Cesare
Bonezzi
Michelangelo
BUONOCORE
COD. 01820022
ASPETTI DI
FISIOPATOLOGIA
E TERAPIA
DEL DOLORE
Michelangelo
BUONOCORE
Cesare
Michelangelo
BONEzzi
BUONOCORE
Cesare
Michelangelo
Bonezzi
BUONOCORE
Cesare
B
ASP
FISIOPATO
ASPETTI DIE TE
DEL D
FISIOPATOLOGIA
E TERAPIA
DEL DOLORE
CORSO
ECM-FAD
Progetto di Formazione a Distanza
Responsabile Scientifico
Cesare Bonezzi
Direttore Unità di Ricerca in Fisiopatologia
e terapia del dolore - Fondazione
Salvatore Maugeri IRCCS Pavia
Tutor
Michelangelo Buonocore
Servizio di Neurofisiopatologia del Dolore
IRCCS Fondazione Maugeri Pavia
Per partecipare alla FAD
collegarsi al sito: ...-fad.it
dall’01/09/2013 al 31/12/2013
Copyright © 2013 Momento Medico S.r.l.
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(compresi microfilms, copie fotostatiche o xerografiche) sono riservati
Indice
1. Il dolore: aspetti generali e classificazioni
5
2. Meccanismi della sensibilizzazione periferica 12
3. Genesi ectopica degli impulsi 21
4. Meccanismi della sensibilizzazione centrale 31
5. La terapia combinata nel trattamento
del dolore cronico 43
1
Il Dolore: Aspetti
Generali e Classificazioni
Cesare Bonezzi
L’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) definisce il dolore
come “un’esperienza spiacevole, sensoriale ed emozionale, correlata con un danno
tissutale o descritta in tali termini” (Merskey 1994). Nella definizione vi sono due
parole che noi riteniamo essenziali: “l’esperienza” come ultimo atto della nocicezione, e il “danno” come primo fattore responsabile. Nella lingua greca∼antica la parola
esperienza era indicata con ε′μπειρι′α (empeirìa), composta da ε′ υ, η′ υ (in, all’inter∼
no) e πει ρα (prova) volendo significare che con l’esperienza il soggetto è in grado
di “saggiare” all’interno la realtà. Ma nella filosofia della scienza l’esperienza è il
fondamento delle osservazioni scientifiche basate sulle “sensate esperienze” e sulle
“dimostrazioni necessarie”. Il dolore provato è una esperienza e costruisce l’esperienza
per l’interpretazione di ogni altro dolore provato successivamente.
Il danno sta ad indicare che il dolore ha una sua origine in una lesione del nostro
corpo che, a sua volta, è in grado di generare meccanismi patogenetici. Nella pratica
clinica quotidiana moltissime malattie sono accompagnate da dolore, sia come sintomo
marginale del quadro clinico, sia come elemento dominante. In questa confusa quantità,
come è possibile costruire una classificazione del dolore se non partendo dal danno?
Quando ci si riferisce ad una possibile classificazione del dolore, acuto e cronico
che sia, si pensa ad un elenco di patologie di varia eziologia e appartenenza (presenti
nelle varie discipline medico-chiurgiche), che ovviamente sono caratterizzate dalla
presenza di dolore. La mancanza di una classificazione del dolore come malattia a sé
stante costituisce sicuramente un freno al progredire del sapere clinico ed epidemiologico in ambito sanitario.
A tale proposito J.J. Bonica (1990) ha commentato la situazione della scienza che
si occupa di dolore con l’espressione “una moderna torre di Babele”.
In effetti manca ancor oggi un linguaggio condiviso e una classificazione del dolore
come malattia che tenga conto della sua eziologia, della sua patogenesi ed ovviamente
del quadro clinico che determina e caratterizza. Nella letteratura troviamo molti tentativi
di classificazione del dolore in base alle discipline mediche (neurologia, reumatologia,
ortopedia ecc.), alla malattia di base (neoplasia ecc.) o alla diversa sede della malattia
stessa, al tessuto interessato (articolazioni, muscoli ecc.), alla durata del dolore. Un
interessante sforzo si sta osservando in questi ultimi tempi con il tentativo di una classificazione basata sul meccanismo patogenetico che sottende al dolore dichiarato da un
paziente. In particolare riteniamo importante chiarire alcune di queste classificazioni
e di capire quali implicazioni possano avere nella pratica clinica.
1. In base alla durata del dolore
Molto spesso si sente definire (e diagnosticare) il dolore di un paziente con il
termine “cronico” non solo perché l’anamnesi dimostra la sua lunga durata (cronico
deriva dal greco Kronos, che significa “di lunga durata”) ma per attribuirgli un valore
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
6
fisiopatologico. Arricchito di questo termine, il dolore diviene una sindrome clinica
ovvero una realtà complessa e difficilmente curabile. Vediamo in particolare cosa si
intende per dolore acuto e dolore cronico.
Dolore acuto. Si divide in fisiologico e patologico. Il dolore acuto fisiologico è
sempre evocato, ovvero causato da uno stimolo che deve essere “sovra-soglia” ovvero di intensità sufficiente a generare nei nocicettori tissutali un potenziale d’azione,
senza provocare un danno tissutale. La stimolazione dei recettori è transitoria. Ne è
un esempio lo stimolo termico caldo. Ha la funzione di allerta (scopo preventivo) e
genera sempre una risposta riflessa che ha lo scopo di impedire il verificarsi di un danno
tissutale. Dura in genere pochi secondi ed è di intensità proporzionale alla causa che
lo ha generato. Il dolore acuto patologico è invece causato da un danno tissutale che
si mantiene per un tempo breve (ore o giorni). Il dolore acuto può essere spontaneo ed
evocato da uno stimolo non necessariamente doloroso. Scompare con la guarigione del
danno tissutale ed ha uno scopo protettivo in quanto avverte il paziente della presenza
del danno e induce ad accertamenti medici. Si pensi ad una ferita, ad una ustione, ad
un ascesso dentale.
Dolore cronico (sempre patologico). Il dolore che continua per giorni o settimane
possiamo dire che è un “dolore cronico”. Se analizziamo la letteratura scientifica troviamo infatti varie misure del tempo di persistenza del dolore. Alcuni autori parlano
di tre mesi, altri di sei e altri ancora di dodici. La IASP, nel tentativo di risolvere la
questione, sottolinea che è cronico quel dolore che persiste al di lá del tempo ragionevole
di un normale decorso di una malattia (Turk 2001, Main 2001, Thienhous 2001). La
presenza di una malattia cronica può certamente spiegare la presenza di dolore e una
certa insopportazione da parte del paziente. Il termine “cronico” viene però utilizzato
anche per definire il dolore da un punto di vista fisiopatologico nel senso che sottintende la presenza di meccanismi patogenetici propri in grado di mantenere il dolore
nel tempo, scatenati dalla persistenza stessa del dolore. Ma nessuno ha mai dimostrato
che il persistere del dolore genera dolore cronico. Si è invece osservato che esistono
meccanismi patogenetici del dolore che, vuoi perché ancora poco conosciuti o vuoi
perché non esistono terapie efficaci, causano un dolore continuo e persistente nel tempo.
Ci riferiamo alle sindromi da deafferentazione come l’avulsione del plesso brachiale
o ai casi di apoptosi del primo neurone sensitivo. Con il termine di “dolore cronico”
possiamo anche definire quei casi in cui, dopo un evento lesivo o malattia iniziale,
si instaurano modificazioni biologiche, psicologiche e sociali che portano il quadro
clinico in una condizione di complessità in cui è difficile ritrovare la causa iniziale e
i meccanismi del dolore sono molteplici e sovrapposti.
Possiamo quindi parlare di cronico quando il dolore continua nel tempo perché è
causato dalla presenza di una malattia cronica (è cronica la malattia), o quando si è
instaurato un meccanismo patogenetico cronico proprio del dolore o infine quando il
paziente sviluppa una vera e propria “malattia” per l’instaurarsi di un quadro clinico
che comprende manifestazioni patologiche che appartengono alla sfera fisica, a quella
psicologica e a quella sociale (Bonezzi 2012).
Dolore persistente (sempre patologico). Il termine “persistente” viene in genere
utilizzato per definire un dolore che si mantiene nel tempo. Questo termine viene
comunemente associato al dolore postoperatorio che perdura nel tempo. Ne sono
un esempio il dolore post-mastectomia, post-toracotomia, post-amputazione, posterniotomia inguinale o dopo interventi sulle articolazioni. In un interessante articolo
Cousins avvicina i due termini di cronico e persistente in un unico quadro clinico
caratterizzato da fattori bio-psico-sociali (Cousins 2007).
7
Il dolore: aspetti generali e classificazioni
2. In base alla conoscenza dell’eziologia il dolore può essere suddiviso in:
idiopatico, nocicettivo, neuropatico
Dolore “idiopatico”. Questo termine indica quelle forme cliniche in cui non
sembra esistere una causa evidente in grado di spiegare la presenza del dolore. Tra le
più importanti vengono riportate la nevralgia essenziale del trigemino, la bocca che
brucia, le Complez Regional Pain Syndrome, la fibromialgia. Alcuni Autori (Lipowsky
1990) sottolineano la concomitanza di meccanismi fisiopatologici periferici e di fattori
psicologici.
Un’importante classificazione divide il dolore in base al tessuto interessato dalla
lesione e all’origine dell’impulso doloroso. Si distingue il dolore nocicettivo somatoviscerale, in cui il dolore nasce da una patologia interessante i tessuti del corpo e
dalla stimolazione dei nocicettori tissutali (siti normotopici), dal dolore neuropatico
periferico e centrale, in cui la patologia interessa la via somatosensoriale che conduce
il dolore ed in cui l’impulso nasce lungo la stessa via (in siti cosiddetti “ectopici”).
Il dolore “nocicettivo” è definito come “il dolore che nasce da un danno attuale
o potenziale ai tessuti (con esclusione del sistema nervoso) e che è dovuto alla attivazione dei nocicettori (Merskey 1994, IASP: http://www.iasp-pain.org). Questo
gruppo comprende tutte le sindromi in cui sono coinvolti i tessuti somatici (ossa e
articolazioni, fasce, tendini e muscoli, rivestimenti cutanei e mucosi, sierose) ed i
tessuti viscerali del corpo.
Il dolore nasce dai nocicettori tissutali ed è condotto dalle vie afferenti al midollo
spinale. Di fondamentale importanza è l’integrità del sistema somatosensoriale deputato alla conduzione degli impulsi nocicettivi. In genere le sindromi viscerali vengono
classificate in base alla sede del viscere d’origine (dolore addominale, dolore pelvicoperineale, dolore toracico ecc.) e al viscere coinvolto.
Diversamente le sindromi somatiche vengono raccolte in base al tessuto (sindromi
miofasciali, sindromi articolari ecc) o alle sedi dove il dolore è più frequente (dolore
lombare, cervicale ecc). Gli studi di fisiopatologia hanno poi spostato l’attenzione sui
meccanismi che sottendono a questo dolore (“nocicettivo”), sulla ipersensibilità dei
nocicettori da parte di processi infiammatori e di sostanze algogene di varia natura,
nonché sulla ipersensibilità dei neuroni spinali che determina un incremento dell’intensità, una allargamento del territorio in cui il dolore viene percepito e la comparsa
di un segno clinico importante come l’allodinia meccanica dinamica nelle aree sane
circostanti il danno.
Non sempre l’infiammazione è all’origine del dolore in quanto le modificazioni
strutturali, come quelle che possono avvenire in una articolazione colpita da processi
degenerativi, sono in grado di causare il dolore in quanto responsabili dell’insorgenza
di stimoli di intensità elevata (dolore nocicettivo meccanico strutturale).
Un aspetto clinico importante di queste sindromi, per quanto riguarda l’esame
clinico del paziente, è il cosiddetto “dolore riferito”. Nelle patologie viscerali, miofasciali e articolari il dolore viene localizzato dal paziente in aree del corpo più o meno
estese che non hanno nulla a che vedere con la zona e il tessuto sofferente. Si pensi al
dolore all’arto superiore sinistro nell’angina cardiaca, al dolore nell’arto inferiore da
sacroileite che mima una estensione neurologica radicolare. Alla sua origine si ritiene siano presenti i fenomeni della convergenza e della sensibilizzazione spinale. Ai
neuroni spinali giungono fibre afferenti provenienti non solo dal tessuto danneggiato
ma anche da altri visceri e da altre strutture somatiche.
Si crea così la situazione che il paziente localizza il dolore in altri visceri ed in
altre sedi del corpo che hanno lo stesso segmento spinale. Questo dolore riferito è in
genere percepito dal paziente come profondo e si può accompagnare ad iperalgesia
e ad allodinia.
8
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
Le sindromi cliniche del dolore neuropatico periferico
e centrale
Nella seconda edizione della “Classification of chronic pain” disponibile online
sul sito della International Association Study of Pain (IASP: http://www.iasp-pain.org)
vengono riportate le definizioni principali riguardanti il tema “dolore”.
Il dolore “neuropatico” è definito come “il dolore causato da una lesione o da
una malattia del sistema nervoso somatosensoriale”. È scritto inoltre che il “dolore
neuropatico” è un termine clinico che richiede una lesione dimostrabile o una malattia che soddisfi i criteri diagnostici neurologici. Il termine “lesione” è comunemente
utilizzato quando gli strumenti diagnostici (radiologici, neurofisiologici, bioptici o di
laboratorio) mostrano una anormalità o quando vi è stato un trauma evidente. Il termine
“malattia” è utilizzato quando è nota la causa della lesione (ischemia, vasculite, diabete
e altro). Viene introdotta per la prima volta la definizione di sistema somatosensoriale
per identificare il sistema sensitivo afferente che porta le informazioni provenienti da
tutto il corpo, sia dagli organi e tessuti del corpo sia dall’esterno (vista, udito e olfatto).
In base alla sede della lesione o malattia, interessante la parte periferica o centrale del
sistema somatosensoriale, si distingue un dolore neuropatico periferico e un dolore
neuropatico centrale. La sola presenza di sintomi o segni (come il dolore evocato da uno
stimolo tattile) non giustifica l’uso del termine “neuropatico”. Nella nota della IASP si
sottolinea inoltre che in alcuni casi, come la nevralgia essenziale del trigemino, dove
non sono rilevabili dati oggettivi di lesione o malattia, sia importante l’aspetto clinico,
così come nella neuropatia post-erpetica è rilevante la storia. Poiché è frequente che le
indagini non siano in grado di portare ad una definizione certa di dolore neuropatico,
sempre nella nota, si ritiene importante il giudizio clinico per poter giungere ad una
diagnosi. Le principali sindromi cliniche neuropatiche secondo alcuni Autori (Jensen
2001) sono riportate nella tabella 1 e sono suddivise in base alla sede della lesione
neurologica nel sistema nervoso periferico, spinale ed encefalico.
Tabella 1. Classificazione del dolore neuropatico (Jensen 2001)
Periferico
Spinale
Encefalico
Neuropatie
Herpes zoster
Lesioni nervose traumatiche
Amputazioni
Plessopatie
Radicolopatie
Avulsioni
Neoplasie
Nevralgia trigeminale
Sclerosi multipla
Lesioni spinali traumatiche
Aracnoidite
Neoplasie
Siringomielia
Infarto spinale
Infarto
Sclerosi multipla
Neoplasie
Siringomielia
Parkinson
Epilessie
Nell’ambito del dolore neuropatico troviamo altre classificazioni come quella di
Baron (2010) che riportiamo perché molto completa e dettagliata. In essa troviamo:
1) Neuropatie periferiche dolorose: arto fantasma, dolore del moncone, dolore da
lesione parziale o totale del nervo, dolore da neuroma postraumatico o postchirurgico,
sindrome da intrappolamento, da mastectomia, da toracotomia, nevralgia di Morton,
cicatrici dolorose, herpes zoster e neuropatia posterpetica, mononeuropatia diabetica,
amiotrofia diabetica, neuropatie ischemiche, borrelliosi, connettivopatie (vasculiti),
amiotrofia nevralgica, neoplasie nervose periferiche, plessopatie attiniche, plessopatie,
nevralgie trigeminali e glossofaringeo.
9
Il dolore: aspetti generali e classificazioni
2) Le polineuropatie distinte in:
• Metaboliche o nutrizionali: diabetiche, alcoliche, da amiloidosi, ipotiroidismo
• Da farmaci: antiretrovirali, cisplatino, oxaliplatino, disulfiram, etambutolo, isoniazide, nitrofurantoina, talidomide, metiltiouracile, vincristina, cloramfenicolo,
metronidazolo, taxoidi, oro.
• Da sostanze tossiche: acrilamide, arsenico, clioquinolo, dinitrofenolo, ossido di
etilene, pentaclorofenolo, tallio.
• Ereditarie: neuropatie da amiloidosi, malatti di Fabry, Charcot-Marie-Tooth, tipo
2B, neuropatie sensitive e autonomiche ereditarie
• Neoplastiche: neuropatie periferiche paraneoplastiche, mieloma
• Infettive o postinfettive, immunitarie: poliradicoloneuropatie infiammatorie (sindrome di Guillain-Barré), borrelliosi, HIV
• Altre polineuropatie: eritromelalgia idiopatica, neuropatia small-fibre.
3) Sindrome da dolore centrale
• Lesioni ischemiche in particolare del tronco e del talamo o mieliche (infarto, emorragie, malformazioni vascolari)
• Sclerosi multipla
• Lesioni traumatiche mieliche o encefaliche
• Siringomielia e siringobulbia
• Tumori
• Ascessi
• Epilessia
• Morbo di Parkinson
4) Sindromi neuropatiche dolorose complesse
Complex regional pain syndromes tipo I e II (altrimenti definite come distrofie simpatico riflesse, causalgia)
5) Mixed pain syndromes
Dolore lombare cronico con radicolopatia, dolore da cancro, invasione neoplastica del
plesso, complex regional pain syndromes.
Possiamo concludere con quanto riportato recentemente (2010) dalla IASP che propone alcune possibili soluzioni classificatorie. Il dolore neuropatico potrebbe essere
distinto (IASP update 2010):
1) In base alla sede: periferica (nervo, plesso, ganglio della radice dorsale, radice) e
centrale (spinale, tronco, talamo, corteccia)
2) In base al fattore eziologico: trauma, ischemia o emorragia, infiammazione, neurotossicità, neurodegenerazione, paraneoplastica, metabolica, da deficienza vitaminica,
neoplastica
3) In base ai sintomi e segni: qualità del dolore, perdite sensoriali, ipersensibilità
4) In base al meccanismo patogenetico: scariche ectopiche, perdita del sistema inibitorio, sensibilizzazione periferica, sensibilizzazione centrale.
Tra queste possibilità l’ultima, a nostro avviso, è la più importante, non solo per
quanto riguarda il dolore neuropatico ma anche il dolore nocicettivo, perché definisce
le vere cause del dolore offrendo indicazioni precise al trattamento. In altre parole,
possiamo identificare tre gruppi patologici: le sindromi di dolore nocicettivo, le
sindromi di dolore neuropatico ed infine il dolore malattia. In quest’ultimo gruppo
sono raccolti quei casi in cui, accanto ai meccanismi patogenetici propri del dolore
nocicettivo o neuropatico, si sono sviluppati meccanismi connessi a comportamenti
reattivi del paziente interessanti la sfera psico-sociale (Bonezzi 2012).
Se al meccanismo è possibile associare, mediante opportune indagini cliniche e
strumentali, il tessuto colpito (articolazione, viscere, muscolo, tendine, nervo) è altresì
possibile individuare tecniche antalgiche mirate ed efficaci. Di fronte ad un dolore lom-
10
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
bare di tipo nocicettivo infiammatorio è possibile stabilire un trattamento farmacologico
ma anche, una volta identificata l’eventuale faccetta articolare coinvolta, procedere a
blocchi selettivi radioguidati o anche a denervazione delle afferenze sensitive.
La classificazione basata sul meccanismo patogenetico: le sindromi del dolore
nocicettivo, quelle del dolore neuropatico e del dolore malattia (Tabella 2)
Questa classificazione nasce dal presupposto che attraverso una valutazione clinica
e strumentale si possano raccogliere sintomi e segni appartenenti a diversi meccanismi
patogenetici, permettendo una diagnosi dettagliata e utile ai fini terapeutici.
La valutazione dell’area di dolore e la presenza di allodinia statica primaria (evocata mediante stimoli pressori o termici caldi, dal movimento attivo e passivo) permette di identificare l’esistenza di una ipersensibilità dei nocicettori tissutali come
fondamentale meccanismo del dolore nocicettivo somatico o viscerale (Gold 2010,
Koltzenburg 1995, Woolf 2007).
Un dolore evocato, a volte intenso e disabilitante, da un movimento di una articolazione deformata (si pensi alla coxartrosi) che si attenua progressivamente permettendo al paziente di muoversi, potrebbe non dipendere da una sensibilizzazione
dei nocicettori tissutali ma avere un meccanismo patogenetico legato alla deformità
stessa e ad un eccessivo stimolo di nocicettori non sensibilizzati. Questo dolore viene
chiamato meccanico-strutturale.
La presenza di una perdita delle sensibilità in un’area di dolore lascia supporre
che il dolore percepito in quell’area nasca da una lesione delle fibre afferenti e ad una
ipersensibilità della fibra con origine ectopica degli impulsi afferenti. In questi casi
parliamo di dolore neuropatico periferico.
Il dolore avvertito dal paziente in un’area estesa completamente priva di innervazione per grave lesione delle vie neurologiche a monte del primo neurone induce ad
ipotizzare una ipersensibilità dei neuroni centrali da deafferentazione e un dolore
neuropatico centrale.
Inoltre la presenza di un dolore più o meno intenso allo sfioramento della cute
priva di danno o di deficit sensitivi (allodinia dinamica meccanica) è dovuta al coinvolgimento dei neuroni spinali e alla cosiddetta ipersensibilità dei neuroni spinali.
A questo meccanismo concorrono gli impulsi nocicettivi che arrivano dal nocicettore
o dal sito ectopico.
Una valutazione clinica che comprende una accurata indagine psicologica del
paziente permette di identificare quei casi in cui, accanto al dolore, i comportamenti
reattivi, la fragilità della persona, e altre manifestazioni della sfera psico-sociale, inserendoli in una gruppo a sé stante che definiamo “dolore malattia” (Bonezzi 2012).
Le sindromi cliniche che noi osserviamo possono presentare questi meccanismi, in
forma singola o complessa, e la loro individuazione è utile, come vedremo, alla scelta
del trattamento.
Tabella 2. Una proposta di classificazione patogenetica
Sindromi del dolore
nocicettivo
somato-viscerale
Sindromi del dolore
neuropatico periferico
e centrale
Sindromi del dolore
malattia
Ipersensibilità del
nocicettore e del neurone
spinale
Ipersensibilità spinale da
input di fibre amieliniche
Ipersensibilità della fibra
con genesi ectopica degli
impulsi
Ipersensibilità spinale da
input di fibre amieliniche e
da deafferentazione
Tutti i meccanismi prima
citati a cui si associano
meccanismi generati da
comportamenti reattivi
di tipo bio-psico-sociale
11
Il dolore: aspetti generali e classificazioni
La “torre di Babele”
Per sottolineare la confusione che è presente nel mondo scientifico e nel “real
world” riportiamo un esempio. Nel lavoro recente (2011) di Tesfaye e Expert Pannel
sulle neuropatie diabetiche compare una tabella che elenca i meccanismi del dolore
neuropatico. Nella parte della tabella riguardante i meccanismi periferici del dolore
neuropatico si riporta la “peripheral sensitization”.
Questo meccanismo è proprio del dolore nocicettivo, ma viene qui inserito perché,
secondo molti altri Autori, le modificazioni della sensibilità del nocicettore tissutale
sono una forma di “neuro-patia”. In altre parole tutto il dolore diviene così neuropatico. Per meglio comprendere questa confusione si riporta in lingua originale lo scritto
di un altro Autore (Tolle 2010): “Two of the mechanisms that can cause neuropathic
pain conditions are central and peripheral sensitization. Central sensitization occurs
as a result of increased responsiveness of spinal cord pain transmission neurons,
while peripheral sensitization is produced by the lowering of nociceptor activation
thresholds following exposure to inflammatory mediators, such as nerve growth factor
or bradykinin, released at the site of tissue injury”.
La sensibilizzazione dei nocicettori tissutali da parte dei mediatori infiammatori
è alla base del dolore nocicettivo così come la sensibilizzazione centrale, generata e
sostenuta da afferenze nocicettive condotte da fibre amieliniche, presente sia nel dolore
nocicettivo che neuropatico.
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2
Meccanismi della
Sensibilizzazione Periferica
Michelangelo Buonocore
Generalità sul dolore
Se si esclude il dolore fisiologico, che generalmente non si accompagna ad una lesione
ma evita che essa si determini, ed una forma molto rara di dolore patologico puramente
meccanico, nella maggior parte dei casi il dolore clinico è il frutto dello sviluppo di
una ipersensibilità agli stimoli. Con questo termine si intende lo spostamento a sinistra
della curva stimolo-risposta riferita al dolore fisiologico (Figura 1). In termini pratici,
tutte le volte che si sviluppa una condizione di ipersensibilità agli stimoli il dolore viene
avvertito per intensità di stimoli che normalmente non evocano la sensazione dolorosa
(allodinia) oppure esso viene avvertito di intensità più elevata in seguito a stimoli che
anche normalmente sono avvertiti come dolorosi (iperalgesia). Quando l’ipersensibilità
diventa molto marcata, essa può portare ad una condizione per cui il dolore viene avvertito
indipendentemente da qualsiasi tipo di stimolazione portata. È il dolore spontaneo che, per
quanto appena espresso, almeno dal punto di vista fisiopatologico, è un dolore più grave
di quello evocato. I punti cruciali per lo sviluppo di ipersensibilità agli stimoli dolorosi
sono localizzabili a livello dei tessuti lesionati, lungo le vie del sistema somatosensoriale
oppure a livello del sistema nervoso centrale, midollo spinale incluso. Il complesso di
fenomeni algogeni che si sviluppa nei tessuti periferici lesionali va usualmente sotto il
nome di sensibilizzazione periferica, ad indicare che il dolore può essere giustificato in
toto da fenomeni che avvengono nel tessuto periferico lesionato. Col termine di “sensibilizzazione” centrale si intende invece quell’insieme di fenomeni che si sviluppa nel
100%
Intensità
del dolore
0
Allodinia
Iperalgesia
Dolore
fisiologico
Intensità
dello
stimolo
100%
Figura 1. La figura mostra due esemplificative curve stimolo-risposta. La prima a destra è
rappresentata dal dolore fisiologico. La curva di sinistra è il risultato dello sviluppo di una
lieve condizione di ipersensibilità agli stimoli dolorosi, con comparsa delle condizioni note
come allodinia ed iperalgesia (per le definizioni vedere testo).
13
Meccanismi della sensibilizzazione periferica
sistema nervoso centrale in seguito ad una lesione algogena periferica e che porta ad
un’amplificazione del dolore con tipica estensione dello stesso in area extralesionale.
Infine, un’altra importante sede di ipersensibilità agli stimoli è rappresentata dal sistema
nervoso stesso dove gli impulsi nervosi che generano la sensazione dolorifica si autogenerano senza che siano coinvolte le terminazioni nervose, cioè quelle strutture recettoriali
che sono fisiologicamente deputate alla trasduzione degli stimoli da un tipo di energia
(meccanica, termica, chimica) ad energia elettrica (potenziale d’azione). Questo tipo
di sensibilizzazione è alla base del cosiddetto dolore neuropatico. Sintetizzando, ogni
dolore che origina dai recettori del dolore “sensibilizzati” viene definito come dolore
nocicettivo, mentre ogni dolore che origina direttamente dalle fibre nervose viene definito
come dolore neuropatico. In questo capitolo saranno illustrati i meccanismi alla base della
sensibilizzazione periferica (dolore nocicettivo), nei prossimi due saranno affrontati i
meccanismi della genesi ectopica degli impulsi nel sistema nervoso (dolore neuropatico)
e della sensibilizzazione centrale (fenomeno comune ad entrambi i suddetti processi).
Ipersensibilità periferica, concetti generali
A differenza del dolore fisiologico, che è basato su un sistema abbastanza rigido e
stereotipato, il dolore patologico è basato su un sistema molto plastico e variabile. Una
delle parti più dinamiche in tal senso è rappresentata dai tessuti periferici. Gran parte del
dolore che si incontra in patologia è infatti il risultato di fenomeni di sensibilizzazione che
occorrono in seguito a lesioni interessanti i tessuti extra-nervosi. È il cosiddetto dolore
nocicettivo. Il primo fenomeno che si osserva, una volta che la lesione si è verificata, è
rappresentato dallo sviluppo della sensibilizzazione periferica. In ambito algologico, il
termine di sensibilizzazione periferica si riferisce ad un insieme di fenomeni che porta
le terminazioni libere delle fibre nocicettive ad abbassare la loro soglia di scarica, fino
ad arrivare, nei casi di maggiore intensità, alla scarica spontanea. La sensibilizzazione
periferica è in genere la conseguenza dello sviluppo di fenomeni infiammatori nei tessuti dove sono localizzate le terminazioni nervose in grado di trasdurre impulsi nocivi
o potenzialmente nocivi per l’organismo. Tali terminazioni sono rappresentate dalle
cosiddette terminazioni libere, cioè non connesse ad un particolare tipo di recettore. Esse
possono essere considerate come assoni nudi su cui ci sono specifici canali in grado di
modificare il flusso ionico attraverso le membrane neuronali. Ogni tipo di dolore che si
genera dai recettori specifici del dolore (terminazioni libere) viene comunemente definito
dolore nocicettivo. Le conseguenti modifiche del potenziale della membrana delle terminazioni libere possono creare differenze di potenziale locali che, se raggiungono una
certa intensità, sono in grado di generare il potenziale d’azione nervoso. In altri termini,
le modificazioni dei potenziali di membrana abbassano la soglia di scarica delle terminazioni nervose che incominciano a scaricare per stimoli di intensità più bassa rispetto
a quella necessaria per evocare dolore in condizioni fisiologiche. Quando i fenomeni
di ipersensibilità periferica sono particolarmente intensi, la soglia di attivazione delle
terminazioni si abbassa parecchio fino alla scomparsa di una vera e propria soglia. Allora
la scarica avviene indipendentemente dagli stimoli e si configura quello che clinicamente
viene definito come dolore spontaneo. Comunque esso venga generato, come è noto, il
potenziale d’azione, una volta insorto, si propaga lungo la fibra fino alla prima sinapsi che
incontra, dove, inducendo la liberazione di neurotrasmettitori, si esaurisce. La liberazione
di neurotrasmettitori è il meccanismo mediante il quale l’impulso si propaga dal sistema
nervoso periferico al sistema nervoso centrale. Come avviene a livello del recettore
periferico, anche a livello delle sinapsi si creano dei potenziali locali che, se sufficientemente intensi, innescano la ripartenza degli impulsi, mediante la generazione di nuovi
potenziali d’azione che corrono lungo le fibre nervose dei secondi neuroni nocicettivi.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
14
Gli stimoli nocicettivi
Perché si avverta dolore e si possano generare fenomeni riferibili alla sensibilizzazione periferica è indispensabile che gli stimoli siano di elevata intensità. Quando i
fenomeni di ipersensibilità si sono instaurati, allora anche stimoli di intensità medio-bassa
diventano in grado di evocare il dolore. La natura degli stimoli nocicettivi è variabile
ma tre sono i tipi di “energia” che, una volta trasdotti, possono generare dolore. Il primo
tipo è quello chimico. È ben noto come il rilascio di alcune sostanze nei tessuti sia in
grado di generare quelle condizioni che portano ad avvertire dolore. Tra queste vanno
sicuramente ricordati alcuni ioni positivi come gli ioni idrogeno H+ o gli ioni potassio
K+, ma anche sostanze quali la bradichinina, la serotonina, alcune prostaglandine ed
anche l’ATP. Un ruolo particolare sembra svolto da i recettori TRPV1, come dimostrato
sperimentalmente dal fatto che le sostanze che li attivano, come ad esempio la capsaicina,
inducono i classici segni dell’infiammazione (dolore, eritema, edema e calore). Un altro
tipo di stimolazione in grado di creare dolore per attivazione delle terminazioni nervose
intra tissutali è la stimolazione termica, soprattutto per stimoli caldi, ma anche per stimoli
freddi. L’esempio classico è quello delle ustioni che si accompagnano al tipico dolore
che, all’inizio, è sempre continuo e spontaneo. Infine, non meno importanti, appaiono gli
stimoli meccanici che spesso attraverso la liberazione di sostanze proinfiammatorie ed
algogene, cioè attraverso stimoli chimici, sono a loro volta in grado di creare condizioni
di ipersensibilità nei tessuti lesi.
Il ruolo dell’infiammazione
L’insorgenza di una sensibilizzazione periferica agli stimoli dolorosi appare in gran
parte legata allo sviluppo di fenomeni infiammatori. Come è storicamente ben noto, fin
dai tempi di Celso (I secolo dopo Cristo) il dolore è uno degli elementi fondamentali
dell’infiammazione (calor, rubor, tumor e dolor). È ben noto infatti come l’infiammazione possegga meccanismi algogeni specifici, spesso bersaglio delle più diffuse
terapie antidolorifiche. Vale la pena di ricordare che l’infiammazione non è di per sé un
fenomeno negativo in quanto essa rappresenta un elemento di difesa naturale e innato
nei confronti degli attacchi che l’organismo subisce dall’ambiente circostante, siano essi
microrganismi, traumi o neoplasie. Essa viene considerata una vera e propria barriera,
come lo sono le difese strutturali anatomiche, le risposte difensive fisiologiche e quelle
immunitarie ancestrali come ad esempio la fagocitosi (Tabella 1). Anche se l’idea più
diffusa dell’infiammazione si rifà ad una reazione ad un evento ben localizzabile e circoscrivibile, il realtà l’infiammazione è il processo finale comune di numerosi processi
patologici che vanno dai traumi, alle reazioni allergiche, all’ischemia, alle risposte
autoimmuni, ai dismetabolismi (Tabella 2).
È questo il motivo per cui, soprattutto nei danni persistenti e non autolimitanti, anche la
somministrazione dei più importanti antinfiammatori, i corticosteroidei, non è in grado di
eliminare completamente la lesione e quindi anche il dolore ad essa correlato. Esistono almeno 5 diversi tipi di infiammazione: non specifica (es. l’infiammazione post-traumatica),
allergica (es. l’infiammazione che si accompagna all’orticaria), da immunocomplessi (es.
l’infiammazione delle vasculiti o del LES), da anticorpi citotossici (es quella dell’anemia
emolitica), cellulo-mediata (es. quella della tubercolosi). In generale si può dire che l’infiammazione sia strettamente legata alle risposte immunitarie dell’organismo, anche se
non tutte le volte che si verifica una risposta immunitaria, questa viene accompagnata da
una reazione infiammatoria. L’osservazione poi che non sempre la reazione infiammatoria
si accompagna ad un danno tissutale ha fatto trarre la considerazione che, un po’ come il
dolore, l’infiammazione può essere fisiologica (quando previene l’insorgenza del danno)
oppure patologica (quando rappresenta una risposta al danno che si è già verificato).
15
Meccanismi della sensibilizzazione periferica
Tabella 1. Risposte immunitarie innate e adattative (in accordo con De Leo e Yezierski,
2001)
Immunità innata o aspecifica
(barriere difensive)
Anatomia
Fisiologia
Fagocitosi
Infiammazione
Immunità adattativa o specifica (proprietà)
Specificità
Diversità
Memoria
Riconoscimento del self / non self
Considerato che i mediatori sono essenzialmente gli stessi, secondo alcuni Autori è
possibile cogliere la differenza tra risposta infiammatoria fisiologica e patologica nel
fatto che la prima è di entità minore rispetto alla seconda. Ma non tutti i ricercatori sono
d’accordo su questa affermazione. A proposito di mediatori, un gran numero di sostanze
è stato identificato negli ultimi decenni, anche se il peso di ciascun elemento nella complessa cascata di eventi che portano all’infiammazione non è facilmente calcolabile. Un
contributo importante sembra comunque certo per alcune “famiglie” di sostanze che sono
state identificate nei tessuti infiammati. Il ruolo delle chinine per esempio non è più in
discussione, vista l’enorme messe di dati accumulata negli anni. Anche perché tale gruppo
di sostanze, oltre a svolgere un’azione pro-infiammatoria diretta, rappresenta l’innesco
per la liberazione di numerosi altri mediatori dell’infiammazione quali le citochine. Sotto
Tabella 2. Tipi diversi di infiammazioni che si riscontrano nella pratica clinica
(in accordo con Ali et al. 1997)
Tipo di
immunità
Riconoscimento Cellule
Non specifica Via alternativa
Neutrofili e
del complemento macrofagi
Mediatori
Meccanismi
Complemento Liberazione
di mediatori
citotossici da
neutrofili e
macrofagi attivati
da sostanze
derivate dal
complemento
Attivazione di
mast cellule,
basofili ed
eosinofili da
parte del legame
antigene-IgE
Malattie
Trauma, sepsi da
gram-negativi
Orticaria, rinite,
asma, anafilassi
Allergica
(immediata)
IgE
Mast cellule, Istamina e
leucotrieni
basofili,
eosinofili
Da immunocomplessi
IgG, IgM
Neutrofili e
macrofagi
Complemento Attivazione
di neutrofili e
macrofagi da
immunocomplessi
fissati dal
complemento
Malattie
reumatiche,
glomerulonefriti,
vasculiti, lupus
eritematoso
sistemico
Da anticorpi
citotossici
IgG, IgM
Neutrofili e
macrofagi
Complemento Lisi o fagocitosi di
antigeni circolanti
Malattie
autoimmuni,
anemia emolitica
Cellulomediata
(ritardata)
Linfociti T
Linfociti e
macrofagi
Citochine
Tubercolosi,
Attivazione
polimiosite,
di macrofagi
sarcoidosi
e rilascio di
mediatori
citotossici da
parte di citochine
rilasciate da cellule
T-helper
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
16
questo nome si identifica un gruppo di proteine e glicoproteine che può essere liberato da
diverse cellule dell’organismo e che interviene sicuramente nelle reazioni infiammatorie
collegate allo sviluppo di ipersensibilità agli stimoli dolorosi. Vi è ampia dimostrazione
in letteratura che alcune citochine quali il TNF (Tumor Necrosis Factor) e diverse interleuchine aumentano la scarica delle fibre nocicettive in corso di infiammazione. Le
citochine facilitano lo sviluppo di reazioni infiammatorie in vario modo. Oltre all’azione
sulla liberazione di ossido nitrico, comune a molti percorsi connessi all’infiammazione,
attraverso l’induzione dell’ossido nitrico sintetasi, le citochine facilitano la liberazione
di sostanza P dalle terminazioni nervose e attivano enzimi coinvolti nell’infiammazione
quale la ciclossigenasi 2, meglio nota come COX-2. Per quanto riguarda in modo specifico il TNF, attualmente forse la citochina legata all’infiammazione più studiata, esso
favorisce la reazione infiammatoria acuta e attiva le cellule immunitarie. È ben nota la
sua produzione dai macrofagi, ma non solo da questi. Anche i leucociti CD4+, i linfociti
NK (Natural Killer) e i neuroni stessi sono stati visti essere in grado di liberare TNF.
Ritornando a concetti più generali, quello che non è ancora molto chiaro è come mai in
alcuni casi l’infiammazione abbia un’azione benefica (infiammazione fisiologica) ed altre
volte sia essa stessa causa di persistenza di malattia (infiammazione patologica). A questo
proposito, come già accennato in precedenza, c’è discussione sul fatto che sia solo una
questione di quantità dei fenomeni infiammatori. Altri Autori hanno considerato come
possibile fattore scatenante la durata dei fenomeni infiammatori. In altri termini, dopo
l’insulto ricevuto l’organismo reagirebbe con diverse modalità, tra cui l’infiammazione,
nel tentativo di prevenire e/o riparare i danni. Se però questo processo non avviene in
un determinato tempo, l’organismo perderebbe il controllo sulla catena di eventi che si
accompagnano all’infiammazione acuta e questa diventerebbe cronica, sostenendo il
perdurare e il non guarire di alcune malattie croniche infiammatorie. Ovviamente anche
le ben note alterate risposte immunitarie di riconoscimento/non riconoscimento dei tessuti
dell’organismo giocano un ruolo molto importante in questi processi.
Stress ossidativo, superossidodismutasi (SOD) e infiammazione
Nella fisiologica attività tissutale i sistemi di ossidazione/antiossidazione sono tendenzialmente in equilibrio tra di loro. Quando però un tessuto viene interessato da un
processo patologico spesso si verifica uno sbilanciamento a favore dei fenomeni ossidativi. Tale condizione è nota col termine di stress ossidativo. Trattasi di un accumulo di
specie reattive derivate dall’ossigeno denominate con l’acronimo ROS (Reacting Oxygen
Species) e appartenenti alla specie chimica definita radicali liberi. La formazione delle
ROS rappresenta uno strumento di difesa, ma se esse persistono a lungo in sede lesionale
possono innescare pericolosi meccanismi fisiopatologici fino ad indurre ulteriori lesioni
dei tessuti, con interessamento anche dei tessuti sani circostanti. Uno dei meccanismi che
gli organismi possiedono per combattere lo stress ossidativo è quello di attivare un sistema
di difesa cellulare endogena che prevede l’utilizzo della superossidodismutasi (SOD), un
enzima che appartiene alla classe delle ossidoreduttasi. La SOD, la cui azione enzimatica
è nota fin dal 1969, è considerato uno dei più importanti enzimi antiossidanti presenti
negli organismi viventi. La sua attività “difensiva” è basata sulla capacità di trasformare,
grazie all’utilizzo di ioni idrogeno (H+), il superossido (l’anione O2-) in ossigeno (O2)
e perossido di idrogeno (H2O2). In altri termini, la SOD catalizza la seguente reazione:
2 O2– + 2 H+  O2 +H2O2
Attualmente sono state identificate 3 forme di SOD: la SOD1, presente nel citosol, la
SOD2, presente nei mitocondri e la SOD3, presente sulle superfici extracellulari. Poiché
però il perossido di idrogeno è anch’esso un ossidante, per una completa detossificazione
17
Meccanismi della sensibilizzazione periferica
è necessario che il perossido di idrogeno venga trasformato in acqua. Tale operazione
è compiuta dall’enzima glutatione perossidasi, un’altra ossidoreduttasi che catalizza la
seguente reazione:
2 glutatione + H2O2  glutatione disolfuro + 2 H2O
Numerose condizioni fisiopatologiche si accompagnano a stress ossidativo. Tra di
esse spiccano quelle sostenute dallo sviluppo di fenomeni infiammatori. Alla formazione di radicali liberi durante l’infiammazione concorrono diversi fattori. Una parte dello
stress ossidativo osservato durante l’infiammazione, è sicuramente legata ai neutrofili,
leucociti che spesso si accumulano in sede di lesione infiammatoria. È infatti noto che
quando i neutrofili vengono attivati, iniziano a secernere le ROS che rappresentano, tra
le altre cose, uno strumento per indurre la morte cellulare di eventuali batteri presenti
nella sede dell’infiammazione. In tali condizioni la SOD può contribuire, neutralizzando
il superossido, a riequilibrare il bilancio ossidazione/antiossidazione esplicando pertanto
un’azione antinfiammatoria. Un altro meccanismo antinfiammatorio posseduto dalla
SOD è rappresentato da una sua azione diretta sui neutrofili, di cui è in grado di indurre
l’apoptosi (morte cellulare programmata). È ben noto come l’accumulo di tali cellule
rappresenti uno dei fattori associati allo sviluppo di infiammazione. I neutrofili sono
infatti tra le prime cellule a giungere nei siti lesionali, attratti dalle chemiochine, sostanze
liberate dalle cellule endoteliali dei vasi presenti in sede lesionale. Una volta giunti nella
sede dell’infiammazione, i neutrofili, oltre a mettere in atto le loro capacità di fagocitosi
e a liberare le ROS, secernono anche alcuni tipi di proteasi, nonché una notevole quantità
di chemiochine. Queste ultime amplificano la risposta infiammatoria attirando nuovi neutrofili, mentre la liberazione di ROS e proteasi è potenzialmente dannosa per i tessuti in
cui vengono liberati. Considerato quindi che la rimozione dei neutrofili mediante apoptosi
rappresenta un meccanismo cruciale per l’inattivazione dei fenomeni infiammatori, l’apoptosi dei neutrofili è considerata un possibile bersaglio per il controllo terapeutico delle
lesioni tissutali mediate dai neutrofili. Ne consegue che la SOD, grazie alla sua potente
azione inducente l’apoptosi dei neutrofili, può rappresentare un importante strumento
per ridurre l’entità dei fenomeni infiammatori in sede lesionale. Il meccanismo attraverso
cui la SOD induce l’apoptosi non è completamente noto e numerose ipotesi sono state
formulate. Tra le altre si segnala quella che prevede un ruolo significativo del perossido di
idrogeno. Poiché questo si libera dalla reazione di trasformazione del superossido mediato
dalla SOD (vedi sopra), il ruolo positivo di quest’ultima, in caso di infiammazione, non si
limiterebbe alla neutralizzazione del superossido, ma risiederebbe anche nella produzione
di perossido di idrogeno con conseguente apoptosi dei neutrofili. In altre parole, è possibile
che i neutrofili liberino ROS nella fase infiammatoria acuta nel tentativo di distruggere
quanti più batteri possibili, ma così facendo programmino la loro morte cellulare visto
che l’intervento della SOD, mediante la neutralizzazione delle ROS, genera quel perossido d’idrogeno che appare in grado di indurre la loro apoptosi. Ciò spiegherebbe anche
perché in condizioni cliniche caratterizzate da una ridotta produzione di ROS, come ad
esempio l’ipossia, si osservi una ridotta apoptosi dei neutrofili. L’azione della SOD sui
neutrofili risulta ancora più importante se si considera che i glucocorticoidi, giustamente
considerati come i più potenti antinfiammatori, inducono l’apoptosi dei T-linfociti e degli
eosinofili, ma addirittura inibiscono l’apoptosi dei neutrofili.
L’infiammazione neurogena
Uno dei meccanismi più noti dello sviluppo di ipersensibilità periferica è rappresentato
dall’infiammazione neurogena. Con tale termine si intende quell’insieme di fenomeni
che porta alla liberazione di sostanze pro-infiammatorie e potenzialmente algogene, in
18
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
seguito all’attivazione antidromica di fibre nervose. In pratica, tutte le volte che un potenziale d’azione viaggia antidromicamente, cioè dalla fibra verso il recettore, una volta
arrivato alla fine della corsa, a livello del recettore, esso è in grado di liberare sostanze
pro-infiammatorie e potenzialmente algogene. Questo fenomeno non si riscontra durante
l’attivazione di tutti i tipi di fibre, ma solo quando ad essere attivate sono le fibre amieliniche afferenti (dette anche C afferenti o C sensitive o fibre C delle radici dorsali). Diverse
sostanze vengono liberate in corso di attivazione antidromica delle fibre C, ma quelle più
note e studiate sono la sostanza P ed il CGRP (Calcitonin Gene Related Peptide). Appare
interessante sottolineare come in condizioni fisiologiche la liberazione di sostanza P e
CGRP avvenga solo da determinate fibre nervose, mentre in corso di infiammazione
tali sostanze vengono liberate anche da fibre che normalmente non sono in grado di
liberarle. Tutto questo contribuisce al mantenimento e all’amplificazione dei fenomeni
infiammatori e pro-nocicettivi. Uno dei meccanismi attraverso cui sostanza P e CGRP
potenziano i fenomeni infiammatori è rappresentato dalla loro capacità di richiamare
e far accumulare neutrofili nell’interstizio (Figura 2). Ciò avviene per modificazione
indotta soprattutto dall’attivazione di cellule endoteliali e dal richiamo ed attivazione di
macrofagi. Come si inserisce questo discorso nel meccanismo della sensibilizzazione
periferica? Se si pensa alla morfologia delle terminazioni libere si capisce come queste
terminazioni finali che si diramano dallo stesso assone rappresentino una vera e propria
unità che non è solo anatomica, ma anche funzionale. Quello che si verifica in caso di
attivazione costante delle terminazioni libere, come avviene per esempio in corso di
infiammazione, è sostanzialmente questo: ogniqualvolta, in seguito ad uno stimolo,
si genera un potenziale d’azione a partenza da una terminazione, questo impulso oltre
che viaggiare verso il midollo spinale, torna anche indietro, attraverso un’altra terminazione che in quel momento non sta trasmettendo impulsi (Figura 3). Questo tornare
indietro altro non è che un’attivazione antidromica di una fibra amielinica e quindi libera
sostanze proinfiammatorie e potenzialmente algogene dalla terminazione in tal modo
attivata. Questo meccanismo è anche alla base di quel fenomeno che porta allo sviluppo
di segni di infiammazione intorno all’aria lesionale, in cui si possono, tra l’altro, regisostanza P
CGRP
endotelio
espressione di
recettori per i peptidi
liberazione molecole
di adesione cellulare
accumulo
interstiziale
di neutrofili
citochine
macrofago
sostanza P
CGRP
Figura 2. Meccanismi attraverso i quali la liberazione di sostanza P e CGRP può attirare
neutrofili a livello interstiziale, favorendo l’infiammazione neurogena.
19
Meccanismi della sensibilizzazione periferica
stimolo
nocicettivo
assone
terminazioni
libere
Figura 3. Illustrazione schematica di come un impulso generato a livello di una
terminazione nervosa possa, attraverso un riflesso assonale, ritornare indietro e liberare
sostanze pro-infiammatorie nel tessuto interessato dalla lesione.
strare fenomeni di ipersensibilità agli stimoli meccanici, noti come allodinia/iperalgesia
secondaria (così chiamata per distinguerla da quella che si sviluppa all’interno dell’area
lesionale, denominata allodinia/iperalgesia primaria). In tutto questo appare chiaro il
ruolo del sistema nervoso periferico e delle fibre nervose amieliniche in particolare. La
dimostrazione dell’importante ruolo giocata da tale sistema è data dall’osservazione, sia
sperimentale che clinica, che le lesioni nervose che fanno degenerare gli assoni di piccolo
calibro riducono nettamente, e a volte aboliscono completamente, tutti i fenomeni tipici
dell’infiammazione neurogena.
Il ruolo dei gangli sensitivi nell’ipersensibilità periferica
Come descritto precedentemente, l’impulso generato in periferia viaggia senza ostacoli verso la prima sinapsi posta nel corno posteriore del midollo. Lungo questo tragitto
esso può essere modificato, ed in particolare amplificato, a livello dei gangli sensitivi
delle radici posteriori. È stato infatti dimostrato che, in caso di ipersensibilità sviluppata
in un tessuto da fenomeni infiammatori, l’informazione di amplificazione dei segnali
generati in periferia si avvale anche di un meccanismo che si verifica nei gangli sensitivi
delle radici dorsali. In tali condizioni nuovi canali del sodio si evidenziano nei gangli
sensitivi generando una sorta di ipersensibilità da passaggio di impulsi: ogni impulso
che proviene dalla periferia, sia esso fisiologicamente o patologicamente generato,
arrivato a livello gangliare subisce un’amplificazione che è in grado di incrementare la
sensazione dolorosa.
Il ruolo dell’ischemia
Un ruolo particolare viene giocato dall’ischemia. Quando i tessuti vanno incontro ad
ischemia essi sviluppano condizioni di ipersensibilità. Un esempio clinico molto noto è
rappresentato dalla claudicatio intermittens che si osserva nei pazienti con insufficienza
vascolare periferica. Quando un muscolo viene attivato, come si verifica normalmente
in caso di esercizio muscolare, le richieste energetiche e metaboliche aumentano e
quindi tutto quello che ostacola un corretto adattamento da parte dell’organismo finisce
per creare un condizione di sofferenza tissutale. Nelle fasi iniziali della vasculopatia
periferica obliterante le arterie, il compenso a riposo è soddisfacente e il paziente non
avverte alcun sintomo quando è a riposo. Se però inizia a contrarre i muscoli, dopo una
certa quantità di sforzo muscolare, che varia con la gravità dell’arteriopatia, il paziente
avverte dolore. Tale sensazione spiacevole è legata al fatto che uno stimolo meccanico
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
20
(contrazione muscolare) che normalmente non attiva i nocicettori, in condizioni di
ischemia lo fa. In altre parole, l’ischemia abbassa la soglia del dolore muscolare, che
si riduce sempre più al progredire dell’arteriopatia. È per questo motivo che il paziente
riferisce che la distanza che riesce a percorrere senza avvertire dolore si riduce sempre
di più. Spesso il paziente è in grado di stabilire con una certa precisione quanti metri
(o quanti passi) riesce a percorrere senza dolore. Il fenomeno della claudicatio che si
osserva nei pazienti con vasculopatie periferiche è pertanto il frutto di una progressiva
sensibilizzazione delle terminazioni nervose nocicettive che sono presenti nei muscoli
utilizzati per la deambulazione. Ma qual è il meccanismo intrinseco che porta a tale
ipersensibilità periferica? Il fenomeno è complesso ma un ruolo importante viene sicuramente svolto dai recettori vanilloidi TRPV1 che, oltre ad attivarsi per progressivi
incrementi della temperatura fino a livelli francamente nocicettivi, si attivano anche in
condizioni di ischemia perché sensibili agli idrogeno ioni. Come è ben noto, l’attivazione
dei TRPV1 si accompagna ad una sensazione urente, ad un abbassamento della soglia al
dolore a numerosi stimoli e, se persiste sufficientemente a lungo, allo sviluppo di tutti i
segni dell’infiammazione, inclusi allodinia, iperalgesia, e dolore spontaneo. Almeno per
il dolore che insorge in corso di contrazioni effettuate in condizioni di ischemia, anche
un altro meccanismo è stato dimostrato nell’animale: l’attivazione di nocicettori silenti.
In sintesi, quando il muscolo si contrae in condizioni di ischemia, si osserva la scarica
di nocicettori che non si attivavamo, anche per stimolazioni molto intense, in condizioni
non-ischemiche. L’attivazione dei nocicettori muscolari silenti induce una sommazione
spazio-temporale degli impulsi nocicettivi provenienti dalla periferia. Ciò è sufficiente ad
aumentare la frequenza di scarica dei nocicettori spinali, condizione necessaria, sebbene
non sufficiente, per avvertire le sensazioni dolorose.
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3
Genesi Ectopica
degli Impulsi
Michelangelo Buonocore
Dolore neuropatico
Come già anticipato nel precedente capitolo, non sempre il dolore origina dalle
terminazioni nervose delle fibre di piccolo calibro, fisiologicamente deputate alla
trasmissione di impulsi nocicettivi. In alcuni casi esso origina da impulsi generati
direttamente a livello delle fibre nervose. Un dolore che presenta tale caratteristica
fisiopatologica è definito dolore neuropatico, la cui definizione ufficiale attuale è
quella adottata dallo Special Interest Group della IASP (NeupSIG) e cioè “dolore
che origina come diretta conseguenza di una lesione o di una malattia interessante il
sistema nervoso somatosensoriale”.
Il tipo di fibra nervosa da cui originano gli impulsi che contribuiscono all’insorgenza di un dolore neuropatico non sembra importante, purché appartenente al sistema
somatosensoriale. Nella sua patogenesi possono infatti essere coinvolte sia fibre di
piccolo calibro, quelle che fisiologicamente veicolano il dolore, sia fibre di grande
calibro, quelle che fisiologicamente veicolano sensazioni non dolorose, quali quelle
tattili. In altre parole, se nel dolore nocicettivo le fibre coinvolte sono quelle del dolore
fisiologico, nel dolore neuropatico anche fibre che fisiologicamente non conducono
il dolore sono in grado di generare quelle sensazioni spiacevoli che noi chiamiamo
dolore. Come è allora possibile che una fibra che è normalmente deputata a trasmettere
sensazioni non dolorose diventa in grado di farlo quando lesionata? La risposta non è
facile perché i meccanismi del dolore neuropatico non sono a tutt’oggi completamente noti, ma è molto probabile che un ruolo venga giocato dalla frequenza di scarica
della fibra. È infatti noto che i potenziali che viaggiano lungo le fibre nervose sono
generati dai recettori, cioè da quelle strutture che trasducono gli stimoli di altra natura
(soprattutto meccanici, termici, chimici) in stimoli elettrici. Le capacità intrinseche dei
recettori condizionano pertanto la frequenza di scarica delle fibre nervose. Se invece
che dal recettore, la fibra viene attivata direttamente, per una sorta di cortocircuito che
si viene a creare in un punto preciso della fibra, allora la sua frequenza di scarica può
essere completamente diversa rispetto a quella normalmente generata dall’attivazione
del recettore (Figura 1).
Esistono evidenze sperimentali che, anche nell’uomo, hanno evidenziato come,
quando un impulso attraversa un sito lesionale esso può essere bloccato oppure può
propagarsi a distanza. Nel primo caso si ha una riduzione della sensibilità veicolata
dalla fibra lesionata, ma nel secondo caso si possono generare due situazioni anomale
che possono ingannare il sistema nervoso centrale. La prima è dovuta al fatto che i
potenziali passano da una frequenza di scarica regolare ad una irregolare e caotica.
La seconda situazione anomala che si può creare è legata al fatto che le frequenze
di scarica diventano più elevate di quelle fisiologiche (Figura 2). Poiché è ben noto
che il sistema nervoso funziona a modulazione di frequenza, entrambi i suddetti fe-
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Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
A
dolore
disestesia
B
nessuna
sensazione
C
Figura 1. In condizioni fisiologiche una stimolazione meccanica di elevata intensità
portata nel campo recettoriale di una fibra nocicettiva (A) induce la comparsa di un
potenziale di recettore che quando raggiunge il valore soglia genera un potenziale
d’azione nella fibra nervosa. Se lo stimolo è sufficientemente elevato da indurre
un’adeguata sommazione spazio-temporale, si avverte la sensazione dolorosa. In caso
di lesione assonale del tronco nervoso le fibre nervose rigeneranti formano il neuroma
(B) la cui stimolazione meccanica genera impulsi che possiedono una frequenza diversa
da quella conseguente all’attivazione fisiologica del recettore (A). Questa differente
frequenza di scarica farà avvertire al paziente una sensazione disestesica. Se la lesione
assonale è prossimale al ganglio sensitivo (C), la stimolazione del neuroma darà origine
solo a stimoli centrifughi, senza che possa essere avvertita alcuna sensazione.
nomeni sono in grado di attivare in modo anomalo il sistema nervoso, ingannandolo,
e rendendo possibile lo sviluppo di sensazioni spiacevoli per l’individuo. Inoltre, in
queste particolari condizioni fisiopatologiche gli impulsi possono passare (ed essere
Figura 2. Illustrazione del meccanismo della moltiplicazione di impulsi in una fibra mielinica
con danno demielinizzante. Lo stimolo innocuo, a destra, genera fisiologicamente a livello
recettoriale un treno di impulsi che viaggia ad una determinata frequenza. Quando i
potenziali raggiungono il sito lesionale subiscono un aumento della loro frequenza di scarica.
In alto fibra nervosa intatta, al centro sito di demielinizzazione nel prolungamento centrifugo
(nervo periferico), in basso sito di demielinizzazione nel prolungamento centripeto della
cellula a T (radice nervosa).
23
Genesi ectopica degli impulsi
riferiti) a fibre che non sono state per niente stimolate in periferia (Figura 3). In ogni
caso, indipendentemente dal meccanismo specifico di generazione, il dolore neuropatico è sempre caratterizzato dalla legge di proiezione specifica. Questa legge della
fisiologia afferma che, tutte le volte che una fibra nervosa viene stimolata ed attivata,
direttamente (bypassando il recettore) o indirettamente (attraverso il recettore), in un
suo punto (qualsiasi) la sensazione evocata dalla stimolazione viene sempre riferita
nel punto dove ci sono (o ci dovrebbero essere, in caso di danno assonale) i recettori.
La dimostrazione è data dalla stimolazione elettrica (che crea stimoli ectopici nei
punti di stimolazione): ovunque venga portata la stimolazione, la sensazione di scossa
elettrica viene avvertita sempre nel territorio del nervo, del plesso, della radice, della
parte di midollo o encefalo stimolati. Un altro esempio della veridicità di tale legge
è rappresentata dalla tipica disestesia evocata nel territorio del nervo ulnare tutte le
volte che, inavvertitamente, il nervo ulnare viene meccanicamente stimolato a livello
del gomito, nel punto di passaggio nella doccia olecranica.
Figura 3. Disegno schematico illustrante il meccanismo dell’efapsi tra fibre mieliniche
con danno demielinizzante. L’attivazione mediante stimoli innocui della fibra nervosa
illustrata in alto induce potenziali d’azione che viaggiano fisiologicamente fino al sito di
demielinizzazione. Qui, a causa della perdita dell’isolamento rappresentato dalla mielina,
essi subiscono un aumento della frequenza e, soprattutto, passano nella fibra limitrofa
illustrata in basso.
La genesi ectopica degli impulsi
Come illustrato precedentemente il dolore neuropatico è caratterizzato dal fatto
che, in questa forma di dolore, gli impulsi si generano direttamente dalle fibre nervose
e non dalle terminazioni delle fibre stesse (recettori). Il termine ectopico (fuori luogo)
sta proprio a significare che gli impulsi generatori del dolore non si generano nel posto
giusto (quello fisiologicamente deputato allo scopo). A testimonianza della differenza
tra stimoli fisiologici e stimoli ectopici vi è tra l’altro il fatto che i primi si generano
in un punto specifico (recettore) e viaggiano solo in direzione ortodromica (verso il
sistema nervoso centrale) mentre i secondi si generano in un punto qualsiasi della fibra
e si propagano sia in direzione centripeta (ortodromica) che centrifuga (antidromica).
Appare inoltre importante sottolineare come potenziali ectopici si possono generare
su qualsiasi tipo di fibra, indipendentemente dal loro calibro e velocità di conduzione.
Come per il dolore nocicettivo (a genesi normotopica) anche per il dolore neuropatico (a
genesi ectopica) si può distinguere un meccanismo di scarica spontanea (indipendente
cioè da qualsiasi stimolo) da un meccanismo di scarica evocata (stimolo-dipendente). La
possibilità di evocare un dolore neuropatico in seguito ad una stimolazione meccanica
viene sfruttato in semeiotica in quel famoso segno che viene definito segno di Tinel,
dal nome del suo primo descrittore. Trattasi della possibilità di evocare con stimoli
meccanici lievi una sensazione parestesico-disestesico-dolorosa quando si stimola il
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
24
moncone prossimale di un nervo interrotto o il sito patologico di un nervo leso ma non
interrotto. In altre situazioni, ad esempio in alcune forme di polineuropatia, gli impulsi
ectopici sono generati spontaneamente nelle fibre sensitive degeneranti generando un
complesso di disestesie e dolore che non dipendono da stimolazioni particolari. Per
quanto riguarda gli aspetti neuropatologici, appare importante sottolineare che non
esiste un quadro specifico di danno nervoso che più di altri è stato associato alla genesi
di impulsi ectopici. In particolare, sia danni assonali che danni demielinizzanti sono
in grado di generare stimoli ectopici.
Dolore da lesione assonale senza deafferentazione
Un’altra differenziazione importante è quella che prevede possibili differenze
fisiopatologiche algogene a seconda che la lesione sia assonale o demielinizzante. La
presenza di un danno assonale, cioè di una degenerazione della parte distale di una
fibra sensitiva e mantenimento di un moncone prossimale integro fa pensare subito
alla condizione di ipereccitabilità in cui si viene a trovare il moncone prossimale dopo
poco tempo dall’interruzione assonale. È ben noto infatti che nel momento in cui un
danno assonale si verifica, immediatamente nel corpo cellulare si attivano i processi
riparativi che preparano il moncone prossimale per la ricrescita. Nel corpo cellulare
inizia la produzione di elementi strutturali e funzionali, quali gli elementi citoscheletrici, i canali ionici, i recettori, i neurotrasmettitori, che vengono trasportati verso la
periferia, dove si trova l’interruzione assonale, mediante i ben noti flussi assonali. Il
risultato finale di tutto questo fervore metabolico è rappresentato dal fatto che sulle fibre
rigeneranti si creano dei bottoni germinativi altamente sensibili a stimoli meccanici,
chimici e termici. Questa ipersensibilità, che si genera ogni qualvolta esiste un siffatto
danno assonale, non si accompagna però necessariamente ad un dolore clinicamente
significativo. L’esempio di questo appare lampante nel fatto che nella gran parte delle
lesioni nervose, anche gravi, non si sviluppano dolori attribuibili alla lesione nervosa.
Così come non è controvertibile il fatto che durante alcune operazioni chirurgiche il
chirurgo taglia deliberatamente un nervo per evitare che questi resti intrappolato (e
generi dolore) nell’anatomia sovvertita dall’intervento. Un esempio di tale asportazione deliberata ed indolore di rami nevosi è rappresentata dall’intervento per ernia
inguinale dove spesso viene sezionato ed asportato un pezzo del nervo ilio-inguinale.
Altro esempio del genere sono gli interventi di innesto nervoso, quando, per riparare
un nervo leso, si preleva un pezzo di un nervo sano, frequentemente il nervo surale e
lo si giustappone tra i monconi del nervo lesionato. Se tale asportazione generasse un
dolore, nessuno più utilizzerebbe questa tecnica che, invece, viene ancora attualmente
utilizzata e non crea nuovi dolori nel paziente operato.
È anche vero, però, che in alcuni casi l’ipersensibilità che si sviluppa sulle fibre nervose rigeneranti rappresenta una importante causa di dolore. È ben noto che quando le
fibre nervose rigeneranti non trovano più la strada da percorrere perché il connettivo del
nervo è stato interrotto da un trauma o perché una lesione ha occluso i tubi endoneurali
si forma un vero e proprio groviglio di fibre nervose rigeneranti in ogni direzione che
va sotto il nome di neuroma. Come già detto precedentemente l’ipersensibilità delle
fibre nervose rigeneranti che si organizzano a formare il neuroma non genera necessariamente dolore. In altre parole il neuroma si forma ogni qualvolta il connettivo di
un tronco nervoso viene interrotto o lesionato, ma solo raramente il neuroma diventa
algogeno. Quando ciò si verifica? Il neuroma genera dolore solo quando le fibre nervose
rigeneranti che lo costituiscono vengono stimolate. Questa stimolazione può essere
meccanica, termica o semplicemente chimica, ma essa è condizione indispensabile per
la genesi di potenziali nervosi ectopici algogeni. Una causa relativamente frequente
Genesi ectopica degli impulsi
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di neuroma doloroso è rappresentato dalla formazione del neuroma in stretto rapporto
con una fascia muscolare o un tendine. In tale condizione tutte le volte che un muscolo
viene contratto, il neuroma viene stimolato ed il paziente avverte dolore.
Uno dei motivi più importanti e più studiati della genesi ectopica di impulsi è
dato da modificazioni che avvengono a carico dei canali del sodio. Questi canali (ce
ne sono di diversi tipi) sono stati ripetutamente correlati alla genesi di potenziali ectopici nelle fibre nervose. Quando si verifica un danno assonale, il numero di canali
del sodio presenti sulle membrane del moncone prossimale aumenta (Figura 4). Tale
Na+
assone integro
canale del sodio
assone leso
Figura 4. Illustrazione schematica dello sviluppo di nuovi canali del sodio in caso di
lesione assonale di un nervo periferico. Si noti come i nuovi canali si formino anche a
distanza dal sito lesionale e come la presenza di nuovi canali del sodio si accompagni a
modificazioni della membrana che portano ad una diversa frequenza di attivazione della
fibra lesa.
incremento si accompagna ad una maggiore eccitabilità della fibra nervosa in quanto i flussi di ioni sodio dall’esterno all’interno della cellula sono facilitati e questo
aumenta le probabilità che si generi un potenziale d’azione perché l’entrata di ioni
positivi all’interno della cellula nervosa la rende più facilmente eccitabile. Vale la pena
sottolineare come, in caso di danno assonale, l’espressione sulle membrane di nuovi
canali del sodio non avvenga solo nel sito lesionale, ma in numerose altre parti del
neurone, incluso il corpo cellulare.
L’aumento dei canali del sodio sulle membrane dipende in modo inversamente
proporzionale alla velocità del flusso assonale. Infatti, quando si verificano alcune
condizioni che sono note essere in grado di rallentare il flusso assonale (esposizione
al freddo, uso di farmaci neurotossici) il numero di canali del sodio che appaiono sulle
membrane neuronali è maggiore.
Dolore da lesione assonale con deafferentazione
In realtà il termine di dolore neuropatico è un po’ limitativo in quanto i meccanismi
di insorgenza possono essere veramente molto diversi tra di loro. Se è indubbio che
una ipereccitabilità/scarica spontanea di una fibra nervosa periferica lesa è in grado
di creare una ipersensibilità neuronale sufficientemente intensa per lo sviluppo di una
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
26
sensazione dolorosa, è altrettanto vero che esistono situazioni completamente opposte
dove è proprio la distruzione completa delle fibre nervose a creare il dolore.
L’esempio più importante in tal senso è rappresentato dal cosiddetto dolore da
deafferentazione. Con tale termine si intende un dolore che insorge a causa della
scarica spontanea di un neurone nocicettivo che abbia perso tutte le connessioni con
il neurone nocicettivo che lo precede lungo la via spino-talamica. Per quanto appena
detto appare molto chiaro che tale genesi ectopica di impulsi non può verificarsi nel
I neurone nocicettivo perché, essendo il primo della serie, non esiste un neurone che
lo precede lungo la via. Quindi, il primo neurone che può incominciare a scaricare a
causa dello sviluppo di fenomeni di deafferentazione è il II neurone nocicettivo, quello
che è localizzato nel corno posteriore del midollo spinale. Tale neurone viene a trovarsi
in una condizione di deafferentazione nel momento in cui gravi lesioni interessanti il
sistema nervoso periferico lo disconnettono dalla periferia. Ciò si verifica esclusivamente per lesioni interessanti il ganglio sensitivo e/o il suo prolungamento centripeto.
È importante sottolineare come, in quest’ultimo caso, gran parte del neurone
sopravvive alla lesione, ma l’attivazione patologica delle fibre nervose non produce
alcuna sensazione dolorosa (Figura 1).
La tipica lesione gangliare che può deafferentare il II neurone nocicettivo è la
riattivazione del virus della varicella, dormiente nel ganglio sensitivo. In alcuni casi
la reinfezione (herpes zoster) porta alla degenerazione del I neurone sensitivo, con
conseguente sviluppo di quel quadro clinico doloroso che viene denominato nevralgia
post-herpetica (Figura 5).
Un classico esempio della seconda, tipica lesione nervosa periferica deafferentante
è rappresentata dall’avulsione post-traumatica del plesso brachiale. In questi casi, la
lesione, irreversibile, avviene a monte del ganglio sensitivo dove i prolungamenti centrifughi delle cellule a T vengono letteralmente strappati dai loro siti di connessione a
livello del corno posteriore del midollo spinale (Figura 5). Cosa hanno di particolare
le suddette lesioni rispetto agli altri esempi di possibile lesione gangliare o radicolare?
Figura 5. Esempi di deafferentazione del secondo neurone nocicettivo (midollare) da
degenerazione del moncone prossimale delle cellule a T in seguito a lesione radicolare
(in alto) o dell’intero neurone periferico in seguito a lesione gangliare (in basso).
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Genesi ectopica degli impulsi
normale
lieve danno assonale
(I neurone sensitivo)
grave danno assonale
(I neurone sensitivo)
deafferentazione del
II neurone sensitivo
Figura 6. Schema illustrante come, a causa delle connessioni multiple tra primo e
secondo neurone sensitivo, la deafferentazione del secondo neurone si verifichi solo in
caso di degenerazione contemporanea di numerosi neuroni periferici limitrofi. In alto
condizione di normalità; al centro, lieve danno assonale; in basso grave danno assonale
con deafferentazione.
Le caratteristiche delle lesioni in grado di deafferentare i secondi neuroni posti nel
corno posteriore del midollo sono essenzialmente due.
La prima è rappresentata dal fatto che la lesione deve essere grave, portando a
degenerazione tutte le fibre nervose presenti nelle strutture lese.
La seconda è rappresentata dal fatto che più radici limitrofe devono essere contemporaneamente interessate. In particolare, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto,
è molto importante ricordare come la connessione tra radici e livelli corrispondenti
midollari non sia biunivoca. Infatti un segmento midollare riceve fibre da due o più
radici limitrofe e non solo da quella corrispondente. Così come le fibre che decorrono
in un’unica radice posteriore non si connettono solo con il segmento midollare (corno
posteriore) corrispondente, ma anche, almeno, con quello immediatamente superiore
ed inferiore. Questo complesso sistema di interconnessioni fa sì che anche una lesione
completa di una sola radice o di un ganglio non siano in grado di indurre deafferentazione, per indurre la quale c’è quindi bisogno di lesioni che interessino diversi livelli
segmentali (Figura 6).
Come già descritto in precedenza, nella genesi del dolore neuropatico è frequente
il riscontro di alterazioni a carico dei canali del sodio che, se iperespressi, sono in
grado di creare quelle condizioni di ipereccitabilità in grado di generare e sostenere
una scarica ectopica di impulsi. Anche in caso di dolore da deafferentazione è stata
considerata l’ipotesi di una disregolazione di tali canali come possibile meccanismo
algico. In casi di dolore riferibili al meccanismo della deafferentazione è stata infatti
segnalata una iperespressione del canale denominato Nav 1.3 sia nei corpi cellulari dei
neuroni del corno posteriore del midollo (secondi neuroni della via), sia nei neuroni
talamici (terzi neuroni della via).
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
28
Dolore da lesione nervosa senza danno assonale
Altro ragionamento va fatto per le lesioni che non si accompagnano a degenerazione assonale. Le più frequenti e conosciute sono quelle demielinizzanti. Appare
subito apparentemente contraddittorio il fatto che lesioni demielinizzanti interessanti
le fibre sensitive possano dare sia sintomi positivi (parestesie, disestesie, dolori) che
negativi (ipoestesie). La risposta a tale osservazione non è chiara, ma sulla base delle
esperienze acquisite in anestesia loco-regionale, è ipotizzabile che il blocco della conduzione avvenga solo quando un tratto sufficiente lungo e continuo di fibra nervosa
venga interessato dalla lesione. In altre parole se le lesioni sono corte e/o discontinue
esse possono sostenere sintomi positivi in quanto gli impulsi ivi generati possono
propagarsi a distanza (Figura 2).
Se, al contrario le lesioni interessano lunghi tratti di fibra nervosa, anche nell’eventualità che la genesi ectopica avvenga, essa non può propagarsi prossimalmente
fino ad arrivare a livello cerebrale dove le sensazioni vengono avvertite. Nelle fibre
amieliniche la differenziazione suddetta è meno applicabile perché, a differenza delle
fibre mieliniche che hanno una conduzione nervosa saltatoria da un nodo di Ranvier e
l’altro, le fibre amieliniche hanno una trasmissione punto a punto. Ciò rende altamente
improbabile una genesi ectopica senza contemporaneo blocco della trasmissione. A
parità di lunghezza lesionale infatti, i nodi di Ranvier bloccati sono sempre maggiori
nelle fibre amieliniche rispetto a quelle mielinizzate.
Così come, sempre a parità di lesione, il numero di nodi di Ranvier bloccati nelle
fibre scarsamente mielinizzate (A-delta) sarà maggiore rispetto a quelli bloccati nelle
fibre molto mielinizzate (A-beta). Anche nelle lesioni demielinizzanti gioca un ruolo
l’aumento dei canali del sodio. È infatti noto che, lì dove l’assone perde la sua guaina
mielinica è presente un numero maggior di canali del sodio, anche se non vi è stato
alcun danno a carico dell’assone stesso. L’importanza dei canali del sodio nella genesi
del dolore ectopico è chiaramente indicato anche da due fenomeni tra loro completamente opposti. È infatti noto come due forme di dolore neuropatico molto grave,
l’eritromelalgia ereditaria e il disturbo doloroso estremo parossistico, sono sostenute
da una mutazione genica interessante i geni che codificano un particolare tipo di canali
del sodio (Na 1.7). Al contrario l’assenza congenita del canale Nav 1.7 si accompagna
ad insensibilità al dolore con mantenimento delle altre modalità sensitive.
La scarsa abituazione e la refrattarietà
Uno degli aspetti più significativi che differenzia il dolore ectopico (neuropatico)
da quello normotopico (nocicettivo) è il diverso comportamento nei confronti dell’abituazione. Nel dolore ectopico è stato osservato come i fenomeni abituativi sono molto
più inefficienti rispetto al dolore nocicettivo.
I motivi di questa scarsa abituazione degli impulsi generati direttamente dalle fibre
nervose sono molti e non completamente noti. Uno di questi è rappresentato dal fatto
che ogni impulso nervoso che viene generato da un recettore subisce una sorta di filtro
rappresentato dal potenziale di recettore. È questo quel piccolo potenziale che si crea
a livello delle parti più estreme delle fibre nervose sensitive in seguito agli stimoli
adeguati per quel tipo di recettore.
Come è ben noto non tutti i potenziali di recettore fanno partire degli impulsi nervosi lungo la fibra (i potenziali d’azione), ma solo quelli che raggiungono una certa
differenza di potenziale che permette al potenziale d’azione di raggiungere la soglia
critica e cioè quella differenza di potenziale tra l’interno e l’esterno della cellula in
grado di scatenare quel fenomeno tutto o nulla che genera il potenziale d’azione. Quando lo stimolo (ectopico) si forma direttamente a livello delle fibre nervose il “filtro”
29
Genesi ectopica degli impulsi
rappresentato dal recettore non c’è e pertanto anche i fenomeni di abituazione, che
portano ad una riduzione delle scariche neuronali fino al loro esaurimento, risultano
più deboli. In alcuni casi di dolore neuropatico però si osserva un fenomeno opposto:
dopo che si è generata la scarica di impulsi nervosi che ha fatto avvertire al paziente
la sensazione dolorosa, per un certo periodo di tempo non è più possibile far attivare
le fibre nervose.
In altre parole, l’attivazione ripetuta di uno stesso sito di genesi ectopica di impulsi
rende quel sito non eccitabile per un intervallo di tempo più o meno lungo. Tale caratteristica è stata evidenziata negli animali, ma è presente in alcuni pazienti affetti da
nevralgia trigeminale. Questi pazienti dopo aver avvertito la tipica scossa di dolore in
seguito alla stimolazione di un punto grilletto (trigger point doloroso) possono stimolare
lo stesso punto senza più avvertire dolore. I pazienti con nevralgia trigeminale che hanno
un dolore scatenato dall’apertura della bocca, arrivano a sfruttare tale caratteristica
del dolore per potersi alimentare: si provocano volontariamente il dolore stimolando
adeguatamente il trigger point dopodiché si alimentano sfruttando l’impossibilità ad
evocare il dolore nel momento di refrattarietà nervosa.
Principi terapeutici per il dolore neuropatico
La terapia del dolore sarà ampiamente trattata in un capitolo successivo. Qui di
seguito verranno brevemente trattati alcuni principi terapeutici strettamente correlati
alla fisiopatologia del dolore neuropatico. Anzitutto va premesso che il dolore a genesi
ectopica è un dolore resistente alle comuni terapie. Attualmente le probabilità di un
buon controllo del dolore in un paziente affetto da vero dolore neuropatico sono molto
basse e si aggirano intorno al 30-40%.
La caratteristica patogenetica che lo contraddistingue sposta infatti i bersagli terapeutici dai recettori e dai canali alle membrane neuronali. In pratica, tutte le terapie
in grado di inibire l’eccitabilità della membrana neuronale posseggono teoricamente
un’azione antalgica nelle forme cliniche di dolore neuropatico. Non è un caso che
molti dei farmaci che mostrano un qualche effetto sul dolore neuropatico sono farmaci appartenenti alla categoria degli antiepilettici. Sono questi in genere farmaci
che riducono l’ipereccitabilità delle membrane neuronali, fenomeno che è alla base
sia dell’epilessia che del dolore neuropatico. Molti di questi farmaci posseggono la
caratteristica di bloccare la trasmissione degli impulsi che viaggiano a frequenze elevate, mentre non modificano la trasmissione degli impulsi a bassa o media frequenza.
Tale azione farmacologica viene svolta, il più delle volte, prolungando il periodo di
inattivazione dei canali del sodio, condizione in grado di per sé di bloccare le scariche
ad alta frequenza.
L’esempio più noto di farmaco inibitorio della trasmissione neuronale, utilizzato
sia in epilessia che in terapia antalgica, è sicuramente quello della carbamazepina,
farmaco tutt’ora insuperato, in termini di efficacia, nel trattamento della nevralgia
trigeminale. Il meccanismo più importante della carbamazepina è il blocco dei canali
del sodio. Come visto precedentemente, questi canali sono normali costituenti delle
membrane neuronali, ma in alcune condizioni patologiche essi risultano iperespressi e
contribuiscono significativamente al mantenimento di ipereccitabilità delle membrane
neuronali, fenomeno che quando intenso porta alla genesi ectopica di potenziali d’azione. Purtroppo l’utilizzo clinico dei farmaci stabilizzanti di membrana appare molto
limitato dall’insorgenza di effetti indesiderati sul sistema nervoso centrale, caratteristica
questa che appare chiaramente legata al fatto che tutti i suddetti farmaci sono lipofilici
e pertanto in grado di passare la barriera ematoencefalica.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
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Lancet, 1999, 353: 1959-64.
4
Meccanismi
della Sensibilizzazione
Centrale
Michelangelo Buonocore
Buona parte delle nuove conoscenze sul dolore che si sono sviluppate nelle ultime
decadi sono dovute a studi effettuati a livello del sistema nervoso centrale e del midollo spinale in particolare. Ciò perché il midollo spinale, oltre ad essere una stazione
importante per la trasmissione degli impulsi nervosi, rappresenta anche un importante
luogo di modulazione degli stessi (Figura 1). Non fanno eccezione gli impulsi nocicettivi. Una volta infatti che gli impulsi provenienti da fibre nocicettive raggiungono
il sistema nervoso centrale, che ha il suo “avamposto” a livello del midollo spinale,
GLU
GABA
GLU
GABA
GLU
GABA
Figura 1. La trasmissione midollare di impulsi nocicettivi attraverso la sinapsi midollare
dipende dall’equilibrio tra neurotrasmettitori eccitatori, il cui capostipite è il glutammato
(GLU), ed inibitori, il cui capostipite è l’acido gamma-amino-butirrico (GABA). In
condizioni di prevalenza di glutammato (al centro) la trasmissione di impulsi viene
facilitata, in prevalenza di GABA inibita (in basso). Quando i due tipi di neurotrasmettitori
sono in equilibrio (in alto) la trasmissione degli impulsi non subisce significative
modificazioni a livello sinaptico.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
32
essi possono creare ulteriori fenomeni di amplificazione, frequentemente definiti col
termine di sensibilizzazione centrale.
Meccanismi generali della sensibilizzazione centrale
Perché i suddetti processi si possano attivare è necessario che gli stimoli che arrivano dalla periferia siano costanti. Stimoli ripetuti di breve entità, per quanto intensi,
che però non generino un dolore spontaneo persistente non sono in grado di indurre
la sensibilizzazione centrale. Non tutti i tessuti possiedono le stesse potenzialità di
generare fenomeni di sensibilizzazione spinale. Vi sono per esempio alcuni studi sugli animali che hanno confrontato lesioni muscolari e cutanee ed hanno chiaramente
dimostrato come le lesioni muscolari possiedano una maggiore capacità di produrre
una sensibilizzazione spinale. Numerosi meccanismi sono stati tirati in ballo per giustificare l’insorgenza dei fenomeni che vanno sotto il nome di sensibilizzazione centrale.
Considerato che il corno posteriore del midollo è la sede della prima sinapsi nocicettiva, una semplice classificazione divide i meccanismi fisiopatologici in presinaptici
e postsinaptici. Va però ricordato come la stragrande maggioranza dei meccanismi di
sensibilizzazione spinale sia legata al fatto che il secondo neurone nocicettivo, sito nel
corno posteriore, da cui parte la via spino-talamica, diventa ipersensibile agli stimoli.
Così come vale la pena di segnalare come una ipersensibilità che raggiunga elevati
livelli possa alla fine portare alla scarica spontanea dei neuroni post-sinaptici, diventando pertanto completamente indipendente rispetto agli eventuali stimoli, intensi o
lievi, provenienti dalla periferia mediante i primi neuroni nocicettivi.
Tra i meccanismi presinaptici vanno sicuramente ricordati l’insieme di modificazioni fenotipiche che si verificano ogniqualvolta in un tessuto si verifica una lesione.
La plasticità del sistema in questo contesto appare molto elevata e gran parte delle
numerosissime modificazioni osservate nell’ambito della biologia molecolare del
dolore appartengono a questo tipo di modificazioni. Un altro fenomeno presinaptico
frequentemente descritto è rappresentato dal fatto che gli stimoli nocivi o potenzialmente nocivi inducono il rilascio di peptidi che non vengono liberati da stimoli di lieve
entità. Il rilascio di questi peptidi innesca poi altri meccanismi che rendono il sistema
ipersensibile a stimoli successivi. Un vero e proprio rimaneggiamento anatomico
avviene quando si verifica una degenerazione massiva dei neuroni di piccolo calibro
che arrivano al corno posteriore del midollo. In tali condizioni, negli animali, è stato
dimostrato un proliferare (sprouting) di fibre nervose non nocicettive, di grande calibro,
che dalle lamine più profonde del corno posteriore vanno a connettersi, in modo non
fisiologico, con i secondi neuroni nocicettivi presenti nelle lamine più esterne del corno
posteriore, creando in tal modo un corto circuito tra impulsi non nocicettivi, mediati
dalle fibre nervose di grande calibro e i circuiti spinali della nocicezione.
I meccanismi postsinaptici sono molto diversi tra loro a tal punto da essere divisibili in due grandi categorie: i meccanismi eccitatori e quelli inibitori. Tra i primi si
annoverano, tra gli altri, l’attivazione di kinasi, la fosforilazione dei recettori NMDA
(N-Methil-D-Aspartato), l’attivazione di NOS (Nitric Oxide Synthase) e di COX2
(Cyclooxygenase 2). Tra i meccanismi inibitori vanno annoverati la ridotta espressione di sostanze inibitorie spinali (es GABA, acido gamma-amino-butirrico), la ridotta
espressione di recettori inibitori, la morte di neuroni inibitori.
Meccanismi specifici correlati alla sensibilizzazione spinale
Come detto precedentemente, è il neurone presente nel corno posteriore del midollo
che sviluppa quei fenomeni di ipersensibilità agli stimoli che sono alla base del più
complesso fenomeno che viene denominato sensibilizzazione centrale. Ma quali sono
33
Meccanismi della sensibilizzazione centrale
i meccanismi neurofisiopatologici che sostengono la sensibilizzazione centrale? Se ne
conoscono diversi e i più importanti saranno trattati essenzialmente qui di seguito. Il
primo è rappresentato dalla riduzione della soglia di scarica. Tale fenomeno avviene
sia per i neuroni nocicettivi specifici che per quelli ad ampio spettro dinamico, molto
noti anche come neuroni WDR (dall’inglese Wide Dynamic Range) o come neuroni
convergenti. In condizione fisiologiche, i neuroni nocicettivi specifici, localizzati negli
strati più esterni del corno posteriore del midollo, hanno caratteristicamente un’alta
soglia di scarica in quanto producono potenziali d’azione che viaggiano nelle vie
spino-talamiche, direttamente a frequenze nocicettive (alte frequenze), solo in seguito
a stimoli di elevata intensità (Figura 2).
120
imp/sec
90
60
30
NS
0
tocco
pressione
stretta
pressione
stretta
120
imp/sec
90
60
30
WDR
0
tocco
Figura 2. Nella figura viene illustrata la risposta in frequenza agli stimoli dei neuroni
nocicettivi presenti nel corno posteriore del midollo. Si noti come il neurone nocicettivo
specifico (NS) risponda solo a stimolazioni di elevata intensità e quello ad ampio spettro
dinamico (WDR) a stimoli di intensità sia bassa che elevata.
Quando si sviluppano i fenomeni di sensibilizzazione centrale la soglia di scarica
di tali neuroni si abbassa (Figura 3). In altre parole, essi si attivano producendo potenziali che viaggiano a frequenze elevate anche quando le stimolazioni in periferia sono
state di lieve entità. Un fenomeno simile avviene anche per i neuroni ad alto spettro
dinamico, localizzati negli strati più profondi del corno posteriore del midollo. Questi
neuroni, che fisiologicamente rispondono a stimoli lievi con basse frequenze di scarica,
in condizioni di ipereccitabilità rispondono ad alta frequenza anche per stimolazioni
periferiche di lieve entità. In tal modo anch’essi riducono la loro soglia di scarica a
frequenze nocicettive.
Come già accennato in precedenza, la riduzione della soglia di scarica dei neuroni nocicettivi spinali si può verificare anche per attivazione dei neuroni nocicettivi
specifici da parte di abnormi connessioni dei loro corpi cellulari con le fibre nervose
periferiche di grande calibro che veicolano, in condizioni fisiologiche, le sensazioni
non dolorose quali tatto e propriocezione. È stato infatti dimostrato, negli animali,
che lesioni prossimali e selettive di fibre periferiche nocicettive (di piccolo calibro)
34
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
Condizioni fisiologiche
imp/sec
120
90
60
30
0
neurone
ad ampio
spettro dinamico
(WDR)
tocco
pressione
stretta
Ipersensibilità
imp/sec
120
90
60
30
0
tocco
pressione
stretta
Figura 3. Nella figura viene illustrato come in caso di ipersensibilità dei neuroni
convergenti (WDR) (in basso), si verifichi un aumento della frequenza di scarica neuronale
rispetto alle condizioni fisiologiche (in alto). Ne consegue che gli stimoli innocui
acquisiscono la capacità di indurre risposte in frequenza simili a quelle che lo stesso
neurone aveva in condizioni fisiologiche in conseguenza di stimolazioni nocicettive.
Pertanto, in caso di ipersensibilità dei WDR, uno stimolo non nocivo può essere
interpretato, a livello del sistema nervoso centrale, come stimolo nocivo e dare origine
alla sensazione dolorosa.
possono indurre l’attivazione di fenomeni di gemmazione (sprouting) di rami nervose
collaterali che partendo dalle lamine interne del corno posteriore, dove sono localizzate
le terminazioni delle fibre nervose di grande calibro, si spostano verso le lamine più
superficiali, dove sono localizzati i neuroni nocicettivi specifici (Figura 4). Grazie
a tali connessioni stimoli periferici di bassa intensità, che fisiologicamente attivano
potenziali nervosi nelle fibre di grande calibro, una volta arrivati a livello midollare,
grazie alle suddette neo-connessioni, attivano i corpi cellulari dei neuroni nocicettivi,
usualmente attivati solo da stimoli di elevata intensità. Il risultato finale di questo
nuovo circuito è che i nocicettori specifici vengono attivati da stimoli di lieve entità
(riduzione della soglia di scarica nocicettiva).
Un secondo meccanismo correlato alla sensibilizzazione centrale è dato dall’aumento della frequenza di scarica. Nei neuroni ad ampio spettro dinamico esiste una
proporzionalità diretta tra intensità della stimolazione periferica e frequenza di scarica
neuronale. In parole semplici, stimoli di lieve entità danno risposte in bassa frequenza, mentre stimoli di elevata intensità danno stimoli di elevata frequenza. In caso di
sviluppo di ipersensibilità spinale anche stimoli di lieve intensità sono in grado di far
scaricare ad alta frequenza il neurone ad ampio spettro dinamico. Tra i meccanismi
meglio studiati in questo ambito vi è il fenomeno del wind-up (Figura 5).
Trattasi di una sensibilizzazione spinale che interessa le fibre nocicettive le quali,
se stimolate ad alta frequenza (superiore a 0.3 Hz e cioè uno stimolo ogni 3 secondi)
mostrano un aumento esponenziale della frequenza di scarica del neurone nocicettivo
spinale senza cioè che tra uno stimolo e l’altro il sistema ritorni alle condizioni basali.
Questo fenomeno, molto studiato negli anni ’70 ed ’80 del secolo scorso, ha in realtà
35
Meccanismi della sensibilizzazione centrale
Fibra C
Fibra A-Beta
Fibra C
Fibra A-Beta
Figura 4. Esempio schematico (in alto) di connesione patologica (sprouting) tra
fibra mielinica di grande calibro e neurone nocicettivo specifico del corno posteriore
del midollo in seguito a lesione periferica interessante le fibre amieliniche. In basso
connessione fisiologica.
una scarsa valenza clinica perché la sensibilità midollare che esprime è esclusiva delle
vie nocicettive e quindi basta evitare stimoli intensi per non avvertire alcun tipo di
dolore. Un altro meccanismo mediante il quale si può manifestare sensibilizzazione
spinale è rappresentato dalla scarica postuma. In generale, fisiologicamente, l’attivazione di un neurone in seguito ad uno stimolo cessa nel momento in cui cessa lo
wind-up
imp/sec
imp/sec
normale
0
0
stimolazione dolorosa
nel campo recettoriale
Figura 5. La figura illustra, a destra, il fenomeno noto con il termine di wind-up. Esso
è caratterizzato dall’incremento esponenziale della frequenza di scarica del neurone
nocicettivo spinale in conseguenza di stimolazioni dolorose brevi ma frequenti (maggiori
di 0.3 Hz, cioè con un intervallo tra i due stimoli minore o uguale a tre secondi). A sinistra
sono illustrate le risposte normali.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
36
stimolo. In caso di sviluppo di fenomeni di ipersensibilità, la scarica può continuare
ben oltre il tempo dello stimolo (scarica postuma). Questo porta a due conseguenze.
La prima è rappresentata dal fatto che se lo stimolo che ha iniziato la scarica è
stato sufficiente a generare il dolore, con la persistenza della scarica neuronale persiste
anche la sensazione dolorosa.
La seconda è relativa ad un fenomeno di sommazione. Se il primo stimolo ha attivato il neurone che ha continuato a scaricare anche dopo la fine della stimolazione,
se il neurone viene attivato durante questa scarica postuma la sua soglia di attivazione
è più bassa e la frequenza di scarica sarà più alta di quella ottenuta dai due singoli
stimoli, e quindi il dolore sarà più intenso.
Forse però, tra tutti i meccanismi tipici della sensibilizzazione spinale, quello più
caratteristico, anche perché più visibile clinicamente, è l’ingrandimento del campo
recettoriale. In condizioni fisiologiche sappiamo che ogni neurone spinale possiede un
suo campo recettoriale che viene facilmente identificato stimolando i tessuti periferici
e vedendo se tale stimolazione induce delle risposte a livello del neurone spinale da
cui viene registrata l’attività. Sappiamo anche che i campi recettoriali hanno diverse
caratteristiche nei diversi neuroni nocicettivi: i neuroni nocicettivi ad ampio spettro
dinamico possiedono campi recettoriali ben più grandi dei neuroni nocicettivi specifici
(Figura 6). Ma entrambi i neuroni nocicettivi possiedono la capacità di espandere il
loro campo recettoriale, sebbene questa caratteristica sia nettamente più importante
per i neuroni ad ampio spettro dinamico. Il meccanismo dell’allargamento del campo
recettoriale è attualmente spiegato dal fatto che i dendriti del neurone nocicettivo
neurone
nocicettivo
specifico
(NS)
neurone ad
ampio
spettro dinamico
(WDR)
Figura 6. Nella figura vengono illustrati i campi recettoriali dei neuroni nocicettivi
presenti nel corno posteriore del midollo. In alto il neurone nocicettivo specifico (NS) in
basso il neurone ad ampio spettro dinamico (WDR). Si noti come il primo abbia un piccolo
campo recettoriale al contrario del secondo che possiede un campo recettoriale molto più
vasto.
37
Meccanismi della sensibilizzazione centrale
spinale hanno numerose connessioni con le fibre nervose periferiche e che alcune di
queste connessioni sono fisiologicamente inattive. È solo in caso di sensibilizzazione
del neurone nocicettivo spinale che si attivano tutte le connessioni possibili, incluse
quelle silenti, permettendo così al neurone spinale di ricevere informazioni da un territorio periferico più vasto rispetto a quello originale. Vale la pena di ricordare come,
secondo alcuni autori, la sensibilizzazione spinale può essere considerata responsabile
anche di un abbassamento della soglia del dolore nell’area lesionale, ma non tutti gli
esperti sono d’accordo.
In ogni caso, considerato l’ampio sviluppo di fenomeni di ipersensibilità in sede
di lesione tissutale, non è improbabile che sia la sensibilizzazione centrale che quella
periferica siano coinvolti. Ma la manifestazione più importante della sensibilizzazione
spinale è rappresentata dalla scarica spontanea (e continua) dei nocicettori spinali,
che si accompagna al dolore spontaneo, quello cioè presente indipendentemente da
qualsiasi stimolazione. È questo un fenomeno che si osserva solo quando le cause
della sensibilizzazione sono importanti e/o intense e/o persistenti per cui il neurone
non riesce in nessun modo ad attuare quei meccanismi di autoinibizione che pur possiede. Come già accennato in precedenza la presenza di un’attivazione costante del
neurone nocicettivo spinale lo rende anche più sensibile agli stimoli, giustificando in
tal modo il frequente riscontro clinico di un’allodinia/iperalgesia nelle stesse aree dove
il paziente riferisce il dolore spontaneo.
Sensibilizzazione centrale da aumentate afferenze periferiche
(concetti generali)
Sicuramente la più importante causa di sensibilizzazione spinale è rappresentata
da un aumento delle afferenze al midollo spinale. In particolare, studi effettuati su
animali hanno chiaramente dimostrato che non tutte le fibre giocano uno stesso ruolo.
Le fibre nervose sensitive in grado di creare la sensibilizzazione spinale sono esclusivamente le fibre C (fibre amieliniche). Come già accennato in precedenza stimoli
brevi per quanto intensi, non sono considerati in grado di creare le condizioni per lo
sviluppo di una sensibilizzazione centrale. Quello che appare cruciale è la costanza
della scarica neuronale periferica che arriva al midollo. Studi su animali hanno calcolato che i primi fenomeni di sensibilizzazione centrale si colgono già dopo circa un
minuto di stimolazione periferica. Perché proprio le fibre C? La motivazione risiede
nel fatto che solo tali fibre sono in grado di liberare alcune sostanze coinvolte nella
trasmissione nocicettiva e pertanto legate, direttamente o indirettamente, ai fenomeni
di modulazione del dolore.
Il neurotrasmettitore che più di ogni altro sembra avere un ruolo nella induzione
dei fenomeni di sensibilizzazione centrale è la sostanza P, la cui liberazione sinaptica
è strettamente legata alla scarica delle fibre amieliniche (C). Secondo alcuni autori la
sostanza P svolge tale ruolo sensibilizzante perché si lega al recettore NK1 presente
sulla membrana post-sinaptica. Quando questo recettore viene attivato, sulla membrana
post-sinaptica (del nocicettore spinale) si attivano una serie di processi che, attraverso l’entrata del calcio nella cellula, riducono il potenziale di membrana rendendo il
neurone ipereccitabile (Figura 7). È interessante ricordare che le fibre amieliniche C
liberino glutammato per stimoli di lieve intensità e glutammato e sostanza P quando
attivate ad alta intensità. Ciò giustifica come mai non sempre l’attivazione delle fibre
C afferenti evoca dolore, ma contrasta con alcuni studi che hanno segnalato come la
scarica periferica afferente che induce la sensibilizzazione centrale non deve essere
necessariamente dolorosa. È noto da tempo che un altro tipo di recettori che gioca un
ruolo cruciale è rappresentato dal recettore NMDA (N-Metil-D-Aspartato). È stato
38
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
CA++
Fibra C
CA++
P
WDR
Fibra A-Beta
NMDA
KAINATE/AMPA
METABOTROBICO
P = sostanza P
Figura 7. Illustrazione schematica dei meccanismi di sensibilizzazione del neurone ad
ampio spettro dinamico in conseguenza di una lesione tissutale. L’attivazione spontanea
della fibra amielinica (fibra C) da parte della lesione tissutale libera elevate quantità di
sostanza P nello spazio sinaptico midollare. In tal modo si rendono attivi alcuni recettori
“silenti” sulla membrana post-sinaptica (NMDA, kainate/AMPA, metabotrobico) che, una
volta eccitati, ne inducono la depolarizzazione attraverso l’entrata di calcio nella cellula.
Ne risulta una ipereccitabilità del secondo neurone nocicettivo.
infatti più volte dimostrato che il loro blocco riduce l’allodinia che si sviluppa in corso
di dolore neuropatico. Anche i recettori NMDA, che sono recettori per il glutammato,
possono essere attivati dalla sostanza P. E quando questo avviene, si genera un potenziale post-sinaptico eccitatorio che persiste nel tempo, rendendo pertanto ipereccitabile
la membrana post-sinaptica (quella del neurone nocicettivo spinale).
Sensibilizzazione centrale da lesione tissutale
Non tutti i tessuti periferici giocano lo stesso ruolo nello sviluppo di fenomeni di
sensibilizzazione centrale. Esistono numerose evidenze che dimostrano l’importanza
del tipo di tessuto periferico lesionato, quello cioè da cui partono gli stimoli che arrivati
al midollo creano la sensibilizzazione centrale. È per esempio ben noto come le lesioni
tissutali non nervose si accompagnino sistematicamente ad uno sviluppo di ipersensibilità midollare. Gran parte di queste lesioni sono di tipo periferico e rientrano tra
quelle già descritte nel capitolo della sensibilizzazione periferica. Come detto in altra
parte, non tutti i tipi di tessuto hanno la stessa capacità di generare sensibilizzazione
centrale. È per esempio noto che a parità di intensità lesionale, le lesioni muscolari
si accompagnano a fenomeni di ipersensibilità centrale più marcati, rispetto a quelle
cutanee.
Un caso molto particolare è rappresentato dalla cosiddetta ipersensibilità tattile
progressiva. Come accennato precedentemente, è la liberazione di sostanza P da parte
delle fibre amieliniche che innesca i fenomeni di sensibilizzazione centrale. Ebbene,
in alcuni studi animali è stato dimostrato che l’infiammazione persistente di un tessuto
periferico può indurre una trasformazione fenotipica delle fibre mielinizzate di grande
calibro che acquisiscono anch’esse la capacità di liberare sostanza P, cosa che non
avviene in condizioni fisiologiche. Ne consegue che stimoli tattili, che attivano fibre
nervose periferiche di grande calibro, quando sono portati su un tessuto infiammato,
possono anch’essi liberare sostanza P a livello midollare, contribuendo al mantenimento
ed eventualmente all’aumento dei fenomeni di ipersensibilità midollare.
39
Meccanismi della sensibilizzazione centrale
Sensibilizzazione centrale da lesione nervosa periferica
Non solo le lesioni tissutali ma anche quelle nervose periferiche possono innescare
fenomeni di ipersensibilità midollare. In tali condizioni si sviluppa una condizione di
ipersensibilità da lesione nervosa periferica. È ben noto come una lesione parziale di
un nervo possa generare scariche ectopiche a livello delle fibre amieliniche lesionate.
Come visto nel precedente capitolo, la genesi ectopica degli impulsi genera impulsi
che si propagano sia prossimalmente che distalmente. Gli impulsi così generati, che
si propagano prossimalmente lungo le fibre amieliniche, inducono una liberazione
di neurotrasmettitori nelle sinapsi spinali, esattamente come avrebbero fatto impulsi
generati normotopicamente (dalle terminazioni libere) in caso di lesione tissutale. In
caso di scariche intense e prolungate, esattamente come avviene per stimoli nocicettivi
dovuti a lesioni tessutali non nervose, si innescano tutti i processi che portano alla
sensibilizzazione centrale. Per completezza di informazione vanno ricordati due importanti aspetti che possono diversificare le manifestazioni cliniche di quanto appena
illustrato. Il primo è rappresentato dall’osservazione che, in caso di lesione nervosa
periferica, gran parte delle scariche ectopiche sperimentalmente registrate, sono state
evidenziate nelle fibre nervose di grande calibro, che fisiologicamente veicolano le
sensibilità tattile e propriocettiva, e non nelle fibre nervose di piccolo calibro, che
fisiologicamente veicolano le sensibilità termiche e dolorifiche. Ne consegue che
non è obbligatorio che una lesione nervosa periferica induca una sensibilizzazione
spinale. Il secondo aspetto, non meno importante, è rappresentato dalla possibilità che
anche in caso di lesione nervosa periferica, così come in seguito a lesione tissutale
infiammatorie, le fibre nervose periferiche di grande calibro possono modificare il
loro fenotipo e incominciare a liberare sostanze pronocicettive dalle sinapsi spinali,
rendendo così possibile una sensibilizzazione centrale generata e sostenuta da fibre
nervose di grande calibro. Quest’ultimo meccanismo contribuisce, insieme agli altri
meccanismi illustrati prima, all’estrema variabilità di espressione clinica del dolore
che consegue ad una lesione del sistema nervoso periferico.
Sensibilizzazione spinale da aumentata facilitazione/
diminuita inibizione discendente
Ormai da molti anni è ben noto come quello che si verifica a livello della trasmissione sinaptica sensitiva midollare sia influenzato da sistemi costituiti da fibre nervose
discendenti a partenza cerebrale e proiettanti direttamente sulle terminazioni sensitive
presinaptiche. Tale influenza può essere sia eccitatoria che inibitoria, con un equilibrio oscillante a favore dell’una o dell’altra azione. Impulsi eccitatori provenienti dal
troncoencefalo possono quindi facilitare la trasmissione degli impulsi nocicettivi a
livello midollare e creare condizioni di ipereccitabilità intra ed extralesionali, tipiche
della sensibilizzazione centrale. Ma il meccanismo forse più importante in tale ambito
è quello dell’inibizione. Questa si può attuare attraverso l’azione su neuroni inibitori
midollari oppure, sull’attivazione diretta di fibre discendenti inibitorie. L’inibizione
sovrasegmentaria è un meccanismo subcontinuo che serve a ridurre gli impulsi nocicettivi che viaggiano in direzione centripeta. Esso rappresenta un vero e proprio
servo-meccanismo che fa sì che molti degli impulsi di lieve entità, e quindi non potenzialmente nocivi, arrivino fino al cervello e si trasformino in sensazioni spiacevoli.
I sistemi inibitori discendenti appaiono molto importanti anche per la possibilità di
modulazione farmacologica in quanto essi sono rappresentati prevalentemente da vie
serotoninergiche e noradrenergiche. Ogni azione che aumenti la disponibilità di serotonina e noradrenalina è pertanto in grado, teoricamente, di avere un’azione antalgica
a livello midollare.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
40
Effetti clinici della sensibilizzazione spinale in area extralesionale L’effetto più
evidente ed importante della sensibilizzazione centrale è rappresentato dalla comparsa
del dolore in zone extralesionali. Le manifestazioni cliniche della sensibilizzazione
centrale sono diverse potendo il dolore essere spontaneo od evocato e la manifestazione
extralesionale essere vicina o lontana. Numerosi sono gli esempi di sensibilizzazione
centrale. Se per esempio duole il dente ed il dolore persiste per qualche ora in modo
intenso, continuo o subcontinuo, il dolore diffonde e diventa spesso difficile identificare, sulla sola descrizione del paziente, da quale dente sia partito il tutto. Un altro
esempio molto noto di sensibilizzazione centrale è il dolore dell’infarto miocardico
che viene avvertito al lato mediale del braccio.
Altrettanto nota è l’irradiazione alla spalla destra del dolore in caso di interessamento della parte superiore (capsula) del fegato. Un altro dolore riferito si riscontra
nel caso che nei muscoli si sviluppino quei punti dolorosi muscolari denominati trigger points. Questi, a differenza dei tender points che non diffondono, hanno proprio
la caratteristica di irradiare a distanza la sensazione dolorosa. Tutti questi fenomeni,
apparentemente poco comprensibili, in realtà avvengono per fenomeni di convergenza
delle fibre sensitive periferiche su uno stesso pool neuronale, generalmente localizzato a livello del corno posteriore del midollo. In altri termini l’attivazione di fibre
nocicettive periferiche finisce per interessare non solo le fibre nocicettive centrali corrispondenti, quelle cioè poste sulla stessa via nervosa, ma anche una parte di neuroni
nocicettivi centrali posti lì vicino. La convergenza di impulsi infatti non è in grado da
sola di spiegare il fenomeno. Se si trattasse infatti di una “semplice” convergenza di
2 vie periferiche su una stessa via centrale, allora tutte le volte che una delle due vie
periferiche viene attivata si dovrebbe avere una sensazione di dolore nella parte con
la lesione reale e nella zona corporea innervata dalle altre fibre convergenti. Invece il
fenomeno si verifica solo quando l’attivazione di una via è sufficientemente prolungata
da creare stabili fenomeni di ipersensibilità. Uno degli aspetti della sensibilizzazione
centrale è rappresentato dal dolore riferito. Come già detto, è nozione comune il fatto
che un dolore cardiaco possa essere avvertito anche nel braccio sinistro, oppure che
il dolore dell’appendicite tenda ad irradiarsi verso la radice dell’arto inferiore destro.
L’avvertire il dolore a distanza dal sito anatomico con la lesione viene denominato
dolore riferito. Tale fenomeno è interpretato come il risultato di una convergenza di
vie periferiche che veicolano la sensibilità dolorifica periferica su comuni neuroni
nocicettivi spinali. Sicuramente la convergenza esiste, ma perché essa si esprima in
termini clinici è necessario che i neuroni convergenti presenti nel corno posteriore del
midollo siano in qualche modo sensibilizzati. Ed essi sono effettivamente sensibilizzati
dalle scariche nocicettive provenienti dalla lesione. Quello che però appare sempre
più evidente è che la convergenza non è frutto di connessioni rigide perché altrimenti
il dolore riferito sarebbe presente ogniqualvolta una via nervosa viene attivata. E non
è così. Il meccanismo più verosimile è che l’attivazione e la sensibilizzazione del
secondo neurone nocicettivo attivano neuroni di connessione normalmente silenti che
permettono al fenomeno clinico di presentarsi. In altre parole esisterebbero delle vie
separate che si attivano per singoli stimoli nocicettivi provenienti dai due tessuti tra
loro lontani e che non interferiscono tra loro fino al momento della sensibilizzazione
di uno dei due neuroni centrali. È solo allora che si creerebbero le connessioni tra i
neuroni centrali, presenti nello stesso pool neuronale dello stesso corno posteriore,
in grado di ingannare il cervello sul reale sito lesionale. Come già accennato in precedenza, in riferimento alla possibilità di sensibilizzare i neuroni centrali e quindi di
generare dolori riferiti, non tutti i tessuti si comportano allo stesso modo. Oltre alla già
citata differenza tra cute e muscolo, è abbastanza accettato il fatto che i dolori primitivi
viscerali tendono a riferire alla cute (Figura 8), mentre i dolori primitivi dei muscoli
41
Meccanismi della sensibilizzazione centrale
Figura 8. Esempio di convergenza di due fibre nervose periferiche provenienti da tessuti
diversi sullo stesso neurone midollare ad ampio spettro dinamico.
no, mantenendo la loro proiezione su tessuti profondi quali tendini, legamenti ed articolazioni. Per esempio, il dolore sperimentale evocato da sostanze algogene iniettate
nel tibiale anteriore si irradia tipicamente alla caviglia (Figura 9). Secondo alcuni autori
lo schema di diffusione del dolore muscolare segue più quello dello sclerotoma che
del dermatoma. Vale la pena infine di sottolineare come il termine dolore riferito si
riferisca ad un dolore spontaneo, ma tale tipo di dolore a distanza non è il solo risultato
della sensibilizzazione spinale. Esiste infatti anche la comparsa a distanza di aree di
dolore evocato (allodinia e/o iperalgesia) che, come il dolore riferito (spontaneo) si
distribuiscono nel corpo seguendo rigidi principi di metameria.
DL
DR
Figura 9. Localizzazione del dolore sperimentale locale (DL) e riferito (DR) in
seguito all’iniezione di sostanze algogene nel muscolo tibiale anteriore. Si noti
come il dolore locale insorga nella sede dell’iniezione e quello riferito a livello
della caviglia omolaterale. In queste condizioni sperimentali viene chiaramente
rispettata la regola che prevede che la sede del dolore riferito sia sempre più
distale rispetto al dolore locale.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
42
BIBLIOGRAFIA
Arendt-Nielsen L, Svensson P Referred Muscle Pain:
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5
La “Terapia Combinata”
nel Trattamento
del Dolore Cronico
Cesare Bonezzi e Laura Demartini
Introduzione: i modelli di trattamento
Nell’ambito del trattamento del dolore (acuto o cronico) le scelte terapeutiche
seguono modelli differenti tra loro in quanto l’approccio diagnostico al dolore e a chi
lo prova non è affatto omogeneo e condiviso. I farmaci sono sempre gli stessi ma la
loro prescrizione e soprattutto il piano terapeutico variano da scuola a scuola.
a) La Scala Analgesica della WHO
Il modello più diffuso è quello introdotto dalla Organizzazione Mondiale della
Sanità (WHO’ pain ladder), che consiglia di modulare la scelta e quindi la prescrizione
dei diversi farmaci in base alla intensità del dolore. Applicata soprattutto nel dolore
causato dalla malattia oncologica, la cosiddetta “scala” è stata progressivamente
introdotta nella cura di qualsiasi tipo di dolore, sia acuto che cronico. I farmaci, antinfiammatori o oppioidi, ad esempio, sono prescritti, secondo le indicazioni previste
dalla normativa nazionale, seguendo il criterio dell’intensità del dolore dichiarato dal
paziente. Alcuni oppioidi sono prescrivibili in presenza di dolore “lieve-moderato”
(primo e secondo gradino della scala), altri di dolore “severo” (terzo gradino). Sempre
nel modello intensità-dipendente si fa riferimento ad un quarto gradino dove trovano
posto le procedure antalgiche invasive come la somministrazione di oppioidi nel canale
vertebrale (perdurale o subaracnoideo), le neuro-lesioni o la neuro-stimolazione. A
questo gradino si accede dopo l’insuccesso delle terapia farmacologiche adeguatamente prescritte e assunte. Non vengono affatto citati gli interventi antalgici minori
(blocchi, infiltrazioni e altro) che possono essere associati alle terapie farmacologiche
per ottenere un miglior risultato antalgico. In base a quanto fin qui esposto, una volta
definita la patologia di base (neoplasia, osteoartrosi, neuropatia diabetica ecc.) non
è necessario esaminare il dolore e i meccanismi che lo generano ma è sufficiente
conoscere la sua intensità per decidere il trattamento. Il criterio dell’intensità si basa
sul principio che gli impulsi afferenti al midollo spinale, provenienti dalla periferia
invasa dalla neoplasia o dall’infiammazione, sono condotti dalle vie nocicettive e che
possono essere più o meno elevati in base alla gravità ed estensione della lesione.
Più stimoli arrivano, più dolore viene percepito, più potente deve essere il farmaco
utilizzato o più dose deve essere prescritta. Sempre nella fatidica scala è consigliata la
contemporanea somministrazione dei cosiddetti farmaci adiuvanti (antinfiammatori,
antiepilettici, antidepressivi ecc.), prima di superare ogni gradino. Il criterio che ne
regola la prescrizione e il “tentativo terapeutico” e non la relazione tra loro meccanismo
d’azione e il meccanismo patogenetico del dolore percepito.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
44
b) Le sindromi cliniche e la scelta della terapia
Un secondo modello, che si è diffuso nel campo del dolore neuropatico, si basa sulla
prescrizione di quei farmaci di cui gli studi clinici, randomizzati e controllati, hanno
dimostrato l’efficacia in alcune sindromi algiche, come la neuropatia post-erpetica, la
neuropatia diabetica e la nevralgia essenziale del trigemino, indipendentemente dai
meccanismi patogenetici, dalle differenze riscontrate nei sintomi e nei segni clinici
osservati. Questo modello prescrittivo è quello che segue le cosiddette “linee guida”
delle diverse società scientifiche o di boards scientifici (O’Connor 2009, Attal 2010,
Backonia 2006). Una volta dimostrata l’efficacia di un dato farmaco in una sindrome
clinica si presume che lo debba essere in tutte le altre che appartengono alla stessa
tipologia. L’esperienza clinica ha dimostrato che le risposte sono incostanti e variabili
da caso a caso anche all’interno dello stesso quadro clinico e della stessa diagnosi.
Le stesse sindromi utilizzate come standard clinici nella ricerca farmacologica sono
sindromi complesse, che spesso si manifestano con caratteristiche diverse da paziente
a paziente ed i cui il dolore è sostenuto da meccanismi patogenetici differenti a volte
contemporaneamente presenti.
c) I sintomi come “guida” alla terapia
Un terzo modello è rappresentato dalla correlazione tra un tipo di farmaco e la
caratteristica del dolore spontaneo od evocato lamentato dal paziente. Ciò vale soprattutto nel trattamento del dolore neuropatico. Un esempio è dato dall’indicazione
all’impiego del la carbamazepina in presenza di un dolore che il paziente descrive
come “ lancinante”. È ampiamente risaputo nella pratica clinica che un dolore “lancinante” può essere causato da meccanismi patogenetici differenti interessanti il nervo
o le strutture miofasciali. Appare evidente che non è pensabile impostare un piano
terapeutico basandosi sui valori numerici dell’intensità del dolore o sulla descrizione
che il paziente fa della suo dolore (Rull 1969).
d) I meccanismi patogenetici
Le conoscenze della fisiopatologia del dolore e dei meccanismi patogenetici ci permettono di trattare il dolore con un approccio più specialistico che, dopo un momento
diagnostico fondamentale, permette di definire un piano di cura basato su scelte farmacologiche, di blocco e invasive sempre più efficaci (Basbaum 2001,Max 2000, Woolf
1998, 1999, Clifford 2004). Benché già sottolineato nelle parti precedenti, è importante
ricordare che nella pratica clinica quotidiana esistono fondamentalmente due tipi di
dolore, il dolore nocicettivo e quello neuropatico, e una via nervosa somato-sensoriale
che conduce gli impulsi ai centri superiori. Nel dolore nocicettivo la via è integra e funge
da conduttore degli impulsi nati a livello dei nocicettori tissutali, nel dolore neuropatico,
la via è interessata da processi patologici e genera essa stessa gli impulsi a livello dei
cosiddetti siti ectopici. Il dolore subisce importanti modificazioni a livello delle sinapsi
spinali sia inibendo (in condizioni normali) sia amplificando gli impulsi afferenti (quando
le afferenze provenienti lungo le fibre amieliniche sono continue e intense). Ne consegue
che il dolore diviene più intenso, più esteso e scatenato da stimoli non necessariamente
dolorosi (allodinia dinamica meccanica) in un vasto territorio. In breve possiamo affermare che il dolore può originare dai nocicettori tissutali (dolore nocicettivo), dai siti
ectopici (dolore neuropatico periferico) e che i neuroni spinali possono amplificare gli
impulsi ma possono anche generarli essi stessi. Questo accade nel dolore cosiddetto da
deafferentazione ovvero nelle lesioni gravi delle vie afferenti. Il neurone che non riceve
più impulsi dalla periferia, genera dolore (dolore neuropatico centrale). Possiamo quindi
definire che i punti in cui concentrare l’azione dei farmaci sono nel tessuti periferici dove
i nocicettori sono coinvolti, lungo le fibre nervose dove si sviluppano i siti ectopici, a
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
45
livello spinale dove l’impulso attraversa le sinapsi verso i neuroni di secondo ordine. Se
questi sono le sedi di origine degli impulsi, i meccanismi patogenetici sui cui i farmaci
devono agire sono la ipersensibilità del nocicettore, l’ipersensibilità delle fibre con
facilitata genesi ectopica di impulsi, l’ipersensibilità del neurone post-sinaptico con facilitata trasmissione trans-sinaptica o scarica spontanea da deafferentazione. Poiché alla
ipersensibilità del neurone spinale concorrono più fattori come la persistenza di impulsi
nocicettivi afferenti, la riduzione dei sistemi inibitori, l’aumento dei sistemi eccitatori, si
comprende come più scelte terapeutiche sono possibili. Una volta che la diagnosi clinica
e strumentale ci permette di definire i meccanismi patogenetici coinvolti, conoscendo il
meccanismo d’azione dei farmaci è possibili definire un piano terapeutico efficace. Più
farmaci possono essere associati tra loro (subito o in una strategia add-on) in modo da
agire sui diversi meccanismi contemporaneamente presenti (complementarietà), in modo
da sfruttare eventuali sinergie (potenziamento reciproco) o capacità di antagonizzare gli
effetti collaterali. Si attua così una “terapia combinata”. Nella pratica clinica incontriamo sindromi algiche che appaiono complesse per la contemporanea presenza di segni
e sintomi appartenenti sia al dolore nocicettivo, sia a quello neuropatico periferico e
centrale. Gli eventi traumatici, la lesione erpetica e l’invasione neoplastica, primitiva o
metastatica, sono i principali responsabili di queste forme. La complessità deriva dalla
presenza di segni e sintomi di diversa natura, spiegabili solo per il contemporaneo sovrapporsi di più meccanismi patogenetici, e dalla variabilità che si riscontra nell’evoluzione
della malattia. Per definire queste sindromi algiche viene spesso utilizzato il termine di
“dolore misto”. Misto non è il dolore, che è o nocicettivo o neuropatico (non esiste un
altro tipo di dolore), ma bensì il quadro clinico che li vede contemporaneamente presenti
e talvolta interagente tra loro.
NOCICETTORE
TISSUTALE
SISTEMA
INIBITORIO
SISTEMA GLIALE
I NEURONE
SENSITIVO
II NEURONE
WDRN
IPERSENSIBILITà DEL
NOCICETTORE
IPERSENSIBILITà DI FIBRA
CON ORIGINE ECTOPICA
DEGLI iMPULSI
IPERSENSIBILITà DEL NEURONE
SPINALE DA ECCESSO D’IMPULSI
O DA DEAFFERENTAZIONE
Figura 1. La via nocicettiva periferica e i meccanismi patogenetici.
La terapia basata sul meccanismo patogenetico
1) Farmaci che agiscono sull’ipersensibilità del nocicettore
In questo gruppo raccogliamo i farmaci che, a livello del processo infiammatorio,
agiscono riducendo le sostanze algogene o direttamente l’ipersensibilità del nocicettore. Questi farmaci agiscono sul dolore spontaneo ed evocato modificando la soglia
del nocicettore e riportandola ai valori normali. In un certo senso sono farmaci antiallodinici perché riducono fino a togliere il dolore evocato da stimoli non dolorosi (o
allodinia primaria).
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
46
Farmaci che agiscono sulle sostanze algogene
Tra questi farmaci compaiono gli antinfiammatori non steroidei (FANS) (Attal
2000), i corticosteroidi (Abram 2000), gli inibitori specifici della ciclossigenasi-2
(COX 2).
a) Farmaci antinfiammatori non steroidei o FANS
È noto che i FANS sono gravati da effetti collaterali importanti a livello della funzionalità renale (con esclusione dell’acido acetilsalicilico) a livello dell’aggregazione
piastrinica e del tratto digerente. (Morrison 2001, Girlon 2003). È altrettanto noto che
l’azione gastrointestinale può essere modulata con la contemporanea associazione di
inibitori di pompa (terapia combinata a scopo di ridurre gli effetti collaterali). Questo
effetto protettivo può ridursi in presenza di paracetamolo (Rahme 2008) come dimostrato da uno studio compiuto su quasi 650.000 pazienti anziani a cui era stato prescritto
solo un FANS tradizionale con o senza inibitori di pompa e una associazione di FANS
e paracetamolo con o senza inibitori di pompa. L’associazione di FANS e paracetamolo aumentava il rischio di sanguinamento gastrico nonostante l’inibitori di pompa.
I FANS presentano inoltre due aspetti fondamentali che devono essere tenuti in
considerazione: il primo è rappresentato dalla risposta individuale ai FANS ed il
secondo dalla presenza di un affetto antalgico “tetto” per cui all’aumento della dose
non corrisponde una aumento dell’efficacia (Jacox 1994).
Un altro aspetto interessante è dato dalla presenza di prostaglandina E2 (PGE2)
nel sistema nervoso spinale e sovra-spinale in presenza di un processo infiammatorio
tissutale periferico (Samad 2001). A tale presenza è connessa una riduzione dei sistemi inibitori spinali. Alcuni FANS come il Diclofenac e soprattutto i COX-2 inibitori
hanno una contemporanea azione antalgica “centrale” (azione su due meccanismi
patogenetici). Omoigui nel 2007 sostiene che il processo patologico fondamentale nel
dolore cronico è l’infiammazione e che esiste per ciascun caso uno specifico “profile”
dei mediatori infiammatori. Nell’artrosi, ad esempio, sono coinvolte l’interleukina
1 β, l’interleukina -6, il Tumor Necrosis Factor TNF-α, nelle patologie erniarie cervicali e lombari le prostaglandine, il Tumor Necrosis Factor TNF-α, l’interleukina
1 β, nella fibromialgia la sostanza P, l’interleukina 1 β, l’interleukina -6, e così nel
dolore neuropatico la sostanza P. Le prostaglandine, il glutammato, l’interleukina
1 β, l’interleukina -6, il Tumor Necrosis Factor (TNF-α). Questa diversa presenza di
mediatori della flogosi spiega anche la ridotta efficacia dei farmaci antinfiammatori
tradizionali in alcuni casi di flogosi e spinge la ricerca a individuare nuove molecole
attive sui diversi mediatori.
Tabella 1. Considerazioni sui farmaci antinfiammatori.
Considerazioni sul trattamento con FANS
I farmaci antinfiammatori non steroidei sono utili quando il meccanismo patogenetico è
costituito dalla ipersensibilità dei nocicettori tissutali ad opera di mediatori della flogosi ma:
a) Vi è una risposta individuale ai vari FANS
b) Hanno un effetto tetto
c) I FANS e i COX-2 sono gravati da effetti collaterali indesiderati
d) Non sono certo efficaci per tutti i mediatori della flogosi
e) Alcuni FANS ed i COX-2 hanno un’azione periferica ed una spinale
Possono essere “combinati” con:
a) Farmaci gastroprotettivi (associazione protettiva)
b) Farmaci che agiscono a livello sinaptico
c) Farmaci che agiscono a livello di siti ectopici
47
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
b) I farmaci antinfiammatori steroidei, i corticosteroidi
Gli steroidi orali sono spesso utilizzati nel trattamento del dolore cronico quando
il meccanismo patogenetico è quello della flogosi tissutale. Vengono ampiamente
prescritti nelle malattie reumatiche, nelle vasculiti, nelle artropatie in genere ma anche
nelle patologie infiammatorie neurologiche sia radicolari che periferiche (come nella
sindrome del tunnel carpale – Chang 2002). Si deve tener conto dei pazienti immunodepressi. Per quanto riguarda la somministrazione di steroidi nell’Herpes acuto non
esistono controindicazioni perché la riattivazione dell’infezione erpetica è mediata
dalle IgG e non dalle IgM e quindi non inibita dagli steroidi (Toliver 1997 e Pardo
1997). Il metilprednisolone, il triamcinolone, il betametasone ed il desametasone vengono iniettati per via intra-articolare o peri-articolare (Benzon 2007). I corticosteroidi
(metilprednisone e traimcinolone) sono indicati nella somministrazione peridurale nel
trattamento delle radicolopatie. Sono insorte controversie sulla somministrazione di
metilprednisone peridurale per il pericolo di aracnoiditi o altre lesioni neurologiche
(Bernat 1976). La tossicità presunta è stata ridimensionata dallo studio di Kotani del
2000 in cui non si sono osservati danni neurologici sono somministrazione intratecale
di metilprednisone a dosi elevate (80 mg) in pazienti con neuropatia post-erpetica.
Gli anti-NGF, anti-IL-1 and anti-TNFa
Il Nerve Grow Factor NGF è rilasciato nei traumi tissutali e nell’infiammazione
da un certo numero di mastcellule, macrofagi, linfociti, fibroblasti e keratinociti, ed
è considerato un fattore algogeno importante soprattutto quando l’infiammazione
costituisce il processo patogenetico principale. Il NGF sembra agire anche direttamente sul nocicettore aumentandone l’eccitabilità (Rukwied 2010 e Radtke 2010).
L’azione è mediata dai recettori tirosin-kinasi o TrKA (Zampieri 2006). Il Tanezumab
è un anticorpo monoclonale di origine umana in fase utilizzato nelle osteoartrosi di
ginocchio, nel low back pain, nella cisitite interstiziale, nel dolore osseo da cancro,
nelle endometriosi e in alcune sindromi neuropatiche.
Senza entrare nei particolari si sottolinea il ruolo terapeutico nelle patologie reumatiche come l’artrite reumatoide e la spondilite anchilosante dei farmaci che agiscono
contro l’Interleukina 1 e il TNFa. La loro azione non si esplica solo a livello periferico
ma anche a livello spinale (Schaible 2006).
Farmaci che agiscono direttamente sul nocicettore
A questo gruppo appartiene la Capsaicina somministrata mediante cerotto ad alta
concentrazione (8%) e gli anestetici locali (Lidocaina patch) somministrati per via
transcutanea. Anche gli oppioidi agiscono a livello nocicettoriale quando vengono
somministrati nei tessuti coinvolti (Stein 1999, Abram 2000). La loro azione sembra
ridurre la liberazione di mediatori della flogosi.
La capsaicina, o 6-nonenamide, N-[(4-idrossi-3-metossifenil) metil]-8-metile,
(6E), è un agonista altamente selettivo del recettore vanilloide 1 TRPV1 (transient
receptor potential vanilloid 1). L’effetto iniziale della capsaicina è l’attivazione dei
nocicettori cutanei che esprimono il TRPV1, che causa sensazione di puntura ed
eritema dovuti al rilascio di neuropeptidi vasoattivi. In seguito all’esposizione alla
capsaicina, i nocicettori cutanei sembrano diventare meno sensibili a stimoli di tipo
chimico (pH) e termico (>45°C). Questi effetti tardivi della capsaicina sono denominati spesso “desensibilizzazione” e si ritiene siano alla base del miglioramento della
sintomatologia dolorosa. Poiché sono coinvolti solo i recettori TRPV1 e solo nervi
cutanei che esprimono il TRPV1, rimane inalterata la capacità di avvertire stimoli
termici, meccanici e vibratori. Le alterazioni indotte dalla capsaicina nei nocicettori
48
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
cutanei sono reversibili ed è stato segnalato ed osservato che la normale funzionalità
viene ripristinata nel giro di settimane nei volontari sani. L’indicazione principale è
quella della neuropatia post-erpetica ma anche quella delle neuropatie periferiche.
L’esatto meccanismo d’azione non è ancora completamente noto ma si suppone che
l’azione sui recettori TRPV1 sia in grado di impedire che sostanze nocicettive liberate
nei tessuti periferici da fibre danneggiate non possano sensibilizzare i nocicettori sani
rimasti presenti (Irving 2011, Anand 2011).
Tra gli anestetici locali rientrano EMLA (eutectic mixture of local anesthetic) e la
lidocaina, le cui formulazioni topiche (gel e patch al 5%) sono state dimostrate efficaci
in pazienti con neuropatia post-erpetica e in alcuni altri tipi di poli e mononeuropatie
(Rowbotham 1995, 1996). Le formulazioni in commercio in Italia sono Luan pomata
al 2,5% e Xilocaina pomata al 5%. I livelli serici raggiunti dopo l’applicazione topica
sono di ordini di grandezza non significativi per effetto cardiaco. La lidocaina patch
al 5% (cerotto di 10x14 cm contenente 700 mg di lidocaina) applicata sulla zona di
dolore utilizzando fino a tre patch per 12 ore. Il maccanismo d’azione è legato al blocco
dei canali del sodio locali e presenti sui nocicettori o sulle fibre (siti ectopici) presenti
nell’epidermide e nel derma. Ne è stata dimostrata l’efficacia nel trattamento della
neuropatia post-erpetica (Galer 1999) e nelle neuropatie periferiche (Meier 2003). Il
patch di lidocaina viene considerato come farmaco di prima scelta nella cura delle
sindromi algiche neuropatiche (Dworkin 2003).
NOCICETTORE
TISSUTALE
SISTEMA
INIBITORIO
SISTEMA GLIALE
I NEURONE
SENSITIVO
II NEURONE
WDRN
IPERSENSIBILITà DEL NOCICETTORE
Farmaci antinfiammatori steroidei e non steroidei
Capsaicina e Lidocaina Patch
Anti TNF e NGF
Figura 2. I farmaci che agiscono sulla ipersensibilità del nocicettore tissutale.
2) I farmaci che agiscono a livello della sinapsi spinale riducendo
l’ipersensibilità del secondo neurone
In questo numeroso gruppo dobbiamo distinguere i farmaci in base alla loro
azione sulla sinapsi spinale. I farmaci che modulano la trasmissione sinaptica agendo
sull’elemento presinaptico:
A: gli oppioidi
Gli oppioidi agiscono a livello spinale e sopraspinale. Le sedi spinali sono rappresentate, a livello presinaptico (75%), dal terminale dei nocicettori delle fibre afferenti
C dove riducono la liberazione di peptidi e glutammato (a livello spinale prevalgono i
recettori di tipo mu e delta), riducendo il meccanismo eccitatorio esercitato dal messaggio afferente, e, a livello postsinaptico, dal neurone spinale, inibendo l’invio delle
49
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
informazioni ai neuroni superiori. Altrettanto noto è il meccanismo d’azione sulla
nocicezione degli oppioidi a livello sopraspinale dove sono presenti recettori di tipo
mu, delta e kappa. Possono agire sulle vie discendenti noradrenergiche e serotoninergiche, che intervengono nella modulazione della nocicezione (Dickenson 1999). Alla
norepinefrina, rilasciata dalle vie discendenti, che agisce sui recettori adrenergici a2, si
associano altri elementi inibitori come l’adenosina e l’acido y-aminobutirrico (GABA)
che concorrono a modulare le vie nocicettive a livello spinale. A livello presinaptico
l’attivazione dei recettori oppioidi porta alla chiusura dei canali del calcio voltaggiodipendenti limitando la liberazione di neurotrasmettitori come la norepinefrina, il
glutammato, la serotonina, la sostanza-P e l’aceticolina (Kaneko 1994, Piros 1995).
A livello postsinaptico gli oppioidi iperpolarizzano la cellula (neuroni di proiezione
e interneuroni), attivando i canali del potassio (Yoshimura 1983, Dickenson 2005).
L’impiego degli oppioidi nel dolore cronico inizia dopo gli anni ’80, gravato dalla
disputa sulla sua efficacia o inefficacia nel dolore neuropatico. Tralasciando i particolari
di questa disputa e ogni rigida suddivisione tra dolore nocicettivo e neuropatico (ancor
oggi controversa) si è visto che gli oppioidi agiscono nel dolore cronico a livello dei
meccanismi patogenetici del dolore coinvolti nell’origine e trasmissione del messaggio
nocicettivo lungo le fibre C.
L’instaurarsi del meccanismo patogenetico costituito dall’ipersensibilità dei neuroni
spinali rende necessario un incremento della dose d’oppioidi, in quanto è richiesta una
azione inibitoria maggiore per controllare l’aumentata eccitabilità (Dickenson 2005),
come d’altronde è dimostrato dalla maggior efficacia della morfina nei modelli animali
dopo somministrazione di antagonisti dei recettori NMDA (Dickenson 2001). Mannion
(2000) consiglia la via intratecale per favorire l’azione postsinaptica degli oppioidi.
Prima del 2003 gli unici dati, riguardanti la somministrazione nel dolore non oncologico, provenienti da studi controllati, si riferiscono al loro impiego nella nevralgia
post-erpetica (Watson 1998). In questo studio l’ossicodone a rilascio prolungato si è
dimostrato più efficace del placebo nel controllo del dolore continuo, di quello accessionale e dell’allodinia, in 38 pazienti (trial crossover). Altrettanto interessanti sono
gli studi di Rowbotham (1991), che dimostrano l’efficacia di una somministrazione
endovenosa lenta di morfina (0,3 mg/Kg/ora) nei confronti del placebo nel controllare il
dolore da nevralgia post-erpetica, e di Dellemijn (1997), che, utilizzando l’infusione di
fentanyl (5 mg/Kg/h per 5 ore) ed un placebo attivo, dimostra lefficacia degli oppioidi
nel dolore neuropatico. Lo stesso Dellemijn in una successiva pubblicazione (1999)
sottolinea la possibilità di utilizzo degli oppiacei nel dolore nocicettivo e neuropatico.
In uno studio randomizzato, doppio cieco, crossover, dove la morfina a lento rilascio
ed il metadone sono stati confrontati con due triciclici (nortriptilina e amitriptilina),
si è dimostrato che la morfina a lento rilascio è significativamente migliore della nortriptilina e che il metadone è paragonabile sia all’amitriptilina che alla nortriptilina
(Raja 2002). Questi dati sottolineano che gli oppioidi possono essere somministrati in
alternativa agli antidepressivi triciclici nella neuropatia post-erpetica tenendo presente
gli effetti collaterali talvolta intollerati (Argoff 2004). Va però considerato che da un
punto di vista patogenetico il dolore nella neuropatia post-erpetica può avere più origini.
Vi sono casi in cui è presente una sindrome da deafferentazione con dolore centrale e
casi in cui è presente una condizione flogistica tissutale che stimola i neuroni sani a
cui contribuisce una anormale liberazione di neurotrofine come il Nerve Grow Factor
(NGF), il fattore neurotrofico (glial cell line-derived neurotrophic factor o GDNF), o
citochine pro-infiammatorie, che non vengono controllate dai FANS (Anand 2011).
In un articolo (2003) Mendell e Sahenk esaminano le neuropatie dolorose sensitive (tra
cui elencano le neuropatie da piccole fibre, le neuropatie diabetiche periferiche, le neuropatie da connettivopatie, le neuropatie paraneoplastiche e amiloidotiche, le neuropatie
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
50
autonomiche ereditarie, le tossiche arseniche e da HIV), elencano i farmaci utilizzabili e
concludono che il gabapentin può essere considerato il farmaco di prima scelta, che gli
antidepressivi triciclici seppur utili sono gravati da effetti indesiderati, che il tramadolo
è utilissimo in associazione al gabapentin o in sua sostituzione, che l’ossicodone e la
morfina a lento rilascio sono indicati seppur senza aspettarsi una completa risoluzione
del dolore. In uno studio double-blind e controllato su pazienti con neuropatia diabetica
è stata dimostrata l’efficacia dell’ossicodone a lento rilascio a dosaggi compresi tra 10
e 99 mg/die. L’efficacia del Tramadolo è stata dimostrata in due studi controllati di cui
il primo si riferiva al trattamento della neuropatia diabetica (Harati 1998) e il secondo
al dolore neuropatico di diversa tipologia (Sindrup 1999). Il tramadolo si è rivelato
superiore al placebo in entrambe gli studi con un NNT di 3.1 e 4.3. Nel secondo studio
si è osservato che oltre al dolore spontaneo si riduceva il dolore evocato dal tatto e l’allodinia meccanica indotta sperimentalmente. In tutti questi studi viene registrata una
elevata percentuale di abbandono dello studio per evidenti effetti collaterali. Il Tramadolo è un farmaco analgesico che agisce sia con meccanismo oppioide che con quello
monoaminergico (come gli antidepressivi triciclici). Va sottolineato che la tolleranza e la
dipendenza sono evenienze rare anche dopo lunga somministrazione di tramadolo. Alla
luce di quanto abbiamo fin qui esposto appare evidente che gli oppioidi possono agire
in numerosi quadri algici dove esiste un impulso nocicettivo (indipendente dal tessuto
d’origine) e dove esiste un’integrità della sinapsi tra primo e secondo neurone. Appare
altresì evidente come sia opportuno instaurare una terapia combinata. Il passaggio dalla
somministrazione sistemica a quella epidurale e a quella intratecale mediante impianto
di sistemi di infusione permette il raggiungimento di risultati migliori sia in casi in cui
l’oppiaceo ha determinato l’insorgenza di effetti collaterali importanti, sia in quei casi in
cui la somministrazione sistemica non ha dato una analgesia soddisfacente. Nella pratica
clinica quotidiana vengono utilizzati i diversi oppioidi a disposizione, dalla morfina al
fentanil, dall’oxicodone all’idromorfone e al tapentadolo. Nello stesso tempo sono state
introdotte alcune associazioni (terapia conbinata) che aumentano l’efficacia come nel
caso dell’oxicodone e del paracetamolo, oppure altre associazioni (terapia preventiva)
in cui all’oppioide (oxicodone) è stato unito il naloxone, per antagonizzare l’effetto del
farmaco sui recettori intestinali e combattere la stipsi. Un farmaco oppioide recente, il
tapentadolo, presenta un doppio meccanismo nel senso che agisce direttamente sui recettori spinali, sia sui sistemi noradrenergici potenziando l’azione inibitoria. Questo doppio
meccanismo ne potenzia l’effetto antalgico e riduce la comparse di effetti collaterali.
Tabella 2. Considerazioni sui farmaci oppioidi.
Considerazioni sull’impiego degli oppioidi:
I farmaci oppioidi agiscono modulando l’impulso nocicettivo a livello della sinapsi spinale,
sul meccanismo patogenetico della ipersensibilità dei neuroni spinali ad opera di impulsi
nocicettivi afferenti.
a) Vi è una risposta individuale ai vari oppioidi
b) Hanno un effetto tetto
c) Sono gravati da effetti collaterali indesiderati nel breve e nel lungo periodo
d) Non sono efficaci nella deafferentazione del neurone spinale
Possono essere “combinati” con:
a) Farmaci contro la stitichezza e la nausea (azione protettiva)
b) Farmaci ce agiscono sui sistemi inibitori ed eccitatori spinali
B: il Paracetamolo
Poniamo qui il paracetamolo anche se la sua azione si ritiene si esplichi sia sui
meccanismi inibitori discendenti sia a livello postsinaptico spinale. Secondo alcuni
51
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
Autori il paracetamolo attiverebbe a livello centrale le vie discendenti serotoninergiche
di modulazione inibitoria sulle afferenze primarie nocicettive (azione indiretta sui
recettori 5HT3) (Alhaider 1991, Sandrini 2003). Sono stati recentemente individuati a
livello del sistema nervoso centrale i recettori COX-3 (variante dei COX-1), sensibili
al paracetamolo, che sembrano giocare un ruolo chiave nella biosintesi dei prostanoidi,
mediatori importanti del dolore e della febbre (Shawab 2003).
La prostaglandina E2 (PGE2) è uno dei maggiori mediatori della flogosi che sensibilizza i nocicettori ed inoltre causa la comparsa di allodinia e di iperalgesia quando
è somministrata per via intratecale. L’azione della PG E2 è mediata dai recettori Gprotein-coupled prostanoid (EP) di cui sono presenti quattro tipi a livello del midollo
spinale, indicando un effetto postsinaptico della PG E2. L’attivazione del recettore EP1
comporta l’entrata di calcio nella cellula mentre la stimolazione dei recettori EP2 e
EP4 aumenta l’AMP ciclico intracellulare e quella del recettori EP4 riduce la concentrazione dell’AMP intracellulare (Ebersberger 2002). Pertanto l’inibizione dei COX-3
potrebbe modificare l’eccitabilità del neurone postsinaptico. Il paracetamolo così come
alcuni antinfiammatori (tra cui il diclofenac) sembrerebbero agire attraverso questo
meccanismo inibitorio. Al dosaggio terapeutico singolo di 1 grammo si raggiunge il
picco ematico e quindi liquorale che corrisponde all’effetto analgesico massimale,
mentre a dosi superiori si ha solo un effetto a “plateau”.
C: i Farmaci che agiscono sui canali del calcio
I canali del calcio voltaggio-dipendenti (VDCC) sono importanti nella trasmissione
sensitiva. In risposta alla depolarizzazione di membrana essi mediano l’entrata del Ca++
in numerosi tipi di cellule e pertanto intervengono nella trasmissione sinaptica delle
informazioni sensitive provenienti dalla periferia attraverso il controllo dei complessi
eventi che vedono coinvolte la depolarizzazione, la liberazione di neurotrasmettitori,
l’eccitabilità neuronale, le modificazioni intracellulari (Dickenson 2004).
I neuroni sensitivi esprimono varie classi di VDCC (L, N, P, Q, R e T) distinte per
profili elettrofisiologici e farmacologici. Le subunità a2-d determinano il tipo di canale
e contengono il poro che permette l’entrata del calcio nel neurone o nel terminale,
quando viene depolarizzata. Alcuni canali (N, P/Q & R) sono presenti a livello presinaptico sui terminali e influenzano la liberazione di trasmettitori allorché il potenziale
d’azione arriva dalla periferia (esponendo i neuroni spinali ad un maggiore presenza
di trasmettitori). Altri tipi di canali del calcio (N, T & L) sono invece presenti a livello postsinaptico e contribuiscono all’eccitabilità del neurone. Recentemente i canali
del calcio sono stati suddivisi in tre famiglie (Ca 1, 2 e 3) in base alle caratteristiche
anatomiche e funzionali (Ertel 2000).
D: Alfa 2 delta ligandi (Gabapentin e Pregabalin)
Questi farmaci si legano alle subunità a2-d dei canali del calcio a livello sinaptico
sui terminali nocicettivi delle fibre C e agiscono limitando l’entrata del calcio e quindi
la liberazione di neurotrasmettitori nella sinapsi (Dahl 2004).
Secondo Tremont-Lukats (2002) il gabapentin agirebbe non solo sui canali del
calcio di tipo a2-d ma anche attraverso i siti glicinici dei recettori complessi NMDA e
aumentando la presenza di GABA senza però agire direttamente sul sistema gabaergico.
Queste ipotesi farebbero rientrare il gabapentin tra i farmaci che abbiamo già citato
con azione sui sistemi inibitori centrali (Backonja 1998). Secondo alcuni Autori (Pan
1999) il gabapentin agirebbe anche sui canali del sodio per azione diretta o indiretta,
senza modificare la conduzione nervosa. Il gabapentin è stato ampiamente studiato in
passato nella terapia delle neuropatie e nel dolore oncologico (Caraceni 1999, Bennet
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
52
2000), partendo dagli studi controllati sulla sua efficacia nel dolore da neuropatia diabetica (NNT di 3.7 (2.4±8.3) Backonja et al., 1998). e nella neuropatia postherpetica
(NNT di 3.2 (2.4±5.0) Rowbotham 1998). La scarsità di effetti collaterali (confusione,
nausea, astenia) e la flessibilità del dosaggio l’hanno fatto indicare come farmaco di
prima scelta in numerose neuropatie. Questa azione si è rivelata particolarmente utile
nel dolore causato dalla malattia neoplastica dove il gabapentin ha dimostrato un’azione sinergica con gli oppioidi (Caraceni 1999, Bennett 2004). Questo farmaco in
passato (Dworkin 2003) ed ora il pregabalin (Freynhagen 2005) sono entrati a far parte
dell’”evidente-based approach” del dolore cronico insieme agli oppioidi, agli antidepressivi triciclici, alla lidocaina. Il gabapentin ed ora il pregabalin hanno dimostrato
una chiara efficacia nei modelli animali (Field 1999), nelle sindromi di dolore cronico
neuropatico e particolarmente nella neuropatia diabetica, in quella post-erpetica, ma
anche nei casi di fibromialgia. I positivi risultati osservati e la modesta incidenza di
effetti collaterali hanno fatto si che questi due farmaci siano considerati come farmaci
di prima scelta nel trattamento del dolore neuropatico (Freynhagen 2005). Il pregabalin,
contrariamente al gabapentin, viene utilizzato a bassi dosaggi con ridotta incidenza di
effetti collaterali. Il basso dosaggio è dovuto alla maggior biodisponibilitò e al rapido
assorbimento. Inoltre, diversamente dal gabapentin, la concentrazione plasmatica di
pregabalin aumenta in modo lineare con l’aumento della dose (Wesche 2005).
3) I farmaci che agiscono sui sistemi inibitori discendenti e spinali
I neuroni spinali sono sottoposti ad una modulazione (eccitatoria ed inibitoria),
tonicamente attiva, da parte di fibre discendenti e di interneuroni locali. Differenti
trasmettitori e recettori si sviluppano nelle corna dorsali (Mannion 2000) e tra questi
i recettori GABA, i recettori glicinici, e quelli degli oppioidi.
I farmaci antidepressivi
Il loro utilizzo è stato inizialmente proposto per la componente depressiva che
accompagnava la sintomatologia dolorosa in pazienti con neuropatia post-erpetica
(Woodforde 1965). In seguito venne proposta l’associazione di un antidepressivo
triciclico (amitriptilina) con un neurolettico (flufenazina) ritenendo quest’ultimo il
principio attivo ed utilizzando l’antidepressivo per combatterne gli effetti collaterali
(Taub 1985). Sono ormai molto numerosi gli studi controllati che dimostrano l’efficacia
dei triciclici (amitriptilina, nortriptilina) in diversi tipi di neuropatie (Gomez-Peres
1985, Watson 1982). L’impressione clinica è che questi farmaci agiscano più sulla
componente urente continua, sul dolore sordo, e meno sul dolore lancinante più sensibile agli antiepilettici. Gli studi clinici dimostrano che l’efficacia degli antidepressivi
non ha alcuna relazione con la tipologia del dolore (McQuay 1996).
L’effetto degli antidepressivi sul dolore è mediato sia dall’inibizione del reuptake
delle monoamine (noradrenalina e serotonina) a livello del sistema nervoso centrale
con conseguente aumento dell’attivazione delle vie discendenti di modulazione del
dolore, sia dalla modulazione dei canali del sodio (per cui sono citati anche nella parte
riguardante i farmaci ad azione sui canali del sodio). È noto che sono presenti vie
discendenti che modulano la trasmissione nocicettiva tra cui i sistemi inibitori endogeni serotoninergici che originano a livello del grigio periaqueduttale e, scendendo,
raggiungono le corna dorsali. Dal locus ceruleus sorge la vie inibitoria noradrenergica
anch’essa diretta alle corna posteriori. Gli effetti inibitori di queste due vie utilizzano
anche gli interneuroni GABAergici. La loro azione inibitoria fa si che questi farmaci
trovino indicazione nel trattamento del dolore cronico a diversa eziologia. Nel dolore
cronico nocicettivo essi si dimostrano utili in sinergia con gli analgesici periferici ed
oppioidi potenziandone l’azione e riducendone la richiesta in termini di dosaggio.
53
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
Da numerosi autori i farmaci antidepressivi, in particolar modo i triciclici, sono
considerati i farmaci di prima scelta nel trattamento delle neuropatie periferiche e
centrali, ad eccezione della nevralgia trigeminale (Galer 1995, Warson 1995). Questi
farmaci possono esercitare un’azione importante sia nella genesi ectopica periferica, sia
sui neuroni centrali deafferentati. Tra gli antidepressivi troviamo i cosiddetti triciclici,
gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) e gli inibitori del reuptake
della noradrenalina (SNRI). Il meccanismo con cui questi farmaci agiscono sulla nocicezione è quello del reuptake delle amie biogene come la serotonina e la noradrenalina.
Gli antidepressivi triciclici comprendono le amine terziarie (amitriptilina e clomipramina) che inibiscono il reuptake della serotonina e della noradrenalina, e le amine
secondarie (nortriptilina e disipramina) relativamente selettive per il reuptake della noradrenalina. Tra i cosiddetti SNRI ricordiamo la venlafaxina. Vi è la controindicazione
all’uso degli antidepressivi triciclici in pazienti con glaucoma, ipertrofia prostatica
benigna, infarto miocardico. Alcuni effetti collaterali abbastanza fastidiosi ricorrono
frequentemente a seguito di terapia con antidepressivi triciclici: secchezza delle fauci,
confusione, stipsi, aumento ponderale, difficoltà alla minzione, perdita di memoria,
ipotensione ortostatica, alterazioni della conduzione cardiaca. I triciclici si sono rivelati
efficaci in pazienti depressi e non depressi con una azione analgesica che è indipendente dalle alterazioni dell’umore e che diviene significativa solo dopo 1 o 2 settimane
di assunzione. L’efficacia è stata dimostrata sia nella neuropatia diabetica (Max 1987 1992, McQuay 1996)), sia in altre forme di dolore neuropatico (Warson 1992, Vrethem
1997). I dosaggi indicati sono all’inizio limitati (10-25 mg) e in somministrazione unica
prima di coricarsi, aumentano progressivamente di 10-25 mg ogni 1 o 2 settimane fino a
100-150 mg/die. Le amine secondarie, come la nortriptilina o la desipramina) tendono
ad avere meno effetti sedativi e meno azione anticolinergica (Wolfe 2004). Gli inibitori
selettivi del reuptake della serotonina (SSRI) si sono dimostrati meno efficaci degli
antidepressivi triciclici nel trattamento del dolore neuropatico (Syndrup 1990, 1992).
La venlafaxina è un antidepressivo che inibisce il reuptake sia della serotonina, sia della
noradrenalina ed ha una minima attività muscarinica e istaminergica rispetto ai triciclici
(Syndrup 2003, 2000). I risultati ottenuti nel trattamento della neuropatia post-erpetica
ha indotto alcuni autori a valutare una possibile azione profilattica somministrando antidepressivi triciclici e oppioidi nella fase acuta dell’eruzione (Winnie 1993, Kanazi 2000,
Dworkin 2000). Lo studio controllato, doppio cieco, di Bowsher (1997) ha dimostrato
l’efficacia della somministrazione di amitriptilina nel prevenire la temuta neuropatia. Tra
gli inibitori del reuptake della serotonina e della noradrenalina è presente la Duloxetina
che si è dimostrata efficace nel dolore neuropatico ed in particolare in pazienti con sindrome depressiva (Goldstein 2005).
Clonidina
L’alfa 2 agonista clonidina, è stata dimostrata essere efficace, per applicazione
transdermica, in una percentuale di pazienti con dolore correlato a neuropatia diabetica
e a neuropatia post-erpetica (Byas-Smith 1995, Abadir 1996). Gli sprouts periferici, in
sede di lesione di un nervo, dimostrano una aumentata sensibilità alla noradrenalina,
la cui liberazione dai terminali simpatici viene inibita dalla clonidina.
Lo stesso farmaco è noto per avere effetto analgesico quando somministrato per
via spinale, ma il risultato sembra mediato da attività sui recettori a2 presinaptici che
intervengono nella liberazione di neurotrasmettitori (Mannion 2000). L’effetto antalgico è stato dimostrato a seguito di somministrazione orale (singola dose di 0,2 mg)
ma la maggior parte delle pubblicazioni riguardanti l’uso di clonidina nel trattamento
del dolore neuropatico si riferiscono a somministrazioni peridurali o subaracnoidee
(Siddall 2000, Bennet 2000). In somministrazione subaracnoidea continua, il farmaco
54
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
viene spesso associato a morfina o ad altri oppioidi (Hassenbusch 2000). La somministrazione sistemica per via orale, pur ottenendo l’effetto antipertensivo, non sembra
avere una significativa efficacia sul dolore.
Baclofen
Il baclofen è stato introdotto in commercio per terapia della spasticità di origine
centrale. La sua azione si espleta tramite l’attivazione dei recettori GABA-B presinaptici spinali. Nella terapia del dolore è considerato un farmaco di seconda scelta nella
nevralgia trigeminale ed è stato studiato su diverse patologie con dolore neuropatico
con risultati discordanti. Nella nostra esperienza, la terapia con baclofen per via orale si
è rivelata efficace in caso di dolore radicolare e/o spinale accompagnato da crampi e/o
ipertono muscolare (Herman 1992). La somministrazione di baclofen spinale tramite
pompa d’infusione completamente impiantabile è ormai ampiamente utilizzata per il
controllo della spasticità in pazienti con lesioni spinali o cerebrali: alcune di queste
casistiche riportano anche controllo del dolore in una parte dei pazienti.
Clonazepam
Anche sull’impiego del clonazepam sono pochi i lavori controllati che ne dimostrino l’efficacia nel dolore neuropatico. Il clonazepam è una benzodiazepina con
meccanismo d’azione leggermente diverso rispetto agli altri antiepilettici; la sua
azione è infatti mediata dai recettori GABA-A con aumento della conduttanza al cloro che crea iperpolarizzazione cellulare e quindi riduzione dell’eccitabilità. Benchè
i lavori pubblicati presentano casi aneddotici ed utilizzo soprattutto in caso di dolore
lancinante, a scarica (Bartusch 1996), nella nostra pratica clinica il clonazepam si è
rivelato efficace, con scarsissimi effetti collaterali, in pazienti con dolore continuo,
urente, di origine centrale o periferica. La risposta si ottiene solitamente a dosaggio
molto basso, 1-1,5 mg/die anche se a distanza di uno/due mesi l’efficacia antalgica
risulta attenuarsi e può rendersi necessario un aumento del dosaggio.
Topiramato
Il topiramato è un antiepilettico con la capacità di bloccare i canali del Na+, promuovere l’attività GABA interagendo con un sito diverso dalle benzodiazepine sul
recettore GABA A e bloccare selettivamente i recettori AMPA/kainato glutammato
NOCICETTORE
TISSUTALE
SISTEMA
INIBITORIO
SISTEMA GLIALE
I NEURONE
SENSITIVO
II NEURONE
WDRN
IPERSENSIBILITà DEL NEURONE SPINALE
Oppioidi e Paracetamolo
Alfa2 delta ligandi
Antidepressivi
Clonidina, Baclofen, Clonazepam, Topiramato
Figura 3. I farmaci che agiscono sulla ipersensibilità del neurone spinale.
55
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
(Schneiderman 1998). Non sono numerosi gli studi controllati sull’uso del topiramato
in pazienti con dolore neuropatico ma i primi risultati sono incoraggianti (Bajwa 1999,
Edwards 2000). I dosaggi utilizzati nella pratica clinica vanno da 50 mg/die iniziali
sino a 400 mg/die.
4) I farmaci che agiscono sulla fibre riducendo l’ipersensibilità a livello
dei siti ectopici
In conseguenza di una lesione le fibre nervose manifestano una attività spontanea ed
un aumento della sensibilità a vari stimoli termici, chimici e meccanici. Questa abnorme attività non si sviluppa solo lungo il nervo periferico (foci ectopici), ma coinvolge
anche le cellule (neuroni attivi) del ganglio della radice posteriore (DRG) (Wall 1974,
Chabal 1989 e 1992, Michaelis 1997). Questa attività si accompagna all’espressione
di canali ionici ed in particolar modo di canali del sodio e di recettori. L’accumulo di
canali del sodio e di recettori a livello della sede di lesione e quindi di generazione
ectopica d’impulsi può essere responsabile della riduzione della soglia del potenziale
d’azione e dell’origine di una attività spontanea nell’afferente primario danneggiato
(Devor 1999, Julius 2001, England 1996). Si consideri inoltre che il sistema nervoso
simpatico interviene a livello della lesione e a livello dei corpi cellulari (Suzuki 2000).
L’attività spontanea dei siti ectopici porta alla genesi di un dolore spontaneo con caratteristiche diverse in base alle fibre coinvolte. L’interessamento delle fibre nocicettivo
C e Adelta suscita un dolore di varia natura, da sordo e trafittivo, o una scarica elettrica.
Le ectopie che interessano le fibre mieliniche Abeta danno una sensazione disestesica
più o meno intollerabile. Nelle lesioni periferiche acute sono probabilmente coinvolte
(a causa dell’esteso processo flogistico) tutte le fibre ed i nerva nervorum con dolore
sia spontaneo, sia evocato. Nelle forme croniche (quando recede il processo flogistico
e rimane la lesione) prevale il dolore evocato a partenza dai siti ectopici lungo le fibre
mieliniche. I nerva nervorum (da cui origina un dolore nocicettivo) sono coinvolti sia
nelle lesioni nervose periferiche, sia in alcune polineuropatie causando un dolore in
genere sordo, profondo, accompagnato da sintomi di una sensibilizzazione dei neuroni
spinali (Otto 2003). I canali del sodio sono canali ionici voltaggio-dipendenti e sono
ampiamente distribuiti in tutti i neuroni. L’accumulo nel punto di lesione altera le
proprietà elettriche della membrana assonale e porta alla scarica ectopica ed all’abbassamento della soglia di depolarizzazione (Matzner 1994).
I canali del sodio comprendono una larga sub-unità alfa e a sub-unità beta. Queste
ultime giocano un ruolo di regolazione importante determinando i diversi livelli di
espressione e sono in grado di alterare la cinetica di inattivazione del canale. Allo stato
attuale sono noti otto tipi di canali del sodio presenti nel sistema nervoso dei mammiferi.
Si suddividono in due tipi: i canali tetrodotossina sensibili e tetrodotossina resistenti.
Entrambe sono presenti e giocano un ruolo importante nella fisiologia della nocicezione
(Block 1998). Dopo una lesione nervosa periferica sembra prevalere l’espressione di
canali del sodio tetrodotossina resistenti (Novakovic 1998).
Alcuni farmaci, che fanno parte del gruppo degli antiepilettici, di quello degli antidepressivi e degli anestetici locali, modulano i canali del sodio. Si ritiene che questo
meccanismo d’azione sia responsabile della soppressione delle scariche ectopiche che
originano lungo le vie nervose danneggiate e a livello del corrispondente ganglio della
radice posteriore. Comunque i farmaci attualmente disponibili non sono selettivi per
i canali del sodio tetrodotossina-resistenti e questa non specificità può esitare in un
blocco di molteplici altri canali comportante il rischio di tossicità ad alte concentrazioni
del farmaco. I dati a disposizione sostengono che i farmaci che agiscono sui canali del
sodio sono più efficaci nel dolore neuropatico da lesione delle vie nervose periferiche
(Galer 1993, Edwards 1999, Bhattacharya 2009).
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
56
5) Farmaci che agiscono sui canali del sodio
Carbamazepina
Questa molecola, derivata dall’iminostilbene, e strutturalmente vicino agli antidepressivi triciclici, induce l’inattivazione dei canali del sodio voltaggio dipendenti
riducendo le scariche ripetute ad alta frequenza dei potenziali d’azione. L’inattivazione è
voltaggio dipendente con limitazione delle scariche aumentate dopo la depolarizzazione
e ridotte dopo l’iperpolarizzazione (Macdonald 1995). Questo meccanismo, che porta i
canali del sodio in una condizione di inattività, ritardandone il recupero, è responsabile
della riduzione delle scariche spontanee registrate nei preparati sperimentali di neuroma
(Burchiel 1988). L’effetto frequenza dipendente spiega perché la carbamazepina è in
grado di ridurre le scariche toniche senza modificare la conduzione normale del nervo.
La carbamazepina diminuisce inoltre la liberazione di neurotrasmettitori eccitatori
(probabilmente sempre per l’azione sui canali del sodio), modula i canali del calcio
L-tipo ad alta soglia, coinvolti nel meccanismo della sensibilizzazione centrale, ed infine
aumenta la liberazione di serotonina e accresce la trasmissione dopaminergica (Beydoun
2003). La carbamazepina rimane il farmaco di riferimento per il trattamento delle
nevralgie facciali e particolarmente per le forme essenziali delle nevralgie trigeminale
e glossofaringea. Il dosaggio ottimale, solitamente compreso tra 600 e 900 mg, viene
raggiunto gradualmente per evitare effetti indesiderati come la sonnolenza o capogiri. Nel
trattamento prolungato l’incidenza di effetti collaterali è minima e di modesta rilevanza
clinica. Lo studio di McQuay (1995) sull’impiego della carbamazepina nel trattamento
del dolore neuropatico ha escluso per rilevanti carenze metodologiche bel 17 sudi su 24
presi in considerazione. Nello studio di Rull (1968) viene indicato l’impiego efficace
della carbamazepina nella neuropatia diabetica, così come negli studi di Gerson (1977) e
di Keczkes (1980) viene utlizzata con successo nella nevralgia erpetica. McQuay (1995)
riporta valori di NNT per la carbamazepina nella neuropatia diabetica di 3.3 (2±9.4) e
nella nevralgia trigeminale di 2.6 (2.2±3.3) sostenendo l’indiscussa efficacia.
Oxcarbazepina
Il farmaco è un keto analogo della carbamazepina rispetto alla quale possiede una
migliore tollerabilità e sicurezza, ed un migliore profilo farmacocinetico. Ciò è dovuto
all’assenza del 10,11-eposside, metabolita attivo della carbamazepina, responsabile degli
effetti collaterali e del rash cutaneo. La carbazepina agisce come la carbamazepina sui
canali del sodio voltaggio dipendenti e inibisce la liberazione di neurotrasmettitori eccitatori (McLean 1994). Il farmaco comporta una inibizione delle scariche ad alta frequenza
nelle fibre afferenti cutanee dopo ripetuta stimolazione senza alterare la conduzione degli
impulsi (Ichikawa 2001). È stata inoltre dimostrata un’azione inibitoria anche sui canali
del calcio N-tipo rendendo il farmaco indicato nel meccanismo della sensibilizzazione
dei neuroni centrali (Stefani 1995). La oxcarbazepina ha le stesse indicazioni della
carbamazepina, dimostrandosi più efficace del placebo nel trattamento della nevralgia
trigeminale (Zakrzewska 1989). La dose iniziale raccomandata nel trattamento della
nevralgia trigeminale è di 600 mg/die (300 mg x 2/die) con incrementi di dosaggio a
intervalli di qualche giorno di 150-300 mg (Carrazana 2003). I risultati di uno studio
aperto prospettico indicano che la oxcarbazepina riduce significativamente il dolore nei
pazienti con neuropatia diabetica (Carrazana 2003), nella radicolopatia dolorosa (Ward
2002), nelle sindromi regionali complesse (Carrazana 2003).
Lamotrigina
La lamotrigina è un derivato feniltriazinico strutturalmente non correlato agli altri
farmaci antiepilettici. Essa stabilizza i canali del sodio e inibisce le scariche ripetute del
57
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
potenziale d’azione in condizioni di elevata depolarizzazione neuronale (Xie 1995). Lo
stesso meccanismo può spiegare la capacità di inibire la liberazione di neurotrasmettitori eccitatori (glutammato). Più recentemente è stata dimostrata l’azione modulante
sui canali del calcio N-tipo ad alta soglia facendo sorgere la possibilità di una duplice
azione modulante, periferico e centrale (Grunze 1998).
Molti studi randomizzati, verso placebo, e doppio cieco, hanno utilizzato la lamotrigina in varie neuropatie dolorose.
Di questi studi il primo condotto su 100 pazienti ad un dosaggio giornaliero di
200 mg non riporta un risultato statisticamente superiore al placebo (McCleane 1999),
mentre altri due studi eseguiti in pazienti con neuropatia da HIV (Simpson 2003) e
con neuropatia diabetica (Eisemberg 2001), ne documentano l’efficacia. Nell’ultimo
studio la lamotrigina viene somministrata alla dose gironaliera di 200-400 mg e non
si sono registrati effetti collaterali probabilmente per la lenta titration utilizzata. La
lamotrigina si è dimostrata efficace anche nel trattamento di forme refrattarie di nevralgia trigeminale (Zakrzewska 1997).
Altri Autori (Canavero 1996) ne sostengono l’efficacia nel dolore neuropatico
centrale. L’effetto centrale della lamotrigina sembra essere correlato al blocco, diretto
o indiretto, dei recettori NMDA. Si raccomanda infatti di utilizzare la lamotrigina
iniziando al dosaggio di 25 mg alla sera per due settimane, aumentando settimanalmente la dose di 25-50 mg fino a raggiungere la dose massima di 400 mg/die. Gli
effetti collaterali, rash cutanei, sonnolenza, diplopia, sindrome di Stevens-Johnson,
possono essere modesti o gravi.
Lidocaina
La lidocaina è un anestetico locale amidico che stabilizza la membrana neuronale
modulando i canali del sodio voltaggio-dipendenti. È possibile ottenere un blocco
completo dell’attività ectopica con dosaggi del farmaco 2-3 volti inferiori a quelli
necessari per il blocco della conduzione nervosa in fibre normali. La possibilità di
un trattamento efficace con bassi dosaggi di farmaco garantisce un ridotto rischio di
effetti collaterali sistemici (Rowbotham 2000).
La lidocaina è somministrata per via endovenosa ad un dosaggio massimo di
5 mg/kg di peso del paziente (2,5-5 mg/kg), ma spesso anche a dosaggi inferiori, in bolo
o in infusione di breve durata (30-60 min). L’effetto inizia rapidamente e si manifesta
in genere per 1-2 ore. Al dosaggio indicato l’analgesia non si associa a blocco della
conduzione delle fibre nervose sane e pertanto non si osserva alcuna area di anestesia
locale (Devor 1992). Durante il trattamento possono insorgere effetti collaterali tra
cui cefalea, fotofobia, alterazioni del ritmo cardiaco, tremori e disturbi gastroenterici
(Attal 2000).
Antidepressivi triciclici
Uno dei meccanismi antalgici degli antidepressivi è la loro capacità di bloccare i canali
del sodio. Numerosi studi compiuti in animali hanno dimostrato che l’amitriptilina ha un
potente effetto anestetico di lunga durata sia in somministrazioni periferiche lungo il decorso
dello sciatico, sia per somministrazione intratecale (Sudoh 2003). Si è inoltre visto che
tale effetto è simile a quello della bupivacaina ma con una maggior durata (Chen 2004).
Oppioidi
Alcuni oppioidi agiscono anche sui canali del sodio. Tra questi al primo posto vi
è la meperidina seguita dalla buprenorfina, che si comporta come anestetico locale
sui canali del sodio voltaggio dipendenti, dal fentanyl e dal tramadolo (Smith 2012).
58
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
NOCICETTORE
TISSUTALE
SISTEMA
INIBITORIO
SISTEMA GLIALE
I NEURONE
SENSITIVO
II NEURONE
WDRN
IPERSENSIBILITà DI FIBRA E SVILUPPO DI SITI ECTOPICI
Carbamazepina e Oxcarbazepina
Lidocaina
Antidepressivi triciclici, Oppioidi
Figura 4. I farmaci che agiscono sulla ipersensibilità di fibra e sui siti ectopici.
6) Farmaci ad azione sul primo neurone agendo sui fattori di flogosi
e sul trofismo tissutale
Accanto ai farmaci che agiscono sui canali del sodio possiamo aggiungere:
1. Farmaci che agiscono sui fattori della flogosi intorno al nervo leso (i corticosteroidi)
2. Farmaci che agiscono direttamente sul trofismo tissutale (l’acido alfa lipoico)
I corticosteroidi
È noto che dopo una lesione nervosa periferica si sviluppano nella sede di lesione
mediatori della flogosi e citochine pro-infiammatorie che contribuiscono alla ipersensibilità delle fibre a livello dei siti ectopici. La somministrazione di metilprednisolone
a livello della lesione sembra interferire con questo meccanismo (Eker 2012).
L’Acido Alfa Lipoico
Dagli studi compiuti nei pazienti diabetici con polineuropatie dolorose agli arti si
è constatata l’efficacia dell’acido alfa lipoico (Ziegler 2008, Ruessman 2009) e l’utilità della sua prescrizione nel controllo dei sintomi neuropatici di tali pazienti (Tang
2007). L’efficacia, nonché la sua sicurezza, è stata ribadita in altri studi controllati,
randomizzati e a doppio cieco (Ziegler 1995 e 1997, Rejanovic 1999, Ruhnau 1999,
Ametov 2003). Da questi studi emerge anche un dato interessante che è rappresentato
dal miglioramento significativo dei segni negativi connessi alla polineuropatia. Si è
infatti osservato un miglioramento della sensibilità allo stimolo puntiforme e alla pressione, ma anche dei riflessi muscolo-tendinei. In questi studi inoltre si è registrato un
miglioramento già durante la seconda settimana di trattamento. L’ipotesi riguardante il
meccanismo d’azione faceva riferimento ad una azione sulla microcircolazione e quindi
sulla perfusione per effetto antiossidante posseduto dalla sostanza (Haak 2000). In altre
parole il meccanismo con cui l’acido alfa lipoico migliora i sintomi neuropatici può
essere riferito al miglioramento del flusso ematico mediato dall’azione antiossidante.
L’acido alfa lipoico inoltre riduce nel plasma i livelli di interleukina 6 e dell’attivatore 1 plasminogeno (PAI-1) e quindi possiede un meccanismo antinfiammatorio e
antitrombotico (Han 2012). In uno studio compiuto su pazienti con polineuropatia
diabetica e dolore in cui si è valutato il passaggio da acido alfa lipoico a gabapentina
si è costatata una efficacia antalgica del primo farmaco a fronte di un insuccesso del
secondo e soprattutto la necessità, per il mantenimento dell’analgesia, di continuare
il trattamento per lungo tempo (Ruessman 2009).
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
59
Nella recente review (Han 2012) riguardante specificatamente l’acido alfa lipoico
nel trattamento della neuropatia diabetica si sottolinea l’evidenza che il trattamento
con il farmaco alla dose di 300-600 mg/die per 2-4 settimane è in grado di migliorare
significativamente la conduzione nervosa e i sintomi neuropatici dei pazienti.
Di Geronimo (2009) consiglia la somministrazione di acido alfa lipoico (in associazione all’acido gamma linolenico) nel trattamento della sindrome del tunnel carpale e
Ranieri (2010) nel trattamento del dolore nelle lesioni traumatiche nervose. Per quanto
riguarda altre indicazioni dell’acido alfa lipoico nel trattamento del dolore neuropatico
va sottolineato il lavoro di Zakrzewska (2005) che riporta l’utilità nei pazienti con la
sindrome della bocca che brucia recentemente attribuita ad una patologia delle piccole
fibre. In un recente lavoro (Gurvits 2013) l’acido alfa lipoico viene indicato come parte
di una associazione di farmaci che comprende il clonazepam, gli antidepressivi e la
capsaicina nel trattamento della bocca che brucia.
Recenti studi hanno messo in evidenza le proprietà neurotrofiche di un polifenolo
estratto dalla corteccia di magnolia, l’Honokiolo, che esplica la sua azione neurotrofica
inducendo la biosintesi di componenti della membrana cellulare, con un meccanismo
che è stato definito simile a quello del Nerve-Growth Factor (NGF).
L’Honokiolo è un polifenolo estratto dalla corteccia di magnolia. In letteratura sono
state documentate numerose azioni farmacologiche quali quella antinfiammatoria e quella
antiossidante. Honokiolo ha mostrato attività neurotrofica in colture di neuroni corticali
di ratto. L’Honokiolo ha dimostrato di avere anche un effetto neuroprotettivo mediato
dall’azione di inibizione sulla apoptosi neuronale. Honokiolo attiva la Fosfolipasi C,
che libera dalla membrana cellulare inositolo trifosfato (IP3). Il conseguente aumento
di Ca2+ intracellulare attiva a cascata una serie di fattori di trascrizione (CAM – MEK
– ERK) che, una volta entrati nel nucleo, attivano la trascrizione di geni che codificano
per proteine che inducono proliferazione cellulare e dunque con azione neurotrofica. In
estrema sintesi, Honokiolo induce la biosintesi di componenti della membrana cellulare,
con un meccanismo che è stato definito simile a quello del Nerve-Growth Factor (NGF).
Honokiolo ha dimostrato di possedere inoltre una attività antinfiammatoria, in quanto
inibisce il fattore di trascrizione nucleare NF-kB, responsabile dell’attivazione della
trascrizione di importanti citochine infiammatorie come IL-1, IL-6 e TNF-α. L’effetto
di Honokiolo sui mediatori dell’infiammazione è correlato anche alla sua capacità di
legarsi con i recettori dell’acido γ-amino butirrico (GABA) favorendone l’attivazione. I
recettori periferici GABA sono presenti nelle cellule del sistema immunitario ed inibi-
SISTEMA
INIBITORIO
NOCICETTORE
TISSUTALE
SISTEMA GLIALE
I NEURONE
SENSITIVO
II NEURONE
WDRN
DANNO DEL PRIMO NEURONE
Corticosteroidi
Acido Alfa Lipoico
Figura 5. I farmaci che agiscono sui fattori tissutali e sulla rigenerazione del nervo.
Aspetti di fisiopatologia e terapia del dolore
60
scono l’attivazione linfocitaria nelle malattie infiammatorie. L’azione antinfiammatoria
dell’Honokiolo è stata osservata anche in modelli sperimentali di artrite reumatoide; in
questi studi Honokiolo ha dimostrato di proteggere le cartilagini articolari e di ridurre i
livelli di citokine pro-infiammatorie e metalloproteasi sia a livello ematico che a livello
articolare. Da quanto fin qui esposto si può concludere che, in una strategia terapeutica
basata sulla associazione di più farmaci basata sui meccanismi patogenetici, anche farmaci che non hanno un chiaro riconoscimento nella categoria degli “analgesici” possono
trovare una precisa collocazione. Il loro impiego, sicuramente protratto nel tempo, può
avere anche il significato di favorire una progressiva riduzione dei farmaci analgesici
per il miglioramento del danno neurologico.
La terapia combinata: dalla diagnosi alla scelta dei farmaci
Alla base di una corretta scelta terapeutica si deve porre una approfondita valutazione diagnostica clinica e strumentale che identifichi le co-morbilità mediche e
psicologiche ma soprattutto i meccanismi patogenetici del dolore. Nella pratica clinica
quotidiana la maggior parte dei quadri clinici di dolore mostrano la presenza di più
meccanismi e pertanto la terapia dovrebbe essere “combinata”. Nello stesso tempo è
importante conoscere l’azione di un farmaco nei confronti di uno o più meccanismi,
gli effetti collaterali e le interazioni con gli altri farmaci eventualmente scelti nella
terapia combinata. Le associazioni di farmaci possono seguire vari scopi:
1) Efficacia terapeutica in quanto:
a. Si agisce su tutti i meccanismi patogenetici coinvolti (corticosteroidi e oppioidi ad
esempio)
b. Si sfrutta l’eventuale potenziamento reciproco (paracetamolo e tramadolo ad
esempio)
c. Si unisce un’azione sui meccanismi patogenetici del dolore ed una sugli elementi
che influiscono sul danno neurologico (acido alfa lipoico)
2) Protezione sugli effetti collaterali:
a. Si ottiene una riduzione del dosaggio e indirettamente una riduzione degli effetti
collaterali
b. Si riduce l’incidenza e l’entità degli effetti collaterali (antiemetici, gastroprotettori,
antistipsi).
Pertanto è possibile consigliare l’associazione di “farmaci ad azione sul nocicettore”
insieme a “farmaci che agiscono a livello spinale” che in pratica si traduce nella prescrizione di Antinfiammatori e di paracetamolo o oppioidi, a cui si possono aggiungere
farmaci che riducono l’eccitabilità spinale come i gabapentinoidi o gli antidepressivi
triciclici. È di fondamentale importanza non associare farmaci che hanno lo stesso
meccanismo d’azione e che interagiscono tra loro a vari livelli. Già nel 2002 Curatolo
sosteneva che alcune combinazioni si erano dimostrate utili. Nel trattamento del dolore
postoperatorio, ad esempio, l’associazione di farmaci antinfiammatori non steroidei
o di paracetamolo alla somministrazione endovenosa di morfina si rivelava efficace.
Così anche l’associazione di farmaci antinfiammatori al paracetamolo dava un risultato
antalgico migliore dei singoli farmaci separati. Ma anche nel dolore da cancro l’associazione di antinfiammatori agli oppioidi comporta un maggior successo terapeutico.
Lo stesso Autore conclude lo studio proponendo un metodo matematico per individuare
le possibili combinazioni efficaci in studi clinici controllati e randomizzati. Un altro
modello è quello fin qui esposto e si basa sulla diagnosi dei meccanismi patogenetici
coinvolti e la conoscenza del meccanismo d’azione dei farmaci. Chen (2011) sottolinea l’importanza della terapia combinata nel trattamento del dolore neuropatico. Egli
riporta i diversi meccanismi patogenetici che intervengono nella genesi del dolore e
sostiene l’importanza di una terapia mirata con diversi farmaci. Tra questi annovera
61
La “Terapia combinata” nel trattamento del dolore cronico
l’associazione di gabapentina e nortriptilina, di gabapentina e oxicodone, di pregabalin e oxicodone e di pregabalin e di COX-2, ma anche la possibilità di associare a
terapia farmacologiche altre modalità terapeutiche come le terapie comportamentali e
riabilitative e altre ancora. Nello stesso tempo rimane da stabilire se sia meglio iniziare
subito con una terapia combinata con i farmaci ritenuti utili sulla base dei meccanismi
patogenetici coinvolti o procedere con un farmaco per volta, aggiungendo successivamente (add-on) gli altri farmaci indicati. Solo gli studi controllati ci potranno fornire
una risposta anche se nella pratica clinica quotidiana possiamo sostenere che la scelta
sarà anche dettata da molti fattori quali l’età, i trattamenti già in corso e le co-morbilità
presenti, la complessità del quadro clinico (Chaparro 2012). Si consiglia di iniziare con
dosi ridotte e di aumentare le dosi lentamente, soprattutto nel paziente anziano. La lenta
titration permette di svilupparsi una tolleranza agli effetti collaterali. È importante la
valutazione continua del risultato, il monitoraggio degli eventuali effetti collaterali e
la valutazione delle attività della vita quotidiana. Il farmaco inefficace va rapidamente
sostituito. Partendo dalla classificazione presentata nel capitolo introduttivo i termini
“nocicettivo”, “neuropatico” e “malattia” ci permettono di identificare tre gruppi di
pazienti caratterizzati dalla presenza di meccanismi patogenetici a loro volta responsabili di segni e sintomi che l’esame clinico e strumentale dovrebbero identificare. Per
ciascuno di questi gruppi è possibile definire un preciso piano diagnostico-terapeutico,
farmacologico e invasivo, che tenga conto delle variabili cliniche possibili e delle
comorbilità presenti. La tassonomia tradizionale perde quindi il ruolo che ha sempre
avuto di indicare il trattamento ideale. Ogni sindrome deve essere rivista alla luce di
un nuovo approccio al dolore e a chi lo prova.
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Cesare
Bonezzi
Michelangelo
BUONOCORE
COD. 01820022
ASPETTI DI
FISIOPATOLOGIA
E TERAPIA
DEL DOLORE
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