Insegnare la Resistenza
StoriaE – Anno 3 - n. 2 – Maggio 2005
Antologia di testi letterari
Letteratura e Resistenza
di Elena Farruggia
Presentiamo, nel vasto
panorama della letteratura
su questo tema, la sintesi di
un percorso di approfondimento realizzato in occasione del Cinquantenario
della Resistenza dal prof.
Rudi Zinelli in un progetto
comune che ha coinvolto
la V PD dell’ITC in lingua
tedesca Kunter e la V AC
dell’IPIA in lingua italiana
Galilei nell’anno scolastico 1994-95. Il percorso
(che nella sua completezza
prevede anche una riflessione sul cinema) prende
avvio dalla Prefazione di
Calvino all’edizione del
1964 de Il sentiero dei
nidi di ragno:
L’esplosione letteraria di
quegli anni in Italia […]
fu un fatto fisiologico,
esistenziale, collettivo.
Avevamo vinto la guerra e noi più giovani - che
avevamo fatto in tempo
a fare il partigiano - […]
sentivamo la vita come
qualcosa che può ricominciare da zero. Molti
racconti nacquero da quel clima. […] La voce
anonima dell’epoca era più forte del singolo scrittore. […] L’essere usciti da un’esperienza -la
guerra civile - che non aveva risparmiato nessuno,
stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra
lo scrittore e il suo pubblico. Si era tutti alla pari:
carichi di storie da raccontare, ognuno aveva vissuto vite irregolari,drammatiche, avventurose, ci
si strappava la parola di bocca. La rinata libertà
di parlare fu per la gente subito smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare […]
ogni passeggero raccontava le vicende che gli
erano accorse. Ci muovevamo in un multicolore
universo di storie. Chi cominciò a scrivere si trovò cosí a raccontare le stesse storie dell’anonimo
narratore orale: alle storie che avevamo vissuto
di persona […] si aggiungevano quelle che ci
erano arrivate già come racconti […]. Durante la
guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate
la notte attorno al fuoco,, acquistavano già uno
stile, un linguaggio, un umore come di bravata
[….] Il neorealismo non fu una scuola. […] Fu
un insieme di voci -in gran parte periferiche, una
molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o
specialmente – delle Italie più inedite per la letteratura […]. La Resistenza rappresentò la fusione
tra paesaggio e persone. Fu da questa possibilità
di collocare storie umane nei paesaggi che nacque
il neorealismo. […] Al tempo del “Sentiero dei
nidi di Ragno”, creare una “letteratura della resistenza” era ancora un problema aperto, scrivere
il “romanzo della resistenza” si poneva come un
imperativo; a due mesi dalla Liberazione c’era
già “Uomini e no” di Vittorini nelle vetrine. […]
Noi che eravamo stati partigiani di montagna volevamo il nostro romanzo.
Su queste considerazioni si innestano una serie di
letture (qui ridotte rispetto al progetto originale)
che ci danno conto di come, negli anni - o meglio
nei mesi - immediatamente successivi alla fine
della guerra, le esperienze della lotta partigiana
venissero trascritte in una forma letteraria che,
semplificata col termine di “neorealismo”, comprendeva in realtà stili e scelte narratologiche
molto differenti, collegate tra loro però da un
“comune sentire”. Vittorini, in Uomini e no, tenta
di unire l’oggettività storica e la sua ispirazione
lirica, senza capire che
quest’ultima è un limite
nei confronti della prima. Nel titolo stesso poi
c’è già l’atteggiamento
retorico che appare
chiaro nell’episodio dei
Morti di Largo Augusto:
gli uomini (i partigiani)
che sono dalla parte
giusta capiscono tutto;
gli altri, gli oppressori,
sono il Lupo, il Male,
che colpisce l’umanità
nei suoi punti più deboli
(le donne, i vecchi, i ragazzi, le bambine) non
rispettando neppure la
dignità della morte.
Pavese non riesce a
essere totalmente oggettivo in quanto le “sue”
Langhe non sono reali, ma sono riviste come
un luogo mitico, in cui lo scrittore, incapace
di partecipare attivamente alla resistenza, cerca di superare almeno la visione retorica (alla
49. Da sinistra a destra: Fenoglio, Vittorini,
StoriaE rivista di storia e didattica della storia. Sovrintendenza Scolastica Bolzano. www.emscuola.org/labdoc storia/storiae
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storiae
Vittorini) ponendosi di fronte ai morti (tutti, anche
quelli nemici) con un bisogno di capire, di giustificare quelle morti: solo realizzando gli ideali per
cui si è combattuto, sostiene l’autore, si potranno
giustificare le morti e la guerra civile. Così, la guerra è finita solo per i morti; per i vivi continuerà il
peso dei morti finché non si realizzeranno gli ideali
per cui si è combattuto.
Calvino stesso, cercando di uscire dalla retorica con la scelta della resistenza vista da un
bambino (Il sentiero dei nidi di ragno, Ultimo
viene il corvo) ne dà un’immagine favolistica
che allontana gli aspetti drammatici.
Fenoglio realizza le fusione paesaggio-uomo.
Milton conduce la sua guerra infangato, infreddolito, bagnato; il paesaggio delle Langhe, le
colline da scavalcare, i fiumi da guadare perché
i ponti sono minati, la nebbia che avvolge tutto
(e permette ai repubblichini di catturare Giorgio),
la paura di un altro inverno di guerra, sono i veri,
mille ostacoli che i partigiani affrontavano nella
loro guerriglia di montagna. Ma appunto Milton
conduce la sua guerra; nel racconto via via si perde il motivo comune, e predomina la “questione
privata”. Il personaggio letterario, il romanzo classico, così, in Fenoglio si fondono strettamente con
la realtà, ci danno uno “spaccato” della resistenza
che esce dalla retorica, dalla mitizzazione e che
diventa davvero una questione “umana”.
Uomini e no
Elio Vittorini
I morti al Largo Augusto non erano cinque
soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria;
sette erano nella piazza delle Cinque Giornate,
ai piedi del monumento.
Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti:
Passati per le armi. Non dicevano altro, anche
34 storiae
i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano
due ragazzi di quindici anni. C’era anche una
bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla
barba bianca. La gente andava per il Largo Augusto e il corso di Porta Vittoria fino a piazza
delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole
su un marciapiede, i morti all’ombra su un altro
marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto
il monumento, e non aveva bisogno di sapere
altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi,
i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui
berretti degli uomini di guardia, e sembrava che
comprendesse ogni cosa. Come? Anche quei due
ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni
cosa? Per questo, appunto, sembrava anzi che
comprendesse ogni cosa. Nessuno si stupiva di
niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava.
C’era, tra la gente, il Gracco. C’erano Orazio e
Metastasio; Scipione; Mambrino. Ognuno era per
suo conto, come ogni uomo ch’era nella folla. C’era
Barca Tartaro. Passò, un momento, anche El Paso.
C’era Figlio-di-Dio. E c’era Enne 2. Essi, naturalmente, comprendevano ogni cosa; anche il perché
delle donne, della bambina, del vecchio, dei due
ragazzi; ma ogni uomo ch’era nella folla sembrava
comprendere come ognuno di loro: ogni cosa.
Perché? il Gracco diceva.
Una delle due donne era avvolta nel tappeto di
un tavolo. L’altra, sotto il monumento, sembrava
che fosse cresciuta, dopo morta, dentro il suo
vestito a pallini: se lo era aperto lungo il ventre
e le cosce, dal seno alle ginocchia; e ora lasciava
vedere il reggicalze rosa, sporco di vecchio sudore, con una delle giarrettiere che pendeva
attraverso la coscia dove avrebbe dovuto avere
le mutandine. Perché quella donna nel tappeto?
Perché quell’altra?
E perché la bambina? Il vecchio? I due ragazzi?
II vecchio era ignudo, senz’altro che la lunga
barba bianca a coprire qualcosa di lui, il colmo
del petto; stava al centro dei sette allineati ai piedi del monumento, non segnato da proiettili, ma
livido nel corpo ignudo, e le grandi dita dei piedi
nere, le nocche alle mani nere, le ginocchia nere,
come se lo avessero colpito, così nudo, con armi
avvelenate di freddo.
I due ragazzi, sul marciapiede all’ombra di
Largo Augusto, erano invece sotto una coperta.
Una in due, e stavano insieme, nudi i piedi fuori
della coperta, e in faccia serii, non come morti
bambini, con paura, con tristezza, ma serii da
grandi, come i morti grandi vicino ai quali si
trovavano.
E perché, loro? Il Gracco vide, dove lui era,
Orazio e Metastasio. Con chi aveva parlato, nella
vigilia nell’automobile, di loro due? Con l’uno
o l’altro, egli aveva parlato tutta la sera, sempre
conversava con chi si incontrava, e ora lo stesso parlava, conversava, come tra un uomo e un
uomo si fa, o come un uomo fa da solo, di cose
che sappiamo a cui pur cerchiamo una risposta
nuova, una risposta strana, una svolta di parole
che cambi il corso, in un modo o in un altro, della
nostra consapevolezza.
Li guardò, dal lato suo dell’angolo che passava
attraverso i morti, e una piccola ruga venne, rivolta a loro insieme allo sguardo, in mezzo alle labbra di quella sua faccia dalle tempie bianche.
Orazio e Metastasio gli risposero quasi nello
stesso modo. Come se lui avesse chiesto: E perché loro? Mossero nello stesso modo la faccia, e
gli rimandarono la domanda: E perché loro?
Ma c’era anche la bambina.
Più giù, tra i quattro del corso, dagli undici
o dodici anni che aveva, mostrava anche lei la
faccia adulta, non di morta bambina, come se
nel breve tempo che l’avevano presa e messa al
muro avesse di colpo fatta la strada che la separava dall’essere adulta. La sua testa era piegata
verso l’uomo morto al suo fianco, quasi recisa
nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi
capelli stavano nel sangue raggrumati, la sua
faccia guardava seria la seria faccia dell’uomo
che pendeva un poco dalla parte di lei.
Perché lei anche?
Gracco vide passare un altro degli uomini che
aveva conosciuto la sera prima, il piccolo Figliodi-Dio, e fu un minuto con lui nella sua conver-
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sazione eterna. Rivolse a lui il movimento della
sua faccia, quella ruga improvvisa in mezzo alle
labbra, quel suo sguardo d’uomo dalle tempie
bianche; e Figlio-di-Dio fece per avvicinarglisi.
Ma poi restò dov’era. Perché lei? il Gracco
chiedeva. E Figlio-di-Dio rispose nello stesso
modo, guardandolo. Gli rimandò lui pure: la
domanda: Perché lei?
Perché? la bambina esclamò. Come perché?
Perché sì! Tu lo sai e tutti lo sapete. Tutti lo sappiamo. E tu lo domandi?
Essa parlò con l’uomo morto che gli era accanto.
Lo domandano, gli disse. Non lo sanno?
Si, sì, l’uomo rispose. Io lo so. Noi lo sappiamo.
Ed essi no? la bambina disse. Essi pure lo
sanno.
Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, e i morti
glielo dicevano. Chi aveva colpito non poteva
colpire di più nel segno. In una bambina e in un
vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una
donna, in un’altra donna: questo era il modo migliore di colpir l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era
più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la
vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e
il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva
colpito voleva essere il lupo, far paura all’uomo.
Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credesse di avere il lupo per
fargli paura.
Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura.
La casa in collina
Cesare Pavese
Niente è accaduto. Sono a casa da sei mesi, e
la guerra continua. Anzi, adesso che il tempo si
guasta, sui grossi fronti gli eserciti sono tornati a
trincerarsi, e passerà un altro inverno, rivedremo
la neve, faremo cerchio intorno al fuoco ascoltando la radio. Qui sulle strade e nelle vigne la
fanghiglia di novembre comincia a bloccare le
bande; quest’inverno, lo dicono tutti, nessuno
avrà voglia di combattere, sarà già duro essere
al mondo e aspettarsi di morire in primavera. Se
poi, come dicono, verrà molta neve, verrà anche
quella dell’anno passato e tapperà porte e finestre,
ci sarà da sperare che non disgeli mai più.
Abbiamo avuto dei morti anche qui. Tolto
questo e gli allarmi e le scomode fughe nelle
forre dietro i beni (mia sorella o mia madre che
piomba a svegliarmi, calzoni e scarpe afferrati
a casaccio, corsa aggobbita attraverso la vigna,
e l’attesa, l’attesa avvilente), tolto il fastidio e
la vergogna, niente accade. Sui colli, sul ponte
di ferro, durante settembre non è passato giorno senza spari - spari isolati, come un tempo in
stagione di caccia, oppure rosari di raffiche. Ora
si vanno diradando. Quest’è davvero la vita dei
boschi come si sogna da ragazzi. E a volte penso
35
storiae
se non fosse che la guerra ce la siamo covata
nel cuore noialtri - noi non più giovani, noi che
abbiamo detto « Venga dunque se deve venire»
- anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe
una cosa pulita.
Del resto chi sa. Questa guerra ci brucia le
case. Ci semina di morti fucilati piazze e strade.
Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per
strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che
nessuno sarà fuori della guerra - né i vigliacchi,
né i tristi, né i soli. Da quando vivo qui coi miei,
ci penso spesso. Tutti avremo accettato di far la
guerra. E allora forse avremo pace. […]
E’ qui che la guerra mi ha preso, e mi prende
ogni giorno. Se passeggio nei boschi, se a ogni
sospetto di rastrellatori mi rifugio nelle forre, se
a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche
Giorgi c’è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi
diceva: «Avremo tempo le sere di neve a riparlarne»), non è che non veda come la guerra non è
un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che
prende alla gola anche il nostro passato. Non so
se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno.
Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto
i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono
questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un
nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci
si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire
che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo
averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare
una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha
sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non
sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati
sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo
stesso destino che ha messo a terra quei corpi,
tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene
gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si
sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli
occhi - che al posto del morto potremmo essere
noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo
dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni
guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia
a chi resta, e gliene chiede ragione. […]
Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti,
se un giorno finisse, dovrebbe chiedersi: - E dei
caduti che facciamo? perché sono morti? -Io non
saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né
mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno
unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra
è finita davvero.
Ultimo viene il corvo
Italo Calvino
La corrente era una rete di increspature
leggere e trasparenti, con in mezzo l’acqua che
andava. Ogni tanto c’era come un battere d’ali
d’argento a fior d’acqua: il lampeggiare del dorso
di una trota che riaffondava subito a zig-zag.
- C’è pieno di trote, - disse uno degli uomi-
36 storiae
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ni.
- Se buttiamo dentro una bomba vengono tutte
a galla a pancia all’aria, - disse l’altro; si levò
una bomba dalla cintura e cominciò a svitare il
fondello.
Allora s’avanzò il ragazzo che li stava a guardare, un ragazzotto montanaro, con la faccia a
mela. - Mi dai, - disse e prese il fucile a uno
di quegli uomini. - Cosa vuole questo? - disse
l’uomo e voleva togliergli il fucile. Ma il ragazzo puntava l’arma sull’acqua come cercando un
bersaglio. «Se spari in acqua spaventi i pesci
e nient’altro», voleva dire l’uomo ma non finì
neanche. Era affiorata una trota, con un guizzo,
e il ragazzo le aveva sparato una botta addosso,
come l’aspettasse proprio lì. Ora la trota galleggiava con la pancia bianca. - Cribbio, - dissero
gli uomini.
Il ragazzo ricaricò l’arma e la girò intorno.
L’aria era tersa e tesa: si distinguevano gli aghi sui
pini dell’altra riva e la rete d’acqua della corrente.
Una increspatura saettò alla superficie: un’altra
trota. Sparò: ora galleggiava morta. Gli uomini
guardavano un po’ la trota un po’ lui. - Questo
spara bene, - dissero.
Il ragazzo muoveva ancora la bocca del fucile
in aria. Era strano, a pensarci, essere circondati
così d’aria, separati da metri d’aria dalle altre
cose. Se puntava il fucile invece, l’aria era una
linea diritta ed invisibile, tesa dalla bocca del
fucile alla cosa, al falchetto che si muoveva
nel cielo con le ali che sembravano ferme. A
schiacciare il grilletto l’aria restava come prima
trasparente e vuota, ma lassú all’altro capo della
linea il falchetto chiudeva le ali e cadeva come
una pietra. Dall’otturatore aperto usciva un buon
odore di polvere.
Si fece dare altre cartucce. Erano in tanti ormai
a guardarlo, dietro di lui in riva al fiumicello. Le
pigne in cima agli alberi dell’altra riva perché
si vedevano e non si potevano toccare? Perché
quella distanza vuota tra lui e le cose? Perché le
pigne che erano una cosa con lui, nei suoi occhi,
erano invece là, distanti? Però se puntava il fucile
la distanza vuota si capiva che era un trucco; lui
toccava il grilletto e nello stesso momento la pigna cascava, troncata al picciolo. Era un senso di
vuoto come una carezza: quel vuoto della canna
del fucile che continuava attraverso l’aria e si
riempiva con lo sparo, fin laggiú alla pigna, allo
scoiattolo, alla pietra bianca, al fiore di papavero.
- Questo non ne sbaglia una, - dicevano gli uomini
e nessuno aveva il coraggio di ridere.
- Tu vieni con noi, - disse il capo.
- E voi mi date il fucile, - rispose il ragazzo.
- Ben. Si sa.
Andò con loro.
Partì con un tascapane pieno di mele e due forme di cacio. Il paese era una macchia d’ardesia,
paglia e sterco vaccino in fondo alla valle. Andare
via era bello perché a ogni svolta si vedevano
cose nuove, alberi con pigne, uccelli che volavano dai rami, licheni sulla pietre, tutte cose nel
raggio delle distanze finte, delle distanze che lo
sparo riempiva inghiottendo l’aria in mezzo.
Non si poteva sparare però, glielo dissero:
erano posti da passarci in silenzio e le cartucce
servivano per la guerra. Ma a un certo punto un
leprotto spaventato dai passi traversò il sentiero
in mezzo al loro urlare e armeggiare. Stava già
per scomparire nei cespugli quando lo fermò una
botta del ragazzo. - Buon colpo, - disse anche il
capo, - però qui non siamo a caccia. Vedessi anche
un fagiano non devi più sparare.
Non era passata un’ora che nella fila si sentirono altri spari. - È il ragazzo di nuovo! - s’infuriò
il capo e andò a raggiungerlo. Lui rideva, con
la sua faccia bianca e rossa, a mela. - Pernici,
- disse, mostrandole. Se n’era alzato un volo da
una siepe.
- Pernici o grilli, te l’avevo detto. Dammi il
fucile. E se mi fai imbestialire ancora torni al
paese.
Il ragazzo fece un po’ il broncio; a camminare
disarmato non c’era gusto, ma finché era con loro
poteva sperare di riavere il fucile.
La notte dormirono in una baita da pastori.
Il ragazzo si svegliò appena il cielo schiariva,
mentre gli altri dormivano. Prese il loro fucile
piú bello, riempí il tascapane di caricatori e uscí.
C’era un’aria timida e tersa, da mattina presto.
Poco discosto dal casolare c’era un gelso. Era
l’ora in cui arrivavano le ghiandaie. Eccone una:
sparò, corse a raccoglierla e la mise nel tascapane.
Senza muoversi dal punto dove l’aveva raccolta
cercò un altro bersaglio: un ghiro! Spaventato
dallo sparo, correva a rintanarsi in cima ad un
castagno. Morto era un grosso topo con la coda
grigia che perdeva ciuffi di pelo a toccarla. Da
sotto il castagno vide, in un prato piú basso, un
fungo, rosso coi punti bianchi, velenoso. Lo
sbriciolò con una fucilata, poi andò a vedere se
proprio l’aveva preso. Era un bel gioco andare
cosí da un bersaglio all’altro: forse si poteva fare
il giro del mondo. Vide una grossa lumaca su una
pietra, mirò il guscio e raggiunto il luogo non vide
che la pietra scheggiata, e un po’ di bava iridata.
Cosí s’era allontanato dalla baita, giú per prati
sconosciuti.
Dalla pietra vide una lucertola su un muro, dal
muro una pozzanghera e una rana, dalla pozzanghera un cartello sulla strada, bersaglio facile.
Dal cartello si vedeva la strada che faceva zig-zag
e sotto: sotto c’erano degli uomini in divisa che
avanzavano ad armi spianate. All’apparire del ragazzo col fucile che sorrideva con quella faccia
bianca e rossa, a mela, gridarono e gli puntarono
le armi addosso. Ma il ragazzo aveva già visto
dei bottoni d’oro sul petto di uno di quelli e fatto
fuoco mirando a un bottone.
Sentí l’urlo dell’uomo e gli spari a raffiche o
isolati che gli fischiavano sopra la testa: era già
steso a terra dietro un mucchio di pietrame sul
53
37
storiae
ciglio della strada, in angolo morto. Poteva anche
muoversi, perché il mucchio era lungo, far capolino da una parte inaspettata, vedere i lampi alla
bocca delle armi dei soldati, il grigio e il lustro
delle loro divise, tirare a un gallone, a una mostrina. Poi a terra e lesto a strisciare da un’altra
parte a far fuoco. Dopo un po’ sentí raffiche alle
sue spalle, ma che lo sopravanzavano e colpivano i soldati: erano i compagni che venivano di
rinforzo coi mitragliatori. - Se il ragazzo non ci
svegliava coi suoi spari, - dicevano.
Il ragazzo, coperto dal tiro dei compagni, poteva mirare meglio. Ad un tratto un proiettile gli
sfiorò una guancia. Si volto: un soldato aveva
raggiunto la strada sopra di lui. Si buttò in una
cunetta, al riparo, ma intanto aveva fatto fuoco e
colpito non il soldato ma di striscio il fucile, alla
cassa. Sentí che il soldato non riusciva a ricaricare
il fucile, e lo buttava in terra. Allora il ragazzo
sbucò e sparò sul soldato che se la dava a gambe:
gli fece saltare una spallina.
L’inseguí. Il soldato ora spariva nel bosco
ora riappariva a tiro. Gli bruciò il cocuzzolo
dell’elmo, poi un passante della cintura. Intanto
inseguendosi erano arrivati in una valletta sconosciuta, dove non si sentiva piú il rumore della
battaglia. A un certo punto il soldato non trovò
piú bosco davanti a sé, ma una radura, con intorno
dirupi fitti di cespugli. Ma il ragazzo stava già
per uscire dal bosco: in mezzo alla radura c’era
una grossa pietra: il soldato fece appena in tempo
a rimpiattarcisi dietro, rannicchiato con la testa
tra i ginocchi.
Là per ora si sentiva al sicuro: aveva delle bombe a mano con sé e il ragazzo non poteva avvicinarglisi ma solo fargli la guardia a tiro di fucile,
che non scappasse. Certo, se avesse potuto con un
salto raggiungere i cespugli, sarebbe stato sicuro,
scivolando per il pendio fitto. Ma c’era quel tratto
nudo da traversare: fin quando sarebbe rimasto lì
il ragazzo? E non avrebbe mai smesso di tenere
l’arma puntata? Il soldato decise di fare una prova:
mise l’elmo sulla punta della baionetta e gli
fece far capolino fuori
dalla pietra. Uno sparo,
e l’elmo rotolò per terra,
sforacchiato.
Il soldato non si
perse d’animo; certo
mirare lí intorno alla
pietra era facile, ma se
lui si muoveva rapidamente sarebbe stato
impossibile prenderlo.
In quella un uccello
traversò il cielo veloce,
forse un galletto di marzo. Uno sparo e cadde.
Il soldato si asciugò il
sudore dal collo. Passò
un altro uccello, una
tordella: cadde anche
quello. Il soldato in-
38 storiae
ghiottiva saliva. Doveva essere un posto di passo,
quello: continuavano a volare uccelli, tutti diversi
e quel ragazzo a sparare e farli cadere. Al soldato
venne un’idea: «Se lui sta attento agli uccelli non
sta attento a me. Appena tira io mi butto». Ma
forse prima era meglio fare una prova. Raccattò
l’elmo e lo tenne pronto in cima alla baionetta. Passarono due uccelli insieme, stavolta: beccaccini.
Al soldato rincresceva sprecare un’occasione cosí
bella per la prova, ma non si azzardava ancora. Il
ragazzo tirò a un beccaccino, allora il soldato sporse l’elmo, sentí lo sparo e vide l’elmo saltare per
aria. Ora il soldato sentiva un sapore di piombo in
bocca; s’accorse appena che anche l’altro uccello
cadeva a un nuovo sparo.
Pure non doveva fare gesti precipitosi: era sicuro dietro quel masso, con le sue bombe a mano.
E perché non provava a raggiungere il ragazzo
con una bomba, pur stando nascosto? Si sdraiò
schiena a terra, allungò il braccio dietro a sé, badando a non scoprirsi, radunò le forze e lanciò
la bomba. Un bel tiro; sarebbe andata lontano;
però a metà della parabola una fucilata la fece
esplodere in aria. Il soldato si buttò faccia a terra
perché non gli arrivassero schegge.
Quando rialzò il capo era venuto il corvo.
C’era nel cielo sopra di lui un uccello nero che
volava a giri lenti, un corvo forse. Adesso certo
il ragazzo gli avrebbe sparato. Ma lo sparo tardava a farsi sentire. Forse il corvo era troppo alto?
Eppure ne aveva colpito di piu alti e veloci. Alla
fine una fucilata: adesso il corvo sarebbe caduto,
no, continuava a girare lento, impassibile. Cadde
una pigna, invece, da un pino lí vicino. Si metteva
a tirare alle pigne, adesso? A una a una colpiva le
pigne che cascavano con una botta secca.
A ogni sparo il soldato guardava il corvo:
cadeva? No, l’uccello nero girava sempre piú
basso sopra di lui. Possibile che il ragazzo non
lo vedesse? Forse il corvo non esisteva, era una
sua allucinazione. Forse chi sta per morire vede
passare tutti gli uccelli: quando vede il corvo
vuol dire che è l’ora. Pure, bisognava avvertire
il ragazzo che continuava a sparare alle pigne.
Allora il soldato si alzò in piedi e indicando l’uccello nero col dito, - Là c’è il corvo! - gridò, nella
sua lingua. Il proiettile lo prese giusto in mezzo
a un’aquila ad ali spiegate che aveva ricamato
sulla giubba.
Il corvo s’abbassava lentamente, a giri.
Una questione privata
Beppe Fenoglio
Verso le dieci di notte, Milton, anziché riessere
a Treiso con Leo, era in un casale sperduto alle
falde della immensa collina che dà su Santo Stefano e Canelli, a due ore di cammino da Treiso.
Nel buio la casa l’aveva trovata a tentoni, ma
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la conosceva a memoria. Era bassa e sbilenca
come se si fosse ricevuta sul tetto una tremenda
manata e non si fosse mai più riassestata. Era
grigia del medesimo grigio del tufo del vallone,
con finestrelle slabbrate e quasi tutte mascherate
da assiti fradici per le intemperie, con un ballatoio di legno anch’esso marcio e rattoppato con
parti di latte da petrolio. Un’ala era diroccata e le
macerie si ammucchiavano intorno al tronco di
un ciliegio selvatico. L’unico sorriso lo faceva,
quella casa, dalla parte del tetto rimessa a nuovo,
ma faceva senso, come un garofano rosso infilato
nei capelli di una vecchia megera.
Milton fumava e guardava fisso il magro fuoco
di tutoli di meliga, dando le spalle alla vecchia
che stava affondando i piatti della cena in una
conca di acqua fredda. [..]
Senza girar gli occhi la vecchia gli disse: - Tu
hai la febbre. Non alzar le spalle. La febbre non
vuole che le si alzino le spalle. Ne hai appena
un’oncia, ma ce l’hai.
A ogni boccata Milton tossiva o si sforzava
convulsivamente di soffocare la tosse.
La donna riprese: - Stavolta ti ho fatto mangiar male.
- Oh no! - disse Milton vivamente. - Mi avete
dato un uovo!
- Questo fuoco di tutoli non scalda, eh? Ma
la legna va risparmiata. L’inverno sarà lunghissimo.
Milton annuì con le spalle. - Sarà l’inverno più
lungo da che mondo è mondo. Sarà un inverno
di sei mesi.
- Perché di sei mesi?
- Non avrei mai creduto che avremmo dovuto
passare un secondo inverno. Nessuno venga a dirmi che lui l’aveva previsto o gli dò in faccia del
bugiardo e del millantatore -. Si voltò a metà verso
la vecchia e aggiunse: - L’altro inverno avevo un
bellissimo pellicciotto di agnello. Verso la metà di
aprile lo buttai via, sebbene fosse bellissimo e sebbene il cuore mi si stringa sempre un po’ al buttar via
la mia roba. [..] Quel pellicciotto lo buttai dietro una
siepe, dalle parti di Murazzano. Allora ero convinto
che prima del nuovo freddo avremmo avuto tutto il
tempo di rovesciarne due di fascismi
- E invece? Invece quando sarà finita? Quando
potremo dire fi-ni-ta?
- Maggio.
- Maggio!?
- Ecco perché ho detto che l’inverno durerà
sei mesi.
- Maggio, - ripeté la donna a se stessa. - Certo
che è terribilmente lontano, ma almeno, detto da
un ragazzo serio e istruito come te, è un termine.
E’ solo di un termine che ha bisogno la povera
gente! Da stasera voglio convincermi che a partire da maggio i nostri uomini potranno andare
alle fiere e ai mercati come una volta, senza
morire per la strada. La gioventù potrà ballare
all’aperto, le donne giovani resteranno incinte
volentieri, e noi vecchie potremo uscire sulla nostra aia senza la paura di trovarci un forestiero
armato. E a maggio, le sere belle, potremo uscire
fuori e per tutto divertimento guardarci e goderci
l’illuminazione dei paesi.
Mentre la donna parlava, descriveva l’estate
della pace, una smorfia dolorosa si disegnò e
fermò sulla faccia di Milton. Senza Fulvia non
sarebbe estate per lui, sarebbe stato l’unico al
mondo a sentir freddo in quella piena estate.
CALVINO I., Ultimo viene il corvo, Einaudi, Torino 1949.
FENOGLIO B., Una questione privata, Einaudi, Torino 1963.
PAVESE C., La casa in collina, Einaudi, Torino 1948.
VITTORINI E., Uomini e no, Bompiani, Milano 1945.
50. - 55. Acquarelli originali di Maria Lenar-
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storiae
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