w w .i l ri ISSN 2035-0724 w b e e ll om .c Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L n° 46 27/02/2004) art.1 comma1 aut.171/2008 Rm. Anno 4 - numero 28 - Gennaio 2011 Mensile Anno 4, Numero 28 Direttore politico Massimo Fini Direttore responsabile Valerio Lo Monaco Regimi: È L’ORA DELL’HOMO VIDENS Fini: GIUDIZIO UNIVERSALE Economia: ROAD MAP DELLA RIBELLIONE Decrescita: RIDURRE E RICONVERTIRE “Uniti e diversi”: UN NUOVO SOGGETTO POLITICO €5 w w .i lr ib e ll -0724 ISSN 2035 w e .c o m Mensile Numero 28 Anno 4, politico Direttore i €5 Fin Massimo nsabile respo Direttore Monaco /2008 Rm. comma1 aut.171 io 2011 004) art.1 - Genna n° 46 27/02/2 Anno 4 - numero 28 Lo Valerio Leggo al minimo. Poste It. Spa. Sped. in abb. post. DL 353/03 (conv. in L Regimi: ENS MO VID DELL’HO È L’ORA Fini: SALE O UNIVER GIUDIZI Il Tempo divora gli occhi e il resto. ia: Econom NE RIBELLIO P DELLA ROAD MA ita: Decresc VERTIRE ON RIC EE RIDURR diversi”: “Uniti e ITICO GETTO POL VO SOG UN NUO Giudizio Universale/ 2 Ma Uniti e Diversi: progetto politico/ 48 di Massimo Fini La dittatura dell’ignoranza / 5 di Valerio Lo Monaco Ed ecco i primi “effetti” / 52 “La Voce del Ribelle” merita di vivere. di Sara Santolini Un’economia a misura di ribelle / 8 Qualcuno... chissà... di Federico Zamboni Progettare il futuro / 13 Guido Ceronetti di Maurizio Pallante Cinema: Cyrano di Spagna / 59 di Ferdinando Menconi MOLESKINE gennaio 2011 / 26 Metaparlamento: Siete pronti? / 42 di Alessio Mannino Parole avvelenate La Smemoria / 65 Anno 4, numero 28, gennaio 2011 Direttore Politico: Massimo Fini - Direttore Responsabile: Valerio Lo Monaco ([email protected]) - Capo Redattore: Federico Zamboni - Redazione: Ferdinando Menconi, Sara Santolini ([email protected]) - Art director: Alessio Di Mauro - Hanno collaborato a questo numero: Alessio Mannino, Tomaso Staiti, Maurizio Pallante, Massimo Frattin, Davide Stasi, Marco Giorgerini, Pamela Chiodi, Andrea Bertaglio - Segreteria: Sara Santolini ([email protected]) 340/1731602 - Progetto Grafico: Antal Nagy, Mauro Tancredi - La Voce del Ribelle è un mensile della MaxAngelo S.r.l. 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Ma ha avuto un effetto liberatorio come quando Fantozzi osa dire «La corazzata Potjomkin è una boiata pazzesca!». 7 Assange,Julian (40) Col suo Wikileaks ha distrutto definitivamente la credibilità delle democrazie. di Massimo Fini 71/2 POLITICI EUROPEI «Semel in anno licet insanire» dicevano i latini. Darò quindi i giudizi sui personaggi del 2010 “secondo il mio personalissimo cartellino” come diceva Rino Tommasi gran commentatore di tennis (e di boxe, finché è esistita). Berlusconi, Silvio (75) Che senso ha diventare uno degli uomini più ricchi del mondo, violando tutte le leggi, e il padrone di un Paese per poi finire con un semicesso come la Daddario facendosela, per soprammercato, pagare? Utilizzatore finale. 4 Sarkozy, Nicolas (56) Probabilmente è delinquente come quello di cui sopra. Ma perlomeno ha sedotto (o si è fatto sedurre) da una delle donne più affascinanti d’Europa, col più bel culo d’Europa. 61/2 AFGHANISTAN Merkel, Angela (57) Tedesca. Basta la parola. 7 Obama, Barack (50) Pseudodemocratico e pseudonero. Ha inviato altri 30 mila uomini in Afghanistan. Peggio di Bush. Ipocrita. 3 Clinton, Hillary (64) Guerrafondaia più di Condoleeza Rice e quindi pervertita come donna. Cesso. 2 Petraeus, David, generale (59) Presuntuoso e imbecille. POLITICI ITALIANI Bossi, Umberto (70) È l’unico vero politico comparso sulla scena italiana 4 negli ultimi vent’anni. 8 Lega Alleandosi con Berlusconi ha perso se stessa. Biden, Joe, Vicepresidente USA (69) È l’unico dell’Amministrazione Usa ad aver capito qualcosa dell’Afghanistan. Ha detto: «I Talebani sembrano dei nazionalisti piuttosto che degli ideologi della Jihad». Purtroppo non conta nulla. 6+ Non era un “cuor di leone”. Catturato e torturato dagli americani che da lui volevano sapere una cosa sola: dove si trovava il Mullah Omar. In cambio gli offrivano denaro e libertà. Rispose: «Non ha prezzo la vita di un amico e di un compagno di battaglia». Come premio è stato mandato a Guantanamo. Il vero coraggio è superare la propria legittima paura. 8 Omar, Mullah (49) Combattente giovanissimo, per la libertà del proprio Paese, nella guerra contro gli invasori sovietici, durante la quale ha perso un occhio ed è stato ferito quattro volte. Combattente contro i “signori 4 Fini, Gianfranco (59) Dopo 57 anni da coniglio ha fatto un atto di coraggio. Probabilmente tardivo. 61/2 Bocchino, Italo (44) Interessante. Perfetto il suo discorso alla Camera. Zaeef,Abdul Salam,ex ambasciatore talebano in Pakistan (43) 2 - WWW.ILRIBELLE.COM MASSIMO FINI FINI Giudizio della guerra” afgani, a difesa della povera gente vessata e angariata dai prepotenti di sempre. Da 10 anni tiene in scacco il più potente, sofisticato e tecnologico esercito del mondo. 10 7 Letta, Gianni (76) L’uomo più viscido d’Italia. Probabile futuro residente della Repubblica. Impomatato. 3 Brambilla, Michela (44) Carfagna, Mara (36) and girls Come chiamarle senza essere querelati? Definiamole, per carità di patria,“favorite di Regime”. 4 Bindi, Rosy (60) Democristiana che interpreta la politica come “spirito di servizio”. 71/2 3 WWW.ILRIBELLE.COM Benedetto XVI (84) Era più interessante da cardinale («Il Progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano»). Aveva cominciato bene anche da Papa portando il dibattito ad un alto livello culturale. In poco tempo è diventato un politico italiano come tutti gli altri. Roma corrompe tutto e tutti. Anche i Papi. Soprattutto i Papi. Urge Avignone. 5 GIORNALISTI, INTELLETTUALI & AFFINI Lerner, Gad (57) Paraculo senior. 5 Fazio, Fabietto (47) Paraculo junior. 4 Santoro, Michele (60) Due buone braccia sottratte all’agricoltura. Vespa, Bruno (67) Inqualificabile. 4 s.v. Piroso, Antonello (51) Il migliore. Ma lo hanno fatto fuori. 7 Veneziani, Marcello (56) Nel 1990, parafrasando Spengler, scrisse Processo all’Occidente. Poi si è messo al servizio di Berlusconi che è più occidentale di Bush. Nel Canton Ticino chiamano un certo tipo di verme particolarmente verminoso “nercio”. «Uh, un “nercio”!» Strillano, schifati, i ragazzini quando sollevando una pietra ne scovano uno. Il voto glielo dia il lettore. Panebianco, Angelo (63) Fatte tutte le debite proporzioni si potrebbe dire di lui quello che Leo Longanesi disse di Benedetto Croce: «Non capisce niente, ma con grande autorità». 0 CALCIO Mourinho, José (48) Col suo Real Madrid ha preso cinque pappine a zero dagli eterni rivali del Barcellona. Quest’anno non vincerà nulla.“Zeru tituli”. 4 Iniesta, Andrés (27) Sembra un impiegato di banca, pallidissimo («Sei pallido come Iniesta» dicono scherzando fra loro i giocatori del Barca), modesto, di poche parole, antidivo. Molti lo hanno scoperto perché ha segnato il gol decisivo ai Mondiali. Ma sono almeno tre anni che Iniesta è il giocatore determinante del Barcellona, più di Messi, e della Spagna. 9 Massimo Fini La dittatura dell’ignoranza Q di Valerio Lo Monaco uale che sia il futuro che ci attende, a livello italiano ma anche internazionale, in merito alle prossime elezioni o meno, ma in modo ancora più generale in merito a qualunque decisione debba essere presa, la situazione è affatto buona, per non dire che è disastrosa. Ma il motivo non è solo prettamente politico o relativo ai tanti problemi che devono essere risolti in questo periodo di decadenza del nostro sistema di sviluppo e di inevitabile transizione verso un nuovo modello, un nuovo paradigma di esistenza. Il motivo è in primo luogo culturale. Tornano attuali - è indispensabile che tornino - i temi di cultura e informazione perché in un modello di conduzione a carattere democratico, o sedicente tale, ci si deve concentrare sul comportamento delle masse. Malgrado siano pochi gruppi di persone e potere politico ed economico a governare il mondo, sono sempre le masse che hanno di fatto, sebbene potenzialmente, i numeri e la forza di poter rovesciare la situazione. Beninteso, non è nostra intenzione, in questo caso, disquisire sul concetto di democrazia in sé, così come della falsa democrazia attuale di tipo rappresentativo nella quale siamo di fatto sudditi, e tanto meno entrare nei dettagli della prospettiva di una democrazia diretta che alcuni promuovono - noi compresi - e che porta con sé, però, tutta una serie di interrogativi ai quali bisognerà pur dare risposta, prima o poi. Possiamo operare degli accenni rapidi, ma poi è indispensabile spostare l'attenzione su un punto che è antecedente allo stesso concetto di democrazia, anzi di decisione pubblica. Ma andiamo per ordine. Si sa - lo si sa, vero? - che la democrazia è il governo delle maggioranze. Dunque che è il governo dei numeri, non dell'eccellenza né del meglio. È, in altre parole, un governo della quantità e non della qualità. Si sa, allo stesso modo, che la declinazione rappresentativa della democrazia è sfociata nell'arroccamento degli eletti in ogni dove, nei vari palazzi, nel fare in modo di preservarsi e autoconservarsi, eliminando il problema della revoca del mandato semplicemente facendo in modo che all'eventuale sconfitta di una fazione faccia seguito la vittoria dell'altra, fino a un attimo prima all'opposizione, e 5 - WWW.ILRIBELLE.COM Lo Monaco 4 MASSIMO FINI Bersani (60), Vendola (53) & company. Inesistenti. 6 LA VOCE DEL RIBELLE subìto senza la possibilità di decifrare ciò che accade attraverso la chiave di lettura derivante da una impostazione culturale e analitica presente, nella popolazione colta, sino all'avvento della televisione. Si dice che la televisione rifletta lo stato della società. Grandi Fratelli e similari ne sono la prova.Vero. Il punto è che la televisione riflette lo stato della società che essa stessa ha contribuito e contribuisce a formare. E il circolo vizioso è senza fine. Su questo punto è facilissimo essere d'accordo. Brutalmente: nell'era della televisione (di questa televisione) la tendenza, dal punto di vista culturale, cognitivo, riflessivo, appiattisce verso il basso la capacità delle persone di sapere, conoscere, capire, e decidere con cognizione di causa. In merito all'informazione, poi, valgano le parole di Baudrillard, quando scrive che "l'informazione, invece di trasformare la massa in energia, produce ancora più massa", che sintetizzano un tema a noi molto caro, e che abbiamo affrontato nel numero speciale del Ribelle di agosto/settembre 2009. Non va meglio per quanto concerne internet - e anche di questo ne abbiamo parlato nei numeri precedenti della rivista - semplicemente seguendo il comportamento delle masse nella navigazione - e nella dispersione - del web. Per usare parole di Sartori, ciò che accade è che "mentre la realtà si complica (...) le menti si semplicizzano". I problemi più urgenti, più complessi da capire e da risolvere, e in conseguenza le scelte più delicate da fare, la massa non è in grado di affrontarli, perché essa non ha accumulato almeno una "soglia critica" di comprensione. Oltre alla maggioranza che non si interessa minimamente di ciò che è rilevante, vi è una altra grossa fetta di persone che prova a capire, ma nel momento in cui il problema si presenta un po' più complesso del solito, non avendo appunto raggiunto una soglia critica di comprensione dei fatti (e come fare, visto che l'aumento vertiginoso del consumo di televisione e ora internet spinge in basso?) semplicemente desiste.Tutti desistono dal comprendere (o non riescono), ma non dal rivendicare il proprio diritto di esprimere una scelta, anche su temi dei quali non si conosce nulla, arrogandosi il diritto ulteriore di contrapporre le proprie opinioni, recepite dai media e dagli opinion makers che su tali media passano, a ciò che esula dall'ambito delle opinioni e rientra invece nel campo delle certezze. Ovvero della scienza e della storia. Bisognerebbe tirare fuori la pistola ogni volta in cui qualcuno pretende di utilizzare la propria opinione nel fare una scelta che implica conseguenze per tutti. Soprattutto se tale opinione fa parte del mare di quella popolare. Ma saremmo tacciati di volontà antidemocratiche. Cosa che non è, visto che invece ci impegniamo, così come tutti i nostri lettori e in senso lato (lo speriamo) gli uomini di cultura, nell'impresa titanica di reagire all'azione della televisione e dei media di massa nel cercare di spiegare e far capire nel modo più semplice possibile cosa sia realmente importante da sapere e da capire. Per essere cittadini e partecipare con cognizione di causa. Valerio Lo Monaco 7 WWW.ILRIBELLE.COM Lo Monaco Lo Monaco poi viceversa, ma sempre all'interno di una cricca che, pur scontrandosi su alcuni temi (peraltro non fondamentali) è d'accordo almeno su un punto: evitare di allargare lo spazio ad altri che non siano essi stessi. Soluzione perfetta per rimanere allo stesso posto indefinitamente, ora al governo, ora all'opposizione, ma comunque ben saldi ai posti di comando. Gli altri, tutti gli altri, ovvero gli elettori ingannati da tale sistema, fuori. Sudditi, appunto. Dall'altra parte, chi si fa promotore di un rovesciamento della situazione pur necessario - e promuove la democrazia diretta, con soluzioni tutt'altro che chiare, cade, il più delle volte, in un errore grossolano che deve pur essere rilevato: ci si batte per distribuire patenti di democrazia diretta senza assicurarsi che le persone che ricevono tale patente siano davvero in grado di guidare. Problema non da poco. Il tema è insomma chiaro, o così dovrebbe essere. E ci fa tornare al punto di partenza: cultura e informazione allo stato attuale, ovvero capacità di discernere e scegliere prima di indicare una preferenza di voto, sia essa a livello politico oppure su temi fondamentali di altro tipo, sino anche quelli relativi a questione di carattere locale. Bisogna pure che qualcuno lo dica: a oggi, semplicemente guardandosi attorno, le masse appaiono completamente ignoranti e disinteressate a temi che abbiamo una complessità leggermente superiore al semplice sopravvivere. Del tutto inadeguate a scegliere, per il semplice motivo che ignorano i fondamenti attraverso i quali poter riflettere per scegliere. Pensare che grandi scelte politiche, strategiche, etiche, economiche e relative a ogni ambito del pubblico vengano prese grazie a preferenze di una massa che non ha la minima idea dei temi sui quali viene chiamata a esprimersi è cosa inquietante. Ma è la realtà. Si dice che la democrazia sia il governo dell'opinione.Vero. Il punto è che opinione non è scienza. Opinione risale a possibilità mentre scienza risale a certezza. Non è la stessa cosa. È del tutto evidente che decisioni di un certo rilievo debbano essere prese avendo la competenza per poterle prendere, e da questo ne consegue che nel momento in cui tale competenza non c'è, la decisione venga presa secondo opinione percepita. Facile immaginare gli esiti di tale decisione. In democrazia, pertanto, è fondamentale l'opinione pubblica. E qui torniamo a cultura e informazione, che sono peraltro le battaglie che non a caso abbiamo scelto di condurre con tutto il progetto del Ribelle. Allo stato attuale, più che di opinione pubblica è più corretto parlare di opinione popolare, anche se è cosa diversa, converrete. Secondo Sartori, in un suo libro imperdibile, ovvero Homo Videns, molto dell'incapacità attuale delle masse dipende da un cambiamento antropologico veicolato dalla televisione. L'uomo, da Sapiens, è diventato Videns. Con tutto ciò che implica.Tra le tante cose, il fatto che la televisione, di gran lunga il mezzo più utilizzato dalle masse per informarsi e per recepire opinioni da far proprie, per sua stessa natura implica un impoverimento cognitivo. In primo luogo perché tutto ciò cui si viene sottoposti è legato all'aspetto video privandosi di quello dialogico. In secondo luogo perché, essendo un mezzo che ha sostituito la lettura e lo studio, viene Zamboni a misura di ribelle Il libero mercato è il grande alibi del Potere. Il denaro è il suo strumento fondamentale. Il lavoro la sua arma di ricatto. La risposta è dare vita a circuiti alternativi e autogestiti S di Federico Zamboni iamo sotto assedio: assai più che negli scorsi decenni ciascuno di noi, privati cittadini estranei all’establishment economico e politico, è sottoposto a un attacco sistematico che mina i fondamenti stessi della sua vita nella società contemporanea. La si potrebbe definire sinteticamente “la strategia Marchionne”, se non fosse che in questo modo si rischia di scaricare su un singolo soggetto, e su una singola impresa, la responsabilità di un fenomeno assai più ampio e coerente. A rigore, anzi, è persino sbagliato parlare di fenomeno, nel senso di qualcosa che si manifesta nella realtà ma le cui ragioni sono ancora tutte da indagare. In questo caso, infatti, ci troviamo di fronte alle prime manifestazioni concrete, e inequivocabili, di un disegno che non solo ha dimensioni molto più vaste ma che soprattutto poggia su una logica tanto precisa quanto incrollabile: l’uso del lavoro dipendente come suprema arma di ricatto, e quindi di asservimento, nei confronti della popolazione. Il ragionamento è elementare. Eppure merita di essere esplicitato, in modo da essere certi di condividerlo. L’unica cosa alla quale è impossibile rinunciare, oggi, è una fonte di reddito che assicuri almeno la copertura dei bisogni fondamentali; e quella fonte di reddito non può che essere, nella stragrande mag- 8 - WWW.ILRIBELLE.COM gioranza dei casi, il proprio lavoro, solitamente al servizio di altri. Quello che dovrebbe essere un diritto, connaturato al proprio status di cittadini e all’aspirazione naturale a diventare parte attiva della comunità cui si appartiene, si tramuta in una sorta di privilegio, che verrà concesso solo a chi darà prova di meritarselo. Non solo e non tanto per il suo apporto professionale, quanto per la sua totale sottomissione al datore di lavoro. E, per estensione, agli interessi e ai diktat dei potentati che stanno ancora più in alto. Apparentemente si sottoscrive un contratto di lavoro. Nei fatti si formula una promessa di fedeltà. Il suddito si inchina al suo Signore. Il Signore, bontà sua, gli consente di servirlo. Oltre che elementare il ragionamento è spietato, ma questo può sorprendere solo gli ingenui: secondo i tipici dettami dell’iperliberismo, che non esita a sacrificare qualsiasi principio etico al conseguimento del massimo profitto, le condizioni di vita delle persone vengono prese in esame soltanto per le ripercussioni che provocano sui processi economici. Gli individui, per così dire, sono un male necessario. La cui esistenza si giustifica esclusivamente in base a certe necessità di funzionamento del ciclo di produzione e consumo. Un ciclo che in qualche misura li presuppone, ma che al tempo stesso li trascende. Il loro, per dirla in termini tecnici, è un “valore d’uso”. Ed essendo visti come parti di un meccanismo, anziché come esseri umani da rispettare in quanto tali, e da aiutare nello sviluppo delle proprie attitudini migliori, l’ulteriore conseguenza è la loro sostanziale intercambiabilità. Da cui discende, tra l’altro, l’assoluta disinvoltura con cui si procede alle delocalizzazioni: all’imprenditore che sposta gli impianti all’estero non interessa affatto il danno che subiranno i suoi concittadini, ma solo il vantaggio aziendale che gliene può derivare. In una nazione degna di tal nome verrebbe perseguito penalmente per condotta antisociale o, quanto meno, privato della cittadinanza; nelle finte nazioni di oggi lo si considera del tutto normale: e anzi, come dimostrano proprio le recenti vicende della Fiat, ci si interroga su come fare per convincerlo a riservare un po’ di lavoro ai suoi connazionali. Un autentico paradosso: nello stesso momento in cui i rapporti si irrigidiscono a senso unico, smantellando i contratti collettivi e riducendo al minimo le tutele normative (fino a mettere in discussione il delicatissimo e irrinunciabile settore della sicurezza1), la sopraffazione indossa la maschera della generosità. Non solo si rimuove l’idea di sfruttamento, ma la si rovescia nel suo esatto opposto. Il padrone è un benefattore. Il lavoratore è il suo beneficato. Lo stipendio è una via di mezzo tra il compenso dovuto e una regalia, dispensata da qualcuno che in fondo, 9 WWW.ILRIBELLE.COM Zamboni Un’economia Chi vende e chi compra Nelle società occidentali è più difficile rendersene conto, visto che le dinamiche sono spezzettate a tal punto che non tutti riescono a coglierne l’intima interconnessione, ma a ben vedere succede qualcosa di molto simile a ciò che raccontava John Steinbeck in Furore. Costretta a lasciare l’Oklahoma negli anni della Grande Depressione, la famiglia Joad finisce in California e si mette a lavorare per dei latifondisti locali. I quali, non contenti di pagare dei salari da fame e di speculare così sull’enorme offerta di manodopera, pensano bene di completare l’opera inducendo i braccianti ad alloggiare sulle loro terre, ovviamente in baracche da quattro soldi, e a rifornirsi presso un emporio ubicato anch’esso in prossimità dei campi coltivati e, guarda un po’, di proprietà degli stessi possidenti terrieri. Un circolo vizioso, a suo modo perfetto. Il lavoro è sottopagato, il cibo e tutto il resto sono costosi. Le occasioni di profitto raddoppiano. Prima si lucra sulla retribuzione, ovvero su ciò che si acquista, poi sui prezzi delle merci, ovvero su ciò che si vende. Il povero resta povero sia perché guadagna poco, sia perché “...Fuor di metafora, le mappe sono quelle della realtà economica circostante, a livello sia macro che micro. La logistica riguarda i mezzi materiali e le persone su cui possiamo contare. Lo scopo del viaggio è uscire dal circolo vizioso di cui si è detto...” spende troppo. Il povero è in trappola. Se non soggiace alla schiavitù perde i mezzi di sussistenza. Se china la testa riesce a sopravvivere, sempre che le privazioni non lo schiantino, ma non ha più nessuna scelta. E quindi nessuna autonomia. Cambiato quel che va cambiato, la situazione attuale è analoga. Il cittadino medio viene spremuto una prima volta sul posto di lavoro, e una seconda nel momento in cui deve procurarsi i beni e i servizi, ivi inclusi gli eventuali finanziamenti bancari, di cui ha bisogno. O di cui crede di avere bisogno, per effetto di quell’ulteriore forma di manipolazione e di asservimento che è costituita dai bisogni indotti. In altre parole, egli è vittima di una sorta di intermediazione coatta. È come portare la farina al proprietario del mulino e poi comprare il pane da lui. Peccato che la farina si sia costretti a cederla a basso prezzo, mentre il pane lo si paga a peso d’oro. Questa intermediazione obbligata, di cui non si parla mai e che comunque verrebbe spiegata come l’esito naturale della libera iniziativa e della conseguente divisione dei ruoli, implica la perdita di qualunque controllo sull’organizzazione complessiva. E, dunque, il venir meno di ogni possibilità di sottrarsi alle iniquità che ne scaturiscono. Non solo ci si indebolisce, nello sforzo interminabile di cavarsela e, tutt’al più, di salire qualche gradino sulla scala del benessere. Quel che è peggio, si contribuisce a rendere sempre più forti le oligarchie che tirano i fili, diventandone di fatto i fiancheggiatori, i solerti esecutori, i complici magari involontari ma ugualmente affidabili. La via d’uscita Non è ancora un progetto operativo, se non in minima parte. Non lo è perché, per essere messo in pratica e cominciare a produrre i suoi effetti, richiede un numero di persone molto più alto di quelle che leggono abitualmente il Ribelle e ne condividono le istanze. Inoltre, ognuno dei diversi gruppi dovrebbe essere concentrato in una stessa zona, in modo che gli aderenti possano interagire tra loro in modo assiduo e sistematico. Dando vita, così, a una rete di relazioni economiche – anche economiche – che tendano all’autosufficienza. Se questo è l’obiettivo finale, che è bene fissare più per sapere dove si sta andando che non per illudersi di poter completare il percorso, alcuni passi si possono muovere immediatamente. O almeno tenersi pronti a farlo, come se ci si stesse preparando a un viaggio (una migrazione) che avrà inizio non appena le condizioni generali lo permetteranno. Proprio come in un viaggio, quindi, i primi atti da compiere riguardano i preliminari. Uno, studiare attentamente le mappe. Due, pianificare la parte logistica. Tre, last but not least, predisporsi mentalmente ad affrontare quello che ci aspetta, immaginando le difficoltà che si incontreranno e le possibili soluzioni. Fuor di metafora, le mappe sono quelle della realtà economica circostante, a livello sia macro che micro. La logistica riguarda i mezzi materiali e le persone su cui possiamo contare. Lo scopo del viaggio è uscire dal circolo vizioso di cui si è detto: invece di immettere tutti i nostri atti economici nei circuiti già esistenti, pagando pegno alle loro sperequazioni strutturali, vanno creati dei circuiti alternativi che si basino su altri principi e che mirino ad altri risultati, in antitesi alle speculazioni di grande e di piccolo cabotaggio che ormai sono la regola in qualsiasi attività. Una prima ipotesi, per iniziare da qualcosa che dipende solo da noi, è quella di supplire alla carenza di denaro con prestazioni gratuite reciproche. Beninteso: non in una logica di scambio “uno a uno”, che altrimenti non farebbe che riprodurre lo stesso approccio utilitaristi- 10 11 LA VOCE DEL RIBELLE WWW.ILRIBELLE.COM Zamboni Zamboni e in qualsiasi momento, potrebbe decidere di sbaraccare tutto e andarsene chissà dove. A “beneficare” qualcun altro. Note: 1) Il 25 agosto 2010 il ministro Tremonti ha dichiarato che «robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l’Unione europea e l’Italia che si devono adeguare al mondo». In seguito si è corretto sostenendo che il suo vero bersaglio erano i controlli eccessivi e di stampo burocratico, mentre la sicurezza sul lavoro rimane «una conquista irrinunciabile della civiltà occidentale». DECRESCITA Zamboni co delle normali transazioni economiche, ma in una prospettiva di supporto disinteressato e amichevole in cui il vero motore è la solidarietà. O, piuttosto, il piacere, tipico della gratuità, di fare delle cose insieme per il gusto di farle. Ti serve una mano? Se posso te la do. Se e quando le posizioni si dovessero rovesciare spero che tu possa fare altrettanto. Non per risparmiare sulla spesa che dovrei sostenere per acquisire la collaborazione di uno sconosciuto, ma per continuare a trasformare l’esistenza occhiuta dell’ometto liberale nella vita generosa dell’uomo libero. A molti può sembrare pura utopia, ma è solo perché sono talmente impregnati di una visione economicistica da trovare impensabile ciò che dovrebbe essere del tutto normale. E che in fondo sopravvive, anche se confinato nella dimensione sempre più ristretta dei rapporti amicali. O famigliari, se la famiglia ha conservato qualcosa di sano. Viceversa, questo tipo di slancio andrebbe recuperato non solo nella sfera del tempo libero ma anche in quella lavorativa. La verità, semmai la si fosse dimenticata, è semplice e gratificante: tra persone leali, e non obnubilate dalla smania di guadagnare di più e di fare carriera a ogni costo, si collabora meglio. Ci si parla con franchezza. Ci si libera di quel sottofondo di competizione, e di antagonismo, che avvelena tanti ambienti di lavoro, inducendo tutti a stare in guardia e a condividere solo lo stretto indispensabile, nel timore che i “colleghi” se ne possano servire in modo scorretto. È un po’ come con la decrescita: sta diventando una necessità, ma dovrebbe essere innanzitutto una scelta. Recuperare forme di organizzazione economica differenti, come le vere cooperative e le vere Casse di risparmio, è sempre di più una risposta obbligata, in tempi di crescente disoccupazione e di finanza speculativa. Ma dovrebbe essere un’affermazione totalmente libera, degna di chi non si ribella al sistema attuale perché è escluso da certi privilegi ma perché quei privilegi li rifiuta. Non è solo che li trova iniqui e quindi sbagliati. È che non sa cosa farsene. Federico Zamboni Progettare il futuro “Lo sviluppo della sostenibilità ambientale come volano di un nuovo ciclo economico” Orientare la politica economica e industriale a creare occupazione nelle tecnologie che riducono l’impronta ecologica (Dal convegno di ottobre a Perugia) U di Maurizio Pallante na delle obbiezioni che più di frequente viene avanzata alla decrescita è che provocherebbe una diminuzione dell’occupazione. A maggior ragione oggi che le economie dei paesi industrializzati stanno attraversando una crisi da cui non sanno come uscire. Questa obbiezione non regge alla prova dei fatti, come cercherò di dimostrare, mentre invece può essere vero il contrario, che cioè la decrescita, se correttamente intesa e guidata, consenta - noi crediamo che sia l’unico modo per consentire - un rilancio dell’occupazione e un superamento della crisi con l’apertura non solo di un nuovo ciclo economico, ma di una fase storica più avanzata di quella che abbiamo sin qui vissuto. Le aziende e i professionisti presenti in questi giorni sono la prova che queste affermazioni non sono campate per aria, ma si fondano su dati reali. È a partire dalle loro esperienze sul campo che il nostro Movimento si propone di fornire il suo modesto contributo 13 - WWW.ILRIBELLE.COM 12 LA VOCE DEL RIBELLE per formulare una proposta di politica economica e industriale capace di valorizzare quanto stanno facendo, di favorire lo sviluppo di sinergie tra loro, di ampliare le loro quote di mercato, di estendere il numero dei cittadini che chiedono i loro prodotti e i loro servizi. Prima di entrare nel merito credo che sia utile chiarire che cos’è la decrescita perché molti associano a questa parola un’idea negativa di regresso, diminuzione del benessere, ristrettezze economiche. Questa interpretazione si fonda sulla convinzione che il prodotto interno lordo misuri la quantità dei beni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da un sistema economico e produttivo nel corso di un anno. La crescita del pil, se così fosse, misurerebbe l’aumento del benessere, la decrescita la sua diminuzione. In realtà il prodotto interno lordo è un indicatore monetario e, come tale, può misurare solo il valore economico degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro. Ovvero, delle merci. Ma non tutte le merci, non tutti gli oggetti e i servizi che si scambiano con denaro sono beni: rispondono a un bisogno e fanno aumentare il benessere. Per sgombrare il campo da trite e ritrite considerazioni psicologiche, i bisogni a cui si fa riferimento non sono soggettivi, ma oggettivi. Un edificio mal costruito, che consuma 20 metri cubi di gas per il riscaldamento, fa crescere il pil più di un edificio ben costruito che ne consuma 5, ma 15 metri cubi su 20, i due terzi del gas utilizzato, sono una merce che, tra l’altro, si paga sempre più cara, non sono però un bene perché non servono a scaldare l’edificio. Non rispondono a nessun bisogno, non hanno nessuna utilità, provocano anzi un danno perché contribuiscono ad aggravare inutilmente l’effetto serra. La decrescita non è una diminuzione del pil tout court, ma una riduzione guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ossia degli sprechi. Per ridurre la produzione di merci che non sono beni occorrono tecnologie più avanzate di quelle attualmente in uso. Da ciò deriva la necessità di creare occupazione in attività professionalmente più evolute e oggettivamente utili, perché non solo riducono il consumo di risorse che stanno diventando sempre più rare, si pensi in particolare alle fonti fossili, ma anche gli effetti negativi sugli ambienti che inevitabilmente ne 14 LA VOCE DEL RIBELLE derivano sia in fase di prelievo, sia in fase di utilizzazione. Di conseguenza, la decrescita non ha niente a che vedere con la recessione. Tra la decrescita e la recessione c’è un rapporto analogo a quello tra chi mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso di fare una dieta per stare meglio e chi è costretto a farlo perché non ha abbastanza da mangiare. Queste precisazioni consentono di argomentare tre tesi che apparentemente sembrano paradossali, ma in realtà forniscono gli strumenti per impostare una politica economica e industriale in grado di creare occupazione e riavviare il ciclo economico. La prima è che la crescita non ha mai creato occupazione. La seconda è che le politiche economiche tradizionali, finalizzate a superare la crisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso la spesa pubblica e la riduzione delle tasse, stanno dimostrando di non essere più in grado di farlo. La terza è che la decrescita guidata della produzione di merci che non sono beni è l’unico modo di creare occupazione in questa fase nei paesi industrializzati. Che cioè il superamento della crisi economica si può realizzare solo sviluppando le tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale aumentando l’efficienza con cui si usano le risorse, riducendone il consumo e, di conseguenza, gli impatti ambientali che generano. Crescita = occupazione? Sbagliato L’affermazione che la crescita economica sia indispensabile per far crescere l’occupazione viene ripetuta come un mantra benché, a differenza del mantra, non abbia lo scopo di liberare la mente dalla realtà illusoria, ma di avvilupparla in una illusione irreale, priva di riscontri empirici e di fondamenti teorici. Dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire (valori a prezzi 1990), la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998). Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 per cento della popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tre settori produttivi, spostandola dapprima dall’agricoltu- 15 WWW.ILRIBELLE.COM ra all’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, anche dall’industria ai servizi. Se dalla constatazione dei dati si passa alla ricerca delle cause si capisce il motivo: in un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci indipendentemente da valutazioni qualitative della loro utilità, il mercato impone che le aziende accrescano la loro competitività (secondo mantra rovesciato) investendo in tecnologie labour saving per aumentare la produttività (terzo mantra della serie), che tradotto in italiano significa: produrre sempre di più con sempre meno addetti. Cosa che a livello microeconomico può “Queste misure non solo non sono state in grado di rilanciare il ciclo economico e ridurre la disoccupazione, ma hanno fatto crescere i debiti pubblici al limite dell’insolvenza. Per scongiurare questo pericolo i governi hanno bruscamente capovolto la politica economica, adottando drastiche misure di contenimento della spesa statale che tolgono ossigeno alla ripresa economica e alla prospettiva di ridurre la disoccupazione...” risultare vantaggiosa, ma a livello macroeconomico comporta simultaneamente una diminuzione della domanda e una crescita dell’offerta. Un problema non di poco conto che, se non ci si nasconde dietro il risibile alibi di imputare un carattere prevalentemente finanziario alla crisi o alle cause che l’hanno generata, è la causa reale della crisi economica, produttiva e occupazionale che stiamo vivendo. La sua gravità è accentuata dal fatto che s’intreccia con una crisi energetica e ambientale altrettanto grave e molto vicina al punto di non ritorno, ammesso che non sia già stato superato. Da studi recentissimi del Pentagono e del Ministero della difesa tedesco risulta che il picco di Hubert della produzione petrolifera sia stato raggiunto. Secondo le valutazioni dell’IPCC, se non si ridurranno le emissioni di CO2 del 20 per cento entro il 2020, in questo secolo l’aumento della temperatura terrestre supererà i 2 °C e comincerà ad autoalimentarsi sfuggendo a ogni possibilità di controllo umano. Per far fronte alla recessione, i governi hanno adottato le tra- 16 LA VOCE DEL RIBELLE dizionali misure di politica economica a sostegno della domanda: riduzione della pressione fiscale; deroghe alle norme urbanistiche per incentivare la ripresa dell’attività edilizia; incentivi all’acquisto di beni durevoli: automobili, mobili, elettrodomestici; copertura dei debiti delle banche con denaro pubblico (700 miliardi di dollari negli Stati Uniti); grandiosi piani di opere pubbliche. L’ultimo, in ordine di tempo, approvato dal presidente Obama, ammonta a cinquanta miliardi di dollari per strade e ferrovie (la Repubblica, 7 settembre 2010, pag. 21). Queste misure non solo non sono state in grado di rilanciare il ciclo economico e ridurre la disoccupazione, ma hanno fatto crescere i debiti pubblici al limite dell’insolvenza. Per scongiurare questo pericolo i governi hanno bruscamente capovolto la politica economica, adottando drastiche misure di contenimento della spesa statale che tolgono ossigeno alla ripresa economica e alla prospettiva di ridurre la disoccupazione. Il mercato è saturo Resta difficile capire come si sia potuto credere e far credere che incentivando la domanda di prodotti che hanno saturato da tempo il mercato si potesse far ripartire la crescita economica. In Italia negli anni sessanta del secolo scorso le automobili circolanti erano 1.800.000. Nel 2008 sono state 35 milioni. Se nei decenni passati il settore aveva grandi possibilità di espansione, oggi non ne ha più. Ha riacquistato un po’ di slancio con gli incentivi alla rottamazione, ma appena sono finiti la domanda di nuove immatricolazioni è crollata quasi del 30 per cento da un mese all’altro. A livello mondiale l’eccesso della produzione automobilistica è circa un terzo del totale: 34 milioni di autovetture all’anno su 94 milioni. La scelta di puntare sul rilancio della produzione automobilistica non solo si è dimostrato fallimentare dal punto di vista economico, ma è anche irresponsabile dal punto di vista energetico e ambientale perché l’autotrasporto (autovetture e camion) assorbe in Italia circa un terzo di tutte le importazioni di fonti fossili. Contribuisce per un terzo alle emissioni di CO2, che sono la causa principale dell’innalzamento della temperatura terrestre. Negli anni Sessanta del secolo scorso anche il settore dell’edilizia presentava grandi possibilità di espansione, sia perché era necessario completare l’opera della ricostruzione post-bellica, sia perché erano in corso movimenti migratori di carattere biblico dalle campagne alle città, dal sud al nord, dal nord-est al nord-ovest. Ora non è più così. Nel quindicennio intercorrente tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005 sono stati edificati 3 milioni di ettari di terreno: una superficie pari al Lazio e 17 WWW.ILRIBELLE.COM all’Abruzzo. Contestualmente il numero degli edifici inutilizzati è cresciuto. A Roma ci sono 245.000 abitazioni vuote su 1.715.000. Una su sette. A Milano 80.000 appartamenti su 1.640.000 e 900.000 metri cubi di uffici: un volume equivalente a 30 grattacieli Pirelli. Situazioni analoghe si verificano in tutte le città di tutte le dimensioni. I terreni agricoli adiacenti alle aree urbane sono costellati di capannoni industriali in cui non si è mai svolta la minima attività produttiva. Anche la scelta di puntare sull’edilizia come volano della ripresa economica si è rivelato un errore strategico e contemporaneamente una dimostrazione di irresponsabilità ambientale perché i consumi energetici degli edifici sono superiori a quelli delle automobili. Assorbono altrettanta energia, un terzo del totale, ma solo in cinque mesi per il riscaldamento invernale. Elementare, Watson Non ci vuole una grande competenza in materia economica, basta un minimo di razionalità per capire che per affrontare con probabilità di successo sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti ambientali-climatici della crisi in corso bisogna fare esattamente il contrario di quanto si è tentato di fare sino ad ora. Occorre indirizzare il sistema economicoproduttivo a sviluppare i settori che presentano ampi spazi di mercato e, a parità di produzione, riducono l’inquinamento e il consumo di risorse, in particolare quelle energetiche. Poiché nei decenni passati, in conseguenza della sovrabbondanza di fonti fossili a prezzi irrisori l’unico obbiettivo che si è perseguito è stato la crescita della produzione di merci senza nessuna preoccupazione per le conseguenze ambientali, i settori che oggi presentano i più ampi spazi di mercato sono quelli che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse consentendo di diminuire l’inquinamento, le emissioni di CO2 e i rifiuti. Ma se cresce l’efficienza nell’uso delle risorse, diminuisce automaticamente il loro consumo e quindi, una volta che siano stati ammortizzati i costi d’investimento con i risparmi sui costi di gestione, si riduce il PIL. La decrescita guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ha le potenzialità per superare sia gli aspetti economico-occupazionali, sia gli aspetti energetici e climatici della crisi facendo fare un salto di qualità alla storia umana. Con due vantaggi ulteriori. Le tecnologie con le caratteristiche indicate, che a noi sembra giusto definire tecnologie della decrescita, pagano i propri investi- 18 LA VOCE DEL RIBELLE menti da sé, col denaro che consentono di risparmiare sui costi di gestione. E, inoltre, ridanno un senso al lavoro perché non lo indirizzano, come fanno le tecnologie della crescita, a produrre quantità sempre maggiori di merci da buttare sempre più in fretta per produrne altre senza preoccuparsi della loro utilità e/o dei danni che creano, ma a produrre con un sempre minore impatto ambientale merci con una utilità specifica. A produrre merci che siano beni per chi le utilizza e non siano un male per la terra. In ultima analisi l’obbiettivo delle tecnologie della decrescita è sostituire in misura sempre maggiore l’hardware delle materie prime col software dell’intelligenza umana guidata dall’etica e dal rispetto della vita in tutte le forme in cui si manifesta. Ridurre le merci, aumentare i beni Riducendo il consumo di merci che non sono beni, il denaro che si risparmia deve essere necessariamente utilizzato per pagare gli investimenti, e i salari, gli stipendi, le parcelle, i guadagni di chi produce, commercializza, installa, gestisce e fa la manutenzione delle tecnologie che riducono il consumo di merci che non sono beni. Le tecnologie della decrescita sono in grado di ri-avviare un circolo virtuoso dell’economia, non solo nella logica interna dei cicli economici - più produzione, più occupazione, più domanda, più produzione - ma anche per le conseguenze positive sugli ambienti e sulla vita degli esseri umani. È una pericolosa illusione ipotizzare che si possa uscire dalla recessione riprendendo a fare quello che si è sempre fatto. Occorre aprire una fase nuova, esplorare una nuova frontiera. Non ci si può limitare a misure di politica economica e finanziaria finalizzate ad accrescere la domanda di merci in una logica esclusivamente quantitativa. Occorre adottare criteri di valutazione qualitativa. Non ci si può limitare ad abbassare il costo del denaro per rilanciare investimenti e consumi. Occorre decidere quali produzioni si ritiene utile incentivare e quali si ritiene opportuno ridurre. Non ci si può limitare a spendere grandi somme di denaro pubblico, che tra l’altro non ci sono, per finanziare grandi opere, di cui si conosce l’inutilità a priori, solo perché si ritiene che possano fare da volano alla ripresa economica, ma occorre finanziare opere pubbliche che consentono di migliorare la qualità ambientale e la vita degli esseri umani. Non i treni ad alta velocità, che hanno un impatto ambientale devastante, aumentano 19 WWW.ILRIBELLE.COM i consumi energetici e non risolvono il problema degli spostamenti quotidiani sui tragitti casa-lavoro, ma una rete efficiente di treni locali per ridurre l’inquinamento ambientale e lo stress da traffico automobilistico che assorbe anni di vita e mina la salute di milioni di pendolari. Non festeggiamenti e manifestazioni per attirare l’arrivo di un numero di consumatori più ampio di quelli che vivono nei luoghi in cui si organizzano, perché sono fuochi di paglia che lasciano pesanti eredità di edifici destinati a degradarsi progressivamente e assorbire quote crescenti dei bilanci pubblici per le spese di gestione e manutenzione. Non lo stadio del curling come si “...È una pericolosa illusione ipotizzare che si possa uscire dalla recessione riprendendo a fare quello che si è sempre fatto. Occorre aprire una fase nuova, esplorare una nuova frontiera...” è fatto nelle Olimpiadi invernali di Torino, ma ospedali efficienti e scuole che non crollino in testa agli studenti. Non piani regolatori espansivi che autorizzano a cementificare progressivamente i terreni agricoli, ma un programma di ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente per ridurne i consumi da 200 chilowattora al metro quadrato all’anno al valore massimo di 70 vigente nella Provincia di Bolzano. Non l’incredibile miopia di puntare sulla produzione automobilistica, ma la parziale riconversione dell’industria automobilistica alla produzione di micro-cogeneratori e trigeneratori per dimezzare i consumi di fonti fossili ricavando il riscaldamento e il raffrescamento come sottoprodotti della produzione decentrata di energia elettrica, a partire dagli ospedali e dalle strutture con consumi continuativi di elettricità e calore nel corso dell’anno. Lo sviluppo delle tecnologie della decrescita è la strada maestra per uscire dalla recessione e accrescere l’occupazione, non come un obbiettivo in sé, ma come conseguenza di lavori che hanno un senso perché consentono di migliorare la qualità della vita riducendo l’impronta ecologica, il consumo di risorse, l’impatto ambientale e la produzione di rifiuti delle attività con cui gli esseri umani ricavano dalla natura le risorse da trasformare in beni e in merci che sono beni. Se le tecnologie finalizzate ad aumentare la produttività finalizzano il fare umano a fare sempre di più, le tecnologie della decrescita connotano il fare umano come un fare bene e lo finalizzano alla possibilità di contemplare ciò che si è fatto. 20 LA VOCE DEL RIBELLE Tutto ciò non ha nulla a che fare con la cosiddetta green economy, di cui tanto si parla. È indispensabile precisarlo per evitare pericolosi fraintendimenti e prevedibili fallimenti. La green economy, che ha la stessa matrice culturale del cosiddetto sviluppo sostenibile, è un tentativo di rilanciare la crescita economica potenziando alcuni settori produttivi con minor impatto ambientale, sostanzialmente le energie alternative in sostituzione delle fonti fossili. È un tentativo di cambiare qualcosa affinché non cambi niente. Noi riteniamo invece che la fase storica dell’industrializzazione fondata sulla crescita economica si stia chiudendo e sia necessario aprirne un’altra se si vuole evitare che la chiusura avvenga con un crollo che seppellirebbe l’umanità sotto le sue macerie. La green economy e la necessità di sostituire le fonti fossili con le fonti rinnovabili è stata propugnata con forza dal presidente degli Stati Uniti, che ha trovato in Italia epigoni entusiasti in alcune associazioni ambientaliste. In realtà la politica energetica che è scaturita dai suoi buoni propositi ha riproposto le trivellazioni petrolifere in Alaska, non ha contrastato le trivellazioni petrolifere nelle profondità sottomarine, ha rilanciato il nucleare, l’incenerimento dei rifiuti, il confinamento non si sa dove della CO2. Noi invece riteniamo che la politica energetica debba in primo luogo puntare a ridurre i consumi attraverso una riduzione maniacale degli sprechi, delle inefficienze e degli usi impropri. La percentuale su cui si può lavorare è il 70 per cento degli attuali consumi, che, grosso modo si suddividono in tre grandi settori equivalenti: il riscaldamento degli ambienti, la produzione di energia termoelettrica, l’autotrasporto. Per ottenere questo risultato c’è da lavorare per i prossimi decenni in attività che ripagano i loro costi d’investimento con la diminuzione dei costi di gestione. Solo in un quadro di riduzione drastica dei consumi-spreco diventa possibile e interessante la progressiva sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili, sia perché non ha senso produrre bene l’energia e continuare a consumarla male, sia perché le fonti rinnovabili non sono in grado di offrire lo stesso apporto quantitativo di energia e con la stessa continuità delle fonti fossili. Sebbene nessuno a parole contesti questa impostazione, nei fatti tutte le aspettative e tutte le proposte sono incentrate sulla sostituzione delle fonti, nell’attesa messianica della fonte miracolosa, pulita e inesauribile, in grado di liberare l’umanità da ogni limitazione, mentre la riduzione dei consumi viene considerata con sufficienza, come un’attività di routine, priva del fascino dell’innovazione. Forse perché è in grado di realizzare una prospettiva concreta e interessante di decrescita, sovvertendo il paradigma culturale dominante? 21 WWW.ILRIBELLE.COM Green Economy? Una bufala Ma c’è un altro elemento che incide pesantemente nel determinare il divario tra il gran parlare di fonti rinnovabili e l’assoluta insufficienza delle realizzazioni. Un elemento insito nella concezione della green economy come scelta strategica per far ripartire la crescita economica, come fattore di continuità e non di cambiamento rispetto a un sistema produttivo giunto al suo capolinea storico. Ciò che sfugge ai sostenitori della green economy è che la sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili implica una ristrutturazione complessiva del sistema energetico. La maggior parte dell’energia non dovrà più essere prodotta in grandi centrali, ma in una miriade di piccoli impianti per autoconsumo collegati in rete per scambiare le eccedenze. Solo in questo modo si potranno risolvere i problemi legati alla discontinuità delle fonti rinnovabili, si potrà minimizzare il loro impatto ambientale, si potranno ridurre le perdite di trasmissione. Di conseguenza, la rete di distribuzione non potrà più essere strutturata su grandi dorsali con derivazioni ad albero, ma dovrà essere reimpostata come una rete di reti locali sul modello di internet. L’opera non è da poco, ma i problemi tecnici che pone non presentano difficoltà insormontabili. Molto più difficili da risolvere sono i problemi politici, perché ciò che si mette in discussione è il potere delle società multinazionali che gestiscono il mercato energetico. Le quali sono disponibili a investire e stanno investendo nelle fonti rinnovabili perché si rendono conto che è inevitabile, ma non possono accettare che l’autoproduzione riduca le loro quote di mercato. Non possono accettare che gli incentivi con cui i governi sostengono il settore vadano a una miriade di autoproduttori anziché a rimpinguare i loro bilanci. Con l’alibi della riduzione dell’effetto serra e della creazione di occupazione nella green economy, i grandi impianti a fonti rinnovabili oltre a devastare il paesaggio e i terreni agricoli, implementano legalmente con denaro prelevato dalle tasche dei contribuenti gli utili delle grandi aziende energetiche. Con la copertura di tutti i partiti e di alcune associazioni sedicenti ambientaliste. E con la possibilità, sempre presente quando si sostengono con denaro pubblico attività in perdita, che una parte di quel denaro sia dirottata illegalmente in altre tasche dove non dovrebbe arrivare, come alcune operazioni intercetta- 22 LA VOCE DEL RIBELLE te dalla magistratura lasciano supporre sia accaduto o stesse per accadere. La scelta strategica di spostare l’asse della produzione energetica su piccoli impianti di autoproduzione con scambio delle eccedenze in una rete di reti locali sul modello di internet, si inserisce nella seconda scelta strategica di una politica economica finalizzata a creare occupazione nelle tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale: l’inversione della tendenza alla globalizzazione e la rivalutazione delle economie locali. La tendenza alla globalizzazione è funzionale alla crescita della produzione di merci e ha caratterizzato il modo di produzione industriale sin dagli inizi, insieme agli altri due processi paralleli delle migrazioni e dell’urbanizzazione. Va da sé che se si identifica la crescita col benessere e col progresso, si valutino positivamente questi tre fenomeni, perché sono indispensabili per estendere il numero dei produttori e dei consumatori di merci. Ma non può sfuggire la loro relazione causale con la crisi energetica, i mutamenti climatici, le gravi diseguaglianze tra popoli poveri e popoli ricchi, l’impatto ambientale e le degenerazioni del sistema agro-industriale, i peggioramenti delle condizioni contrattuali dei lavoratori dipendenti e la crescita della disoccupazione nei paesi industrializzati. La prima reazione agli effetti devastanti della globalizzazione si è avuta nel settore agro-alimentare con la rivalutazione dei prodotti tipici locali, delle cultivar autoctone, della stagionalità, delle cucine tradizionali, delle filiere corte, dei mercati contadini. In questa inversione di tendenza, che ha assunto le connotazioni di un’alternativa globale ai prodotti insapori, avvelenati e destagionalizzati dell’agricoltura chimica, trasformati in cibi standardizzati dall’industria alimentare, trasportati a distanze anche intercontinentali, commercializzati dalla grande distribuzione organizzata, un ruolo decisivo è stato svolto da alcune associazioni di produttori e di acquirenti: i salvatori di semi e i coltivatori biologici da una parte, Slow Food e i gruppi d’acquisto solidale dall’altra. A partire dall’esperienza dei gruppi d’acquisto solidale, la rivalutazione dei modi di produzione tradizionali e la commercializzazione diretta tra produttori e acquirenti si sta estendendo al settore dell’abbigliamento con risultati sorprendenti. Aziende che lavoravano come contoterziste per grandi marchi ed erano costrette dalla concorrenza internazionale a subire condizioni contrattuali che le obbligavano 23 WWW.ILRIBELLE.COM a ridurre il personale, delocalizzare in paesi con manodopera a costi inferiori, utilizzare materiali scadenti e tecniche di lavorazione inquinanti, sono riuscite a liberarsi dal giogo della globalizzazione vendendo direttamente le loro merci ai gruppi di acquisto solidale. Poiché operano a dimensione locale, realizzano prodotti svicolati dalla necessità di adeguarsi alle variazioni imposte in continuazione dalla moda e saltano le intermediazioni commerciali, possono utilizzare materiali qualitativamente superiori e tecniche di lavorazione tradizionali meno inquinanti. Nonostante ciò riescono a vendere a prezzi molto inferiori a quelli delle grandi marche e al contempo più remunerativi per loro, per cui hanno rilocalizzato e assunto nuovi occupati a eque condizioni contrattuali. Anche nell’esperienza di queste aziende la crescita dell’occupazione non è stata determinata dalla crescita della produttività e dalla ricerca spasmodica di ridurre i costi di produzione per far fronte alla concorrenza internazionale, ma da scelte di carattere qualitativo che comportano la riduzione del consumo di merci che non sono beni (e, quindi, una decrescita guidata del pil): capi d’abbigliamento confezionati per durare nel tempo, che con un apparente ossimoro potremmo definire di moda durevole; produzione per mercati locali e riduzione del consumo di fonti fossili per il trasporto; uso di materiali e tecniche di lavorazione ecocompatibili; patto tra gentiluomini con gli acquirenti basato sulla trasparenza del prezzo; fidelizzazione della clientela mediante una commercializzazione finalizzata ad accrescere la conoscenza di come è fatto ciò che si compra; vendita diretta senza intermediazioni commerciali. Tutto ciò testimonia la storia breve, ma ricca di futuro, delle imprese nel settore dell’abbigliamento riunite nella rete X i gas. Evito di svolgere qualche riflessione sulla terza scelta strategica per creare occupazione potenziando le tecnologie della decrescita, perché riferendosi all’agricoltura, all’alimentazione e alla reimpostazione del rapporto tra città e campagna, ci porterebbe fuori tema. Mi limito a elencare i compiti che un movimento come il nostro può svolgere per favorire lo sviluppo di una politica economica e industriale che ci consenta di superare la fase difficile che stiamo vivendo e aprirne una nuova finalizzata a realizzare una prosperità senza crescita. Il nostro compito principale è creare collegamenti: a) Tra gli imprenditori e i professionisti che progettano, producono, installano, commercializzano, gestiscono tecnologie che consentono di ridurre lo spreco di risorse, il consumo di merci che non sono beni, i rifiuti da smaltire. Già se ne sono stabiliti. Molti di più sono quelli che si possono stabilire. Per esempio tra un pool di aziende che producono tecnologie 24 LA VOCE DEL RIBELLE per ridurre gli sprechi energetici degli edifici e un pool di magazzini che commercializzano materiali per l’edilizia. b) Tra gli utenti finali che intendono ridurre i propri consumi energetici e gli imprenditori e i professionisti che sono in grado di realizzare ristrutturazioni ad alta efficienza energetica. Per esempio, le aziende che producono moda durevole potrebbero diventare ancor più concorrenziali riducendo i consumi energetici dei loro ambienti di lavoro e dei loro cicli produttivi (ma si può anche fare l’inverso: le aziende che producono materiali e tecnologie per ridurre gli sprechi energetici possono favorire la formazione di un gas tra il proprio personale). Un gas potrebbe ottenere condizioni contrattuali migliori concordando un programma di ristrutturazione energetica delle abitazioni dei propri soci. Per creare questi collegamenti in modo sistematico abbiamo intenzione di approntare nel nostro sito un portale in cui inserire i recapiti e una breve descrizione delle aziende che rispondono ai criteri della decrescita, suddivise per localizzazione e tipologie di prodotto. Un secondo compito che riteniamo di dover svolgere è suggerire agli eletti nelle istituzioni proposte di politica economica e fiscale finalizzate a favorire lo sviluppo di questi settori produttivi. D’accordo con gli enti pubblici che ci ospitano e con le associazioni imprenditoriali che hanno organizzato questo incontro con noi abbiamo intenzione di riproporlo con una cadenza annuale per fare il punto sulle evoluzioni del settore. Un terzo compito è proseguire il lavoro di formazione e di informazione per diffondere la sensibilità su queste tematiche e accrescere il numero di coloro che possono fornire un contenuto scientifico al desiderio di realizzare un altro mondo possibile. Il numero dei circoli territoriali del nostro movimento è in crescita, molti sono i giovani che partecipano alle nostre iniziative, possiamo contare su una casa editrice che diffonde le nostre elaborazioni. Un impegno molto forte vorremmo infine dedicarlo a organizzare incontri tematici nazionali in cui far convergere docenti universitari, ricercatori, studiosi, professionisti, per costruire insieme un paradigma culturale nuovo rispetto a quello che sta arrivando al capolinea dopo più di due secoli di storia. Sentiamo il bisogno di analizzare dal punto di vista della decrescita temi come la spiritualità, l’arte e la letteratura, l’architettura, l’urbanistica e il paesaggio, il lavoro e l’otium, la tradizione e la modernità, la conservazione e il progresso. Il confronto di questi giorni sulle possibilità di indirizzare le innovazioni tecnologiche alla costruzione di una prosperità senza crescita, per noi è il primo tassello di questo programma. Maurizio Pallante 25 WWW.ILRIBELLE.COM M OLESKINE gennaio 2011 Lo dicono anche i fiscalisti: bisogna tassare di più le rendite Ormai, secondo i commercialisti italiani, «in Italia non conviene lavorare, conviene possedere; e se proprio si lavora, conviene non dichiarare» Garantire un quadro di regole certe per rilanciare la fiducia nel rapporto tra fisco e contribuente; accentuare la lotta all’evasione fiscale, ma in un contesto che ponga al centro l’amministrazione della giustizia tributaria, non soltanto l’accertamento e la riscossione; costruire un prelievo fiscale equo, efficiente e coerente rispetto al modello cui si ispira la nostra Costituzione e su cui si fonda la nostra società; correggere il tiro del federalismo fiscale verso una maggiore attenzione all’autonomia finanziaria, piuttosto che all’autonomia impositiva. Inoltre, per la gestione di questo fantomatico nuovo corso nel rapporto cittadino-fisco, bisogna creare un’Authority indipendente, simile ad altre realtà europee, che permetta anche una non rinviabile semplificazione del sistema. Sono i punti nodali del “manifesto dei commercialisti italiani per la riforma del fisco”, approvato durante le riunioni del 16 e 17 novembre 2010 e pronto ad essere discusso al tavolo col ministro Tremonti. In sé si tratta di proposte così assennate da rendere perfino sorprendente che sia l’ordine dei commercialisti a farsene carico presso il Governo. Dal testo in questione emerge una realtà chiara per tutti fuorché – pare – per chi ci amministra. Il fisco, sottolinea il manifesto, opera in maniera diseguale ed iniqua, gravando per lo più sul lavoro (nulla di nuovo); il cittadino, laddove emergano dei contenziosi in materia fiscale, è perseguito come fossimo in uno stato di polizia (nulla di nuovo); c’è profonda disparità di trattamento tra i redditi da lavoro e le rendite da capitale (nulla di nuovo). L’esempio riportato è lampante: «Oggi, una persona che dichiara al fisco redditi di lavoro per 150.000 euro è tassata con una aliquota media del 38,45% (42,35%, se imprenditore o lavoratore autonomo), mentre chi consegue 150.000 euro annui come rendita patrimoniale al 3% derivanti da una ricchezza mobiliare di 5 milioni di euro di titoli è tassato al 12,5%. Il cristallino messaggio che viene dal nostro sistema di imposizione sui redditi è il seguente: in Italia non conviene lavorare, conviene possedere; e se proprio si lavora, conviene non dichiarare». Peccato che alla fine, sul delicato problema della tassazione delle rendite patrimoniali, l’ordine dei commercialisti preferisca glissare limitandosi di fatto allo scontato auspicio di «diminuire la forbice tra il livello di tassazione dei redditi di derivazione patrimoniale ed il livello medio di tassazione dei redditi di derivazione produttiva». Sul come, e soprattutto sul quanto, non si forniscono lumi. Ora, fa un po’ sorridere che la ricetta per il risanamento del fisco italiano arrivi da un comparto, quello dei commercialisti, spesso sotto accusa proprio per i consigli su come aggirarlo. Il problema che viene aperto tuttavia è concreto e non più derogabile. Con la crisi pesantissima in cui ci troviamo, anche nella società italiana si è aggravato il divario tra la maggior parte della popolazione che viene tartassata e una ristretta elite di privilegiati che si avvale dei benefici e delle scappatoie di un sistema fiscale iniquo. Da una parte chi lavora è sottoposto alla più elevata pressione fiscale d’Europa (secondo i dati Eurostat nel 2008 era al 42,8%, a fronte invece dei servizi peggiori d’Europa); dall’altra chi gode di ricchezze mobiliari e patrimoniali trae vantaggio anche dal gettito fiscale altrui. L’intero discorso non può inoltre prescindere da quello che risulta il dato di fatto più sconvolgente della specificità italiana: una macchina politica e una spesa pubblica senza fondo. 315 senatori e 630 deputati (gli USA ne hanno rispettivamente 100 e 445) formano il Parlamento più numeroso del mondo, per il quale spendiamo ogni anno 247.551.240 euro a fronte degli 82 milioni di dollari, pari a 68milioni di euro, del Parlamento americano. La spesa pubblica italiana nel 2009 ha sfiorato gli 800 miliardi di euro e ha superato, in percentuale, la metà del prodotto interno lordo. Il debito pubblico: a settembre 2010 era a quota 1.844,817 miliardi, in aumento dal 2005 –in soli cinque anni! – del 21,8%. Il problema è sempre lo stesso: al di là delle cifre complessive, in quale modo vengono spese queste montagne di denaro? A giudicare dalla tutela del patrimonio pubblico e dalla qualità dei servizi, non Il commercio mondiale si rifà il trucco. Per imbrogliare ancora In Occidente si spende sempre meno e i demiurghi della globalizzazione si concentrano sui Paesi in via di sviluppo. Parola d’ordine: consumare, consumare, consumare (1/12/10) Secondo uno studio della Unctad, la Conferenza dell’Onu sul Commercio e lo Sviluppo, per uscire dalla crisi la ricetta è semplice: basta aumentare i consumi e sfruttare gli investimenti “verdi”. Con l’aiuto dei paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo. Ed evitando in tutti i modi le politiche protezionistiche adottate dagli Stati per proteggere dal collasso le loro industrie nazionali. Ergo, ci vuole qualche ritocco alle regole già esistenti. «In seguito alla recente crisi economica mondiale, molti governi dei paesi sviluppati e in via di sviluppo sono stati spinti ad utilizzare strumenti di politica commerciale. (...) Mentre l’Organizzazione mondiale del commercio ha lavorato efficacemente contro il protezionismo diffuso, emanando norme che disciplinassero il sistema multilaterale, oggi, le stesse si rivelano inadeguate a causa della rapida evoluzione delle realtà economiche. Sono presenti un maggior numero di attori economici, prodotti e servizi rispetto a quando la Wto è stata istituita. Inoltre, gli aspetti non commerciali, come la tutela dell’ambiente, sono molto più importanti». È questo l’asse intorno al quale ruota lo studio della Unctad, preparato insieme alla Japan External Trade Organization, l’ente che promuove gli scambi e gli investimenti tra il Giappone e il resto del mondo. certo nell’interesse della moltitudine che paga regolarmente le imposte. Con la classe politica che ci ritroviamo, quindi, il pericolo è che anche di fronte ad un riassetto costruttivo e significativo del sistema fiscale nazionale, con tanto di recupero dell’evasione, ci sarebbero forse solo più soldi da sprecare e da spartire per chi amministra, non da destinare a chi è amministrato. Che in fondo è quello che paventa anche l’ordine dei commercialisti nella parte introduttiva al proprio manifesto: «In particolare, troppo spesso è stata trasmessa nel cittadino la tutt’altro che immotivata sensazione di una assenza, da parte dell’amministrazione finanziaria, della consapevolezza di avere nel cittadino il fine ultimo della propria azione di tutela degli interessi collettivi e non invece una controparte da colpire anche in presenza di oggettive condizioni di incertezza». Massimo Frattin Sorvolando sul titolo della ricerca,“Il commercio internazionale dopo la crisi economica”, già di per sé illusorio e fuorviante perché farebbe pensare ad una nuova prospettiva, l’analisi mette in evidenza un dato di fatto, e cioè che la crisi economica e finanziaria ha determinato una forte contrazione del commercio mondiale. Un duro colpo per le economie e soprattutto per quelle dei paesi che hanno basato la propria crescita sulle esportazioni. E poichè lo sconquasso «ha cambiato il panorama della politica economica, rappresenta una di quelle rare occasioni in cui potrebbe essere adottata una nuova direzione». Ed ecco il riassetto. Che lascia inalterato il modello complessivo ma che attribuisce ai paesi in via di sviluppo e a quelli emergenti, la funzione trainante del commercio internazionale, fin ora detenuta dall’Occidente. Un’inversione di responsabilità, non di rotta. Non si parla di riformare il modello economico, ma di riorganizzarlo. Anzi, tutte le misure di politica commerciale introdotte come risposta alla crisi finanziaria, sono state considerate niente meno che un vero toccasana, e coerenti con le norme dell’Organizzazione del Commercio Mondiale. Semplificando, le direttive esposte nello studio equivalgono allo spostare qualche giocatore qua e là, adottando uno schema diverso. Ma senza cambiare gioco. L’Unctad, il cui Segretario generale è Supachai Panitchpakdi, ex direttore della Wto, indica anche le opportunità da sfruttare per “risanare” il commercio internazionale e le economie mondiali. Bisognerà investire nei «beni ambientali e nelle tecnologie “verdi» ed «adattare l’agenda internazionale del commercio alle esigenze ed alle aspettative del settore privato». Solo in questo modo potrebbe essere contrastata la diminuzione degli scambi commerciali, considerata tra le cause gennaio 2011 principali dell’aggravarsi della recessione. Con l’aggiunta di un’altra raccomandazione: impegnarsi a raggiungere un accordo definitivo sul Doha Round, il ciclo di negoziati della Wto che hanno avuto inizio nel 2001 con l’obiettivo di eliminare le barriere commerciali di tutto il mondo ma che sono bloccati dal 2008 per divergenze su questioni importanti, come l’agricoltura. Stati Uniti ed Europa, ad esempio, non hanno intenzione di rinunciare ai sussidi agricoli in quanto rischierebbero il crollo del settore, già in crisi proprio a causa della concorrenza spietata dei paesi emergenti, come la Cina. Sia la Conferenza Onu sul Commercio e lo Sviluppo, sia l’Organizzazione del Commercio Mondiale, non danno l’impressione di preoccuparsene. Entrambe Padri e figli contro. Non volendo (1/12/10) Le immagini provenienti dalle manifestazioni degli studenti di ieri, da Roma, da tante città d'Italia e anche dal resto d'Europa (per esempio dalla Gran Bretagna) sono emblematiche per almeno due punti di vista. Dovremmo averle viste tutti nei telegiornali della sera, e il caso italiano, tanto per cambiare, ha l'ulteriore aggravante delle parole del Presidente del Consiglio: "Gli studenti seri sono a casa a studiare". Inutile commentare come Berlusconi si copra di ridicolo ogni volta in cui pronuncia frasi del genere. È come se fosse del tutto alienato dalla realtà, come se vivesse in un mondo tutto suo. Non sente le urla della gente quando attraversa le città, per esempio Napoli, dall'interno delle automobili blindate, tra scorte della polizia attraverso ali di folla che inveiscono. Non sente, o non vuole sentire, che circa l'80% della popolazione italiana o lo osta attivamente o semplicemente ignora ogni sua uscita o comportamento. Non sente, non avverte, non legge, non si accorge - o fa finta - di essere lo zimbello del mondo intero e della stampa di ogni Paese. Un marziano sulla terra, che però è al posto giusto (visto che il suo governo è stato votato da ben oltre la metà degli elettori, che in ogni caso non rappresenta che il 20-30% del Paese) per contribuire attivamente a sprofondare l'Italia nel baratro. Ma torniamo alle immagini e come detto al carattere emblematico delle stesse. Ci riferiamo in particolare ai mezzi delle forze dell'ordine piazzati nelle strade attorno al Parlamento per sbarrare la strada alla manifestazione degli studenti. Queste immagini hanno un significato anche simbolico, oltre che pratico, davvero particolare. Rappresentano una cittadella, nelle cui stanze si discutono e votano riforme del tutto impopolari, assediata - ora da una categoria, ora da un'altra: ieri dagli studenti - che si arrocca in sicurezza, sembrano spingere affinché l’Occidente ceda lo scettro a paesi come la Cina e l’India. Entrambe considerano di vitale importanza per la sopravvivenza di questo modello economico, che la domanda per beni e servizi riprenda a crescere. La crisi ha paralizzato i consumi nel Nord del mondo. E loro, per ovviare al problema, consigliano di incrementare il commercio con i paesi emergenti ed in via di sviluppo, dove la domanda è in espansione, e nel contempo raccomandano questi ultimi di adottare delle politiche economiche che aumentino il loro potere di acquisto. Come si dice: “cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia”. Pamela Chiodi blindandosi, per poter continuare a svolgere un lavoro che all'Italia non piace. Loro dentro, blindati e protetti dalle forze dell'ordine, a fare affari dei quali il popolo non ne può più, e le forze dell'ordine a proteggere il tutto mentre fuori la massa spinge per entrare e far sentire le proprie ragioni. La via democratica, attraverso il voto, è quella giusta, si dirà.Vero. E in questo una grandissima responsabilità la hanno tutti quelli che hanno votato per questo governo, così come tutti quelli che hanno votato per altri partiti e coalizioni di una compagine nei fatti uguale in tutto l'arco Parlamentare: votando anche l'opposto di Berlusconi si è dato appoggio, di fatto, al sistema delle oligarchie che si autoproteggono presenti in Parlamento. Ciò non toglie che la voce del popolo vada ascoltata, e che siano proprio o politici a doverlo fare. Chiudendosi lì dentro, quasi in stato d'assedio, e dando ordine, in pratica, di depotenziare e silenziare qualsiasi voce contraria a quanto stanno facendo, è evidente, si percepisce benissimo lo scollamento, che a questo punto, e giustamente, può tranquillamente sfociare in atti anche violenti, tra "loro" e il resto. Non solo. L'altro aspetto emblematico, e probabilmente peggiore, è che, sempre mentre lì dentro si consumano atti che il popolo non vuole, ai fini dello stato sociale, della sanità, della previdenza, dell'istruzione e del resto, a fronteggiarsi nelle strade sono cittadini dello stesso tipo. Da una parte e dall'altra, ovvero nei cortei ma nelle forze di polizia impegnate a rispettare gli ordini, ci sono le stesse persone. Molto probabilmente, ieri, a Roma, da una parte, in divisa, con il manganello in mano, vi erano padri di molti ragazzi che stavano invece manifestando dall'altra parte. Opposti dai ruoli e dalla situazione. Ma accomunati, tutti, nelle strade, a fronteggiare una contingenza di fatto creata da chi era al caldo delle istituzioni che, a questo punto, non si capisce più quale Stato rappresentino. Valerio Lo Monaco MONICELLI, più vitale di molti viventi Solo la nostra classe politica poteva avventarsi sul suicidio del grande regista per cercare di strumentalizzarlo in un senso o nell’altro. Dimostrando di non aver capito niente (2/12/10) Da toscano purosangue, il monticiano d’adozione, anche da morto riesce a far incazzare quelli che gli stavano sulle palle e farli parlare a vanvera, regalandoci ancora amare risate sulle meschinità di questo paese. Regalandoci, perché lo spettacolo va in scena alla Camera e non al cinema: nessun biglietto da pagare, solo alti stipendi che sono un insulto a un’Italia allo stremo. Che, però, finché questi parlamentari li paga, eleggendoli e rieleggendoli, si merita ogni insulto che riceve. Esistesse l’aldilà della Binetti, Monicelli, se la starebbe ridendo alla grande. Noi, che siamo vivi, invece ridiamo meno del vergognoso spettacolo bipartisan dato dai deputati, visto che fra i “dolce morte” e i “pro vita” il ridicolo e l’arroganza sono equamente condivisi. Sì, anche i “dolce morte” condividono l’arroganza dei “pro vita”, perché la radicale-PD Rita Bernardini ha dimostrato di non aver capito nulla di Monicelli e del suo gesto virile, pronunciando questa dichiarazione: «Quest'Aula dovrebbe riflettere su come alcune persone che non ce la fanno ad andare avanti sono costrette a lasciare la vita invece di morire vicino ai propri cari con la dolce morte». Costretto…? Niente e nessuno avrebbero mai potuto convincere Monicelli a fare alcunché: il suo è stato un “estremo scatto di volontà”*. La volontà di un Uomo che ha sempre fatto della sua autonomia intellettuale, e fisica, una bandiera, che mai avrebbe potuto accettare la “dolce morte”, magari in salsa fazista, che ha agito scientemente finché era in tempo: anche fosse stata possibile l’eutanasia, mai si sarebbe lasciato strascinare fino al momento in cui la morte avrebbe dovuto essergli pietosamente concessa da altri. Piaccia o no alla Bernardini esiste gente che, alla “dolce morte”, preferisce un dignitoso suicidio, essendo convinta che, fino a quando una persona è in possesso delle sue facoltà fisiche e mentali, non c’è bisogno di alcuna eutanasia: c’è il suicidio, come ai tempi in cui Roma era “Antica”. In effetti il nostro viareggino è morto come un gennaio 2011 Le onde assassine di Radio Vaticana Romano Antico, di quelli che non ce ne sono più, ma del resto già dai tempi dell’Impero erano i soprattutto i “provinciali” a comportarsi da Romani. Il messaggio che i “dolce morte” dovrebbero cogliere nel gesto di Monicelli è che, per alcuni, il suicidio è una scelta e che chi può farla finita da solo, prima di diventare un groviglio di tubi, lo fa, e questo non è costrizione ma è volontà. Che arroganti, questi “suicidi”: ritengono che ci sia qualcosa che non va in chi chiede ad altri di fare ciò che lui non riesce a fare; ritengono che siano persone che non vogliono realmente morire, oppure sono dei vili. Un genere di individui dai quali comunque, col suicidio, ci si vuole distinguere. Questo naturalmente vale solo per chi è in grado di porre fine in autonomia alla sua vita, come Monicelli ha avuto il tempo di fare, ad onta della sua età. Se ciò non è possibile ben venga allora la “dolce morte”, se mai può essere dolce la morte, della Bernardini. Più della Bernardini, infatti, avrebbe sollazzato il Monicelli la solita Binetti con le sue ringhiose, presuntuose, dichiarazioni: «Basta, per piacere, con spot a favore dell'eutanasia partendo da episodi di uomini disperati, perché Monicelli era stato lasciato solo da famiglia e amici ed il suo è un gesto tremendo di solitudine non di libertà». Come si permette di asserire che fosse un uomo disperato? Certo la malattia non lasciava speranza, ma è stato, come ogni atto della vita regista, un “gesto di libertà”, non certo di solitudine. Se Monicelli era solo, lo era proprio perché lui rifiutava di essere un vecchio da compatire: anche ammettendo la solitudine pretesa dalla Binetti, è da pensare che fosse perché è stato lui ad allentare i legami con famiglia e amici, proprio perché troppo uomo per accettare di essere compatito e influenzato nelle scelte definitive. Questo a meno che la Binetti non provi di essere così intima della famiglia Monicelli e di avere informazioni Wikileaks che a tutti noi infedeli mancano. È però vero che non è stato uno spot favore dell’eutanasia. Se ne fregava lui di chi subisce gli spot: è stato solo il gesto di un uomo convinto, giustamente, che la sua vita appartenesse a lui e solo a lui, non alla Binetti o al suo dio. A questo poi ha aggiunto un antifazista corollario di virile coerenza: il non chiedere, anzi rifiutare, quelle messe a suffragio che tanto piacciono ai fazisti, ottenendo invece le campane di rispetto rionale e umano di un parroco, Don Francesco, molto più vicino al suo Cristo di quanti pretendono di rappresentarlo e imporlo, per colpa soprattutto nostra, in parlamento. Il geniaccio versiliese se ne fregherebbe anche di questo spreco di lettere. Non ne ha bisogno: ha già risposto, nella sua ultima intervista**, alle parole, queste sì da spot, di Enrico La Loggia, «Suicidio mai, mai. Sempre la vita e la speranza», con il memorabile: «la speranza di cui parlate è una trappola, una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono che dio… state buoni, state zitti, pregate che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà. Intanto, perciò, adesso, state buoni: ci sarà un aldilà. Così dice questo: state buoni, tornate a casa. Sì siete dei precari, ma tanto fra 2 o 3 mesi vi riassumiamo ancora, vi daremo il posto. State buoni, andate a casa e… stanno tutti buoni. Mai avere speranza! La speranza è una trappola, una cosa infame inventata da chi comanda». Dovremmo imparare dal regista-sceneggiatore a rinunciare a questa speranza e a riprenderci il futuro, strappandolo in primis a chi sostiene che sarà lui a “farlo”. Seguendo la ricetta, forse suicida e non certo da “dolce morte”, che ci indica il regista allo scopo di realizzare «quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una rivoluzione che non c’è mai stata in Italia. C’è stata in Inghilterra, c’è stata in Francia, c’è stata in Russia, c’è stata in Germania, dappertutto, meno che in Italia. Quindi ci vuole qualche cosa che riscatti veramente questo popolo che è sempre stato sottoposto. Sono 300 ani che è schiavo di tutti e, quindi, se vuole riscattarsi…il riscatto non è una cosa semplice: è doloroso, esige anche dei sacrifici, sennò vadano in malora, come già stiamo andando da tre generazioni». Ma ci vuole coraggio a tuffarsi in questa soluzione. Quindi meglio rifugiarsi nella dolce morte o nella non vita a oltranza e andare alla malora. *Per usare le giuste parole di Giorgio Napolitano (3/12/10) Finalmente conclusa la perizia avviata quattro anni fa. Con un responso tanto inquietante quanto preciso: per chi vive nel raggio di 12 chilometri il rischio di leucemia risulta 5 volte superiore alla norma Si è concluso l'incidente probatorio richiesto nel 2006 dalla Procura della Repubblica di Roma riguardante il procedimento penale nei confronti dei responsabili di Radio Vaticana. Una perizia durata più di quattro anni ha dimostrato «un’associazione coerente, importante e significativa» del rischio di morte per leucemia, linfoma e mieloma alla lunga esposizione residenziale in prossimità delle antenne dell’emittente della Santa Sede. Da una analisi dei decessi relativi ad ogni fascia di età avvenuti dal 1997 al 2003 per le stesse patologie, esaminando i 20 anni di storia abitativa antecedenti la data della morte si sono ottenuti risultati scioccanti: il fattore di rischio di morte per leucemia per chi vive fino a 12 chilometri dalla Radio Vaticana è di 4,9 volte superiore al valore atteso; un rischio che si traduce in circa 3 casi stimati di morte per esposizione residenziale alle onde elettromagnetiche per ciascuno degli anni di studio. È questo il responso della perizia epidemiologica condotta dal dott. Andrea Micheli della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, consulente tecnico d’ufficio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Zaira Secchi. Dichiarato concluso l’incidente probatorio richiesto nel 2006 dalla Procura della Repubblica di Roma nell’ambito del procedimento penale indiziario in corso nei confronti dei responsabili della Radio Vaticana, il giudice Secchi ha rimesso gli atti della perizia a Stefano Pesci, sostituto Procuratore della Repubblica, il quale istituirà il processo penale formale. Ora, gli incredibili risultati della perizia scientifica “Marconi” e l’evidenza dei danni alla salute causati dalle antenne della Radio fanno ben sperare i cittadini della zona interessata, a nord di Roma, dopo anni spesi chiedendo che le antenne assassine dell’emittente vaticana venissero rimosse o sostituite. Oltre alle numerose proteste nei suoi confronti alle quali si è potuto assistere negli scorsi anni, alla luce di questi nuovi studi il Coordinamento dei Comitati di Roma Nord si è organizzato ed ha fatto alle autorità nazionali e locali quattro richieste fondamentali: 1. l'immediata sospensione delle trasmissioni della Radio Vaticana e la sua delocalizzazione in un luogo in cui non possa accrescere il rischio di morte e di malattie per gli esseri umani, oppure l'abbandono totale di questa obsoleta tecnologia in favore della diffusione satellitare dei propri programmi radiofonici; 2. l'immediato blocco del rilascio di concessioni edilizie nel territorio oggetto di indagine; 3. l'istituzione nello stesso territorio di un controllo sanitario pubblico specifico di diagnosi delle patologie in esame, attraverso cui indirizzare urgentemente gli ammalati nei centri clinici specializzati per la cura; 4. l'istituzione di un registro dei tumori nel territorio oggetto dell'indagine epidemiologica. Dopo dieci anni dall'inizio della vicenda penale, quindi, i dati a disposizione sugli effetti delle famose antenne a nord di Roma sono ancora più inquietanti. E ora si attende il processo finale. È vero che per un cittadino italiano comune in questo momento è ben difficile credere che giustizia possa essere fatta, o che la legge sia uguale per tutti, ma i risultati della perizia dello Studio Marconi parlando da soli. E se anche questi non dovessero bastare, rimangono particolarmente rilevanti ed esplicite le dichiarazioni fatte dal perito del Tribunale, il quale ha affermato: «L'eccesso di rischio è clamorosamente alto. [...] L'effetto è molto importante e non può essere dovuto al caso. [...] Non si può non pensare che lì sia successo qualcosa di importante per la vita di quelle persone, che non è spiegabile con altra causa che non siano le emissioni della Radio Vaticana. [...] I risultati hanno a che fare con la dislocazione in cui queste persone hanno abitato nella loro vita e questi bambini hanno abitato nel loro periodo di vita. [...] Livelli così elevati di rischio si riscontrano, nella letteratura scientifica, soltanto negli studi epidemiologici relativi alle zone che hanno subito gli effetti dell'esplosione di una bomba atomica». Andrea Bertaglio Ferdinando Menconi gennaio 2011 Viva gli studenti in lotta. Purché vadano oltre TAV: ma ci serve davvero? Anni fa la questione si impose all’attenzione dei media a causa delle proteste in Val di Susa. Poi, a poco a poco, i riflettori si sono spenti, lasciando tutto in stand-by Essere contro la Riforma Gelmini dovrebbe significare essere contro una concezione aziendalistica non solo della scuola ma dell’intero tessuto sociale. Ergo, non bisogna fermarsi alle proteste di questi giorni (3/12/10) «Ci vorrebbe un’altra rivoluzione. Ma chi potrebbe farla? Mi dispiace, ma nei giovani di oggi non ho alcuna fiducia. Sono degli imbelli, non amano combattere e tanto meno rischiare, sono pronti a qualsiasi bassezza purché serva a conservare i loro miserabili privilegi». La citazione cade a fagiolo, in questi giorni di sommosse studentesche. È di Mario Monicelli, che vogliamo ancora una volta ricordare citando questo passaggio dal suo intervento sulla rivista Micromega dello scorso settembre. Il disincanto del vecchio rivoluzionario bocciava la generazione dei venti-trentenni di oggi come un gregge di imboscati senza attributi. I ragazzi nelle piazze di tutta Italia non potevano rendergli tributo migliore, smentendolo anche se solo in parte, e certamente non quanto e come avrebbe voluto lui. E come vorremmo noi. Gli universitari hanno scosso il paese, costringendo il potere romano ad asserragliarsi nel cuore della capitale militarizzato in fortino. È la collaudata tecnica della “zona rossa” in stato d’assedio, che ipso facto criminalizza la protesta come fosse uno sfogo di pancia di una minoranza di facinorosi. I consueti serpentoni urlanti nelle vie delle città, i blocchi delle stazioni ferroviarie, le facoltà occupate, il dilagare della contestazione anti-Gelmini negli istituti superiori hanno delineato il consueto quadro della rivolta giovanile che ogni riforma dell’università o della scuola si cucca facendo blaterare gli opinionisti col pilota automatico di un “nuovo ‘68” - un ’68 che non passa mai perché divenuto un mito tanto evocativo quanto privo d’efficacia. Tuttavia non sarebbe giusto liquidare i moti di piazza come l’ennesima, inconcludente riedizione della voglia di far casino tipica dell’età. È genuina l’energia sprigionata dai giovani docenti precari sui tetti delle università e dei monumenti, così come la determinazione delle folle giovanili rivoltatesi senza centrali partitiche a manovrarli (gli juniores del Pd, delle formazioni di estrema sinistra o di estrema destra sono l’avanguardia spontaneista di partiti che non hanno più una presa ideologica profonda). Ma è soprattutto un insorgere che ha dimostrato come i ragazzi del 2010, quando ci si mettono, il dissenso lo sanno manifestare eccome. Con un’organizzazione che, per essere priva di apparati e professionisti della jacquerie com’erano un tempo le forze extraparlamentari, è da ammirare. E rischiando denunce, botte e il risentimento di lavoratori, pendolari e pedoni vari che appena si trovano davanti una strada chiusa o un treno in ritardo causa manifestazione, non si pongono il problema di capirne le ragioni ma si offendono, aggrediti a morte nel proprio tran tran quotidiano. Gli smanettoni di facebook hanno riscoperto il piacere e il dovere della realtà. Hanno dimostrato di non essere quegli “imbelli” senza possibilità di redenzione di cui parlava con disgusto Monicelli. Eppure il savio incazzato continua ad avere ragione. Perché una mobilitazione, seppur lodevole ma limitata al campo settoriale degli studi, mette sottosopra un paese per una settimana o per un mese ma non cambia le condizioni del suo giogo che comprende l’aziendalizzazione dell’università ma non si esaurisce in essa. Questa riforma è uno dei tentacoli di quel mostro che è la privatizzazione delle nostre vite, razionalizzate, precarizzate e meccanizzate a maggior gloria del dio mercato e dell’efficientismo industriale. E allora la rivolta di questi giorni ci pare sì bella, ma perduta: bella perché viva e portatrice di nuova linfa, perduta perché destinata a perdere lo scontro vero. Che non si riduce a questo o a quel settore della società, ma la investe tutta per intero. È il “perché” del modello complessivo di ordine sociale, che i giovani non mettono in dubbio. Non è la Gelmini, il problema: è, se vogliamo dirla alla Marx, la struttura di un’Italia occidentale, tecnocratica e turboliberista, di cui le Gelmini sono un sottoprodotto. È assente, come sempre, una critica ragionata e ad ampio raggio di tutto quanto l’edificio. Gli attuali contestatori, invece, si contentano di mettere a soqquadro per un po’ una singola stanza. I sessantottini s’ispiravano, a torto o a ragione, a Marcuse e ad Adorno. Oggi è il deserto. Guai a chi alberga deserti dentro di sé, diceva Nietzsche. Pur se tornando finalmente in strada. Alessio Mannino (3/12/10) TAV è una sigla ormai famigliare anche al grosso pubblico, ma siccome è molto che non se ne parla può essere utile ricordare di cosa si tratta esattamente. Essa, infatti, identifica la società privata facente capo alla Ferrovie dello Stato S.p.A. con il compito di pianificare, progettare e costruire linee ferroviarie “ad alta velocità e alta capacità”, da installare in alcune aree del territorio italiano.Tra le altre, la più nota è quella che va da Lione all’Ucraina e che dovrebbe tagliare orizzontalmente il nord Italia garantendo, nelle parole dei progettisti e dell’Unione Europea (che la sponsorizza), un collegamento finalmente funzionale ed efficiente nel trasporto delle merci e delle persone, ma soprattutto delle merci, sia in ambito comunitario che verso i mercati dell’est. Com’è noto, della TAV si è discusso molto al tempo delle proteste che i lavori relativi a una sua specifica tratta, la Lione-Torino, suscitarono tra le popolazioni della Val di Susa. Proteste che in alcune circostanze si sono tramutate in veri e propri tumulti. Come a Venaus, nel dicembre 2005, quando la polizia sgomberò violentemente il presidio dei cittadini che avevano occupato le aree del cantiere, suscitando poi un’ulteriore manifestazione nei giorni successivi, durante la quale ci furono nuovi incidenti. Ne seguì un’indagine della magistratura, con il conseguente sequestro dei cantieri, e da allora il governo promette consultazioni con i movimenti e i sindaci che si oppongono all’operazione. In realtà, però, il confronto non è mai partito. A capo della commissione creata ad hoc è stato messo Mario Virano, prontamente contestato in quanto coinvolto in alcune delle società appaltatrici dei lavori. Da quel momento il dissidio è entrato in una fase diversa. Assumendo un aspetto che si potrebbe definire carsico. I lavori rimangono come una spada di Damocle sulla testa dei cittadini della zona, fra i quali, come riportato da una recentissima inchiesta de “La Stampa”, le divisioni tra favorevoli e contrari permangono, in proporzioni e con modalità diverse. Ed è così che anche in Val di Susa accade ciò che è accaduto in altri territori quando si è profilata l’ipotesi di questa o quella “grande opera”.Viene in mente la storia del Vajont, raccontata così bene da Marco Paolini, con i cittadini prima preoccupati, poi organizzati, poi divisi e infine “comprati”, in parte, dai grandi interessi, attraverso un’opera di corruzione assidua e strisciante. In Val di Susa al momento i vari comitati restano sul chi vive, e i loro componenti vivono la militanza con la passione di chi è convinto che l’opera progettata sia inutile, dannosa sotto una miriade di aspetti e per di più costosissima. In breve, la solita “italianata” a base di soldi pubblici distribuiti alle cricche e agli amici degli amici, alla faccia della reale utilità e della salute pubblica. Di contro, esiste anche un fronte tutt’altro che irrilevante di persone favorevoli. La cui presenza è molto meno evidente, perché preferiscono esprimere la propria posizione con moderazione o con il silenzio: i pochi che si espongono lo fanno con timore, perché il confronto tra gli opposti schieramenti ha già assunto i toni della battaglia in passato, e non è semplice muoversi e vivere in un contesto di contrapposizioni così radicali. Ripartiamo dalla domanda fondamentale, quindi: la TAV è davvero utile? Al di là dei dati controversi sulla possibile ricaduta occupazionale, sullo sconvolgimento ambientale e sui possibili danni alla salute dei cittadini, il problema sembra stare nelle premesse. La “vecchia” linea ferroviaria risulta utilizzata al 30% della sua reale capacità, e la direttrice autostradale parallela lo è per meno del 50%. Perché mai, allora, bisognerebbe aggiungere una nuova infrastruttura? In nome di una crescita futura, rispondono i sostenitori della TAV. Peccato che quelle previsioni siano sballate in due sensi: primo, non tengono conto della crisi, benché sia sempre più chiaro che essa non è affatto transitoria ma strutturale; secondo, si basano sull’idea della crescita infinita, per cui ad ogni punto di PIL si genererebbe una crescita aggiuntiva dei volumi di traffico pari all’1,4 per cento. Proprio il già citato Virano, d’altronde, è appena incappato in una gaffe involontaria. Annunciando la diffusione imminente di nuovi dati di previsione elaborati alla luce della crisi, ha citato come esempio la linea ad alta velocità Madrid-Bacellona, realizzata comunque anche se a fronte di previsioni negative. «Il governo», racconta Virano, «decise comunque di procedere alla realizzazione, ritenendo prevalente l’interesse nazionale di connessione socio-territoriale». E infatti, viene da dire, ora la Spagna va a gonfie vele. Davide Stasi gennaio 2011 No sponsor, no money. No restauri (6/12/10) Il sindaco di Roma ne era sicuro: i 25 milioni per i lavori straordinari al Colosseo li avrebbe tirati fuori un pool di aziende internazionali. Ma le cose sono andate in tutt’altro modo di Sara Santolini La previsione di Gianni Alemanno alla fine si è rivelata sbagliata. Gi sponsor per il restauro del Colosseo, Patrimonio dell’Umanità Unesco e inserito tra le Sette meraviglie del mondo moderno*, non ci sono. Meglio, ne è rimasto solo uno possibile – e disponibile – che non ha nemmeno partecipato al bando relativo ma ha mostrato il suo interesse con una semplice lettera di intenti: il gruppo Tod's. Era aprile quando Alemanno annunciava la volontà di numerose aziende giapponesi di unirsi in una cordata imprenditoriale, con a capo, appunto, Diego Della Valle**, per il restauro che si prevede costerà 25 milioni di euro. La gara relativa, bandita il 4 agosto e conclusasi il 31 ottobre, si è rivelata invece un flop clamoroso.Tra i concorrenti c’era il gruppo Samsung, la multinazionale sudcoreana che produce elettronica di consumo dai cellulari ai condizionatori d’aria. Evidentemente per la Sovrintendenza non aveva le carte in regola per sponsorizzare questa impresa. Proprio come tutti gli altri partecipanti al bando: un altro giapponese, due inglesi, due statunitensi e nove italiani.Tra loro, a sorpresa, non figurava il nome di Rupert Murdoch, il titolare di Sky che inizialmente sembrava interessato all’affare. Nessuna cordata, comunque.Tra tutti questi nomi, inoltre, non è stato scelto nessuno. La motivazione, stando alle parole di Roberto Cecchi, segretario generale del ministero dei Beni culturali, è che «Le offerte pervenute si configurano come non appropriate. Da questo momento l'amministrazione porterà avanti una fase di procedura negoziata». In parole povere, cercherà di capire se la lettera d’intenti del gruppo Il nucleare italiano e il “pacco” francese (7/12/10) Si chiamano EDF e Areva, e sono le aziende transalpine che fanno da perno ai progetti atomici di Berlusconi. Peccato che, secondo il Financial Times, siano entrambe in crisi Il programma nucleare italiano traballa pericolosamente. Risente, ed è inevitabile, del terremoto che scuote il governo che l’ha elaborato e proposto. Qualunque cosa venga dopo, la caduta di Berlusconi e dei suoi comporterebbe uno stop netto e probabilmente fatale ai piani di reintroduzione dell’atomo nel nostro paese. Il nuovo esecutivo dovrà fronteggiare la crisi economica e la speculazione Tod’s possa trasformarsi in una offerta. Ma non è finita. Secondo l'avviso di gara, messo a punto dagli uffici del commissario per l'area archeologica centrale di Roma, i lavori dovrebbero essere effettuati da una società di restauro sotto il controllo della Soprintendenza. Il bando prevede però studi di fattibilità, cantiere a norma, cronoprogramma con eventuali penali in caso di mancata consegna, e sicurezza a carico dello sponsor. Il tutto senza chiudere la porta ai visitatori nemmeno un giorno: la Soprintendenza Archeologica non può infatti permettersi di perdere le entrate che le assicura lo sbigliettamento per l’entrata al monumento romano. Tutto questo renderebbe l’impresa ardua per Diego Della Valle, che potrebbe tirarsi indietro. Così probabilmente il Colosseo rimarrà senza sponsor, e senza restauro. Il che è ovviamente pericoloso, visto che si tratta di un monumento all’aperto e che già a Pompei abbiamo modo di toccare con mano quali siano le conseguenze dell’incuria e della mancata manutenzione. Questa vicenda, inoltre, apre un’altra serie di problematiche. Fino a pochi mesi fa lo stesso Bondi salutava questa sponsorizzazione come l’esempio che avrebbero dovuto seguire tutte le Sovrintendenze italiane allo scopo di restaurare il patrimonio culturale in maniera veloce ed efficiente, come se la gestione privata fosse necessariamente dotata di queste qualità. Adesso, che il primo tentativo sembra votato al fallimento, una riflessione è d’obbligo. Al di là dell’inquietudine che può provocare la presenza di annunci pubblicitari appiccicati qua e là sulle facciate dei nostri monumenti – perché sostanzialmente questo ha in cambio uno sponsor – il gioco evidentemente non vale la candela. Perché l’amministrazione pubblica non può fare affidamento su uno sponsor privato, che alla fine potrebbe anche non esserci, per dei lavori che non sono solo delicati ma assolutamente indispensabili. Sara Santolini finanziaria, quindi è probabile che il capitolo nucleare, nonostante i potenti interessi sottesi, dovrà essere accantonato, fino a una chiusura in sordina. Se il programma dovesse proseguire il suo percorso, però, è bene chiarire a cosa andremmo incontro esaminando, alla luce degli ultimi dati, la partnership stabilita a questo scopo con la Francia e i suoi colossi nucleari. A parlarne è il Financial Times, che ha fatto il punto della situazione su EDF (Electricité de France), società elettrica di gestione di impianti nucleari, e su Areva, la principale società privata francese di progettazione e costruzione di reattori e centrali nucleari. I due perni dell’accordo nucleare Italia-Francia. Del primo, EDF, e dei suoi tracolli, abbiamo già parlato poco tempo fa (qui). La sua leadership mondiale nella gestione delle centrali nucleari si sta sbriciolando irreversibilmente, a partire dalla patria dell’energia atomica: gli USA. Ora il quotidiano inglese dirige i riflettori anche su Areva, il cui prodotto di punta, lo “European Pressurized Water Reactor” (EPR), viene spacciato come il più efficiente, sicuro, in grado di resistere anche all’impatto con un aeroplano, e sofisticato. Di fatto esistono solo due EPR in costruzione al mondo, uno in Francia e uno in Finlandia. Quest’ultimo è diventato una via crucis: problemi legati alla regolarità del progetto e della costruzione hanno comportato un aumento non previsto dei costi di 2,7 miliardi di euro. La prima conseguenza è stata l’abbandono della joint venture da parte di Siemens. Una pietra tombale su future possibili cooperazioni con Areva, intanto rimasta col cerino in mano tra le nevi finlandesi di Okiluoto. Ma anche la competizione internazionale non va affatto bene: Abu Dhabi ha scelto reattori meno costosi di quelli Areva, prodotti in Corea del Sud. La Cina sta spostando le proprie preferenze verso l’americana Westinghouse, mentre l’India sembra non voler pagare minimi e opinabili livelli di sicurezza in più da pagare a fronte di sovrapprezzi enormi. Sono questi fiaschi diffusi, secondo il Financial Times, ma anche secondo le rilevazioni del governo francese, a rendere necessaria una ricapitalizzazione di Areva per due miliardi di euro. Condizione essenziale se si vuole che resti sul mercato. I pochi investitori esteri disponibili, però, sono interessati solo ad alcune sue specifiche divisioni, ad esempio quella che si occupa dell’estrazione dell’uranio, mentre tutti escludono di voler finanziare il comparto aziendale Poveri noi, schiavi dell’automobile Tutti a inorridire per la strage di ciclisti di domenica scorsa in Calabria. Nessuno che punti il dito sulla follia di questo modello di vita e di trasporto, frenetico e costoso (7/12/10) Qualche volta è utile leggere oltre la cronaca, perché se da un lato la maggior parte delle notizie di omicidi e morti di vario tipo riempiono quotidiani e telegiornali per il solo motivo di fare audience (il che porta già di per sé a un giudizio sulla natura del pubblico) accade però che certi eventi abbiano la capacità di innescare delle riflessioni, spesso amare, sulla società nel suo complesso. Quella dei ciclisti nei pressi di Lamezia Terme di domenica è stata una strage in piena regola. Mero incidente stradale, si sarebbe portati a pensare, come per la costruzione di centrali e reattori. La situazione poi non è semplice nemmeno sul fronte interno.Tra i vari colossi francesi del settore, tutti in diversa misura partecipati dallo Stato, c’è una competizione spesso tendente a sfociare in scontro, anche per l’esistenza di conflitti di interesse e interessi sovrapposti. Secondo Anne Lauvergeon, amministratore delegato di Areva, ad esempio, EDF, pur possedendo azioni di Areva, non dovrebbe sedere nel consiglio d’amministrazione. Si tratta di una sovrapposizione che tiene lontani eventuali clienti che altrove e in altri ambiti sono in competizione con EDF. Dal suo canto EDF gestisce il 95% del mercato interno dell’elettricità, un “tesoretto” che intende preservare con giustificata attenzione, senza coinvolgere altri soggetti. «Rivalità tra cugini», così il Financial Times definisce il contesto. Il tutto avviene mentre la domanda sul fronte industriale nucleare è in calo inesorabile da anni, quanto meno in Europa e in America. Si parlava anni fa di “rinascimento nucleare”, subito abortito con il crollo del prezzo del gas e il prolungamento per legge del tempo di sfruttamento dei reattori già attivi. Da quel momento la domanda per le nuove centrali è crollata. Negli USA, l’unico impianto ancora in costruzione è stato iniziata nel 1973, e sarà pronto, forse, nel 2012. Ed è in questo contesto che l’Italia di Berlusconi ha stretto accordi per la costruzione sul nostro territorio di quattro centrali nucleari EPR della Areva. Quelle che il mondo sta rifiutando. Una ragione in più per sperare che il governo cada, trascinando con sé il suo progetto nucleare. Davide Stasi ne accadono molti sulle strade. I dettagli sono su ogni quotidiano. Ma superare lo sgomento della cronaca, la morte di sette persone che avevano deciso di passare la domenica all'aria aperta, senza inquinare né dare fastidio ad alcuno (silenziosi, passeggiavano in bicicletta senza dissacrare nulla, in nessun modo, dell'ambiente circostante) tanto che solo un sorpasso azzardato poteva comportare una strage del genere, può servire ancora una volta, purtroppo, a mettere a fuoco il dato di fondo: ma in che mondo stiamo vivendo? E attenzione, non importa, non ora, non qui, il fatto che il conducente del veicolo che ha disintegrato i ciclisti come birilli sia uno "straniero", patente o meno, droga o meno. Gli incidenti stradali accadono. Il mondo attuale, che privilegia la velocità e le automobili rispetto a mezzi e stili di vita più vicini a quelli naturali dell'uomo, ci porta a eventi del genere praticamente ogni giorno. Ce ne accorgiamo dai resoconti dei media. Ce ne accorgiamo semplicemente girando per le nostre città, dove la guerra per il centimetro gennaio 2011 Ah, la stabilità. Questo bene supremo Da un lato Berlusconi che si lamenta che lo vogliano «fare fuori». Dall’altro i suoi molti oppositori. Ad accomunarli, la stessa mistificazione: basta un governo stabile, per uscire dalla crisi in più è affare quotidiano. Dove improbabili quarantenni si inventano scooteristi, senza aver mai messo il sedere su qualsiasi mezzo a due ruote, perché con l'automobile non ce la fanno più e i mezzi pubblici, tra disservizi e scarsità, praticamente sono inutilizzabili. Sono messi in condizione di essere inutilizzabili. Ci sono automobili da vendere, finanziarie da far "lavorare" con le comode rate, assicurazioni lasciate libere di aumentare i premi come meglio credono, un infinito indotto collegato. E i pedaggi per i parcheggi, le tasse, le multe. E il carburante da far comperare e consumare, anche se vi annida il cancro nei nostri polmoni (che poi richiederà vane e costosissime cure mediche). La benzina è arrivata a 1.45 euro al litro: percorrere 30 kilometri al giorno, tra dover andare e tornare dal luogo di lavoro, costa ormai diverse ore di scrivania a molti di noi, in un circolo vizioso infernale. Basta fare un conto, tra costo dell'auto più tutto il resto a essa collegato, carburante incluso, e poi dividere il tutto per il denaro che percepiamo al lavoro per capire quante ore al mese lavoriamo unicamente per quelle quattro ruote ferme in coda. Oltre alle ore inutili in più che ci passiamo dentro, litigando con il mondo intero. Le nostre strade (non, ovviamente, le autostrade e le superstrade: queste fantastiche opere architettoniche che tagliano in due paesaggi altrimenti incontaminati...) erano state costruite per un transito differente, con altri mezzi, o comunque con automobili di altro tipo, con altre prerogative. Sinteticamente, per un tipo differente di uomo. Il motivo di incidenti di questo tipo è da ascrivere alla velocità, quando non ad altre componenti che vi si sommano (droghe, alcol). Ma non solo.Vogliamo dire che è proprio dal punto di vista antropologico che l'uomo moderno è profondamente cambiato. È nella fretta, nello stress, nel livore quotidiano, nell'attitudine inconscia di fare un dispetto nel traffico o nell'evitare che altri lo facciano a noi che si svela il nuovo uomo, perché tutta la furia interna che si accumula nella vita, in qualche modo deve pur uscire fuori. E motivi di innesco, in automobile, non mancano. L'automobilista furioso, perennemente irritato dalla situazione del traffico, se la prende con il proprio vicino di coda, con l'anziano che attraversa la strada, con il ciclista che parte lento allo scattare del semaforo. Se invece di porre nei confronti del prossimo tale rabbia, la convogliasse contro chi è ai vertici del sistema che tale rabbia gli fa venire fuori, la cosa avrebbe un senso. Il nemico non è nel vicino di pianerottolo o di quartiere che parcheggia fuori dalle strisce. Il nemico è nel direttore dell'azienda che produce le automobili, nella gestione della cosa pubblica che impone di utilizzare l'automobile per spostarsi (difatti nei fine settimana le corse extraurbane pubbliche sono peggio che dimezzate: come dire che sei "costretto" a utilizzare l'auto anche per andare a divertirti o per intrattenere un minimo di relazioni sociali) in chi ha tutto l'interesse di tenerci legati a questo sistema di vita. È un mondo che produce scontenti, derelitti umani che si spostano come automi senza sapere il perché, livore e irritazione per cose irrilevanti. Un mondo in cui magari non si muore in guerra per difendere la propria casa, il proprio paese, i propri cari, ma semplicemente perché si attraversa una strada nel proprio quartiere, perché si pensa, per strada, che raggiungere in tempo il posto di lavoro - sempre troppo lontano da dove si abita - è una legge che va rispettata a discapito della propria stessa vita. Perché si decide di fare una passeggiata in bicicletta una domenica mattina. Ivan Illich, tra gli altri, scrisse un libro, "Elogio della Bicicletta", dove naturalmente la parte fondamentale non risiede tanto nell'elogio di questo mezzo, ma nella demolizione - scientifica, oltre che filosofica dell'automobile e del mondo che gli è stato costruito attorno. L'automobile, anziché moltiplicare l'energia umana per lo spostamento, di fatto la distrugge. La sua lettura è un balsamo, oltre che uno spunto di riflessione. Da leggere a casa, in tranquillità, magari mentre gli altri, in questo periodo, sono in coda per raggiungere il centro commerciale. (7/12/10) Berlusconi alle corde. Berlusconi che si lamenta. Berlusconi che ostenta sicurezza («Avremo la maggioranza anche alla Camera!») ma che intanto si prepara una o più strategie di riserva: per dirla nel modo semplificato dei media, un “piano B”. Berlusconi che offre uno spettacolo penoso, persino peggiore del solito: aggiungendo alla solita arroganza un vittimismo di facciata da galantuomo stupefatto per gli attacchi ricevuti, credibile tanto quanto – pur nella palese e indiscutibile diversità delle posizioni – le lamentele di Totò Riina, che messo finalmente alla sbarra gridava all’ingiustizia del suo arresto. Ma come? Un uomo operoso e perbene come lui, incriminato per mafia e addirittura accusato di essere il Capo dei capi? Il Capo del PdL si sorprende di altro, ma gli effetti sono altrettanto comici. Anzi, grotteschi. «Casini – si duole parlando di se stesso in terza persona – ha il solo fine di far fuori Silvio Berlusconi per prenderne il posto.» Gianfranco Fini non viene citato espressamente, ma com’è ovvio ce n’è anche per lui: pure lui, infatti, appartiene in tutta evidenza all’abietta schiera dei «maneggioni» che vogliono «fare fuori» il presidente del Consiglio, un po’ per smania di potere e un po’ per invidia. Chiaro: loro sono dei miseri «professionisti della politica», mentre Berlusconi, come si premura di ricordare egli stesso, è una star della scena internazionale. Come dimostra, incontrovertibilmente, la vita vissuta: nei vari G8, G20, e via “potentando”, «tutti venivano a farsi le foto con me, non solo per la mia esperienza ma anche perché tutti mi conoscono come un tycoon e non solo per essere un politico». Sottinteso: quel tutti non è mica un’iperbole. Probabile che Letta o Frattini o La Russa, a seconda dei casi, distribuissero i numeretti per disciplinare la fila e assicurare a ciascuno dei presenti, e degli ammiratori, la sospirata istantanea con l’inarrivabile tycoon-leader. O leader-tycoon. Insomma, un politico impaccato di soldi. Ma questo, volendo, è solo folclore. La consueta rappresentazione auto celebrativa che va in scena da più di quindici anni, tra una visitina amichevole “chez Bruno Vespa” e un blitz infuriato a Ballarò.Tra una requisitoria contro la magistratura politicizzata e una barzelletta, o una gag, da consumato (consumatissimo...) showman. L’aspetto peggiore è altrove, e accomuna la totalità dei partiti e dei media che li supportano, in modo più o meno esplicito. L’aspetto peggiore è la litania concernente la stabilità. I richiami che si levano ovunque per ribadire l’assoluta necessità, espressa col dovuto cipiglio, come si conviene nelle ore più drammatiche e decisive della Storia, di scoraggiare gli incombenti assalti della speculazione internazionale, pronta ad avventarsi sull’Italia al primo segno di debolezza.Vale a dire nel caso in cui il governo in carica venga sfiduciato e si debba andare alle elezioni anticipate. Il messaggio è doppiamente falso. Primo, la speculazione non dipende da ciò che accade ora ma da tutto ciò che è accaduto finora, a cominciare dalla pazzesca espansione del debito pubblico, figlia del perverso connubio tra un modello di sviluppo insostenibile e una corruzione dilagante. Secondo, rispetto alla situazione attuale non ci sarebbe alcuna differenza: l’unica cosa che ha fatto Tremonti è tenere stretti i cordoni della borsa, e in questo senso un governo inchiodato all’ordinaria amministrazione, a causa dello scioglimento delle Camere in attesa del voto, non potrebbe certo andare in direzione opposta. Come sempre, insomma, l’interesse nazionale non c’entra un bel nulla. L’unica preoccupazione è quella di mostrarsi attenti e affidabili agli occhi dell’elettorato – o se non altro un po’ meno disattenti e inaffidabili degli avversari – sperando che basti questo a far dimenticare che tutti quanti, nessuno escluso, non andrebbero giudicati per ciò che dicono e fanno adesso, ma per l’insieme della loro storia. Che è scritta da molto tempo. O, per meglio dire, è agli atti. Federico Zamboni Valerio Lo Monaco gennaio 2011 MOLESKINE SPECIALE E CRISI LA FRODE (SENZA FINE) DELLA BENZINA Si sa: sul prezzo finale dei carburanti gravano balzelli di ogni genere, tipo le 10 lire per il disastro del Vajont del 1963. Ma dal 2008 ne va aggiunto uno occulto: la Robin Tax (1/12/2010) L’impennata dei prezzi della benzina e del diesel fa infuriare i consumatori. «Listini astronomici» si scandalizza il Codacons quantificando i rincari di verde e diesel rispettivamente nel 34% e nel 39% rispetto a dieci anni fa, con una spesa supplementare per l’automobilista medio di oltre 600 euro annui. Il fenomeno ha assunto negli ultimi mesi proporzioni scandalose, con il superamento della soglia di 1,40 euro al litro. Ebbene, per spiegarla come a un bambino di sei anni, citando un grande Denzel Washington, avvocato di Tom Hanks nel film Philadelphia, la benzina veniva venduta a 1, 40 euro al litro quando il petrolio quotava 130 dollari al barile, mentre oggi ne vale 84. Eppure i signori del petrolio si ostinano a definirli prezzi in linea con la media europea. Ma se è vero che in Germania e Francia – e in pochi altri stati - la benzina costa di più, bisogna però considerare che lì il potere d’acquisto risulta decisamente diverso rispetto al nostro. E sono prezzi talmente in media, che a gennaio il governo si proponeva di attivare, in collaborazione proprio con i petrolieri, un protocollo per «recuperare i 3-4 centesimi di maggior costo dei carburanti italiani rispetto a quelli venduti in Europa». Protocollo che, peraltro, è stato firmato solo pochi giorni fa restando sostanzialmente una lettera d’intenti. Perché allora rimane la sensazione che qualche conto non torni? Forse perché c’è il sospetto, nemmeno tanto ventilato, che esista una sorta di tacito accordo fra compagnie petrolifere e Governo sul prezzo della benzina per ottenere in tal modo una sorta di gettito occulto, visto che il prelievo fiscale sul prodotto rappresenta il 56 per cento del prezzo alla pompa. Il disegno perverso che ha garantito questo risultato finale sarebbe nient’altro che la famigerata Robin Tax, la tassa sulle compagnie petrolifere voluta da Tremonti nel 2008, e che è divenuta in realtà l’ennesima accisa, visto che viene bellamente riversata sui consumatori con aumenti ingiustificati. E impuniti. A proposito di accise, giova forse ricordare che tra le componenti del prezzo della benzina risultano a tutt’oggi 1,90 lire per la guerra di Abissinia del 1935; 14 lire per la crisi di Suez del 1956; 10 lire per il disastro del Vajont del 1963; 10 lire per l'alluvione di Firenze del 1966; 10 lire per il terremoto del Belice del 1968; 99 lire per il terremoto del Friuli del 1976; 75 lire per il terremoto dell'Irpinia del 1980; 205 lire per la missione in Libano del 1983; 22 lire per la missione in Bosnia del 1996; 0,020 euro per rinnovo contratto autoferrotranviari 2004. Per un totale accise di 0,56 euro. Tutte voci che dovevano essere una tantum, o comunque a termine, e che si sono trasformate in entrate statali ordinarie. Si tratta di numeri divulgati più volte dai media, ed è forse per questo che si sono cercate nuove strade: ecco perché la Robin tax ha tutta l’aria di essersi trasformata in un balzello occulto. Anche in considerazione di come vengono impiegati i suoi proventi. Ricordiamo cosa diceva Tremonti: «La tassa servirà per aiutare gli anziani e le fasce deboli ad arrivare alla fine del mese. Si pensa a una carta prepagata con cui comprare prodotti alimentare e ottenere uno sconto sulla bollette». Ebbene, questa tassa nel 2009 ha subìto l’incremento dell’addizionale Ires dal 5,5 al 6,5 per cento (circa 140 milioni). Una discreta somma, che è però stata destinata ai giornali di partito, con legge 23 luglio 2009, n. 99, articolo 56, passato all’unanimità. Con buona pace degli anziani, del welfare, e degli automobilisti che, di fatto, sono quelli che tirano fuori i soldi. Massimo o Frattin Contro le banche Eric Cantona non segna L’ex calciatore aveva lanciato la proposta di ritirare in massa i depositi bancari, nella giornata del 7 dicembre. Ma l’iniziativa ha avuto scarsissimo seguito, persino da parte sua (9/12/2010) Non ha sortito grandi effetti l’invito dell’ex calciatore francese Eric Cantona a ritirare i soldi dai conti correnti per mettere in crisi il sistema bancario europeo. La provocazione, perché di questo si tratta, l’aveva lanciata lui stesso un paio di mesi fa: «È inutile che tre milioni di persone manifestino per strada sventolando la loro bandierina. Non serve a niente. Il sistema è costruito sulle banche. E come si distruggono le banche? Riprendendoci il nostro denaro. Se tre, dieci milioni di persone ritirassero i soldi dal conto, le cose cambierebbero». Visto il personaggio e visto il tema, le reazioni non sono mancate. Diverse migliaia di adesioni, la creazione di gruppi mediatici e l’idea stessa di un’iniziativa potenzialmente devastante, ben riassunta nello slogan “Stop Banque”, hanno alimentato la curiosità dei media e assicurato alla proposta notorietà e dibattiti. Ma il 7 dicembre, giorno destinato al fatidico ritiro dei soldi dal conto corrente, non è successo praticamente nulla, tanto è vero che neppure il promotore dell’iniziativa sembra essersi ricordato di passare alla cassa, fatto salvo – si mormora – un prelievino di 1500 euro: davvero poca cosa per mettere in crisi un sistema. Qualcuno, in ogni caso, è sembrato spaventarsi per davvero. Per una curiosa concomitanza di data, proprio il 7 dicembre il Parlamento irlandese era chiamato ad approvare la manovra finanziaria per il salvataggio nazionale e per quello delle proprie banche. Ebbene, forse timorosi che lì più che altrove gli appelli alla Cantona trovassero facile esca, si è verificato un curioso blocco “tecnico” che ha impedito l’utilizzo dei bancomat e dei conti online della agonizzante Bank of Ireland. In realtà, alla boutade di Cantona sembra non avere creduto lui per primo. E non v’è stata traccia, nel giorno atteso, di moventi bancari anomali o che abbiano destato la minima preoccupazione. Quello che resta è l’esaltazione momentanea di un ennesimo capopopolo, che per qualche giorno catalizza l’attenzione su qualche questione certamente non nuova né destinata a non riproporsi. Lo stesso fallimento dell’iniziativa indica la rassegnazione dei più nei confronti degli aspetti fondamentali del sistema, e riduce la sortita del celebre ex calciatore a un tentativo di ritagliarsi un piccolo spazio mediatico, senza dare alcun reale contributo alla soluzione del problema. In Italia, ciononostante, aveva provato ad accodarsi anche Elio Lannutti, dell’Adusbef: «Invitiamo anche i correntisti italiani a ritirare in segno di protesta contro il sistema bancario il 7 dicembre i propri risparmi dal conto. Certo, resta una provocazione, perché sarebbe in ogni caso inverosimile vivere in un mondo senza banche, ma è ideale per dare una lezione a banche e banchieri e spingerli a cambiare atteggiamento nei confronti dei clienti». Esortazioni figlie del più nudo e banale buon senso, la cui portata – ridotta – è comprensibile a chiunque. Inoltre, l’ingresso in scena di vip, o presunti tali, che lancino proclami alla Robespierre per destabilizzare lo statu quo rischia di ottenere l’effetto opposto, ossia rafforzare quel sistema che si fa mostra di attaccare. Lo sosteneva il giornalista Paolo Barnard in un appello incentrato proprio su questo. «Anche fra noi dilaga oggi la struttura chiamata Cultura della Visibilità, che è la cultura dei Personaggi, cioè dei Vip, e che nel nostro caso è rigorosamente alternativa, certo, ma sempre identica all’equivalente struttura del Sistema massmediatico. E cioè la nefasta separazione fra pochi onnipresenti famosi, e tanti seguaci.» Un processo che alla fine, sostiene Barnard, si allontana completamente dal suo scopo originario, uniformandosi in pieno alla realtà che si sostiene di voler combattere: «Questo, mentre il Sistema se ne sta tranquillo a guardare in piacevole stupore (il Sistema, amici, quello vero, quello che non sta a Palazzo Chigi». Massimo o Frattin MOLESKINE SPECIALE E CRISI MOLESKINE SPECIALE E CRISI Lavoratori a chiamata: il ritorno del cottimo In Veneto il fenomeno sta dilagando. Con la solita scusa di una gestione flessibile, a vantaggio delle imprese, si creano legioni di precari in una zona grigia tra occupazione e disoccupazione (9/12/2010) Stanno assumendo le proporzioni di un esercito i cosiddetti “lavoratori a chiamata”, ovvero tutte quelle persone assunte mediante contratti che prevedono la prestazione lavorativa a seconda delle necessità aziendali in periodi predeterminati. Secondo le stime del centro studi Veneto Lavoro della CGIL, nel 2010 le nuove assunzioni con questo tipo di contratto, uno dei tanti previsti dalla cosiddetta legge Biagi sulla flessibilità del lavoro, sarebbero nella sola regione circa 70 mila. Con questa peculiare forma lavorativa il prestatore d’opera non fa altro che “affittare” la propria capacità produttiva per periodi prestabiliti. Ovvero, secondo quanto stabilito dalla legge, durante il week-end, nel periodo che va dal venerdì pomeriggio, dopo le ore 13.00, fino alle ore 6.00 del lunedì mattina; durante le vacanze natalizie, dal 1° dicembre al 10 gennaio; quelle pasquali, dalla domenica delle Palme al martedì successivo il Lunedì dell'Angelo; durante le ferie estive tra il 1° giugno e il 30 settembre. A fare due conti si scopre che i periodi esclusi sono davvero pochi, e non si riesce a capire se si tratti di un bene o di un male. Se infatti lo spirito che informava tale rapporto occupazionale era quello di fare incontrare le necessità aziendali con quelle dei potenziali lavoratori, con costi relativamente bassi per le prime, un minimo di tutela sociale per i secondi, e il recupero per lo Stato di imponibili fiscali e previdenziali grazie alla lotta al lavoro nero; la realtà dei fatti sembra trasformarlo nella persistenza a oltranza di un precariato a cottimo buono solo per far tirare a campare una schiera di persone con poco presente e ancor meno futuro. Il ricorso a questa tipologia contrattuale è aumentato in maniera esponenziale, e il dato del Veneto (non ci sono al momento quelli nazionali), con i suoi 70mila neoassunti in forma intermittente, desta ancor più sensazione se paragonato all’andamento dell’ultimo triennio. Lo studio dell’Istat relativo al 2007-2009 mostra infatti che nel 2007 gli impiegati con la formula del job on call erano 63.430, per poi arrivare nel 2009 a 111.068. Ma sul territorio nazionale! Quando il Veneto in quel medesimo torno di tempo raggiungeva quota 21.918. Una cifra che si è triplicata e che rappresenta quasi il 20% delle nuove assunzioni. Come a dire che un lavoratore su cinque è affittato a ore. Ed è intenzionale l’uso del termine affittare, dal momento che non stiamo più parlando di persone, ma della potenzialità lavorativa che offrono: una merce che viene regolata da un ciclo perverso di domanda e offerta. Secondo valutazioni sindacali, per quanto questa formula possa detenere anche una valenza positiva nel tentativo di fornire risposte, pur parziali, alle esigenze economiche, l’unica regolarizzazione che si rischia di ottenere è quella di passare dal lavoro nero alla consuetudine del lavoro grigio. La disciplina in merito è facilmente aggirabile, infatti, e i lavoratori assunti con queste modalità risultano indifesi di fronte ai datori di lavoro e deboli sotto il profilo economico. «Secondo l’Istituto di Statistica –osserva Fabrizio Maritan, responsabile del dipartimento politiche del lavoro della Cgil veneta – le ore di lavoro medie dichiarate sono pari a 5,7 settimanali per ogni lavoratore, corrispondenti ad una retribuzione lorda totale di 62 euro. Il che è ridicolo.» Nel resto dell’Europa l’applicazione del job on call è assai diversa e poco diffusa, avendo risultati di un certo spessore soltanto in Olanda e, parzialmente, in Belgio, dove però è riservato a professionalità specializzate in consulenza aziendale o informatica. La cosa più significativa nel confronto però, è che in questi Paesi viene esclusa dall’utilizzo di tale forma la fascia giovanile, per la quale si deve fare ricorso ai contratti di apprendistato. Tutto il contrario che in Italia. Anzi, quando il lavoro a chiamata è partito, era riservato in via sperimentale proprio alla fascia sotto i 25 anni e a quella sopra i 45. Altrove si cerca di consolidare l’avvio nel mondo del lavoro fornendo know-how e sicurezza; qui da noi ci si vanta di offrire flessibilità laddove essa non può che tradursi in incertezza e precarietà consolidata. Altro che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Massimo o Frattin Toh, si accorgono delle famiglie in difficoltà con i mutui Lo studio arriva da Bankitalia e attesta che nel 2007 il 5 per cento delle famiglie non riusciva a pagare le rate. A conferma del fatto che la crisi non deriva solo dalle vicende statunitensi (9/12/2010) Da Bankitalia scopriamo – con clamore mediatico (passeggero) ma almeno uguale ai documenti di Wikileaks – che dalle segrete di via Nazionale è stato trafugato un documento, addirittura risalente al 2007, in cui era chiaro già allora che molte famiglie italiane non riuscivano a pagare le rate dei mutui. Fuori di metafora, e ironia, il documento merita attenzione: circa una famiglia su venti non riusciva a rimborsare le rate secondo scadenza. Lo studio, condotto dalla Banca d'Italia (si fa per dire) stessa, è impietoso, fin dal titolo: "L'incremento dell'uso di politiche di prezzo basate sul rischio per i mutui in Italia" basato su rilevazioni da Eurostat 2007. E lo è ancora di più leggendo i risultati: quasi il 5% delle famiglie non riesce – cioè: non riusciva – a onorare i debiti. Naturalmente oggi la situazione è di gran lunga peggiorata, malgrado il (temporaneo, val bene chiarirlo) abbassamento dei tassi di interesse. Quest'ultimo aspetto, e si parla di dati aggiornati, emerge con chiarezza sempre dalla Banca d'Italia, e in particolare del "Rapporto sulla stabilità finanziaria", questa volta del 6 dicembre scorso. La notizia, e tutti i resoconti, li trovate su moltissimi giornali on-line e non. Dove rimarranno fino a lasciare il posto, presto, a una o un'altra sciocchezza di altro tipo. E invece vale la pena rifletterci bene, soprattutto su un punto. La data dello studio, ovvero il 2007. Ovvero il momento dello scoppio della bolla dei mutui subprime in Usa e, tanto per essere chiari, lo stesso identico momento in cui, in Italia, si faceva a gara per sparare la stupidaggine più grossa in merito al fatto che tale crisi era circoscritta e non avrebbe toccato l'Europa, né l'Italia. Oggi sappiamo bene, invece, a che punto siamo arrivati. Quanto e come tale scoppio abbia contagiato non solo l'Europa ma il mondo intero, e cosa porterà assai probabilmente, se riusciamo a vedere oltre il nostro naso, nel prossimo futuro. Dovrebbe essere facile a tutti i nostri lettori far tornare alla mente le dichiarazioni di quel periodo da parte di esponenti politici, banchieri, economisti parrucconi e animali da talk show: ci rassicuravano tutti. E hanno continuato a rassicurarci per molti mesi. Fino a poco tempo fa si parlava ancora di "fase acuta della crisi ormai passata". E Grecia e Irlanda in fiamme erano a un passo. E poi Portogallo, e Spagna, e Italia... Naturalmente ora si parla di crisi e rischio ovunque, e gli stessi animali da talk show si presentano in diretta per venderci una nuova certezza: quella di dover necessariamente affrontare periodi di austerità. Ovviamente, a nessuno di loro viene un sussulto di dignità e coerenza nel dire "signori, non ci avevamo capito nulla. Anzi, quelli che già avevamo capito l'antifona - tipo la Banca d'Italia, come emerge appunto oggi - vi hanno tenuto all'oscuro di tutto quando non proprio preso riccamente per il culo". E naturalmente nessuno di questi si esime, ancora una volta, dall'andare in giro a chiedere di essere votato nuovamente alle prossime elezioni. In forza del bel lavoro svolto sino a questo punto, si suppone. Dovrebbe essere facile, pertanto, poter fare oggi un unico mazzo di tutti questi signori ed evitare di starli a sentire anche per un solo secondo. Non solo. Già allora – nel 2007 – vi erano famiglie in difficoltà. Già allora era facile prevedere che la crisi ci avrebbe travolto (e dall'ottobre del 2008, ovvero da quando è nata La Voce del Ribelle, i nostri lettori lo sanno). Ma già da molto prima – attenzione – non vi è stato un solo esponente politico che, dando seguito reale alle chiacchiere fumose e inconsistenti con cui si riempiono la bocca, a partire dalla litania che loro sono dalla parte dei cittadini eccetera eccetera eccetera, abbia avvertito di quello che stava accadendo e delle conseguenze negative che ne sarebbero derivate. Nessuno che abbia lanciato l’allarme su ciò che si nascondeva dietro quei tassi di interesse ridotti e quei mutui facili che venivano concessi allora (100% del valore dell'immobile e addirittura oltre) anche nel nostro Paese e col benestare della Banca d'Italia, che oggi è invece "preoccupata" e lancia l'allarme. Bisognava dirlo a gran voce: quelle operazioni di finanziamento erano una trappola dalla quale si doveva fuggire a gambe levate. Nessuno di loro lo ha fatto. Volete credere oggi anche a una singola loro parola? Valerio o Lo o Monaco MOLESKINE SPECIALE E CRISI METAPARLAMENTO Siete C pronti? Chi ricorda a quanti anni addietro risale il celebre film di Totò? Viratelo in 3D, ed è ancora oggi. Elezioni o no, da ora si parlerà di Legge Elettorale. Inutilmente. Piccolo breviario per interpretare i (o fuggire dai) prossimi interminabili talk show. La sostanza non cambia, per ora: siamo sudditi. di Alessio Mannino i faranno una testa così, nei prossimi mesi. Elezioni anticipate o no, il tema che ci ronzerà nelle orecchie sarà la nuova legge elettorale. L’eterno giocattolo su cui si arrovella da sempre la classe politica italiana, per continuare a giocare la sua partita. Che poco ha a che vedere con le partite affrontate ogni giorno dall’Italia vera (la disoccupazione, la precarietà, il carovita, la burocrazia, l’inquinamento, la criminalità, le ingiustizie, le inefficienze e i soprusi quotidiani del paese reale). Qui giù, fra i comuni mortali non ammanicati con questo o quel potere feudale, si lotta per sopravvivere; lassù, nell’etere privilegiato delle camere parlamentari e dei talkshow si fa finta di scannarsi sul Porcellum, sul Mattarellum e sui bizantinismi politologici come se fossero il primo pensiero degli italiani quando si svegliano alla mattina. E allora che sia: fingiamo anche noi. Fingiamo che ce ne freghi qualcosa, di questo futuribile, ennesimo meccanismo con cui farci credere che barrare una scheda ci cambi la vita. E vediamo un po’ di scovare altro marcio in Danimarca. Pardon, in Italia. 42 - WWW.ILRIBELLE.COM 43 - WWW.ILRIBELLE.COM Sull’attuale legge in vigore, ci limitiamo a riprendere Giovanni Sartori1, uno che nel bene e nel male se ne intende. La “porcata” (copyright dell’autore, Roberto Calderoli) non è tale solo perché ha sostituito la preferenza diretta per un candidato con liste bloccate di persone nominate dai partiti. Il professore fa presente che «noi abbiamo avuto un sistema proporzionale che consentiva all’elettore quattro-tre preferenze, poi ridotte ad una, e che queste preferenze sono state cancellate nel 1991-1993 da due travolgenti referendum di Pannella e Mariotto Segni», tuttavia il sistema uninominale in cui si sceglie un nome il potere di scelta non è maggiore: «dipende da chi ha i soldi: se il candidato (come quasi sempre negli Stati Uniti) oppure il partito. Se li ha il partito, anche nei sistemi uninominali le scelte dei candidati vengono dall’alto». La porcheria grossa, dell’oligarchico marchingegno del leghista Calderoli, è il premio di maggioranza, una trovata puramente fascista, «perché elargisce un premio di maggioranza spropositato che falsa completamente il risultato di una elezione». Peggio di così fece solo Mussolini con la legge Acerbo del 1923, che attribuì al suo listone 2/3 dei seggi superando appena il 25% dei voti. Un premio di maggioranza è accettabile, ma, dice bene Sartori, «se rinforza chi ha già vinto il 50.01 per cento dei suffragi; … non se trasforma una minoranza in una maggioranza come fa il Porcellum attribuendo il 55 per cento dei seggi alla maggiore minoranza». Il punto è la rappresentanza Ma al di là delle diavolerie di regime, la questione della rappresentanza ha un suo valore politico anche per chi, come noi, a votare non ci va più. L’assunto con cui nei primi anni ’90 è stato abbandonato il sistema proporzionale della Prima Repubblica per quello maggioritario della cosiddetta Seconda, è stato il mito salvifico del “bipolarismo”. Due poli, due alleanze di partiti ad alternarsi a Palazzo Chigi per rendere più “efficiente” il governo del Paese e liberare la politica dai residui ideologici del passato novecentesco. Il modello è quello anglosassone: più morbido l’inglese, dove conservatori e laburisti hanno un terzo incomodo, i liberali (oggi a braccetto dei primi a Downing Street, perché anche lì l’alternativa a due ha cominciato a stancare); più estremo l’americano, dove repubbli- 44 LA VOCE DEL RIBELLE cani e democratici costituiscono un bipartitismo perfetto (salvo qualche fallimentare tentativo di terze vie ora più a destra – Ross Perot – ora più a sinistra – Ralph Nader). Il punto è che è un modello inadatto alla nostra realtà sociale, che è più articolata, complessa, ricca di sfumature politiche e molto più varia dal punto di vista delle identità locali. Basterebbe pensare a quanto diversa è la storia del nostro paese rispetto a Inghilterra e Stati Uniti: noi, una nazione dal sentimento patrio fragile e insicuro, con un’unificazione recente fatta da una ristretta élite, col Vaticano in casa e la “questione cattolica” che ne è seguita, con un partito socialista e poi comunista fortissimi; noi inventori del fascismo, con due guerre mondiali combattute sul suolo nazionale di cui la seconda sfociata in guerra civile, un sessantennio di “democrazia bloccata”, gli anni di piombo e una partitocrazia crollata per corruzione endemica. Loro, Regno Unito e Usa, due Stati con un’identità nazionale salda e robusta, due imperi che prima l’uno, da Londra, poi l’altro, da Washington, hanno avuto e hanno un’egemonia mondiale basata sulla forza militare e sul dominio finanziario, privi di divaricazioni ideologiche-escatologiche (nessun “sol dell’avvenire”, nessun “uomo nuovo”), dove la società, come osservava già Tocqueville 2 per l’America dell’800, si suddivide più in base a interessi associazionistici, locali e di categoria piuttosto che politici e di classe nel senso marxiano del termine. E soprattutto dove gli ordinamenti istituzionali sono formati da tempo immemore (la Magna Charta inglese è del 1215, anche se una vera e propria Costituzione scritta in Inghilterra non c’è) sulla concezione liberale e pragmatica dell’individuo vera e unica cellula primaria e detentrice di un corpus di diritti superiori a qualsiasi altro ente morale (eccezion fatta, si capisce, per lo Stato). In contesti storico-sociali come questi, la riduzione della scena politica a due soli attori è comprensibile e giustificata. Le differenze Nel caso italiano, no. E la cosa è evidente, secondo noi, se si considerano due ordini di differenze. Troppe differenze territoriali, anzitutto, col vissuto risalente al Medioevo e anche prima di città, borghi e “piccole patrie” ognuna col proprio autogoverno. 45 WWW.ILRIBELLE.COM Differenze limate e semplificate ma sostanzialmente giunte fino ad appena centocinquant’anni fa (si pensi al Veneto, dove ancor oggi è forte una certa nostalgia per la Serenissima di Venezia). E poi, e in misura decisiva, le varietà ideologiche che si sono accumulate e scontrate negli ultimi due secoli di modernità. Illuministi (giacobini o moderati) contro reazionari, repubblicani contro monarchico-conservatori, laici contro cattolici, cattolici modernisti contro cattolici tradizionalisti, socialisti contro liberali, socialisti riformisti contro socialisti massimalisti, fascisti contro antifascisti, comunisti contro anticomunisti in quel conflitto mondiale bloccato dal deterrente atomico che è stata la “guerra fredda” (1945-1989) fra l’Ovest capitalista e filo-americano e l’Est comunista e filo-sovietico. E all’interno di queste dicotomie feroci, sotto-guerre e sotto-guerriglie fra questa e quella corrente, fra questa e quella banda, nella peggiore tradizione della faziosità italiana (“tre italiani, tre partiti”, dice la famosa barzelletta). Una marea brulicante di sigle filosofiche e formazioni partitiche che rendono il nostro paese impossibile da ingabbiare nell’asfittica alternanza fra due sole forze, come avviene nelle cosiddette democrazie “mature”. Dunque? Mettiamocela via: “maturi” non siamo, o non lo siamo abbastanza per i canoni dei maestrini dell’astratta politologia3. Solo chi ha portato il cervello all’ammasso e crede ciecamente che esista un solo modello buono per ogni società può predicare una nostra inferiorità civile e politica di cui dovremmo vergognarci. Gli italiani sono semplicemente diversi dagli inglesi e dagli americani, così come dai francesi e dai tedeschi. E questo perché, banalmente, hanno una storia diversa. E perciò una politica diversa. Che poi questa si sia sempre più conformata all’esterofilia del bipolarismo obbligatorio, ciò è dovuto all’integrazione, ahinoi, dell’Italia nel sistema della globalizzazione economico-finanziaria, che ovunque mette piede impone i dettami culturali, inclusa l’organizzazione politica, degli Stati portabandiera: gli Stati Uniti e l’Inghilterra, appunto. La complessità italiana potrebbe essere rappresentata meglio, invece, da una legge proporzionale (tanti voti, tanti seggi) corretta da uno sbarramento (al di sotto di una certa soglia, per esempio il 5%, non si entra in Parlamento) che eviti una frammentazione tale da conferire al singolo partitino un inaccettabile potere di ricatto, e mitigata da un “diritto di tribuna”, una riserva di tot scranni riservati alle forze più piccole. Ma la campagna referendaria del ’92-’93, originata da una sacrosanta rabbia popolare contro la partitocrazia 46 LA VOCE DEL RIBELLE Dc-Psi degli anni ’80, con l’obbiettivo di rovesciare quest’ultima ne generò un’altra che lungi dall’essere migliore della precedente, ha avuto pure l’aggravante di essere ancor meno rappresentativa perché con questo maggioritario chi ha la maggioranza piglia tutto, cioè la singola circoscrizione, e lo strapotere dei partiti viene addirittura aumentato dato che il candidato è investito dall’alto. Insomma, dalla padella alla brace. Una brace in cui i signori dei partiti, mosche cocchiere dello statu quo, si stanno cuocendo a fuoco lento con le loro stesse mani. L’astensionismo, infatti, sale inesorabilmente di elezione in elezione. Segno che non c’è legge elettorale che tenga: il popolo italiano, già di suo scettico e diffidente verso il potere, è sempre più lontano e ostile ai giochi di palazzo. E quando arriverà la fame vera, qualcuno che lo assalterà spunterà fuori. Il tormentone della legge elettorale, quel giorno, suonerà grottesco come le brioches di Maria Antonietta infilzate dai forconi del popolo in rivolta. Alesso Mannino Note: 1) G. Sartori, “Una Repubblica assai confusa”, Corriere della Sera 18 novembre 2010 2) «…gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, gravi e futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo (...), state sicuri di vedere negli Stati Uniti un'associazione», A. De Tocqueville, La Democrazia in America, Utet, 2007 3) Uno dei più fanatici è Angelo Panebianco, editorialista di punta del Corriere della Sera, che pur di sostenere il dogma immutabile del bipolarismo ricorre alla categoria della “moderazione”, molto di moda ma priva di qualsiasi valore sociologico: «Il bipolarismo richiederebbe una prevalenza della moderazione sull’estremismo, una convergenza al centro. Non è necessario che ciò accada continuamente (anche nei sistemi bipolari più stabili si danno inevitabilmente momenti o episodi di lotta feroce) ma è necessario, perché il sistema duri, che moderazione e convergenza al centro siano, almeno, le tendenze prevalenti. In Italia non è così. La caratteristica italiana è che mentre i fautori della moderazione sono per lo più contrari al sistema bipolare, i difensori del bipolarismo sono contrari alla moderazione», Corriere della Sera,“Il bipolarismo senza equilibrio”, 28 gennaio 2010. 47 WWW.ILRIBELLE.COM UNITI E DIVERSI PER LA FORMAZIONE DI UN NUOVO SOGGETTO POLITICO CHE GOVERNI LA TRANSIZIONE 1. La fase storica, che si è aperta con la rivoluzione industriale e in poco più di due secoli ha trasformato completamente il mondo, si sta avviando alla sua conclusione. La crescita della produzione di merci che l’ha contraddistinta, e la progressiva estensione della mercificazione a percentuali sempre maggiori della popolazione mondiale e a settori sempre più ampi della vita umana, si stanno scontrando con i limiti fisici della biosfera a fornire le quantità crescenti di energia e materie prime di cui questo processo ha bisogno e a metabolizzare gli scarti liquidi, solidi e gassosi che genera. Numerosi contributi scientifici lo documentano. 2. Un altro segnale, altrettanto evidente sebbene ignorato, della fine imminente di questa fase storica, è dato dal fallimento dei tentativi di superare la crisi di sovrapproduzione scatenata dalla crisi finanziaria esplosa nell’agosto del 2008. I governi occidentali hanno tentato di sostenere la domanda stanziando ingenti quote di denaro pubblico, ma non sono stati in grado di rilanciare produzione e consumi, né di fermare l'aumento della disoccupazione. Le politiche antirecessive si sono tradotte in aumenti paurosi dei debiti pubblici, portando diversi paesi sull'orlo dell'insolvenza e oltre. Quando si è invertito l'ordine dei fattori, tentando l'avvio di politiche restrittive, l'effetto è stato la riduzione della domanda e una nuova impennata delle disoccupazione. E' evidente che tutte le strategie del passato non funzionano più. L'economia della crescita ha raggiunto, o sta per raggiungere, il suo limite. regola e principio, inclusi quelli del mercato, della morale e della stessa logica. In questo contesto anche la sovranità degli Stati perde ogni significato e, con essa, la stessa democrazia viene liquidata, come sta avvenendo. 4. In Italia, secondo quanto sancito dalla nostra Costituzione, la sovranità appartiene al popolo. Tuttavia le oligarchie partitiche hanno fatto sì che questo testo sia largamente inapplicato. Per contrastare questa pericolosissima deriva, e soprattutto per restituire ai cittadini i diritti che dovrebbero esercitare, si dovrebbe imporre al Parlamento l'obbligo di discutere le proposte legislative di iniziativa popolare, e di attribuire a queste un carattere prioritario rispetto all'ordinaria attività. Pietra miliare per una democrazia partecipata è sicuramente l’abolizione del quorum di partecipazione per i referendum nazionali, con la contestuale introduzione di quelli propositivi, così come può diventare di fondamentale importanza portare le Amministrazioni Comunali ad inserire nei propri Statuti i referendum consultivi, nonchè abrogativi e deliberativi senza quorum. Similmente, si avverte l’urgenza dell’introduzione di un sistema elettorale proporzionale con la possibilità di esprimere preferenza da parte degli elettori per i candidati, contestualmente all’eliminazione dei procedimenti di raccolta firme ai fini della 3. Questo limite è incompatibile con l'esistenza stessa dell'attuale architettura finanziaria internazionale. La guerra e l'assalto agli equilibri eco-sistemici sono entrambi un prodotto diretto di questa struttura. La finanza mondiale non è frutto di un errore: è stata costruita per funzionare così come ha funzionato e funziona. Ed è per questo che produce mostruosità di violenza e di diseguaglianze. Questa finanza mondiale è la forma monetaria della contraddizione insanabile, e ormai esplosiva, tra sviluppo e natura. Di denaro continueremo ad avere bisogno, ma non di quello attuale. Dovrà essere introdotto il controllo pubblico democratico sull'emissione monetaria, poiché il denaro non può essere concepito come una merce e non ha valore se non è raccordato all'economia reale. Quando questo rapporto si spezza – e si è spezzato clamorosamente davanti ai nostri occhi – il denaro si trasforma in potere allo stato puro, sovvertitore di ogni presentazione delle liste per qualunque elezione (il meccanismo attualmente è distorto e truffaldino e disattende anche il principio fondamentale della segretezza del voto, imponendo l'espressione di un “sostegno politico” alla lista che si sottoscrive). 5. L’attuale situazione, critica su molti fronti simultaneamente, sta già modificando tutti gli assetti mondiali di potere, a riprova che la transizione è già cominciata e che le sue turbolenze sono in espansione. Il lungo dominio mondiale degli Stati Uniti è in evidente declino, assieme all'ormai insostenibile – per il resto del mondo - supremazia assoluta del dollaro. Il tenore di vita del miliardo d'oro non è sostenibile, in condizioni pacifiche, mentre all'interno stesso dei paesi industrialmente sviluppati – nei quali larghi strati popolari hanno comunque potuto godere, negli anni della crescita del PIL, delle briciole che cadevano dal tavolo dei ricchi – si assiste a una impressionante divaricazione e disparità nella distribuzione dei redditi. Ne consegue che i patti sociali – che hanno permesso alle nostre società di reggere negli ultimi 60 anni – sono gravemente minacciati quasi dovunque. Le tensioni internazionali crescono di pari passo a quelle sociali e interne a ogni paese. Classi politiche impreparate e miopi si lasciano tentare da soluzioni demagogiche verso l'interno e aggressive verso l'esterno, nella speranza di mantenere una presa che loro sfugge nei confronti delle rispettive opinioni pubbliche. E' evidente che, in queste condizioni, cresce il pericolo di guerre, anche di grandi dimensioni. In assenza, o carenza, di risorse essenziali, coloro che sono forti militarmente sono trascinati dalla tentazione dell'uso della forza per risolvere i problemi della propria stabilità interna. Queste tendenze continueranno a crescere. S'impone dunque una politica estera del tutto diversa dall'attuale, a cominciare dal riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e dalla eliminazione di armi atomiche in Italia e in tutta l’area mediterranea. Occorre una politica estera che liberi l'Italia da ogni alleanza militare - anche attraverso la pubblicazione e il superamento degli accordi militari segreti tuttora in essere - e le consenta di svolgere un'azione autonoma e sovrana di pace. Come primo atto di una svolta necessaria s'impone il ritiro delle nostre truppe dall'Afghanistan e l'impegno a una drastica e conseguente riduzione e riorientamento delle spese militari, esclusivamente all'interno di una politica europea comune di contributo attivo alla pace e alla costruzione di una nuova architettura mondiale multipolare. Per realizzare questi obiettivi occorre interpretare in modo radicalmente nuovo la funzione dei movimenti per la pace. Dalla logica della risposta alla guerra, a quella della mobilitazione preventiva contro il sorgere di conflitti. Le guerre devono essere individuate là dove possono nascere. E là devono essere disinnescate. La pace si vince impedendo alla guerra di cominciare, non imponendole di fermarsi. 6. Tutte le forze politiche storiche hanno posto a fondamento del loro sistema di valori e dei loro criteri di interpretazione della realtà, l’identificazione del benessere con la crescita della produzione e del consumo di merci. Tutte hanno adottato le misure che ritenevano più efficaci per favorire la crescita e rimuovere gli ostacoli che le si frappongono, per accrescere in continuazione i livelli dei consumi, per ampliare il numero dei produttori e consumatori di merci. Lo scontro politico tra di esse si è sempre articolato sulle scelte di politica economica più efficaci per stimolare la crescita e sui criteri di distribuzione del reddito monetario che ne consegue. 7. Per superare la crisi di sistema determinata dall’intreccio della crisi di sovrapproduzione con la crisi ambientale occorre elaborare strumenti di analisi economica e di politica economica diversi da quelli finalizzati a rilanciare la crescita della produzione di merci. E per far questo occorre un soggetto politico capace di dimostrare nei fatti che si può, e conviene, indirizzare la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche a ridurre gli sprechi di energia, gli sprechi di materie prime e la quantità dei rifiuti perché solo in questo modo si può creare occupazione; che quindi la crisi economica si può superare soltanto se l’economia viene indirizzata a superare la crisi ambientale. Occorre perseguire una crescita guidata dei settori produttivi funzionali al superamento della crisi ambientale e una decrescita guidata dei settori che la rendono sempre più grave. Si dovrà energicamente combattere contro licenziamenti e disoccupazione avviando una progressiva e generalizzata riduzione dell'orario di lavoro. Lo sviluppo di tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle materie prime e dell’energia, che accrescono la durata e la riparabilità degli oggetti, che consentono di recuperare i materiali di cui sono composti quando vengono dismessi, comporta una riduzione dei consumi a parità di benessere. Se al posto degli attuali parametri quantitativi si utilizzassero parametri qualitativi nella valutazione delle attività produttive, la conseguenza sarebbe una diminuzione degli sprechi e della produzione di merci. 8. Un così radicale capovolgimento di prospettiva richiede l’elaborazione di un paradigma culturale diverso da quello che caratterizza il modo di produzione industriale e non può essere compreso nel sistema dei valori e nei parametri concettuali dei partiti che si sono formati nel periodo storico e nei paesi in cui questo modo di produzione si è affermato, perché ne costituisce l’antitesi. Richiede pertanto la formazione di un nuovo soggetto politico che non può limitarsi ad essere un’altra variante dei partiti esistenti, un rimescolamento di carte tra spezzoni di varia provenienza che avvertendo l’insufficienza della strumentazione teorica in dotazione si propongano di arricchirla con qualche utensile in più. Il nuovo soggetto politico, di cui c’è bisogno per sostenere a livello istituzionale proposte coerenti con un paradigma culturale che sostituisca il parametro quantitativo della crescita con parametri qualitativi finalizzati a superare la crisi economica creando occupazione in attività produttive in grado di attenuare la crisi ambientale, non può che collocarsi in uno spazio definito da coordinate diverse da quelle che definiscono lo spazio in cui da più di due secoli si svolge il confronto tra le opzioni politiche di destra e di sinistra. 9. Il nuovo paradigma, i nuovi stili di vita, di produzione, di utilizzo-riutilizzo, di consumo devono diventare patrimonio di immense masse popolari. Ciò è non solo necessario perché la transizione verso una nuova società avvenga in modo pacifico, ma anche perché si realizzi un più alto livello di partecipazione e di democrazia. Noi viviamo però, da ormai due generazioni, in una società dove la democrazia è stata trasformata in un combattimento di tecnologie per manipolare la coscienza collettiva. Un nuovo soggetto politico, quale noi intendiamo costruire, dovrà perciò porsi il compito cruciale di invertire il funzionamento della macchina dell'inganno e del frastuono, ovvero del rumore di fondo che obnubila e distrae. Tutto ciò per riportare l'uomo al centro di se stesso e della società, al posto di economia, tecnologia, virtuale, e per recuperare il suo bene più prezioso: il tempo. Non c'è dubbio che il mainstream informativocomunicativo sta producendo una regressione collettiva, per le popolazioni che gli sono soggette, che ha già trasformato la maggioranza dei cittadini del miliardo d'oro in consumatori compulsivi. Coloro che detengono il potere della e sulla comunicazione sono gli stessi che puntano alla prosecuzione forsennata dello sviluppo predatorio e consumistico. Ecco, dunque, che occorre portare la battaglia sul campo della informazione comunicazione: dalla sua democratizzazione, al potenziamento dell'azione pubblica, come effetto della constatazione che le televisioni (e in generale i media di ogni tipo) hanno assunto un ruolo centrale e dominante nella formazione del tenore culturale e intellettuale di una intera nazione. Tra le misure indispensabili per accompagnare una transizione consapevole occorrerà ridurre drasticamente la massa dei messaggi pubblicitari. E introdurre, anche nei programmi scolastici di ogni ordine e grado, l'educazione ai media. Sarebbe, questo, uno degli strumenti decisivi per invertire lo scivolamento verso l'analfabetismo di massa che caratterizza tutte le società investite dalla mutazione antropologica dell'homo videns. Ora doppiamente analfabete, perché non sanno più leggere e perché non sono ancora capaci di leggere – non conoscendone la grammatica e la sintassi - il messaggio ormai dominante delle immagini in movimento. Questi ed altri strumenti di organizzazione democratica e partecipata del flusso informativo-conoscitivo, come quello del sapere in ogni suo aspetto, debbono colpire l'effetto ultimo della mercificazione di tutti i rapporti umani che è stato il risultato del processo manipolatorio. 10. Le politiche economiche dominanti nei paesi occidentali sono variate nel tempo assieme alle forme di organizzazione e di regolazione dell'economia capitalistica. Così, la lunga fase di sviluppo economico iniziata con la fine della Seconda Guerra Mondiale è stata caratterizzata da politiche economiche di sinistra, cioè di tipo riformista socialdemocratico, mentre la sua crisi, sopravvenuta negli anni Settanta del Novecento, ha portato al predominio di politiche economiche di destra (usualmente indicate con l'etichetta "neoliberismo"), predominio che si è protratto fino ad oggi. In questa fase "neoliberista" si è assistito al crollo del "socialismo reale" e alla diffusione nel mondo intero dei rapporti sociali capitalistici. In questa fase nei paesi a economia di mercato la sinistra ha cercato di competere con la destra introducendo nel suo apparato concettuale e operativo gli elementi essenziali della cultura della destra. Ma l’economia di mercato ha aggravato i problemi ambientali, economici e sociali: incremento delle emissioni inquinanti, maggiori difficoltà di approvvigionamento di materie prime, delocalizzazione delle produzioni in paesi a controllo ambientale ridotto o nullo, con manodopera disponibile a lavorare a costi più bassi e con meno garanzie, processi migratori su scala mondiale. Vi sono forze, politiche e culturali, che comprendono questi temi. Manca tuttavia ad esse la consapevolezza della necessità di un diverso paradigma culturale. Di conseguenza l' equità o la sostenibilità che si presume di perseguire rimane all’interno di questo sistema di produzione, cioè si riduce a una più equa distribuzione della ricchezza monetaria prodotta da un’economia finalizzata unicamente alla crescita della produzione di merci, senza nemmeno scalfire la logica distruttiva dell'attuale sistema. Questo è un vicolo cieco. 11. C’è inoltre in Italia chi ritiene che sia necessario fondare un nuovo soggetto politico per dare rappresentanza a settori sempre più vasti dell’elettorato che non si riconoscono in nessuno dei partiti esistenti e sono sempre più nauseati dai livelli di degenerazione raggiunti dal sistema politico, dallo spregio della legalità, dalla diffusione della corruzione, dalla presenza nel parlamento di una nutrita rappresentanza di persone condannate in processi penali, dall’approvazione di leggi che impediscono lo svolgimento di processi a carico di imputati eccellenti e ostacolano le indagini penali, da sanatorie che incoraggiano l’evasione fiscale, da un sistema elettorale che ha sottratto agli elettori la libertà di scegliere i propri rappresentanti istituzionali e l’ha consegnata alle segreterie di partito, dagli intrecci tra apparati dello Stato e organizzazioni criminali, dalle collusioni tra maggioranza e minoranza nella difesa di privilegi intollerabili. Come non essere d’accordo con ogni iniziativa finalizzata a ripristinare la legalità e la sovranità popolare? Ma anche se si ottenesse questo risultato non si sarebbero fatti passi in avanti nella definizione di una politica economica in grado di superare la crisi economica e la crisi ambientale. Se in un contesto di legalità e di democrazia si continuasse a finalizzare le attività economiche e produttive alla crescita della produzione di merci, la disoccupazione, le emissioni inquinanti e i rifiuti continuerebbero comunque a crescere, i problemi energetici, quelli della salute, e l’effetto serra ad aggravarsi. Si andrebbe comunque al disastro, ma in condizioni giuridicamente ineccepibili. 12. Una più equa distribuzione delle risorse tra le classi sociali e tra i popoli, la tutela ambientale e la difesa della legalità costituiscono dei punti fermi su cui non si può non concordare, ma non sono sufficienti per evitare il collasso della civiltà che sta per essere causato da un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione e del consumo di merci. Occorre invertire questa tendenza individuando parametri differenti per le attività produttive; riscoprendo nel fare bene, e non nel fare sempre di più, il senso autentico del lavoro; nello stare bene con se stessi e con gli altri nei luoghi in cui si vive, e non nel tanto avere, il senso della vita. Una presenza politica nelle istituzioni è indispensabile per riuscire a tradurre in misure di politica economica e industriale questa concezione del mondo e per diffondere azioni educative necessarie per orientare gli stili di vita verso la sostenibilità. Questo passaggio non sarà facile perché l'intera società attuale è basata sul presupposto della crescita. Di conseguenza, la crisi della crescita comporta gravissimi problemi sociali, in particolare l'aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze sociali. Per questo, il passaggio ad una società più umana richiede un grande sforzo, in larga parte ancora da fare, di elaborazione teorica e pratica. Solo una nuova forza politica, di dimensione nazionale e, in prospettiva, internazionale, può porsi un tale obiettivo, che è la premessa per costruire una alternativa popolare e democratica ai fautori della crescita. 13. Una nuova presenza politica nelle istituzioni è necessaria, com’è necessario che si attui una nuova modalità capace di favorire concretamente buone pratiche di democrazia diretta e diffusa. Diventa così importante: ascoltare, dialogare, confrontarsi con i cittadini, i comitati, i movimenti, le associazioni, costruendo e alimentando spazi e strumenti di partecipazione autentica che possano favorire scelte e decisioni condivise. Fare della coerenza e della trasparenza principi imprescindibili dell’agire politico. Affermare e praticare l’impegno politico come diritto/dovere di tutti e di tutte, rifiutando il principio della delega ai professionisti della politica. Rifiutare i personalismi, i protagonismi, le gerarchie; favorire la partecipazione diretta, la responsabilità collettiva, lo spirito di servizio per il bene comune. Superare la contrapposizione tra la sinistra e la destra (entrambe fautrici di una politica economica basata sulla crescita illimitata) e l’insieme della partitocrazia, a favore di un diverso paradigma culturale, che privilegia la sostenibilità alla crescita e allo sviluppo economico a tutti i costi. Valorizzare la dimensione locale, il lavoro di territorio, lo sviluppo di comunità per alimentare il senso di solidarietà, di fiducia reciproca, di mutuo aiuto. Sostenere e far interagire le realtà locali e le persone senza legami con i partiti che condividono l’esperienza del nuovo soggetto politico, favorendo la creazione di una rete di sostegno alla rappresentanza provinciale, regionale e nazionale. Promuovere e incoraggiare circuiti dell'economia alternativa basati sugli scambi non monetari e sulle monete locali, al fine di sottrarre terreno al ricatto della finanza e moltiplicare esperienze per la transizione a un sistema sociale autenticamente alternativo. In questo documento sono enunciati alcuni principi di fondo su cui i proponenti invitano ad aprire un confronto per verificare la possibilità di avviare il processo costituente di un nuovo soggetto politico. Maurizio Pallante (MDF – Movimento della Decrescita Felice) Giulietto Chiesa (Movimento Alternativa) Monia Benini (Per il Bene Comune) Massimo Fini (Movimento Zero) Rete Provinciale torinese dei Movimenti e Liste di cittadinanza: Comitato di cittadinanza attiva e Lista civica Rivalta Sostenibile, Lista civica Alpignano, Per il Bene Comune Piemonte, Movimento Alternativa Piemonte, Lista civica No Inceneritore Beinasco, ANIMO Nichelino Roma, 21 novembre 2010 ANALISI Ed ecco T i primi “effetti” “Popoli d’Europa, unitevi” Del grido appeso al Partenone se ne sono accorti in pochi. All’inizio. Ma poi tutti hanno iniziato a fare i conti con ciò che è accaduto ad Atene. L’Europa crolla. Dicevano che la Ue era al riparo dalla crisi. Poi che ci eravamo dentro ma meglio degli altri. Quindi che ne eravamo quasi fuori. E poi, d’uno colpo, è iniziata a circolare la parola austerità. Facciamo un primo bilancio? di Sara Santolini agli di tutti i generi in tutta Europa. È questo quello, tra le altre cose, che ci ha regalato la crisi economica. Le Banche sono state aiutate con iniezioni di capitale pubblico, con la scusa di far ripartire i mercati e evitare ulteriori crolli finanziari che possano provocare un contraccolpo così forte da far traballare l'intera economia e finanza occidentale. Oggi però, alla luce di quanto tutto questo ci è costato - e di cosa abbiamo ottenuto in cambio - viene da chiedersi: sarà valsa la pena? Possiamo fare un primo bilancio. All'inizio sembrava che la situazione dovesse risolversi. O meglio, ci hanno fatto credere che fosse proprio così. Gli aiuti alle Banche varati in tutto il mondo erano dettati dall'estrema necessità dettata dal rischio di una recessione economica gravissima che, però, grazie a questo sacrificio, non si sarebbe verificata. Abbiamo salvato le Banche e innalzato il debito pubblico. Abbiamo sostenuto chi ha guadagnato - e continua a guadagnare - grazie alla speculazione e all’alta finanza a discapito della gente comune, che produce e lavora. E ora, per pagare quel debito che già era alto e che si è innalzato ulteriormente grazie alla crisi finanziaria, abbiamo bisogno di denaro, sempre più denaro. È così che abbia- 52 - WWW.ILRIBELLE.COM 53 - WWW.ILRIBELLE.COM mo dato il via alle danze dei prestiti. Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e la Banca Centrale Europea (Bce), e rimaniamo all’Europa, hanno cominciato a distribuirne di ogni genere, vincolando le popolazioni degli Stati a un pagamento rateizzato che tende a non avere nessuna possibilità di venire estinto. In Europa tutti i Paesi hanno varato piani d’austerità. Quelli che hanno un debito pubblico già molto alto lo hanno fatto per pagare i debiti, vecchi e nuovi, che hanno contratto mentre la motivazione di tutti gli altri è stata il timore di un declassamento delle agenzie di rating che avrebbe avuto - e ha - l’effetto di rendere sempre più dispendiosa l’emissione di Titoli di Stato. La prima è stata la Grecia, e il primo prestito richiesto, e prontamente concesso, è stato di 110 miliardi di euro con erogazione prevista in tre anni. Il piano d’austerità corrispondente, varato tra polemiche, manifestazioni e scioperi di ogni tipo, prevedeva i tagli dei salari e delle pensioni per i dipendenti pubblici, l’aumento dell’Iva e delle imposte su carburanti, alcolici, sigarette e beni di lusso, la riduzione delle indennità di licenziamento e degli straordinari, l’estensione della possibilità di licenziare nel settore privato. Il tutto per ridurre la spesa pubblica di ben 30 miliardi. Inutili le proteste di studenti, operai, impiegati di tutti i livelli e pensionati che si trovano senza soldi o lavoro né servizi e più tasse. Così come inutili sono state le richieste della popolazione di punire i responsabili della crisi, individuati nelle Banche, gli istituti finanziari e quelli creditizi. Dopo il varo di questo prestito l’Ue e l’Fmi si erano affrettati a dire che, per evitare che la situazione greca si riproponesse negli altri Paesi europei, bastava che gli altri Stati, considerati comunque meno a rischio della Grecia perché dotati di un miglior tessuto economico e un debito pubblico meno grave, prevedessero misure di contenimento della spesa. In realtà, il caso Grecia non è stato altro che il primo. A riprova di ciò solo un mese fa anche l’Irlanda, che aveva già varato aiuti per il salvataggio delle Banche nazionali e quelle straniere con attività nel Paese nel 2008, ha chiesto un prestito miliardario per evitare il tracollo finanziario. La cifra richiesta si aggira sugli 85 miliardi di euro. Lo scopo ultimo è quello di ridurre il debito. Anche qui è arrivata “l’inevitabile” manovra lacrime e sangue da 15 miliardi che preve- 54 LA VOCE DEL RIBELLE de tagli per 10 e un aumento delle tasse per 5 miliardi. Chi ne fa le spese, al solito, è la gente comune, primi fra tutti i dipendenti pubblici: sono previsti licenziamenti, riduzioni dell’indennità di disoccupazione e tagli del 10% agli stipendi dei neoassunti dei quali il salario minimo scenderà a 7,65€ l’ora. Ancora: aumenterà la pressione fiscale sul reddito e l’Iva salirà fino ad arrivare al 23% nel 2014. Altri 2,8 miliardi proverranno da tagli al sistema del welfare. A fronte di tutto questo, però, chi si salverà saranno gli utili delle imprese. Il governo irlandese ha infatti deciso di non ritoccare al rialzo l’aliquota del 12,5% sugli utili. La motivazione è presto detta: l’Irlanda teme che, perdendo questa agevolazione fiscale che fino a ieri ha attirato investimenti stranieri facendole meritare il titolo di “tigre celtica”, le grandi multinazionali decidano di abbandonarla e volgere altrove le loro attenzioni. E stiamo parlando delle stesse grandi multinazionali che sfruttano il lavoro nazionale, all’occorrenza delocalizzandolo. La prossima nazione che presumibilmente avrà bisogno di un prestito del Fmi è la Spagna. Anche qui il governo ha cercato di correre ai ripari, riducendo la spesa: a maggio erano stati tagliati i salari dei dipendenti pubblici (-5%), il welfare e congelate le pensioni di anzianità. Accanto a queste la legislazione aveva reso più facili e meno onerosi i licenziamenti nel settore privato e sottratto allo sviluppo i 600 milioni di euro che vi aveva inizialmente destinato. Il timore che questa sia la prossima a cadere nelle mani del Fmi a causa del debito sta provocando un’emorragia di capitali: dinastie spagnole e investitori stranieri starebbero spostando i loro soldi in altre banche, soprattutto in Lussemburgo. Questa tendenza avrebbe spinto il Paese a varare una nuova misura correttiva da 4 miliardi di euro, che dovrebbe rassicurare capitali e investitori e che prevede, tra le altre cose, la parziale privatizzazione degli aeroporti e della navigazione aerea, il taglio dei sussidi di disoccupazione e sgravi fiscali per le piccole imprese che possano dare nuovo stimolo alle aziende. Inoltre si prevede a breve il varo di una riforma delle pensioni che non promette nulla di buono. Per i lavoratori, chiaramente. In Italia, a maggio, il Parlamento ha varato una manovra da 24,9 miliardi, di cui 7 in tagli alla spesa pubblica. I settori maggiormente penalizzati sono stati il pubblico impiego, con il congelamento di con- 55 WWW.ILRIBELLE.COM tratti e stipendi, la rateizzazione delle liquidazioni, tagli ai costi della politica e della pubblica amministrazione e, soprattutto, ai comuni, alle regioni, alla sanità, alla ricerca, all’istruzione, alla cultura. In pratica a qualsiasi servizio al cittadino. Indistintamente. Stranamente all’interno della manovra ha trovato invece spazio una sanatoria edilizia, con la scusa di racimolare più soldi possibili. Evidentemente però la cosa non ha funzionato, se anche qui a dicembre è stato necessario l’ennesimo correttivo nella legge finanziaria. Il Parlamento Portoghese, dal canto suo, ha agito praticamente allo stesso modo: tagliando al pubblico e dando al privato, sperando in una nuova crescita economica, tale e quale a quella degli anni passati. Ha tagliato i salari dei dipendenti statali, ridotto del 5% gli stipendi dei politici, aumentato l’Iva dal 20 al 21% e poi, nell’ultimo mese, al 23%. I correttivi di fine anno, adottati anche qui, dovrebbero ridurre il disavanzo pubblico al 4,6% del Pil. “Dovrebbero” ma, già per il 2010, la riduzione non è stata così bassa come quella prevista, attestandosi al 7,3%. La corsa ai ripari è dettata però anche in questo caso, come in Spagna, dalla necessità - e dalla speranza che il Portogallo possa evitare di ricorrere ai fondi europei come Grecia e Irlanda. Ma al peggio non c’è mai fine. Il Paese che al momento ha varato misure tra le più restrittive è la Romania che ha innanzitutto aumentato tasse di ogni tipo: sugli interessi bancari, sui crediti di gioco, sulle seconde case e sui beni di lusso toccando i redditi più alti, finalmente. Anche qui, però, sono arrivati i tagli ai salari pubblici e i licenziamenti statali (che ammonterebbero alle 350 mila unità in cinque anni) e sono più alti che negli altri Paesi. Quelli alle pensioni, previsti al 15%, sono stati dichiarati incostituzionali, così come il loro ricalcolo per alcune categorie lavorative, e solo per questo non sono stati attuati. Per ora. Per ovviare a questo inconveniente costituzionale, però, la Romania ha alzato l’Iva dal 19 al 24%. Questa misura, simile a quella varata in altri Paesi europei, rischia di avere effetti fortissimi sull’economia e di creare, assieme ai tagli, una vera e propria recessione nel Paese. A causa dell’aumento dell’Iva, infatti, i prezzi, e dunque l’inflazione, aumenteranno rapidamente facendo diminuire proporzionalmente il potere d’acquisto dei lavoratori, già gravati dai tagli, e dunque rendendo praticamente impossibile una ripresa interna. Probabilmente nel caso Romeno la speranza è che i bassi salari, come sta già accadendo, attireranno ulteriormente la delocalizzazione delle fabbriche che sta interessando tutta Europa. Questo significa che il Paese è destinato a diventare una fabbrica dalla quale le merci, che i lavoratori nazionali 56 LA VOCE DEL RIBELLE non potranno permettersi, partiranno per i mercati esteri, più ricchi. In Inghilterra, dove invece le cose non vanno molto meglio, la manovra per la diminuzione della spesa è stata dura e ha previsto l’innalzamento dell’età pensionabile a 66 anni entro il 2020, il licenziamento di 490 mila dipendenti statali e una diminuzione delle spese ministeriali del 19% e del welfare di 11 miliardi di sterline oltre all’imposizione di tasse sulle Banche. I tagli, a differenza che altrove (ad esempio in Italia) non hanno intaccato salute e ricerca ma riguardano invece anche gli armamenti, oltre che le forze armate con il licenziamento di 42 mila dipendenti del ministero della difesa nei prossimi 5 anni e, tra le altre cose, il taglio del 40% dei carri armati. Ora, a sei mesi dai primi provvedimenti, il welfare subirà tagli per ulteriori 7 miliardi arrivando, con la precedente manovra, a un totale di 18 miliardi. Una spesa che non mancherà in Inghilterra, però, seguendo la scia svedese, è quella per la cooperazione allo sviluppo. Questa, lasciando da parte la filantropia, spesso è dettata da ragioni commerciali ed economiche. Qualora sia ben fatta, infatti, prepara la strada a dei rapporti specifici e preferenziali tra i due Paesi coinvolti nel rapporto di cooperazione. Risponde così alla solita necessità di creare nuovi mercati o rapporti commerciali, portando la logica occidentale in quei luoghi del pianeta che ne farebbero volentieri a meno, e tradisce spesso una vocazione puramente coloniale. Tornando ai tagli, anche i Paesi che teoricamente hanno un debito più basso, e dunque sono considerati meno a rischio, hanno subito delle misure di contenimento e tagli della spesa simili a quelle dei Paesi più in difficoltà. Anche la Francia, ad esempio, quest’anno ha dovuto stringere la cinghia. I primi settori a soffrirne qui sono stati la sanità, le pensioni e le amministrazioni locali. Dunque niente più assistenza sanitaria gratuita per gli indigenti e sempre meno possibilità di accedere anche all’Ame, l’aiuto medico di Stato per stranieri irregolari o semplicemente poveri. Il tutto per tentare di portare il debito pubblico dall’8 al 3% entro il 2013, come promesso in sede europea. Tagli anche agli incentivi per il fotovoltaico almeno fino a tutto il 2012, come a Berlino. In Germania, lo Stato considerato trainante per l’economia di tutta l’Ue, per i cittadini le cose non stanno andando molto meglio che nel resto d’Europa. La Merkel, dopo aver annunciato una manovra di entità molto minore, ha varato un piano di austerità da 86,3 miliardi di euro in quattro anni. Questi soldi proverranno, al solito, dai licenziamenti pubblici - si parla di circa 12 mila posti di lavoro - tagli al welfare, ai sussidi di disoccupazione, ai congedi parentali e alla difesa, oltre che 57 WWW.ILRIBELLE.COM “E non è un caso isolato di mediocre che raggiunge il potere. È un modello che ha avuto grande successo e molti imitatori. Questi, nella maggior parte dei casi, sono riusciti a raggiungere le leve del potere e decidere le sorti della nazione, e una nazione retta da mediocri non può essere che una nazione mediocre.” de successo e molti imitatori. Questi, nella maggior parte dei casi, sono riusciti a raggiungere le leve del potere e decidere le sorti della nazione, e una nazione retta da mediocri non può essere che una nazione mediocre. Un romanzo scritto cento anni prima dei mitici anni Ottanta, anche se quasi sembra descriva proprio quelli, ma che può ottimamente fornirci le chiavi per capire i meccanismi delle stanze del potere e la funzione della grande editoria nell’influenzarle, sostituendo manipolazione a informazione. Maupassant spiega anche perché il giornalismo non riesca a svolgere quel ruolo di controllo che millanta, anzi si dimostri quasi sempre funzionale al potere: non sono molti quelli che hanno raggiunto adeguati livelli di influenza nella professione grazie a talento e integrità morale, al contrario è gente tributaria al potere e che può sopravvivere solo finché sarà funzionale a questo. Vogliamo ancora sperare che qualche isola felice possa esistere e rifiutare marchiando illusoriamente di pessimismo il realismo di Maupassant, ma il timore è che siano isole destinate a restare comunque nicchia per pochi, perché la massa, anche se non lo confessa, anziché detestare Bel Ami lo stima e lo invidia: così non fosse avremmo un’altra Italia, guidata da altre persone che non gli somiglierebbero così tanto. Marzio Pagani 58 LA VOCE DEL RIBELLE CINEMA polazione hanno importanza.Fitte reti relazionali e lobby incrociate sono quello che serve per raggiungere il potere e mantenerlo, nessuno spiraglio per la speranza in questo romanzo: il suo è realismo, quindi la giustizia non trionfa come in un ipocrita finale Hollywoodiano, è l’intrigante Bel Ami a trionfare e a raggiungere tutte le mete che si era prefisso. E non è un caso isolato di mediocre che raggiunge il potere. Non è neppure figlio del suo tempo, se non nei dettagli, che non ha riscontri nella contemporaneità. È un modello che ha avuto gran- Cyrano C di Spagna Quando l'onore era cosa diversa, e l'uomo, nel suo complesso, era differente da quello odierno, Il Capitano Alatriste combatteva in Spagna, al tempo in cui la nazione, la giustizia e la vendetta erano anche affari personali. di Ferdinando Menconi yrano di Spagna: questa può essere la definizione per il Capitano Alatriste, proiettato sullo schermo dalle pagine di Arturo Perez-Reverte e vissuto giusto una generazione prima dell’eroe, altrettanto immaginario, di Rostand1, all’epoca di Filippo IV “il Re pianeta”, perché allora non vi era continente in cui la Spagna non dominasse, anche se il cancro della decadenza, fra corruzione e il Vietnam di Fiandra, stava per far crollare l’Impero. Il nostro Alatriste ha, invero, qualcosa meno di Cyrano, un meno che, però, si rivela essere un qualcosa in più: egli non è né un letterato né un poeta. Alatriste era un uomo che la libertà la sentiva nella pancia e che non faceva ricami2 “alla fine della licenza”, ma come “spadaccino a 4 Maravedis per conto di gente che non aveva né l’abilità né il coraggio di battersi”. Hidalgo, soldato, quasi picaro, nell’ultimo ventennio (1622-1643) in cui la Spagna fu signora del mondo, quando questa, alla fine del medioevo, perse l’occasione di avere una borghesia: perché il suo cavaliere senza eredità anziché trasformarsi in borghese o 59 - WWW.ILRIBELLE.COM contadino, preferì continuare a vivere di spada anziché di zappa o commercio. Alatriste, capitano solo per soprannome, è un assassino di strada ma con un profondo codice d’onore: uccide in duello, spada e daga, non è un sicario. Da uomo di spada, infatti, si farà carico per tutta la vita del figlio di un suo camerata morto in Fiandra in un’azione da “berretti verdi”. Se il prezzo del veleno di palazzo può entrare nelle sue tasche non entra nella sua anima, né, ancor meno, nei suoi metodi. Lo stesso nemico giurato di Alatriste, un italiano di nome Malatesta, infatti, è personaggio da amare: fra loro è sfida senza odio, solo acciaio e onore. Combattimento a volto scoperto, impossibile l’uccisione a sangue freddo, e, nella desueta logica del rispetto il Malatesta lascerà in eredità ad Alatriste, il suo nemico, la spada: significati e significanti incomprensibili alla mentalità psicocontemporanea, ma così ovvie agli Uomini che, in quanto tali, repellono psicologia e psicanalisi. Cose virili che “...Una cosa accomuna nel profondo, però, l’illetterato Alatriste e il poeta Cyrano: le offese si lavano a fil di spada. Non c’è spazio per sdegnate vili querele: o hai fegato o ingoi l’insulto...” sono di un mondo scomparso, crudele forse, e dove la vita umana valeva poco, ma quando per l’onore non c’era prezzo. Oggi, tolte le lagnose parole di rito, la vita umana la si vende e delocalizza per molto meno, mentre per l’onore non c’è più posto: quello non è delocalizzabile fuori dall’anima guerriera, se la si ha. Il nostro Cyrano di Spagna, abbiamo detto, è un illetterato, ma è amico dei letterati e li protegge a suo grande rischio: si rende, per certi versi, conto, che la penna dei suoi amici che scrivono contro il regime, e la decadenza di una nazione altrimenti nobile, è importante e forte come la sua spada, ma, soprattutto, l’ignorante capisce che la penna senza spada, così come la spada senza penna, è, e sarà sempre, impotente contro le tirannidi. Il Malatesta, nemico dell’eroe, ma non antieroe, contrariamente alle imperanti mode del celomoscismo, è funzionale nella storia per il suo proporre ai “bouni”, e agli spettatori, eccellenti spunti di riflessione. Fra questi spicca il “voi spagnoli siete dei rozzi, mancate di finezza, forse è per questo che dominate il mondo”3. La similitudine con gli USA è pale- 60 WWW.ILRIBELLE.COM se, ma è una somiglianza molto superficiale, regge solo fra il cowboy e il picaro, ma crolla rapidamente quando si provano a comparare gli obiettivi delle elite. Altra verità che l’italiano spara è: “la bellezza di una donna è marchio di tirannia per un uomo”, e la donna che tradirà l’amore suo e del pupillo del “capitano” seguirà una tendenza viva oggi come, se non più, di allora: moglie e madre di “Grandi di Spagna” anziché sposare uno squattrinato amore romantico e vero. Poi ci si chiede perché gli uomini, quelli rimasti tali, sono cinici e non credono più alle lacrime cinematografiche dell’amore. Anche Alatriste avrà il suo amore triste, fisicamente fedele a nessuna ma devoto sempre all’amore di una donna sposata, ma quando potrebbe, vedova, averla: lei gli preferirà l’amore del Re, e lui saprà ingoiare con una dignità che i maschi di oggi, che non sanno più essere uomini, ignorano. Quando, però, lei sarà abbandonata in un ospedale, per le affette da sifilide, il Capitano sarà l’unico a renderle visita e, senza sproloqui di verbalismo ridondante così di moda oggi, con un gesto testimoniarle il suo amore vivo oltre malattia e morte, pur se non potrà più concretizzarsi nella carne. Attenzione però, il nostro Cyrano di Spagna non è un “platonico”: di congiunzioni carnali con la più bella e desiderata attrice di Spagna lui ne aveva avute più e più d’una. Rozzo Brandy di Jerez, e non fine Cognac, il nostro Alatriste non si era messo a rimorchiare per conto terzi sotto un balcone: il suo se l’era preso, sottraendolo ad altri, prima di perderlo. Parliamo di rimorsi non di rimpianti. Una cosa accomuna nel profondo, però, l’illetterato Alatriste e il poeta Cyrano: le offese si lavano a fil di spada. Non c’è spazio per sdegnate vili querele: o hai fegato o ingoi l’insulto. Mondi violenti entrambi e inaccettabili, almeno per il mondo politicamente corretto dei senza palle (o senza ovaie, per non essere sessisti), cui noi, orgogliosamente, ci fregiamo di non appartenere. Certo entrambi gli spadaccini vivono in un mondo in decadenza di re imbelli, con primi ministri corrotti che dettano leggi sbagliate, in questo lo ieri in questo è simile all’oggi, ma allora ogni uomo aveva una spada e poteva far valere il suo virile diritto, anche contro il re, oggi, perché non siamo nel Far West, solo i fuorilegge hanno diritto a girare armati: così re, premier e cavalieri possono fare il cazzo che gli pare. Simile all’oggi, poi, è lo ieri di Alatriste specie quando si parla di soldi spesi in palazzi e grandi opere, mentre chi combatte è malpagato, ma solo quando riesce, e raramente, a vedere il suo salario. Ma, come viene detto: “siete forse 61 LA VOCE DEL RIBELLE dei tedeschi: solo gli stranieri combattono solo dopo aver ricevuto il soldo”. Così Alatriste e gli altri spagnoli vanno a combattere per la nazione, mentre chi trae vantaggio dal carnaio della guerra si ingrassa sul loro sangue e ruba anche il loro soldo senza dover andare all’attacco, forse il “tedesco”, il lanzichenecco, aveva altrettanto coraggio ma meno ingenuità, per non dire stupidità. Soldato, se il “Capitano” prestava la lama in strada per pochi Maravedis, era prima di tutto un soldato al servizio di una patria tradita dal suo re, e questo dall’età di 13 anni. Viene da ridere a pensare alle leggi sui minori di oggi, per le quali un minorenne non può esibirsi in tivvù dopo mezzanotte: allora si era uomini molto prima di oggi, ammesso che oggi si sia mai uomini. Forse era un eccesso, ma adesso la virilità è negata anche in età avanzata, almeno quella virilità che esigeva il Tercio. “...perché il suo cavaliere senza eredità anziché trasformarsi in borghese o contadino, preferì continuare a vivere di spada anziché di zappa o commercio...” Il Tercio: solo la legione romana ebbe fama di imbattibilità maggiore dei tercios viejos, e come per la legione non era solo per dispiegamento tattico, ma anche per la gente che li componeva, e, come per la legione, la fine fu soprattutto per il crollo del fronte interno, roso dalla corruzione. Non è un caso che, in una scena, il primo ministro, sdegnato, chieda al “capitano” se gli stivali rotti con cui gli si presenta siano dovuti alla mancanza di denaro o all’arroganza di soldato: “entrambi” è la risposta orgogliosa di Alatriste. La fine di Alatriste arriva con quella dei Tercios, a Rocroi nel 1643, quando la rinata cavalleria Francese, finita l’epoca del caracollo, pose fine al predominio spagnolo: lì muore, con la Spagna del mito, Alatriste, cui il Duca D’Enghien aveva pur offerto una resa più che onorevole, che però lo spadaccino di strada a 4 Maravedis, dal cappello a falde larghe come quello di un cow boy, non poté accettare perché era un soldato di un Tercio di Spagna. 62 WWW.ILRIBELLE.COM Alatriste un ribelle dei tempi in cui Spagna dominava su Italia, e a buon diritto: quello di spada e daga, descritte nei film in splendidi duelli e inquadrature degne dei quadri visibili al Prado. Per fortuna dell’italietta però intervenne “provvidenza”, quella del mite Manzoni che avrebbe liquidato, se l’avesse conosciuto, l’appassionante capitano come un disgustoso bravo, con tutto lo sdegno di un cattolico di rimbalzo, che trasforma un etimo positivo in ogni lingua in una vergogna. La vergogna però è per chi attende provvidenze o sfiducie e non sa costruirsi libertà sul filo di una lama e del rischio, che è comune anche alla penna. Rischio, patrimonio comune ad ogni uomo libero, illetterato o colto, che se ne frega e non aspetta provvidenze e combatte, per dignità e libertà, sperando che siano per tutta la nazione, ma se così non è si accontenta della sua: magari un giorno anche la nazione, oltre a facili serve penne, saprà addestrasi alla spada. Ferdinando Menconi Note: 1) Molto immaginario, perché il personaggio cui Rostand, pare, si ispirò per il Cyrano anziché inseguir Rossane era un sifilitico da casino ben prima d’esser trentenne 2) Ricamo: in vecchio gergo romanesco da Regina Coeli è una ferita da arma da taglio, preferibilmente coltello, ma anche spada. 3) Traduzione del redattore dall’originale, come di seguito per le altre citazioni estratte dal film 63 LA VOCE DEL RIBELLE parol e avvel e nate 250mila veline a tremato il mondo intero. E forse anche qualche altro pianeta. Giornali, telegiornali, radiogiornali e cinegiornali di tutto il globo terracqueo si sono riuniti a reti unificate per dare la notizia. Pare che aerei ed elicotteri fossero sulle piste di rullaggio pronti per partire e trasportare i leader di tutto il mondo in luoghi segreti e iper protetti dopo le rivelazioni. Sottomarini incrociavano nelle acque in ogni dove. Sette di tutto il mondo si sono raccolte in preghiera che al confronto, il 2012 dei Maya è una barzelletta, su Piazza San Pietro è calato il gelo e il nostro Ministro Frattini, tra dichiarazioni che andavano da "un nuovo undici settembre" a "colpo mortale alla diplomazia" mancava solo citasse l'Apocalisse per esaurire le iperboli a disposizione. Ha tremato la Casa Bianca, il suo inquilino nero e i suoi sodali di esportazione democratica, tutti i gialli d'Oriente e pure i Russi in ogni ambasciata. Sono stati allertati gli hacker di tutto il mondo e i giornalisti in ogni dove hanno fatto a gara per prendersi il prime time e le prime pagine onde essere presenti e dare le notizie in tempo reale sulla vera eclissi del nuovo millennio (sempre dopo il derby Roma-Lazio del 5 a 1 che fu). Abbiamo anche scoperto che nelle redazioni dei nostri media più diffusi non hanno il dono della traduzione simultanea mentre hanno quello, e a strafottere, del conio di nuovi aggettivi di ogni tipo. Fino a che i clamorosi, drammatici, aspri, asprissimi e asperrimi documenti segreti di Wikileaks sono stati resi disponibili a tutti. Mentre una parte del mondo scopriva con orrore i contenuti di appena una quindicina di essi, e l'altra parte iniziava il lavoro di amanuensi per riuscire a decifrare tutti gli altri 249.985 ancora da leggere, Assange rilasciava videocomunicazioni su YouTube e ogni mezzo moderno per far sapere che si trovava in un posto sicuro, con la Cia alle calcagna e, pare, anche il ricostituito Kgb, manco fosse un Bin Laden qualsiasi, ma che ce l'avrebbe fatta a rilasciare la prossima intervista televisiva. Il tutto per sapere - secondo questi documenti - che i servizi segreti americani pensano che Berlusconi è vecchio e va a mignotte, Sarkozy non vale una cippa mentre Putin ha la cippa grossa, Gheddafi è un vecchio rincoglionito che si circonda di conigliette e infermiere in guepierre come un direttore qualsiasi di playboy e che, ancora una volta, abbiamo la dimostrazione certa che internet non serve a un cazzo. H “La Smemoria” C’è molta psicanalisi nella decisione dell'uomo del fare, di far taroccare dal suo architetto "ad personam", le statue con i volti di Marco Aurelio e della moglie Faustina collocati sui corpi di Marte e Venere nel 170 dopo Cristo e temporaneamente date in prestito a Palazzo Chigi. Era tollerabile affacciarsi ogni giorno nel cortile d'onore del Palazzo e adocchiare Venere con la mano destra mozzata e Marte privato del suo bellicoso pene? Per la cavia del prof. Scapagnini, evidentemente no. La mano, specie la destra, serve e il pene poi, è di una "penosa" scontata simbologia. Marmo e plastilina allora: duttilità e durezza anche se "non possunt omnia simul". E poi cielo azzurro come sfondo, ben collaudato dalle convenzioni di Publitalia prima e di Forza Italia poi. Bisogna riconoscere che c'è del metodo in questa lucida e autoconsolatoria follia: allontanare i brutti pensieri sui guasti dell'età e far sembrare ottimisticamente tutto a posto, efficiente, funzionante. Uno spot mentale autogeno. Il narciso, anche se un narciso brianzolo, vede solo se stesso, si autocompiace di se stesso, allontana il pensiero del proprio naturale decadimento esorcizzandolo con gli interventi di chirurgia estetica, con i capelli finti, con le punturine e le pillole, con il cerone, con la esibita finta virilità a 10.000 euro a botta (si fa per dire), alimentata da nugoli di giovani ninfette, cioè di "giovanette capaci di suscitare desideri erotici, specialmente in uomini maturi" (Devoto Oli). La molesta vecchiaia! E allora vivremo fino a 120 anni, saremo potenti, felici, ottimisti. Le statue mutilate non possono proprio avere posto e ruolo in questa narrazione autoconsolatoria. L'uomo reggerà? Avrà la fiducia? Potrà continuare a credere di comandare? Qualunque cosa accada, la sua immagine evoca quella di un tristissimo "viale del tramonto". Nell'omonimo film di Billy Wilder c'era già tutto. Gloria Swanson (Norma Desmond) fissa in immagini indimenticabili la sua angosciata follia di ricca ex-diva senescente. Le allucinate serate nella villa, le cene rituali, le proiezioni di vecchi films, le luci soffuse, i grammofoni gracchianti, lo champagne e le mossette. Erik Von Stroheim - un Bondi perfetto - l'ex regista e marito divenuto cameriere e autista, la venera e la protegge e, quando lei uccide William Holden (Fini, il traditore) riesce a concederle l'uscita di scena come la sequenza di un film che la vede ancora protagonista. La discesa dallo scalone della villa dopo l'arresto e con il finto ciak è infinita e drammatica, patetica e struggente. Sarà così anche nel caso di Silvio? Chi lo sa; ma in fondo, per seguire un precetto aristotelico, non bisognerebbe mai fare del bene ai vecchi. Tomaso Staiti di Cuddia Ci occuperemo invece di...: Legambiente Se il Papa torna in sé Piigs Fondare un nuovo partito? Steppenwolf A.A.A. Ribelli Cercasi di Alessio Di Mauro