulcera peptica in età pediatrica. E’ ben noto che antigeni dei gruppi sanguigni sono in relazione con lo sviluppo di ulcera peptica e cancro gastrico. Scopo. Determinare l’associazione tra nodularità antrale, sierologia positiva per cagA, età, sesso, gruppo sanguigno e patologia da Hp in età pediatrica. Metodi 25 pazienti (15 Maschi; range età 3-18 years; età media 9 years) sottoposti ad esofagogastroduodenoscopia con biopsie antrali (esame istologico e test rapido all’ureasi) per il sospetto di una patologia del tratto gastrointestinale superiore. In tutti i pazienti erano presenti gli anticorpi IgG antiHp e la Cag A e i gruppi sanguigni sono stati determinati con le tecniche standard. Per ogni paziente sono stati raccolti i dati relativi ad età e sesso. Risultati In 19 bambini (76%) riscontrata la presenza dell’Hp all’esame istologico (colorazione Giemsa) e al test rapido all’ureasi. 15 di questi 19 (79%) pazienti positivi avevano anche una sierologia con valori patologici della CagA. L’esame endoscopico dei 19 bambini affetti evidenziava iperemia e fragilità della mucosa dell’antro gastrico in 7 di loro (37%), mentre l’aspetto di nodularità antrale si riscontrava negli altri 12 (63%) bambini. L’esame istologico di tutti i pazienti affetti mostrava gastrite attiva microerosiva e gastrite cronica. I bambini con sierologia positiva per CagA presentavano un aspetto endoscopico caratterizzato da più intensa iperemia della mucosa dell’antro gastrico, associata ad importante infiltrato linfoplasmacellulare ed a lesioni degenerative e vacuolari dell’epitelio gastrico, evidenziate all’esame istologico. I 6 pazienti (24%) non affetti, che avevano anche la sierologia per CagA negativa, mostravano una mucosa gastrica di aspetto macroscopicamente normale, ma presentavano iperemia della regione cardiale ed erosioni del III esofageo distale. Nei pazienti non affetti l’esame istologico delle biopsie gastriche risultava normale. Come anche rilevato in altri studi, anche noi abbiamo riscontrato che la sieropositività per Hp aumenta con il crescere dell’età e che non ci sono differenze tra maschi e femmine. Allo stesso modo la sierologia per Hp non mostra differenze tra i diversi gruppi sanguigni. Conclusioni La nodularità antrale associata alla sierologia positiva per CagA, in età pediatrica, è indice della presenza dell’infezione da Hp ed è marker di gastrite di grado severo. Non abbiamo riscontrato associazione tra la presenza dell’Hp e nessuno in particolare dei gruppi sanguigni. COMUNICAZIONI E POSTER 368 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE “Bile spessa”: causa di ipertransaminasemia M. Tumminelli1, L.G. Tumminelli1, L. Nicosia2, C. D’Aleo3, S.Attardo3, G. Tumminelli3 1 Università di Palermo U.O. di Medicina interna Ospedale “Maddalena Raimondi” S.Cataldo ASS n°2 3 U.O. di Pediatria e Neonatologia Ospedale “Maddalena Raimondi” S.Cataldo ASS n°2 2 L’ipertransaminasemia può fare parte di un quadro clinico particolare oppure essere un reperto laboratoristico occasionale in assenza di sintomatologia. Può essere di origine virale, da intossicazione da farmaci o droghe, da malattie metaboliche, da epatite su base autoimmune o da patologie biliari. Materiali e metodi Trattasi di bambina dell’età di 12 anni giunta alla nostra osservazione per dolore epigastrico irradiantesi al dorso e all’ipocondrio destro insorto improvvisamente all’incirca quattro giorni prima. All’anamnesi prossima si segnala l’insorgenza, circa 20 giorni prima, episodio di flogosi delle alte vie respiratorie, trattato con Eritromicina per circa 8 giorni. All’E.O. si rileva condizioni generali discrete, fegato debordante 3 cm dall’arcata costale di consistenza parenchimatosa e leggermente dolente alla palpazione, Segno di Murphy positivo. Milza nei limiti della norma. Nulla da rilevare a carico dei rimanenti organi e apparati. Gli esami di laboratorio danno i seguenti valori: G.R 4500/mm3; Hb 13.1 g/dL; Ht 39.1%; G.B. 10 600 cell/mm3(neutrofili 69.7%; linfociti 17%; monociti 7.6%); Bil 1.10 mg/dL; Bil Diretta 0.48 mg/dL; CK, ALP, Amilasi, lipasi, EMA e Transglutaminasi negativi; LDH 585 U/I, AST 301 U/l, ALT 301 U/l, GGT 120, Ves 1h 20, PCR 21.1 mg/l, Trigliceridi nella norma, Colesterolo totale, Colesterolo HDL e Colesterolo LDL nei range della norma. Markers virologici per virus epatitici maggiori e minori negativi, Sideremia e Cupremia nella norma. L’ecografia epatica mette in evidenza statosi epatica di media entità. La colecisti, ben distesa, presenta discreto strato di bile densa. Dopo 2 mesi di terapia con Deursil, il reperto ecografico è rimasto invariato;non è stata segnalata sintomatologia dolorosa all’epigastrio né all’ipocondrio destro Conclusione Il caso riportato è meritevole di segnalazione perché di fronte ad un’aumento marcato delle transaminasi bisogna pensare anche in età pediatrica, ad una patologia epatobiliare non necessariamente litiasica. Bibliografia 1. Iorio R, et al. Hypertransaminasemia in childhood as a marker of genetic liver disorders. J Gastroenterol 2005;40:859-60 2. Daniel S, Ben-Menachem T, Vasudevan G, et al. Prospective evaluation of unexplained chronic liver transaminase abnormalities in asymptomatic and symptomatic patients. Am J Gastroenterol 1999;94: 3010-4. 3. Dossing M, Sonne J. Drug-induced hepatic disorders. Incidence, management and avoidance. Drug Saf 1993; 9: 441-9. 4. A. Cuadrado and J. Crespo Hypertransaminasemia in patient with negative viral markers 5. Rev Esp Enferm Dig 2004;96:484-500, COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 369 COLESTASI INTRAEPATICA FAMILIARE PROGRESSIVA DI TIPO 3 IN DUE FRATELLI D. Cioffi, S. Maddaluno, C. Veropalumbo, I. De Napoli, C. Gentile, G. Capuano, P. Vajro Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II” Introduzione La colestasi familiare intraepatica progressiva PFIC di tipo 3 è una epatopatia cronica colestatica che può evolvere in cirrosi e insufficienza epatica. E’ caratterizzata da elevati livelli sierici di gammaglutammiltranspeptidasi (GGT) ed è causata da mutazioni del gene MDR3 (ABCB 4). I casi sinora descritti in letteratura pediatrica con caratterizzazione genetica ed immunoistochimica sono ancora pochi (1). Scopi Scopo del presente abstract è pertanto riportare la nostra esperienza relativa a 2 fratelli affetti da questo raro disordine. Casistica Olimpia (6 anni e 5 mesi) e Luigi (4 anni e 6 mesi) sono 2 fratelli nati da genitori non consanguinei. I primi segni della malattia sono comparsi all’età rispettivamente di 2 e 13 mesi di vita con ittero, prurito ed epatomegalia. Un accurato iter diagnostico differenziale ha permesso di escludere le principali cause di colestasi su base virale, autoimmune, strutturale, endocrina e genetico-metabolica. Per la presenza di elevati livelli di GGT e di acidi biliari sierici associati a proliferazione duttulare all’istologia epatica in assenza di evidenti segni di ostacolo sulla via biliare principale (Ecografia; Colangio RMN a sequenza veloce) sono state avviate indagini miranti ad escludere la PFIC di tipo 3. L’esame della bile ottenuta mediante sondaggio duodenale ha rivelato l’assenza dei fosfolipidi biliari. La immuno-colorazione della biopsia epatica con anticorpi anti-MDR3 (in collaborazione con l’Istituto di Anatomia Patologica di Napoli e di Basilea) evidenziava l’assenza della proteina MDR3 in entrambi. Il risultato dell’indagine genetica (in collaborazione con il Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico di Milano) mostrava le stesse 2 mutazioni missense: c.2168 G>A (exon17)/p.G723E (TM7) + c.3577G>A (exon27)/p.A1193T (NBD2), confermando la diagnosi di PFIC di tipo 3. Nonostante un trattamento di associazione con diversi farmaci coleretici (Acido ursodesossicolico, colestiramina, rifampicina) entrambi hanno presentato un’evoluzione di cirrosi compensata con poussées di intensa colestasi clinica ed elevazione degli enzimi epatici. Conclusioni I nostri casi evidenziano la variabilità dell’epoca di presentazione del quadro clinico-laboratoristico di colestasi e la possibile rapida evoluzione cirrogena nonostante una terapia coleretica precoce ed intensiva. E’ previsto uno stretto monitoraggio per assicurare un buono stato nutrizionale, una copertura completa vaccinale qualora fosse necessario il ricorso all’epatotrapianto per insufficienza epatica o scarsa qualità di vita (prurito intrattabile). Bibliografia 1. Jacquemin E, De Vree JM, Cresteil D et al. The wide spectrum of multidrug resistance 3 deficiency: from neonatal cholestasis to cirrhosis of adulthood. Gastroenterology. 2001;120:1448-58. COMUNICAZIONI E POSTER 370 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE EPATITE AUTOIMMUNE: DESCRIZIONE DI UNA CASISTICA PEDIATRICA N. Di Cosmo, M. Caropreso, A. Varriale, S. Maddaluno, S. Lenta, I. De Napoli, M. Esposito, G. Capuano Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II” Introduzione L’ epatite autoimmune (AIH) è una malattia infiammatoria cronica del fegato nella cui genesi assume primaria importanza un meccanismo autoimmune, geneticamente determinato per l’associazione con l’allele HLA DR3, DR4, DR52. L’AIH tipo 1 presenta anticorpi antinucleari (ANA) e/o antimuscolo liscio con peculiare specificità verso i microfilamenti d’actina del citoscheletro intracellulare (SMA-AA). La AIH tipo 2 è caratterizzata dalla presenza di anticorpi contro i microsomi di fegato e di rene di ratto (LKM1), con specificità verso l’isoforma 2D6 del citocromo P450. L’AIH tipo 3 è caratterizzata dalla presenza di autoanticorpi contro un antigene solubile epatico citoplasmatico (citocheratina-SLA/LP) e da autoanticorpi anti-citosol epatico LC1. Circa il 10% dei casi d’AIH è privo di autoanticorpi noti. Le modalita’ di gestione sono tuttora non ben codificate in eta’ pediatrica. Scopo Dello Studio Scopo dello studio è quello di descrivere le caratteristiche demografiche, clinico-laboratoristiche, istologiche, e la risposta alla terapia in una casistica di 22 pazienti affetti da epatite autoimmune. Pazienti e metodi I pazienti oggetto dello studio sono 10 maschi e 12 femmine con età media alla diagnosi di 8.5 anni. La presenza di anticorpi circolanti ANA, LKM, SMA, LC-1 è stata verificata mediante immunofluorescenza indiretta e western-blotting. La positività agli autoanticorpi circolanti è stata correlata con i tests di funzionalità epatica, la presenza di ipergammaglobulinemia, l’istologia epatica. In caso di anomalia dei test di laboratorio, sono state escluse mediante indagini appropriate altre cause di disfunzione epatica. Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad agobiopsia epatica per via percutanea sotto guida ecografica. Risultati Dei 22 pazienti, undici (50%) sono risultati positivi per ANA; cinque (23%) mostravano un’immunofluorescenza di tipo LKM. Quattro (18%) pazienti erano isolatamente positivi per autoanticorpi LC1 e due (9%) pazienti risultavano sieronegativi. Cinque bambini ANA positivi mostravano anche positività per SMA. L’ipergammaglobulinemia era presente alla diagnosi nel 73 % (16/22) dei pazienti. L’istologia epatica era caratterizzata in 21 pazienti da epatite d’interfaccia di grado medio- severo associata ad infiltrato infiammatorio degli spazi portali. In una paziente con associata anemia emolitica il quadro istologico era caratterizzato da trasformazione gigantocellulare. Due pazienti con epatite autoimmune presentavano diagnosi concomitante di malattia celiaca, un paziente presentava “sindrome da overlap”: epatite autoimmune - colangite sclerosante. Caratteristiche peculiari sono state riscontrate in un paziente che in associazione all’epatite autoimmune ANA positivi ha presentato tiroidite con ipofunzione in assenza di anticorpi tiroidei, positività per anticorpi antipofisi, candidasi mucocutanea, lupus a localizzazione cutanea con negatività del test molecolare per poliendocrinopatia autoimmune (APECED). L’esordio in una paziente è stato caratterizzato da epatite acuta ed anemia emolitica. Tutti i pazienti sono stati trattati con un’unica somministrazione giornaliera al mattino di prednisone o prednisolone al dosaggio iniziale di 1-2 mg/Kg/die (fino ad un massimo di 60 mg/die) da solo od in associazione con l’azatioprina al dosaggio di 1-2 mg/Kg/die. Il successivo tapering del prednisone è iniziato dopo 2-4 settimane fino a raggiungere nel corso di alcuni mesi il dosaggio di mantenimento pari a 0.1-0.2 mg/kg/die o 5 mg/die. La sospensione del prednisone al dosaggio di mantenimento è stata effettuata dopo almeno 2 anni di normalizzazione dei tests di funzionalità epatica e dopo biopsia epatica di controllo. La maggioranza dei pazienti ha presentato una risposta completa alla terapia COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 371 immunosoppressiva con normalizzazione degli indici di funzionalità epatica associata a riduzione delle gammaglobuline per almeno sei mesi dalla terapia di mantenimento. Cinque su 22 pazienti (23%) hanno presentato risposta incompleta con recidiva della malattia in corso di tapering del prednisone che ha richiesto un aumento dell’immunosoppressione. Tre dei 5 pazienti con risposta incompleta sono steroidodipendenti. Uno di essi ha iniziato un trattamento con ciclosporina con normalizzazione degli indici di funzionalita’ epatica. Conclusioni La nostra casistica di bambini con AIH sottolinea la possibile mancata risposta alla terapia immunosoppressiva convenzionale (steroidi ± azatioprina) e la conseguente necessita’ di prendere in considerazione protocolli alternativi (acido micofenolico, ciclosporina). Bibliografia 1. Czaja and Frese. Diagnosis and Treatment of Autoimmune Hepatitis. Hepatology 2002; 36: 479- 497; 2. Luxon. Diagnosis and Treatment of Autoimmune Hepatitis. Gastroenterol Clin N Am 2008; 37: 461-478. COMUNICAZIONI E POSTER 372 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE EPATITE AUTOIMMUNE IN ETÀ PEDIATRICA: LO SCORE DIAGNOSTICO DELL’INTERNATIONAL AUTOIMMUNE HEPATITIS GROUP CI AIUTA SEMPRE PER IL TRATTAMENTO? A.M. Salzano, A. Vicinanza, M. Tufano, V. Terlizzi, G. Ranucci, F. Ferrari, F. Lombardi, S. Minichiello, F. Cirillo, R. Iorio Dipartimento di Pediatria, Università degli Studi di Napoli “Federico II” Introduzione L’epatite autoimmune (EAI) è un’epatopatia infiammatoria progressiva di origine sconosciuta, caratterizzata da epatite all’interfaccia e dalla presenza di iperγglobulinemia e di autoanticorpi circolanti. Due tipi di EAI sono stati descritti sulla base del profilo immunologico: tipo I (ANA e/o SMA+), tipo II (LKM1+). L’EAI, se non trattata adeguatamente, ha una evoluzione sfavorevole, con estensione progressiva del danno epatico e sviluppo di cirrosi epatica. Il trattamento di scelta è rappresentato dagli steroidi utilizzati singolarmente o in associazione con l'azatioprina e induce una remissione in oltre il 90% dei pazienti. La diagnosi di certezza dell’EAI si basa su un sistema a punteggio proposto dall’International Autoimmune Hepatitis Group. Caso clinico Riportiamo il caso di un bambino di 3 anni e 5 mesi giunto alla nostra osservazione per ipertransaminasemia cronica ed iperGGT identificate nel contesto di una infezione mononucleosica indotta da EBV. Le indagini di laboratorio mostravano funzionalità epatica protidosintetica nella norma, sierologia positiva per EBV (IgM ed IgG), per CMV (IgM), per Herpes Simplex (IgM ed IgG), positività degli ANA, degli anticorpi anti DNA ed ENA. Si escludevano epatopatie dismetaboliche, celiachia, patologie biliari, fibrosi cistica, epatotossicità da farmaci e da virus epatotropi maggiori. Elevati valori di transaminasi persistevano al di là dei tempi usualmente compatibili con l’infezione mononucleosica. La biopsia epatica, praticata dopo 9 mesi dall’esordio, evidenziava modesta infiammazione, microvacuolizzazione degli epatociti periportali, moderata fibrosi portale, focale interruzione della lamina limitante e modesta neoduttulazione. Sulla base dello score dell’International Autoimmune Hepatitis Group non si confermava il sospetto di epatite autoimmune, anche se il quadro istologico e la storia clinica erano fortemente suggestive di una EAI. Si decideva pertanto di non cominciare il trattamento immunosoppressivo, ma di monitorare i livelli delle transaminasi e il titolo degli autoanticorpi. La presenza di una significativa fibrosi, l’esclusione di tutte le principali cause di epatopatia e la consapevolezza dell’evolutività dell’EAI, talvolta con andamento fulminante, rendevano molto impegnativa la scelta del non trattamento. D’altra parte, considerato che il trattamento dell’EAI è basato su una terapia steroidea di lunga durata nemmeno è proponibile un trattamento indiscriminato di tutti i pazienti con sospetta EAI. Il presente caso, pertanto, desidera richiamare l’attenzione sulle difficoltà diagnostiche e terapeutiche di alcune forme di epatite autoimmune e sulla mancanza di criteri, universalmente accettati, che consentano una gestione unitaria di tali pazienti. COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 373 FAMILIAL AGGREGATION IN CHILDREN AFFECTED BY FUNCTIONAL GASTROINTESTINAL DISORDERS R. Buonavolontà, P. Coccorullo, G. Boccia, R. Turco, L. Greco, A. Staiano Department of Pediatrics, University of Naples, Federico II, Naples, Italy Introduction Adults with Irritable Bowel Syndrome (IBS) may often have a first-degree relative with abdominal pain and bowel problems. However, studies designed to evaluate possible familial aggregation are scarce. Aims & methods The aims of this study were: 1) to evaluate the prevalence of Functional Gastrointestinal Disorders (FGIDs) in parents of children affected by FGIDs and 2) to evaluate whether or not independent factors, such as gender, sex, age, parenteral occupation, civil status and education level could influence the prevalence of FGIDs in parents of children with and without FGIDs. One hundred-three patients affected by FGIDs 52.99 months, range ∼ SD: 92.57 ∼ according to Rome III Criteria (mean age 11-215 months) and their parents (103 fathers and 103 mothers) filled out validated questionnaires for GI symptoms, depression and anxiety. These patients 51.84 ∼ SD: 89.72 ∼ were compared to 65 age and sex matched controls (mean age months, range 22-216 months) referred to the Primary Care Center of Department of Paediatrics at the University of Naples, “Federico II” for non GI symptoms. All the parents were given a questionnaire including queries on gender, sex, age, occupation, civil status, education level and standard of living. Results The parents of children with FGDIs showed a significantly higher prevalence of FGID compared to the parents of children without FGID (p < 0.0001). No significant differences between the groups were observed for civil status, occupation, education level and standard of living. A correlation between the children’s type of GI disorder and their parents’ disorders was found in 33.9% (35/103). In particular, a correlation between the children’s and mother’s type of GI disorders was found in 25.2% (26/103) of patients. Conclusion Our study confirms that both heredity and social learning may contribute to a predisposition for FGDIs in children. Unlike previous studies, ours was conducted on pediatric patients and it includes most FGIDs instead of IBS alone, using Rome III Criteria. COMUNICAZIONI E POSTER 374 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE FUNCTIONAL GASTROINTESTINAL DISORDERS AND CELIAC DISEASE IN CHILDREN: IS THERE A RELATIONSHIP? G. Boccia, R. Turco, R. Buonavolontà, F. Manguso, D. Russo, A. Staiano Background & aims Activation of gastrointestinal (GI) mucosal immune system may be one of the causative factors in the pathogenesis of functional gastrointestinal disorders (FGIDs). Whether the gluten-induced gut inflammation of celiac disease (CD) also predisposes to FGIDs is unclear. The aims of our study were to assess. 1) the prevalence of FGIDs, 2) the effect of a gluten-free diet and 3) the role of psychological aspects on the development of functional GI symptoms in children with CD. Methods Seventy celiac children (50F-20M, mean age 8.4, range 4-18years) who had been in remission according to laboratory parameters (negative endomysial and anti-tissue transglutaminase antibodies), were randomly selected from a computerized database after one year of gluten-free diet. All children completed a medical and a psychological questionnaire, the Rome III Diagnostic Questionnaire for the Pediatric FGIDs and the Stait-Trait Anxiety Inventory for Children (STAIC). GI symptoms at diagnosis and after one year of glutenfree diet were compared. Fifty-six age and sex matched healthy children represented the control group. Results Twenty-eight of 70 (41.4%) patients fulfilled the Rome III criteria for FGDIs compared with 5/56 (8.9%) controls (p<0.001). Among celiac children with FGIDs, Irritable Bowel Syndrome (IBS) was the most prevalent disorder (55.6 %), followed by Functional Constipation (FC) (46.4%), Aerophagia (25%), Functional Abdominal Pain (FAP) and Functional Dyspepsia (FD) (14.3%, each). Only IBS and FD were found in 7.1% and 1.7% controls, respectively (p<0.001, compared to celiac children). After one year of gluten-free diet 25/50 (50%) children complaining of GI symptoms at CD diagnosis, developed a FGID compared to 10/31 (32.2%) celiac children complaining of extraintestinal symptoms and 4/19 (21%) celiac children who were asymptomatic at diagnosis (p<0.01 and p<0.005, respectively). Vomiting and abdominal pain at diagnosis seemed to be predictors of FGIDs in these children. Celiac children with FGDIs presented significantly higher anxiety and depression compared to children without functional disorders and controls (p< 0.001). Conclusion Many celiac children may develop a FGID irrespective of the gluten-free diet. Specific GI symptoms at diagnosis seem to be directly related to the development of FGIDs in celiac children in remission. Psychological factors such as anxious and/or depressed personality profiles may play an important role in this process. COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 375 INCIDENZA DA HELICOBACTER PYLORI IN PAZIENZI PEDIATRICI. NOSTRA CASISTICA R. Ricciardi, A.M. Ricciardi, L. Pisano, R. Ebraico, P. Migliaccio, M. Mungiguerra Dipartimento di Patologia Clinica - Settore di Microbiologia - Laboratorio Analisi P.O. “S.G. Moscati” Aversa ASL CE 2 Introduzione L’ Helicobacter pylori (H.P.) è un batterio gram-negativo in grado di colonizzare la mucosa gastrica e di provocare patologie gastro-intestinali quali la gastrite cronica, l’ulcera peptica e il carcinoma gastrico. Dopo il primo isolamento avvenuto nel 1982 da parte di Marshall e Warren nella mucosa gastrica di soggetti con gastrite, Helicobacter pylori è oggi riconosciuto in tutto il mondo come uno degli agenti patogeni più comuni e importanti. Nei paesi in via di sviluppo il 70% - 90% della popolazione è portatrice di Helicobacter pylori; nei paesi sviluppati invece, la prevalenza dell’infezione va dal 25% al 50% ed è acquisita soprattutto durante l’infanzia. L’infezione di Helicobacter pylori contratta in età pediatrica, oltre alle patologie gastro-intestinali, ha anche un ruolo nel determinismo di patologie extragastriche provocando una ridotta crescita nei bambini. Lo scopo del nostro studio è stato quello di verificare l’incidenza di infezione da Helicobacter pylori nel biennio 2006-2007 in pazienti pediatrici ricoverati presso il P.O. “S.G. Moscati” di Aversa. Materiali e metodi Sono stati testati 84 campioni fecali di pazienti pediatrici inviati al Laboratorio di Microbiologia per la determinazione della presenza degli antigeni fecali mediante HpSA ImmunoCard STAT!HpSA Meridian. Si tratta di un test immunologico di facile utilizzo, rapido che può essere utilizzato nella routine di laboratorio per la diagnosi di infezione da Helicobacter pylori su materiali fecali. Il dispositivo per il test ImmunoCard è una membrana cromatografia contenente un anticorpo di cattura monoclonale anti-H. pylori e una proteina animale per il controllo. Come anticorpi di rivelazione per i test e i controlli, le membrane contengono anche anticorpi anti-H.pylori coniugati con il lattice rosso ed anticorpi antiproteina coniugata con il lattice blu. Risultati Nel biennio 2006-2007 sono stati analizzati 84 campioni di feci di bambini per la ricerca di Helicobacter pylori, di cui 23 nel 2006 e 61 nel 2007. Nel 2006 2 campioni sono risultati positivi (9%) e 21 invece negativi (91%). Nel 2007 14 campioni sono risultati positivi per Helicobacter pylori (23%) mentre 47 (77%) sono risultati negativi. I dati ottenuti dal metodo di diagnostica applicato durante il periodo di osservazione sono riportati nella figura 1. Fig. 1 - Percentuali dei risultati ottenuti nel biennio 2006-2007. COMUNICAZIONI E POSTER 376 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE Conclusioni Dai nostri dati si evince un notevole aumento (quasi una triplicazione) della percentuale di positività per Helicobacter pylori (dal 9% del 2006 al 23% del 2007). Il test immunologico oggetto del presente studio, dotato di sensibilità analitica, riproducibilità e specificità, può essere considerato un valido strumento per la diagnosi di infezione ha Helicobacter pylori in età pediatrica. COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 377 Impedance esophageal-pH monitoring parameters reveals no correlation between Gastroesophageal Reflux and Chronic Unexplained Cough in children. P. Coccorullo, G. Boccia, P. Masi, D. Ummarino, L. Greco, A. Staiano Department of Pediatrics of University “Federico II”, Naples, Italy Background Gastroesophageal Reflux (GER) has traditionally been considered one of the most important cause of chronic unexplained cough, defined as non productive cough lasting longer than 4 weeks in the absence of identifiable respiratory disease or known aetiology. Extraesophageal symptoms of GER (Atypical GER) can apparently be caused by both acid and non-acid reflux. The standard diagnostic tool for atypical GER is esophageal Multichannel Intraluminal Impedance/pH-monitoring (MII/PH). Aims To evaluate the relationship between chronic unexplained cough and GER using MII/PH and to assess the efficacy of proton pump inhibitor (PPI) in children with reflux-related chronic cough. Methods A prospective study was conducted in 54 children (mean age ± SD: 52.77 ± 50.48 months; range: 2-204 months; M/F: 32/22) from October 2006 trough December 2007 who were referred for chronic unexplained cough. Other causes of chronic cough were excluded. All patients underwent MII/PH and the validated cough-score was recorded by children’s caregiver. The MII/PH parameters evaluated were type of reflux, total numbers of reflux episodes, total duration of GER, height of reflux; Median Bolus Clearance Time (MBCT) and Bolus Exposure Impedance (BEI). Children with MII/PH positive for GER were treated with PPI at the standard dose for three months. GI symptoms were recorded at entry and at the end of the acid-suppressive treatment period. Results: GER was diagnosed in 30 (55.6%) out of 54 children with chronic unexplained cough; in particular, acidic reflux was reported in 24 (80%) patients, alkaline reflux in 5 (16.6%) patients while both acid and alcalin refluxes were registered in 1 (3.3%) child. No statistically significant association was found among cough-score and type of reflux (Acid, p= 0.475; Non-Acid, p=0.262), total number of reflux episodes (p=0.453), total duration of GER (p= 0.493), height of reflux (p=0.2.35); MBCT (p=0.458); BEI (p=0.369). At the end of the 3-month PPI therapy a complete symptom resolution was observed in 56.6% children; 23.3% had improved symptoms, and 20% had minimal or no improvement. Conclusions Children with chronic chough show a high prevalence of GER. In our study, chronic cough seems not to be related to GER type, severity and height as well as altered esophageal clearance. However, the good response to PPI-therapy suggests mechanisms other than direct aspiration in reflux-related chronic cough. COMUNICAZIONI E POSTER 378 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE POSSIBILE ASSOCIAZIONE TRA DERMATITE ATOPICA E SINDROME DI ALAGILLE A. Vicinanza, M. Tufano, A.M. Salzano, V. Terlizzi, G. Ranucci, F. Ferrari, F. Lombardi, S. Minichiello, F. Cirillo, R. Iorio Dipartimento di Pediatria, Università degli Studi di Napoli “Federico II” Introduzione La Sindrome di Alagille (AGS) è un disordine genetico di sviluppo multisistemico. Le mutazioni del gene Jagged che mappa sul cromosoma 20p12 sono state identificate nel 94% degli individui con una diagnosi clinicamente confermata di AGS. Recenti studi hanno dimostrato il coinvolgimento della regione cromosomica 20p12 nella patogenesi della dermatite atopica. La dermatite atopica (AD) è una sindrome eczematosa cutanea a decorso cronico-recidivante la cui diagnosi può essere fatta con ragionevole certezza nella maggior parte dei casi basandosi sull’esame obiettivo delle lesioni cutanee. Nei Paesi Occidentali fino al 15% dei bambini è affetto da dermatite atopica. Obiettivo specifico del presente studio era quello di indagare circa un’eventuale correlazione tra AGS e AD. Pazienti e metodi Tredici bambini affetti da AGS, osservati presso il Dipartimento di Pediatria dell’Università di Napoli “Federico II” in un periodo compreso dal 1993 al 2007, epatotrapiantati e non, sono stati indagati per l’individuazione di segni clinici di AD durante i controlli periodici effettuati presso la nostra struttura. In ognuno di essi era stata effettuata l’analisi mutazionale su tutta la porzione codificante del gene Jagged1. La diagnosi di AD non era presa in considerazione se il paziente (pazienti) presentava prurito e alterazione degli indici di colestasi. Erano utilizzate tabelle di contingenza con il test chi-square che mettevano in relazione la presenza o l’assenza di AD nei pazienti epatotrapiantati e non e la presenza o assenza di mutazioni per l’AGS nei pazienti con AD. Risultati Sette dei 13 (54%) bambini analizzati non avevano ricevuto epatotrapianto ed erano in buon equilibrio clinico e senza segni di colestasi in seguito all’inizio della terapia con acido ursodesossicolico, i rimanenti 6 (46%) avevano necessitato di epatotrapianto ad un’età mediana di 20 mesi (range 16-51 mesi) prevalentemente per prurito intrattabile ed erano sottoposti a terapia immunosoppressiva. Nessuno dei pazienti epatotrapiantati presentava segni di colestasi. Complessivamente, 6 dei 13 bambini (46%) con AGS studiati presentavano segni clinici di AD nel corso delle osservazioni. Tra i 7 pazienti non epatotrapiantati, 5 (71%) avevano AD, mentre tra i 6 pazienti epatotrapiantati solo uno (17%) aveva segni di AD (p<0.05). I pazienti epatotrapiantati effettuavano terapia immunosoppressiva con Tacrolimus che, in forma topica, è uno dei presidi farmacologici utilizzati nella AD. Tra i 5 pazienti non epatotrapiantati con AD, 4 (80%) presentavano mutazioni a carico del gene Jagged1 e 1 (20%) non aveva mutazioni note del gene. L’unico epatotrapiantato con AD non presentava mutazioni note a carico della porzione genica analizzata. Conclusioni Pur con i limiti legati all’esiguità del campione studiato, il nostro studio evidenzia una elevata prevalenza da AD nei bambini con AGS. Studi caso-controllo su popolazioni più ampie sarebbero auspicabili per dimostrare la non casualità dell’associazione. COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 379 Sangue e muco nelle feci da polipo giovanile, diagnosticato con indagine radiologica ed endoscopica in bambina di 4 anni M. Tumminelli1, L.G. Tumminelli1, G. Tumminelli2 1 Università di Palermo U.O. di Pediatria e Neonatologia Ospedale “Maddalena Raimondi” S.Cataldo ASS n°2 2 Introduzione Il polipo gastrointestinale è una piccola massa aggettante il lume intestinale di origine mucosa. Nell’80% dei casi si presenta soprattutto nel retto e nel restante 20% in qualunque altra regione dell’intestino. Esso può essere sessile se adeso alla parete intestinale o peduncolato se collegato alla mucosa e alla sottomucosa da un traliccio connettivo-vascolare. Da un punto di vista istologico, i polipi si distinguono in due categorie: polipi intestinali amartomatosi con scarsissima evoluzione neoplastica(10%), tra questi rientrano la poliposi giovanile colica o generalizzata e la sindrome di Peutz-Jeghers; polipi intestinali adenomatosi con maggiore rischio di trasformazione neoplastica quali la poliposi adenomatosa familiare, la sindrome di Gardener e di Turcot. Il polipo giovanile solitario o polipo infiammatorio è quello più frequentemente riscontrato in età pediatrica, con una frequenza che raggiunge l’1-2 % dei bambini in età pre-scolare e scolare. L’età media alla diagnosi è di 4 anni. I sintomi che più frequentemente portano alla diagnosi sono: dolori addominali non localizzati, muco e sangue nelle feci e a volte anemia da sanguinamento occulto. L’etiologia è sconosciuta, si pensa siano conseguenti ad un processo flogistico a carico della mucosa intestinale. La diagnosi differenziale di rettorragia nei pazienti tra 1 e 10 anni di vita include: Diverticolo di Merckel, Emorroidi, Lesioni vascolari, Invaginazioni, Diarrea infettiva, Fistola anale, Iperplasia linfoghiandolare, Sindrome emolitico-uremica, Porpora di Schonlein-Henoch, Malattia infiammatoria cronica, Celiachia, Emorroidi interne. La terapia prevede la loro asportazione per via endoscopica al fine di permettere la loro diagnosi istologica; poiché generalmente la loro crescita è eccessiva rispetto alla loro vascolarizzazione, spesso si autoamputano alla pubertà. Materiali e metodi Trattasi di bambina dell’età di 4 anni, che da circa tre mesi presenta aumento della frequenza delle defecazioni con feci di consistenza normale con abbondante muco e a volte sanguinamento rosso vivo dopo la defecazione che spesso vernicia le feci. Il sanguinamento rettale non si accompagna a dolore né durante né dopo la defecazione; non ha presentato stipsi, febbre e calo ponderale. Da rilevare nell’anamnesi familiare, la presenza di poliposi colica nella nonna paterna. Diagnosi Differenziale: abbiamo escluso le ragadi perianali, le emorroidi esterne e ci siamo indirizzati verso o una poliposi del colon o una rettocolite ulcerosa o emorroidi interne. Dirimente sono stati il clisma a doppio contrasto e la colonscopia. Gli esami di routine hanno dato i seguenti valori: Emocromo e Ferritina nella norma, Proteine di fase acuta negative, EMA e Transglutaminasi negative, Calprotectina normale, VES:7, PCR: negativa, Esame virologico e Coprologico e Parassitologico delle feci negativo, Ricerca sangue occulto nelle feci positivo. Con l’esplorazione digitorettale si è apprezzata piccola massa aggettante nel lume rettale. Dopo circa 10 giorni, la piccola ha espulso spontaneamente materiale che all’esame istologico risultava costituito da materiale purulento, necrotico, fibrino-leucocitario(amputazione di polipo peduncolato?). L’endoscopia con biopsia rettale, eseguita dopo circa 1 mese, ha evidenziato esiti di pregresso danno mucoso. Non si è potuto procedere oltre con la sonda endoscopica, per la scarsa pulizia intestinale. Con il Clisma a doppio contrasto e principalmente con l’indagine endoscopica, dopo accurata toulette intestinale, si è evidenziato, a carico del colon discendente, a circa 40 cm dal margine anale, la presenza di macropolipo peduncolato delle dimensioni >20 mm con zone di ulcerazione (Figura COMUNICAZIONI E POSTER 380 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE I). Si è introdotta ansa diatermia, si è aggancianto il polipo e lo si è resezionato. L’esame istologico ha evidenziato formazione polipoide di cm 2.5*1.2*0.7 avente carattere istologico di polipo giovanile. Colon trasverso e sigma esenti da lesioni. Al successivo controllo endoscopico, buona l’emostasi sulla pregressa zona d’impianto del polipo (Figura II). Conclusioni Il caso riportato è degno di segnalazione perché evidenzia che bisogna tenere in considerazione, anche se con minor frequenza che in età adulta, la presenza di macropolipi responsabili di rettorragia tra le più comuni e frequenti cause di sangue e muco nelle feci in età pediatrica. Non è ancora noto se i polipi solitari giovanili(<5), possono evolvere verso una neoplasia colon-rettale. In letteratura sono riportati casi di bambini con polipi multipli (>5-10) che hanno subito una trasformazione in senso adenomatoso implicando un maggiore rischio di sviluppare una neoplasia rispetto a bambini con pochi polipi(<5). Appare evidente come sia necessaria una maggiore sorveglianza clinica, durante la prima infanzia, di questi pazienti e un follow up a lungo termine. Figura 1 Figura 2 Bibliografia 1. Corredor J, Wambach J, Barnard J. Gastrointestinal polyps in children: Advances in molecular genetics, diagnosis, and management. Journal of Ped. May 2001; 138(5):621-8. 2. Scott RJ, Maldrum C, Crooks R, Spigelman AD, Kirk J, Turcker K, Koorey D. Familial adenomatous polyposis: more evidence for disease diversity and genetic heterogeneity. GUT April 2001; 48(4):508-14. 3. Thompson-Fawcett MW, Marcus VA, Redston M, Cohen Z, McLeod RS. Adenomatous polyps develop commonly in the ileal pouch of patients with familia adenomatous polyposis. Diseases of the colon and rectum. Mar2001; 44(3):347-353. 4. Erdman SH, Barnad JA. Gastrointestinal polyps and polyposis in children. Curr Opin Pediatr. 2002;14(5):576-82 5. Hyer W, Beveridge I, Domizio P, Philips R. Clinical management an genetics of gastrointestinal polyps in children. Pediatrics 2000;31:469-79. 6. Lowchik A, Jackson WD, Coffin CM. Gastrointestinal polyposis in childhood: clinicophatologic and genetic feature. Pediatr Dev Pathol 2003;6(5):371-91. 7. Nugent KO, Talbot IC, Hodgson SV et al. Solitary juvenile polyps: not a marker for subsequent malignancy. Gastroenterology 1993;105:698-700. 8. Bua J, Norbedo S, Martelossi S. Sangue e muco nelle feci. Medico e Bambino pagine elettroniche 2006;9(2). COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 381 SINDROME DI CRIGLER-NAJJAR: CARATTERIZZAZIONE CLINICA, GENETICA E NEUROFISIOPATOLOGICA G. Crispino1, S. Maddaluno1, C. Veropalumbo1, I. De Napoli1, G. Capuano1, C. Gentile1, A.Perretti2, A.Iolascon3, P. Vajro1 1 Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II” Dipartimento di Neurologia, Università di Napoli, “Federico II” 3 CEINGE- scarl, Napoli 2 Introduzione La sindrome di Crigler-Najjar (CN) è causata un’alterazione nel gene UGT1A1 che codifica per l’enzima uridin-difosfo-glicuronil-transferasi (UGT). La sindrome di CN si suddivide in più tipi (tipo I, tipo II, tipo intermedio I/II) in base alla gravità del quadro iperbilirubinemico e all’entità della risposta al fenobarbitale (PB). L’iperbilirubinemia cronica può essere causa di danno neurologico (kernittero, alterazioni cognitive, cerebellari, piramidali ed extrapiramidali). Scopi Scopo dello studio è quello di approfondire l’aspetto neurologico di adolescenti con sindrome di CN, geneticamente caratterizzati, valutando in particolare le alterazioni elettrofisiologiche. Pazienti Sono stati studiati 10 adolescenti (M:F=7:3). Quattro di essi, affetti da sindrome di CN tipo I, sono stati sottoposti ad epatotrapianto con risoluzione dell’iperbilirubinemia. Di altri 3 pazienti affetti dal tipo II, 2 sono stati trattati con PB con buona risposta alla terapia. Altri 3 pazienti con sindrome di CN tipo I/II hanno dimostrato una scarsa risposta al PB richiedendo spesso l’aggiunta di fototerapia, colestiramina e diverse sedute di plasmaferesi. Metodi Tutti i pazienti oggetto dello studio hanno praticato analisi del gene UGT1A1, una valutazione clinica neurologica e uno studio neurofisiologico multimodale comprendente EEG, potenziali evocati visivi (PEV), motori (MEP), e uditivi del tronco encefalico (BAEP). Risultati I pazienti affetti da sindrome di CN tipo I (epatotrapiantati) presentano piccole delezioni (100%), in omozigosi (75%). I pazienti affetti dal tipo II presentano mutazioni di tipo missense (66%) in omozigosi (50%) o in eterozigosi (50%). I pazienti affetti dal tipo intermedio presentano tutti mutazioni di tipo missense (100%) in eterozigosi nel 66.6%.Tutti i pazienti con CN II, uno con CN I/II e uno con CN I presentano polimorfismo associato a sindrome di Gilbert. L’esame clinico neurologico ha mostrato presenza di tremore (30%); l’EEG ha mostrato grafoelementi aguzzi ipervoltati (40%). I MEP hanno mostrato un aumento del tempo di conduzione centrale motoria (55, 5%); i PEV hanno rivelato un aumento della latenza della P100 (50%).Non si sono osservate alterazioni ai BAEPs. Conclusioni Il tipo di mutazione più frequente implicato nella sindrome di CN tipo I è rappresentato dalla delezione; le mutazioni puntiformi missense sono invece più frequentemente coinvolte nel tipo II e I/II; il coinvolgimento di entrambi gli alleli del gene UGT1A1 è correlato con un quadro iperbilirubinemico più grave come pure la coesistenza del polimorfismo della sindrome di Gilbert. Le indagini elettrofisiologiche sono utili per monitorare il danno neurologico in adolescenti e giovani adulti affetti da sindrome di CN, eccetto i BAEPs; tali indagini hanno evidenziato un quadro EEGrafico conforme a quanto già osservato in letteratura e correlabile con la gravità dell’iperbilirubinemia (pazienti con CN I e I/II). COMUNICAZIONI E POSTER 382 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE Hanno evidenziato inoltre alterazioni non presenti clinicamente del sistema visivo e motorio centrale finora non riportati in letteratura, rivelando buona sensibilità di tali test nel monitoraggio degli effetti tossici dell’iperbilirubinemia sul sistema nervoso centrale. Tali reperti sembrano correlarsi all’entità dell’ittero nel caso dei PEV (pazienti con CN I e I/II) ma non nel caso dei MEP (anche pazienti con CN II), suggerendo che l’alterazione elettrofisiologica sia da rapportarsi ad un danno “funzionale” della bilirubina. COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 383 Un caso complicato di APLV G. Nocerino, E. Brigante, P. Montaldo, E. Melillo, M.C. Petagna U.O. Allergologia Pediatrica - Fisiologia e Patologia Respiratoria, Ospedale SS. Annunziata - Napoli La storia Adele R., età 11 mesi. Segnalata una storia di bronchiti asmatiche ricorrenti (ben cinque episodi negli ultimi quattro mesi di cui tre seguiti da ricovero ospedaliero). La piccola ha risposto bene alla terapia broncodilatatrice e cortisonica ma, ogni volta quest’ ultima è stata sospesa, si sono verificate puntualmente ricadute. Un approfondimento anamnestico ha evidenziato che, nei primi due mesi di vita, Adele ha presentato frequenti episodi di rigurgito qualcuno associato a vomito e due episodi di apnea postprandiale. Per questo motivo è stata consigliata terapia antireflusso (latti AR, ranitidina, domperidone) non seguita da alcun apprezzabile miglioramento. Il ricovero Discrete condizioni cliniche generali. Peso ed altezza nei centili per l’ età. Esami ematochimici con funzionalità epato-renale nella norma così come Rx del torace, EEG ed Ecocardio, Rx transito esofago - stomaco. Una pH-metria esofagea ha mostrato un quadro pHgrafico di acidità esofagea di grado moderato. Prick test, prick by prick e RAST alle frazioni del latte nella norma. Durante il ricovero Adele ha continuato a rigurgitare ed a presentare persistentemente broncospasmo. In relazione alla storia clinica abbiamo valorizzato, osservando la piccola, alcuni aspetti della sintomatologia presentata: gli episodi di wheezing non erano preceduti da rinite, la piccola iniziava a fischiare in pieno benessere durante o subito dopo il pasto, il broncospasmo si risolveva in poco tempo, a volte già durante l’ assunzione del latte la piccola impallidiva presentando estremità molto fredde. Nel fondato sospetto di APLV, pur in presenza di “esami allergologici” non sospetti, abbiamo introdotto una formula a base di miscela di aminoacidi. In pochi giorni si è assistito ad un miglioramento critico della sintomatologia che è notevolmente migliorata fino alla scomparsa, in pochi giorni, degli episodi di rigurgito e di broncospasmo. Abbiamo, contemporaneamente, sospeso la terapia antireflusso, mai precedentemente interrotta. La diagnosi di APLV è stata confermata dopo circa sei mesi con test di scatenamento in ambiente protetto. La piccola ha acquisito tolleranza per le PLV dopo circa due anni durante i quali non ha presentato alcuna successiva sintomatologia. Il messaggio Il RGE è spesso causa di crisi di apnea e di ricorrenti episodi di wheezing nel lattante (microaspirazione di latte vaccino causa di flogosi allergica responsabile di alterata motilità gastroesofagea). In questi casi la sintomatologia respiratoria è, quasi sempre, poco responsiva alla terapia boncodilatatrice ma migliora con la terapia antireflusso. Appare possibile che lo stesso RGE possa essere causa di APLV e quindi di broncospasmo ricorrente nel lattante. La microaspirazione di latte nelle vie aeree porterebbe infatti, in soggetti predisposti, ad una precoce sensibilizzazione all’ alimento con attivazione linfocitaria T e produzione “in loco” di IgE specifiche. Un GER che non risponde alla terapia dovrebbe essere sempre considerato come secondario ad un’ APLV (20 - 40 % dei casi). Il nostro caso potrebbe essre individuato come una forma di APLV non IgE mediata. L’ approccio diagnostco-terapeutico di fronte ad una clinica suggestiva di RGE-APLV dovrebbe considerare una dieta di esclusione prima d’ intraprendere un trial terapeutico farmacologico e di riservare quest’ ultimo solo ai casi non responsivi alla dieta di esclusione. Non escludere “a priori” un’ APLV, in casi particolari e suggestivi, anche di fronte ad esami allergologici negativi. COMUNICAZIONI E POSTER 384 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE UN NUOVO CASO INUSUALE DI MALATTIA LINFOPROLIFERATIVA POST EPATOTRAPIANTO EBV CORRELATO CON VIREMIA NEGATIVA N. Di Cosmo1, S. Lenta1, M. Caropreso1, S. Maddaluno1, I. De Napoli1, G. Capuano1, M. Esposito1, G. Torre2 1 2 Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli, “Federico II” Pediatria- Ospedali Riuniti di Bergamo. Introduzione I pazienti sottoposti ad epatotrapianto possono andare incontro a numerose complicanze a breve ed a lungo termine. Una delle più temibili è la malattia linfoproliferativa post trapianto (PTLD) frequentemente correlata all’infezione da Epstein-Barr Virus (EBV). In genere la PTLD si associa ad un’elevata carica viremica dell’EBV e presenza dell’EBV DNA nel tessuto bioptico. Un piccolo numero di casi di PTLD EBV correlati con negatività della viremia periferica è stato tuttavia descritto (1). La patogenesi di questi ultimi rimane comunque incerta. Scopi Scopo del presente abstract è riportare un caso di PTLD EBV-correlato a localizzazione faringo-laringea insorto a lungo termine post-epatotrapianto in una paziente con assenza di segni ematici di attiva replicazione virale. Caso clinico Simona è una bambina di 8 anni, epatotrapiantata all’età di 8 mesi per atresia delle vie biliari extraepatiche. Il trapianto è stato complicato da trombosi della vena porta con conseguente sviluppo di ipertensione portale. Tale condizione è attualmente trattata con terapia ipotensivante del circolo portale (beta bloccante) e legatura delle varici esofagee. Da alcuni anni la paziente presentava quadri recidivanti di bronco pneumopatia interstiziale da Clamydia e Mycoplasma associati a desaturazione e distress respiratorio. Nonostante cicli protratti di terapia antibiotica e.v. e la normalizzazione dei parametri flogistici Simona continuava a presentare dispnea e ipossiemia. Nel corso di una seduta endoscopica di follow-up dell’ipertensione portale, all’età di 7 anni (Marzo 2008), è stata scoperta la presenza di neoformazioni vegetanti a livello del faringe e dell’aditus laringeo. Il quadro istologico ha evidenziato un denso infiltrato linfoide diffuso con prevalenza di elementi a fenotipo B (DC 20+, CD 79a+, CD5-) con rare cellule positive per EBV. Il riarrangiamento IgH mostrava un quadro di policlonalità. La viremia per EBV era costantemente negativa e la sierologia per il virus era caratterizzata da IgG positive/IgM negative. Visto il quadro macroscopico e i dati compatibili con PTLD polimorfica-policlonale si decideva di sospendere la somministrazione di Tacrolimus e di iniziare terapia con Prednisone. Tenuto conto del quadro di rigetto cronico già presente alle precedenti biopsie epatiche si è ritenuto prudenziale sospendere completamente la terapia immunosoppressiva solo per un breve periodo e di introdurre accanto allo steroide la Rapamicina (Sirolimus) per la sua efficacia immunosoppressiva ed anti-proliferativa. Tale approccio ha determinato negli ultimi 7 mesi un miglioramento delle condizioni cliniche di Simona con normalizzazione del quadro respiratorio (scomparsa della dispnea) e normalizzazione delle saturimetrie anche durante il sonno. All’ultimo controllo laringoscopico si è evidenziata una netta regressione del quadro con residua minima neoformazione in sede anteriore. Per l’esiguità del quadro non è stato possibile eseguire biopsia. Conclusioni Il nostro caso conferma che il monitoraggio della viremia dell’EBV non è sempre in grado di identificare pazienti a rischio e/o affetti da PTLD EBV correlato. Il giudizio clinico è di fondamentale importanza nella ricerca di tale complicanza anche in assenza di parametri laboratoristici suggestivi. COMUNICAZIONI E POSTER GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE 385 Bibliografia 1. Levenson BM, Ali SA, Timmons CF, Mittal N, Muthukumar A, Payne DA. Unusual case of Epstein-Barr virus DNA tissue positive: Blood negative in a patient with post-transplant lymphoproliferative disorder. Pediatr Transplant. 2008 [Epub ahead of print] COMUNICAZIONI E POSTER 386 GASTROENTEROLOGIA E NUTRIZIONE UNA ESPERIENZA DI QUASI MORTE PER UNA MALATTIA DI MODA TRA NOI PEDIATRI L. Acampora1, A. Granata2, G. Rossi2, M.A. Faraldo1 1 2 Unità Operativa Pediatria A.O. San Sebastiano Caserta Pediatria di Base. ASL CE 2. Distretto 38. Caso clinico Giunge in PS alle ore 21:56 un maschietto di 52 giorni privo di sensi. Interrogati i genitori si apprende che il piccolo aveva avuto una crisi di apnea mentre la madre lo stava cambiando con impallidimento ed ipotono muscolare. Anamnesi familiare : (madre allergica, nonna materna ipertesa, nonna paterna diabetica.) Anamnesi personale (nato da parto distocico, peso alla nascita kg 3, 650, allattato al seno.) Anamnesi patologica remota (a 36 gg crisi respiratoria da “ ab ingestis”, 2 esami ecocardiografici (inizialmente piccolo DIA, successivamente non più confermato.) No disturbi del sonno, no problemi alimentari. ESAME OBIETTIVO ALL’INGRESSO IN PS :Peso kg 5, 750, T 36, 50° C, SAT O2 93%, FC 121 b/m, tachipnea. Cute pallida, subcianosi periorale, appare inanimato, ipotonico, immobile,. Viene rianimato, si riprende in pochi minuti,. Praticato un prelievo d’urgenza ed un esame radiografico. A causa di difficoltà di prelievo arrivano solo alcune risposte: PT 81, 3 % INR 1, 11, PTT 32 sec. GB 12, 420, GR 3.010.000, HT 25%, HB 8, 5 g %, PLT 384.000. l’ RX torace evidenzia una accentuazione della trama polmonare. Viene ricoverato e monitorato con saturimetro. Durante il ricovero appare sempre sofferente con cute pallida. Al torace si apprezza respiro aspro diffuso con ronchi e rantoli su tutto l’ambito respiratorio. Un piccolo soffio 1-2/6 sulla parasternale sx. Il giorno successivo al ricovero alla ore 8.25 viene praticato ecocolordoppler cerebrale risultato nella norma. Si programmano : EAB, routine ematologia pediatrica + RAST per PLV, Tamponi, EEG, Holter, ECG, ecocardiogramma. Prescritta la seguente terapia : (lavaggi nasali, aerosol con clenil A e soluzione fisiologica, 3 volte al dì). Alle ore 18: 40 nuova crisi di apnea : SAT O2 95 %, EAB : PH 7.47, PCO2 16 mmHg, PO2 76, Na + 157mEq/L, K+3.6 Ht 20%, Be -12.1 mmol/L. Viene applicato cardiomonitor e si aggiunge in terapia ranitidina (1, 5 ml x 2). RISPOSTE ESAMI : Emocromo (GB 13.650, GR 3.260.000) PLT 499.000, HB 9.3 gr/Dl, HT 27.1%. Sierologia ed indici infiammatori nella norma. IGE totali e RAST X PLV. Negativi. Ricerca sangue occulto negativo. Coprocultura x SS negativa. EAB venoso : PH 7.33, pCO2 45 mmhg Po243, BE-2.2. EEG (nella norma) Gli esami strumentali sono tutti nella norma. Holter (extrasistolia ventricolare non frequente.). Dal diario clinico giornaliero si rileva che le crisi di apnea sono più frequenti nelle ore pomeridiane e notturne, il pz presenta spesso crisi di pianto rabbioso inconsolabile, mostra schiumetta alla bocca, assume un atteggiamento in opistotono inarcando il tronco ed il collo. Si fa diagnosi: Condizione SIMIL ALTE. SINDROME DI SANDIFER. MALATTIA DA RGE. Alla dimissione: terapia posturale antireflusso e Ranitidina x os (10 mg/kg b.i.d.). Non viene ritenuta necessaria la PH impedenziometria GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE Giosi Saggese COMUNICAZIONI E POSTER 388 GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE Case report: Sindrome di Leopard aspetti clinici ed anestesiologici L. Moccia, S. Campa, R. Grella Seconda Università degli Studi di Napoli - Cattedra di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva Introduzione La sindrome di LEOPARD è una rara sindrome malformativa caratterizzata da alterazioni cardiache, cutanee e facciali. La denominazione deriva da un acronimo inglese in cui L sta per lentigines, E per electrocardiographic conduction defects, O per ocular hypertelorism, P per pulmonary stenosis, A per abnormality of the genitalis, R per retarded growth e D per deafness. La reale incidenza di questa sindrome rimane sconosciuta anche se viene stimata intorno a 1 /1000-2500; colpisce in uguale misura sia il sesso maschile che quello femminile. È una sindrome che viene trasmessa con modalità autosomica dominante; in circa l’85% dei casi è stata riscontrata una mutazione missenso degli esoni 7, 12 o 13 del gene PTPN11 mappata in 12q24 che regola la produzione della proteina SHP-2. La diagnosi si basa sulle valutazioni cliniche che comprendono la necessità di eseguire videat: cardiologici, endocrinologici, neuropsichiatrici e otorinolaringoiatrici ed un esame istologico. La terapia chirurgica ha l’obiettivo di curare le varie anomalie apparse. Caso clinico Presentiamo il caso di X. X di anni 15 arrivato alla nostra osservazione nel 2006 con diagnosi di Sindrome di Noonan variante di LEOPARD. Il paziente si presentava all’esame obiettivo con un aspetto caratteristico del viso di forma triangolare e con bassa attaccatura delle orecchie; quest’ultime presentavano entrambe una conformazione ad ansa e una deviazione dell’asse verticale particolarmente evidente all’ altezza del padiglione auricolare. Presentava inoltre lentiggini su viso e collo. Il paziente è stato dunque sottoposto ad intervento chirurgico di otoplastica volto a correggere i dimorfismi a carico delle orecchie. L’intervento può essere eseguito in anestesia locale con o senza sedazione oppure in anestesia generale in funzione dell’età del paziente. Consiste nell’asportazione di una piccola ellisse di cute della faccia posteriore del padiglione auricolare, successivamente si indebolisce la cartilagine con il bisturi e si provvede al rimodellamento e al riposizionamento di quest’ultima che viene suturata nella nuova posizione con punti non riassorbibili. Al termine dell’intervento è stata realizzata una medicazione modicamente compressiva e instaurata una terapia analgesica per os e una terapia antibiotica. COMUNICAZIONI E POSTER GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE 389 DISOSTOSI ACROFACCIALE TIPO NAGER F. Fulia1, P. Meo1, C. Cacace1, A. Anania1, G. Corsello2 1 Unità di Terapia Intensiva Neonatale (Direttore: Dott. Elio Coletta) - Ospedale di Patti (ME) Dipartimento Materno Infantile Università di Palermo (Direttore Prof. Giovanni Corsello) 2 Neonata di sesso femminile nata da taglio cesareo d’elezione alla 38^ settimana da gravidanza decorsa in modo fisiologico. Peso alla nascita 2940 gr. Trasferita presso il nostro reparto reparto la piccola viene sottoposta ad un attento esame clinico che evidenzia dismorfisimi facciali evidenti quali: Rime palpebrali antimongoliche; stenosi dei dotti lacrimali; naso grosso a bulbo; macrostomia; macroglossia; agenesia della lamina posteriore del palato; micrognazia; ipoplasia malare; padiglioni auricolari ad impianto basso; I dito della mano con impianto prossimale; stenosi del condotto uditivo esterno di destra. La facies tipica delle forme di disostosi mandibolo-facciale associata alle anomalie degli arti superiori ci ha permesso di porre diagnosi di Sindrome di Nager. Si tratta di una rara forma di disostosi oro-facciale caratterizzata da dimorfismi facciali tipici quali: ipoplasia malare e mandibolare marcate, rime palpebrali inclinate verso il basso con assenza delle ciglia nella parte media della palpebra inferiore, talora assenza o stenosi dei condotti lacrimali e palatoschisi; padiglioni auricolari a basso impianto, dismorfici, con stenosi o atresia dei condotti uditivi esterni, talvolta presenza di appendici cutanee preauricolari. In più sono tipiche le anomalie del pollice:ipoplasia, aplasia, trifalangismo, con o senza anomalie delle ossa dell’avambraccio:ipoaplasia del radio e sinostosi radio-ulnare con estensione limitata dell’avambraccio. Sono incostanti altri difetti quali: la sindattilia o l’assenza delle dita dei piedi, ipoplasia delle coste, la lussazione dell’anca, la bassa statura, il criptorchidismo, la displasia delle mammelle, raramente i difetti cardiaci. Posta la diagnosi di sindrome malformativa la paziente è stata sottoposta ad una serie di indagini strumentali. La radiografia del torace, delle mani, degli avambracci e l’ecografia cardiaca sono risultate negative. L’ecografia cerebrale ha evidenziato un pregresso versamento emorragico in regione subependimale di sinistra. L’ecografia renale, invece, ha mostrato una iperecogenicità della midolla regredita ai controlli successivi. La tomografia assiale computerizzata ha confermato la stenosi del condotto uditivo esterno di destra. Ugualmente positivi (TEOAE : refer) sono risultati i test audiologici. La prevalenza non è nota; sono stati pubblicati circa 70 casi di sindrome di Nager. Come la maggior parte dei casi descritti in letteratura anche il nostro risultava un caso sporadico, legato ad una nuova mutazione. Di questa sindrome è certa la base genetica, c’è evidenza di trasmissione sia a carattere dominanate che recessiva soprattutto per le forme con gravi difetti degli arti e palatoschisi. Il gene è stato mappato sul cromosoma 9 (9q32). I soggetti affetti da tale patologia presentano problemi di respirazione ed alimentazione correlati all’ipoplasia delle vie aeree superiori. Nella nostra paziente si è resa necessaria solo ossigenoterapia per un periodo di 5 giorni. Per quanto riguarda le problematiche alimentari la piccola è stata nutrita con sondino orogastrico. In atto le condizioni clinico-auxologiche sono soddisfacenti ed è stato avviato un programma di follow-up multidisciplinare. COMUNICAZIONI E POSTER 390 GENETICA E SINDROMI MALFORMATIVE La malattia di Morquio, descrizione di un caso clinico A. D’Apuzzo, G. Miranda, A. Miranda, A. Borrelli, P. Ranieri, A. Possemato, M. Sansone, S. Tarallo, M. Caputo Clinica S.Lucia S.G. Vesuviano La malattia di Morquio o Mucopolissacaridosi IV è una malattia lisosomiale causata dal difetto di due enzimi coinvolti nella degradazione dei mucopolissacaridi : la galattosidasi-6-sulfatasi (Morquio A) e la Beta-galattosidasi(Morquio B). Ambedue sono trasmesse con modalità autosomica recessiva. Il gene che codifica la galattosidasi -6-sulfatasi è stato localizzato sul cromosoma 16q24. Le malattie lisosomiali sono caratterizzate da una sintomatologia progressivamente ingravescente psicomotoria e a carico della milza,, del fegato, dello scheletro, della cute, degli annessi cutanei e dell’occhio. Esordiscono generalmente nei primi mesi di vita oppure nei primi 2 anni di vita, hanno un decorso progressivo e cronico e presentano caratteristiche cliniche comuni(un aspetto dismorfico e gargoil-simile del viso, macrocrania, nanismo, disostosi multiple, limitazione della motilità, ritardo mentale (che è assente nella m. di Morquio), e una serie di altri sintomi quali epatosplenomegalia, frequenti bronchiti, sordità, opacità corneali. Esistono tuttavia mal