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ISSN 2035-0724
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Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm.
Anno 4 - numero 28 - Gennaio 2011
Mensile
Anno 4, Numero 28
Direttore politico
Massimo Fini
Direttore responsabile
Valerio Lo Monaco
Regimi:
È L’ORA DELL’HOMO VIDENS
Fini:
GIUDIZIO UNIVERSALE
Economia:
ROAD MAP DELLA RIBELLIONE
Decrescita:
RIDURRE E RICONVERTIRE
“Uniti e diversi”:
UN NUOVO SOGGETTO POLITICO
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Mensile Numero 28
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Il Tempo divora gli occhi e il resto.
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Giudizio Universale/ 2
Ma
Uniti e Diversi: progetto politico/ 48
di Massimo Fini
La dittatura dell’ignoranza / 5
di Valerio Lo Monaco
Ed ecco i primi “effetti” / 52
“La Voce del Ribelle”
merita di vivere.
di Sara Santolini
Un’economia a misura di ribelle / 8
Qualcuno... chissà...
di Federico Zamboni
Progettare il futuro / 13
Guido Ceronetti
di Maurizio Pallante
Cinema: Cyrano di Spagna / 59
di Ferdinando Menconi
MOLESKINE gennaio 2011 / 26
Metaparlamento: Siete pronti? / 42
di Alessio Mannino
Parole avvelenate
La Smemoria / 65
Anno 4, numero 28, gennaio 2011
Direttore Politico: Massimo Fini - Direttore Responsabile: Valerio Lo Monaco ([email protected]) - Capo
Redattore: Federico Zamboni - Redazione: Ferdinando Menconi, Sara Santolini ([email protected]) - Art director:
Alessio Di Mauro - Hanno collaborato a questo numero: Alessio Mannino, Tomaso Staiti, Maurizio Pallante, Massimo Frattin,
Davide Stasi, Marco Giorgerini, Pamela Chiodi, Andrea Bertaglio - Segreteria: Sara Santolini ([email protected])
340/1731602 - Progetto Grafico: Antal Nagy, Mauro Tancredi - La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. Via
Trionfale 8489, 00135 Roma, P.Iva 06061431000 - Redazione: Via Trionfale 6415, 00136 Roma, tel. 06/97.27.46.99, fax
06/97.27.47.00, email: [email protected] - Agenzie di Stampa: Il Velino - Testata registrata presso il Tribunale di Roma, n°316
del 18 Settembre 2008 - Prezzo di una copia: 5 euro, Abbonamento annuale (11 numeri): 50 euro comprese spese postali - Modalità di pagamento: vedi modulo allegato alla rivista - Stampa: Grafica Animobono sas., via dell’Imbrecciato, 71/a
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www: http://www.ilribelle.com - Tutti i materiali inviati alla redazione, senza precedente accordo, non vengono restituiti.
Chiuso in redazione il 29/12/2010
Universale
MASSIMO
PERSONAGGI INTERNAZIONALI
Ahmadinejad, Mahmud (55) «L’olocausto non è mai esistito». Non è
così. Ma ha avuto un effetto liberatorio come quando Fantozzi osa dire «La
corazzata Potjomkin è una boiata pazzesca!». 7
Assange,Julian (40) Col suo Wikileaks ha distrutto definitivamente la credibilità delle democrazie.
di Massimo Fini
71/2
POLITICI EUROPEI
«Semel in anno licet insanire» dicevano
i latini. Darò quindi i giudizi
sui personaggi del 2010 “secondo
il mio personalissimo cartellino” come
diceva Rino Tommasi gran commentatore
di tennis (e di boxe, finché è esistita).
Berlusconi, Silvio (75) Che senso ha diventare uno degli uomini più ricchi del mondo, violando tutte le leggi, e il padrone di un Paese per poi finire con un semicesso come la Daddario facendosela, per soprammercato,
pagare? Utilizzatore finale. 4
Sarkozy, Nicolas (56) Probabilmente è delinquente come quello di cui
sopra. Ma perlomeno ha sedotto (o si è fatto sedurre) da una delle donne
più affascinanti d’Europa, col più bel culo d’Europa. 61/2
AFGHANISTAN
Merkel, Angela (57) Tedesca. Basta la parola.
7
Obama, Barack (50) Pseudodemocratico e pseudonero. Ha inviato altri
30 mila uomini in Afghanistan. Peggio di Bush. Ipocrita.
3
Clinton, Hillary (64) Guerrafondaia più di Condoleeza Rice e quindi pervertita come donna. Cesso.
2
Petraeus, David, generale (59) Presuntuoso e imbecille.
POLITICI ITALIANI
Bossi, Umberto (70) È l’unico vero politico comparso sulla scena italiana
4
negli ultimi vent’anni.
8
Lega Alleandosi con Berlusconi ha perso se stessa.
Biden, Joe, Vicepresidente USA (69) È l’unico dell’Amministrazione
Usa ad aver capito qualcosa dell’Afghanistan. Ha detto: «I Talebani sembrano dei nazionalisti piuttosto che degli ideologi della Jihad». Purtroppo
non conta nulla. 6+
Non era un “cuor di leone”. Catturato e torturato dagli americani che da
lui volevano sapere una cosa sola: dove si trovava il Mullah Omar. In cambio gli offrivano denaro e libertà. Rispose: «Non ha prezzo la vita di un
amico e di un compagno di battaglia». Come premio è stato mandato a
Guantanamo. Il vero coraggio è superare la propria legittima paura. 8
Omar, Mullah (49) Combattente giovanissimo, per la libertà del proprio
Paese, nella guerra contro gli invasori sovietici, durante la quale ha perso
un occhio ed è stato ferito quattro volte. Combattente contro i “signori
4
Fini, Gianfranco (59) Dopo 57 anni da coniglio ha fatto un atto di coraggio. Probabilmente tardivo.
61/2
Bocchino, Italo (44) Interessante. Perfetto il suo discorso alla Camera.
Zaeef,Abdul Salam,ex ambasciatore talebano in Pakistan (43)
2 - WWW.ILRIBELLE.COM
MASSIMO FINI
FINI
Giudizio
della guerra” afgani, a difesa della povera gente vessata e angariata dai
prepotenti di sempre. Da 10 anni tiene in scacco il più potente, sofisticato
e tecnologico esercito del mondo. 10
7
Letta, Gianni (76) L’uomo più viscido d’Italia. Probabile futuro residente
della Repubblica. Impomatato.
3
Brambilla, Michela (44) Carfagna, Mara (36) and girls Come
chiamarle senza essere querelati? Definiamole, per carità di patria,“favorite di Regime”. 4
Bindi, Rosy (60) Democristiana che interpreta la politica come “spirito di
servizio”. 71/2
3
WWW.ILRIBELLE.COM
Benedetto XVI (84) Era più interessante da cardinale («Il Progresso non
ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una
minaccia per il genere umano»). Aveva cominciato bene anche da Papa
portando il dibattito ad un alto livello culturale. In poco tempo è diventato
un politico italiano come tutti gli altri. Roma corrompe tutto e tutti. Anche i
Papi. Soprattutto i Papi. Urge Avignone. 5
GIORNALISTI, INTELLETTUALI & AFFINI
Lerner, Gad (57) Paraculo senior.
5
Fazio, Fabietto (47) Paraculo junior.
4
Santoro, Michele (60) Due buone braccia sottratte all’agricoltura.
Vespa, Bruno (67) Inqualificabile.
4
s.v.
Piroso, Antonello (51) Il migliore. Ma lo hanno fatto fuori.
7
Veneziani, Marcello (56) Nel 1990, parafrasando Spengler, scrisse
Processo all’Occidente. Poi si è messo al servizio di Berlusconi che è più
occidentale di Bush. Nel Canton Ticino chiamano un certo tipo di verme
particolarmente verminoso “nercio”. «Uh, un “nercio”!» Strillano, schifati, i
ragazzini quando sollevando una pietra ne scovano uno. Il voto glielo
dia il lettore.
Panebianco, Angelo (63) Fatte tutte le debite proporzioni si potrebbe
dire di lui quello che Leo Longanesi disse di Benedetto Croce: «Non capisce niente, ma con grande autorità». 0
CALCIO
Mourinho, José (48) Col suo Real Madrid ha preso cinque pappine a
zero dagli eterni rivali del Barcellona. Quest’anno non vincerà nulla.“Zeru
tituli”. 4
Iniesta, Andrés (27) Sembra un impiegato di banca, pallidissimo («Sei
pallido come Iniesta» dicono scherzando fra loro i giocatori del Barca),
modesto, di poche parole, antidivo. Molti lo hanno scoperto perché ha
segnato il gol decisivo ai Mondiali. Ma sono almeno tre anni che Iniesta è
il giocatore determinante del Barcellona, più di Messi, e della Spagna. 9
Massimo Fini
La dittatura
dell’ignoranza
Q
di Valerio Lo Monaco
uale che sia il futuro che ci attende, a livello italiano ma
anche internazionale, in merito alle prossime elezioni o
meno, ma in modo ancora più generale in merito a qualunque decisione debba essere presa, la situazione è affatto buona, per non dire che è disastrosa. Ma il motivo non è solo prettamente politico o relativo ai tanti problemi che devono essere risolti in
questo periodo di decadenza del nostro sistema di sviluppo e di inevitabile transizione verso un nuovo modello, un nuovo paradigma di esistenza. Il motivo è in primo luogo culturale.
Tornano attuali - è indispensabile che tornino - i temi di cultura e informazione perché in un modello di conduzione a carattere democratico,
o sedicente tale, ci si deve concentrare sul comportamento delle masse.
Malgrado siano pochi gruppi di persone e potere politico ed economico a governare il mondo, sono sempre le masse che hanno di fatto, sebbene potenzialmente, i numeri e la forza di poter rovesciare la situazione.
Beninteso, non è nostra intenzione, in questo caso, disquisire sul concetto di democrazia in sé, così come della falsa democrazia attuale di tipo
rappresentativo nella quale siamo di fatto sudditi, e tanto meno entrare
nei dettagli della prospettiva di una democrazia diretta che alcuni promuovono - noi compresi - e che porta con sé, però, tutta una serie di
interrogativi ai quali bisognerà pur dare risposta, prima o poi. Possiamo
operare degli accenni rapidi, ma poi è indispensabile spostare l'attenzione su un punto che è antecedente allo stesso concetto di democrazia, anzi di decisione pubblica.
Ma andiamo per ordine. Si sa - lo si sa, vero? - che la democrazia è il
governo delle maggioranze. Dunque che è il governo dei numeri, non
dell'eccellenza né del meglio. È, in altre parole, un governo della quantità e non della qualità. Si sa, allo stesso modo, che la declinazione rappresentativa della democrazia è sfociata nell'arroccamento degli eletti
in ogni dove, nei vari palazzi, nel fare in modo di preservarsi e autoconservarsi, eliminando il problema della revoca del mandato semplicemente facendo in modo che all'eventuale sconfitta di una fazione faccia seguito la vittoria dell'altra, fino a un attimo prima all'opposizione, e
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Lo Monaco
4
MASSIMO FINI
Bersani (60), Vendola (53) & company. Inesistenti.
6
LA VOCE DEL RIBELLE
subìto senza la possibilità di decifrare ciò che accade attraverso la chiave di lettura derivante da una impostazione culturale e analitica presente, nella popolazione colta, sino all'avvento della televisione.
Si dice che la televisione rifletta lo stato della società. Grandi Fratelli e similari ne sono la prova.Vero. Il punto è che la televisione riflette lo stato della
società che essa stessa ha contribuito e contribuisce a formare. E il circolo vizioso è senza fine. Su questo punto è facilissimo essere d'accordo.
Brutalmente: nell'era della televisione (di questa televisione) la tendenza,
dal punto di vista culturale, cognitivo, riflessivo, appiattisce verso il basso
la capacità delle persone di sapere, conoscere, capire, e decidere con
cognizione di causa. In merito all'informazione, poi, valgano le parole di
Baudrillard, quando scrive che "l'informazione, invece di trasformare la
massa in energia, produce ancora più massa", che sintetizzano un tema
a noi molto caro, e che abbiamo affrontato nel numero speciale del
Ribelle di agosto/settembre 2009.
Non va meglio per quanto concerne internet - e anche di questo ne
abbiamo parlato nei numeri precedenti della rivista - semplicemente
seguendo il comportamento delle masse nella navigazione - e nella
dispersione - del web.
Per usare parole di Sartori, ciò che accade è che "mentre la realtà si complica (...) le menti si semplicizzano".
I problemi più urgenti, più complessi da capire e da risolvere, e in conseguenza le scelte più delicate da fare, la massa non è in grado di affrontarli, perché essa non ha accumulato almeno una "soglia critica" di comprensione. Oltre alla maggioranza che non si interessa minimamente di
ciò che è rilevante, vi è una altra grossa fetta di persone che prova a capire, ma nel momento in cui il problema si presenta un po' più complesso
del solito, non avendo appunto raggiunto una soglia critica di comprensione dei fatti (e come fare, visto che l'aumento vertiginoso del consumo
di televisione e ora internet spinge in basso?) semplicemente desiste.Tutti
desistono dal comprendere (o non riescono), ma non dal rivendicare il
proprio diritto di esprimere una scelta, anche su temi dei quali non si
conosce nulla, arrogandosi il diritto ulteriore di contrapporre le proprie opinioni, recepite dai media e dagli opinion makers che su tali media passano, a ciò che esula dall'ambito delle opinioni e rientra invece nel campo
delle certezze. Ovvero della scienza e della storia.
Bisognerebbe tirare fuori la pistola ogni volta in cui qualcuno pretende di
utilizzare la propria opinione nel fare una scelta che implica conseguenze per tutti. Soprattutto se tale opinione fa parte del mare di quella popolare. Ma saremmo tacciati di volontà antidemocratiche. Cosa che non è,
visto che invece ci impegniamo, così come tutti i nostri lettori e in senso
lato (lo speriamo) gli uomini di cultura, nell'impresa titanica di reagire
all'azione della televisione e dei media di massa nel cercare di spiegare
e far capire nel modo più semplice possibile cosa sia realmente importante da sapere e da capire. Per essere cittadini e partecipare con cognizione di causa.
Valerio Lo Monaco
7
WWW.ILRIBELLE.COM
Lo Monaco
Lo Monaco
poi viceversa, ma sempre all'interno di una cricca che, pur scontrandosi
su alcuni temi (peraltro non fondamentali) è d'accordo almeno su un
punto: evitare di allargare lo spazio ad altri che non siano essi stessi.
Soluzione perfetta per rimanere allo stesso posto indefinitamente, ora al
governo, ora all'opposizione, ma comunque ben saldi ai posti di comando. Gli altri, tutti gli altri, ovvero gli elettori ingannati da tale sistema, fuori.
Sudditi, appunto.
Dall'altra parte, chi si fa promotore di un rovesciamento della situazione pur necessario - e promuove la democrazia diretta, con soluzioni tutt'altro
che chiare, cade, il più delle volte, in un errore grossolano che deve pur
essere rilevato: ci si batte per distribuire patenti di democrazia diretta
senza assicurarsi che le persone che ricevono tale patente siano davvero in grado di guidare. Problema non da poco.
Il tema è insomma chiaro, o così dovrebbe essere. E ci fa tornare al punto
di partenza: cultura e informazione allo stato attuale, ovvero capacità di
discernere e scegliere prima di indicare una preferenza di voto, sia essa a
livello politico oppure su temi fondamentali di altro tipo, sino anche quelli relativi a questione di carattere locale.
Bisogna pure che qualcuno lo dica: a oggi, semplicemente guardandosi
attorno, le masse appaiono completamente ignoranti e disinteressate a
temi che abbiamo una complessità leggermente superiore al semplice
sopravvivere. Del tutto inadeguate a scegliere, per il semplice motivo che
ignorano i fondamenti attraverso i quali poter riflettere per scegliere.
Pensare che grandi scelte politiche, strategiche, etiche, economiche e
relative a ogni ambito del pubblico vengano prese grazie a preferenze di
una massa che non ha la minima idea dei temi sui quali viene chiamata
a esprimersi è cosa inquietante. Ma è la realtà.
Si dice che la democrazia sia il governo dell'opinione.Vero. Il punto è che
opinione non è scienza. Opinione risale a possibilità mentre scienza risale
a certezza. Non è la stessa cosa. È del tutto evidente che decisioni di un
certo rilievo debbano essere prese avendo la competenza per poterle
prendere, e da questo ne consegue che nel momento in cui tale competenza non c'è, la decisione venga presa secondo opinione percepita.
Facile immaginare gli esiti di tale decisione. In democrazia, pertanto, è fondamentale l'opinione pubblica. E qui torniamo a cultura e informazione,
che sono peraltro le battaglie che non a caso abbiamo scelto di condurre con tutto il progetto del Ribelle.
Allo stato attuale, più che di opinione pubblica è più corretto parlare di
opinione popolare, anche se è cosa diversa, converrete.
Secondo Sartori, in un suo libro imperdibile, ovvero Homo Videns, molto
dell'incapacità attuale delle masse dipende da un cambiamento antropologico veicolato dalla televisione. L'uomo, da Sapiens, è diventato
Videns. Con tutto ciò che implica.Tra le tante cose, il fatto che la televisione, di gran lunga il mezzo più utilizzato dalle masse per informarsi e per
recepire opinioni da far proprie, per sua stessa natura implica un impoverimento cognitivo. In primo luogo perché tutto ciò cui si viene sottoposti è
legato all'aspetto video privandosi di quello dialogico. In secondo luogo
perché, essendo un mezzo che ha sostituito la lettura e lo studio, viene
Zamboni
a misura di ribelle
Il libero mercato è il grande alibi del Potere.
Il denaro è il suo strumento fondamentale.
Il lavoro la sua arma di ricatto. La risposta
è dare vita a circuiti alternativi e autogestiti
S
di Federico Zamboni
iamo sotto assedio: assai più che negli scorsi
decenni ciascuno di noi, privati cittadini estranei
all’establishment economico e politico, è sottoposto a un attacco sistematico che mina i fondamenti stessi della sua vita nella società contemporanea. La si potrebbe definire sinteticamente “la strategia
Marchionne”, se non fosse che in questo modo si rischia di scaricare su un singolo soggetto, e su una singola impresa, la
responsabilità di un fenomeno assai più ampio e coerente. A
rigore, anzi, è persino sbagliato parlare di fenomeno, nel senso
di qualcosa che si manifesta nella realtà ma le cui ragioni sono
ancora tutte da indagare.
In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte alle prime manifestazioni concrete, e inequivocabili, di un disegno che non solo ha
dimensioni molto più vaste ma che soprattutto poggia su una
logica tanto precisa quanto incrollabile: l’uso del lavoro dipendente come suprema arma di ricatto, e quindi di asservimento,
nei confronti della popolazione.
Il ragionamento è elementare. Eppure merita di essere esplicitato, in modo da essere certi di condividerlo. L’unica cosa alla
quale è impossibile rinunciare, oggi, è una fonte di reddito che
assicuri almeno la copertura dei bisogni fondamentali; e quella fonte di reddito non può che essere, nella stragrande mag-
8 - WWW.ILRIBELLE.COM
gioranza dei casi, il proprio lavoro, solitamente al servizio di
altri. Quello che dovrebbe essere un diritto, connaturato al proprio status di cittadini e all’aspirazione naturale a diventare
parte attiva della comunità cui si appartiene, si tramuta in una
sorta di privilegio, che verrà concesso solo a chi darà prova di
meritarselo.
Non solo e non tanto per il suo apporto professionale, quanto
per la sua totale sottomissione al datore di lavoro. E, per estensione, agli interessi e ai diktat dei potentati che stanno ancora
più in alto.
Apparentemente si sottoscrive un contratto di lavoro. Nei fatti si
formula una promessa di fedeltà. Il suddito si inchina al suo
Signore. Il Signore, bontà sua, gli consente di servirlo.
Oltre che elementare il ragionamento è spietato, ma questo
può sorprendere solo gli ingenui: secondo i tipici dettami dell’iperliberismo, che non esita a sacrificare qualsiasi principio
etico al conseguimento del massimo profitto, le condizioni di
vita delle persone vengono prese in esame soltanto per le
ripercussioni che provocano sui processi economici. Gli individui, per così dire, sono un male necessario.
La cui esistenza si giustifica esclusivamente in base a certe
necessità di funzionamento del ciclo di produzione e consumo.
Un ciclo che in qualche misura li presuppone, ma che al tempo
stesso li trascende.
Il loro, per dirla in termini tecnici, è un “valore d’uso”. Ed essendo visti come parti di un meccanismo, anziché come esseri
umani da rispettare in quanto tali, e da aiutare nello sviluppo
delle proprie attitudini migliori, l’ulteriore conseguenza è la loro
sostanziale intercambiabilità.
Da cui discende, tra l’altro, l’assoluta disinvoltura con cui si procede alle delocalizzazioni: all’imprenditore che sposta gli
impianti all’estero non interessa affatto il danno che subiranno
i suoi concittadini, ma solo il vantaggio aziendale che gliene
può derivare. In una nazione degna di tal nome verrebbe perseguito penalmente per condotta antisociale o, quanto meno,
privato della cittadinanza; nelle finte nazioni di oggi lo si considera del tutto normale: e anzi, come dimostrano proprio le
recenti vicende della Fiat, ci si interroga su come fare per convincerlo a riservare un po’ di lavoro ai suoi connazionali.
Un autentico paradosso: nello stesso momento in cui i rapporti
si irrigidiscono a senso unico, smantellando i contratti collettivi
e riducendo al minimo le tutele normative (fino a mettere in
discussione il delicatissimo e irrinunciabile settore della sicurezza1), la sopraffazione indossa la maschera della generosità.
Non solo si rimuove l’idea di sfruttamento, ma la si rovescia nel
suo esatto opposto. Il padrone è un benefattore. Il lavoratore è
il suo beneficato. Lo stipendio è una via di mezzo tra il compenso dovuto e una regalia, dispensata da qualcuno che in fondo,
9
WWW.ILRIBELLE.COM
Zamboni
Un’economia
Chi vende e chi compra
Nelle società occidentali è più difficile rendersene conto, visto
che le dinamiche sono spezzettate a tal punto che non tutti riescono a coglierne l’intima interconnessione, ma a ben vedere
succede qualcosa di molto simile a ciò che raccontava John
Steinbeck in Furore. Costretta a lasciare l’Oklahoma negli anni
della Grande Depressione, la famiglia Joad finisce in California
e si mette a lavorare per dei latifondisti locali. I quali, non contenti di pagare dei salari da fame e di speculare così sull’enorme offerta di manodopera, pensano bene di completare l’opera inducendo i braccianti ad alloggiare sulle loro terre, ovviamente in baracche da quattro soldi, e a rifornirsi presso un
emporio ubicato anch’esso in prossimità dei campi coltivati e,
guarda un po’, di proprietà degli stessi possidenti terrieri.
Un circolo vizioso, a suo modo perfetto. Il lavoro è sottopagato,
il cibo e tutto il resto sono costosi. Le occasioni di profitto raddoppiano. Prima si lucra sulla retribuzione, ovvero su ciò che si
acquista, poi sui prezzi delle merci, ovvero su ciò che si vende.
Il povero resta povero sia perché guadagna poco, sia perché
“...Fuor di metafora, le mappe sono quelle
della realtà economica circostante, a livello
sia macro che micro. La logistica riguarda i
mezzi materiali e le persone su cui possiamo contare. Lo scopo del viaggio è uscire
dal circolo vizioso di cui si è detto...”
spende troppo. Il povero è in trappola. Se non soggiace alla
schiavitù perde i mezzi di sussistenza. Se china la testa riesce a
sopravvivere, sempre che le privazioni non lo schiantino, ma
non ha più nessuna scelta. E quindi nessuna autonomia.
Cambiato quel che va cambiato, la situazione attuale è analoga. Il cittadino medio viene spremuto una prima volta sul posto
di lavoro, e una seconda nel momento in cui deve procurarsi i
beni e i servizi, ivi inclusi gli eventuali finanziamenti bancari, di
cui ha bisogno. O di cui crede di avere bisogno, per effetto di
quell’ulteriore forma di manipolazione e di asservimento che è
costituita dai bisogni indotti. In altre parole, egli è vittima di una
sorta di intermediazione coatta. È come portare la farina al proprietario del mulino e poi comprare il pane da lui. Peccato che
la farina si sia costretti a cederla a basso prezzo, mentre il pane
lo si paga a peso d’oro.
Questa intermediazione obbligata, di cui non si parla mai e
che comunque verrebbe spiegata come l’esito naturale della
libera iniziativa e della conseguente divisione dei ruoli, implica
la perdita di qualunque controllo sull’organizzazione complessiva. E, dunque, il venir meno di ogni possibilità di sottrarsi alle
iniquità che ne scaturiscono. Non solo ci si indebolisce, nello
sforzo interminabile di cavarsela e, tutt’al più, di salire qualche
gradino sulla scala del benessere. Quel che è peggio, si contribuisce a rendere sempre più forti le oligarchie che tirano i fili,
diventandone di fatto i fiancheggiatori, i solerti esecutori, i complici magari involontari ma ugualmente affidabili.
La via d’uscita
Non è ancora un progetto operativo, se non in minima parte.
Non lo è perché, per essere messo in pratica e cominciare a
produrre i suoi effetti, richiede un numero di persone molto più
alto di quelle che leggono abitualmente il Ribelle e ne condividono le istanze. Inoltre, ognuno dei diversi gruppi dovrebbe
essere concentrato in una stessa zona, in modo che gli aderenti possano interagire tra loro in modo assiduo e sistematico.
Dando vita, così, a una rete di relazioni economiche – anche
economiche – che tendano all’autosufficienza.
Se questo è l’obiettivo finale, che è bene fissare più per sapere
dove si sta andando che non per illudersi di poter completare
il percorso, alcuni passi si possono muovere immediatamente.
O almeno tenersi pronti a farlo, come se ci si stesse preparando a un viaggio (una migrazione) che avrà inizio non appena
le condizioni generali lo permetteranno.
Proprio come in un viaggio, quindi, i primi atti da compiere
riguardano i preliminari. Uno, studiare attentamente le mappe.
Due, pianificare la parte logistica. Tre, last but not least, predisporsi mentalmente ad affrontare quello che ci aspetta, immaginando le difficoltà che si incontreranno e le possibili soluzioni.
Fuor di metafora, le mappe sono quelle della realtà economica circostante, a livello sia macro che micro. La logistica riguarda i mezzi materiali e le persone su cui possiamo contare. Lo
scopo del viaggio è uscire dal circolo vizioso di cui si è detto:
invece di immettere tutti i nostri atti economici nei circuiti già
esistenti, pagando pegno alle loro sperequazioni strutturali,
vanno creati dei circuiti alternativi che si basino su altri principi e che mirino ad altri risultati, in antitesi alle speculazioni di
grande e di piccolo cabotaggio che ormai sono la regola in
qualsiasi attività. Una prima ipotesi, per iniziare da qualcosa
che dipende solo da noi, è quella di supplire alla carenza di
denaro con prestazioni gratuite reciproche.
Beninteso: non in una logica di scambio “uno a uno”, che altrimenti non farebbe che riprodurre lo stesso approccio utilitaristi-
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LA VOCE DEL RIBELLE
WWW.ILRIBELLE.COM
Zamboni
Zamboni
e in qualsiasi momento, potrebbe decidere di sbaraccare tutto
e andarsene chissà dove. A “beneficare” qualcun altro.
Note:
1) Il 25 agosto 2010 il ministro Tremonti ha dichiarato che «robe come la
626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo
permetterci. Sono l’Unione europea e l’Italia che si devono adeguare al
mondo». In seguito si è corretto sostenendo che il suo vero bersaglio
erano i controlli eccessivi e di stampo burocratico, mentre la sicurezza sul
lavoro rimane «una conquista irrinunciabile della civiltà occidentale».
DECRESCITA
Zamboni
co delle normali transazioni economiche, ma in una prospettiva di supporto disinteressato e amichevole in cui il vero motore è la solidarietà. O, piuttosto, il piacere, tipico della gratuità, di
fare delle cose insieme per il gusto di farle. Ti serve una mano?
Se posso te la do. Se e quando le posizioni si dovessero rovesciare spero che tu possa fare altrettanto. Non per risparmiare
sulla spesa che dovrei sostenere per acquisire la collaborazione di uno sconosciuto, ma per continuare a trasformare l’esistenza occhiuta dell’ometto liberale nella vita generosa dell’uomo libero.
A molti può sembrare pura utopia, ma è solo perché sono talmente impregnati di una visione economicistica da trovare
impensabile ciò che dovrebbe essere del tutto normale. E che
in fondo sopravvive, anche se confinato nella dimensione sempre più ristretta dei rapporti amicali. O famigliari, se la famiglia
ha conservato qualcosa di sano.
Viceversa, questo tipo di slancio andrebbe recuperato non
solo nella sfera del tempo libero ma anche in quella lavorativa.
La verità, semmai la si fosse dimenticata, è semplice e gratificante: tra persone leali, e non obnubilate dalla smania di guadagnare di più e di fare carriera a ogni costo, si collabora
meglio. Ci si parla con franchezza. Ci si libera di quel sottofondo di competizione, e di antagonismo, che avvelena tanti
ambienti di lavoro, inducendo tutti a stare in guardia e a condividere solo lo stretto indispensabile, nel timore che i “colleghi” se ne possano servire in modo scorretto.
È un po’ come con la decrescita: sta diventando una necessità, ma dovrebbe essere innanzitutto una scelta. Recuperare
forme di organizzazione economica differenti, come le vere
cooperative e le vere Casse di risparmio, è sempre di più una
risposta obbligata, in tempi di crescente disoccupazione e di
finanza speculativa. Ma dovrebbe essere un’affermazione totalmente libera, degna di chi non si ribella al sistema attuale perché è escluso da certi privilegi ma perché quei privilegi li rifiuta. Non è solo che li trova iniqui e quindi sbagliati. È che non sa
cosa farsene.
Federico Zamboni
Progettare
il futuro
“Lo sviluppo della sostenibilità
ambientale come volano
di un nuovo ciclo economico”
Orientare la politica economica
e industriale a creare occupazione
nelle tecnologie che riducono
l’impronta ecologica
(Dal convegno di ottobre a Perugia)
U
di Maurizio Pallante
na delle obbiezioni che più di frequente
viene avanzata alla decrescita è che provocherebbe una diminuzione dell’occupazione.
A maggior ragione oggi che le economie dei
paesi industrializzati stanno attraversando
una crisi da cui non sanno come uscire. Questa obbiezione non
regge alla prova dei fatti, come cercherò di dimostrare, mentre
invece può essere vero il contrario, che cioè la decrescita, se correttamente intesa e guidata, consenta - noi crediamo che sia
l’unico modo per consentire - un rilancio dell’occupazione e un
superamento della crisi con l’apertura non solo di un nuovo ciclo
economico, ma di una fase storica più avanzata di quella che
abbiamo sin qui vissuto.
Le aziende e i professionisti presenti in questi giorni sono la prova
che queste affermazioni non sono campate per aria, ma si fondano su dati reali. È a partire dalle loro esperienze sul campo che il
nostro Movimento si propone di fornire il suo modesto contributo
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LA VOCE DEL RIBELLE
per formulare una proposta di politica economica e
industriale capace di valorizzare quanto stanno
facendo, di favorire lo sviluppo di sinergie tra loro, di
ampliare le loro quote di mercato, di estendere il
numero dei cittadini che chiedono i loro prodotti e i
loro servizi.
Prima di entrare nel merito credo che sia utile chiarire che cos’è la decrescita perché molti associano
a questa parola un’idea negativa di regresso, diminuzione del benessere, ristrettezze economiche.
Questa interpretazione si fonda sulla convinzione
che il prodotto interno lordo misuri la quantità dei
beni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da un sistema economico e produttivo nel
corso di un anno. La crescita del pil, se così fosse,
misurerebbe l’aumento del benessere, la decrescita
la sua diminuzione.
In realtà il prodotto interno lordo è un indicatore
monetario e, come tale, può misurare solo il valore
economico degli oggetti e dei servizi che vengono
scambiati con denaro. Ovvero, delle merci. Ma non
tutte le merci, non tutti gli oggetti e i servizi che si
scambiano con denaro sono beni: rispondono a un
bisogno e fanno aumentare il benessere. Per sgombrare il campo da trite e ritrite considerazioni psicologiche, i bisogni a cui si fa riferimento non sono
soggettivi, ma oggettivi. Un edificio mal costruito,
che consuma 20 metri cubi di gas per il riscaldamento, fa crescere il pil più di un edificio ben costruito che ne consuma 5, ma 15 metri cubi su 20, i due
terzi del gas utilizzato, sono una merce che, tra l’altro, si paga sempre più cara, non sono però un bene
perché non servono a scaldare l’edificio. Non rispondono a nessun bisogno, non hanno nessuna utilità,
provocano anzi un danno perché contribuiscono ad
aggravare inutilmente l’effetto serra. La decrescita
non è una diminuzione del pil tout court, ma una
riduzione guidata della produzione e del consumo
di merci che non sono beni, ossia degli sprechi. Per
ridurre la produzione di merci che non sono beni
occorrono tecnologie più avanzate di quelle attualmente in uso.
Da ciò deriva la necessità di creare occupazione in
attività professionalmente più evolute e oggettivamente utili, perché non solo riducono il consumo di
risorse che stanno diventando sempre più rare, si
pensi in particolare alle fonti fossili, ma anche gli
effetti negativi sugli ambienti che inevitabilmente ne
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LA VOCE DEL RIBELLE
derivano sia in fase di prelievo, sia in fase di utilizzazione. Di conseguenza, la decrescita non ha niente a
che vedere con la recessione. Tra la decrescita e la
recessione c’è un rapporto analogo a quello tra chi
mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso
di fare una dieta per stare meglio e chi è costretto a
farlo perché non ha abbastanza da mangiare.
Queste precisazioni consentono di argomentare tre
tesi che apparentemente sembrano paradossali, ma
in realtà forniscono gli strumenti per impostare una
politica economica e industriale in grado di creare
occupazione e riavviare il ciclo economico. La
prima è che la crescita non ha mai creato occupazione. La seconda è che le politiche economiche
tradizionali, finalizzate a superare la crisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso la
spesa pubblica e la riduzione delle tasse, stanno
dimostrando di non essere più in grado di farlo. La
terza è che la decrescita guidata della produzione
di merci che non sono beni è l’unico modo di creare occupazione in questa fase nei paesi industrializzati. Che cioè il superamento della crisi economica
si può realizzare solo sviluppando le tecnologie che
consentono di attenuare la crisi ambientale aumentando l’efficienza con cui si usano le risorse, riducendone il consumo e, di conseguenza, gli impatti
ambientali che generano.
Crescita = occupazione? Sbagliato
L’affermazione che la crescita economica sia indispensabile per far crescere l’occupazione viene
ripetuta come un mantra benché, a differenza del
mantra, non abbia lo scopo di liberare la mente
dalla realtà illusoria, ma di avvilupparla in una illusione irreale, priva di riscontri empirici e di fondamenti teorici. Dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto
interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato,
passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire
(valori a prezzi 1990), la popolazione è cresciuta da
48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento
del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è
rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano
20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998). Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere
l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 per cento della
popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tre settori produttivi, spostandola dapprima dall’agricoltu-
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ra all’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta
del secolo scorso, anche dall’industria ai servizi.
Se dalla constatazione dei dati si passa alla ricerca delle
cause si capisce il motivo: in un sistema economico fondato
sulla crescita della produzione di merci indipendentemente
da valutazioni qualitative della loro utilità, il mercato impone
che le aziende accrescano la loro competitività (secondo
mantra rovesciato) investendo in tecnologie labour saving
per aumentare la produttività (terzo mantra della serie), che
tradotto in italiano significa: produrre sempre di più con sempre meno addetti. Cosa che a livello microeconomico può
“Queste misure non solo non sono state
in grado di rilanciare il ciclo economico
e ridurre la disoccupazione, ma hanno
fatto crescere i debiti pubblici al limite
dell’insolvenza. Per scongiurare questo
pericolo i governi hanno bruscamente
capovolto la politica economica, adottando drastiche misure di contenimento
della spesa statale che tolgono ossigeno
alla ripresa economica e alla prospettiva
di ridurre la disoccupazione...”
risultare vantaggiosa, ma a livello macroeconomico comporta simultaneamente una diminuzione della domanda e una
crescita dell’offerta. Un problema non di poco conto che, se
non ci si nasconde dietro il risibile alibi di imputare un carattere prevalentemente finanziario alla crisi o alle cause che
l’hanno generata, è la causa reale della crisi economica,
produttiva e occupazionale che stiamo vivendo.
La sua gravità è accentuata dal fatto che s’intreccia con
una crisi energetica e ambientale altrettanto grave e molto
vicina al punto di non ritorno, ammesso che non sia già stato
superato. Da studi recentissimi del Pentagono e del Ministero
della difesa tedesco risulta che il picco di Hubert della produzione petrolifera sia stato raggiunto. Secondo le valutazioni dell’IPCC, se non si ridurranno le emissioni di CO2 del 20
per cento entro il 2020, in questo secolo l’aumento della temperatura terrestre supererà i 2 °C e comincerà ad autoalimentarsi sfuggendo a ogni possibilità di controllo umano.
Per far fronte alla recessione, i governi hanno adottato le tra-
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LA VOCE DEL RIBELLE
dizionali misure di politica economica a sostegno della
domanda: riduzione della pressione fiscale; deroghe alle
norme urbanistiche per incentivare la ripresa dell’attività edilizia; incentivi all’acquisto di beni durevoli: automobili, mobili,
elettrodomestici; copertura dei debiti delle banche con
denaro pubblico (700 miliardi di dollari negli Stati Uniti);
grandiosi piani di opere pubbliche. L’ultimo, in ordine di
tempo, approvato dal presidente Obama, ammonta a cinquanta miliardi di dollari per strade e ferrovie (la Repubblica,
7 settembre 2010, pag. 21). Queste misure non solo non sono
state in grado di rilanciare il ciclo economico e ridurre la
disoccupazione, ma hanno fatto crescere i debiti pubblici al
limite dell’insolvenza. Per scongiurare questo pericolo i governi hanno bruscamente capovolto la politica economica,
adottando drastiche misure di contenimento della spesa statale che tolgono ossigeno alla ripresa economica e alla prospettiva di ridurre la disoccupazione.
Il mercato è saturo
Resta difficile capire come si sia potuto credere e far credere che incentivando la domanda di prodotti che hanno saturato da tempo il mercato si potesse far ripartire la crescita
economica. In Italia negli anni sessanta del secolo scorso le
automobili circolanti erano 1.800.000. Nel 2008 sono state 35
milioni. Se nei decenni passati il settore aveva grandi possibilità di espansione, oggi non ne ha più. Ha riacquistato un po’
di slancio con gli incentivi alla rottamazione, ma appena
sono finiti la domanda di nuove immatricolazioni è crollata
quasi del 30 per cento da un mese all’altro. A livello mondiale l’eccesso della produzione automobilistica è circa un terzo
del totale: 34 milioni di autovetture all’anno su 94 milioni.
La scelta di puntare sul rilancio della produzione automobilistica non solo si è dimostrato fallimentare dal punto di vista
economico, ma è anche irresponsabile dal punto di vista
energetico e ambientale perché l’autotrasporto (autovetture
e camion) assorbe in Italia circa un terzo di tutte le importazioni di fonti fossili. Contribuisce per un terzo alle emissioni di
CO2, che sono la causa principale dell’innalzamento della
temperatura terrestre.
Negli anni Sessanta del secolo scorso anche il settore dell’edilizia presentava grandi possibilità di espansione, sia perché era necessario completare l’opera della ricostruzione
post-bellica, sia perché erano in corso movimenti migratori di
carattere biblico dalle campagne alle città, dal sud al nord,
dal nord-est al nord-ovest.
Ora non è più così. Nel quindicennio intercorrente tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005 sono stati edificati 3 milioni di ettari di terreno: una superficie pari al Lazio e
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all’Abruzzo. Contestualmente il numero degli edifici
inutilizzati è cresciuto. A Roma ci sono 245.000 abitazioni vuote su 1.715.000. Una su sette. A Milano 80.000
appartamenti su 1.640.000 e 900.000 metri cubi di uffici: un volume equivalente a 30 grattacieli Pirelli.
Situazioni analoghe si verificano in tutte le città di tutte
le dimensioni. I terreni agricoli adiacenti alle aree
urbane sono costellati di capannoni industriali in cui
non si è mai svolta la minima attività produttiva. Anche
la scelta di puntare sull’edilizia come volano della
ripresa economica si è rivelato un errore strategico e
contemporaneamente una dimostrazione di irresponsabilità ambientale perché i consumi energetici degli
edifici sono superiori a quelli delle automobili.
Assorbono altrettanta energia, un terzo del totale, ma
solo in cinque mesi per il riscaldamento invernale.
Elementare, Watson
Non ci vuole una grande competenza in materia economica, basta un minimo di razionalità per capire che
per affrontare con probabilità di successo sia gli
aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti
ambientali-climatici della crisi in corso bisogna fare
esattamente il contrario di quanto si è tentato di fare
sino ad ora. Occorre indirizzare il sistema economicoproduttivo a sviluppare i settori che presentano ampi
spazi di mercato e, a parità di produzione, riducono
l’inquinamento e il consumo di risorse, in particolare
quelle energetiche. Poiché nei decenni passati, in conseguenza della sovrabbondanza di fonti fossili a prezzi
irrisori l’unico obbiettivo che si è perseguito è stato la
crescita della produzione di merci senza nessuna preoccupazione per le conseguenze ambientali, i settori
che oggi presentano i più ampi spazi di mercato sono
quelli che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse
consentendo di diminuire l’inquinamento, le emissioni
di CO2 e i rifiuti. Ma se cresce l’efficienza nell’uso delle
risorse, diminuisce automaticamente il loro consumo e
quindi, una volta che siano stati ammortizzati i costi
d’investimento con i risparmi sui costi di gestione, si
riduce il PIL. La decrescita guidata della produzione e
del consumo di merci che non sono beni, ha le potenzialità per superare sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti energetici e climatici della crisi
facendo fare un salto di qualità alla storia umana.
Con due vantaggi ulteriori. Le tecnologie con le caratteristiche indicate, che a noi sembra giusto definire
tecnologie della decrescita, pagano i propri investi-
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LA VOCE DEL RIBELLE
menti da sé, col denaro che consentono di risparmiare sui costi di gestione. E, inoltre, ridanno un senso al
lavoro perché non lo indirizzano, come fanno le tecnologie della crescita, a produrre quantità sempre maggiori di merci da buttare sempre più in fretta per produrne altre senza preoccuparsi della loro utilità e/o
dei danni che creano, ma a produrre con un sempre
minore impatto ambientale merci con una utilità specifica. A produrre merci che siano beni per chi le utilizza e non siano un male per la terra. In ultima analisi
l’obbiettivo delle tecnologie della decrescita è sostituire in misura sempre maggiore l’hardware delle materie
prime col software dell’intelligenza umana guidata
dall’etica e dal rispetto della vita in tutte le forme in
cui si manifesta.
Ridurre le merci, aumentare i beni
Riducendo il consumo di merci che non sono beni, il
denaro che si risparmia deve essere necessariamente
utilizzato per pagare gli investimenti, e i salari, gli stipendi, le parcelle, i guadagni di chi produce, commercializza, installa, gestisce e fa la manutenzione delle
tecnologie che riducono il consumo di merci che non
sono beni. Le tecnologie della decrescita sono in
grado di ri-avviare un circolo virtuoso dell’economia,
non solo nella logica interna dei cicli economici - più
produzione, più occupazione, più domanda, più produzione - ma anche per le conseguenze positive sugli
ambienti e sulla vita degli esseri umani.
È una pericolosa illusione ipotizzare che si possa uscire dalla recessione riprendendo a fare quello che si è
sempre fatto. Occorre aprire una fase nuova, esplorare
una nuova frontiera. Non ci si può limitare a misure di
politica economica e finanziaria finalizzate ad accrescere la domanda di merci in una logica esclusivamente quantitativa. Occorre adottare criteri di valutazione qualitativa. Non ci si può limitare ad abbassare il
costo del denaro per rilanciare investimenti e consumi.
Occorre decidere quali produzioni si ritiene utile incentivare e quali si ritiene opportuno ridurre. Non ci si può
limitare a spendere grandi somme di denaro pubblico,
che tra l’altro non ci sono, per finanziare grandi opere,
di cui si conosce l’inutilità a priori, solo perché si ritiene che possano fare da volano alla ripresa economica, ma occorre finanziare opere pubbliche che consentono di migliorare la qualità ambientale e la vita
degli esseri umani. Non i treni ad alta velocità, che
hanno un impatto ambientale devastante, aumentano
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i consumi energetici e non risolvono il problema degli spostamenti quotidiani sui tragitti casa-lavoro, ma una rete efficiente di treni locali per ridurre l’inquinamento ambientale e lo
stress da traffico automobilistico che assorbe anni di vita e
mina la salute di milioni di pendolari. Non festeggiamenti e
manifestazioni per attirare l’arrivo di un numero di consumatori più ampio di quelli che vivono nei luoghi in cui si organizzano, perché sono fuochi di paglia che lasciano pesanti
eredità di edifici destinati a degradarsi progressivamente e
assorbire quote crescenti dei bilanci pubblici per le spese di
gestione e manutenzione. Non lo stadio del curling come si
“...È una pericolosa illusione ipotizzare
che si possa uscire dalla recessione
riprendendo a fare quello che si è
sempre fatto. Occorre aprire una fase
nuova, esplorare una nuova frontiera...”
è fatto nelle Olimpiadi invernali di Torino, ma ospedali efficienti e scuole che non crollino in testa agli studenti. Non
piani regolatori espansivi che autorizzano a cementificare
progressivamente i terreni agricoli, ma un programma di
ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente
per ridurne i consumi da 200 chilowattora al metro quadrato
all’anno al valore massimo di 70 vigente nella Provincia di
Bolzano. Non l’incredibile miopia di puntare sulla produzione
automobilistica, ma la parziale riconversione dell’industria
automobilistica alla produzione di micro-cogeneratori e trigeneratori per dimezzare i consumi di fonti fossili ricavando il
riscaldamento e il raffrescamento come sottoprodotti della
produzione decentrata di energia elettrica, a partire dagli
ospedali e dalle strutture con consumi continuativi di elettricità e calore nel corso dell’anno.
Lo sviluppo delle tecnologie della decrescita è la strada
maestra per uscire dalla recessione e accrescere l’occupazione, non come un obbiettivo in sé, ma come conseguenza
di lavori che hanno un senso perché consentono di migliorare la qualità della vita riducendo l’impronta ecologica, il consumo di risorse, l’impatto ambientale e la produzione di rifiuti delle attività con cui gli esseri umani ricavano dalla natura le risorse da trasformare in beni e in merci che sono beni.
Se le tecnologie finalizzate ad aumentare la produttività finalizzano il fare umano a fare sempre di più, le tecnologie della
decrescita connotano il fare umano come un fare bene e lo
finalizzano alla possibilità di contemplare ciò che si è fatto.
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LA VOCE DEL RIBELLE
Tutto ciò non ha nulla a che fare con la cosiddetta green economy, di cui tanto si parla. È indispensabile precisarlo per evitare pericolosi fraintendimenti e prevedibili fallimenti. La green
economy, che ha la stessa matrice culturale del cosiddetto sviluppo sostenibile, è un tentativo di rilanciare la crescita economica potenziando alcuni settori produttivi con minor impatto
ambientale, sostanzialmente le energie alternative in sostituzione delle fonti fossili. È un tentativo di cambiare qualcosa affinché non cambi niente. Noi riteniamo invece che la fase storica dell’industrializzazione fondata sulla crescita economica si
stia chiudendo e sia necessario aprirne un’altra se si vuole evitare che la chiusura avvenga con un crollo che seppellirebbe
l’umanità sotto le sue macerie.
La green economy e la necessità di sostituire le fonti fossili
con le fonti rinnovabili è stata propugnata con forza dal presidente degli Stati Uniti, che ha trovato in Italia epigoni entusiasti in alcune associazioni ambientaliste. In realtà la politica energetica che è scaturita dai suoi buoni propositi ha
riproposto le trivellazioni petrolifere in Alaska, non ha contrastato le trivellazioni petrolifere nelle profondità sottomarine,
ha rilanciato il nucleare, l’incenerimento dei rifiuti, il confinamento non si sa dove della CO2. Noi invece riteniamo che la
politica energetica debba in primo luogo puntare a ridurre i
consumi attraverso una riduzione maniacale degli sprechi,
delle inefficienze e degli usi impropri.
La percentuale su cui si può lavorare è il 70 per cento degli
attuali consumi, che, grosso modo si suddividono in tre grandi settori equivalenti: il riscaldamento degli ambienti, la produzione di energia termoelettrica, l’autotrasporto. Per ottenere questo risultato c’è da lavorare per i prossimi decenni in
attività che ripagano i loro costi d’investimento con la diminuzione dei costi di gestione.
Solo in un quadro di riduzione drastica dei consumi-spreco
diventa possibile e interessante la progressiva sostituzione
delle fonti fossili con fonti rinnovabili, sia perché non ha
senso produrre bene l’energia e continuare a consumarla
male, sia perché le fonti rinnovabili non sono in grado di offrire lo stesso apporto quantitativo di energia e con la stessa
continuità delle fonti fossili.
Sebbene nessuno a parole contesti questa impostazione, nei
fatti tutte le aspettative e tutte le proposte sono incentrate
sulla sostituzione delle fonti, nell’attesa messianica della
fonte miracolosa, pulita e inesauribile, in grado di liberare
l’umanità da ogni limitazione, mentre la riduzione dei consumi viene considerata con sufficienza, come un’attività di routine, priva del fascino dell’innovazione. Forse perché è in
grado di realizzare una prospettiva concreta e interessante di
decrescita, sovvertendo il paradigma culturale dominante?
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Green Economy? Una bufala
Ma c’è un altro elemento che incide pesantemente
nel determinare il divario tra il gran parlare di fonti rinnovabili e l’assoluta insufficienza delle realizzazioni. Un
elemento insito nella concezione della green economy come scelta strategica per far ripartire la crescita
economica, come fattore di continuità e non di cambiamento rispetto a un sistema produttivo giunto al
suo capolinea storico.
Ciò che sfugge ai sostenitori della green economy è
che la sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili implica una ristrutturazione complessiva del sistema
energetico. La maggior parte dell’energia non dovrà
più essere prodotta in grandi centrali, ma in una miriade di piccoli impianti per autoconsumo collegati in
rete per scambiare le eccedenze. Solo in questo modo
si potranno risolvere i problemi legati alla discontinuità delle fonti rinnovabili, si potrà minimizzare il loro
impatto ambientale, si potranno ridurre le perdite di
trasmissione.
Di conseguenza, la rete di distribuzione non potrà più
essere strutturata su grandi dorsali con derivazioni ad
albero, ma dovrà essere reimpostata come una rete di
reti locali sul modello di internet.
L’opera non è da poco, ma i problemi tecnici che
pone non presentano difficoltà insormontabili. Molto
più difficili da risolvere sono i problemi politici, perché
ciò che si mette in discussione è il potere delle società multinazionali che gestiscono il mercato energetico. Le quali sono disponibili a investire e stanno investendo nelle fonti rinnovabili perché si rendono conto
che è inevitabile, ma non possono accettare che l’autoproduzione riduca le loro quote di mercato. Non
possono accettare che gli incentivi con cui i governi
sostengono il settore vadano a una miriade di autoproduttori anziché a rimpinguare i loro bilanci. Con
l’alibi della riduzione dell’effetto serra e della creazione di occupazione nella green economy, i grandi
impianti a fonti rinnovabili oltre a devastare il paesaggio e i terreni agricoli, implementano legalmente con
denaro prelevato dalle tasche dei contribuenti gli utili
delle grandi aziende energetiche.
Con la copertura di tutti i partiti e di alcune associazioni sedicenti ambientaliste. E con la possibilità, sempre presente quando si sostengono con denaro pubblico attività in perdita, che una parte di quel denaro
sia dirottata illegalmente in altre tasche dove non
dovrebbe arrivare, come alcune operazioni intercetta-
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LA VOCE DEL RIBELLE
te dalla magistratura lasciano supporre sia accaduto
o stesse per accadere.
La scelta strategica di spostare l’asse della produzione
energetica su piccoli impianti di autoproduzione con
scambio delle eccedenze in una rete di reti locali sul
modello di internet, si inserisce nella seconda scelta
strategica di una politica economica finalizzata a creare occupazione nelle tecnologie che consentono di
attenuare la crisi ambientale: l’inversione della tendenza alla globalizzazione e la rivalutazione delle economie locali. La tendenza alla globalizzazione è funzionale alla crescita della produzione di merci e ha caratterizzato il modo di produzione industriale sin dagli inizi,
insieme agli altri due processi paralleli delle migrazioni
e dell’urbanizzazione. Va da sé che se si identifica la
crescita col benessere e col progresso, si valutino positivamente questi tre fenomeni, perché sono indispensabili per estendere il numero dei produttori e dei consumatori di merci.
Ma non può sfuggire la loro relazione causale con la
crisi energetica, i mutamenti climatici, le gravi diseguaglianze tra popoli poveri e popoli ricchi, l’impatto
ambientale e le degenerazioni del sistema agro-industriale, i peggioramenti delle condizioni contrattuali dei
lavoratori dipendenti e la crescita della disoccupazione
nei paesi industrializzati.
La prima reazione agli effetti devastanti della globalizzazione si è avuta nel settore agro-alimentare con la rivalutazione dei prodotti tipici locali, delle cultivar autoctone, della stagionalità, delle cucine tradizionali, delle filiere corte, dei mercati contadini. In questa inversione di
tendenza, che ha assunto le connotazioni di un’alternativa globale ai prodotti insapori, avvelenati e destagionalizzati dell’agricoltura chimica, trasformati in cibi standardizzati dall’industria alimentare, trasportati a distanze anche intercontinentali, commercializzati dalla grande distribuzione organizzata, un ruolo decisivo è stato
svolto da alcune associazioni di produttori e di acquirenti: i salvatori di semi e i coltivatori biologici da una
parte, Slow Food e i gruppi d’acquisto solidale dall’altra. A partire dall’esperienza dei gruppi d’acquisto solidale, la rivalutazione dei modi di produzione tradizionali e la commercializzazione diretta tra produttori e acquirenti si sta estendendo al settore dell’abbigliamento
con risultati sorprendenti.
Aziende che lavoravano come contoterziste per grandi
marchi ed erano costrette dalla concorrenza internazionale a subire condizioni contrattuali che le obbligavano
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a ridurre il personale, delocalizzare in paesi con manodopera
a costi inferiori, utilizzare materiali scadenti e tecniche di lavorazione inquinanti, sono riuscite a liberarsi dal giogo della globalizzazione vendendo direttamente le loro merci ai gruppi di
acquisto solidale.
Poiché operano a dimensione locale, realizzano prodotti svicolati dalla necessità di adeguarsi alle variazioni imposte in continuazione dalla moda e saltano le intermediazioni commerciali, possono utilizzare materiali qualitativamente superiori e
tecniche di lavorazione tradizionali meno inquinanti.
Nonostante ciò riescono a vendere a prezzi molto inferiori a
quelli delle grandi marche e al contempo più remunerativi per
loro, per cui hanno rilocalizzato e assunto nuovi occupati a
eque condizioni contrattuali.
Anche nell’esperienza di queste aziende la crescita dell’occupazione non è stata determinata dalla crescita della produttività e dalla ricerca spasmodica di ridurre i costi di produzione per far fronte alla concorrenza internazionale, ma da
scelte di carattere qualitativo che comportano la riduzione
del consumo di merci che non sono beni (e, quindi, una
decrescita guidata del pil): capi d’abbigliamento confezionati per durare nel tempo, che con un apparente ossimoro
potremmo definire di moda durevole; produzione per mercati locali e riduzione del consumo di fonti fossili per il trasporto; uso di materiali e tecniche di lavorazione ecocompatibili;
patto tra gentiluomini con gli acquirenti basato sulla trasparenza del prezzo; fidelizzazione della clientela mediante una
commercializzazione finalizzata ad accrescere la conoscenza di come è fatto ciò che si compra; vendita diretta senza
intermediazioni commerciali. Tutto ciò testimonia la storia
breve, ma ricca di futuro, delle imprese nel settore dell’abbigliamento riunite nella rete X i gas.
Evito di svolgere qualche riflessione sulla terza scelta strategica per creare occupazione potenziando le tecnologie della
decrescita, perché riferendosi all’agricoltura, all’alimentazione
e alla reimpostazione del rapporto tra città e campagna, ci
porterebbe fuori tema. Mi limito a elencare i compiti che un
movimento come il nostro può svolgere per favorire lo sviluppo di una politica economica e industriale che ci consenta di
superare la fase difficile che stiamo vivendo e aprirne una
nuova finalizzata a realizzare una prosperità senza crescita.
Il nostro compito principale è creare collegamenti:
a) Tra gli imprenditori e i professionisti che progettano, producono, installano, commercializzano, gestiscono tecnologie
che consentono di ridurre lo spreco di risorse, il consumo di
merci che non sono beni, i rifiuti da smaltire. Già se ne sono
stabiliti. Molti di più sono quelli che si possono stabilire. Per
esempio tra un pool di aziende che producono tecnologie
24
LA VOCE DEL RIBELLE
per ridurre gli sprechi energetici degli edifici e un pool di
magazzini che commercializzano materiali per l’edilizia.
b) Tra gli utenti finali che intendono ridurre i propri consumi
energetici e gli imprenditori e i professionisti che sono in
grado di realizzare ristrutturazioni ad alta efficienza energetica. Per esempio, le aziende che producono moda durevole
potrebbero diventare ancor più concorrenziali riducendo i
consumi energetici dei loro ambienti di lavoro e dei loro cicli
produttivi (ma si può anche fare l’inverso: le aziende che producono materiali e tecnologie per ridurre gli sprechi energetici possono favorire la formazione di un gas tra il proprio personale). Un gas potrebbe ottenere condizioni contrattuali
migliori concordando un programma di ristrutturazione energetica delle abitazioni dei propri soci.
Per creare questi collegamenti in modo sistematico abbiamo
intenzione di approntare nel nostro sito un portale in cui inserire i recapiti e una breve descrizione delle aziende che
rispondono ai criteri della decrescita, suddivise per localizzazione e tipologie di prodotto. Un secondo compito che riteniamo di dover svolgere è suggerire agli eletti nelle istituzioni proposte di politica economica e fiscale finalizzate a favorire lo
sviluppo di questi settori produttivi.
D’accordo con gli enti pubblici che ci ospitano e con le associazioni imprenditoriali che hanno organizzato questo incontro
con noi abbiamo intenzione di riproporlo con una cadenza
annuale per fare il punto sulle evoluzioni del settore. Un terzo
compito è proseguire il lavoro di formazione e di informazione
per diffondere la sensibilità su queste tematiche e accrescere
il numero di coloro che possono fornire un contenuto scientifico al desiderio di realizzare un altro mondo possibile.
Il numero dei circoli territoriali del nostro movimento è in crescita, molti sono i giovani che partecipano alle nostre iniziative, possiamo contare su una casa editrice che diffonde le
nostre elaborazioni.
Un impegno molto forte vorremmo infine dedicarlo a organizzare incontri tematici nazionali in cui far convergere docenti
universitari, ricercatori, studiosi, professionisti, per costruire
insieme un paradigma culturale nuovo rispetto a quello che
sta arrivando al capolinea dopo più di due secoli di storia.
Sentiamo il bisogno di analizzare dal punto di vista della
decrescita temi come la spiritualità, l’arte e la letteratura, l’architettura, l’urbanistica e il paesaggio, il lavoro e l’otium, la tradizione e la modernità, la conservazione e il progresso. Il confronto di questi giorni sulle possibilità di indirizzare le innovazioni tecnologiche alla costruzione di una prosperità senza crescita, per noi è il primo tassello di questo programma.
Maurizio Pallante
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M
OLESKINE
gennaio 2011
Lo dicono anche i fiscalisti:
bisogna tassare
di più le rendite
Ormai, secondo i commercialisti italiani,
«in Italia non conviene lavorare,
conviene possedere; e se proprio si
lavora, conviene non dichiarare»
Garantire un quadro di regole certe per rilanciare la
fiducia nel rapporto tra fisco e contribuente;
accentuare la lotta all’evasione fiscale, ma in un
contesto che ponga al centro l’amministrazione della
giustizia tributaria, non soltanto l’accertamento e la
riscossione; costruire un prelievo fiscale equo,
efficiente e coerente rispetto al modello cui si ispira la
nostra Costituzione e su cui si fonda la nostra società;
correggere il tiro del federalismo fiscale verso una
maggiore attenzione all’autonomia finanziaria,
piuttosto che all’autonomia impositiva. Inoltre, per la
gestione di questo fantomatico nuovo corso nel
rapporto cittadino-fisco, bisogna creare un’Authority
indipendente, simile ad altre realtà europee, che
permetta anche una non rinviabile semplificazione
del sistema.
Sono i punti nodali del “manifesto dei commercialisti
italiani per la riforma del fisco”, approvato durante le
riunioni del 16 e 17 novembre 2010 e pronto ad
essere discusso al tavolo col ministro Tremonti.
In sé si tratta di proposte così assennate da rendere
perfino sorprendente che sia l’ordine dei
commercialisti a farsene carico presso il Governo. Dal
testo in questione emerge una realtà chiara per tutti
fuorché – pare – per chi ci amministra. Il fisco,
sottolinea il manifesto, opera in maniera diseguale ed
iniqua, gravando per lo più sul lavoro (nulla di
nuovo); il cittadino, laddove emergano dei
contenziosi in materia fiscale, è perseguito come
fossimo in uno stato di polizia (nulla di nuovo); c’è
profonda disparità di trattamento tra i redditi da
lavoro e le rendite da capitale (nulla di nuovo).
L’esempio riportato è lampante: «Oggi, una persona
che dichiara al fisco redditi di lavoro per 150.000 euro
è tassata con una aliquota media del 38,45%
(42,35%, se imprenditore o lavoratore autonomo),
mentre chi consegue 150.000 euro annui come
rendita patrimoniale al 3% derivanti da una ricchezza
mobiliare di 5 milioni di euro di titoli è tassato al
12,5%. Il cristallino messaggio che viene dal nostro
sistema di imposizione sui redditi è il seguente: in
Italia non conviene lavorare, conviene possedere; e
se proprio si lavora, conviene non dichiarare».
Peccato che alla fine, sul delicato problema della
tassazione delle rendite patrimoniali, l’ordine dei
commercialisti preferisca glissare limitandosi di fatto
allo scontato auspicio di «diminuire la forbice tra il
livello di tassazione dei redditi di derivazione
patrimoniale ed il livello medio di tassazione dei
redditi di derivazione produttiva». Sul come, e
soprattutto sul quanto, non si forniscono lumi.
Ora, fa un po’ sorridere che la ricetta per il
risanamento del fisco italiano arrivi da un comparto,
quello dei commercialisti, spesso sotto accusa
proprio per i consigli su come aggirarlo. Il problema
che viene aperto tuttavia è concreto e non più
derogabile. Con la crisi pesantissima in cui ci
troviamo, anche nella società italiana si è aggravato
il divario tra la maggior parte della popolazione che
viene tartassata e una ristretta elite di privilegiati che
si avvale dei benefici e delle scappatoie di un
sistema fiscale iniquo. Da una parte chi lavora è
sottoposto alla più elevata pressione fiscale d’Europa
(secondo i dati Eurostat nel 2008 era al 42,8%, a
fronte invece dei servizi peggiori d’Europa);
dall’altra chi gode di ricchezze mobiliari e
patrimoniali trae vantaggio anche dal gettito fiscale
altrui. L’intero discorso non può inoltre prescindere
da quello che risulta il dato di fatto più sconvolgente
della specificità italiana: una macchina politica e
una spesa pubblica senza fondo. 315 senatori e 630
deputati (gli USA ne hanno rispettivamente 100 e
445) formano il Parlamento più numeroso del mondo,
per il quale spendiamo ogni anno 247.551.240 euro a
fronte degli 82 milioni di dollari, pari a 68milioni di
euro, del Parlamento americano. La spesa pubblica
italiana nel 2009 ha sfiorato gli 800 miliardi di euro e
ha superato, in percentuale, la metà del prodotto
interno lordo. Il debito pubblico: a settembre 2010 era
a quota 1.844,817 miliardi, in aumento dal 2005 –in
soli cinque anni! – del 21,8%.
Il problema è sempre lo stesso: al di là delle cifre
complessive, in quale modo vengono spese queste
montagne di denaro? A giudicare dalla tutela del
patrimonio pubblico e dalla qualità dei servizi, non
Il commercio mondiale
si rifà il trucco.
Per imbrogliare ancora
In Occidente si spende sempre meno
e i demiurghi della globalizzazione si
concentrano sui Paesi in via di sviluppo.
Parola d’ordine: consumare,
consumare, consumare
(1/12/10) Secondo uno studio della Unctad, la
Conferenza dell’Onu sul Commercio e lo Sviluppo,
per uscire dalla crisi la ricetta è semplice: basta
aumentare i consumi e sfruttare gli investimenti
“verdi”. Con l’aiuto dei paesi emergenti e di quelli in
via di sviluppo. Ed evitando in tutti i modi le politiche
protezionistiche adottate dagli Stati per proteggere
dal collasso le loro industrie nazionali.
Ergo, ci vuole qualche ritocco alle regole già esistenti.
«In seguito alla recente crisi economica mondiale,
molti governi dei paesi sviluppati e in via di sviluppo
sono stati spinti ad utilizzare strumenti di politica
commerciale. (...) Mentre l’Organizzazione mondiale
del commercio ha lavorato efficacemente contro il
protezionismo diffuso, emanando norme che
disciplinassero il sistema multilaterale, oggi, le stesse
si rivelano inadeguate a causa della rapida
evoluzione delle realtà economiche. Sono presenti un
maggior numero di attori economici, prodotti e servizi
rispetto a quando la Wto è stata istituita. Inoltre, gli
aspetti non commerciali, come la tutela
dell’ambiente, sono molto più importanti».
È questo l’asse intorno al quale ruota lo studio della
Unctad, preparato insieme alla Japan External Trade
Organization, l’ente che promuove gli scambi e gli
investimenti tra il Giappone e il resto del mondo.
certo nell’interesse della moltitudine che paga
regolarmente le imposte. Con la classe politica che ci
ritroviamo, quindi, il pericolo è che anche di fronte ad
un riassetto costruttivo e significativo del sistema
fiscale nazionale, con tanto di recupero dell’evasione,
ci sarebbero forse solo più soldi da sprecare e da
spartire per chi amministra, non da destinare a chi è
amministrato.
Che in fondo è quello che paventa anche l’ordine dei
commercialisti nella parte introduttiva al proprio
manifesto: «In particolare, troppo spesso è stata
trasmessa nel cittadino la tutt’altro che immotivata
sensazione di una assenza, da parte
dell’amministrazione finanziaria, della consapevolezza
di avere nel cittadino il fine ultimo della propria
azione di tutela degli interessi collettivi e non invece
una controparte da colpire anche in presenza di
oggettive condizioni di incertezza».
Massimo Frattin
Sorvolando sul titolo della ricerca,“Il commercio
internazionale dopo la crisi economica”, già di per sé
illusorio e fuorviante perché farebbe pensare ad una
nuova prospettiva, l’analisi mette in evidenza un dato
di fatto, e cioè che la crisi economica e finanziaria ha
determinato una forte contrazione del commercio
mondiale. Un duro colpo per le economie e
soprattutto per quelle dei paesi che hanno basato la
propria crescita sulle esportazioni. E poichè lo
sconquasso «ha cambiato il panorama della politica
economica, rappresenta una di quelle rare occasioni
in cui potrebbe essere adottata una nuova direzione».
Ed ecco il riassetto. Che lascia inalterato il modello
complessivo ma che attribuisce ai paesi in via di
sviluppo e a quelli emergenti, la funzione trainante
del commercio internazionale, fin ora detenuta
dall’Occidente. Un’inversione di responsabilità, non di
rotta. Non si parla di riformare il modello economico,
ma di riorganizzarlo.
Anzi, tutte le misure di politica commerciale introdotte
come risposta alla crisi finanziaria, sono state
considerate niente meno che un vero toccasana, e
coerenti con le norme dell’Organizzazione del
Commercio Mondiale. Semplificando, le direttive
esposte nello studio equivalgono allo spostare
qualche giocatore qua e là, adottando uno schema
diverso. Ma senza cambiare gioco. L’Unctad, il cui
Segretario generale è Supachai Panitchpakdi, ex
direttore della Wto, indica anche le opportunità da
sfruttare per “risanare” il commercio internazionale e
le economie mondiali.
Bisognerà investire nei «beni ambientali e nelle
tecnologie “verdi» ed «adattare l’agenda
internazionale del commercio alle esigenze ed alle
aspettative del settore privato». Solo in questo modo
potrebbe essere contrastata la diminuzione degli
scambi commerciali, considerata tra le cause
gennaio 2011
principali dell’aggravarsi della recessione. Con
l’aggiunta di un’altra raccomandazione: impegnarsi
a raggiungere un accordo definitivo sul Doha Round,
il ciclo di negoziati della Wto che hanno avuto inizio
nel 2001 con l’obiettivo di eliminare le barriere
commerciali di tutto il mondo ma che sono bloccati
dal 2008 per divergenze su questioni importanti,
come l’agricoltura. Stati Uniti ed Europa, ad esempio,
non hanno intenzione di rinunciare ai sussidi agricoli
in quanto rischierebbero il crollo del settore, già in
crisi proprio a causa della concorrenza spietata dei
paesi emergenti, come la Cina.
Sia la Conferenza Onu sul Commercio e lo Sviluppo,
sia l’Organizzazione del Commercio Mondiale, non
danno l’impressione di preoccuparsene. Entrambe
Padri e figli contro.
Non volendo
(1/12/10) Le immagini provenienti dalle
manifestazioni degli studenti di ieri, da Roma, da
tante città d'Italia e anche dal resto d'Europa (per
esempio dalla Gran Bretagna) sono emblematiche
per almeno due punti di vista. Dovremmo averle viste
tutti nei telegiornali della sera, e il caso italiano, tanto
per cambiare, ha l'ulteriore aggravante delle parole
del Presidente del Consiglio: "Gli studenti seri sono a
casa a studiare".
Inutile commentare come Berlusconi si copra di
ridicolo ogni volta in cui pronuncia frasi del genere.
È come se fosse del tutto alienato dalla realtà, come
se vivesse in un mondo tutto suo. Non sente le urla
della gente quando attraversa le città, per esempio
Napoli, dall'interno delle automobili blindate, tra
scorte della polizia attraverso ali di folla che
inveiscono. Non sente, o non vuole sentire, che circa
l'80% della popolazione italiana o lo osta attivamente
o semplicemente ignora ogni sua uscita o
comportamento.
Non sente, non avverte, non legge, non si accorge - o
fa finta - di essere lo zimbello del mondo intero e della
stampa di ogni Paese. Un marziano sulla terra, che
però è al posto giusto (visto che il suo governo è stato
votato da ben oltre la metà degli elettori, che in ogni
caso non rappresenta che il 20-30% del Paese) per
contribuire attivamente a sprofondare l'Italia nel
baratro.
Ma torniamo alle immagini e come detto al carattere
emblematico delle stesse. Ci riferiamo in particolare
ai mezzi delle forze dell'ordine piazzati nelle strade
attorno al Parlamento per sbarrare la strada alla
manifestazione degli studenti. Queste immagini
hanno un significato anche simbolico, oltre che
pratico, davvero particolare.
Rappresentano una cittadella, nelle cui stanze si
discutono e votano riforme del tutto impopolari,
assediata - ora da una categoria, ora da un'altra: ieri
dagli studenti - che si arrocca in sicurezza,
sembrano spingere affinché l’Occidente ceda lo
scettro a paesi come la Cina e l’India. Entrambe
considerano di vitale importanza per la
sopravvivenza di questo modello economico, che la
domanda per beni e servizi riprenda a crescere. La
crisi ha paralizzato i consumi nel Nord del mondo. E
loro, per ovviare al problema, consigliano di
incrementare il commercio con i paesi emergenti ed
in via di sviluppo, dove la domanda è in espansione,
e nel contempo raccomandano questi ultimi di
adottare delle politiche economiche che aumentino
il loro potere di acquisto. Come si dice: “cambiando
l’ordine degli addendi, il risultato non cambia”.
Pamela Chiodi
blindandosi, per poter continuare a svolgere un
lavoro che all'Italia non piace.
Loro dentro, blindati e protetti dalle forze dell'ordine, a
fare affari dei quali il popolo non ne può più, e le forze
dell'ordine a proteggere il tutto mentre fuori la massa
spinge per entrare e far sentire le proprie ragioni.
La via democratica, attraverso il voto, è quella giusta,
si dirà.Vero. E in questo una grandissima
responsabilità la hanno tutti quelli che hanno votato
per questo governo, così come tutti quelli che hanno
votato per altri partiti e coalizioni di una compagine
nei fatti uguale in tutto l'arco Parlamentare: votando
anche l'opposto di Berlusconi si è dato appoggio, di
fatto, al sistema delle oligarchie che si
autoproteggono presenti in Parlamento. Ciò non
toglie che la voce del popolo vada ascoltata, e che
siano proprio o politici a doverlo fare. Chiudendosi lì
dentro, quasi in stato d'assedio, e dando ordine, in
pratica, di depotenziare e silenziare qualsiasi voce
contraria a quanto stanno facendo, è evidente, si
percepisce benissimo lo scollamento, che a questo
punto, e giustamente, può tranquillamente sfociare in
atti anche violenti, tra "loro" e il resto.
Non solo. L'altro aspetto emblematico, e
probabilmente peggiore, è che, sempre mentre lì
dentro si consumano atti che il popolo non vuole, ai
fini dello stato sociale, della sanità, della previdenza,
dell'istruzione e del resto, a fronteggiarsi nelle strade
sono cittadini dello stesso tipo.
Da una parte e dall'altra, ovvero nei cortei ma nelle
forze di polizia impegnate a rispettare gli ordini, ci
sono le stesse persone.
Molto probabilmente, ieri, a Roma, da una parte, in
divisa, con il manganello in mano, vi erano padri di
molti ragazzi che stavano invece manifestando
dall'altra parte.
Opposti dai ruoli e dalla situazione. Ma accomunati,
tutti, nelle strade, a fronteggiare una contingenza di
fatto creata da chi era al caldo delle istituzioni che, a
questo punto, non si capisce più quale Stato
rappresentino.
Valerio Lo Monaco
MONICELLI,
più vitale di molti viventi
Solo la nostra classe politica poteva avventarsi
sul suicidio del grande regista per cercare
di strumentalizzarlo in un senso o nell’altro.
Dimostrando di non aver capito niente
(2/12/10) Da toscano purosangue, il monticiano
d’adozione, anche da morto riesce a far incazzare
quelli che gli stavano sulle palle e farli parlare a
vanvera, regalandoci ancora amare risate sulle
meschinità di questo paese. Regalandoci, perché lo
spettacolo va in scena alla Camera e non al cinema:
nessun biglietto da pagare, solo alti stipendi che sono
un insulto a un’Italia allo stremo. Che, però, finché
questi parlamentari li paga, eleggendoli e
rieleggendoli, si merita ogni insulto che riceve.
Esistesse l’aldilà della Binetti, Monicelli, se la starebbe
ridendo alla grande. Noi, che siamo vivi, invece
ridiamo meno del vergognoso spettacolo bipartisan
dato dai deputati, visto che fra i “dolce morte” e i “pro
vita” il ridicolo e l’arroganza sono equamente
condivisi. Sì, anche i “dolce morte” condividono
l’arroganza dei “pro vita”, perché la radicale-PD Rita
Bernardini ha dimostrato di non aver capito nulla di
Monicelli e del suo gesto virile, pronunciando questa
dichiarazione: «Quest'Aula dovrebbe riflettere su
come alcune persone che non ce la fanno ad
andare avanti sono costrette a lasciare la vita invece
di morire vicino ai propri cari con la dolce morte».
Costretto…? Niente e nessuno avrebbero mai potuto
convincere Monicelli a fare alcunché: il suo è stato un
“estremo scatto di volontà”*. La volontà di un Uomo
che ha sempre fatto della sua autonomia
intellettuale, e fisica, una bandiera, che mai avrebbe
potuto accettare la “dolce morte”, magari in salsa
fazista, che ha agito scientemente finché era in
tempo: anche fosse stata possibile l’eutanasia, mai si
sarebbe lasciato strascinare fino al momento in cui la
morte avrebbe dovuto essergli pietosamente
concessa da altri. Piaccia o no alla Bernardini esiste
gente che, alla “dolce morte”, preferisce un dignitoso
suicidio, essendo convinta che, fino a quando una
persona è in possesso delle sue facoltà fisiche e
mentali, non c’è bisogno di alcuna eutanasia: c’è il
suicidio, come ai tempi in cui Roma era “Antica”.
In effetti il nostro viareggino è morto come un
gennaio 2011
Le onde assassine
di Radio Vaticana
Romano Antico, di quelli che non ce ne sono più, ma
del resto già dai tempi dell’Impero erano i soprattutto
i “provinciali” a comportarsi da Romani. Il messaggio
che i “dolce morte” dovrebbero cogliere nel gesto di
Monicelli è che, per alcuni, il suicidio è una scelta e
che chi può farla finita da solo, prima di diventare un
groviglio di tubi, lo fa, e questo non è costrizione ma è
volontà. Che arroganti, questi “suicidi”: ritengono che
ci sia qualcosa che non va in chi chiede ad altri di
fare ciò che lui non riesce a fare; ritengono che siano
persone che non vogliono realmente morire, oppure
sono dei vili. Un genere di individui dai quali
comunque, col suicidio, ci si vuole distinguere.
Questo naturalmente vale solo per chi è in grado di
porre fine in autonomia alla sua vita, come Monicelli
ha avuto il tempo di fare, ad onta della sua età. Se
ciò non è possibile ben venga allora la “dolce morte”,
se mai può essere dolce la morte, della Bernardini. Più
della Bernardini, infatti, avrebbe sollazzato il Monicelli
la solita Binetti con le sue ringhiose, presuntuose,
dichiarazioni: «Basta, per piacere, con spot a favore
dell'eutanasia partendo da episodi di uomini
disperati, perché Monicelli era stato lasciato solo da
famiglia e amici ed il suo è un gesto tremendo di
solitudine non di libertà».
Come si permette di asserire che fosse un uomo
disperato? Certo la malattia non lasciava speranza,
ma è stato, come ogni atto della vita regista, un
“gesto di libertà”, non certo di solitudine. Se Monicelli
era solo, lo era proprio perché lui rifiutava di essere un
vecchio da compatire: anche ammettendo la
solitudine pretesa dalla Binetti, è da pensare che
fosse perché è stato lui ad allentare i legami con
famiglia e amici, proprio perché troppo uomo per
accettare di essere compatito e influenzato nelle
scelte definitive.
Questo a meno che la Binetti non provi di essere così
intima della famiglia Monicelli e di avere informazioni
Wikileaks che a tutti noi infedeli mancano.
È però vero che non è stato uno spot favore
dell’eutanasia. Se ne fregava lui di chi subisce gli
spot: è stato solo il gesto di un uomo convinto,
giustamente, che la sua vita appartenesse a lui e solo
a lui, non alla Binetti o al suo dio. A questo poi ha
aggiunto un antifazista corollario di virile coerenza: il
non chiedere, anzi rifiutare, quelle messe a suffragio
che tanto piacciono ai fazisti, ottenendo invece le
campane di rispetto rionale e umano di un parroco,
Don Francesco, molto più vicino al suo Cristo di
quanti pretendono di rappresentarlo e imporlo, per
colpa soprattutto nostra, in parlamento.
Il geniaccio versiliese se ne fregherebbe anche di
questo spreco di lettere. Non ne ha bisogno: ha già
risposto, nella sua ultima intervista**, alle parole,
queste sì da spot, di Enrico La Loggia, «Suicidio mai,
mai. Sempre la vita e la speranza», con il memorabile:
«la speranza di cui parlate è una trappola, una brutta
parola, non si deve usare. La speranza è una trappola
inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli
che ti dicono che dio… state buoni, state zitti, pregate
che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa
nell’aldilà. Intanto, perciò, adesso, state buoni: ci sarà
un aldilà. Così dice questo: state buoni, tornate a
casa. Sì siete dei precari, ma tanto fra 2 o 3 mesi vi
riassumiamo ancora, vi daremo il posto. State buoni,
andate a casa e… stanno tutti buoni. Mai avere
speranza! La speranza è una trappola, una cosa
infame inventata da chi comanda».
Dovremmo imparare dal regista-sceneggiatore a
rinunciare a questa speranza e a riprenderci il futuro,
strappandolo in primis a chi sostiene
che sarà lui a “farlo”.
Seguendo la ricetta, forse suicida e non certo da
“dolce morte”, che ci indica il regista allo scopo di
realizzare «quello che in Italia non c’è mai stato: una
bella botta, una rivoluzione che non c’è mai stata in
Italia. C’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è
stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto,
meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che
riscatti veramente questo popolo che è sempre stato
sottoposto. Sono 300 ani che è schiavo di tutti e,
quindi, se vuole riscattarsi…il riscatto non è una cosa
semplice: è doloroso, esige anche dei sacrifici, sennò
vadano in malora, come già stiamo andando da tre
generazioni». Ma ci vuole coraggio a tuffarsi in questa
soluzione.
Quindi meglio rifugiarsi nella dolce morte o nella non
vita a oltranza e andare alla malora.
*Per usare le giuste parole di Giorgio Napolitano
(3/12/10) Finalmente conclusa la perizia avviata
quattro anni fa. Con un responso tanto inquietante
quanto preciso: per chi vive nel raggio di 12
chilometri il rischio di leucemia risulta 5 volte
superiore alla norma Si è concluso l'incidente
probatorio richiesto nel 2006 dalla Procura della
Repubblica di Roma riguardante il procedimento
penale nei confronti dei responsabili di Radio
Vaticana. Una perizia durata più di quattro anni ha
dimostrato «un’associazione coerente, importante e
significativa» del rischio di morte per leucemia,
linfoma e mieloma alla lunga esposizione residenziale
in prossimità delle antenne dell’emittente della Santa
Sede. Da una analisi dei decessi relativi ad ogni
fascia di età avvenuti dal 1997 al 2003 per le stesse
patologie, esaminando i 20 anni di storia abitativa
antecedenti la data della morte si sono ottenuti
risultati scioccanti: il fattore di rischio di morte per
leucemia per chi vive fino a 12 chilometri dalla Radio
Vaticana è di 4,9 volte superiore al valore atteso; un
rischio che si traduce in circa 3 casi stimati di morte
per esposizione residenziale alle onde
elettromagnetiche per ciascuno degli anni di studio.
È questo il responso della perizia epidemiologica
condotta dal dott. Andrea Micheli della Fondazione
IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano,
consulente tecnico d’ufficio del giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Roma, Zaira
Secchi. Dichiarato concluso l’incidente probatorio
richiesto nel 2006 dalla Procura della Repubblica di
Roma nell’ambito del procedimento penale indiziario
in corso nei confronti dei responsabili della Radio
Vaticana, il giudice Secchi ha rimesso gli atti della
perizia a Stefano Pesci, sostituto Procuratore della
Repubblica, il quale istituirà il processo penale
formale. Ora, gli incredibili risultati della perizia
scientifica “Marconi” e l’evidenza dei danni alla salute
causati dalle antenne della Radio fanno ben sperare
i cittadini della zona interessata, a nord di Roma,
dopo anni spesi chiedendo che le antenne assassine
dell’emittente vaticana venissero rimosse o sostituite.
Oltre alle numerose proteste nei suoi confronti alle
quali si è potuto assistere negli scorsi anni, alla luce di
questi nuovi studi il Coordinamento dei Comitati di
Roma Nord si è organizzato ed ha fatto alle autorità
nazionali e locali quattro richieste fondamentali: 1.
l'immediata sospensione delle trasmissioni della
Radio Vaticana e la sua delocalizzazione in un luogo
in cui non possa accrescere il rischio di morte e di
malattie per gli esseri umani, oppure l'abbandono
totale di questa obsoleta tecnologia in favore della
diffusione satellitare dei propri programmi radiofonici;
2. l'immediato blocco del rilascio di concessioni
edilizie nel territorio oggetto di indagine; 3. l'istituzione
nello stesso territorio di un controllo sanitario pubblico
specifico di diagnosi delle patologie in esame,
attraverso cui indirizzare urgentemente gli ammalati
nei centri clinici specializzati per la cura; 4. l'istituzione
di un registro dei tumori nel territorio oggetto
dell'indagine epidemiologica.
Dopo dieci anni dall'inizio della vicenda penale,
quindi, i dati a disposizione sugli effetti delle famose
antenne a nord di Roma sono ancora più inquietanti.
E ora si attende il processo finale. È vero che per un
cittadino italiano comune in questo momento è ben
difficile credere che giustizia possa essere fatta, o che
la legge sia uguale per tutti, ma i risultati della perizia
dello Studio Marconi parlando da soli.
E se anche questi non dovessero bastare, rimangono
particolarmente rilevanti ed esplicite le dichiarazioni
fatte dal perito del Tribunale, il quale ha affermato:
«L'eccesso di rischio è clamorosamente alto. [...]
L'effetto è molto importante e non può essere dovuto
al caso. [...] Non si può non pensare che lì sia
successo qualcosa di importante per la vita di quelle
persone, che non è spiegabile con altra causa che
non siano le emissioni della Radio Vaticana. [...] I
risultati hanno a che fare con la dislocazione in cui
queste persone hanno abitato nella loro vita e questi
bambini hanno abitato nel loro periodo di vita. [...]
Livelli così elevati di rischio si riscontrano, nella
letteratura scientifica, soltanto negli studi
epidemiologici relativi alle zone che hanno subito gli
effetti dell'esplosione di una bomba atomica».
Andrea Bertaglio
Ferdinando Menconi
gennaio 2011
Viva gli studenti in lotta.
Purché vadano oltre
TAV: ma ci serve davvero?
Anni fa la questione si impose
all’attenzione dei media a causa
delle proteste in Val di Susa.
Poi, a poco a poco, i riflettori si sono
spenti, lasciando tutto in stand-by
Essere contro la Riforma Gelmini
dovrebbe significare essere contro una
concezione aziendalistica non solo
della scuola ma dell’intero tessuto
sociale. Ergo, non bisogna fermarsi
alle proteste di questi giorni
(3/12/10) «Ci vorrebbe un’altra rivoluzione. Ma chi
potrebbe farla? Mi dispiace, ma nei giovani di oggi
non ho alcuna fiducia. Sono degli imbelli, non amano
combattere e tanto meno rischiare, sono pronti a
qualsiasi bassezza purché serva a conservare i loro
miserabili privilegi». La citazione cade a fagiolo, in
questi giorni di sommosse studentesche. È di Mario
Monicelli, che vogliamo ancora una volta ricordare
citando questo passaggio dal suo intervento sulla
rivista Micromega dello scorso settembre. Il
disincanto del vecchio rivoluzionario bocciava la
generazione dei venti-trentenni di oggi come un
gregge di imboscati senza attributi. I ragazzi nelle
piazze di tutta Italia non potevano rendergli tributo
migliore, smentendolo anche se solo in parte, e
certamente non quanto e come avrebbe voluto lui. E
come vorremmo noi.
Gli universitari hanno scosso il paese, costringendo il
potere romano ad asserragliarsi nel cuore della
capitale militarizzato in fortino. È la collaudata tecnica
della “zona rossa” in stato d’assedio, che ipso facto
criminalizza la protesta come fosse uno sfogo di
pancia di una minoranza di facinorosi. I consueti
serpentoni urlanti nelle vie delle città, i blocchi delle
stazioni ferroviarie, le facoltà occupate, il dilagare
della contestazione anti-Gelmini negli istituti superiori
hanno delineato il consueto quadro della rivolta
giovanile che ogni riforma dell’università o della
scuola si cucca facendo blaterare gli opinionisti col
pilota automatico di un “nuovo ‘68” - un ’68 che non
passa mai perché divenuto un mito tanto evocativo
quanto privo d’efficacia.
Tuttavia non sarebbe giusto liquidare i moti di piazza
come l’ennesima, inconcludente riedizione della
voglia di far casino tipica dell’età. È genuina
l’energia sprigionata dai giovani docenti precari sui
tetti delle università e dei monumenti, così come la
determinazione delle folle giovanili rivoltatesi senza
centrali partitiche a manovrarli (gli juniores del Pd,
delle formazioni di estrema sinistra o di estrema
destra sono l’avanguardia spontaneista di partiti che
non hanno più una presa ideologica profonda). Ma è
soprattutto un insorgere che ha dimostrato come i
ragazzi del 2010, quando ci si mettono, il dissenso lo
sanno manifestare eccome. Con un’organizzazione
che, per essere priva di apparati e professionisti della
jacquerie com’erano un tempo le forze
extraparlamentari, è da ammirare. E rischiando
denunce, botte e il risentimento di lavoratori,
pendolari e pedoni vari che appena si trovano
davanti una strada chiusa o un treno in ritardo causa
manifestazione, non si pongono il problema di
capirne le ragioni ma si offendono, aggrediti a morte
nel proprio tran tran quotidiano.
Gli smanettoni di facebook hanno riscoperto il
piacere e il dovere della realtà. Hanno dimostrato di
non essere quegli “imbelli” senza possibilità di
redenzione di cui parlava con disgusto Monicelli.
Eppure il savio incazzato continua ad avere ragione.
Perché una mobilitazione, seppur lodevole ma
limitata al campo settoriale degli studi, mette
sottosopra un paese per una settimana o per un
mese ma non cambia le condizioni del suo giogo
che comprende l’aziendalizzazione dell’università ma
non si esaurisce in essa. Questa riforma è uno dei
tentacoli di quel mostro che è la privatizzazione delle
nostre vite, razionalizzate, precarizzate e meccanizzate
a maggior gloria del dio mercato e dell’efficientismo
industriale. E allora la rivolta di questi giorni ci pare sì
bella, ma perduta: bella perché viva e portatrice di
nuova linfa, perduta perché destinata a perdere lo
scontro vero. Che non si riduce a questo o a quel
settore della società, ma la investe tutta per intero.
È il “perché” del modello complessivo di ordine
sociale, che i giovani non mettono in dubbio. Non è la
Gelmini, il problema: è, se vogliamo dirla alla Marx, la
struttura di un’Italia occidentale, tecnocratica e turboliberista, di cui le Gelmini sono un sottoprodotto. È
assente, come sempre, una critica ragionata e ad
ampio raggio di tutto quanto l’edificio. Gli attuali
contestatori, invece, si contentano di mettere a
soqquadro per un po’ una singola stanza. I
sessantottini s’ispiravano, a torto o a ragione, a
Marcuse e ad Adorno. Oggi è il deserto. Guai a chi
alberga deserti dentro di sé, diceva Nietzsche. Pur se
tornando finalmente in strada.
Alessio Mannino
(3/12/10) TAV è una sigla ormai famigliare anche al
grosso pubblico, ma siccome è molto che non se ne
parla può essere utile ricordare di cosa si tratta
esattamente. Essa, infatti, identifica la società privata
facente capo alla Ferrovie dello Stato S.p.A. con il
compito di pianificare, progettare e costruire linee
ferroviarie “ad alta velocità e alta capacità”, da
installare in alcune aree del territorio italiano.Tra le
altre, la più nota è quella che va da Lione all’Ucraina
e che dovrebbe tagliare orizzontalmente il nord Italia
garantendo, nelle parole dei progettisti e dell’Unione
Europea (che la sponsorizza), un collegamento
finalmente funzionale ed efficiente nel trasporto delle
merci e delle persone, ma soprattutto delle merci, sia
in ambito comunitario che verso i mercati dell’est.
Com’è noto, della TAV si è discusso molto al tempo
delle proteste che i lavori relativi a una sua specifica
tratta, la Lione-Torino, suscitarono tra le popolazioni
della Val di Susa. Proteste che in alcune circostanze si
sono tramutate in veri e propri tumulti. Come a
Venaus, nel dicembre 2005, quando la polizia
sgomberò violentemente il presidio dei cittadini che
avevano occupato le aree del cantiere, suscitando
poi un’ulteriore manifestazione nei giorni successivi,
durante la quale ci furono nuovi incidenti. Ne seguì
un’indagine della magistratura, con il conseguente
sequestro dei cantieri, e da allora il governo promette
consultazioni con i movimenti e i sindaci che si
oppongono all’operazione. In realtà, però, il confronto
non è mai partito.
A capo della commissione creata ad hoc è stato
messo Mario Virano, prontamente contestato in
quanto coinvolto in alcune delle società appaltatrici
dei lavori. Da quel momento il dissidio è entrato in
una fase diversa. Assumendo un aspetto che si
potrebbe definire carsico. I lavori rimangono come
una spada di Damocle sulla testa dei cittadini della
zona, fra i quali, come riportato da una recentissima
inchiesta de “La Stampa”, le divisioni tra favorevoli e
contrari permangono, in proporzioni e con modalità
diverse.
Ed è così che anche in Val di Susa accade ciò che è
accaduto in altri territori quando si è profilata l’ipotesi
di questa o quella “grande opera”.Viene in mente la
storia del Vajont, raccontata così bene da Marco
Paolini, con i cittadini prima preoccupati, poi
organizzati, poi divisi e infine “comprati”, in parte, dai
grandi interessi, attraverso un’opera di corruzione
assidua e strisciante. In Val di Susa al momento i vari
comitati restano sul chi vive, e i loro componenti
vivono la militanza con la passione di chi è convinto
che l’opera progettata sia inutile, dannosa sotto una
miriade di aspetti e per di più costosissima. In breve,
la solita “italianata” a base di soldi pubblici distribuiti
alle cricche e agli amici degli amici, alla faccia della
reale utilità e della salute pubblica. Di contro, esiste
anche un fronte tutt’altro che irrilevante di persone
favorevoli. La cui presenza è molto meno evidente,
perché preferiscono esprimere la propria posizione
con moderazione o con il silenzio: i pochi che si
espongono lo fanno con timore, perché il confronto
tra gli opposti schieramenti ha già assunto i toni della
battaglia in passato, e non è semplice muoversi e
vivere in un contesto di contrapposizioni così radicali.
Ripartiamo dalla domanda fondamentale, quindi: la
TAV è davvero utile? Al di là dei dati controversi sulla
possibile ricaduta occupazionale, sullo
sconvolgimento ambientale e sui possibili danni alla
salute dei cittadini, il problema sembra stare nelle
premesse. La “vecchia” linea ferroviaria risulta
utilizzata al 30% della sua reale capacità, e la
direttrice autostradale parallela lo è per meno del
50%. Perché mai, allora, bisognerebbe aggiungere
una nuova infrastruttura? In nome di una crescita
futura, rispondono i sostenitori della TAV. Peccato che
quelle previsioni siano sballate in due sensi: primo,
non tengono conto della crisi, benché sia sempre più
chiaro che essa non è affatto transitoria ma
strutturale; secondo, si basano sull’idea della crescita
infinita, per cui ad ogni punto di PIL si genererebbe
una crescita aggiuntiva dei volumi di traffico pari
all’1,4 per cento.
Proprio il già citato Virano, d’altronde, è appena
incappato in una gaffe involontaria. Annunciando la
diffusione imminente di nuovi dati di previsione
elaborati alla luce della crisi, ha citato come esempio
la linea ad alta velocità Madrid-Bacellona, realizzata
comunque anche se a fronte di previsioni negative. «Il
governo», racconta Virano, «decise comunque di
procedere alla realizzazione, ritenendo prevalente
l’interesse nazionale di connessione socio-territoriale».
E infatti, viene da dire, ora la Spagna va a gonfie vele.
Davide Stasi
gennaio 2011
No sponsor, no money.
No restauri
(6/12/10) Il sindaco di Roma ne era sicuro: i 25
milioni per i lavori straordinari al Colosseo li avrebbe
tirati fuori un pool di aziende internazionali. Ma le
cose sono andate in tutt’altro modo
di Sara Santolini
La previsione di Gianni Alemanno alla fine si è rivelata
sbagliata. Gi sponsor per il restauro del Colosseo,
Patrimonio dell’Umanità Unesco e inserito tra le Sette
meraviglie del mondo moderno*, non ci sono. Meglio,
ne è rimasto solo uno possibile – e disponibile – che
non ha nemmeno partecipato al bando relativo ma
ha mostrato il suo interesse con una semplice lettera
di intenti: il gruppo Tod's.
Era aprile quando Alemanno annunciava la volontà
di numerose aziende giapponesi di unirsi in una
cordata imprenditoriale, con a capo, appunto, Diego
Della Valle**, per il restauro che si prevede costerà 25
milioni di euro. La gara relativa, bandita il 4 agosto e
conclusasi il 31 ottobre, si è rivelata invece un flop
clamoroso.Tra i concorrenti c’era il gruppo Samsung,
la multinazionale sudcoreana che produce
elettronica di consumo dai cellulari ai condizionatori
d’aria. Evidentemente per la Sovrintendenza non
aveva le carte in regola per sponsorizzare questa
impresa. Proprio come tutti gli altri partecipanti al
bando: un altro giapponese, due inglesi, due
statunitensi e nove italiani.Tra loro, a sorpresa, non
figurava il nome di Rupert Murdoch, il titolare di Sky
che inizialmente sembrava interessato all’affare.
Nessuna cordata, comunque.Tra tutti questi nomi,
inoltre, non è stato scelto nessuno. La motivazione,
stando alle parole di Roberto Cecchi, segretario
generale del ministero dei Beni culturali, è che «Le
offerte pervenute si configurano come non
appropriate.
Da questo momento l'amministrazione porterà avanti
una fase di procedura negoziata». In parole povere,
cercherà di capire se la lettera d’intenti del gruppo
Il nucleare italiano
e il “pacco” francese
(7/12/10) Si chiamano EDF e Areva, e sono le
aziende transalpine che fanno da perno ai progetti
atomici di Berlusconi. Peccato che, secondo il
Financial Times, siano entrambe in crisi
Il programma nucleare italiano traballa
pericolosamente. Risente, ed è inevitabile, del
terremoto che scuote il governo che l’ha elaborato e
proposto. Qualunque cosa venga dopo, la caduta di
Berlusconi e dei suoi comporterebbe uno stop netto e
probabilmente fatale ai piani di reintroduzione
dell’atomo nel nostro paese. Il nuovo esecutivo dovrà
fronteggiare la crisi economica e la speculazione
Tod’s possa trasformarsi in una offerta.
Ma non è finita. Secondo l'avviso di gara, messo a
punto dagli uffici del commissario per l'area
archeologica centrale di Roma, i lavori dovrebbero
essere effettuati da una società di restauro sotto il
controllo della Soprintendenza. Il bando prevede però
studi di fattibilità, cantiere a norma, cronoprogramma
con eventuali penali in caso di mancata consegna, e
sicurezza a carico dello sponsor. Il tutto senza
chiudere la porta ai visitatori nemmeno un giorno: la
Soprintendenza Archeologica non può infatti
permettersi di perdere le entrate che le assicura lo
sbigliettamento per l’entrata al monumento romano.
Tutto questo renderebbe l’impresa ardua per Diego
Della Valle, che potrebbe tirarsi indietro.
Così probabilmente il Colosseo rimarrà senza
sponsor, e senza restauro. Il che è ovviamente
pericoloso, visto che si tratta di un monumento
all’aperto e che già a Pompei abbiamo modo di
toccare con mano quali siano le conseguenze
dell’incuria e della mancata manutenzione. Questa
vicenda, inoltre, apre un’altra serie di problematiche.
Fino a pochi mesi fa lo stesso Bondi salutava questa
sponsorizzazione come l’esempio che avrebbero
dovuto seguire tutte le Sovrintendenze italiane allo
scopo di restaurare il patrimonio culturale in maniera
veloce ed efficiente, come se la gestione privata fosse
necessariamente dotata di queste qualità. Adesso,
che il primo tentativo sembra votato al fallimento, una
riflessione è d’obbligo.
Al di là dell’inquietudine che può provocare la
presenza di annunci pubblicitari appiccicati qua e là
sulle facciate dei nostri monumenti – perché
sostanzialmente questo ha in cambio uno sponsor – il
gioco evidentemente non vale la candela. Perché
l’amministrazione pubblica non può fare affidamento
su uno sponsor privato, che alla fine potrebbe anche
non esserci, per dei lavori che non sono solo delicati
ma assolutamente indispensabili.
Sara Santolini
finanziaria, quindi è probabile che il capitolo
nucleare, nonostante i potenti interessi sottesi, dovrà
essere accantonato, fino a una chiusura in sordina. Se
il programma dovesse proseguire il suo percorso,
però, è bene chiarire a cosa andremmo incontro
esaminando, alla luce degli ultimi dati, la partnership
stabilita a questo scopo con la Francia e i suoi colossi
nucleari.
A parlarne è il Financial Times, che ha fatto il punto
della situazione su EDF (Electricité de France), società
elettrica di gestione di impianti nucleari, e su Areva, la
principale società privata francese di progettazione e
costruzione di reattori e centrali nucleari. I due perni
dell’accordo nucleare Italia-Francia. Del primo, EDF, e
dei suoi tracolli, abbiamo già parlato poco
tempo fa (qui). La sua leadership mondiale nella
gestione delle centrali nucleari si sta sbriciolando
irreversibilmente, a partire dalla patria dell’energia
atomica: gli USA. Ora il quotidiano inglese dirige i
riflettori anche su Areva, il cui prodotto di punta, lo
“European Pressurized Water Reactor” (EPR), viene
spacciato come il più efficiente, sicuro, in grado di
resistere anche all’impatto con un aeroplano, e
sofisticato.
Di fatto esistono solo due EPR in costruzione al
mondo, uno in Francia e uno in Finlandia.
Quest’ultimo è diventato una via crucis: problemi
legati alla regolarità del progetto e della costruzione
hanno comportato un aumento non previsto dei costi
di 2,7 miliardi di euro. La prima conseguenza è stata
l’abbandono della joint venture da parte di Siemens.
Una pietra tombale su future possibili cooperazioni
con Areva, intanto rimasta col cerino in mano tra le
nevi finlandesi di Okiluoto.
Ma anche la competizione internazionale non va
affatto bene: Abu Dhabi ha scelto reattori meno
costosi di quelli Areva, prodotti in Corea del Sud.
La Cina sta spostando le proprie preferenze verso
l’americana Westinghouse, mentre l’India sembra non
voler pagare minimi e opinabili livelli di sicurezza in
più da pagare a fronte di sovrapprezzi enormi.
Sono questi fiaschi diffusi, secondo il Financial Times,
ma anche secondo le rilevazioni del governo
francese, a rendere necessaria una ricapitalizzazione
di Areva per due miliardi di euro. Condizione
essenziale se si vuole che resti sul mercato. I pochi
investitori esteri disponibili, però, sono interessati solo
ad alcune sue specifiche divisioni, ad esempio quella
che si occupa dell’estrazione dell’uranio, mentre tutti
escludono di voler finanziare il comparto aziendale
Poveri noi,
schiavi dell’automobile
Tutti a inorridire per la strage di ciclisti
di domenica scorsa in Calabria.
Nessuno che punti il dito sulla follia
di questo modello di vita
e di trasporto, frenetico e costoso
(7/12/10) Qualche volta è utile leggere oltre la
cronaca, perché se da un lato la maggior parte delle
notizie di omicidi e morti di vario tipo riempiono
quotidiani e telegiornali per il solo motivo di fare
audience (il che porta già di per sé a un giudizio
sulla natura del pubblico) accade però che certi
eventi abbiano la capacità di innescare delle
riflessioni, spesso amare, sulla società nel suo
complesso.
Quella dei ciclisti nei pressi di Lamezia Terme di
domenica è stata una strage in piena regola. Mero
incidente stradale, si sarebbe portati a pensare, come
per la costruzione di centrali e reattori.
La situazione poi non è semplice nemmeno sul fronte
interno.Tra i vari colossi francesi del settore, tutti in
diversa misura partecipati dallo Stato, c’è una
competizione spesso tendente a sfociare in scontro,
anche per l’esistenza di conflitti di interesse e interessi
sovrapposti. Secondo Anne Lauvergeon,
amministratore delegato di Areva, ad esempio, EDF,
pur possedendo azioni di Areva, non dovrebbe sedere
nel consiglio d’amministrazione.
Si tratta di una sovrapposizione che tiene lontani
eventuali clienti che altrove e in altri ambiti sono in
competizione con EDF. Dal suo canto EDF gestisce il
95% del mercato interno dell’elettricità, un “tesoretto”
che intende preservare con giustificata attenzione,
senza coinvolgere altri soggetti. «Rivalità tra cugini»,
così il Financial Times definisce il contesto.
Il tutto avviene mentre la domanda sul fronte
industriale nucleare è in calo inesorabile da anni,
quanto meno in Europa e in America.
Si parlava anni fa di “rinascimento nucleare”, subito
abortito con il crollo del prezzo del gas e il
prolungamento per legge del tempo di sfruttamento
dei reattori già attivi. Da quel momento la domanda
per le nuove centrali è crollata. Negli USA, l’unico
impianto ancora in costruzione è stato iniziata nel
1973, e sarà pronto, forse, nel 2012. Ed è in questo
contesto che l’Italia di Berlusconi ha stretto accordi
per la costruzione sul nostro territorio di quattro
centrali nucleari EPR della Areva. Quelle che il mondo
sta rifiutando. Una ragione in più per sperare che il
governo cada, trascinando con sé il suo progetto
nucleare.
Davide Stasi
ne accadono molti sulle strade. I dettagli sono su
ogni quotidiano. Ma superare lo sgomento della
cronaca, la morte di sette persone che avevano
deciso di passare la domenica all'aria aperta, senza
inquinare né dare fastidio ad alcuno (silenziosi,
passeggiavano in bicicletta senza dissacrare nulla, in
nessun modo, dell'ambiente circostante) tanto che
solo un sorpasso azzardato poteva comportare una
strage del genere, può servire ancora una volta,
purtroppo, a mettere a fuoco il dato di fondo: ma in
che mondo stiamo vivendo?
E attenzione, non importa, non ora, non qui, il fatto che
il conducente del veicolo che ha disintegrato i ciclisti
come birilli sia uno "straniero", patente o meno, droga
o meno. Gli incidenti stradali accadono. Il mondo
attuale, che privilegia la velocità e le automobili
rispetto a mezzi e stili di vita più vicini a quelli naturali
dell'uomo, ci porta a eventi del genere praticamente
ogni giorno. Ce ne accorgiamo dai resoconti dei
media. Ce ne accorgiamo semplicemente girando
per le nostre città, dove la guerra per il centimetro
gennaio 2011
Ah, la stabilità.
Questo bene supremo
Da un lato Berlusconi che si lamenta
che lo vogliano «fare fuori». Dall’altro
i suoi molti oppositori. Ad accomunarli,
la stessa mistificazione: basta un
governo stabile, per uscire dalla crisi
in più è affare quotidiano. Dove improbabili
quarantenni si inventano scooteristi, senza aver mai
messo il sedere su qualsiasi mezzo a due ruote,
perché con l'automobile non ce la fanno più e i mezzi
pubblici, tra disservizi e scarsità, praticamente sono
inutilizzabili. Sono messi in condizione di essere
inutilizzabili.
Ci sono automobili da vendere, finanziarie da far
"lavorare" con le comode rate, assicurazioni lasciate
libere di aumentare i premi come meglio credono, un
infinito indotto collegato. E i pedaggi per i parcheggi,
le tasse, le multe. E il carburante da far comperare e
consumare, anche se vi annida il cancro nei nostri
polmoni (che poi richiederà vane e costosissime cure
mediche). La benzina è arrivata a 1.45 euro al litro:
percorrere 30 kilometri al giorno, tra dover andare e
tornare dal luogo di lavoro, costa ormai diverse ore di
scrivania a molti di noi, in un circolo vizioso infernale.
Basta fare un conto, tra costo dell'auto più tutto il
resto a essa collegato, carburante incluso, e poi
dividere il tutto per il denaro che percepiamo al
lavoro per capire quante ore al mese lavoriamo
unicamente per quelle quattro ruote ferme in coda.
Oltre alle ore inutili in più che ci passiamo dentro,
litigando con il mondo intero.
Le nostre strade (non, ovviamente, le autostrade e le
superstrade: queste fantastiche opere architettoniche
che tagliano in due paesaggi altrimenti
incontaminati...) erano state costruite per un transito
differente, con altri mezzi, o comunque con automobili
di altro tipo, con altre prerogative. Sinteticamente, per
un tipo differente di uomo. Il motivo di incidenti di
questo tipo è da ascrivere alla velocità, quando non
ad altre componenti che vi si sommano (droghe,
alcol). Ma non solo.Vogliamo dire che è proprio dal
punto di vista antropologico che l'uomo moderno è
profondamente cambiato. È nella fretta, nello stress,
nel livore quotidiano, nell'attitudine inconscia di fare
un dispetto nel traffico o nell'evitare che altri lo
facciano a noi che si svela il nuovo uomo, perché
tutta la furia interna che si accumula nella vita, in
qualche modo deve pur uscire fuori. E motivi di
innesco, in automobile, non mancano.
L'automobilista furioso, perennemente irritato dalla
situazione del traffico, se la prende con il proprio
vicino di coda, con l'anziano che attraversa la strada,
con il ciclista che parte lento allo scattare del
semaforo. Se invece di porre nei confronti del
prossimo tale rabbia, la convogliasse contro chi è ai
vertici del sistema che tale rabbia gli fa venire fuori, la
cosa avrebbe un senso. Il nemico non è nel vicino di
pianerottolo o di quartiere che parcheggia fuori dalle
strisce. Il nemico è nel direttore dell'azienda che
produce le automobili, nella gestione della cosa
pubblica che impone di utilizzare l'automobile per
spostarsi (difatti nei fine settimana le corse
extraurbane pubbliche sono peggio che dimezzate:
come dire che sei "costretto" a utilizzare l'auto anche
per andare a divertirti o per intrattenere un minimo di
relazioni sociali) in chi ha tutto l'interesse di tenerci
legati a questo sistema di vita.
È un mondo che produce scontenti, derelitti umani
che si spostano come automi senza sapere il perché,
livore e irritazione per cose irrilevanti. Un mondo in cui
magari non si muore in guerra per difendere la
propria casa, il proprio paese, i propri cari, ma
semplicemente perché si attraversa una strada nel
proprio quartiere, perché si pensa, per strada, che
raggiungere in tempo il posto di lavoro - sempre
troppo lontano da dove si abita - è una legge che va
rispettata a discapito della propria stessa vita. Perché
si decide di fare una passeggiata in bicicletta una
domenica mattina.
Ivan Illich, tra gli altri, scrisse un libro, "Elogio della
Bicicletta", dove naturalmente la parte fondamentale
non risiede tanto nell'elogio di questo mezzo, ma
nella demolizione - scientifica, oltre che filosofica dell'automobile e del mondo che gli è stato costruito
attorno. L'automobile, anziché moltiplicare l'energia
umana per lo spostamento, di fatto la distrugge.
La sua lettura è un balsamo, oltre che uno spunto di
riflessione. Da leggere a casa, in tranquillità, magari
mentre gli altri, in questo periodo, sono in coda per
raggiungere il centro commerciale.
(7/12/10) Berlusconi alle corde. Berlusconi che si
lamenta. Berlusconi che ostenta sicurezza («Avremo la
maggioranza anche alla Camera!») ma che intanto si
prepara una o più strategie di riserva: per dirla nel
modo semplificato dei media, un “piano B”.
Berlusconi che offre uno spettacolo penoso, persino
peggiore del solito: aggiungendo alla solita
arroganza un vittimismo di facciata da galantuomo
stupefatto per gli attacchi ricevuti, credibile tanto
quanto – pur nella palese e indiscutibile diversità
delle posizioni – le lamentele di Totò Riina, che messo
finalmente alla sbarra gridava all’ingiustizia del suo
arresto. Ma come? Un uomo operoso e perbene
come lui, incriminato per mafia e addirittura
accusato di essere il Capo dei capi? Il Capo del PdL
si sorprende di altro, ma gli effetti sono altrettanto
comici. Anzi, grotteschi. «Casini – si duole parlando di
se stesso in terza persona – ha il solo fine di far fuori
Silvio Berlusconi per prenderne il posto.» Gianfranco
Fini non viene citato espressamente, ma com’è ovvio
ce n’è anche per lui: pure lui, infatti, appartiene in
tutta evidenza all’abietta schiera dei «maneggioni»
che vogliono «fare fuori» il presidente del Consiglio, un
po’ per smania di potere e un po’ per invidia.
Chiaro: loro sono dei miseri «professionisti della
politica», mentre Berlusconi, come si premura di
ricordare egli stesso, è una star della scena
internazionale. Come dimostra, incontrovertibilmente,
la vita vissuta: nei vari G8, G20, e via “potentando”,
«tutti venivano a farsi le foto con me, non solo per la
mia esperienza ma anche perché tutti mi conoscono
come un tycoon e non solo per essere un politico».
Sottinteso: quel tutti non è mica un’iperbole. Probabile
che Letta o Frattini o La Russa, a seconda dei casi,
distribuissero i numeretti per disciplinare la fila e
assicurare a ciascuno dei presenti, e degli
ammiratori, la sospirata istantanea con l’inarrivabile
tycoon-leader. O leader-tycoon. Insomma, un politico
impaccato di soldi.
Ma questo, volendo, è solo folclore. La consueta
rappresentazione auto celebrativa che va in scena
da più di quindici anni, tra una visitina amichevole
“chez Bruno Vespa” e un blitz infuriato a Ballarò.Tra
una requisitoria contro la magistratura politicizzata e
una barzelletta, o una gag, da consumato
(consumatissimo...) showman. L’aspetto peggiore è
altrove, e accomuna la totalità dei partiti e dei media
che li supportano, in modo più o meno esplicito.
L’aspetto peggiore è la litania concernente la
stabilità. I richiami che si levano ovunque per ribadire
l’assoluta necessità, espressa col dovuto cipiglio,
come si conviene nelle ore più drammatiche e
decisive della Storia, di scoraggiare gli incombenti
assalti della speculazione internazionale, pronta ad
avventarsi sull’Italia al primo segno di debolezza.Vale
a dire nel caso in cui il governo in carica venga
sfiduciato e si debba andare alle elezioni anticipate.
Il messaggio è doppiamente falso. Primo, la
speculazione non dipende da ciò che accade ora
ma da tutto ciò che è accaduto finora, a cominciare
dalla pazzesca espansione del debito pubblico, figlia
del perverso connubio tra un modello di sviluppo
insostenibile e una corruzione dilagante. Secondo,
rispetto alla situazione attuale non ci sarebbe alcuna
differenza: l’unica cosa che ha fatto Tremonti è tenere
stretti i cordoni della borsa, e in questo senso un
governo inchiodato all’ordinaria amministrazione, a
causa dello scioglimento delle Camere in attesa del
voto, non potrebbe certo andare in direzione
opposta.
Come sempre, insomma, l’interesse nazionale non
c’entra un bel nulla. L’unica preoccupazione è quella
di mostrarsi attenti e affidabili agli occhi
dell’elettorato – o se non altro un po’ meno disattenti
e inaffidabili degli avversari – sperando che basti
questo a far dimenticare che tutti quanti, nessuno
escluso, non andrebbero giudicati per ciò che dicono
e fanno adesso, ma per l’insieme della loro storia.
Che è scritta da molto tempo. O, per meglio dire, è
agli atti.
Federico Zamboni
Valerio Lo Monaco
gennaio 2011
MOLESKINE
SPECIALE
E CRISI
LA FRODE (SENZA FINE)
DELLA BENZINA
Si sa: sul prezzo finale dei carburanti gravano balzelli di ogni
genere, tipo le 10 lire per il disastro del Vajont del 1963.
Ma dal 2008 ne va aggiunto uno occulto: la Robin Tax
(1/12/2010) L’impennata dei prezzi della benzina e
del diesel fa infuriare i consumatori. «Listini
astronomici» si scandalizza il Codacons
quantificando i rincari di verde e diesel
rispettivamente nel 34% e nel 39% rispetto a dieci
anni fa, con una spesa supplementare per
l’automobilista medio di oltre 600 euro annui. Il
fenomeno ha assunto negli ultimi mesi proporzioni
scandalose, con il superamento della soglia di 1,40
euro al litro. Ebbene, per spiegarla come a un
bambino di sei anni, citando un grande Denzel
Washington, avvocato di Tom Hanks nel film
Philadelphia, la benzina veniva venduta a 1, 40
euro al litro quando il petrolio quotava 130 dollari
al barile, mentre oggi ne vale 84.
Eppure i signori del petrolio si ostinano a definirli
prezzi in linea con la media europea. Ma se è vero
che in Germania e Francia – e in pochi altri stati - la
benzina costa di più, bisogna però considerare che
lì il potere d’acquisto risulta decisamente diverso
rispetto al nostro. E sono prezzi talmente in media,
che a gennaio il governo si proponeva di attivare, in
collaborazione proprio con i petrolieri, un protocollo
per «recuperare i 3-4 centesimi di maggior costo
dei carburanti italiani rispetto a quelli venduti in
Europa». Protocollo che, peraltro, è stato firmato
solo pochi giorni fa restando sostanzialmente una
lettera d’intenti.
Perché allora rimane la sensazione che qualche
conto non torni?
Forse perché c’è il sospetto, nemmeno tanto
ventilato, che esista una sorta di tacito accordo fra
compagnie petrolifere e Governo sul prezzo della
benzina per ottenere in tal modo una sorta di
gettito occulto, visto che il prelievo fiscale sul
prodotto rappresenta il 56 per cento del prezzo alla
pompa. Il disegno perverso che ha garantito questo
risultato finale sarebbe nient’altro che la
famigerata Robin Tax, la tassa sulle compagnie
petrolifere voluta da Tremonti nel 2008, e che è
divenuta in realtà l’ennesima accisa, visto che viene
bellamente riversata sui consumatori con aumenti
ingiustificati. E impuniti.
A proposito di accise, giova forse ricordare che tra
le componenti del prezzo della benzina risultano a
tutt’oggi 1,90 lire per la guerra di Abissinia del
1935; 14 lire per la crisi di Suez del 1956; 10 lire per
il disastro del Vajont del 1963; 10 lire per l'alluvione
di Firenze del 1966; 10 lire per il terremoto del
Belice del 1968; 99 lire per il terremoto del Friuli del
1976; 75 lire per il terremoto dell'Irpinia del 1980;
205 lire per la missione in Libano del 1983; 22 lire
per la missione in Bosnia del 1996; 0,020 euro per
rinnovo contratto autoferrotranviari 2004. Per un
totale accise di 0,56 euro. Tutte voci che dovevano
essere una tantum, o comunque a termine, e che si
sono trasformate in entrate statali ordinarie.
Si tratta di numeri divulgati più volte dai media, ed
è forse per questo che si sono cercate nuove strade:
ecco perché la Robin tax ha tutta l’aria di essersi
trasformata in un balzello occulto. Anche in
considerazione di come vengono impiegati i suoi
proventi. Ricordiamo cosa diceva Tremonti: «La
tassa servirà per aiutare gli anziani e le fasce deboli
ad arrivare alla fine del mese. Si pensa a una carta
prepagata con cui comprare prodotti alimentare e
ottenere uno sconto sulla bollette».
Ebbene, questa tassa nel 2009 ha subìto
l’incremento dell’addizionale Ires dal 5,5 al 6,5
per cento (circa 140 milioni). Una discreta somma,
che è però stata destinata ai giornali di partito, con
legge 23 luglio 2009, n. 99, articolo 56, passato
all’unanimità. Con buona pace degli anziani, del
welfare, e degli automobilisti che, di fatto, sono
quelli che tirano fuori i soldi.
Massimo
o Frattin
Contro le banche Eric
Cantona non segna
L’ex calciatore aveva lanciato
la proposta di ritirare in massa
i depositi bancari, nella giornata
del 7 dicembre. Ma l’iniziativa
ha avuto scarsissimo seguito,
persino da parte sua
(9/12/2010) Non ha sortito grandi effetti l’invito
dell’ex calciatore francese Eric Cantona a ritirare i
soldi dai conti correnti per mettere in crisi il
sistema bancario europeo. La provocazione, perché
di questo si tratta, l’aveva lanciata lui stesso un
paio di mesi fa: «È inutile che tre milioni di persone
manifestino per strada sventolando la loro
bandierina.
Non serve a niente. Il sistema è costruito sulle
banche. E come si distruggono le banche?
Riprendendoci il nostro denaro. Se tre, dieci milioni
di persone ritirassero i soldi dal conto, le cose
cambierebbero».
Visto il personaggio e visto il tema, le reazioni non
sono mancate. Diverse migliaia di adesioni, la
creazione di gruppi mediatici e l’idea stessa di
un’iniziativa potenzialmente devastante, ben
riassunta nello slogan “Stop Banque”, hanno
alimentato la curiosità dei media e assicurato alla
proposta notorietà e dibattiti. Ma il 7 dicembre,
giorno destinato al fatidico ritiro dei soldi dal conto
corrente, non è successo praticamente nulla, tanto
è vero che neppure il promotore dell’iniziativa
sembra essersi ricordato di passare alla cassa, fatto
salvo – si mormora – un prelievino di 1500 euro:
davvero poca cosa per mettere in crisi un sistema.
Qualcuno, in ogni caso, è sembrato spaventarsi per
davvero. Per una curiosa concomitanza di data,
proprio il 7 dicembre il Parlamento irlandese era
chiamato ad approvare la manovra finanziaria per il
salvataggio nazionale e per quello delle proprie
banche. Ebbene, forse timorosi che lì più che
altrove gli appelli alla Cantona trovassero facile
esca, si è verificato un curioso blocco “tecnico” che
ha impedito l’utilizzo dei bancomat e dei conti online della agonizzante Bank of Ireland.
In realtà, alla boutade di Cantona sembra non avere
creduto lui per primo.
E non v’è stata traccia, nel giorno atteso, di
moventi bancari anomali o che abbiano destato la
minima preoccupazione. Quello che resta è
l’esaltazione momentanea di un ennesimo
capopopolo, che per qualche giorno catalizza
l’attenzione su qualche questione certamente non
nuova né destinata a non riproporsi.
Lo stesso fallimento dell’iniziativa indica la
rassegnazione dei più nei confronti degli aspetti
fondamentali del sistema, e riduce la sortita del
celebre ex calciatore a un tentativo di ritagliarsi un
piccolo spazio mediatico, senza dare alcun reale
contributo alla soluzione del problema.
In Italia, ciononostante, aveva provato ad accodarsi
anche Elio Lannutti, dell’Adusbef: «Invitiamo
anche i correntisti italiani a ritirare in segno di
protesta contro il sistema bancario il 7 dicembre i
propri risparmi dal conto. Certo, resta una
provocazione, perché sarebbe in ogni caso
inverosimile vivere in un mondo senza banche, ma
è ideale per dare una lezione a banche e banchieri e
spingerli a cambiare atteggiamento nei confronti
dei clienti». Esortazioni figlie del più nudo e banale
buon senso, la cui portata – ridotta – è
comprensibile a chiunque.
Inoltre, l’ingresso in scena di vip, o presunti tali,
che lancino proclami alla Robespierre per
destabilizzare lo statu quo rischia di ottenere
l’effetto opposto, ossia rafforzare quel sistema che
si fa mostra di attaccare. Lo sosteneva il giornalista
Paolo Barnard in un appello incentrato proprio su
questo. «Anche fra noi dilaga oggi la struttura
chiamata Cultura della Visibilità, che è la cultura dei
Personaggi, cioè dei Vip, e che nel nostro caso è
rigorosamente alternativa, certo, ma sempre
identica all’equivalente struttura del Sistema
massmediatico.
E cioè la nefasta separazione fra pochi onnipresenti
famosi, e tanti seguaci.»
Un processo che alla fine, sostiene Barnard, si
allontana completamente dal suo scopo originario,
uniformandosi in pieno alla realtà che si sostiene di
voler combattere: «Questo, mentre il Sistema se
ne sta tranquillo a guardare in piacevole stupore
(il Sistema, amici, quello vero, quello che non sta a
Palazzo Chigi».
Massimo
o Frattin
MOLESKINE
SPECIALE
E CRISI
MOLESKINE
SPECIALE
E CRISI
Lavoratori a chiamata:
il ritorno del cottimo
In Veneto il fenomeno sta
dilagando. Con la solita scusa
di una gestione flessibile, a
vantaggio delle imprese, si creano
legioni di precari in una zona grigia
tra occupazione e disoccupazione
(9/12/2010) Stanno assumendo le proporzioni di
un esercito i cosiddetti “lavoratori a chiamata”,
ovvero tutte quelle persone assunte mediante
contratti che prevedono la prestazione lavorativa a
seconda delle necessità aziendali in periodi
predeterminati. Secondo le stime del centro studi
Veneto Lavoro della CGIL, nel 2010 le nuove
assunzioni con questo tipo di contratto, uno dei
tanti previsti dalla cosiddetta legge Biagi sulla
flessibilità del lavoro, sarebbero nella sola regione
circa 70 mila.
Con questa peculiare forma lavorativa il prestatore
d’opera non fa altro che “affittare” la propria
capacità produttiva per periodi prestabiliti. Ovvero,
secondo quanto stabilito dalla legge, durante il
week-end, nel periodo che va dal venerdì
pomeriggio, dopo le ore 13.00, fino alle ore 6.00
del lunedì mattina; durante le vacanze natalizie, dal
1° dicembre al 10 gennaio; quelle pasquali, dalla
domenica delle Palme al martedì successivo il
Lunedì dell'Angelo; durante le ferie estive tra il 1°
giugno e il 30 settembre.
A fare due conti si scopre che i periodi esclusi sono
davvero pochi, e non si riesce a capire se si tratti di
un bene o di un male. Se infatti lo spirito che
informava tale rapporto occupazionale era quello di
fare incontrare le necessità aziendali con quelle dei
potenziali lavoratori, con costi relativamente bassi
per le prime, un minimo di tutela sociale per i
secondi, e il recupero per lo Stato di imponibili
fiscali e previdenziali grazie alla lotta al lavoro nero;
la realtà dei fatti sembra trasformarlo nella
persistenza a oltranza di un precariato a cottimo
buono solo per far tirare a campare una schiera di
persone con poco presente e ancor meno futuro.
Il ricorso a questa tipologia contrattuale è
aumentato in maniera esponenziale, e il dato del
Veneto (non ci sono al momento quelli nazionali),
con i suoi 70mila neoassunti in forma
intermittente, desta ancor più sensazione se
paragonato all’andamento dell’ultimo triennio. Lo
studio dell’Istat relativo al 2007-2009 mostra
infatti che nel 2007 gli impiegati con la formula del
job on call erano 63.430, per poi arrivare nel 2009
a 111.068. Ma sul territorio nazionale! Quando il
Veneto in quel medesimo torno di tempo
raggiungeva quota 21.918.
Una cifra che si è triplicata e che rappresenta quasi
il 20% delle nuove assunzioni. Come a dire che un
lavoratore su cinque è affittato a ore. Ed è
intenzionale l’uso del termine affittare, dal
momento che non stiamo più parlando di persone,
ma della potenzialità lavorativa che offrono: una
merce che viene regolata da un ciclo perverso di
domanda e offerta.
Secondo valutazioni sindacali, per quanto questa
formula possa detenere anche una valenza positiva
nel tentativo di fornire risposte, pur parziali, alle
esigenze economiche, l’unica regolarizzazione che
si rischia di ottenere è quella di passare dal lavoro
nero alla consuetudine del lavoro grigio. La
disciplina in merito è facilmente aggirabile, infatti, e
i lavoratori assunti con queste modalità risultano
indifesi di fronte ai datori di lavoro e deboli sotto il
profilo economico. «Secondo l’Istituto di Statistica
–osserva Fabrizio Maritan, responsabile del
dipartimento politiche del lavoro della Cgil veneta –
le ore di lavoro medie dichiarate sono pari a 5,7
settimanali per ogni lavoratore, corrispondenti ad
una retribuzione lorda totale di 62 euro. Il che è
ridicolo.»
Nel resto dell’Europa l’applicazione del job on call è
assai diversa e poco diffusa, avendo risultati di un
certo spessore soltanto in Olanda e, parzialmente,
in Belgio, dove però è riservato a professionalità
specializzate in consulenza aziendale o informatica.
La cosa più significativa nel confronto però, è che
in questi Paesi viene esclusa dall’utilizzo di tale
forma la fascia giovanile, per la quale si deve fare
ricorso ai contratti di apprendistato. Tutto il
contrario che in Italia. Anzi, quando il lavoro a
chiamata è partito, era riservato in via sperimentale
proprio alla fascia sotto i 25 anni e a quella sopra i
45. Altrove si cerca di consolidare l’avvio nel
mondo del lavoro fornendo know-how e sicurezza;
qui da noi ci si vanta di offrire flessibilità laddove
essa non può che tradursi in incertezza e precarietà
consolidata.
Altro che “l’Italia è una repubblica fondata sul
lavoro”.
Massimo
o Frattin
Toh, si accorgono
delle famiglie
in difficoltà con i mutui
Lo studio arriva da Bankitalia e
attesta che nel 2007 il 5 per cento
delle famiglie non riusciva
a pagare le rate. A conferma
del fatto che la crisi non deriva
solo dalle vicende statunitensi
(9/12/2010) Da Bankitalia scopriamo – con
clamore mediatico (passeggero) ma almeno
uguale ai documenti di Wikileaks – che dalle
segrete di via Nazionale è stato trafugato un
documento, addirittura risalente al 2007, in cui
era chiaro già allora che molte famiglie italiane
non riuscivano a pagare le rate dei mutui.
Fuori di metafora, e ironia, il documento merita
attenzione: circa una famiglia su venti non
riusciva a rimborsare le rate secondo scadenza.
Lo studio, condotto dalla Banca d'Italia (si fa per
dire) stessa, è impietoso, fin dal titolo:
"L'incremento dell'uso di politiche di prezzo
basate sul rischio per i mutui in Italia" basato su
rilevazioni da Eurostat 2007.
E lo è ancora di più leggendo i risultati: quasi il
5% delle famiglie non riesce – cioè: non riusciva
– a onorare i debiti. Naturalmente oggi la
situazione è di gran lunga peggiorata, malgrado il
(temporaneo, val bene chiarirlo) abbassamento
dei tassi di interesse.
Quest'ultimo aspetto, e si parla di dati
aggiornati, emerge con chiarezza sempre dalla
Banca d'Italia, e in particolare del "Rapporto sulla
stabilità finanziaria", questa volta del 6 dicembre
scorso.
La notizia, e tutti i resoconti, li trovate su
moltissimi giornali on-line e non.
Dove rimarranno fino a lasciare il posto, presto, a
una o un'altra sciocchezza di altro tipo. E invece
vale la pena rifletterci bene, soprattutto su un
punto. La data dello studio, ovvero il 2007.
Ovvero il momento dello scoppio della bolla dei
mutui subprime in Usa e, tanto per essere chiari,
lo stesso identico momento in cui, in Italia, si
faceva a gara per sparare la stupidaggine più
grossa in merito al fatto che tale
crisi era circoscritta e non avrebbe toccato
l'Europa, né l'Italia.
Oggi sappiamo bene, invece, a che punto
siamo arrivati.
Quanto e come tale scoppio abbia contagiato
non solo l'Europa ma il mondo intero, e cosa
porterà assai probabilmente, se riusciamo a
vedere oltre il nostro naso, nel prossimo futuro.
Dovrebbe essere facile a tutti i nostri lettori far
tornare alla mente le dichiarazioni di quel periodo
da parte di esponenti politici, banchieri,
economisti parrucconi e animali da talk show: ci
rassicuravano tutti.
E hanno continuato a rassicurarci per molti mesi.
Fino a poco tempo fa si parlava ancora di "fase
acuta della crisi ormai passata". E Grecia e
Irlanda in fiamme erano a un passo.
E poi Portogallo, e Spagna, e Italia...
Naturalmente ora si parla di crisi e rischio
ovunque, e gli stessi animali da talk show si
presentano in diretta per venderci una nuova
certezza: quella di dover necessariamente
affrontare periodi di austerità.
Ovviamente, a nessuno di loro viene un sussulto
di dignità e coerenza nel dire "signori, non ci
avevamo capito nulla. Anzi, quelli che già
avevamo capito l'antifona - tipo la Banca d'Italia,
come emerge appunto oggi - vi hanno tenuto
all'oscuro di tutto quando non proprio preso
riccamente per il culo".
E naturalmente nessuno di questi si esime,
ancora una volta, dall'andare in giro a chiedere di
essere votato nuovamente alle prossime
elezioni. In forza del bel lavoro svolto sino a
questo punto, si suppone.
Dovrebbe essere facile, pertanto, poter fare oggi
un unico mazzo di tutti questi signori ed evitare
di starli a sentire anche per un solo secondo.
Non solo. Già allora – nel 2007 – vi erano
famiglie in difficoltà. Già allora era facile
prevedere che la crisi ci avrebbe travolto (e
dall'ottobre del 2008, ovvero da quando è nata
La Voce del Ribelle, i nostri lettori lo sanno). Ma
già da molto prima – attenzione – non vi è stato
un solo esponente politico che, dando seguito
reale alle chiacchiere fumose e inconsistenti con
cui si riempiono la bocca, a partire dalla litania
che loro sono dalla parte dei cittadini eccetera
eccetera eccetera, abbia avvertito di quello che
stava accadendo e delle conseguenze negative
che ne sarebbero derivate. Nessuno che abbia
lanciato l’allarme su ciò che si nascondeva dietro
quei tassi di interesse ridotti e quei mutui facili
che venivano concessi allora (100% del valore
dell'immobile e addirittura oltre) anche nel nostro
Paese e col benestare della Banca d'Italia, che
oggi è invece "preoccupata" e lancia l'allarme.
Bisognava dirlo a gran voce: quelle operazioni di
finanziamento erano una trappola dalla quale si
doveva fuggire a gambe levate. Nessuno di loro
lo ha fatto. Volete credere oggi anche a una
singola loro parola?
Valerio
o Lo
o Monaco
MOLESKINE
SPECIALE
E CRISI
METAPARLAMENTO
Siete
C
pronti?
Chi ricorda a quanti anni addietro risale il celebre film di Totò?
Viratelo in 3D, ed è ancora oggi.
Elezioni o no, da ora si parlerà di Legge
Elettorale. Inutilmente. Piccolo breviario
per interpretare i (o fuggire dai) prossimi interminabili talk show. La sostanza
non cambia, per ora: siamo sudditi.
di Alessio Mannino
i faranno una testa così, nei prossimi mesi.
Elezioni anticipate o no, il tema che ci ronzerà
nelle orecchie sarà la nuova legge elettorale.
L’eterno giocattolo su cui si arrovella da sempre
la classe politica italiana, per continuare a giocare la sua partita. Che poco ha a che vedere con le partite
affrontate ogni giorno dall’Italia vera (la disoccupazione, la precarietà, il carovita, la burocrazia, l’inquinamento, la criminalità, le
ingiustizie, le inefficienze e i soprusi quotidiani del paese reale).
Qui giù, fra i comuni mortali non ammanicati con questo o quel
potere feudale, si lotta per sopravvivere; lassù, nell’etere privilegiato delle camere parlamentari e dei talkshow si fa finta di
scannarsi sul Porcellum, sul Mattarellum e sui bizantinismi politologici come se fossero il primo pensiero degli italiani quando si
svegliano alla mattina. E allora che sia: fingiamo anche noi.
Fingiamo che ce ne freghi qualcosa, di questo futuribile, ennesimo meccanismo con cui farci credere che barrare una scheda
ci cambi la vita. E vediamo un po’ di scovare altro marcio in
Danimarca. Pardon, in Italia.
42 - WWW.ILRIBELLE.COM
43 - WWW.ILRIBELLE.COM
Sull’attuale legge in vigore, ci limitiamo a riprendere Giovanni Sartori1, uno che nel bene e nel male se
ne intende. La “porcata” (copyright dell’autore,
Roberto Calderoli) non è tale solo perché ha sostituito la preferenza diretta per un candidato con liste
bloccate di persone nominate dai partiti. Il professore fa presente che «noi abbiamo avuto un sistema
proporzionale che consentiva all’elettore quattro-tre
preferenze, poi ridotte ad una, e che queste preferenze sono state cancellate nel 1991-1993 da due
travolgenti referendum di Pannella e Mariotto
Segni», tuttavia il sistema uninominale in cui si sceglie un nome il potere di scelta non è maggiore:
«dipende da chi ha i soldi: se il candidato (come
quasi sempre negli Stati Uniti) oppure il partito. Se li
ha il partito, anche nei sistemi uninominali le scelte
dei candidati vengono dall’alto». La porcheria grossa, dell’oligarchico marchingegno del leghista
Calderoli, è il premio di maggioranza, una trovata
puramente fascista, «perché elargisce un premio di
maggioranza spropositato che falsa completamente il risultato di una elezione». Peggio di così fece
solo Mussolini con la legge Acerbo del 1923, che
attribuì al suo listone 2/3 dei seggi superando
appena il 25% dei voti. Un premio di maggioranza è
accettabile, ma, dice bene Sartori, «se rinforza chi
ha già vinto il 50.01 per cento dei suffragi; … non se
trasforma una minoranza in una maggioranza
come fa il Porcellum attribuendo il 55 per cento dei
seggi alla maggiore minoranza».
Il punto è la rappresentanza
Ma al di là delle diavolerie di regime, la questione
della rappresentanza ha un suo valore politico
anche per chi, come noi, a votare non ci va più.
L’assunto con cui nei primi anni ’90 è stato abbandonato il sistema proporzionale della Prima
Repubblica per quello maggioritario della cosiddetta Seconda, è stato il mito salvifico del “bipolarismo”. Due poli, due alleanze di partiti ad alternarsi
a Palazzo Chigi per rendere più “efficiente” il governo del Paese e liberare la politica dai residui ideologici del passato novecentesco. Il modello è quello anglosassone: più morbido l’inglese, dove conservatori e laburisti hanno un terzo incomodo, i liberali (oggi a braccetto dei primi a Downing Street,
perché anche lì l’alternativa a due ha cominciato a
stancare); più estremo l’americano, dove repubbli-
44
LA VOCE DEL RIBELLE
cani e democratici costituiscono un bipartitismo
perfetto (salvo qualche fallimentare tentativo di
terze vie ora più a destra – Ross Perot – ora più a
sinistra – Ralph Nader).
Il punto è che è un modello inadatto alla nostra
realtà sociale, che è più articolata, complessa,
ricca di sfumature politiche e molto più varia dal
punto di vista delle identità locali. Basterebbe pensare a quanto diversa è la storia del nostro paese
rispetto a Inghilterra e Stati Uniti: noi, una nazione
dal sentimento patrio fragile e insicuro, con un’unificazione recente fatta da una ristretta élite, col
Vaticano in casa e la “questione cattolica” che ne
è seguita, con un partito socialista e poi comunista
fortissimi; noi inventori del fascismo, con due guerre
mondiali combattute sul suolo nazionale di cui la
seconda sfociata in guerra civile, un sessantennio
di “democrazia bloccata”, gli anni di piombo e una
partitocrazia crollata per corruzione endemica.
Loro, Regno Unito e Usa, due Stati con un’identità
nazionale salda e robusta, due imperi che prima
l’uno, da Londra, poi l’altro, da Washington, hanno
avuto e hanno un’egemonia mondiale basata sulla
forza militare e sul dominio finanziario, privi di divaricazioni ideologiche-escatologiche (nessun “sol
dell’avvenire”, nessun “uomo nuovo”), dove la
società, come osservava già Tocqueville 2 per
l’America dell’800, si suddivide più in base a interessi associazionistici, locali e di categoria piuttosto
che politici e di classe nel senso marxiano del termine. E soprattutto dove gli ordinamenti istituzionali
sono formati da tempo immemore (la Magna
Charta inglese è del 1215, anche se una vera e propria Costituzione scritta in Inghilterra non c’è) sulla
concezione liberale e pragmatica dell’individuo
vera e unica cellula primaria e detentrice di un corpus di diritti superiori a qualsiasi altro ente morale
(eccezion fatta, si capisce, per lo Stato). In contesti
storico-sociali come questi, la riduzione della scena
politica a due soli attori è comprensibile e giustificata.
Le differenze
Nel caso italiano, no. E la cosa è evidente, secondo
noi, se si considerano due ordini di differenze.
Troppe differenze territoriali, anzitutto, col vissuto
risalente al Medioevo e anche prima di città, borghi
e “piccole patrie” ognuna col proprio autogoverno.
45
WWW.ILRIBELLE.COM
Differenze limate e semplificate ma sostanzialmente giunte
fino ad appena centocinquant’anni fa (si pensi al Veneto,
dove ancor oggi è forte una certa nostalgia per la
Serenissima di Venezia). E poi, e in misura decisiva, le varietà ideologiche che si sono accumulate e scontrate negli ultimi due secoli di modernità. Illuministi (giacobini o moderati) contro reazionari, repubblicani contro monarchico-conservatori, laici contro cattolici, cattolici modernisti contro
cattolici tradizionalisti, socialisti contro liberali, socialisti riformisti contro socialisti massimalisti, fascisti contro antifascisti,
comunisti contro anticomunisti in quel conflitto mondiale
bloccato dal deterrente atomico che è stata la “guerra fredda” (1945-1989) fra l’Ovest capitalista e filo-americano e
l’Est comunista e filo-sovietico. E all’interno di queste dicotomie feroci, sotto-guerre e sotto-guerriglie fra questa e quella
corrente, fra questa e quella banda, nella peggiore tradizione della faziosità italiana (“tre italiani, tre partiti”, dice la
famosa barzelletta). Una marea brulicante di sigle filosofiche e formazioni partitiche che rendono il nostro paese
impossibile da ingabbiare nell’asfittica alternanza fra due
sole forze, come avviene nelle cosiddette democrazie
“mature”.
Dunque?
Mettiamocela via: “maturi” non siamo, o non lo siamo abbastanza per i canoni dei maestrini dell’astratta politologia3.
Solo chi ha portato il cervello all’ammasso e crede ciecamente che esista un solo modello buono per ogni società
può predicare una nostra inferiorità civile e politica di cui
dovremmo vergognarci. Gli italiani sono semplicemente
diversi dagli inglesi e dagli americani, così come dai francesi e dai tedeschi. E questo perché, banalmente, hanno una
storia diversa. E perciò una politica diversa. Che poi questa
si sia sempre più conformata all’esterofilia del bipolarismo
obbligatorio, ciò è dovuto all’integrazione, ahinoi, dell’Italia
nel sistema della globalizzazione economico-finanziaria, che
ovunque mette piede impone i dettami culturali, inclusa l’organizzazione politica, degli Stati portabandiera: gli Stati Uniti
e l’Inghilterra, appunto.
La complessità italiana potrebbe essere rappresentata
meglio, invece, da una legge proporzionale (tanti voti, tanti
seggi) corretta da uno sbarramento (al di sotto di una certa
soglia, per esempio il 5%, non si entra in Parlamento) che
eviti una frammentazione tale da conferire al singolo partitino un inaccettabile potere di ricatto, e mitigata da un “diritto di tribuna”, una riserva di tot scranni riservati alle forze più
piccole. Ma la campagna referendaria del ’92-’93, originata
da una sacrosanta rabbia popolare contro la partitocrazia
46
LA VOCE DEL RIBELLE
Dc-Psi degli anni ’80, con l’obbiettivo di rovesciare quest’ultima ne generò un’altra che lungi dall’essere migliore della
precedente, ha avuto pure l’aggravante di essere ancor
meno rappresentativa perché con questo maggioritario chi
ha la maggioranza piglia tutto, cioè la singola circoscrizione, e lo strapotere dei partiti viene addirittura aumentato
dato che il candidato è investito dall’alto. Insomma, dalla
padella alla brace. Una brace in cui i signori dei partiti,
mosche cocchiere dello statu quo, si stanno cuocendo a
fuoco lento con le loro stesse mani. L’astensionismo, infatti,
sale inesorabilmente di elezione in elezione. Segno che non
c’è legge elettorale che tenga: il popolo italiano, già di suo
scettico e diffidente verso il potere, è sempre più lontano e
ostile ai giochi di palazzo. E quando arriverà la fame vera,
qualcuno che lo assalterà spunterà fuori. Il tormentone della
legge elettorale, quel giorno, suonerà grottesco come le
brioches di Maria Antonietta infilzate dai forconi del popolo
in rivolta.
Alesso Mannino
Note:
1) G. Sartori, “Una Repubblica assai confusa”, Corriere della Sera 18
novembre 2010
2) «…gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e
industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, gravi e futili, generali e specifiche, vastissime e
ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari,
costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole.
Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in
Francia, il governo (...), state sicuri di vedere negli Stati Uniti un'associazione», A. De Tocqueville, La Democrazia in America, Utet, 2007
3) Uno dei più fanatici è Angelo Panebianco, editorialista di punta
del Corriere della Sera, che pur di sostenere il dogma immutabile
del bipolarismo ricorre alla categoria della “moderazione”, molto di
moda ma priva di qualsiasi valore sociologico: «Il bipolarismo richiederebbe una prevalenza della moderazione sull’estremismo, una
convergenza al centro. Non è necessario che ciò accada continuamente (anche nei sistemi bipolari più stabili si danno inevitabilmente momenti o episodi di lotta feroce) ma è necessario, perché il sistema duri, che moderazione e convergenza al centro siano, almeno, le
tendenze prevalenti. In Italia non è così. La caratteristica italiana è
che mentre i fautori della moderazione sono per lo più contrari al
sistema bipolare, i difensori del bipolarismo sono contrari alla moderazione», Corriere della Sera,“Il bipolarismo senza equilibrio”, 28 gennaio 2010.
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WWW.ILRIBELLE.COM
UNITI E DIVERSI
PER LA FORMAZIONE DI UN NUOVO SOGGETTO
POLITICO CHE GOVERNI LA TRANSIZIONE
1. La fase storica, che si è aperta con la rivoluzione
industriale e in poco più di due secoli ha trasformato
completamente il mondo, si sta avviando alla sua
conclusione. La crescita della produzione di merci che
l’ha contraddistinta, e la progressiva estensione della
mercificazione a percentuali sempre maggiori della
popolazione mondiale e a settori sempre più ampi della
vita umana, si stanno scontrando con i limiti fisici della
biosfera a fornire le quantità crescenti di energia e
materie prime di cui questo processo ha bisogno e a
metabolizzare gli scarti liquidi, solidi e gassosi che
genera. Numerosi contributi scientifici lo documentano.
2.
Un altro segnale, altrettanto evidente sebbene
ignorato, della fine imminente di questa fase storica, è
dato dal fallimento dei tentativi di superare la crisi di
sovrapproduzione scatenata dalla crisi finanziaria
esplosa nell’agosto del 2008. I governi occidentali
hanno tentato di sostenere la domanda stanziando
ingenti quote di denaro pubblico, ma non sono stati in
grado di rilanciare produzione e consumi, né di fermare
l'aumento della disoccupazione. Le politiche antirecessive si sono tradotte in aumenti paurosi dei debiti
pubblici, portando diversi paesi sull'orlo dell'insolvenza
e oltre. Quando si è invertito l'ordine dei fattori,
tentando l'avvio di politiche restrittive, l'effetto è stato
la riduzione della domanda e una nuova impennata
delle disoccupazione. E' evidente che tutte le strategie
del passato non funzionano più. L'economia della
crescita ha raggiunto, o sta per raggiungere, il suo
limite.
regola e principio, inclusi quelli del mercato, della
morale e della stessa logica. In questo contesto anche la
sovranità degli Stati perde ogni significato e, con essa,
la stessa democrazia viene liquidata, come sta
avvenendo.
4.
In Italia, secondo quanto sancito dalla nostra
Costituzione, la sovranità appartiene al popolo. Tuttavia
le oligarchie partitiche hanno fatto sì che questo testo
sia largamente inapplicato. Per contrastare questa
pericolosissima deriva, e soprattutto per restituire ai
cittadini i diritti che dovrebbero esercitare, si dovrebbe
imporre al Parlamento l'obbligo di discutere le proposte
legislative di iniziativa popolare, e di attribuire a queste
un carattere prioritario rispetto all'ordinaria attività.
Pietra miliare per una democrazia partecipata è
sicuramente l’abolizione del quorum di partecipazione
per i referendum nazionali, con la contestuale
introduzione di quelli propositivi, così come può
diventare di fondamentale importanza portare le
Amministrazioni Comunali ad inserire nei propri Statuti
i referendum consultivi, nonchè abrogativi e deliberativi
senza quorum. Similmente, si avverte l’urgenza
dell’introduzione di un sistema elettorale proporzionale
con la possibilità di esprimere preferenza da parte degli
elettori per i candidati, contestualmente all’eliminazione
dei procedimenti di raccolta firme ai fini della
3.
Questo limite è incompatibile con l'esistenza stessa
dell'attuale architettura finanziaria internazionale. La
guerra e l'assalto agli equilibri eco-sistemici sono
entrambi un prodotto diretto di questa struttura. La
finanza mondiale non è frutto di un errore: è stata
costruita per funzionare così come ha funzionato e
funziona. Ed è per questo che produce mostruosità di
violenza e di diseguaglianze. Questa finanza mondiale è
la forma monetaria della contraddizione insanabile, e
ormai esplosiva, tra sviluppo e natura.
Di denaro continueremo ad avere bisogno, ma non di
quello attuale. Dovrà essere introdotto il controllo
pubblico democratico sull'emissione monetaria, poiché
il denaro non può essere concepito come una merce e
non ha valore se non è raccordato all'economia reale.
Quando questo rapporto si spezza – e si è spezzato
clamorosamente davanti ai nostri occhi – il denaro si
trasforma in potere allo stato puro, sovvertitore di ogni
presentazione delle liste per qualunque elezione (il
meccanismo attualmente è distorto e truffaldino e
disattende anche il principio fondamentale della
segretezza del voto, imponendo l'espressione di un
“sostegno politico” alla lista che si sottoscrive).
5. L’attuale situazione, critica su molti fronti
simultaneamente, sta già modificando tutti gli assetti
mondiali di potere, a riprova che la transizione è già
cominciata e che le sue turbolenze sono in espansione.
Il lungo dominio mondiale degli Stati Uniti è in evidente
declino, assieme all'ormai insostenibile – per il resto del
mondo - supremazia assoluta del dollaro.
Il tenore di vita del miliardo d'oro non è sostenibile, in
condizioni pacifiche, mentre all'interno stesso dei paesi
industrialmente sviluppati – nei quali larghi strati
popolari hanno comunque potuto godere, negli anni
della crescita del PIL, delle briciole che cadevano dal
tavolo dei ricchi – si assiste a una impressionante
divaricazione e disparità nella distribuzione dei redditi.
Ne consegue che i patti sociali – che hanno permesso
alle nostre società di reggere negli ultimi 60 anni –
sono gravemente minacciati quasi dovunque.
Le tensioni internazionali crescono di pari passo a
quelle sociali e interne a ogni paese. Classi politiche
impreparate e miopi si lasciano tentare da soluzioni
demagogiche verso l'interno e aggressive verso
l'esterno, nella speranza di mantenere una presa che
loro sfugge nei confronti delle rispettive opinioni
pubbliche.
E' evidente che, in queste condizioni, cresce il pericolo di
guerre, anche di grandi dimensioni. In assenza, o
carenza, di risorse essenziali, coloro che sono forti
militarmente sono trascinati dalla tentazione dell'uso
della forza per risolvere i problemi della propria stabilità
interna. Queste tendenze continueranno a crescere.
S'impone dunque una politica estera del tutto diversa
dall'attuale, a cominciare dal riconoscimento dei diritti
del popolo palestinese e dalla eliminazione di armi
atomiche in Italia e in tutta l’area mediterranea. Occorre
una politica estera che liberi l'Italia da ogni alleanza
militare - anche attraverso la pubblicazione e il
superamento degli accordi militari segreti tuttora in
essere - e le consenta di svolgere un'azione autonoma e
sovrana di pace.
Come primo atto di una svolta necessaria s'impone il
ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan e l'impegno a
una drastica e conseguente riduzione e riorientamento
delle spese militari, esclusivamente all'interno di una
politica europea comune di contributo attivo alla pace e
alla costruzione di una nuova architettura mondiale
multipolare.
Per realizzare questi obiettivi occorre interpretare in
modo radicalmente nuovo la funzione dei movimenti
per la pace. Dalla logica della risposta alla guerra, a
quella della mobilitazione preventiva contro il sorgere di
conflitti. Le guerre devono essere individuate là dove
possono nascere. E là devono essere disinnescate. La
pace si vince impedendo alla guerra di cominciare, non
imponendole di fermarsi.
6.
Tutte le forze politiche storiche hanno posto a
fondamento del loro sistema di valori e dei loro criteri di
interpretazione della realtà, l’identificazione del
benessere con la crescita della produzione e del
consumo di merci. Tutte hanno adottato le misure che
ritenevano più efficaci per favorire la crescita e
rimuovere gli ostacoli che le si frappongono, per
accrescere in continuazione i livelli dei consumi, per
ampliare il numero dei produttori e consumatori di
merci. Lo scontro politico tra di esse si è sempre
articolato sulle scelte di politica economica più efficaci
per stimolare la crescita e sui criteri di distribuzione del
reddito monetario che ne consegue.
7.
Per superare la crisi di sistema determinata
dall’intreccio della crisi di sovrapproduzione con la crisi
ambientale occorre elaborare strumenti di analisi
economica e di politica economica diversi da quelli
finalizzati a rilanciare la crescita della produzione di
merci. E per far questo occorre un soggetto politico
capace di dimostrare nei fatti che si può, e conviene,
indirizzare la ricerca scientifica e le innovazioni
tecnologiche a ridurre gli sprechi di energia, gli sprechi
di materie prime e la quantità dei rifiuti perché solo in
questo modo si può creare occupazione; che quindi la
crisi economica si può superare soltanto se l’economia
viene indirizzata a superare la crisi ambientale. Occorre
perseguire una crescita guidata dei settori produttivi
funzionali al superamento della crisi ambientale e una
decrescita guidata dei settori che la rendono sempre più
grave. Si dovrà energicamente combattere contro
licenziamenti e disoccupazione avviando una
progressiva e generalizzata riduzione dell'orario di
lavoro. Lo sviluppo di tecnologie che accrescono
l’efficienza nell’uso delle materie prime e dell’energia,
che accrescono la durata e la riparabilità degli oggetti,
che consentono di recuperare i materiali di cui sono
composti quando vengono dismessi, comporta una
riduzione dei consumi a parità di benessere. Se al posto
degli attuali parametri quantitativi si utilizzassero
parametri qualitativi nella valutazione delle attività
produttive, la conseguenza sarebbe una diminuzione
degli sprechi e della produzione di merci.
8.
Un così radicale capovolgimento di prospettiva
richiede l’elaborazione di un paradigma culturale
diverso da quello che caratterizza il modo di produzione
industriale e non può essere compreso nel sistema dei
valori e nei parametri concettuali dei partiti che si sono
formati nel periodo storico e nei paesi in cui questo
modo di produzione si è affermato, perché ne
costituisce l’antitesi. Richiede pertanto la formazione di
un nuovo soggetto politico che non può limitarsi ad
essere un’altra variante dei partiti esistenti, un
rimescolamento di carte tra spezzoni di varia
provenienza che avvertendo l’insufficienza della
strumentazione teorica in dotazione si propongano di
arricchirla con qualche utensile in più. Il nuovo soggetto
politico, di cui c’è bisogno per sostenere a livello
istituzionale proposte coerenti con un paradigma
culturale che sostituisca il parametro quantitativo della
crescita con parametri qualitativi finalizzati a superare
la crisi economica creando occupazione in attività
produttive in grado di attenuare la crisi ambientale, non
può che collocarsi in uno spazio definito da coordinate
diverse da quelle che definiscono lo spazio in cui da più
di due secoli si svolge il confronto tra le opzioni politiche
di destra e di sinistra.
9.
Il nuovo paradigma, i nuovi stili di vita, di
produzione, di utilizzo-riutilizzo, di consumo devono
diventare patrimonio di immense masse popolari. Ciò è
non solo necessario perché la transizione verso una
nuova società avvenga in modo pacifico, ma anche
perché si realizzi un più alto livello di partecipazione e di
democrazia. Noi viviamo però, da ormai due
generazioni, in una società dove la democrazia è stata
trasformata in un combattimento di tecnologie per
manipolare la coscienza collettiva.
Un nuovo soggetto politico, quale noi intendiamo
costruire, dovrà perciò porsi il compito cruciale di
invertire il funzionamento della macchina dell'inganno e
del frastuono, ovvero del rumore di fondo che obnubila
e distrae. Tutto ciò per riportare l'uomo al centro di se
stesso e della società, al posto di economia,
tecnologia, virtuale, e per recuperare il suo bene più
prezioso: il tempo.
Non c'è dubbio che il mainstream informativocomunicativo sta producendo una regressione
collettiva, per le popolazioni che gli sono soggette, che
ha già trasformato la maggioranza dei cittadini del
miliardo d'oro in consumatori compulsivi. Coloro che
detengono il potere della e sulla comunicazione sono gli
stessi che puntano alla prosecuzione forsennata dello
sviluppo predatorio e consumistico. Ecco, dunque, che
occorre portare la battaglia sul campo della
informazione comunicazione: dalla sua
democratizzazione, al potenziamento dell'azione
pubblica, come effetto della constatazione che le
televisioni (e in generale i media di ogni tipo) hanno
assunto un ruolo centrale e dominante nella formazione
del tenore culturale e intellettuale di una intera nazione.
Tra le misure indispensabili per accompagnare una
transizione consapevole occorrerà ridurre drasticamente
la massa dei messaggi pubblicitari. E introdurre, anche
nei programmi scolastici di ogni ordine e grado,
l'educazione ai media. Sarebbe, questo, uno degli
strumenti decisivi per invertire lo scivolamento verso
l'analfabetismo di massa che caratterizza tutte le
società investite dalla mutazione antropologica
dell'homo videns. Ora doppiamente analfabete, perché
non sanno più leggere e perché non sono ancora capaci
di leggere – non conoscendone la grammatica e la
sintassi - il messaggio ormai dominante delle immagini
in movimento.
Questi ed altri strumenti di organizzazione democratica
e partecipata del flusso informativo-conoscitivo, come
quello del sapere in ogni suo aspetto, debbono colpire
l'effetto ultimo della mercificazione di tutti i rapporti
umani che è stato il risultato del processo
manipolatorio.
10.
Le politiche economiche dominanti nei paesi
occidentali sono variate nel tempo assieme alle forme di
organizzazione e di regolazione dell'economia
capitalistica. Così, la lunga fase di sviluppo economico
iniziata con la fine della Seconda Guerra Mondiale è
stata caratterizzata da politiche economiche di sinistra,
cioè di tipo riformista socialdemocratico, mentre la sua
crisi, sopravvenuta negli anni Settanta del Novecento,
ha portato al predominio di politiche economiche di
destra (usualmente indicate con l'etichetta
"neoliberismo"), predominio che si è protratto fino ad
oggi. In questa fase "neoliberista" si è assistito al crollo
del "socialismo reale" e alla diffusione nel mondo intero
dei rapporti sociali capitalistici. In questa fase nei paesi
a economia di mercato la sinistra ha cercato di
competere con la destra introducendo nel suo apparato
concettuale e operativo gli elementi essenziali della
cultura della destra. Ma l’economia di mercato ha
aggravato i problemi ambientali, economici e sociali:
incremento delle emissioni inquinanti, maggiori
difficoltà di approvvigionamento di materie prime, delocalizzazione delle produzioni in paesi a controllo
ambientale ridotto o nullo, con manodopera disponibile
a lavorare a costi più bassi e con meno garanzie,
processi migratori su scala mondiale. Vi sono forze,
politiche e culturali, che comprendono questi temi.
Manca tuttavia ad esse la consapevolezza della
necessità di un diverso paradigma culturale. Di
conseguenza l' equità o la sostenibilità che si presume
di perseguire rimane all’interno di questo sistema di
produzione, cioè si riduce a una più equa distribuzione
della ricchezza monetaria prodotta da un’economia
finalizzata unicamente alla crescita della produzione di
merci, senza nemmeno scalfire la logica distruttiva
dell'attuale sistema. Questo è un vicolo cieco.
11. C’è inoltre in Italia chi ritiene che sia necessario
fondare un nuovo soggetto politico per dare
rappresentanza a settori sempre più vasti dell’elettorato
che non si riconoscono in nessuno dei partiti esistenti e
sono sempre più nauseati dai livelli di degenerazione
raggiunti dal sistema politico, dallo spregio della
legalità, dalla diffusione della corruzione, dalla presenza
nel parlamento di una nutrita rappresentanza di
persone condannate in processi penali,
dall’approvazione di leggi che impediscono lo
svolgimento di processi a carico di imputati eccellenti e
ostacolano le indagini penali, da sanatorie che
incoraggiano l’evasione fiscale, da un sistema elettorale
che ha sottratto agli elettori la libertà di scegliere i
propri rappresentanti istituzionali e l’ha consegnata alle
segreterie di partito, dagli intrecci tra apparati dello
Stato e organizzazioni criminali, dalle collusioni tra
maggioranza e minoranza nella difesa di privilegi
intollerabili. Come non essere d’accordo con ogni
iniziativa finalizzata a ripristinare la legalità e la
sovranità popolare? Ma anche se si ottenesse questo
risultato non si sarebbero fatti passi in avanti nella
definizione di una politica economica in grado di
superare la crisi economica e la crisi ambientale. Se in
un contesto di legalità e di democrazia si continuasse a
finalizzare le attività economiche e produttive alla
crescita della produzione di merci, la disoccupazione, le
emissioni inquinanti e i rifiuti continuerebbero
comunque a crescere, i problemi energetici, quelli della
salute, e l’effetto serra ad aggravarsi. Si andrebbe
comunque al disastro, ma in condizioni giuridicamente
ineccepibili.
12. Una più equa distribuzione delle risorse tra le
classi sociali e tra i popoli, la tutela ambientale e la
difesa della legalità costituiscono dei punti fermi su cui
non si può non concordare, ma non sono sufficienti per
evitare il collasso della civiltà che sta per essere causato
da un sistema economico finalizzato alla crescita della
produzione e del consumo di merci.
Occorre invertire questa tendenza individuando
parametri differenti per le attività produttive;
riscoprendo nel fare bene, e non nel fare sempre di più,
il senso autentico del lavoro; nello stare bene con se
stessi e con gli altri nei luoghi in cui si vive, e non nel
tanto avere, il senso della vita.
Una presenza politica nelle istituzioni è indispensabile
per riuscire a tradurre in misure di politica economica e
industriale questa concezione del mondo e per
diffondere azioni educative necessarie per orientare gli
stili di vita verso la sostenibilità. Questo passaggio non
sarà facile perché l'intera società attuale è basata sul
presupposto della crescita. Di conseguenza, la crisi della
crescita comporta gravissimi problemi sociali, in
particolare l'aumento della disoccupazione e delle
disuguaglianze sociali. Per questo, il passaggio ad una
società più umana richiede un grande sforzo, in larga
parte ancora da fare, di elaborazione teorica e pratica.
Solo una nuova forza politica, di dimensione nazionale
e, in prospettiva, internazionale, può porsi un tale
obiettivo, che è la premessa per costruire una
alternativa popolare e democratica ai fautori della
crescita.
13.
Una nuova presenza politica nelle istituzioni è
necessaria, com’è necessario che si attui una nuova
modalità capace di favorire concretamente buone
pratiche di democrazia diretta e diffusa. Diventa così
importante:
ascoltare, dialogare, confrontarsi con i cittadini, i
comitati, i movimenti, le associazioni, costruendo e
alimentando spazi e strumenti di partecipazione
autentica che possano favorire scelte e decisioni
condivise.
Fare della coerenza e della trasparenza principi
imprescindibili dell’agire politico.
Affermare e praticare l’impegno politico come
diritto/dovere di tutti e di tutte, rifiutando il principio
della delega ai professionisti della politica.
Rifiutare i personalismi, i protagonismi, le gerarchie;
favorire la partecipazione diretta, la responsabilità
collettiva, lo spirito di servizio per il bene comune.
Superare la contrapposizione tra la sinistra e la destra
(entrambe fautrici di una politica economica basata
sulla crescita illimitata) e l’insieme della partitocrazia, a
favore di un diverso paradigma culturale, che privilegia
la sostenibilità alla crescita e allo sviluppo economico a
tutti i costi.
Valorizzare la dimensione locale, il lavoro di territorio, lo
sviluppo di comunità per alimentare il senso di
solidarietà, di fiducia reciproca, di mutuo aiuto.
Sostenere e far interagire le realtà locali e le persone
senza legami con i partiti che condividono l’esperienza
del nuovo soggetto politico, favorendo la creazione di
una rete di sostegno alla rappresentanza provinciale,
regionale e nazionale.
Promuovere e incoraggiare circuiti dell'economia
alternativa basati sugli scambi non monetari e sulle
monete locali, al fine di sottrarre terreno al ricatto della
finanza e moltiplicare esperienze per la transizione a un
sistema sociale autenticamente alternativo.
In questo documento sono enunciati alcuni principi di
fondo su cui i proponenti invitano ad aprire un
confronto per verificare la possibilità di avviare il
processo costituente di un nuovo soggetto politico.
Maurizio Pallante (MDF – Movimento
della Decrescita Felice)
Giulietto Chiesa (Movimento Alternativa)
Monia Benini (Per il Bene Comune)
Massimo Fini (Movimento Zero)
Rete Provinciale torinese dei Movimenti e Liste di
cittadinanza:
Comitato di cittadinanza attiva e Lista civica Rivalta
Sostenibile, Lista civica Alpignano, Per il Bene
Comune Piemonte, Movimento Alternativa
Piemonte, Lista civica No Inceneritore Beinasco,
ANIMO Nichelino
Roma, 21 novembre 2010
ANALISI
Ed ecco
T
i primi “effetti”
“Popoli d’Europa, unitevi” Del grido appeso al Partenone se ne
sono accorti in pochi. All’inizio. Ma poi tutti hanno iniziato
a fare i conti con ciò che è accaduto ad Atene. L’Europa crolla.
Dicevano che la Ue era al riparo
dalla crisi. Poi che ci eravamo
dentro ma meglio degli altri.
Quindi che ne eravamo quasi fuori.
E poi, d’uno colpo, è iniziata
a circolare la parola austerità.
Facciamo un primo bilancio?
di Sara Santolini
agli di tutti i generi in tutta Europa. È questo quello,
tra le altre cose, che ci ha regalato la crisi economica. Le Banche sono state aiutate con iniezioni di
capitale pubblico, con la scusa di far ripartire i mercati e evitare ulteriori crolli finanziari che possano
provocare un contraccolpo così forte da far traballare l'intera economia e finanza occidentale. Oggi però, alla luce di quanto tutto
questo ci è costato - e di cosa abbiamo ottenuto in cambio - viene
da chiedersi: sarà valsa la pena? Possiamo fare un primo bilancio.
All'inizio sembrava che la situazione dovesse risolversi. O meglio, ci
hanno fatto credere che fosse proprio così. Gli aiuti alle Banche
varati in tutto il mondo erano dettati dall'estrema necessità dettata dal rischio di una recessione economica gravissima che, però,
grazie a questo sacrificio, non si sarebbe verificata. Abbiamo salvato le Banche e innalzato il debito pubblico. Abbiamo sostenuto
chi ha guadagnato - e continua a guadagnare - grazie alla speculazione e all’alta finanza a discapito della gente comune, che
produce e lavora. E ora, per pagare quel debito che già era alto
e che si è innalzato ulteriormente grazie alla crisi finanziaria,
abbiamo bisogno di denaro, sempre più denaro. È così che abbia-
52 - WWW.ILRIBELLE.COM
53 - WWW.ILRIBELLE.COM
mo dato il via alle danze dei prestiti. Il Fondo
Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca Centrale
Europea (Bce), e rimaniamo all’Europa, hanno
cominciato a distribuirne di ogni genere, vincolando
le popolazioni degli Stati a un pagamento rateizzato
che tende a non avere nessuna possibilità di venire
estinto.
In Europa tutti i Paesi hanno varato piani d’austerità.
Quelli che hanno un debito pubblico già molto alto
lo hanno fatto per pagare i debiti, vecchi e nuovi,
che hanno contratto mentre la motivazione di tutti gli
altri è stata il timore di un declassamento delle agenzie di rating che avrebbe avuto - e ha - l’effetto di rendere sempre più dispendiosa l’emissione di Titoli di
Stato.
La prima è stata la Grecia, e il primo prestito richiesto, e prontamente concesso, è stato di 110 miliardi
di euro con erogazione prevista in tre anni. Il piano
d’austerità corrispondente, varato tra polemiche,
manifestazioni e scioperi di ogni tipo, prevedeva i
tagli dei salari e delle pensioni per i dipendenti pubblici, l’aumento dell’Iva e delle imposte su carburanti, alcolici, sigarette e beni di lusso, la riduzione delle
indennità di licenziamento e degli straordinari,
l’estensione della possibilità di licenziare nel settore
privato. Il tutto per ridurre la spesa pubblica di ben
30 miliardi. Inutili le proteste di studenti, operai, impiegati di tutti i livelli e pensionati che si trovano senza
soldi o lavoro né servizi e più tasse. Così come inutili
sono state le richieste della popolazione di punire i
responsabili della crisi, individuati nelle Banche, gli
istituti finanziari e quelli creditizi.
Dopo il varo di questo prestito l’Ue e l’Fmi si erano
affrettati a dire che, per evitare che la situazione
greca si riproponesse negli altri Paesi europei, bastava che gli altri Stati, considerati comunque meno a
rischio della Grecia perché dotati di un miglior tessuto economico e un debito pubblico meno grave, prevedessero misure di contenimento della spesa. In
realtà, il caso Grecia non è stato altro che il primo.
A riprova di ciò solo un mese fa anche l’Irlanda, che
aveva già varato aiuti per il salvataggio delle
Banche nazionali e quelle straniere con attività nel
Paese nel 2008, ha chiesto un prestito miliardario per
evitare il tracollo finanziario. La cifra richiesta si aggira sugli 85 miliardi di euro. Lo scopo ultimo è quello
di ridurre il debito. Anche qui è arrivata “l’inevitabile”
manovra lacrime e sangue da 15 miliardi che preve-
54
LA VOCE DEL RIBELLE
de tagli per 10 e un aumento delle tasse per 5 miliardi. Chi ne fa le spese, al solito, è la gente comune,
primi fra tutti i dipendenti pubblici: sono previsti licenziamenti, riduzioni dell’indennità di disoccupazione e
tagli del 10% agli stipendi dei neoassunti dei quali il
salario minimo scenderà a 7,65€ l’ora. Ancora:
aumenterà la pressione fiscale sul reddito e l’Iva salirà fino ad arrivare al 23% nel 2014. Altri 2,8 miliardi
proverranno da tagli al sistema del welfare.
A fronte di tutto questo, però, chi si salverà saranno
gli utili delle imprese. Il governo irlandese ha infatti
deciso di non ritoccare al rialzo l’aliquota del 12,5%
sugli utili. La motivazione è presto detta: l’Irlanda
teme che, perdendo questa agevolazione fiscale che
fino a ieri ha attirato investimenti stranieri facendole
meritare il titolo di “tigre celtica”, le grandi multinazionali decidano di abbandonarla e volgere altrove le
loro attenzioni. E stiamo parlando delle stesse grandi
multinazionali che sfruttano il lavoro nazionale, all’occorrenza delocalizzandolo.
La prossima nazione che presumibilmente avrà bisogno di un prestito del Fmi è la Spagna. Anche qui il
governo ha cercato di correre ai ripari, riducendo la
spesa: a maggio erano stati tagliati i salari dei dipendenti pubblici (-5%), il welfare e congelate le pensioni di anzianità. Accanto a queste la legislazione
aveva reso più facili e meno onerosi i licenziamenti
nel settore privato e sottratto allo sviluppo i 600 milioni di euro che vi aveva inizialmente destinato.
Il timore che questa sia la prossima a cadere nelle
mani del Fmi a causa del debito sta provocando
un’emorragia di capitali: dinastie spagnole e investitori stranieri starebbero spostando i loro soldi in altre
banche, soprattutto in Lussemburgo. Questa tendenza avrebbe spinto il Paese a varare una nuova misura correttiva da 4 miliardi di euro, che dovrebbe rassicurare capitali e investitori e che prevede, tra le
altre cose, la parziale privatizzazione degli aeroporti
e della navigazione aerea, il taglio dei sussidi di
disoccupazione e sgravi fiscali per le piccole imprese che possano dare nuovo stimolo alle aziende.
Inoltre si prevede a breve il varo di una riforma delle
pensioni che non promette nulla di buono. Per i lavoratori, chiaramente.
In Italia, a maggio, il Parlamento ha varato una
manovra da 24,9 miliardi, di cui 7 in tagli alla spesa
pubblica. I settori maggiormente penalizzati sono
stati il pubblico impiego, con il congelamento di con-
55
WWW.ILRIBELLE.COM
tratti e stipendi, la rateizzazione delle liquidazioni, tagli ai costi
della politica e della pubblica amministrazione e, soprattutto,
ai comuni, alle regioni, alla sanità, alla ricerca, all’istruzione,
alla cultura. In pratica a qualsiasi servizio al cittadino.
Indistintamente. Stranamente all’interno della manovra ha trovato invece spazio una sanatoria edilizia, con la scusa di racimolare più soldi possibili. Evidentemente però la cosa non ha
funzionato, se anche qui a dicembre è stato necessario l’ennesimo correttivo nella legge finanziaria.
Il Parlamento Portoghese, dal canto suo, ha agito praticamente allo stesso modo: tagliando al pubblico e dando al privato, sperando in una nuova crescita economica, tale e quale
a quella degli anni passati. Ha tagliato i salari dei dipendenti statali, ridotto del 5% gli stipendi dei politici, aumentato l’Iva
dal 20 al 21% e poi, nell’ultimo mese, al 23%. I correttivi di fine
anno, adottati anche qui, dovrebbero ridurre il disavanzo pubblico al 4,6% del Pil. “Dovrebbero” ma, già per il 2010, la riduzione non è stata così bassa come quella prevista, attestandosi al 7,3%. La corsa ai ripari è dettata però anche in questo
caso, come in Spagna, dalla necessità - e dalla speranza che il Portogallo possa evitare di ricorrere ai fondi europei
come Grecia e Irlanda.
Ma al peggio non c’è mai fine.
Il Paese che al momento ha varato misure tra le più restrittive
è la Romania che ha innanzitutto aumentato tasse di ogni
tipo: sugli interessi bancari, sui crediti di gioco, sulle seconde
case e sui beni di lusso toccando i redditi più alti, finalmente.
Anche qui, però, sono arrivati i tagli ai salari pubblici e i licenziamenti statali (che ammonterebbero alle 350 mila unità in
cinque anni) e sono più alti che negli altri Paesi.
Quelli alle pensioni, previsti al 15%, sono stati dichiarati incostituzionali, così come il loro ricalcolo per alcune categorie
lavorative, e solo per questo non sono stati attuati. Per ora. Per
ovviare a questo inconveniente costituzionale, però, la
Romania ha alzato l’Iva dal 19 al 24%.
Questa misura, simile a quella varata in altri Paesi europei,
rischia di avere effetti fortissimi sull’economia e di creare,
assieme ai tagli, una vera e propria recessione nel Paese. A
causa dell’aumento dell’Iva, infatti, i prezzi, e dunque l’inflazione, aumenteranno rapidamente facendo diminuire proporzionalmente il potere d’acquisto dei lavoratori, già gravati dai
tagli, e dunque rendendo praticamente impossibile una ripresa interna.
Probabilmente nel caso Romeno la speranza è che i bassi
salari, come sta già accadendo, attireranno ulteriormente la
delocalizzazione delle fabbriche che sta interessando tutta
Europa. Questo significa che il Paese è destinato a diventare
una fabbrica dalla quale le merci, che i lavoratori nazionali
56
LA VOCE DEL RIBELLE
non potranno permettersi, partiranno per i mercati esteri, più
ricchi.
In Inghilterra, dove invece le cose non vanno molto meglio, la
manovra per la diminuzione della spesa è stata dura e ha
previsto l’innalzamento dell’età pensionabile a 66 anni entro
il 2020, il licenziamento di 490 mila dipendenti statali e una
diminuzione delle spese ministeriali del 19% e del welfare di
11 miliardi di sterline oltre all’imposizione di tasse sulle
Banche. I tagli, a differenza che altrove (ad esempio in Italia)
non hanno intaccato salute e ricerca ma riguardano invece
anche gli armamenti, oltre che le forze armate con il licenziamento di 42 mila dipendenti del ministero della difesa nei
prossimi 5 anni e, tra le altre cose, il taglio del 40% dei carri
armati. Ora, a sei mesi dai primi provvedimenti, il welfare subirà tagli per ulteriori 7 miliardi arrivando, con la precedente
manovra, a un totale di 18 miliardi.
Una spesa che non mancherà in Inghilterra, però, seguendo
la scia svedese, è quella per la cooperazione allo sviluppo.
Questa, lasciando da parte la filantropia, spesso è dettata da
ragioni commerciali ed economiche. Qualora sia ben fatta,
infatti, prepara la strada a dei rapporti specifici e preferenziali tra i due Paesi coinvolti nel rapporto di cooperazione.
Risponde così alla solita necessità di creare nuovi mercati o
rapporti commerciali, portando la logica occidentale in quei
luoghi del pianeta che ne farebbero volentieri a meno, e tradisce spesso una vocazione puramente coloniale.
Tornando ai tagli, anche i Paesi che teoricamente hanno un
debito più basso, e dunque sono considerati meno a rischio,
hanno subito delle misure di contenimento e tagli della spesa
simili a quelle dei Paesi più in difficoltà. Anche la Francia, ad
esempio, quest’anno ha dovuto stringere la cinghia. I primi
settori a soffrirne qui sono stati la sanità, le pensioni e le
amministrazioni locali. Dunque niente più assistenza sanitaria
gratuita per gli indigenti e sempre meno possibilità di accedere anche all’Ame, l’aiuto medico di Stato per stranieri irregolari o semplicemente poveri. Il tutto per tentare di portare il
debito pubblico dall’8 al 3% entro il 2013, come promesso in
sede europea.
Tagli anche agli incentivi per il fotovoltaico almeno fino a
tutto il 2012, come a Berlino.
In Germania, lo Stato considerato trainante per l’economia di
tutta l’Ue, per i cittadini le cose non stanno andando molto
meglio che nel resto d’Europa. La Merkel, dopo aver annunciato una manovra di entità molto minore, ha varato un piano
di austerità da 86,3 miliardi di euro in quattro anni. Questi
soldi proverranno, al solito, dai licenziamenti pubblici - si parla
di circa 12 mila posti di lavoro - tagli al welfare, ai sussidi di
disoccupazione, ai congedi parentali e alla difesa, oltre che
57
WWW.ILRIBELLE.COM
“E non è un caso isolato di mediocre che
raggiunge il potere. È un modello che ha
avuto grande successo e molti imitatori.
Questi, nella maggior parte dei casi, sono
riusciti a raggiungere le leve del potere e
decidere le sorti della nazione, e una
nazione retta da mediocri non può essere
che una nazione mediocre.”
de successo e molti imitatori. Questi, nella maggior parte dei
casi, sono riusciti a raggiungere le leve del potere e decidere le
sorti della nazione, e una nazione retta da mediocri non può
essere che una nazione mediocre.
Un romanzo scritto cento anni prima dei mitici anni Ottanta,
anche se quasi sembra descriva proprio quelli, ma che può ottimamente fornirci le chiavi per capire i meccanismi delle stanze
del potere e la funzione della grande editoria nell’influenzarle,
sostituendo manipolazione a informazione. Maupassant spiega
anche perché il giornalismo non riesca a svolgere quel ruolo di
controllo che millanta, anzi si dimostri quasi sempre funzionale al
potere: non sono molti quelli che hanno raggiunto adeguati livelli di influenza nella professione grazie a talento e integrità morale, al contrario è gente tributaria al potere e che può sopravvivere solo finché sarà funzionale a questo.
Vogliamo ancora sperare che qualche isola felice possa esistere
e rifiutare marchiando illusoriamente di pessimismo il realismo di
Maupassant, ma il timore è che siano isole destinate a restare
comunque nicchia per pochi, perché la massa, anche se non lo
confessa, anziché detestare Bel Ami lo stima e lo invidia: così non
fosse avremmo un’altra Italia, guidata da altre persone che non
gli somiglierebbero così tanto.
Marzio Pagani
58
LA VOCE DEL RIBELLE
CINEMA
polazione hanno importanza.Fitte reti relazionali e lobby incrociate sono quello che serve per raggiungere il potere e mantenerlo,
nessuno spiraglio per la speranza in questo romanzo: il suo è realismo, quindi la giustizia non trionfa come in un ipocrita finale
Hollywoodiano, è l’intrigante Bel Ami a trionfare e a raggiungere
tutte le mete che si era prefisso.
E non è un caso isolato di mediocre che raggiunge il potere. Non
è neppure figlio del suo tempo, se non nei dettagli, che non ha
riscontri nella contemporaneità. È un modello che ha avuto gran-
Cyrano
C
di Spagna
Quando l'onore era cosa diversa,
e l'uomo, nel suo complesso, era
differente da quello odierno, Il Capitano
Alatriste combatteva in Spagna, al
tempo in cui la nazione, la giustizia e
la vendetta erano anche affari personali.
di Ferdinando Menconi
yrano di Spagna: questa può essere la definizione per il Capitano Alatriste, proiettato sullo
schermo dalle pagine di Arturo Perez-Reverte e
vissuto giusto una generazione prima dell’eroe,
altrettanto immaginario, di Rostand1, all’epoca
di Filippo IV “il Re pianeta”, perché allora non vi era continente
in cui la Spagna non dominasse, anche se il cancro della decadenza, fra corruzione e il Vietnam di Fiandra, stava per far crollare l’Impero.
Il nostro Alatriste ha, invero, qualcosa meno di Cyrano, un meno
che, però, si rivela essere un qualcosa in più: egli non è né un letterato né un poeta. Alatriste era un uomo che la libertà la sentiva nella pancia e che non faceva ricami2 “alla fine della licenza”, ma come “spadaccino a 4 Maravedis per conto di gente
che non aveva né l’abilità né il coraggio di battersi”. Hidalgo, soldato, quasi picaro, nell’ultimo ventennio (1622-1643) in cui la
Spagna fu signora del mondo, quando questa, alla fine del
medioevo, perse l’occasione di avere una borghesia: perché il
suo cavaliere senza eredità anziché trasformarsi in borghese o
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contadino, preferì continuare a vivere di spada anziché di
zappa o commercio.
Alatriste, capitano solo per soprannome, è un assassino di
strada ma con un profondo codice d’onore: uccide in duello, spada e daga, non è un sicario. Da uomo di spada, infatti, si farà carico per tutta la vita del figlio di un suo camerata morto in Fiandra in un’azione da “berretti verdi”.
Se il prezzo del veleno di palazzo può entrare nelle sue
tasche non entra nella sua anima, né, ancor meno, nei suoi
metodi. Lo stesso nemico giurato di Alatriste, un italiano di
nome Malatesta, infatti, è personaggio da amare: fra loro è
sfida senza odio, solo acciaio e onore.
Combattimento a volto scoperto, impossibile l’uccisione a
sangue freddo, e, nella desueta logica del rispetto il
Malatesta lascerà in eredità ad Alatriste, il suo nemico, la
spada: significati e significanti incomprensibili alla mentalità
psicocontemporanea, ma così ovvie agli Uomini che, in
quanto tali, repellono psicologia e psicanalisi. Cose virili che
“...Una cosa accomuna nel profondo,
però, l’illetterato Alatriste e il poeta
Cyrano: le offese si lavano a fil di spada.
Non c’è spazio per sdegnate vili querele:
o hai fegato o ingoi l’insulto...”
sono di un mondo scomparso, crudele forse, e dove la vita
umana valeva poco, ma quando per l’onore non c’era prezzo. Oggi, tolte le lagnose parole di rito, la vita umana la si
vende e delocalizza per molto meno, mentre per l’onore non
c’è più posto: quello non è delocalizzabile fuori dall’anima
guerriera, se la si ha.
Il nostro Cyrano di Spagna, abbiamo detto, è un illetterato,
ma è amico dei letterati e li protegge a suo grande rischio:
si rende, per certi versi, conto, che la penna dei suoi amici
che scrivono contro il regime, e la decadenza di una nazione altrimenti nobile, è importante e forte come la sua
spada, ma, soprattutto, l’ignorante capisce che la penna
senza spada, così come la spada senza penna, è, e sarà
sempre, impotente contro le tirannidi.
Il Malatesta, nemico dell’eroe, ma non antieroe, contrariamente alle imperanti mode del celomoscismo, è funzionale
nella storia per il suo proporre ai “bouni”, e agli spettatori,
eccellenti spunti di riflessione. Fra questi spicca il “voi spagnoli siete dei rozzi, mancate di finezza, forse è per questo
che dominate il mondo”3. La similitudine con gli USA è pale-
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se, ma è una somiglianza molto superficiale, regge solo fra il
cowboy e il picaro, ma crolla rapidamente quando si provano a comparare gli obiettivi delle elite.
Altra verità che l’italiano spara è: “la bellezza di una donna
è marchio di tirannia per un uomo”, e la donna che tradirà
l’amore suo e del pupillo del “capitano” seguirà una tendenza viva oggi come, se non più, di allora: moglie e madre di
“Grandi di Spagna” anziché sposare uno squattrinato amore
romantico e vero. Poi ci si chiede perché gli uomini, quelli
rimasti tali, sono cinici e non credono più alle lacrime cinematografiche dell’amore.
Anche Alatriste avrà il suo amore triste, fisicamente fedele a
nessuna ma devoto sempre all’amore di una donna sposata, ma quando potrebbe, vedova, averla: lei gli preferirà
l’amore del Re, e lui saprà ingoiare con una dignità che i
maschi di oggi, che non sanno più essere uomini, ignorano.
Quando, però, lei sarà abbandonata in un ospedale, per le
affette da sifilide, il Capitano sarà l’unico a renderle visita e,
senza sproloqui di verbalismo ridondante così di moda
oggi, con un gesto testimoniarle il suo amore vivo oltre
malattia e morte, pur se non potrà più concretizzarsi nella
carne.
Attenzione però, il nostro Cyrano di Spagna non è un “platonico”: di congiunzioni carnali con la più bella e desiderata
attrice di Spagna lui ne aveva avute più e più d’una. Rozzo
Brandy di Jerez, e non fine Cognac, il nostro Alatriste non si
era messo a rimorchiare per conto terzi sotto un balcone: il
suo se l’era preso, sottraendolo ad altri, prima di perderlo.
Parliamo di rimorsi non di rimpianti.
Una cosa accomuna nel profondo, però, l’illetterato Alatriste
e il poeta Cyrano: le offese si lavano a fil di spada. Non c’è
spazio per sdegnate vili querele: o hai fegato o ingoi l’insulto. Mondi violenti entrambi e inaccettabili, almeno per il
mondo politicamente corretto dei senza palle (o senza
ovaie, per non essere sessisti), cui noi, orgogliosamente, ci
fregiamo di non appartenere.
Certo entrambi gli spadaccini vivono in un mondo in decadenza di re imbelli, con primi ministri corrotti che dettano
leggi sbagliate, in questo lo ieri in questo è simile all’oggi,
ma allora ogni uomo aveva una spada e poteva far valere
il suo virile diritto, anche contro il re, oggi, perché non siamo
nel Far West, solo i fuorilegge hanno diritto a girare armati:
così re, premier e cavalieri possono fare il cazzo che gli
pare.
Simile all’oggi, poi, è lo ieri di Alatriste specie quando si
parla di soldi spesi in palazzi e grandi opere, mentre chi
combatte è malpagato, ma solo quando riesce, e raramente, a vedere il suo salario. Ma, come viene detto: “siete forse
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LA VOCE DEL RIBELLE
dei tedeschi: solo gli stranieri combattono solo dopo
aver ricevuto il soldo”. Così Alatriste e gli altri spagnoli vanno a combattere per la nazione, mentre chi trae
vantaggio dal carnaio della guerra si ingrassa sul loro
sangue e ruba anche il loro soldo senza dover andare all’attacco, forse il “tedesco”, il lanzichenecco,
aveva altrettanto coraggio ma meno ingenuità, per
non dire stupidità.
Soldato, se il “Capitano” prestava la lama in strada
per pochi Maravedis, era prima di tutto un soldato al
servizio di una patria tradita dal suo re, e questo dall’età di 13 anni. Viene da ridere a pensare alle leggi
sui minori di oggi, per le quali un minorenne non può
esibirsi in tivvù dopo mezzanotte: allora si era uomini
molto prima di oggi, ammesso che oggi si sia mai
uomini. Forse era un eccesso, ma adesso la virilità è
negata anche in età avanzata, almeno quella virilità
che esigeva il Tercio.
“...perché il suo cavaliere senza
eredità anziché trasformarsi
in borghese o contadino,
preferì continuare a vivere di spada
anziché di zappa o commercio...”
Il Tercio: solo la legione romana ebbe fama di imbattibilità maggiore dei tercios viejos, e come per la
legione non era solo per dispiegamento tattico, ma
anche per la gente che li componeva, e, come per la
legione, la fine fu soprattutto per il crollo del fronte
interno, roso dalla corruzione. Non è un caso che, in
una scena, il primo ministro, sdegnato, chieda al
“capitano” se gli stivali rotti con cui gli si presenta
siano dovuti alla mancanza di denaro o all’arroganza di soldato: “entrambi” è la risposta orgogliosa di
Alatriste.
La fine di Alatriste arriva con quella dei Tercios, a
Rocroi nel 1643, quando la rinata cavalleria Francese,
finita l’epoca del caracollo, pose fine al predominio
spagnolo: lì muore, con la Spagna del mito, Alatriste,
cui il Duca D’Enghien aveva pur offerto una resa più
che onorevole, che però lo spadaccino di strada a 4
Maravedis, dal cappello a falde larghe come quello
di un cow boy, non poté accettare perché era un soldato di un Tercio di Spagna.
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Alatriste un ribelle dei tempi in cui Spagna dominava
su Italia, e a buon diritto: quello di spada e daga,
descritte nei film in splendidi duelli e inquadrature
degne dei quadri visibili al Prado. Per fortuna dell’italietta però intervenne “provvidenza”, quella del mite
Manzoni che avrebbe liquidato, se l’avesse conosciuto, l’appassionante capitano come un disgustoso
bravo, con tutto lo sdegno di un cattolico di rimbalzo,
che trasforma un etimo positivo in ogni lingua in una
vergogna.
La vergogna però è per chi attende provvidenze o sfiducie e non sa costruirsi libertà sul filo di una lama e
del rischio, che è comune anche alla penna. Rischio,
patrimonio comune ad ogni uomo libero, illetterato o
colto, che se ne frega e non aspetta provvidenze e
combatte, per dignità e libertà, sperando che siano
per tutta la nazione, ma se così non è si accontenta
della sua: magari un giorno anche la nazione, oltre a
facili serve penne, saprà addestrasi alla spada.
Ferdinando Menconi
Note:
1) Molto immaginario, perché il personaggio cui Rostand,
pare, si ispirò per il Cyrano anziché inseguir Rossane era un
sifilitico da casino ben prima d’esser trentenne
2) Ricamo: in vecchio gergo romanesco da Regina Coeli è
una ferita da arma da taglio, preferibilmente coltello, ma
anche spada.
3) Traduzione del redattore dall’originale, come di seguito
per le altre citazioni estratte dal film
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LA VOCE DEL RIBELLE
parol
e
avvel
e
nate
250mila
veline
a tremato il mondo intero. E forse anche
qualche altro pianeta. Giornali, telegiornali,
radiogiornali e cinegiornali di tutto il globo
terracqueo si sono riuniti a reti unificate per
dare la notizia. Pare che aerei ed elicotteri fossero
sulle piste di rullaggio pronti per partire e trasportare i leader di tutto il mondo in luoghi segreti e iper
protetti dopo le rivelazioni. Sottomarini incrociavano
nelle acque in ogni dove. Sette di tutto il mondo si
sono raccolte in preghiera che al confronto, il 2012
dei Maya è una barzelletta, su Piazza San Pietro è
calato il gelo e il nostro Ministro Frattini, tra dichiarazioni che andavano da "un nuovo undici settembre"
a "colpo mortale alla diplomazia" mancava solo
citasse l'Apocalisse per esaurire le iperboli a disposizione. Ha tremato la Casa Bianca, il suo inquilino
nero e i suoi sodali di esportazione democratica,
tutti i gialli d'Oriente e pure i Russi in ogni ambasciata. Sono stati allertati gli hacker di tutto il mondo e i
giornalisti in ogni dove hanno fatto a gara per prendersi il prime time e le prime pagine onde essere
presenti e dare le notizie in tempo reale sulla vera
eclissi del nuovo millennio (sempre dopo il derby
Roma-Lazio del 5 a 1 che fu). Abbiamo anche scoperto che nelle redazioni dei nostri media più diffusi
non hanno il dono della traduzione simultanea mentre hanno quello, e a strafottere, del conio di nuovi
aggettivi di ogni tipo. Fino a che i clamorosi, drammatici, aspri, asprissimi e asperrimi documenti segreti di Wikileaks sono stati resi disponibili a tutti. Mentre
una parte del mondo scopriva con orrore i contenuti di appena una quindicina di essi, e l'altra parte iniziava il lavoro di amanuensi per riuscire a decifrare
tutti gli altri 249.985 ancora da leggere, Assange rilasciava videocomunicazioni su YouTube e ogni
mezzo moderno per far sapere che si trovava in un
posto sicuro, con la Cia alle calcagna e, pare,
anche il ricostituito Kgb, manco fosse un Bin Laden
qualsiasi, ma che ce l'avrebbe fatta a rilasciare la
prossima intervista televisiva.
Il tutto per sapere - secondo questi documenti - che
i servizi segreti americani pensano che Berlusconi è
vecchio e va a mignotte, Sarkozy non vale una
cippa mentre Putin ha la cippa grossa, Gheddafi è
un vecchio rincoglionito che si circonda di conigliette e infermiere in guepierre come un direttore qualsiasi di playboy e che, ancora una volta, abbiamo la
dimostrazione certa che internet non serve a un
cazzo.
H
“La Smemoria”
C’è molta psicanalisi nella decisione dell'uomo del fare, di far taroccare dal
suo architetto "ad personam", le statue con i volti di Marco Aurelio e della
moglie Faustina collocati sui corpi di Marte e Venere nel 170 dopo Cristo e
temporaneamente date in prestito a Palazzo Chigi.
Era tollerabile affacciarsi ogni giorno nel cortile d'onore del Palazzo e adocchiare Venere con la mano destra mozzata e Marte privato del suo bellicoso
pene?
Per la cavia del prof. Scapagnini, evidentemente no.
La mano, specie la destra, serve e il pene poi, è di una "penosa" scontata simbologia. Marmo e plastilina allora: duttilità e durezza anche se "non possunt
omnia simul". E poi cielo azzurro come sfondo, ben collaudato dalle convenzioni di Publitalia prima e di Forza Italia poi.
Bisogna riconoscere che c'è del metodo in questa lucida e autoconsolatoria follia: allontanare i brutti pensieri sui guasti dell'età e far sembrare ottimisticamente tutto a posto, efficiente, funzionante.
Uno spot mentale autogeno.
Il narciso, anche se un narciso brianzolo, vede solo se stesso, si autocompiace
di se stesso, allontana il pensiero del proprio naturale decadimento esorcizzandolo con gli interventi di chirurgia estetica, con i capelli finti, con le punturine
e le pillole, con il cerone, con la esibita finta virilità a 10.000 euro a botta (si
fa per dire), alimentata da nugoli di giovani ninfette, cioè di "giovanette capaci di suscitare desideri erotici, specialmente in uomini maturi" (Devoto Oli).
La molesta vecchiaia! E allora vivremo fino a 120 anni, saremo potenti, felici,
ottimisti. Le statue mutilate non possono proprio avere posto e ruolo in questa
narrazione autoconsolatoria.
L'uomo reggerà? Avrà la fiducia? Potrà continuare a credere di comandare?
Qualunque cosa accada, la sua immagine evoca quella di un tristissimo "viale
del tramonto".
Nell'omonimo film di Billy Wilder c'era già tutto.
Gloria Swanson (Norma Desmond) fissa in immagini indimenticabili la sua
angosciata follia di ricca ex-diva senescente.
Le allucinate serate nella villa, le cene rituali, le proiezioni di vecchi films, le
luci soffuse, i grammofoni gracchianti, lo champagne e le mossette.
Erik Von Stroheim - un Bondi perfetto - l'ex regista e marito divenuto cameriere e autista, la venera e la protegge e, quando lei uccide William Holden (Fini,
il traditore) riesce a concederle l'uscita di scena come la sequenza di un film
che la vede ancora protagonista. La discesa dallo scalone della villa dopo l'arresto e con il finto ciak è infinita e drammatica, patetica e struggente.
Sarà così anche nel caso di Silvio? Chi lo sa; ma in fondo, per seguire un precetto aristotelico, non bisognerebbe mai fare del bene ai vecchi.
Tomaso Staiti di Cuddia
Ci occuperemo
invece di...:
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Fondare un nuovo partito?
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A.A.A. Ribelli Cercasi
di Alessio Di Mauro
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numero 28 - Gennaio 2011