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Nuove tendenze nel risparmio
gestito: i prodotti total
e absolute return
di Francesco Betti (*)
e società di gestione del risparmio negli ultimi anni hanno dovuto affrontare nuove sfide
L
derivate dal cambiamento dei vincoli regolamentari e dalle mutate esigenze dei
risparmiatori. Ne sono sorti alcuni nuovi prodotti definiti total ed absolute return di cui si
analizzano le caratteristiche nel presente contributo.
Le nuove tendenze del risparmio gestito
L’asset management è un’industria. Come ogni industria ha i suoi distretti, le sue territorialità, i suoi
vantaggi competitivi, ma è in generale soggetta ai
due vincoli principali di ogni attività produttiva: da
un lato, i vincoli di regolamentazione (così come
imposti dai governi e dalle autorità di vigilanza e
controllo); dall’altro i vincoli commerciali, cioè la
necessità di fornire la migliore risposta alle esigenze dei consumatori/risparmiatori.
Entrambi questi vincoli sono stati recentemente
modificati, e questo processo è avvenuto a una velocità mai sperimentata nei due decenni precedenti.
È come se fino ad oggi avessimo visto un film al
rallentatore, e soltanto ora il ritmo fosse stato riportato ai suoi livelli normali.
In tema di regolamentazione, la Direttiva 611
dell’85, così come modificata dalle direttive 107 e
108 del 2001 (cosiddetta UCITS III) ha da un lato
esteso le possibilità di investimento dei prodotti di
risparmio gestito, rilasciando alcuni limiti eccessivamente stringenti e, dall’altro, ha semplificato il
«commercio transnazionale»: oggi, un «produttore
di fondi» può investire in una gamma di strumenti
finanziari qualitativamente e quantitativamente più
estesa e può commercializzare i suoi beni in un
qualsiasi paese dell’Unione Europea.
Questi macro-interventi vanno nella stessa direzione: incrementare la concorrenza tra produttori e ridurre i costi per i consumatori. In una parola, essi
rappresentano meccanismi per la regolamentazione
efficiente del mercato. Le società di gestione del risparmio hanno dovuto affrontare la sfida: riorganizzandosi, ripensando le proprie strategie industriali e
commerciali, al limite ridefinendo i propri budget
strategici e i correlati livelli di investimento. Il ferro
è ancora troppo caldo per capire chi abbia vinto e
chi sia rimasto al palo, ma già tra qualche mese potremo valutarne gli effetti.
Quella che ad oggi sta sotto i nostri occhi è una
profonda ristrutturazione dell’ambiente industriale
sul lato dell’offerta, sintetizzata dal riposizionamento verso il core business delle società medio-piccole
(con outsourcing di tutte le attività non strettamente
strumentali alla gestione del risparmio) e dalla ricerca di maggiori economie di scala per le società
medio-grandi (attraverso fusioni e acquisizioni).
La seconda innovazione riguarda invece una modifica nella struttura della domanda dei prodotti, cioè
delle esigenze espresse dal pubblico dei risparmiatori: non più (o forse non solo) la richiesta di ritorni
relativi, cioè superiori a uno o più indici di mercato
(benchmark), ma di ritorni assoluti e - perché no? elevati…
Ad alcuni anni di distanza possiamo dire che l’introduzione del benchmark non ha raggiunto gli
obiettivi sperati. L’affiancamento ai prodotti del risparmio gestito di un benchmark era finalizzato a
facilitare il risparmiatore nella scelta del prodotto
con il profilo di rischio più aderente alle sue propensioni e aspettative personali. Nel tempo, tuttavia, il benchmark si è trasformato da «parametro di
rischio» a «parametro di performance». L’obiettivo
dei prodotti di asset management si è quindi trasformato dando vita a un ambiente competitivo tutto rivolto a - come si dice in gergo - «battere il benchNota:
(*) Responsabile Risk Management Aletti Gestielle SGR - Gruppo Banco Popolare di Verona e Novara.
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mark», cioè fornire performance superiori rispetto a
quelle del mercato. La mano della concorrenza ha
fatto il resto, realizzando un generale appiattimento
dei gestori ai benchmark di riferimento e una altrettanto forte divaricazione tra il benessere del produttore e quello del consumatore: gli asset manager sono contenti se battono il benchmark (ad esempio:
realizzando una performance di -10% quando il
mercato perde il 15%....), i risparmiatori sono insoddisfatti perché vedono eroso il loro capitale.
Da qui la seconda e cruciale innovazione, che si sta
svolgendo sul lato della domanda: la richiesta di prodotti non legati a benchmark di mercato che siano in
grado di fornire rendimenti positivi in senso assoluto.
Questa esigenza implica, per le società di gestione
del risparmio, una nuova pressione all’evoluzione
che si affianca alle precedenti spinte normative e tocca - più nel dettaglio - la struttura stessa del loro processo produttivo: il processo di investimento.
I prodotti Total e Absolute return (T&A)
Esistono diverse definizioni di prodotti Total e Absolute Return. In effetti, i due prodotti hanno alcune
caratteristiche comuni:
a) la ricerca di un rendimento positivo;
b) l’assenza di un benchmark di riferimento;
c) un processo di investimento centrato sul controllo del rischio;
d) lo stile di gestione flessibile.
Numerosi, tuttavia, sono però gli elementi di differenziazione. In particolare:
– i prodotti Total return - pur potendo utilizzare un
ampio spettro di prodotti finanziari - sono sottoposti
ad alcuni limiti di investimento;
– di conseguenza, i prodotti Total return sono caratterizzati da un livello di rischio inferiore rispetto ai
prodotti Absolute return;
– i prodotti Total return sono orientati alla costruzione del rendimento attraverso strategie di ritorno
totale (cioè combinando le scommesse in termini di
variazione dei prezzi, dei cambi, dei tassi di interesse ma anche dei rendimenti cedolari o i dividendi);
– i prodotti Absolute return sono maggiormente
orientati a strategie particolari precluse ai prodotti
total return (es. possono vendere allo scoperto prodotti finanziari che non possiedono, oppure possono
utilizzare ampiamente la leva finanziaria, incrementando notevolmente l’esposizione al mercato nei periodi di aumento dei listini).
Queste differenze fanno sì che i prodotti Total Return siano caratterizzati da un grado di rischio inferiore e da uno stile di gestione volto a ottenere rendimenti positivi nel medio-lungo periodo; i prodotti
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Absolute Return sono invece caratterizzati da una
maggiore rischiosità, con obiettivi di rendimento
normalmente annuali (ma più volatili). Dunque:
– diverso universo di investimento;
– diverse strategie finanziarie;
– diverso grado di rischio;
– diverso orizzonte temporale.
Semplificando un pò, è possibile dire che i prodotti
Total Return sono compresi nell’alveo dei tradizionali fondi comuni di investimento (armonizzati e
non), mentre i prodotti Absolute Return sono quelli
proposti dall’industria degli hedge funds.
In ogni caso, i prodotti Total e Absolute (T&A) return tentano in generale di sganciarsi dai movimenti
di mercato e di sfruttare il cosiddetto «alfa», cioè
quella componente del rendimento non legata direttamente alla direzionalità del mercato. Il loro rendimento risulta nel lungo periodo meno rischioso da
quello di un prodotto direzionale (che si confronta
con un benchmark di mercato): in caso di discesa
dei mercato, i prodotti T&A eroderanno in misura
minore (o affatto) il capitale investito mentre potranno sfruttare solo parzialmente le fasi di risalita
dei listini.
Il ruolo del risk management
nei prodotti T&A return
Da quanto detto, si intuisce come il ruolo del risk
management (cioè del processo aziendale di misurazione e gestione dei rischi) diventi - per i prodotti
Total e Absolute return - un elemento cruciale del
processo di investimento. Questo da almeno due
punti di vista.
In primo luogo, l’assenza per tali prodotti di un
benchmark che ne consenta di descrivere e misurare il profilo di rischio, rende «pericoloso» per il risparmiatore il processo di scelta e di investimento.
Come faccio, in assenza di un parametro oggettivo
di rischio, a verificare che il gestore dei miei risparmi non metta a repentaglio la mia solidità finanziaria?
L’esistenza di un processo di risk management robusto, efficiente ed efficace è allora una precondizione importante per la scelta di tali prodotti.
In secondo luogo, la capacità di catturare l’alfa
(dunque la capacità di produrre ritorni assoluti indipendentemente dallo svolgersi dei cicli economici)
richiede una nuova capacità di gestione delle variabili finanziarie. Per questo motivo, la gestione del
rischio diventa una parte fondamentale dello stesso
processo di investimento e non - come troppo spesso accade oggi - una fase successiva con carattere
di mero controllo.
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In sintesi, nell’ambito dei prodotti T&A return, un
efficiente processo di risk management è al tempo
stesso un elemento di scelta per l’investitore e di
business per il produttore. Il risk management, da
parte sua, deve però sapersi fare carico di questo
nuovo ruolo cruciale.
Troppo spesso, infatti, il risk management finanziario ha svolto un ruolo passivo di controllo, per svolgere il quale ha privilegiato modelli e schemi procedurali volti a evitare di sottostimare il rischio.
Come dice Andy Grove, CEO e co-fondatore di Intel, solo i paranoici sopravvivono alla lotta del mercato. Con questo egli intende dire che soltanto chi è
in grado di immaginare gli eventi negativi che potrebbero impattare sul proprio business è mentalmente preparato ad affrontarli, magari anche a prevenirli e sfruttarli a proprio vantaggio.
Questa metafora, se ha ben descritto il ruolo del risk management nelle fasi iniziali della sua storia,
non può trovare applicazione nel nuovo campo dei
ritorni assoluti.
Quando le tecniche e le analisi di risk management
diventano parte integrante del processo di investimento, l’eccesso di pessimismo può condurre ad
una eccessiva limitazione delle scelte attive. Troppo
rischio è un male, certamente, ma un contenimento
eccessivo del rischio non può far altro che deprimere - nel lungo periodo - il ritorno dei propri investimenti.
Il focus del risk management si sposta quindi dalla
paura di sottostimare i rischi di mercato alla paura
di non calcolarli esattamente, sia in difetto che in
eccesso. Dall’underpricing del rischio al mispricing
del rischio.
Se la sottostima implica maggiori perdite probabili,
la sovrastima implica minori rendimenti probabili.
Da qualsiasi parte si guardi al problema, il risultato
è insoddisfacente per il risparmiatore.
Una volta riconosciuto questo, si può trovare spiegazione alla rincorsa teorica, metodologica e organizzativa che sta attraversando i diversi dipartimenti di risk management. Una rincorsa tutta finalizzata
a sviluppare indicatori, modelli e schemi di gestione sempre più sofisticati e realistici, in grado di rappresentare in tutta la loro complessità le dinamiche
del mercato.
Due indicatori per la valutazione del rischio:
VaR ed Expected Shortfall
Un qualsiasi processo di gestione del rischio deve
svolgere con efficienza quattro fasi essenziali:
– determinazione delle corrette posizioni di portafoglio (portfolio data);
– identificazione dei più corretti fattori di rischio
(risk factors) e abbinamento degli stessi alle diverse
posizioni di portafoglio;
– definizione del più corretto modello di stima (risk
model) e valutazione continuativa della sua «tenuta» nel tempo;
– determinazione della distribuzione probabile dei
rendimenti futuri del portafoglio e individuazione
di un suo indice sintetico.
I precedenti quattro passaggi sono schematizzati in
Tavola 1.
Ora, tra gli indicatori di sintesi più utilizzati dai dipartimenti di risk management si cita il VaR e l’Expected Shortfall.
La differenza tra questi due indicatori è - semplificando un po’ - una soltanto: il VaR (value at risk o
valore a rischio) indica un punto della distribuzione
dei rendimenti che, con una certa probabilità e in un
certo orizzonte temporale, non verrà superato; l’Ex-
Tavola 1 – Processo di gestione del rischio
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pected Shortfall invece è una misura che esprime
(in forma media) gli eventi negativi oltre il VaR,
cioè quelli che caratterizzano la coda sinistra della
distribuzione.
Ad esempio, un VaR del 2% con orizzonte temporale di un mese e intervallo di confidenza del 95% indica che - nel corso del mese successivo - l’eventuale perdita che potrà subire il portafoglio non sarà
superiore (dunque sarà inferiore), con il 95% di
probabilità, al 2%. Il VaR ci offre un’indicazione
puntuale ma parziale: non ci fornisce infatti informazioni sugli eventi più estremi che potrebbero caratterizzare il portafoglio. Ad esempio, potrebbe
succedere che, con una probabilità leggermente superiore (es. il 96%), la perdita massima di portafoglio salga al 5%. Questa informazione è assente nel
VaR e presente invece nell’Expected Shortfall:
In presenza di distribuzioni non-normali (che cioè
non possiedono la forma simmetrica dell’immagine
in Tavola 1), ci si aspetta che la coda sinistra della
distribuzione risulti più elevata (si parla in questi
casi di code grasse). Il VaR quindi comporterebbe
una sottostima del rischio. Il processo di gestione di
un prodotto Total o Absolute return ne verrebbe sicuramente penalizzato (attraverso l’assunzione di
una dose eccessiva di rischio non desiderato).
Anche la scelta del modello ha un ruolo rilevante.
Tradizionalmente si distinguono due famiglie di
modelli di risk management: gli approcci a mediavarianza e gli approcci di simulazione. Al di là delle
complessità tecniche e organizzative, le differenze
principali tra i due approcci risiedono nel fatto che,
in un ambiente a media-varianza, è necessario introdurre numerose ipotesi restrittive che comportano - molto spesso - una sovrastima del rischio finanziario. Un approccio «paranoico» che tende a ridurre eccessivamente l’assunzione di rischio dei
prodotti T&A return, con impatti indesiderati sul
rendimento finale.
Tra le ipotesi restrittive (e fonte di mispricing del
rischio) contenute in un approccio media-varianza
si rammentano le seguenti:
a) i rendimenti sono normalmente distribuiti e,
spesso, la distribuzione dei rendimenti ha media
nulla: queste due ipotesi implicano che non si ammetta la possibilità di crash di mercato e che si ipotizzi che - in media - il rendimento di un’attività finanziaria sia pari a zero;
b) la volatilità e le correlazioni sono costanti nel
tempo: questa ipotesi implica che i rapporti tra le
variabili finanziarie non si modificano nel tempo né
in base ai cicli economici;
c) assenza di autocorrelazione: ovvero, si ipotizza
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che i rendimenti di oggi non abbiano alcuna relazione con quelli del passato.
A queste ipotesi stringenti spesso si affiancano altre
limitazioni di tipo tecnico/metodologico (ad esempio, l’approssimazione del valore futuro dei prodotti derivati con metodi semplificati, come l’approccio delta-gamma o l’utilizzo del moltiplicatore «radice quadrata del tempo» per previsioni su periodi
temporali più lunghi).
In sintesi: i prodotti Total e Absolute return richiedono un ruolo attivo e «non-paranoico» del risk management; questo ruolo può essere svolto soltanto rinunciando a modelli semplificati ma rassicuranti e
investendo in conoscenza, organizzazione e tecnologie. Questi investimenti hanno un costo, certo, ma la
concorrenza e la domanda di nuovi prodotti obbligano i gestori professionali del risparmio a sostenerlo.
Sta tutta nella capacità delle analisi del rischio di
produrre maggiori ritorni la risposta alla domanda
principale: come si fa a trasformare un costo in un
investimento redditizio?
Evoluzione dei processi di investimento:
dal CPPI al Risk Budget
Il risk management si inserisce nel processo di investimento di un prodotto Total e Absolute return in
maniera del tutto nuova.
Nel loro processo evolutivo, le prime modellistiche di risk management hanno visto l’applicazione di alcuni schemi della teoria di assicurazione
del portafoglio (i modelli di tipo CPPI: Constant
Proportion Portfolio Insurance). In base a tali
modelli, è possibile garantire un certo rendimento
a scadenza ribilanciando il portafoglio tra attività
rischiose e non rischiose in base alla probabilità
di raggiungimento o meno dell’obiettivo. Tuttavia, in presenza di bassi tassi di interesse (il secondo spettro che si aggira per l’Europa…), questi modelli sono in grado di offrire un ritorno assoluto molto contenuto e commercialmente poco
attraente.
L’evoluzione del modello CPPI è conosciuta come
approccio del Core-Satellite: in sostanza, l’investimento in attività priva di rischio è sostituito con un
investimento che replica un certo indice di mercato
(ad esempio: un ETF obbligazionario). In questo
modo, il Core del portafoglio conferisce un rendimento minimo superiore al puro tasso risk-free,
mentre l’investimento «satellite» ha l’obiettivo di
apportare alfa aggiuntivo.
Anche questi modelli, tuttavia, possono impedire lo
sfruttamento tempestivo delle opportunità di mercato. Per risolvere questa «rigidità» di processo, la lo-
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ro evoluzione vede il ricorso a un concetto tipico
della gestione aziendale: il budget.
I modelli di risk budget sono modelli di tipo CoreSatellite privi di automatismi, ma che riprendono il
loro contenuto incentivante. Nella pratica, viene attribuito a ciascun prodotto (ovvero, in altri casi, anche a ciascuna asset class in cui il prodotto investe)
un certo budget di rischio; tale budget viene incrementato dalle performance effettivamente realizzate
(se positive), oppure decrementato dalle performance negative. In questo modo, si introduce un meccanismo di efficienza, nel senso che i prodotti e/o le
asset class «vincenti» portano a un incremento delle
possibilità di rischiare, mentre le asset class incapaci di raggiungere l’obiettivo vengono penalizzate e
al limite liquidate.
Solo recentemente ci si è accorti che gli investitori
vogliono qualcosa di più che la semplice protezione
dalla povertà: gli investitori vogliono diventare ricchi. È per questo motivo che affidano i loro risparmi a gestori professionali, cioè a individui strutturalmente portati a sfruttare le occasioni di mercato
per produrre una consistente ricchezza finanziaria.
È dunque necessario saper individuare il più precisamente possibile la loro «paura di perdere», cioè il
loro profilo di rischio. Saper fare questo non è facile, perché il rischio non è un ente immutabile, ma si
modifica continuamente.
Sta tutta qui in fondo la difficoltà del risk management: il rischio non ha un valore in sé. Ciò che conta non è il suo livello assoluto, ma la percezione che
gli individui ne hanno (la cosiddetta risk
perception).
Il «bisogno» di ricchezza
Tradizionalmente si ritiene che la distribuzione di un
investimento si disponga sulla base della seguente
struttura piramidale: il risparmiatore acquista principalmente obbligazioni per proteggersi dalla povertà,
fondi azionari per una ricchezza moderata e poi fa
scommesse, attraverso singole azioni (o biglietti della lotteria….) per ottenere una ricchezza più elevata.
La Tavola 2 sintetizza questa distribuzione:
Rischio e percezione del rischio:
il maximum drawdown
Il VaR e l’Expected Shortfall di cui si è discusso
non catturano compiutamente questa complessità di
percezione. Si consideri questa semplice situazione:
un portafoglio, che ha sempre avuto performance
vicine allo zero, perde in un mese il 2%; un secondo portafoglio, che il mese scorso stava guadagnan-
Tavola 2 – Distribuzione di un investimento
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do il 20%, termina questo mese con una performance positiva ma pari all’1%. Quale dei due investitori
sarebbe il più scontento?
In questo caso, a ben vedere, non importa tanto (e
soltanto) la perdita effettiva ma anche quella potenziale: un portafoglio che stava guadagnando il 20%
e termina il periodo con una performance dell’1%
implica che il gestore ha eroso un ritorno potenziale
del 19%! Ha protetto dalla povertà, certo, ma non
ha prodotto vera ricchezza.
Con questa percezione del rischio fa i conti un indicatore importante che prende il nome in letteratura
di maximum drawdown. Nella sostanza, ciò che viene misurata è la distanza (in un certo orizzonte temporale) tra la massima performance potenziale che
il portafoglio stava realizzando e la performance finale di periodo.
In formule, detto r(w) il rendimento di portafoglio e
[0,t] un certo orizzonte temporale, il maximum
drawdown è pari a:
Il maximum drawdown dipinge il mondo della percezione del rischio in un modo assolutamente più
realistico: se è vero che gli investitori vogliono diventare ricchi e non solo sopravvivere, deve essere
vero che anche una rinuncia a performance elevate
(e non solo una erosione del capitale) provochi un
danno all’idea che essi hanno del loro benessere.
Nelle analisi del rischio, in particolare per prodotti
Total e Absolute return, quindi, i concetti tradizionali di VaR ed Expected Shortfall vengono sostituiti
con quelli di DaR (Drawdown at Risk) o di CDaR
(Conditional Drawdown at Risk, concetto analogo
all’Expected Shortfall): in entrambi i casi, la massima perdita che si intende stimare e che costituisce
un vincolo al processo di investimento non è più la
perdita assoluta ma l’underperformance rispetto a
un precedente obiettivo di massimo, il maximum
drawdown appunto.
Nella Tavola 3, il VaR misura la distanza tra il valore iniziale del portafoglio e la perdita rispetto a tale
valore (linea continua), mentre il Maximum Drawdown (MD) misura la distanza tra la ricchezza massima potenziale del periodo e quella finale (linea
tratteggiata):
Conclusioni
Nell’ambito dei prodotti del risparmio gestito la
nuova richiesta di rendimenti assoluti conduce a
profonde innovazioni sia sul lato dell’offerta che su
quello della domanda.
Riguardo al primo aspetto, l’industria dell’asset management deve saper affrontare un radicale cambio
di mentalità: l’idea che i risparmiatori non si accontentano più di prodotti in grado di proteggerli dalla
povertà ma vogliono ricchezza; l’idea che la visione
«paranoica» del rischio non regge più, ma è necessario un nuovo approccio attivo del risk management come elemento cruciale del processo di investimento; e infine l’idea che si debba investire in
gestione del rischio, in conoscenza e in tecnologie,
in professionalità e in ricerca.
Quanto alla domanda, a nuove esigenze corrispondono nuovi comportamenti: non è più possibile scegliere genericamente il gestore che appare qualitativamente «più bravo» nello svolgere il suo lavoro. È
necessario scegliere in base alla qualità del loro
processo di gestione dei rischi.
Tavola 3 – VaR e Maximum Drawdown
104,5
103
100
101
105
105,2
106
104,6
102
99
95
48
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Lo spettro del ritorno assoluto modifica così il nostro stesso processo di scelta. Per essere ricchi dobbiamo accettare più rischio. Ma accettare un rischio non controllato potrebbe renderci più poveri.
Da qui la necessità di affidare i nostri risparmi al
gestore con la migliore capacità di gestire il rischio, non solo di formulare le migliori strategie finanziarie.
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