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Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza
Centro STudi e Documentazione
DIARIO DI BORDO
(LO STATO DELLA SICUREZZA IN PUGLIA)
1° SEMESTRE 2008
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DIARIO DI BORDO (Lo stato della sicurezza in Puglia)
a cura di Nisio Palmieri
Associazione “Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza – Centro Studi e Documentazione”
Hanno collaborato alla stesura del rapporto : Giuseppe Brunaccini e Pasquale Davide de Palma
Giugno 2008
3
SOMMARIO
Premessa
Pag.
7
Rapporto Censis - Eurispes
“
11
REGIONE
“
12
Ministero dell’Interno – Rapporto sulla criminalità – Giugno 2007
“
13
Dati del Ministero dell’Interno elaborati da ‘Il Sole 24Ore’
“
14
Rapporto delle N. U. sulla criminalità ad est dell’Adriatico
“
18
Commissione Parlamentare Antimafia
“
19
Direzione Investigativa Antimafia
“
19
Ufficio Italiano Cambi
“
21
Una legittima domanda sull’erogazione dei fondi comunitari
“
21
Pag
.
22
Contraffazione
“
22
Attività agricole
“
24
Impianti eolici
“
25
Ambiente-Rifiuti
“
27
Traffico di esseri umani
“
60
Estorsioni - Usura
“
65
Furti
“
71
Traffici internazionali
“
72
Pubbliche Amministrazioni
“
74
Altri campi d’intervento
“
75
Riciclaggio dei proventi
“
76
Direzione Nazionale Antimafia
“
80
Commissione Affari Costituzionale del Parlamento
“
81
Pag.
83
Rapporto sulla criminalità del Ministero dell’Interno – Giugno 2007
“
83
Furti – Rapine
“
84
Contraffazioni
“
90
Il verdetto con gazzarra per il delitto Marchitelli
“
91
I SETTORI CHE REGISTRANO GLI INTERESSI DELLA CRIMINALITA’
Cemento
BARI
Premessa
4
Giustiziato nel 2000, nel 2008 il verdetto
Pag.
92
Un quartiere difficile: San Pio anzi Enziteto
“
92
Droga
“
100
Il racket
“
109
Attentati
“
114
Il clan Capriati
“
116
La spavalderia
“
118
L’usura, affari e truffe
“
119
Aggressione mafiosa
“
125
Scommesse clandestine
“
126
La banda della <<Cayenne>>
“
127
Il boss Di Cosola e il racket dei funerali
“
128
La tratta delle schiave
“
130
La santa alleanza
“
133
I clan ricorrono al mutuo
“
137
Il rapporto Dia sul riciclaggio dei proventi
“
137
Il vertice in Prefettura sulla sicurezza
“
138
Pag.
140
Rapporto delle Questura – 17 maggio 2008
“
141
Il racket
“
141
Usura e truffe
“
155
Il furto e la vendetta
“
157
La droga e le armi
“
158
Stridore di armi
“
164
Aggressione misteriosa
“
166
Delitti della Scu in Olanda
“
166
Il boss della droga: Giuseppe Lezzi
“
167
La banda della ‘166’
“
167
La fabbrica dei falsari
“
168
Rapina a mano armata
“
170
Il blitz ‘Arpia’ contro i clan mafiosi
“
170
Processo ai delitti di mafia
“
171
Un delitto annunciato?
“
172
LECCE
Rapporto Dia – luglio/dicembre 2007
BRINDISI
.
5
Rapporto Dia – luglio-dicembre 2007
Pag.
174
La Scu fa sentire ancora la sua presenza
“
174
Condannato “La belva”
“
182
Scu e politica
“
183
Attentati
“
184
Delitti di mafia, parla “Bullone”
“
189
Acque poco chiare
“
193
Pag.
195
Gioco d’azzardo
“
196
Droga e armi
“
197
La gang del riclaggio
“
207
I delitti di mafia
“
207
Il racket del ‘caro estinto’ e un misterioso progetto d’attentato
“
217
Pag.
220
La fabbrica dell’olio sofisticato
“
221
Le rapine della <<Società>>
“
223
La vendetta
“
224
Le rapine alle banche, gioiellerie, gli assalti ai furgoni blindati e un assoluzione per
vizio formale
“
225
La sentenza d’appello sulla ‘mafia garganica’ e una giustizia che non fa il suo corso
“
230
Attentati
“
234
Due feroci assassini
“
237
La sentenza del processo <<Domus>>
“
238
Pag.
240
Gioco d’azzardo
“
240
Truffe
“
240
Troppi attentati, le estorsioni?
“
241
Si torna a sparare
“
249
L’usura
“
258
Maxi-processo antimafia
“
263
Droga e sangue
“
265
Vecchi omicidi di mafia
“
266
FOGGIA
Rapporto della Questura – 16 maggio 2008
Reati in agricoltura
Furti di bestiame – Blitz limuosine
TARANTO
Il Rapporto della Dia – luglio/dicembre 2007
6
Appendice al processo antimafia <<Cruise>>
Pg.
267
Armi e munizioni
“
268
Furti di mezzi agricoli
“
268
Pag.
271
Anno giudiziario 2006
“
271
Anno giudiziario 2007
“
273
Anno giudiziario 2008
“
275
APPENDICE
Inaugurazioni anni giudiziari
7
PREMESSA
Nel riprendere l’attività, per la verità mai interrotta, di Osservatorio per la legalità (ex
Fondazione Cesar) in una nuova veste associativa, abbiamo pensato di redigere
questo Diario di Bordo, in cui raccontiamo i fatti che stabiliscono lo Stato della
Sicurezza in Puglia. Ed è un vero e proprio diario di una parte consistente del nostro
lavoro che raccoglie quotidianamente i fatti di cronaca che disegnano la presenza
criminale, la sua consistenza, i crimini commessi, i vari campi in cui si registra la sua
instancabile attività, insomma tutto quello che inquina il vivere civile della nostra
terra.
L’abbiamo fatto, certo, per segnare una vitalità che, in tanti, ci hanno chiesto di
confermare, ma anche perché, una volta deciso di non abbandonare la postazione, non
volevamo, e forse non potevamo, sottrarci alla corale discussione che sull’argomento
vede impegnato l’intero Paese. Il non facile contesto ha costretto le più illustri
intelligenze degli operatori anticrimine, dei sociologi, psicologi, criminologi,
opinionisti ad impegnarsi nell’offrirci una lettura più chiara della realtà. Ma accanto a
questi si è sbizzarita la più vasta comunità dei tuttologi inventando aforismi, parole
d’ordine, e sofismi non sempre trasparenti, tuttavia intriganti e affascinanti perché dal
sapore esotico. Si pensi alla lunga e, spesso, stucchevole diatriba sulla insicurezza
percepita e quella reale. Per non parlare di chi si basa, e lo racconta, sui sentimenti se
non addirittura sulle sensazioni e, in ogni caso, non nel buon senso, trascurando il
fatto che i sentimenti, per loro natura, sono transitori.
Noi, da parte nostra, ci impegniamo e promettiamo di non cavalcare la confusione;
racconteremo solo fatti, così come si presentano alla cronaca quotidiana nella regione
e poi, più precipuamente, nelle singole cinque province, non eludendo, quando il caso
lo merita e, ancor più, là dove è necessario, di esprimere sommessamente il nostro
giudizio.
Avevamo due strade da seguire: un’elencazione asciutta delle tipologie e numeri dei
reati commessi nel nostro territorio in uno spazio di tempo ben determinato (1°
semestre 2008) ovvero, sempre riferendoci al periodo preso in considerazione,
soffermarci sui fenomeni più eclatanti e significativi raccontandoli così come si
presentavano. Abbiamo scelto quest’ultima non mancando, in qualche caso e là dove
valutavamo necessario, di soffermarci sugli antefatti.
Il panorama che ne viene fuori, lo diciamo subito, non è certo paragonabile a quello
dei territori occupati da una criminalità ormai storicamente radicata, ma non è
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neanche confortante. Anzi. Tanto che pensiamo, se ne avremo la forza, di rendere
periodica questa fotografia della realtà criminale pugliese.
Allarmante è l’insediamento criminale nel settore dello smaltimento dei rifiuti, con
particolare voracità a Foggia e Bari, (e non poteva che essere così visto l’alto
fatturato realizzato) o l’attenzione prestata sempre dalla grande criminalità alla
costruzione dei Parchi eolici. Su tutti Torre Santa Susanna, dove boss della Scu
avevano operato per proporre la propria candidatura imprenditoriale. Per fortuna
l’efficienza davvero esemplare delle Forze dell’ordine ed una magistratura della Dda
di primo piano hanno sventato il colpo. Qui sarà interessante seguire l’evoluzione
delle indagini, per capire se e in che misura la politica presta la sua opera per rendere
agevole il sentiero operativo dei boss. Non solo qui, naturalmente; stesso discorso
vale per lo smaltimento dei rifiuti ad Altamura, dove dobbiamo attendere i risultati
cui perverrà la Dda di Bari avendone finalmente assunto le indagini.
E’ possibile, diremmo naturale, che molti degli allarmi che denunciamo siano anche
il risultato di personale empiricità, ma non possiamo non fare cenno anche alla
ricchezza del mercato delle droghe che caratterizza Bari, dove la situazione, a nostro
avviso, è drammatica. Dobbiamo al coraggio dei giornalisti di alcune prestigiose
testate locali la conoscenza dettagliata del mercato, dei prezzi praticati, della
frequentazione che ormai si allarga anche a fasce di età adolescenziali, delle svariate
postazioni dello smercio. C’è da far raggelare il sangue. Eppure solerte e continua è
l’opera di repressione da parte degli investigatori e inquirenti. Tenuto conto poi che
nel far cenno agli adolescenti baresi, abbiamo trovato immutato l’impegno della
criminalità barese a reclutare nelle proprie fila, giovanissimi, ragazzi, come sua
caratteristica esclusiva.
Altro dato allarmante è la ripresa, a Taranto, pare in grande stile, della conflittualità
sanguinosa tra vari clan. Troppi scontri a fuoco in pochi mesi. Lo scenario negativo
tarantino evidenzia numerosi attentati, parte ad opera di teppisti; ma non pochi hanno
chiari fini estorsivi.
Questa sintesi di presentazione non deve ingannare, perché tutto quello che troverete
non è consolante: racconta di una criminalità non doma, sempre alla ricerca di fonti di
guadagno: in alcuni casi pare abbia scoperto anche la finanza, il credito. Insomma
non c’è da star tranquilli.
Ci sia permessa una nota di costume (si fa per dire). Con tutto ciò che si verifica,
sembra perlomeno singolare la corsa affannosa alla ricerca di codici garantisti, che
certo non garantiscono impunità a tutti, ma solo a quelli che possiedono un certo
livello di censo. Un pò come ai tempi del Re Sole. Anzi no: a quei tempi il Re,
esercitando la sua autorità in modo arbitrario, poteva, almeno ogni tanto, far punire
anche qualche nobile. Oggi qui in Italia, non c’è più nemmeno questa possibilità
C’è un’ultima cosa che vogliamo annotare. Il diario è avaro dei furti in appartamenti,
in esercizi commerciali, nelle banche e farmacie, degli scippi, dei borseggi che pure
sono accadimenti quasi quotidiani che allarmano i cittadini e che pesano poi nella
valutazione di ogni singolo componente della comunità, specie se colpito
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direttamente, del clima di sicurezza e di vivibilità del suo quartiere, della sua città.
Quindi accadimenti importanti. L’abbiamo evitato perché avrebbe comportato
un’elencazione lunga e noiosa di episodi che purtroppo si ripetono con identica
tecnica e temerarietà. Del resto le fonti a cui ci siamo richiamati, in particolare quelli
del Ministero dell’Interno, delle locali forze dell’ordine e della stessa Magistratura,
con le relazioni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, danno precisa contezza dei
sinistri avvenimenti, con comparazioni tra anni differenti. Il lettore, in tal modo,
potrà sentirsi soddisfatto di essere stato informato in maniera completa.
A proposito di elencazione lunga e noiosa, dobbiamo confessare che ci siamo lasciati
prendere la mano in un sol caso: la scoperta dell’arsenale della criminalità a
Cerignola. Qui siamo stati puntigliosi ma con uno scopo ben preciso: volevamo che,
per chi si avventura nella lettura del diario, avesse chiara la forza, la determinazione,
la sete di sangue che anima la nostra criminalità. L’arsenale di Cerignola ha
rappresentato un simbolo, purtroppo non è l’unico, qualsiasi arsenale fosse scoperto
in qualsiasi parte del territorio interessato dal presidio della criminalità organizzata
offrirerebbe un identico, se non più ricco, elenco di armi micidiali.
Vi è un altro aspetto che abbiamo volutamente tralasciato: i numerosi episodi di
bullismo che infestano ormai tuto il Paese e che, per questo, non hanno una loro
caratterizzazione regionale e tanto meno locale. Secondo una nostra, forse
presuntuosa, valutazione, l’argomento ha bisogno di un suo precipuo spazio, dove più
che agli episodi bisogna dare spazio alle idee, alle proposte dei numerosi operatori
della scuola, delle forze dell’ordine, della magistratura minorile e del sistema
carcerario che in tanti anni di lavoro hanno messo a fuoco il problema e suggerito
interventi, purtroppo inascoltati. Per questo c’è bisogno di chi, potendo operare, sia
disposto ad apprendere. C’è chi è armato di tanta modestia da lasciare il suo scettro e
sedersi dietro un banco per ascoltare la lezione? Permettetici di dubitarne..
Vogliamo informarvi che questo Rapporto è redatto sulla base di documenti ufficiali:
il Rapporto delle Nazioni Unite sulla criminalità ad est dell’Adriatico, i Rapporti
della Direzione Nazionale Antimafia, della Direzione Investigativa Antimafia, del
Ministero dell’Interno, della Commissione Parlamentare Antimafia, le Relazioni per
l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei Presidenti delle Corti d’Appello, in
particolare, ma anche altre fonti tutte attendibili, nonché cronache di stampa.
Naturalmente abbiamo saccheggiato i quotidiani locali: le varie edizioni de La
Gazzetta del Mezzogiorno, la Repubblica-Bari, Il Corriere del Mezzogiorno, le due
edizioni di Lecce e Brindisi del Nuovo Quotidiano di Puglia, Il Corriere del Giorno, a
cui vanno aggiunti: BariSera, Il Bari, Puglia e Quotidiano di Bari.
E’ doveroso avvertire che per alcuni particolari aspetti, dove si è esercitato il vero
giornalismo d’inchiesta, non abbiamo osato intervenire, si è preferito riprodurre i
pezzi, quasi integralmente, così come apparsi sui rispettivi fogli. Esempio, fra tutti, il
lavoro di Carmela Formicola su La Gazzetta del Mezzogiorno e di Vincenzo
Damiani sul Corriere del Mezzogiorno, che descrivono crudemente le condizioni di
un quartiere di Bari come San Pio. Là dove abbiamo riportato le conclusioni
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processuali di particolari efferati episodi, ci siamo intrattenuti, forse a lungo, sugli
antefatti, perché ci è sembrato opportuno che il lettore potesse avere miglior
cognizione del contesto. Anche qui ricorriamo ad un esempio: le conclusioni del
processo al clan della Scu capeggiato da Di Emidio. La cronaca secca sul verdetto
non avrebbe descritto a sufficienza la figura del boss diventato, nel frattempo,
collaboratore di giustizia. Ci siamo perciò soffermati sulla carriera malavitosa del Di
Emidio, autore di ben 22 omicidi.
Ai reati ambientali abbiamo dedicato un capitolo corposo, ritenendo che la difesa
della sicurezza che immaginiamo ha un largo raggio di azione, che non può escludere
la difesa della salute dei cittadini, messa molto spesso a repentaglio, purtroppo, da
uomini senza scrupoli, che, pur di raggiungere significativi vantaggi economici,
cavalcano anche la tigre dell’inquinamento ambientale, distruggendo risorse umane
fino ad oggi incontaminate. In proposito ci siamo particolarmente intrattenuti sul caso
Tradeco di Altamura perché pregno di risvolti che ci riportano alle indagini della
Direzione distrettuale antimafia sugli affari: criminalità organizzata-imprese-politica.
E’accaduto anche di esserci indugiati su singoli ed apparentemente secondari episodi
relativi a boss riconosciuti dalla comunità in cui operano; l’abbiamo fatto non certo
per offrire una nota di colore, ma perché gli atteggiamenti descritti davano l’esatta
misura di come quel territorio è sottoposto al controllo ferreo del clan imperante e
come quel controllo viene esercitato.
Tutto questo riferiamo perché si giustifichi la prolissità e si comprenda, con
generosità, l’intento di chi si è misurato nel fotografare la situazione criminale della
nostra regione.
Alla fine dell’elaborato abbiamo incluso, come appendice, spunti significativi delle
Relazioni per l’inaugurazione degli anni giudiziari, 2006, 2007 e 2008, per favorire
una visione più precisa negli andamenti degli eventi criminosi in un arco di tempo
sufficiente per trarne eventuali considerazioni e valutazioni.
Nisio Palmieri
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RAPPORTI CENSIS E EURISPES
Il Rapporto Censis 2007 sul Mezzogiorno, che mette in luce la grande piaga
dell’intero contesto sociale meridionale, sottolinea il dilagare in Puglia della
criminalità organizzata: i “segni” delle cosche sono stati evidenziati in 97 comuni.
Il Censis ha calcolato il fenomeno nel Sud sulla base di tre variabili:
1. comuni con presenza di clan legati alla criminalità organizzata;
2. comuni con presenza di beni confiscati ai mafiosi;
3. comuni interessati, negli ultimi tre anni, dallo scioglimento dei consigli
municipali per infiltrazioni mafiose.
In verità, nella nostra regione ed in alcune aree del Mezzogiorno, il potere criminale
impatta direttamente sull’economia dell’intero territorio. Un impatto terribile
soprattutto su quelle imprese sane che creano sviluppo e occupazione. Ed è così che
si alterano i meccanismi di scambio di merci e servizi e si tolgono alle imprese legali
importanti risorse che potrebbero essere utilizzate per nuovi investimenti produttivi.
Una dinamica economica perversa che trova spazio nelle imprese prestanome,
utilizzate semplicemente per riciclare denaro sporco.
Gli economisti considerano la criminalità organizzata un cancro, una zavorra, un
triste peso, un limite oggettivo ben chiaro. Una nemica mortale della nostra terra,
perché chiude ogni speranza. Schiavizza ogni rapporto, viola ogni convivenza,
distrugge il nostro territorio. E’ di certo il giogo più pesante e grave che abbiamo sul
nostro futuro. Allora più è chiara questa consapevolezza, più chiara sarà la nostra
denuncia contro di essa. Denunciare, quindi, è il modo più efficace contro la
criminalità organizzata, senza più deleghe esclusive alle forze dell’ordine e alla
magistratura spesso indebolite perché lasciate sole.
L’Eurispes, da parte sua, nel Dossier “’Ndrangheta 2008”, segnala le province più
permeabili ai tentacoli della criminalità organizzata secondo l’Indice di Penetrazione
Mafiosa (IPM) assegnando a Napoli la maglia nera con un punteggio pari a 68,9, Bari
si colloca al quinto posto con 32,2. Le altre province pugliesi: al nono posto Lecce
con 27,9; decimo Brindisi con 26,0; dodicesimo Taranto con 24,9 e al
quattordicesimo posto si colloca Foggia con 21,9.
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REGIONE
La presenza pervasiva della criminalità organizzata in Puglia è, dunque, pari al 37,6
per cento dei comuni pugliesi. Una percentuale alta che vede questa regione al
secondo posto subito dopo la Sicilia col 50 per cento. Anche la percentuale di
territorio regionale ‘coinvolto’ è allarmante: la Puglia con poco meno del 60 per
cento è a un passo dalla Sicilia che detiene il primato con il 63,2 per cento. Invece per
quanto riguarda la percentuale di popolazione che risiede in comuni dove si è
manifestato il fenomeno mafioso, la Puglia è terza con il 72,5 per cento (la Sicilia
l’82 per cento e la Campania l’81,3 per cento).
Insomma complessivamente nelle quattro regioni a rischio – Sicilia, Campania,
Calabria e Puglia – i comuni marchiati dalla criminalità organizzata sono
complessivamente 610 e nella classifica, redatta dal Censis (su dati ufficiali del
Ministero dell’Interno), la Puglia non sembra essere tanto diversa dalle altre. le
percentuali dimostrano come gli insediamenti di cosche mafiose prendono piede
anche nel nostro territorio e le azioni di contrasto diventano sempre più complesse e
complicate.
E’ pur vero che la criminalità organizzata altrove ha una sua configurazione ben
delineata come può essere in Sicilia la mafia (cosa nostra) o in Campania (la
camorra) oppure in Calabria (la n’drangheta), ma è altrettanto vero che la Puglia si
allinea a queste regioni con una criminalità tradizionale che, pur non avendo una
caratteristica ben precisa, ha pur sempre pesanti ramificazioni. E poca importa se in
Puglia tale fenomeno si chiama ‘sacra corona unita’, ‘società’ o in altro modo.
Intanto gli agenti di polizia, i carabinieri, tutte le forze dell’ordine non si stanno
risparmiando nel cercare di assicurare la sicurezza dei cittadini, ma questa ancora non
basta. E’ necessaria una manovra coordinata che sia all’altezza del rigurgito criminale
con il quale la Puglia (e non solo) sta convivendo.
Quello che ci preme ora sottolineare è l’apparente sottovalutazione di questo
fenomeno che riscontriamo nelle ricorrenti dichiarazioni di alcuni amministratori e
politici, preoccupati a rassicurare le nostre popolazioni sul reale pericolo criminale di
cui, in buona sostanza, ci saremmo infine liberati.
Intanto è bene riportare il quadro che della situazione criminale pugliese fa il
Ministero dell’Interno nel suo Rapporto del giugno 2007.
13
MINISTERO DELL’INTERNO - RAPPORTO SULLA CRIMINALITA’GIUGNO 2007
<<Il quadro della criminalità organizzata in Puglia appare così delineato:
•
il barese risulta caratterizzato dall’accennata frammentazione dei gruppi
criminali, dalla mancanza di un vertice comune ed aggregante e
dall’insorgenza di tensioni e scontri;
•
nel brindisino la capacità operativa dei gruppi delinquenziali è efficacemente
indebolita dall’azione di contrasto delle Forze di polizia e dalle collaborazioni
alla giustizia di numerosi affiliati. Sono ancora presenti accoliti dei clan dei
mesagnesi;
•
nel foggiano la situazione generale risulta destare minore allarme rispetto al
recente passato, ma caratterizzata dalla presenza di una criminalità organizzata
di tipo strutturato seppure in assenza di capi carismatici;
•
nel leccese è presente una criminalità più strutturata rispetto a quella delle
altre province, ma anche di ridotta competitività in ragione dell’attività di
contrasto delle Forze di polizia. Si registra una maggiore flessibilità delle
organizzazioni autoctone con l’apertura verso nuovi settori dell’illecito ed una
sorta di “spaccatura generazionale” tra “vecchi” e “nuovi” affiliati
all’organizzazione;
•
nel tarantino lo scenario criminale appare disorganico e frammentario, tanto
da consentire l’operatività di piccoli gruppi con ristrette aree di influenza.
Tra le illecite attività perseguite dai clan pugliesi, il traffico di sostanze stupefacenti
rappresenta quella più remunerativa e diffusa sul territorio. Gli ingenti quantitativi di
droga che attraversano la regione fanno di questa area un crocevia fondamentale per
l’approvvigionamento di altre regioni italiane ed estere, ove operano le altre mafie
storicamente radicate, capaci di stipulare accordi sia con le organizzazioni criminali
pugliesi, sia direttamente con i trafficanti di altra etnia, soprattutto albanesi.
Infatti, il rifornimento della droga avviene prevalentemente tramite le organizzazioni
albanesi che, forti di una notevole flessibilità sul mercato internazionale,
rappresentano il terminale della via dell’eroina proveniente dal Medio Oriente. Gli
stupefacenti sono approvvigionati attraverso le normali rotte commerciali, seguendo
le consolidate rotte “adriatica” e “balcanica”.
Il contrabbando di t.l.e. registra una evidente flessione, pur essendo considerato una
delle tradizionali attività delle organizzazioni criminali pugliesi. La regione rimane
interessata dal transito di carichi di sigarette introdotti nel territorio nazionale con
modalità intraispettive.
14
Il racket delle estorsioni, considerato funzionale al controllo del territorio, è esercitato
sotto varie forme e si manifesta attraverso attentati, soprattutto nel provincia di
Foggia e, in misura minore, nella provincia di Bari. Accanto alle attività illecite
tradizionali connesse al controllo del territorio, emerge il frequente ricorso alla
perpetrazione di truffe, finalizzate anche all’indebita concessione di erogazioni
pubbliche, alla commissione di atti intimidatori nonché l’interesse per il settore del
gioco d’azzardo e del videopoker.
Si segnala altresì un trend in crescita per il fenomeno dell’usura, reato gestito
prevalentemente da esponenti della locale criminalità organizzata.
Nel contesto delle presenze criminali di matrice straniera, vanno assumendo un ruolo
importante gli albanesi. Questi sono progressivamente penetrati nel tessuto sociale
pugliese e, forti di collegamenti con gruppi criminali in madrepatria, si presentano
come intermediari affidabili per svariate attività illegali, risultando particolarmente
idonei a compiti di controllo delle fasi più pericolose della commissione dei reati
(spaccio di droga, lenocinio, intermediazione ed altro). Gli albanesi, tra l’altro,
gestiscono anche il caporalato, fenomeno notevolmente presente in Puglia, soprattutto
nel provincia foggiana, nel nord barese e nel brindisino; in tale settore emerge il
coinvolgimento di elementi di altre criminalità straniere, quali polacchi e rumeni.
La criminalità pugliese, inoltre, si pone strumentalmente al “servizio” delle attività
illecite perpetrate da altre consorterie malavitose che utilizzano le coste adriatiche. In
tale contesto, tende a favorire forme di ampia collaborazione con numerosi altri
gruppi criminali transnazionali, tra cui gli slavi, i greci, i russi ed i cinesi. Con tale
ultima etnia, in particolare, oltre alle cooperazioni mirate allo sfruttamento dei flussi
migratori, si aggiungono quelle per il traffico di droga e per l’utilizzo della
manodopera illegale di propri connazionali clandestini sul territorio nazionale.
Proiezioni nazionali ed internazionali – I gruppi criminali pugliesi indirizzano i
propri interessi anche in contesti extraregionali.
<<Anche in ambito internazionale essi possono contare su agili strutture logistiche,
finalizzate al traffico di droga, presenti sia nel territorio europeo (in particolare in
Germania, Olanda e Spagna) che in America latina>>.
I DATI DEL MINISTERO DELL’INTERNO ELABORATI DA “IL SOLE 24
ORE”
Qualche indicazione concreta sulla situazione e sui trend più recenti può venire dai
dati forniti dal Ministero dell’Interno – ed elaborati dal Sole 24 Ore del 2 giugno
2008 – che parlano di un bilancio 2007 di 2,9 milioni di reati denunciati. circa
143mila in più rispetto al 2006 (+5,15%), quasi 8mila al giorno o 333 ogni ora. In
Puglia si registra una percentuale di aumento quasi doppia di quella nazionale, con il
9,54%, più di 432 reati al giorno.
Rapportando il dato nazionale ai 59,2 milioni di italiani, si otiene una media di 4.900
delitti ogni cenmtomila abitanti: su ogni cento abitanti graverebbero insomma 4,9
crimini (appena un paio di decimi in più rispetto al 2006). Se quindi, considerando
15
l’attività criminale in generale, il quadro non si presenta molto movimentato, luci e
ombre emergono da un’analisi più dettagliata, scendendo cioè nelle principali
tipologie e nelle performance territoriali.
Più delitti ma anche più denunciati e arrestati. Il bilancio 2007 dell’andamento
criminale e dell’attività di contrasto da parte delle forze dell’ordine conferma un
peggioramento dei fenomeni anche sul versante delle persone oggetto di denuncia e
di arresto.A fronte dei quasi tre milioni di reati denunciati, i dati forniti dal Ministero
ed elaborati dal quotidiano della Confindustria evidenziano un aumento di quasi il
9% dei soggetti denunciati: complessivamente quasi 700mila (contro i 641mila del
2006). Più significativo l’incremento degli arresti, passati da 140mila del 2006 a
quasi 156mila, ossia l’11,4% in più. In meno del 4% dei casi il soggetto denunciato
era un minore: 23.701 gli under 18 coinvolti, un dato comunque in crescita rispetto al
2006 (+2,46%). E un ordine di arresto eseguito per 5.631 giovani (il 2,5% in meno
però rispetto all’anno precedente).
Com’era prevedibile sono le grandi province a evidenziare i numeri assoluti più
elevati: già limitandoci a sommare i soggetti denunciati a Milano (44mila circa),
Roma e Napoli (rispettivamente 34mila e 33mila) si raggiunge quota 110 mila;
aggiungendo altre aree metropolitane (Torino, Firenze, Brescia, Bologna, Bari e
Genova) si arriva quasi a 210mila, come si vede una consistente parte del totale.
Ma l’incidenza del fenomeno (calcolata rapportando il numero assoluto alla
popolazione della provincia) ci presenta un’altra fotografia. In questa classifica sono i
centri di piccole dimensioni ad essere più vulnerabili: Imperia, per esempio, ha oltre
3.700 persone denunciate ogni 100mila abitanti; Vibo Valentia, Rimini e Isernia
superano quasi 1.900. A stare meglio sono le province del Sud, quali Lecce, Cagliari,
Enna, Messina e Catania (dove non arriva a 800 l’incidenza dei denunciati).
I minori: il primato numerico di denunciati spetta sempre alle grandi province
(Milano, Torino, Roma e Napoli superano tutte quota mille), mentre per il tasso ogni
100mila abitanti spiccano tre province del Nord-Est, e cioè Gorizia, Bolzano
(entrambe oltre quota cento) e Trieste.
Si scopre che c’è un reato assai diffuso, quello dei furti d’auto, che presenta
addirittura un calo rispetto al 2006 (-5,35%), mentre quello dei furti in abitazione, è
salito di quasi un quinto. Collocandosi entrambi intorno a quota 170mila, si può
calcolare che ogni ora, in Italia, vengono prese di mira una ventina di auto e un
numero analogo di abitazioni.
16
LA MAPPA DEI RISCHI
Provincia
Posizione
Numero
Ogni 100mila
abit.
Var.% 06/07
Milano
1°
306.427
7.888,5
5,4
Roma
2°
277.517
6.915,4
2,9
Torino
3°
173.160
7.699,6
2,8
Napoli
4°
145.607
4,723,3
0,5
Bologna
5°
79.468
8.324,0
5,1
Genova
6°
69.544
7.839,5
-0,9
Bari
7°
66.972
4.195,3
3,0
Firenze
8°
65.792
6.779,8
6,7
Brescia
9°
65.214
5.453,7
7,0
Catania
10°
56.904
5.283,7
12,5
Foggia
20°
30.136
4.421,7
22,1
Lecce
27°
25.772
3,185,9
5,5
Taranto
39°
20.026
3.451,6
10,7
Brindisi
54°
14.805
3.675,2
6,4
Ora vediamo per ogni singola tipologia di reato che cosa totalizzano le nostre
province:
(31)
Omicidi volontari
Po
siz
.
Nu
m.
Ogni
100mila
abitanti
Var.
%
06/07
Foggia
6
22
3,23
266,7
Bari
13
9
0,56
-57,1
Lecce
15
8
0,99
_
Brindis
i
45
3
0,74
50
Taranto
85
1
0,17
-75
626
1,06
0,8
Italia
17
Furti in appartamento
Po
siz
.
Num.
Ogni
100mila
abitanti
Var.
%
06/07
Bari
16
1.729
108,3
0,8
Foggia
36
659
96,7
-7,3
Taranto
69
267
46
-2,9
Lecce
81
168
23,2
21,3
Brindis
i
82
184
45,7
-3,2
160.035
270,6
2,3
Italia
Furti d’auto
Po
siz
Num.
Ogni
100mila
abitanti
Var.
%
06/07
Bari
4
10.575
662,4
1,5
Foggia
8
4.433
650,4
19
Taranto
18
1.671
288
14,3
Lecce
23
1.401
173,2
-2,7
Brindis
i
25
1.258
312,3
2,3
172.762
292,2
-5,3
Po
siz
.
Num.
Ogni
100
mila
abitanti
Var.
%
06/07
Bari
8
1.234
77,3
12,1
Foggia
16
478
70,1
17,4
Lecce
34
204
25,2
-6
Taranto
35
199
34,3
46,3
Italia
Rapine
18
Brindis
i
43
Italia
162
40,2
13,3
50.984
86,2
1,4
Truffe e frodi informatiche
Po
siz
.
Num.
Ogni
100
mila
abitanti
Var.
%
06/07
Bari
10
2.183
136,7
-3,6
Lecce
24
1.244
153,8
11.4
Foggia
27
1.176
172,5
12,5
Taranto
52
699
120,5
8,4
Brindis
i
72
563
139,8
-11,9
118.520
200,4
8,7
Italia
Soggeti arrestati
Po
siz
.
Num.
Ogni
100
mila
abitant
i
Var.
%
06/07
Bari
7
3.705
238
-14,6
Foggia
19
1.828
268
-10,4
Tarnto
30
1.414
244
-4,8
Lecce
37
1.126
139
-2
Brindisi
59
752
187
9,1
155.489
263
11,4
Italia
RAPPORTO DELLE NAZIONI UNITE SULLA CRIMINALITA’ AD EST
DELL’ADRIATICO
Quasi tutta l’eroina che circola in Europa è gestita da trafficanti albanesi, un giro
d’affari che supera il prodotto interno lordo di molti Paesi dei Balcani, è quello che
sostiene l’ultimo Rapporto delle Nazioni Unite sulla criminalità ad est dell’Adriatico
che non esita a definire il lato oscuro dell’Albania, ovvero la sua criminalità
organizzata, una vera e propria <<minaccia per l’Unione europea>>.
19
E’ la posizione geografica del Paese, spiega il Rapporto, che favorisce la crescita del
business che è la maggior fonte di guadagno per la criminalità organizzata dell’area
balcanica e dell’Europa sud-orientale. A metà strada tra il maggior produttore del
mondo di eroina e cocaina (Afghanistan) e il mercato con la domanda più alta
(l’Europa occidentale), l’Albania lascia passare ogni anno 100 tonnellate di polvere
bianca, intascando dai 25 ai 30 miliardi di dollari.
Un traffico simile, spiega il Rapporto, non può che esistere grazie alla complicità di
parte della polizia, guardiacoste (il traffico passa soprattutto via mare), funzionari e
popolazione locale, considerazione che porta ad una delle conclusioni del rapporto di
legame tra crimine organizzato, politica e mondo degli affari è ancora il problema
maggiore dei Balcani.
L’Italia, sotolinea l’Onu, è uno dei Paesi preferiti dai trafficanti albanesi, che
lavorano in tandem con la Sacra Corona Unita. Stando ai dati delle autorità di
Roma, dal 1998 al 2006 sono state sequestrate 15 tonnellate di eroina, di cui 10 di
provenienza albanese. Ma la matrice albanese del traffico di droga internazionale va
ben al di là dei dati disponibili: assieme ai criminali con passaporto di Tirana,
aggiunge il Rapporto, bisogna considerare tutti coloro che hanno cambiato
nazionalità ma che sono dentro nel giro illecito perché legati ai loro connazionali
grazie alla forte identità etnica.
Il secondo traffico illecito dei Balcani è quello di essere umani. Epicentro della tratta
di uomini e donne, così come lo definisce il rapporto dell’Onu, i Balcani introducono
in Europa circa 120.000 immigrati all’anno, clandestini o meno, ma tutti destinati ad
allargare le fila della prostituzione, del lavoro nero e dello sfruttamento. (31 fonte ansa)
C.P.A.
Ci appelliamo a documenti e dichiarazioni ufficiali, correndo il rischio di apparire
fastidiosi. Ebbene il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, in un
convegno a Bari, nell’estate 2007, disse testualmente: <<il fenomeno mafioso
pugliese (così lo ha appellato Forgione) che negli ultimi mesi ha guadagnato
visibilità a livello nazionale è monitorato attentamente da Roma. Alla pari della
camorra campana, della ‘ndrangheta calabrese e cosa nostra siciliana>>. Ed aggiunse:
<<Non sottovalutiamo la mala locale anzi è oggetto delle nostre attenzioni. Sbaglia
chi crede che siamo più preoccupati della camorra, per portare un esempio, rispetto
alle organizzazioni mafiose pugliesi>>. (Le sottolineature in neretto sono nostre ndr)
Direzione Investigativa Antimafia
La Dia ha rilevato: <<l’insorgere nel tessuto sociale ed economico della regione di un
fenomeno criminale teso alla ricerca di continui e maggiori spazi di potere, sia in
termini territoriali sia economici, nella società civile e nell’industria del crimine>>.
Ciò appare importante soprattutto per una regione come la Puglia che costituisce un
osservatorio privilegiato per comprendere le linee di tendenza e le caratteristiche
evolutive del crimine organizzato.
20
Va sottolineato che quello pugliese resta sempre un fenomeno criminale non
riconducibile ad una struttura unitaria. Ne consegue che per la tempestiva
individuazione dei settori di interesse, delle modalità operative delle organizzazioni
criminali e, altresì, per le analisi delle strutture operative di esse occorrono parametri
di valutazione e di intervento elastici ed adeguati alle differenti realtà.
La criminalità pugliese continua ad essere contraddistinta da una significativa fluidità
strutturale e da ricorrenti innovazioni delle dinamiche interne dei gruppi. La pluralità
delle consorterie, i continui conflitti in seno ad esse ed i relativi riflessi nel campo
dell’illecito sono l’attestazione di una situazione criminale in continua evoluzione. Il
particolare attivismo che contraddistingue e caratterizza la criminalità pugliese
presenta tuttavia aspetti e significati differenti.
Scrive in proposito, sempre la Dia: <<La criminalità organizzata pugliese continua a
caratterizzarsi per il suo spiccato dinamismo>>. Sul piano strutturale, quell’attivismo
si manifesta con le continue trasformazioni delle consorterie criminali, realizzate
spesso attraverso conflitti armati tra i gruppi per il controllo del territorio e dei
mercati criminali.
Il dato caratteristico della frammentazione delle cosche pugliesi trova origine in
diversi fattori rilevabili dall’analisi degli ultimi anni: da un lato, la compartecipazione
di vecchie e nuove consorterie agli affari criminali, la creazione di nuove alleanze
anche tra opposte fazioni e, dall’altro, il rinnovo dei vertici criminali dettato dalle
ricorrenti, incisive azioni giudiziarie e di polizia.
Un’altra causa che alimenta i processi innovativi può rinvenirsi nella loro capacità di
instaurare rapporti illeciti di ogni tipo, anche occasionali e transitori, con qualsiasi
gruppo, italiano o straniero, sulla base della sola valutazione di convenienza
economica, e non già in forza di alleanze strutturali: non a caso si è parlato di
vocazione ‘commerciale’ della criminalità pugliese.
Ancora, per brevità non richiamiamo gli allarmanti vari passi che la Dia ha dedicato
alla Puglia e specificatamente a Bari, nella sua Relazione relativa al 2° semestre
2007.Vogliamo soltanto estrapolare una frase contenuta nel paragrafo
‘Considerazioni’, che credo dovrebbe preoccupare tutti: <<...a latere (il corsivo è
della Dia) della costituzione di società commerciali e del classico processo di beni
immobili, terreni, quote societarie e disponibilità finanziarie, costituite attraverso le
attività di estorsione e di traffico di stupefacenti, emergono anche più complesse
connessioni tra settori imprenditoriali e personaggi di rilievo nello scenario
criminale>>.
Ma non è finito. L’analisi dei reati spia condotta dalla Dia per monitorare
l’andamento della criminalità in Puglia e il coinvolgimento della criminalità
organizzata dal 2002 al 2007 ha fatto emergere che <<i porti della Puglia
rappresentano un importante snodo logistico per tutti i traffici illeciti>>.
Nel porto di Brindisi ci sono stati numerosi sequestri di sigarette di contrabbando
provenienti dalla Grecia. Le ‘bionde’ al contrario degli anni Novanta, ora arrivano in
21
Europa a bordo di tir, nascoste tra merce di altro genere destinata al mercato del Nord
Europa. Nel 2007 sono stati effettuati 22 sequestri di sigarette.
Anche il porto di Taranto <<si conferma crocevia del traffico di merci di
contrabbando>>. In particolare nel porto di Taranto, attraverso i container imbarcati
in Cina si cerca di far arrivare in Italia sigarette di contrabbando realizzate in Cina.
Sui pacchetti era addirittura attaccato il simbolo del Monopolio dello Stato italiano.
Insomma non sigarette di fabbricazione estera, come quelle che arrivano dalla Grecia
nel porto di Brindisi, ma sigarette spacciate per prodotto del monopolio italiano,
realizzate in Italia.
Gli investigatori nella relazione semestrale al Parlamento hanno sottolineato la
preoccupazione per la crescita del fenomeno del contrabbando di sigarette <<non
solo sotto l’aspetto del danno erariale ma soprattutto per quanto attiene ai profili di
sanità pubblica, a fronte della scarsa qualità dei materiali impiegati nel
confezionamento dei tabacchi>>. Cioè, i rischi e i danni del fumo, con l’arrivo delle
sigarette cinesi, si moltiplicano.
Nel mese di luglio 2007 nel porto di Taranto furono sequestrate 17 tonnellate di
sigarette contraffatte, a novembre 9 tonnellate.
I sequestri sono continuati nel primi mesi del 2008.
I reati spia che vengono monitorati dalla Dia sono: attentati, rapine, estorsioni, usura,
associazione per delinquere, associazione mafiosa, riciclaggio, incendi, traffico di
sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, contraffazione di marchi e
prodotti industriali. (34)
UFFICIO ITALIANO CAMBI
L’ultima citazione riguarda l’Ufficio Italiano Cambi che denuncia che la provincia
della Puglia centrale registra il maggior numero di operazioni sospette. Sono 1.152
per la precisione.
Crediamo che siano sufficienti questi documenti per smentire clamorosamente
l’ottimismo di cui parlavamo.
Una legittima domanda sulle erogazioni dei fondi comunitari
Il principale quotidiano economico il 18 aprile 2008 ha dedicato un’intera pagina alla
triste realtà delle frodi e irregolarità nelle erogazioni dei fondi comunitari.
Si presta colpevolmente poca attenzione ai penalizzanti effetti di comportamenti di
vere e proprie schiere di faccendieri, truffatori e lestofanti che si muovono
impunemente in questa che rappresenta una nuova e munifica greppia, traendone
profitti e procurando danni sul terreno della mera illegalità, affrontate con sfacciate
simulazioni.
Purtroppo la cronaca ci racconta, molto spesso, di imprenditori pugliesi colti con le
mani nel sacco. E non ci troviamo di fronte a un problema di poco conto. Infatti, in
22
base alla normativa dell’Unione europea, l’Italia rischia di dover pagare quasi un
miliardo di euro per contributi e fondi indebitamente erogati e non recuperati.
Con riferimento al periodo 1999-2006, nella classifica degli inadempienti, su quindici
Paesi, occupiamo il secondo posto dietro alla Grecia. A livello di confini nazionali le
regioni che si ‘distinguono’ sono la Calabria con irregolarità pari a 46 milioni di euro
e la Puglia con 17 mila.
Ci domandiamo di questo dato ne dobbiamo tener conto nel disegnare il volto illegale
della regione? Di certo gli analisti economici seri ne tengono conto. (1)
I SETTORI CHE REGISTRANO L’INTERESSE DELLA CRIMINALITA’
CEMENTO
Le forze dell’ordine hanno scoperto infrazioni riferibili all’intero ciclo illegale del
cemento: nel 2006 ne sono state accertate 7.038 con un incremento di circa l’8%
rispetto al 2005. Vi è un numero crescente di cave e attività estrattive illegali
sequestrate. Quasi la metà (49%) delle illegalità “cementizie” si concentrerebbero in
Campania (che poi occupa il primo posto), Calabria, Sicilia e Puglia.
Sempre queste quattro regioni occupano il primo posto nell’abusivismo costiero in
Italia. Qui si consuma quasi il 61% delle violazioni accertate dalle Forze dell’ordine
che hanno effettuato ben il 63% dei sequestri.
La Puglia totalizza 610 infrazioni accertate, 672 persone denunciate e 144 sequestri
effettuati.
CONTRAFFAZIONI
Altro comparto privilegiato è quello delle contraffazioni. E’ stato valutato che il giro
d’affari, in questo settore, è di 7 miliardi di euro, di cui il 70% si riferisce al
Mezzogiorno. Nel 2006 la Guardia di Finanza ha effettuato complessivamente 15
mila interventi, sequestrando 89 milioni di articoli contraffatti (il 28% in più rispetto
al 2005) e molti di questi sono stati eseguiti nel Salento che è base logistica
importante soprattutto per il settore moda. Infatti è proprio la “moda” a primeggiare
con un fatturato che supera i 3 miliardi e mezzo di euro annui. A seguire l’elettronica
(1,4 miliardi), giocattoli, beni di consumo, farmaci, profumi e cosmetici per cifre
inferiori al miliardo di euro annuo. Sono queste merci ad alimentare sempre più il
contrabbando: quello delle sigarette è vero che sta tornando in auge, dopo il declino
registratosi alla fine degli anni ’90, ma ormai le organizzazioni criminali hanno
diversificato il mercato: si va dai prodotti petroliferi allo zucchero, dalle bevande
alcoliche agli animali esotici. Insomma sui gommoni che attraccano sulle coste
pugliesi o nei Tir che arrivano nei porti pugliesi si può trovare davvero tutto.
23
A porre un freno al fenomeno che investe il territorio pugliese è la strategia di
contrasto messa in campo dal Comando regionale della Guardia di Finanza. I risultati
conseguiti in Puglia dai reparti delle fiamme gialle negli anni che vanno dal 2003 al
2007, dimostrano come non è impossibile assicurare un capillare, qualificato e
incisivo controllo economico del territorio. Ma andiamo per ordine. Nel quinquennio
preso in considerazione sono state sequestrate in Puglia merci contraffatte per oltre
11,5 milioni di pezzi, denunciate 2mila 858 persone e 100 arrestate.
La tipologia delle merci contraffatte è varia: spiccano i prodotti di abbigliamento (1,5
milioni di pezzi), i giocattoli (400mila pezzi), i prodotti cartotecnici per la scuola
(3milioni di pezzi) e i prodotti di profumeria (870milioni di pezzi). Nel solo 2007
sono stati sequestrati in Puglia 2,4milioni di pezzi contraffatti tra capi di
abbigliamento, giocattoli, calzature, occhiali, orologi e prodotti vari; 687 i soggetti
denunciati e 29 quelli in stato di arresto. I sequestri di merci contraffatte si sono
registrati sull’intero territorio regionale e in particolare nella provincia di Taranto (un
milione 285mila716 pezzi), in quella di Bari (oltre 916mila pezzi), e nella provincia
di Lecce con poco meno di 290mila pezzi. Seguono le province di Brindisi (44mila
853 pezzi) e Foggia (19mila 893 pezzi).
Anche sulla tutela del ‘made in Italy’ non si è andati troppo per il sottile: 941mila
pezzi di importazione sequestrati nei porti pugliesi (per lo più accessori di
abbigliamento e scarpe) stivati in container sotto carichi di copertura, oltre a sette
container con 60 mila confezioni di piastrelle. Le violazioni non hanno risparmiato
l’olio di oliva: 4mila 37 tonnellate di prodotto dichiarato di origine italiana, ma
oggetto d’importazione dall’estero.
Il 70 per cento della produzione mondiale di contraffazioni proviene dal Sud-Est
asiatico (la Cina è di gran lunga al primo posto, seguita da Corea, Taiwan, Tailandia,
Pakistan, Malesia e altri Paesi dell’area) ed è destinata principalmente ai mercati dei
paesi dell’Unione europea. Il restante 30 per cento dei prodotti arriva dal bacino
Mediterraneo: Italia, Spagna e Turchia.
Quanto alla vendita della merce contraffatta, esistono almeno tre canali attraverso i
quali avviene la commercializzazione. Il primo è costituito dai negozi, dove il
prodotto contraffatto viene venduto assieme agli articoli originali; il secondo è quello
dei canali ambulanti, spesso controllati da vere e proprie organizzazioni criminali che
sfruttano cittadini extracomunitari e il terzo, in fase di espansione, quello del
commercio elettronico (via Internet), che garantisce anonimato ed elevata capacità di
transazione.
La contraffazione è un fenomeno dilagante, insomma, con gravi ripercussioni
sull’intero sistema economico e sociale sia territoriale sia nazionale (si ricordi che il
fatturato del falso, come più sopra abbiamo detto, in Italia si aggirerebbe intorno ai
sette miliardi di euro). Un vero e proprio danno economico per le imprese legali
misurato dalle mancate vendite, dalla perdita di immagine e di credibilità del
marchio, dalle spese legali per la tutela dei diritti di proprietà intellettuale a scapito
degli investimenti in ricerca e innovazione.
24
Non dimentichiamo che la nostra economia, i nostri posti di lavoro e il nostro
benessere si basano sulle innovazioni con elevato valore aggiunto. E che i diritti di
proprietà intellettuale tutelano le innovazioni e sono dunque un incentivo importante
per gli investimenti.
Per non parlare del grave pericolo per il consumatore finale che è connesso alla
sicurezza intrinseca dei prodotti, specie in settori come quello farmaceutico (preparati
contraffatti hanno cagionato la morte di pazienti), automobilistico (ricambi non
originali hanno provocato incidenti mortali), e alimentare (con intossicazioni di varia
natura). Questo perché i prodotti contraffatti e pirata sono fabbricati solitamente nel
più completo disprezzo delle norme a tutela della salute e sicurezza. (17)
E proprio i medicinali cercano di passare attraverso le strette maglie di sicurezza
dell’aeroporto di Bari, città diventata crocevia del traffico illegali di farmaci taroccati.
Dall’aprile 2007 fino all’aprile 2008, gli uomini della Guardia di Finanza barese
hanno bloccato e sequestrato 85 chili di farmaci, ai quali si somma il carico fermato
dai carabinieri del Nas. Complessivamente più di un quintale di medicinali taroccati e
nocivi, oltre 200mila confezioni. Per avere un’idea della portata del fenomeno, basta
pensare che in Italia – nello stesso periodo – sono stati 800mila i prodotti
farmaceutici sequestrati alla frontiera, perché non autorizzati ad essere immessi sul
mercato.
Un mercato illegale ma florido, un giro d’affari stimabile in circa mezzo miliardo di
euro (solo in Italia). I ‘falsi’ alimentano un mercato parallelo a quello delle farmacie,
non controllato, irregolare. Spesso le prenotazioni vengono effettuate direttamente su
Internet, per poi giungere in Puglia in piccole quantità alla volta, trasportati dai
corrieri. Da qui prendono le strade più disparate, verso il nord Italia e il resto
d’Europa.
I farmaci più imitati sono gli antibiotici, i medicinali da banco (aspirina, tachipirina),
anabolizzanti, pillole dimagranti e quelli contro l’impotenza (il viagra ad esempio).
Grazie al boom di acquisiti sul web, il mercato è in continua crescita: si stima che nel
Vecchio continente ormai il business abbia raggiunto i 23 miliardi di euro.
L’Organizzazione mondiale della sanità, il 14 aprile 2008, ha lanciato l’allarme: ogni
anno i medicinali truccati provocano mezzo milione di morti nel mondo. Perché se
alcuni sono completamente privi del principio attivo – quindi non curano, ma sono
anche innocui – altri possono uccidere. Non è un caso che le morti per overdose da
medicinali siano aumentate: solamente a Bari, ogni giorno, ci sono tre avvelenamenti,
più di mille all’anno. Per la precisione 1.104 stando alla lettura dei dati raccolti dai
centri antiveleno d’Italia.
I medici pugliesi mettono in allerta: <<Acquistare medicinali senza la prescrizione e
bypassando la farmacia – avverte il segretario regionale della Fimmg (medici di base)
– è una follia. Si mette a rischio la propria salute>>. (17)
ATTIVITA’ AGRICOLE
25
Elemento centrale di sviluppo del territorio sono, senza alcun dubbio, le attività
agricole, anch’esse purtroppo colpite, come abbiamo visto, dalle contraffazioni e, in
maniera non marginale dalla malavita organizzata e non. Molti produttori agricoli
sono loro preda, soggetti a pressioni, minacce e ad ogni forma di sopruso. L’allarme è
stato lanciato dalla Presidenza Nazionale della Confederazione Italiana Agricoltori, in
occasione di una conferenza stampa, svolta nei primi giorni di febbraio 2008, nella
quale è stato rilevato che anche la Puglia è interessata da fenomeni di criminalità,
colpita non solo nei beni degli agricoltori ma anche nella loro stessa incolumità. I
reati più ricorrenti sono i furti dei mezzi agricoli, furti di prodotti, il racket. Non
manca la minaccia di cedere i raccolti dei prodotti a prezzi stracciati, pena di correre
il rischio di vedere compromessa l’intera produzione. L’altra piaga è rappresentata
dal caporalato che sfrutta soprattutto gli extracomunitari, molti dei quali irregolari.
Non solo, ma in occasione del dibattito accesosi sull’esorbitante costo degli alimenti,
la Coldiretti, in suo comunicato del 27 giugno 2008, sostiene che a gonfiare i prezzi
sono anche il racket, il pizzo e gli altri fenomeni malavitosi che si sviluppano a danno
delle campagne italiane un giro di affari di 7,5 miliardi di euro, secondo il rapporto
della Direzione nazionale antimafia (Dna). Nelle campagne, sottolinea la Coldiretti, si
assiste al moltiplicarsi in agricoltura di furti di attrezzature e mezzi agricoli, racket,
abigeato, estorsioni, del cosiddetto pizzo anche sotto forma di imposizione di
manodopera o di servizio di trasporto o di guardiania alle aziende agricole, truffe nei
confronti dell’Unione europea e caporalato. Tra i fenomeni che preoccupano ci sono
soprattutto le intromissioni nel sistema di distribuzione e trasporto dei prodotti
alimentari, carne e ortofrutticoli.
(2)
Nei capitoli dedicati alle varie provincie, abbiamo evitato di trascrivere i singoli furti
compiuti nel settore. Lo abbiamo ritenuto un’operazione ripetitiva, una volta
segnalato il fenomeno, così come abbiamo fatto. Ci siamo invece soffermati sugli
episodi più eclatanti ed emblematici che, con quelli più anonimi e quotidiani,
strangolano l’attività.
IMPIANTI EOLICI
La criminalità organizzata sta provando a mettere le mani sul grande business
dell’eolico. Da Foggia a Lecce, infatti, le procure pugliesi (e in alcuni casi anche con
l’interessamento delle Direzioni distrettuali antimafia) stanno indagando sulla
compravendita di terreni e sugli iter autorizzativi che hanno portato nel giro delle pale
a vento alcuni clan mafiosi. O persone dalla fedina penale non pulita. L’inchiesta
madre è sicuramente quella di Lecce nata quasi per caso a marzo 2008 e che invece
sta avendo sviluppi interessanti. Indagando sul clan Bruno, ci si è resi conto che la
cosca aveva diversificato gli affari: recentemente aveva acquistato alcuni terreni nella
zona di Torre Santa Susanna e già ottenuto le autorizzazioni (gazie a una procedura
accelerata) per realizzarci un parco eolico (su questa inchiesta ci soffermiamo
diffusamente nel capitolo dedicato a Brindisi). Inizialmente sembrava una questione
marginale e invece andando in fondo gli investigatori si sono resi conto che i Bruno
avevano puntato tanto sull’eolico. E’ stato scoperto che molti altri terreni confinanti
26
erano riconducibili al clan e che per ottenere le autorizzazioni avevano offerto sponde
elettorali ad alcuni politici locali: da qui la decisione della fine di maggio 2008 della
procura antimafia di Lecce di aprire un fascicolo a parte, tutto incentrato sugli affari
del vento. Se ne sta occupando il pm De Castris insieme con i carabinieri di Brindisi.
Per il momento gli indagati sono gli uomini di Bruno, ma l’obiettivo dell’inchiesta è
verificare possibili appoggi esterni.
*
Gli stessi che la Guardia di Finanza di Foggia sta cercando a Deliceto, dove è
previsto un importante investimento eolico. Dietro l’investimento ci sono i fratelli
Bonasissa, gli stessi arrestati ai primi di giugno nell’affare della discarica abusiva più
grande d’Europa (anche su questo malaffare riferiamo diffusamente nel capitolo
‘Ambiente-Rifiuti’). Ufficialmente però i Bonasissa non fanno più parte dell’affare.
La società che faceva loro capo ha venduto tutto ai russi di Renova. Che ora stanno
gestendo direttamente la partita. Gli uomini delle Fiamme Gialle vogliono però
vederci chiaro in tutta questa storia, tant’è che dal mese di aprile stanno seguendo la
vicenda. Così come hanno seguito l’altro parco eolico, quello di Ascoli Satriano. Che
ha portato il 6 giugno 2008 all’arresto del sindaco, Antonio Rolla. <<Il primo
cittadino – dicono i finanzieri nell’informativa inviata alla Procura – non sempre
svolgeva le proprie funzioni di primo cittadino in maniera distaccata e imparziale. Il
pubblico ufficiale, infatti, abusando della sua carica politica, imponeva ad alcune
società, operanti nel territorio ascolano, l’impresa locale che ‘doveva’ effettuare, in
subappalto, i lavori necessari per la realizzazione delle istituende strutture
industriali>>. A corredo della tesi centinaia di pagine di intercettazioni telefoniche
nelle quali si evince chiaramente come il sindaco Rolla seguisse direttamente tutte le
fasi propedeutiche alla realizzazione dell’impianto: la scelta dei professionisti, delle
imprese e degli operai <<tutti – dice la Finamnza – di fatto autorizzati dal Sindaco a
prestare la loro opera in virtù della loro verosimile appartenenza politica>>.
*
La Puglia produce oggi il 25 per cento dell’intera energia eolica italiana. E’ un
boccone prelibato per i clan pugliesi e non solo: la Dda di Reggio Calabria teme che
gli uomini della ‘ndrangheta – che in casa hanno fatto razzia di terreni e
autorizzazioni – possano voler allargare gli affari. A Castellaneta, invece, il Partito
Democratico e l’ex sindaco, Rocco Loreto, chiedono al comune e a tutte le istituzioni
(magistratura compresa) lumi sul mega progetto eolico previsto tra Castellaneta e
Laterza: la società che dovrebbe realizzare l’impianto è la campana Gec,
riconducibile a quel Francesco La Marca che da anni fa affari con i rifiuti in
Campania. E che nel 2004 è stato colpito da una interdittiva dell’antimafia.
E’ inutile sottolineare che i pm sospettano che i clan pugliesi abbiano messo le mani
sull’affare milionario dell’eolico. Del resto le mafie italiane sono la forma più
spregiudicata e aggressiva di capitalismo. E la spesa pubblica, tutta la spesa pubblica
27
è il bottino di guerra delle cosche. Per questo le preoccupazioni dei magistrati e delle
forze dell’ordine sono più che giustificate. Del resto per i rifiuti hanno assunto
analogo comportamento. I boss sono abili a individuare il business economicamente
più redditizio. Come appunto i rifiuti. E non è facile arginare questa insana volontà.
Si tratta di gente che ormai rappresenta un pezzo dell’economia legale: diventa perciò
difficile individuare, in alcuni casi, il confine tra lecito ed illecito. Sarebbe comunque
un errore di ingenuità immaginare la mafia pugliese separata da cosa nostra, camorra
e ‘ndrangheta. Queste quattro organizzazioni continuano ad avere rapporti di potere
più o meno frequenti. Le relazioni con i camorristi napoletani dovrebbero essere
quelli più assidui.
Per fortuna nella realtà pugliese, e non solo, i magistrati hanno sviluppato una
importante capacità: quella addirittura di prevenire i reati. Purché la politica si renda
conto che la sfida mafiosa è una delle questioni da considerare prioritaria. (28)
Intanto la Procura distrettuale antimafia ha aperto un nuovo fascicolo d’inchiesta
sull’affare eolico: il sostituto procuratore di Lecce ha delegato la Guardia di Finanza
ad indagare: il Gico nei primi giorni di giugno 2008 è già stato negli uffici e ha
acquisito tutta la documentazione utile. L’inchiesta, al momento, è ancora nella sua
fase conoscitiva, gli uomini delle Fiamme Gialle stanno studiando le carte per capire
se esistono profili d’illegittimità e se è vero – come denuncia il Partito Democratico
di Castellaneta – che la napoletana Gec (Green Engineering & Consulting srl) abbia
collegamenti con società che per anni hanno gestito alcune tra le più chiacchierate
discariche campane. Cristina La Marca, amministratore delegato della Gec, da parte
sua, sostiene che la denuncia contiene un cumulo di falsità per cui si riserva di
querelare l’ex sindaco Rocco Loreto. Il quale aveva più volte pubblicamente
accostato il nome della Gec alla discarica di Pianura. Ricordando anche il caso del
comune di Vicari, 3mila e 200 abitanti in provincia di Palermo: la Gec ha realizzato
un parco eolico, poi il consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose.
<<L’organo ispettivo – scrisse nel provvedimento il Prefetto di Palermo e l’allora
ministo dell’Interno Giuseppe Pisanu – ha evidenziato diverse incongruenze nella
stipula della convenzione con la società prescelta dall’amministrazione comunale
per la realizzazione di un impianto eolico>>. Naturalmente l’amministratore della
Gec sostiene che si tratta di sospetti strumentali. Le condotte realizzate sarebbero in
danno della società e non viceversa.
Resta però il fatto che su tutta quella vicenda, al di là delle responsabilità, è entrata la
magistratura per fare chiarezza. E il fatto che si sia mossa l’antimafia è sicuramente
significativo. Anche perché come dimostrano le altre tre inchieste aperte in Puglia
(sempre l’antimafia di Lecce per un insediamento a Brindisi e due indagini della
Finanza a Foggia) l’eolico è diventato uno degli obiettivi dei clan. E dei mercanti dei
rifiuti. Il parco eolico tra Castellaneta e Laterza è poi un affare generoso perché
sarebbe uno dei più grandi d’Italia: qualora fosse autorizzato dalla Regione (il sì delle
amministrazioni comunali è già arrivato), si costituirebbero 560 torri capaci di
produrre energia elettrica per 1700 megawatt. L’intero piano energetico regionale ne
fissa come obiettivo massimo la produzione di 4mila, soltanto tra Castellaneta e
28
Laterza se ne produrebbe il 35 per cento dell’intera regione. Proprio l’impatto
ambientale – prima ancora degli intrecci societari dell’azienda che dovrebbe
realizzare il parco – preoccupa una parte dei cittadini. (28)
AMBIENTE - RIFIUTI
Intanto cominciamo dai dati più generali. La criminalità organizzata che fa affari ai
danni della salute dei cittadini, del paesaggio, del territorio, dei beni artistici, della
flora e della fauna, ha un giro d’affari di 23miliardi di euro; fa sparire nel nulla una
montagna di rifiuti alta come il Gran Sasso (2.600 metri), traffica ogni anno animali
selvatici per un valore di oltre 3 miliardi, costruisce migliaia di case abusive (30.000
solo nel 2006). E’ quello che dice il Rapporto Economia 2007 di Legambiente.
Ma il rapporto Ecomafia 2008, presentato a Roma da Legambiente il 4 giugno 2008,
disegna, per la Puglia, un quadro più fosco. Intanto, per il rapporto, il 2007 è stato un
anno in crescita per i reati contro l’ambiente in Italia, arrivati a quota 30.124, pari al
27,3% in più rispetto al 2006, con 22.069 persone denunciate (più 9,7% rispetto
all’anno precedente), 195 arresti e 9.074 sequestri (più 19%) E la Puglia ha persino
peggiorato la sua situazione salendo dal quarto al terzo posto nella classifica dei reati
ambientali; infatti nel 2007 è cresciuto il numero di infrazioni rispetto al 2006: ben
2.956 con 1.304 sequestri effettuati. Mentre si colloca al primo posto per numero di
persone arrestate: ben 47. Il fatturato della criminalità ambientale in Puglia è di
18miliardi e 400milioni di euro.
I reati legati al ciclo illegale dei rifiuti in Italia sono stati invece 4.833 nel 2007, con
5.204 persone denunciate, 136 arrestate e 2.193 sequestri effetuati. E in questo
ambito è sempre in testa la Campania, dove lo smaltimento illegale di rifiuti
pericolosi, spesso di provenienza extraregionale, si è sommato alla catastrofica
gestione commissariale di quelli urbani. Ma la situazione rimane grave anche in
Puglia, che mantiene saldamente il terzo posto del 2006 con 391 infrazioni accertate,
43 arresti, 437 denunce e 265 sequestri; mentre è il foggiano la zona in cui continua a
proliferare il business delle ecomafie.
Inoltre, la Puglia rimane la porta d’ingresso o uscita per i traffici internazionali di
rifiuti, come dimostrano i sequestri effettuati al porto di Bari di tir contenenti rifiuti
pericolosi.
Anche sul fronte del ciclo illegale del cemento cresce il numero di infrazioni
accertate in Italia dalle forze dell’ordine (7.978, il 13% in più rispetto al 2006), quello
delle persone denunciate (10.074) e dei sequestri (2.240). In Puglia, in particolare, i
reati di questo tipo sono tornati in auge dopo il calo, successivamente
all’abbattimento dell’ecomostro di Punta Perotti: così nel 2007 la Puglia si piazza al
terzo posto con 721 infrazioni, 941 persone denunciate e 292 sequestri. E non
mancano casi anche nelle aree protette. L’operazione ‘Lithos’ del corpo forestale
dello Stato, in particolare, ha portato alla luce 20 ettari di cave abusive nel territorio
di Minervino Murge all’interno del parco nazionale dell’Alta Murgia. Sul fronte
dell’archeomafia, ovvero l’aggressione criminale al patrimonio artistico e
archeologico, la Puglia è al sedicesimo posto con 16 furti nel 2007.
29
Quindi la Puglia nel 2007 ha continuato a calpestare la sua terra: lo ha fatto
smaltendo illecitamente rifiuti urbani speciali, costruendo cave abusive nei parchi e in
riva al mare o magari bruciando i boschi per speculazione o incuria.
Non è finita. Sempre Legambiente il 24 giugno 2008 ha presentato i risultati del
dossier “Mare monstrum 2008”, un monitoraggio organizzato dall’associazione lungo
le nostre coste. Sia che si tratti di una villetta con vista mare, di un albergo o di un
nuovo porto turistico, le costruzioni illegali sul demanio marittimo sono in cima alla
lista dei mali del nostro mare, riferisce il dossier. In particolare, nel 2007 intorno al
ciclo del mattone selvaggio si sono registrate 4.000 infrazioni e sono scattati 1.399
sequestri e 5.066 denunce. Considerando anche le altre voci (inquinamento,
depurazione, pesca di frodo, infrazione al codice della navigazione) nel 2007 i reati ai
danni del mare e delle coste italiane sono stati 14.315, quasi 2 infrazioni a chilometro
lungo i 7.400 di costa italiana. Diminuite rispetto all’anno precedente, (erano 19.063
nel 2006), vedono triplicare però il numero dei colpevoli (+276,8%) e salire
lievemente anche i sequestri (+2,9%). A guidare la classifica delle regioni è la
Campania, con 2.355 infrazioni accertate dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di
porto, 2.697 persone denunciate o arrestate e 778 sequestri effettuati, seguita da
Puglia (2.184 infrazioni) e Sicilia (2.039). Calabria 4^ con 1.675 infrazioni, Sardegna
5^ con 1.154 infrazioni. Quello che emerge dal dossier – spiegano i suoi compilatori
– è che in riva al mare il business del mattone non teme confronti e ormai non
riguarda più solo case di villeggiatura ma grandi speculazioni immobiliari che vanno
dalle megastrutture alberghiere, ai parcheggi fino ai nuovi porti e che non
risparmiano neanche le aree protette. In tal senso un caso su tutti: l’abusivismo
edilizio lungo i 38 km della Riserva Marina di Capo Rizzuto in Calabria. (32)
Il caos Campania e le inchieste della magistratura stanno confermando quello che da
anni le associazioni ambientali stanno denuciando e cioè che il business dei rifiuti è il
vero nuovo grande affare della criminalità organizzata. In Italia così come in Puglia:
la procura antimafia di Bari non a caso sta indagando sui presunti affari illeciti e
connivenze con i clan nella gestione della discarica di Altamura, da poco chiusa dopo
22 anni di attività (a questa discarica dedichiamo un apposito pararagrafo).
Rispetto al 2006, come abbiamo letto, la Puglia è salita dal quarto al terzo posto in
materia di reati contro l’ambiente, scavalcando così il Lazio. Le infrazioni accertate
sono state 2.596 e se è vera la vecchia regola per la quale si riescono ad individuare il
20 per cento dei reati, significa che siamo nell’ordine dei diecimila. La Puglia è però
la prima in assoluto per numero di arrestati: 47. Il business principale, leggendo i dati,
è lo smaltimento illecito dei rifiuti. Lo scorso anno in Puglia sono sparite circa un
milione e secentomila tonnellate di immondizia, rapporto questo che viene fuori dal
totale prodotto e da quello trattato nelle discariche.
Se Bari si sta muovendo sulla discarica di Altamura, secondo il governo, i centri
principali dell’illegalità sarebbero i clan salentini e quelli della Capitanata, gli unici a
tenere i contatti diretti con la Capitanata. A confermarsi terra di conquista sarebbe il
foggiano, <<dove i traffici illeciti –si legge nel rapporto – portano i rifiuti prodotti
30
dal Centro-Nord a essere scaricati direttamente nei terreni agricoli. Scorie sempre
più spesso spacciate per compost>>. Il riferimento è all’operazione con la quale la
Dda di Bari e la procura di Foggia hanno messo fine all’attività che il clan Gaeta
svolgeva in Capitanata fin dal 1995. La magistratura ha accertato che almeno 100mila
tonnellate di rifiuti, anche tossici, invece di essere portati nelle aziende di
compostaggio venivano cosparsi su terreni agricoli, oppure interrati nelle cave,
(anche al clan Gaeta dedichiamo più sotto un paragrafo).
Una delle caratteristiche dell’ecomafia pugliese è la contiguità con la politica e la
pubblica amministrazione: nelle varie operazioni tra gli arrestati ci sono sindaci,
dipendenti comunali, funzionari e anche uomini delle forze di polizia. La criminalità,
come abbiamo visto per il Parco della Murgia, non disdegna le aree di pregio, lì, oltre
quello che abbiamo già segnalato, fu sequestrata anche una discarica abusiva, con
rifiuti che uno sull’altro arrivavano sino a otto metri.
Oltre i rifiuti, sono cresciuti anche nel 2007, in regione, i reati di abusivismo. Ha
ragione il segretario regionale di Legambiente quanto denuncia il continuo fiorire di
costruzioni nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico o idrogeologico e soprattutto
sui litorali. Nel rapporto del 2007, inoltre, emergono altri argomenti nuovi per la
criminalità ambientale pugliese, molto allarmanti: i crimini sull’agricoltura (le
sofisticazioni alimentari, i pesticidi, lo stesso caporalato), gli incendi (il Gargano in
fiamme), il traffico di specie protette. Insomma c’è molta carne al fuoco e lavoro per
tutti: magistrati, forze dell’ordine, amministratori pubblici, sindacati, associazioni di
categorie professionali.
(28)
LA PUGLIA DELL’AMBIENTE VIOLATO
Reati e attività di contrasto da parte di Carabinieri (Noe), Corpo forestale
dello Stato, Guardia di Finanza, Capitanerie di porto
Numero di violazioni accertate (anno di riferimento 2007)
Numero di arresti effettuati
2.596
47
Persone denunciate
2.285
Sequestri effettuati
1.304
Percentuali di violazioni accertate
8,6%
Gestione illegale del ciclo dei rifiuti
Infrazioni accertati (anno di riferimento 2007)
391
Persone denunciate
437
Numero di arresti effetuati
Sequestri effettuati
43
265
Casi notevoli tra le inchieste di polizia contro i trafficanti di rifiuti pericolosi
OPERAZIONE VELENO (25 settembre 2007)
Arresti a carico di altrettanti componenti del clan mafioso Gaeta
52
31
Volumi di rifiuti oggetto di trasferimento illecito su terreni della Campania
100 mila ton.
Giro d’affari realizzato
5 mil. euro
Elaborazione Gazzeta del Mezzogiorno 05/06/08
La montagna di rifiuti spariti dalla Puglia, negli ultimi dieci anni, dovrebbe
raggiungere, in altezza, quota duemila metri. La stima è semplce da fare: basta
rapportare i dati – forniti dai singoli comuni e messi insieme da Legambiente – sulla
quantità di rifiuti prodotti con il numero di quelli smaltiti. All’appello mancano circa
26 milioni di tonnellate di immondizia, sparite e smaltite nel nulla. Dove? Spalmate
sui campi, nascoste nelle cave, buttate in mare. Questo dicono le decine di indagini
che in questi anni sono state avviate dalle procure pugliesi. Ultima, in ordine di
tempo, quella della procura di Trani sulla discarica di Frottelline di Spinazzola, quella
cioè che dovrebbe ospitare i rifiuti che prima finivano ad Altamura. Il sostituto
procuratore che si occupa dell’inchiesta ha chiesto a un consulente di capire se
effettivamente ci sia in zona uno scavo neolitico. Nell’indagine si ipotizza una serie
di reati amministrativi nel rilascio delle concessioni ma almeno per il momento non ci
sono indagati.
Quello che sembra però certo è il rapporto diretto che c’è tra il business illegale dei
rifiuti e la malavita organizzata. Scrive la Direzione Investigativa Antimafia: <<In
alcuni casi le investigazioni hanno dimostrato che le società preposte allo
smaltimento dei rifiuti pericolosi si limitano a una trasformazione degli stessi in
modo puramente nominale e cartaceo, formando falsi certificati di analisi, e lo
smaltimento finale avviene sui terreni non adibiti a discarica o addirittura in mare,
come registrato, nel primo caso, in provincia di Caserta e, per la seconda ipotesi, in
Puglia>>.
Proprio lo sversamento in mare sembra una delle novità offerta dai clan degli
imprenditori. A testimoniarlo alcuni valori anomali registrati dall’Arpa in zone
storicamente inquinate ma che recentemente stanno segnalando la presenza
particolarmente elevata di alcune sostanze pericolose. A Taranto poi nel 2006 furono
arrestate 16 persone e denunciate 62 con l’accusa di aver smaltito in acqua 90mila
tonnellate di rifiuti altamente inquinanti. Il pericolo poi anche via mare: sempre a
Taranto una serie di inchieste hanno testimoniato un commercio di immondizia che –
impacchettata nei container – viene spedita in Cina e a Hong Kong. A Bari non molto
tempo addietro la Guardia di Finanza ha scoperto il contrario: sono state sequestrate
120 tonnellate di rifiuti speciali diretti in Italia dal Kosovo. La documentazione
parlava di scarti di piombo, invece sui tir sono stati scoperti frigoriferi e batterie piene
zeppe di liquidi e gas inquinanti. Le indagini sono ancora in corso: si sospetta un giro
di rifiuti internazionali gestito dalla malavita italiana che lucrerebbe anche sui fondi
comunitari.
E’ il metodo della Camorra che qui in Puglia, dicono gli investigatori campani,
avrebbe messo in tempo gli occhi sul sub appennino dauno: terreni incolti e lontani
dai controlli; roprietari compiacenti e morfologia perfetta per nascondere quello che
non si deve vedere; tanti gli anfratti e le cave abbandonate. Infine c’è sempre la
32
possibilità di spalmare sui campi i fanghi tossici: è successo, prima che intervenisse
la magistratura, per tanti anni nella Murgia, avvelenando le coltivazioni di grano con
ferro e nichel.
*
Altamura(Bari): 67 mila abitanti, città col record delle violazioni edilizie (2300).
Da quella città trasmette, tra le altre la Radio “Regio Stereo”, il suo direttore,
conduttore da 15 anni del programma quotidiano ‘La Cronaca’, è Alessio Dipalo.
La radio va bene, finché non decide di mettere il naso nello smaltimento dei rifiuti. I
temi che Dipalo affronta ogni giorno sono di quelli che scottano, soprattutto in
Puglia. Dipalo si occupa di sversamento dei fanghi sulla Murgia, di inquinamento da
scarichi di depuratori misti e fanghi tossici. E della discarica Tradeco, una delle più
grandi d’Italia, che raccoglie un milione di metri cubi di rifiuti e che, secondo Dipalo,
sarebbe un centro di potere e una ‘agenzia’ di collocamento dei politici al termine del
loro mandato.
Un susseguirsi di coincidenze strane, di minacce, avvertimenti e aggressioni subiti dal
giornalista, finiti nelle mani della Dda di Bari.
Il 2005 il Consiglio comunale, all’unanimità, approva una delibera che chiede a
Procura, Questura e Prefettura di monitorare l’attività dei mezzi di informazione
locale: unico nome indicato Radio Regio Stereo.
Un atto senza precedenti censurato dall’Ordine dei Giornalisti che finisce al
Parlamento Europeo in un’interrogazione.
Il 15 settembre 2005 altro caso unico in Italia e in Europa, Radio Regio Stereo viene
chiusa dai giudici di Bari per due mesi con l’accusa di diffamazione aggravata a
seguito di querele presentate dal titolare della Tradeco, senza che il giornalista
venisse interrogato. Tante querele, non una condanna e mai un interrogatorio, il
primo il 16 febbraio 2007 quando Dipalo è stato sentito dal Pm della Dda di Bari per
violenze subite.
Voce cristallina Dipalo va avanti nonostante la trasmissione venga frequentemente
interrotta dall’arrivo una volta dalla Guardia di Finanza, un’altra volta dai Carabinieri
e un’altra volta ancora dalla Polizia Urbana che ispezionano, perlustrano lo studio
lasciando attoniti i suoi ospiti. Molti collaboratori della Radio ricevono avvertimenti.
I titolari delle attività commerciali, che tengono in vita la Radio con la pubblicità,
consigliati a strappare i contratti.
Il 15 luglio del 2006 Dipalo viene aggredito, due costole rotte, sotto casa da due
pregiudicati dopo che il 2 e il 3 luglio aveva mandato in onda la registrazione di un
dibattito a cui aveva partecipato assieme al collega del Corriere della Sera Carlo
Vulpio, svoltosi il 29 giugno sulla discarica Grottelline, 500 mila metri cubi con
possibile ampliamento a Spinazzola, provincia di Bari, autorizzazione già firmata dal
Presidente della Regione su un sito archeologico neolitico, scoperto dall’Università di
33
Pisa, contratto per la gestione aggiudicato alla Tradeco per 17 anni. La Procura di
Trani apre un’inchiesta.
Intanto, di uno dei due aggressori, Biagio Genco, si sono perse le tracce. Mentre
l’altro, Laterza, poco dopo l’arresto è divenuto collaboratore di giustizia.
Il 9 febbraio 2007 l’auto di Dipalo viene incendiata sotto casa.
Dipalo da giornalista scomodo diventa giornalista in pericolo. Il 17 febbraio 2007 Il
Sindaco di Altamura ha chiesto che venga protetto.
Dipalo dal microfono della sua radio commenta: <<Trovo paradossale che il Sindaco
crei le condizioni e i presupposti per le mie inchieste e poi chieda che venga
scortato>>. E aggiunge: <<E pensare che per vedere riconosciuto un diritto, la
caratterizzazione della discarica (collaudata nell’87) per sapere cosa c’è dentro e la
capacità di non inquinare, che avrebbe dovuto fare il Sindaco, abbiamo dovuto
promuovere una petizione raccogliendo 5 mila firme e ancora stiamo aspettando che
il Sindaco firmi il provvedimento>>. (28)
Le indagini avviate dalla Dda di Bari sull’ipotizzato intreccio tra mafia, politica
e affari ad Altamura si concentrano anche sul presunto inquinamento ambientale
prodotto da una mega-discarica di rifiuti solidi urbani e sull’elevato numero di
ammalati di neoplasie.
Nell’inchiesta condotta dal pm della Dda e dai carabinieri del reparto operativo di
Bari, vengono ipotizzati i reati di associazione mafiosa, corruzione, abuso e falso.
Oltre all’analisi di una serie di atti amministrativi, gli accertamenti riguardano, per la
verità allo stato embrionale , anche la natura dei rifiuti smaltiti dalla discarica della
Tradeco di Altamura. In base alle testimonianze finora raccolte e agli atti acquisiti,
sarebbe emerso che nel circondario di Altamura vi sia un elevato numero di persone
ammalate di tumore. Già nel 2004 la Asl Bari/3 aveva diffuso dati sul triennio
1998/2000: sulle 4.565 persone morte in tutta la zona (per tutte le cause), i morti per
tumore erano stati 1.097, cioè un quarto del totale. Addirittura nella fascia d’età fra i
35 e i 59 anni i tumori erano la prima causa di morte.
Tuttavia, al momento è assolutamente non provato che il decesso o l’insorgere di
malattie sia stato provocato da fattori di inquinamento ambientale. Già nel 2005
l’associazione “Senza rete” aveva segnalato al Sindaco di Altamura che nella falda
sotterranea della discarica Tradeco, l’Arpa aveva rilevato livelli di manganese e ferro
<<166 volte superiori ai limiti di legge>>. (28)
Sempre la Tradeco. In qualsiasi territorio ti sposti, naturalmente tra quelli in cui
compare la sua gestione dei rifiuti, la trovi invischiata in fatti certamente non limpidi.
Prendiamo il Comune di Minervino Murge, in provincia di Bari. Quattro
funzionari pubblici e tre amministratori della Tradeco sono accusati di falso
ideologico e frode nelle pubbliche forniture.
A tanto giunse il Procuratore di Trani il 23 maggio 2007 al termine di due anni di
indagini condotte insieme al nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di
Bari.
34
Che cosa accadeva nella ridente cittadina: il servizio di raccolta non veniva realizzato
oppure avveniva in maniera del tutto irregolare. Eppure i funzionari del Comune non
solo non applicavano le penali previste dal contratto, ma anzi attestavano che il
servizio veniva realizzato in maniera soddisfacente, consentendo alla società Tradeco
di Altamura di riscuotere le competenze previste dal contratto di appalto.
I funzionari erano: il segretario e direttore del Comune, Leonardo Mazzone; il
dirigente del settore Lavori pubblici Riccardo Miracapillo; quello del settore
Urbanistica Raffaele Moretti e dell’Ufficio tecnico Vincenzo Turturro; i due
amministratori unici succedutisi nella gestione Tradeco, Vincenzo Fiore e Vincenzo
Moramarco e il responsabile di gestione della stessa società Leonardo Zagariello.
E’ bene precisare che questa inchiesta è solo una parte di quella più generale sulla
realizzazione e sulla gestione della raccolta differenziata a Terlizzi attraverso
l’isola ecologica. L’impianto però non è stato mai realizzato, ma dal Comune di
Terlizzi la Tradeco, la società assegnataria dell’appalto, avrebbe comunque riscosso
per quattro anni quasi 300mila euro quale corrispettivo di un servizio mai eseguito.
Per questo motivo beni immobili per un valore di quasi 30mila euro vennero
sequestrati dalla Guardia di Finanza di Molfetta su disposizione del gip del Tribunale
di Trani nel novembre 2006. A maggio 2007 il pm chiuse le indagini a carico delle
tredici persone, tra gestori e dipendenti della Tradeco e responsabili del settore
Polizia Municipale e Ufficio Tecnico del Comune di Terlizzi indagate – a vario titolo
– per reati che vanno dalla truffa aggravata in danno di ente pubblico, al falso
ideologico in atto pubblico, dalla turbata libertà degli incanti alla frode nelle
pubbliche forniture, dall’abuso di ufficio alla omessa denuncia di reato. Tra questi ci
sono ancora i nomi di due responsabili della Tradeco, Vincenzo Fiore e Vincenzo
Moramarco: e, tra gli altri, quelli dei dirigenti della Polizia municipale Luigi Bellino
e Giovanni Dicapua; del vicecomandante dei vigili Marino Santeramo; del dirigente
dell’ufficio tecnico Gennaro Casciello e del presidente della commissione che
aggiudicò l’appalto, Emanuele Piacente.
In pratica la Procura alla Tradeco imputa di aver indebitamente percepito dal Comune
somme per quasi 30mila euro, pur non avendo mai realizzato e gestito l’area
attrezzata con dispositivi hardware e con specifici software per la raccolta e la
selezione dei rifiuti. Il problema della mancata realizzazione e gestione dell’isola
ecologica veniva considerata per la prima volta dal Comune nell’agosto 2005,quando
il dirigente del settore Polizia municipale contestò alla Tradeco il fatto che le fossero
stati corrisposti 70mila euro nonostante l’isola non fosse stata mai realizzata. La
Tradeco si oppose immediatamente sostenendo di non aver potuto realizzare la
piattaforma ecologica in quanto il Comune soltanto nel maggio 2005 aveva
provveduto a indicare il sito in cui realizzare l’isola. La Tradeco inoltre faceva
presente che comunque il servizio c’era stato, perché i cittadini avevano comunque
potuto conferire i rifiuti in appositi container presso la propria sede. Questo servizio
però, secondo la procura di Trani, era diverso da quello di gestione dell’isola
35
ecologica multiraccolta per il quale la Tradeco si era impegnata contrattualmente nei
confronti del Comune di Terlizzi.
Ma non finisce qui. Quello dei rifiuti è un affare che non lascia in pace il
Comune di Altamura.
I carabinieri del Noe tra il 9 e l’11 aprile 2008 hanno consegnato una richiesta di
acquisizione, firmata dal pm antimafia. Nel mirino l’incartamento della discarica di
via Laterza, aperta nel 1985 e chiusa pochi giorni prima della visita dei militari
dell’Arma. Argomento rovente per la politica locale.
Una querelle a colpi di annunci e di manifesti. Da una parte si informa che dal primo
aprile i rifiuti di Altamura sono smistati a pagamento nelle discariche di Andria e
Conversano. Il solo trasporto della immondizia costa 150mila euro al mese, otto volte
quanto previsto dal piano regionale. Uno scandalo, secondo questa parte, perché la
ditta incaricata effettua lo stesso servizio gratuitamente nei Comuni vicini. (28)
La procura antimafia indaga sui rifiuti pugliesi. E più in particolare, come
accennevamo, sulla discarica privata di Altamura chiusa a marzo 2008 per
esaurimento, dopo 22 anni di attività. Anche se va ricordato che a coordinare il tutto è
lo stesso pm antimafia che nel 2006 diede le mosse ad una analoga inchiesta, nella
quale si ipotizzava un intreccio malavitoso all’ombra della discarica di Altamura e
per la quale risultano tuttora indagati l’amministratore delegato della Tradeco, Nicola
Riccaldo, e un ex amministratore della stessa società, il tributarista barese Marco
Preveri.
Con tutta probabilità – ma è solo una ipotesi – le due inchieste sono collegate. E a
collegarle è l’improvviso impulso che il pm sembra aver dato anche all’inchiesta del
2006, nell’ambito della quale, in aprile, i carabinieri del Noe (Nucleo operativo
ecologico) hanno sequestrato numerosi atti, tutti riferiti al contratto che lega il
Comune di Altamura alla Tradeco; alla società che gestisce la raccolta e lo
smaltimento dei rifiuti solidi di Altamura e di tanti altri comuni del barese e non solo;
alla società che dal 1985 sino al 31 marzo 2008 ha gestito una megadiscarica ad
Altamura sulla quale si sono susseguite decine di inchieste e che in tanti – non solo
gli ambientalisti – hanno indicato come un sito all’interno del quale sono stati
ammassati rifiuti di tutti i tipi; alla società che, ora, non avendo più una discarica sul
posto e in virtù del contratto richiamato dal sindaco Stacca, incassa dal Comune di
Altamura circa 5.000 euro al giorno per trasportare i rifiuti a Conversano; alla società
che, in associazione con altre, tra le quali spicca quella che fa capo al neopresidente
di Confindustria, Emma Marcegaglia, avrebbe dovuto realizzare (tra gli altri in
Puglia) anche l’impianto di biostabilizzazione in località Grottelline a Spinazzola;
sito prescelto dall’Ato (Autorità territoriale ottimale) del bacino Bari 4, il cui
presidente è proprio il sindaco di Altamura, Mario Stacca; sito al quale l’Ati-Gogeam
(così si chiama l’associazione temporanea d’imprese della quale fanno parte anche la
Cisa di Massafra e l’Ecomaster Atzwanger di Udine) il primo aprile 2008 (il giorno
dopo la chiusura della discarica di Altamura) ha deciso unilateralmente di sospendere
i lavori (motivazione ufficiale: si sono accorti della presenza in loco di rifiuti di non
36
precisata provenienza; rifiuti che, invece, almeno la Tradeco, proprietaria del sito,
avrebbe dovuto conoscere, visto che si tratta di quelli sversati nel 1995 dalla stessa
società per conto del Comune di Spinazzola).
Ce n’è abbastanza quanto meno per capire il perché di tutto questo. Non foss’altro per
spiegare ai cittadini contribuenti qual’è la ragione per cui il Comune di Altamura
debba accollarsi un costo aggiuntivo di 5.000 euro al giorno solo per il trasporto dei
rifiuti. <<In un mese – denuncia il consigliere comunale di Altamura Enzo Colonna –
si spendono centocinquantamila mila euro in più soltanto per il trasporto. Quando
l’intero servizio rifiuti, tra raccolta e smaltimento, viene a costare 550mila euro al
mese. Un assurdo se si pensa poi che la stessa azienda, la Tradeco, effettua il
servizio di trasporto gratuitamente per il comune di Cassano>>.
L’inchiesta dell’antimafia di Bari sulla discarica di un Comune barese si estende. Nel
mirino degli investigatori finiscono la Provincia di Bari, la Regione e l’Ato, tutti
quegli enti cioè che hanno in qualche modo contribuito all’iter autorizzativo e
burocraticon nella storia della discarica: i carabinieri del Noe (Nucleo Operativo
Ecologico) hanno già acquisito tutte le carte. Nella prima informativa inviata dai Noe
alla Procura ci sono i nomi e i cognomi di coloro che nell’apparato burocratico in
qualche maniera sono entrati nell’affare della discarica: si tratta di una trentina di
persone all’incirca, divise tra i vari uffici. Coinvolti nella vicenda ci sono pure tutti
gli amministratori e gli ex amministratori di tutti i comuni del bacino, tutti centri cioè
che in questi anni hanno utilizzato la discarica di rifiuti solidi urbani della Tradeco.
L’antimafia sarebbe stata interessata perché gli uomini del Noe sospettano che la
malavita organizzata sia intervenuta nei rapporti tra le aziende e la politica. Rapporti
che non riguarderebbero soltanto la gestione della discarica ma anche una serie di
affari paralleli, legati principalmente alle speculazioni edilizie. Il primo filone
d’indagine nasce nel 2006 e fa riferimento esclusivamente al traffico illecito dei
rifiuti. A un certo punto nell’indagine vengono fuori strani possibili collegamenti con
la malavita, anche non locale.
Nel frattempo si susseguono all’infinito le proroghe per l’utilizzo dell’impianto da
parte della Provincia, nonostante la discarica avrebbe dovuto essere chiusa già da un
pezzo.
Ce n’è abbastanza per scandagliare anche sulle responsabilità pregresse.
(28)
Ma non indietreggia Alessio Di Palo, che si definisce la voce libera della città.
Quando la trasmissione cult di Radio Regio, intitolata ‘La cronaca’ non va in onda, il
centralino telefonico dell’emittente va in tilt. Perché gli ascoltatori vogliono sapere se
sia successo qualcosa al conduttore. E lui deve tranquillizzare il suo pubblico.
L’apprensione è d’obbligo dopo che il direttore della radio è stato malmenato,
bruciata l’auto e sottoposto ad una serie incredibile di consigli (di tutto questo
abbiamo già raccontato).
Fatto sta che i racconti di Dipalo rappresentano una delle colonne portanti
dell’inchiesta della Dda di Bari, su un ipotetico comitato d’affari in grado di gestire il
37
business dei rifiuti, condizionare le scelte della politica, decidere il destino di una
città. Per molti chiacchiere. Qualcuno pensa di no. A cominciare dal magistrato
titolare dell’inchiesta che ha ascoltato per un paio d’ore. Dipalo ha fornito
spiegazioni, ha consegnato documenti, ha denunciato episodi. Secondo lui la
‘monnezza connection’ esiste. A dire la verità ha anche collezionato una serie
consistente di querele.
<<Di tutto di più>>, dice il radiocronista. Che conserva di tutto. Dai ritagli dei
giornali alle trascrizioni delle sue trasmissioni. Linguaggio colorito e pittoresco. Ma
diretto. Inevitabilmente si attira simpatie e antipatie. Le prime fanno lievitare
l’audience dell’emitente, le seconde gli creano qualche problema serio, come
abbiamo visto. Denuncia inevitabile. <<I miei guai sono iniziati da quando ho
denunciato le irregolarità dell’affare rifiuti. I miei aggressori li ho riconosciuti. Uno
è Gino Genco, personaggio emergente della malavita, caso di lupara bianca ancora
da risolvere. L’altro si è trasformato in collaboratore di giustizia, Angelo Laterza.
Venne bloccato con una mitraglietta Skorpion mentre doveva eliminare un boss di
Gravina. Ma anche chi sono stati i mandanti, i registi occulti>>.
Nella vicenda spunta un altro personaggio. Svanito nel nulla anche lui. Si chiama
Paolo Loiudice. <<I parenti sostengono sia irreperibile da mesi – dice ancora il
grande accusatore – per una serie di debiti. In realtà è scomparso. Cosa sapeva?>>
Il Sindaco di Altamura, da parte sua, sta mettendo a punto un dossier che di giorno in
giorno, anzi di minuto in minuto, diventa sempre più voluminoso.
La questione è delicata. Molto delicata. Non foss’altro perché è stato convocato dalla
Procura antimafia di Bari per essere ascoltato come “persona informata sui fatti”,
nell’ambito di una inchiesta in cui si ipotizza un intreccio politico-imprenditorialmalavitoso all’ombra del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti di quella città.
Ma mentre ad Altamura come a Gravina, Santeramo, Minervino, Cassano, Spinazzola
e Poggiorsini è già iniziato il toto-indagati (in tanti si concentrano soprattutto nella
lettura dei nomi che hanno materialmente prodotto nelle varie fasi i contratti che
legano ogni singolo ente comunale alla Tradeco), il Sindaco Stacca si sente
tranquillo.
<<Io – va ripetendo – sono stato il sindaco che più di tutti si è battuto per la chiusura
della discarica di Altamura. Non ne posso più di sentirmi al centro di attacchi di
ogni tipo. Non ne posso più, ad esempio, di essere addittato come colui che ha
contribuito a far aumentare il numero degli ammalati di tumore. Se responsabilità ci
sono, vanno trovate altrove>>. Ci tiene soprattuto a rendere pubblico un telegramma
del 18 marzo 2006. Un telegramma nel quale Stacca, insieme con il dirigente
comunale del servizio Ambiente, arch. Giovanni Buonamassa, <<chiede a svariate
autorità regionali>> (tra gli intestatari ci sono persino la Procura della Repubblica di
Bari e i carabinieri del Noe) un <<immediato intervento di verifica e monitoraggio
dei pozzi spia e dei pozzi di approvvigionamento idrico limitrofi alla discarica di
rifiuti solidi urbani in Altamura contrada ‘Le Lamie’, gestita dalla ditta Tradeco, e
di eventuali altre fonti di inquinamento connessi alla discarica>>.
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Il Sindaco sotolinea l’ultimo capoverso: <<Si precisa che è necessario procedere alla
verifica del progetto della discarica e alla verifica della quantità e della qualità dei
rifiuti smaltiti>>.
Il Sindaco, quindi, non solo si chiama fuori da ogni responsabilità, ma chiama lui
stesso in causa chi, a suo dire, avrebbe potuto e dovuto intervenire già due anni fa. E
cioè tutti coloro che, in un modo o nell’altro, hanno avuto competenze in materia. (28)
Per un’informazione obiettiva, riportiamo quanto Nicola Riccaldo e Marco Preverini,
rispettivamente amministratore delegato e presidente del C.d.A. della Tradeco srl
hanno scrito in una comunicazione alla Procura di Bari: <<I sottoscritti hanno
appreso dalla stampa di essere indagati per reati gravissimi, tra i quali addirittura
l’associazione mafiosa, che in presenza di gravi indizi imporebbero l’emissione di
provvedimenti cautelari personali. Sempre dalla stampa (in particolare: La
Repubblica-Bari del 22 maggio 2008), hanno appreso che nei giorni scorsi vi
sarebbe stato un “..blitz dei carabinieri del Noe al comune di Altamura e negli uffici
della Tradeco..” finalizzato ad acquisire la documentazione inerente tutti gli appalti
affidati a quest’ultima società. Non è dato sapere chi abbia diffuso notizie e perché,
né se le circostanze riferite siano vere; considerato che dell’inchiesta si parla, più o
meno a sproposito, da quasi un anno, ci pare superfluo sottolineare lo stato d’animo
dei sottoscritti (e delle famiglie). Con la presente, in ogni caso, i sottoscritti oltre a
nominare gli avvocati....., manifestano stupore per la gravità delle accuse,
assolutamente infondate, e dichiarano di essere pronti a rendere qualsiasi
chiarimento sul loro operato. Sono peraltro disponibili a consegnare
spontaneamente tutta la documentazione necessaria all’indagine a semplice richiesta
degli inquirenti, inclusa quella relativa alla discarica in contrada ‘Le Lamie’.
Confidano, pertanto, che l’indagine si possa concludere al puù presto>>. (28)
L’indagine dell’antimafia si sta concentrando anche su una serie di lottizzazioni,
perché il gruppo Columella, proprietario della Tradeco, ha anche molti affari
nell’ambito dell’edilizia. I carabinieri del Noe hanno acquisito tutta la
documentazione in Comune e la stanno esaminando. Nel frattempo i carabinieri,
insieme con il pm, hanno già sentito (e continueranno a farlo) una quindicina di
amministratori comunali (tra consiglieri ed assessori) in carica e non. Tra gli altri è
stato ascoltato anche un commerciante, che non ha mai ricoperto alcun incarico
politico, ma che nel 2006 presentò un ordine del giorno sulla presunta incompatibilità
di un consigliere rinviato a giudizio per un reato urbanistico. A tutti hanno chiesto
spiegazioni sui contratti siglati dalla Tradeco: in particolare stanno studiando il
contratto di raccolta e trasporto dei rifiuti siglato dalla precedente amministrazione
comunale.
Gli investigatori poi stanno esaminando anche il caso dell’ipermercato (78mila metri
cubi) che la società Setra, riconducibile alla famiglia Columella, dovrebbe realizzare
nelle campagne di Altamura.
(28)
Intanto il 19 giugno 2008 otto sindaci dei comuni della Murgia barese si sono dimessi
dall’Assemblea del’Ato (Ambito territoriale ottimale) Bari 4, e in un ordine del
39
giorno hanno chiesto entro, e non oltre 48 ore, formali rassicurazioni dal commissario
delegato, dalla regione Puglia e dalla Provincia di Bari, in ordine al rispetto dei tempi
di consegna ed ultimazione dei lavori di realizazione dell’impianto complesso delle
<<Grottelline>>.
Nell’ordine del giorno si chiedono anche <<formali impegni da parte di tutte le
istituzioni, affinché assicurino l’erogazione delle somme necessarie per far fronte ai
maggiori costi sopportati dai comuni di Altamura, Gravina in Puglia, Poggiorsini e
Santeramo in Colle per il conferimento dei rifiuti solidi urbani presso le discariche di
Andria e Conversano, a far data dal 1 aprile 2008 e per tuto il periodo di durata di tale
evenienza>>.
(28)
*
L’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, ribattezzata
“Chernobyl”, relativa allo sversamento su decine di terreni in Campania di un milione
di tonnellate di fanghi industriali provenienti dall’attività di quattro dipendenti, ha
interessato anche la Puglia. Foggia e provincia in particolare. In due terreni, il primo
alla periferia della città in contrada ‘Posta’ e il secondo a Lucera, sono state
abbandonate tonnellate di composti. Tra i campi dove erano stati coltivati i pomodori.
I proprietari delle aziende foggiane, Achille Petito e Carmine D’Addona di Lucera,
sono tra i destinatari dei 38 provvedimenti di fermo richiesti dal pm il 4 luglio 2007.
L’accusa ipotizzata a carico degli indagati è associazione a delinquere finalizzata al
traffico illecito di rifiuti speciali e pericolosi, disastro ambientale, truffa aggravata e
frode nelle forniture.
Il compost (fertilizzante utilizzato in agricoltura quando i parametri sono nella
norma) era pericoloso e in qualche caso i fanghi contenevano anche cromo
esavalente, una sostanza particolarmente nociva per la salute. Sui terreni pugliesi
venivano anche sversati liquidi tossici provenienti dal porto di Napoli. I carabinieri
del Gruppo Tutela Ambiente di Napoli hanno, al termine delle investigazioni,
sequestrato quattro depuratori: Licola, sul litorale flegreo; Orta di Atella e
Marcianise, nel Casertano e Mercato San Severino in provincia di Salerno. In due
anni gli inquirenti hanno accertato che la “So.ri.eco” di Castelnuovo di Conza
(Salerno), la “Fra.Ma” di Ceppaloni (Benevento), la società “Agizza” di Napoli e
“Naturalmente” di Castelvolturno – le quali avrebbero dovuto trasformare i fanghi
prodotti dagli impianti di depurazione e di trattamento delle acque industriali in
“compost di qualità” per l’agricoltura – in realtà facevano risultare solo sulla carta
l’avvenuta raffinazione del prodotto. Analisi dell’Arpac, l’agenzia regionale campana
dell’ambiente , hanno certificato invece che quello che è stato venduto ad agricoltori
– e per il quale si è tentato anche di avere una certificazione della Coldiretti ottenendo
un parere in buona fede del settore ecologia della Provincia di Salerno sul fatto che il
compost poteva essere utilizzato in agricoltura – in realtà era fango altamente
inquinante che è stato sversato in territori campani e della provincia di Foggia.
40
In qualche caso l’organizzazione poteva anche contare sulla compiacenza di
proprietari terrieri di Foggia, che in cambio di denaro permettevano uno smaltimento
truffaldino. I fanghi pericolosi sono stati utilizzati anche per riempire le buche fatte
durante la costruzione di un metanodotto. (28)
*
All’inizio del 2008 i magistrati delle Direzioni distrettuali antimafia di Bari e
Lecce, che indagano sulle ecomafie, hanno alzato il tiro. Più controlli. La
preoccupazione è dei possibili strascichi criminali che in Puglia potrebbe avere
l’emergenza immondizia campana.
Gli impianti di Napoli e provincia hanno i fari puntati addosso: molte delle discariche
sotto assedio sono o sono state direttamente gestite dalla camorra. La malavita ha
perciò la necessità di smaltire quella roba da qualche altra parte e in maniera rapida.
La Puglia, vicina geograficamente e negli affari sarebbe una delle location migliori.
La Direzione Investigativa Antimafia (DIA), sulla Puglia, nella sua informativa
scrive: <<In alcuni casi le investigazioni hanno dimostrato che le società preposte
allo smaltimento dei rifiuti pericolosi si limitano ad una trasformazione degli stessi
in modo puramente nominale e cartaceo, formando falsi certificati di analisi, e lo
smaltimento finale avviene su terreni non adibiti a discarica o addirittura in mare,
come registrato, nel primo caso, in provincia di Caserta e, per la seconda ipotesi, in
Puglia>>. Sversa in mare la malavita quindi. Oppure ammorba le campagne: i fanghi
della Murgia (il grano al piombo e al nichel sono ormai letteratura giudiziaria). La
nuova area individuata sarebbe per il foggiano e il sub appennino dauno: è proprio in
quella zona – non coltivata, difficilmente raggiungibile e dove la malavita locale può
offrire una buona base logistica – che si sarebbero concentrati gli appetiti della
camorra. Ed è proprio qui che le forze di polizia stanno alzando l’attenzione.
*
A Bari, invece, di ecomafia si occupa da tempo la Dda. Un’inchiesta, che
partendo da Altamura, toccherebbe rapporti, ne abbiamo fatto già cenno, tra
imprenditori dei rifiuti, politica e criminalità organizzata con epicentro proprio Bari e
provincia: associazione mafiosa, corruzione, abuso e falso i reati sui quali si sta
indagando.
Taranto invece il pericolo lo corre via mare: il porto, così come hanno
testimoniato una serie di inchieste, è crocevia di immondizia che – impacchettata nei
container – viene spedita in Cina e a Hong Kong. Non solo però: nel 2006 furono
arrestate 16 persone e denunciate 62, con l’accusa di aver ‘smaltito’ nel mare di
Taranto 90mila tonnellate di rifiuti altamente inquinanti. (28)
Anche per il Salento il settore del trattamento e smaltimento dei rifiuti, compresi
quelli speciali e pericolosi, non si sottrae agli appetiti dei gruppi criminali pugliesi,
almeno allo stato e in maniera circoscritta al suo meridione. Sono queste in sostanza,
41
le valutazioni che il Dott. Cataldo Motta, Procuratore Aggiunto, coordinatore della
Dda di Lecce, ha sostenuto nella audizione presso la Commissione d’inchiesta sui
rifiuti. In quella stessa occasione ha tenuto, inoltre e giustamente a precisare che ciò
comunque comporta l’esigenza della massima attenzione alle dinamiche delle
organizzazioni malavitose.
*
Per non accennare a quanto scoperto in Capitanata, sempre in tema di
smaltimento dei rifiuti, dove un famigerato clan risalente al Gaeta di Orta Nova
gestiva tranquillamente gli affari. E se il 24 settembre 2007 era stato il tempo degli
arresti, il 3 marzo 2008 diventa il giorno in cui colpire nel portafogli: 11 persone
ritenute proprietarie dei beni illecitamente acquisiti. Il gip di Bari, accogliendo le
richieste del pm della Direzione distrettuale antimafia di Bari, ha disposto il
sequestro preventivo di 121 beni mobili e immobili e di 14 società e/o cooperative.
E tanto per apprezzare la consistenza dell’illecito arricchimento dei clan elenchiamo i
beni sequestrati: 38 terreni per complessivi 465 mila ettari per un valore di 352 mila
euro; 20 appartamenti per complessivi 82 vani e un valore di un milione e 582 mila
euro; 10 magazzini-garage per un valore 110 mila euro; una masseria per un valore
200 mila euro; un capannone-magazzino per un valore di 800 mila euro; 29 auto per
264 mila euro; 4 “fuoristrada” per un valore di 46 mila euro; 2 moto del valore di 13
mila euro; un trattore; 5 autocarri per un valore di 325 mila euro; 15 semirimorchi del
valore di 126 mila euro; un autobus del valore di 10 mila euro. Ci sono poi 6 imprese
individuali (due autosaloni, una per lavorazione di pasta fresca, una per la
coltivazione di cereali; una per coltivare ortaggi); 3 società cooperative (una per
coltivare e conservare ortaggi); una coop agricola per la lavorazione e trasformazione
di prodotti agricoli; 3 società a responsabilità limitata (due per la vendita di auto, la
terza per il commercio all’ingrosso ed al dettaglio di prodotti ortofrutticoli); una
società in accomandita semplice per la lavorazione di prodotti agricoli. (4)
*
Sempre in Capitanata, l’inchiesta dei carabinieri, della polizia provinciale e della
Procura di Foggia, sfociò il 28 giugno del 2006 nel blitz “Rabits” con l’arresto di 9
persone, ruotava intorno alla <<Ecofertil>>, una ditta, anch’essa di Orta Nova, che
riceveva a pagamento rifiuti da varie zone d’Italia per trattarli e trasformarli in
concimi organici (il cosiddetto <<compost>>). Secondo l’impostazione accusatoria
invece i rifiuti sarebbero stati versati nei campi della ditta Ecofertil così come li
riceveva, senza alcun trattamento e lucrando sui costi per il mancato
<<compostaggio>>.
In attesa di giudizio ci sono 24 persone di Orta Nova, Foggia, Manfredonia, Bari e
Campania. Si tratta di amministratori e dipendenti dell’impresa che produce e vende
concimi organici ricavati dai rifiuti; di chimici, titolari e amministratori di ditte di
42
trasporti incaricate di trasportare e sversare i rifiuti, di proprietari di terreni che
sarebbero stati utilizzati come discariche abusive.
L’accusa contestata a sette persone è di associazione per delinquere, c’è poi una serie
di violazioni di legge in materia ambientale. L’accusa ipotizza il traffico illecito di
rifiuti, la gestione di rifiuti pericolosi per la presenza di oli minerali e metalli pesanti;
e ancora si sostiene che i rifiuti ricevuti non sarebbero stati sottoposti a regolare
processo di compostaggio per trasformare in fertilizzante i fanghi di depurazione di
acque reflue e industriali; che alcuni rifiuti ricevuti non potevano comunque essere
avviati a compostaggio per la loro tipologia.
Nell’ottica accusatoria si tratterebbe di un affare illecito, nell’ordine di milioni di
euro. Sempre secondo l’accusa la Ecofertil, che aveva la capacità di trattare 12mila
tonnellate di rifiuti ogni anno, tra il 2004 e il 2005 avrebbe invece ricevuto 130mila
tonnellate di rifiuti, smaltendone oltre 110mila. Il che avrebbe comportato un
guadagno nell’arco di due anni superiore ai 5 milioni di euro, <<eludendo i costi
richiesti dall’effettivo compimento delle operazioni di recupero>>.
Il compostaggio consiste nel trasformare i fanghi di depurazione di acque reflue e
industriali in fertilizzante venduto per terreni agricoli. Un procedimento che dura 90
giorni con i rifiuti miscelati con altre sostanze (paglia, segatura, raspi d’uva) per
ricavarne concime. Secondo la tesi accusatoria la Ecofertil, invece di trasformare i
rifiuti in concime, si sarebbe limitata a sversare i rifiuti ricevuti in vari campi del
basso Tavoliere, senza alcun procedimento di compostaggio. (16)
*
Inoltre a Taranto, sempre sul traffico di rifiuti pericolosi, da due anni vede
nell’occhio del ciclone quattro aziende.
A conclusione dell’udienza preliminare, il 17 marzo 2008, è stato disposto il rinvio a
giudizio di tre indagati. Si tratta di Alessandro Etrusco, direttore dello stabilimento di
Taranto della Sanac (società del gruppo Riva), Salvatore Iodice, rappresentante della
Min srl (con sede a Faggiano) e Domenico Donvito, rappresentante legale delle due
società, anche queste con sede a Faggiano, la Sct e la Cpm.
Secondo l’accusa, le aziende finite tutte sotto sequestro hanno dato vita ad una specie
di circuito nel quale rifiuti classificati come “speciali” e “pericolosi” venivano in
parte riutilizzati e in parte smaltiti illecitamente.
I residui della lavorazione dell’acciaio (materiale ferroso e refrattario) che la Sanac
riceveva dall’Ilva, da quanto emerso dalle indagini della Guardia di Finanza,
venivano trasferiti nelle altre aziende nelle quali si recuperavano per poi inviarli
nuovamente alla Sanac che in parte li riutilizzava e in parte li smaltiva inviandoli allo
stabilimento di Cagliari.
Un sistema ideato per risparmiare sui costi di smaltimento ma, sempre secondo
l’accusa, con grave pericolo per la salute pubblica e dei lavoratori, questi ultimi molto
probabilmente ignari dei rischi che correvano.
43
Nel procedimento si sono costituiti parte civile il Comune di Taranto e due dipendenti
della Sanac. Non si è costituita, invece, la Provincia.
I tre indagati sono stati rinviati a giudizio. Devono rispondere di violazione della
normativa ambientale. (5)
*
Il porto di Bari, inoltre, potrebbe essere il crocevia di traffici illegali e
internazionali di rifiuti speciali. La conferma arriva dalle indagini della procura di
Bari che tra gennaio e febbraio 2008, ha sequestrato in otto occasioni camion carichi
di centinaia di tonnellate di alluminio e di batterie esauste per auto. Le batterie,
provenienti dal Kosovo, erano dirette a un impianto salentino; gli altri rifiuti erano in
uscita con destinazione Bulgaria. La procura ipotizza il reato di traffico
internazionale di rifiuti e spedizione transfrontaliera. Nel registro degli indagati sono
stati iscritti cinque autisti macedoni bloccati alla guida dei camion ricchi di rifiuti. Il
sospetto è che oltre alle batterie (prive di involucri e non bonificate) e all’alluminio,
esportati all’estero dove sarebbero utilizzati come materia prima dopo presunti
trattamenti di recupero, ci siano anche fanghi di depurazioni provenienti dal Nord
Italia che avrebbero passato la frontiera di Bari con destinazione Bulgaria dopo essere
stati classificati come concimi.
Le indagini sono state avviate dopo controlli casuali dai quali è emerso che, fino
all’autunno 2007, dal porto di Bari non era transitato alcun rifiuto. Dato questo che ha
destato qualche sospetto. In procura è stata quindi creata una task force nella quale al
personale della Dogana e alle forze di polizia sono stati affiancati i tecnici dell’Arpa.
Sono cominciati i primi sequestri. Il primo è stato un carico di circa 120 tonnellate di
alluminio e di batterie per autoveicoli (anche pesanti) prive dell’involucro, accatastate
su cinque camion che dal Kosovo erano destinate ad un impianto salentino che
avrebbe trasformato il piombo contenuto nelle batterie, in pallini.
Successivamente è stato sequestrato un carico di batterie diretto in Grecia e da qui in
Bulgaria. Fino a fine febbraio sono stati bloccati altri camion carichi sempre di
batterie.
Il team di esperti ora in servizio alla Dogana di Bari ha potenziato i controlli e ad
ogni carico di rifiuti o materiale sospetto viene esaminata attentamente la
documentazione per verificare se dietro quel trasporto si celi in realtà materiale molto
più pericoloso rispetto a quello che risulta dalle carte. (13)
*
Una discarica abusiva in prossimità dell’abitato di san Pietro Vernotico, in
contrada ‘Pallitica’, è stata sequestrata, nei primi giorni d’aprile 2008, dagli uomini
della Guardia di Finanza della tenenza della cittadina. All’interno dell’area sono state
trovate circa dodici tonnellate di rifiuti classificati pericolosi.
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C’era praticamente di tutto, dall’amianto, al ferro e plastica, dai rifiuti agrochimici
agli imballaggi contenenti residui di sostanze pericolose e pneumatici.
Vi sono indagini allo scopo di individuare i responsabili.
La vicinanza della discarica, appena individuata, all’insediamento urbano, al di là
della classificazione dei rifiuti rinvenuti, costituisce un ulteriore rischio per la salute e
l’incolumità delle persone. Per questo si auspica che l’area sia al più presto
bonificata.
Spesso si tende a disfarsi dei rifiuti appena fuori dal perimetro urbano, in maniera
selvaggia ed incontrollata, creando così vere e proprie discariche abusive sotto casa.
Un fenomeno incontrollato ai danni dell’ambiente e delle persone, a fronte del quale
solo l’intervento delle forze dell’ordine , con sequestri e denunce, pone un freno.
Negli ultimi anni attorno all’abitato di San Pietro Vernotico sono stati individuati
diversi siti trasformati in discariche a cielo aperto, su cui non si può di certo escludere
l’interesse della malavita seppure non comprovata. Alcune sono di notevoli
estensioni, come quella sequestrata a ridosso di contrada ‘Artisti’. Tuttavia è la
campagna sempre più punteggiata di mini discariche abusive a testimoniare come
l’abitudine a disfarsi dei rifiuti in maniera incontrollata è sempre forte. Per fortuna
l’attenzione delle forze dell’ordine nei confronti di questa incivile usanza è sempre
maggiore. Lo dimostra l’ultimo sequestro a cui abbiamo fatto riferimento. (28)
*
In due distinte operazioni di polizia ambientale ad Altamura il 15 aprile 2008
sono stati sequestrati due terreni agricoli su cui si erano formate delle discariche.
Un fondo agricolo di 10 mila metri quadrati è stato sequestrato in un’operazione
congiunta del Corpo forestale del Coordinamento territoriale di Parco Alta Murgia e
del Comando di polizia municipale. Sul terreno veniva effettuata la raccolta e
gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi e non: autoveicoli fuori uso, macchinari
e apparecchiature deteriorate ed obsolete, parti di veicoli nonché dei rifiuti di varia
natura e genere. Quattro persone, tra gestori della discarica e proprietari dell’area,
sono stati denunciati per violazione delle norme del testo unico dell’ambiente e
dell’edilizia nonché delle norme relative al trattamento dei veicoli fuori uso.
Le forze dell’ordine hanno accertato che l’attività di trattamento dei rifiuti veniva
effettuata su un terreno nudo, privo di platea impermeabile per la raccolta di oli e
liquidi con pericolo di grave danno all’integrità ambientale per l’inquinamento di
suolo, sottosuolo ed acque superficiali.
L’altro sequestro è avvenuto ad opera dei carabinieri per l’ambiente del Noe (Nucleo
operativo ecologico). Si tratta di un’area di circa 131 mila metri quadrati, divenuta
una discarica abusiva di rifiuti ad opera di ignoti. I carabinieri del Noe di Bari hanno
riscontrato infatti la presenza di inerti da demolizione, amianto, rifiuti plasticoferrosi, nonché di carcasse di pecore in avanzato stato di decomposizione
abbandonati da ignoti. Denunciati i proprietari. (28)
45
*
Maxisequestro di pet coke effettuato dai carabinieri del Noe di Lecce. I militari
hanno scoperto, il 24 maggio 2008, nel deposito che si trova nell’area del porto di
Taranto, circa 16mila tonnellate di pet coke (un sottoprodotto della lavorazione
petrolifera che può contenere alti valori di elementi cancerogeni) importato dagli Stati
Uniti e destinato alla miscelazione con carbone fossile per la produzione di coke
siderurgico.
Il valore del pet coke sequestrato si aggira intorno ai due milioni di euro.
Denunciato dai carabinieri il legale rappresentante dello stibilimento dell’Ilva, Luigi
Capogrosso, per aver effetuato deposito di pet coke su area priva di autorizzazione
allo smaltimento nel sottosuolo di acque di dilavamento, per assenza di
autorizzazione alle emissioni in atmosfera e per gestione illecita del rifiuto
destinandolo ad un impiego diverso da quello previsto.
Il sequestro effettuato dai carabinieri è al vaglio dell’Autorità giudiziaria.
A dicembre, sempre i carabinieri del Noe di Lecce e gli uomini della Dogani di
Taranto, hanno sequestrato 6mila tonnellate di pet coke nel deposito dell’Italcave e
destinato a delle aziende di Milano.
Il pet coke è un sottoprodotto che si ottiene da un processo di raffineria (coking) che
trasforma frazioni petrolifere pesanti in prodotti leggeri più pregiati.
In base alle caratteristiche iniziali di tale processo si otengono coke diversi che
possono avere utilizzi diversi, in particolare possono essere usati come combustibile
nell’industria o negli impianti di produzione di energia.
Ha un elevato contenuto di zolfo e metalli pesanti per cui il suo utilizzo come
combustibile è dannoso per l’ambiente. Le recenti normative hanno permesso
l’utilizzo del prodotto come combustibile. Tuttavia, se il prodotto non risponde a
specifiche caratteristiche è da considerarsi un rifiuto speciale. (28)
*
Nove tonnellate di rifiuti speciali pericolosi sono stati trovati dalla Guardia di
finanza di Lecce il 26 maggio 2008 nelle campagne di San Donato. In un terreno di
31 mila metri quadri diverse persone avrebbero gettato scarti tossici di ogni tipo, dal
materiale plastico a rottami auto, pneumatici e vernici. E’ stato proprio dai controlli
effettuati su un commerciante di vernici di Copertino che le fiamme gialle sono
riuscite a risalire alla ‘destinazione finale’ degli scarti che, anziché seguire il normale
ma più costoso iter previsto dalla legge, seguivano invece la strada delle campagne
abbandonate del Salento. Tra rovi e sterpaglia si gettava di tutto e chi lo faceva non si
preoccupava neppure di coprire le tracce che pure lasciava, imprudenza per diverse
persone che ora rischiano una pesante denuncia, come quella già formulata a carico
del commerciante di Copertino.
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Purtroppo il fenomeno dei rifiuti nocivi abbandonate in discariche improvvisate non è
isolato: dall’inizio dell’anno 2008 in provincia di Lecce la Guardia di finanza ha
sequestrato 7 aree abusive per oltre 178 mila metri quadrati, mentre 49 sono state le
persone denunciate.
In azione anche il Corpo forestale dello Stato. In località Le Mude, nel Comune di
Morciano di Leuca, è stata posta sotto sequestro una superficie di terreno estesa circa
800 mq e denunciato il proprietario del terreno.
Sulla zona, sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale, era stata realizzata, in
assenza di autorizzazione, una discarica abusiva mediante lo spianamento, il
livellamento del declivio naturale del terreno, per un’altezza media di 2 metri circa, e
l’accumulo con materiale proveniente presumibilmente da demolizioni edili (pilastri
di cementoarmato, pavimenti, conci di tufo, lastre di eternit) ed elettrodomestici in
disuso ed anche con terra e materiali provenienti da scavi sempre di terreno. (28)
*
L’indagine sullo stato delle acque nei comuni dell’unione “Terre d’Oriente”
rivela una situazione di grave inquinamento della falda. In particolare, è proprio
l’area più pregiata, quella della costa hydruntina a presentare le maggiori criticità.
L’inquinamento, infatti, è di tre tipologie diverse: salinizzazione, agenti chimici
provenienti dai fertilizzanti usati in agricoltura e colibatteri fecali. Insomma è
un’acqua inutilizzabile anche solo per irrigare e che potrebbe provocare gravi danni
sia alle colture che alla salute umana. Tale gravissima situazione è causata
direttamente dalle attività umane, infatti si nota un miglioramento dei dati nella
stagione invernale ed un peggioramento in quella estiva. La salinizzazione, invece,
rivela che in molti casi la falda entra in contatto diretto con la costa assorbendo acqua
dal mare. Un duplice problema, quindi, che può mettere in ginocchio l’intera
economia del luogo che, nella zona di Otranto, si regge sul turismo e sull’agricoltura.
Proprio dall’agricoltura altamente specializzata che si pratica ad Otranto, infatti,
provengono un gran numero di occupati. Le “barbatelle” di Otranto sono note in tutta
Italia ed anche all’estero, ma nulla è stato fatto per portare tale preziosa risorsa verso
una maggiore sostenibilità.
Dal rapporto su ‘agenda 21 locale’ emerge che ad Otranto si utilizza una quantità di
fertilizzanti chimici enormemente superiore ad ogni altro centro del Salento. L’analisi
compiuta ora dall’Università del Salento rivela che tali agenti chimici usati in
agricoltura penetrano nella falda avvelenandola. La stessa ricerca evidenzia i rischi
connessi a tale situazione che – è utile sottolinearlo – si aggrava proprio nel periodo
in cui ci sono numerosissimi turisti: diffusione di malattie a trasmissione oro-fecale
quali febbre tifoide, epatite A, salmonellosi non tifoidee, diarrea infettiva ed altre.
Ciò crea un rischio serio per la salute, in quanto proprio d’estate si consumano frutta
e verdure crude, abitudine alimentare direttamente connessa, ad esempio, in relazione
al consumo crudo dei prodotti. Uno dei dati correlati a tale inquinamento, ad
esempio, rivela che, per quel che riguarda la febbre tifoide, i dati relativi al 2001-
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2005 indicano nel Salento tassi di incidenza di tale patologia pari al 12,11 su 100.000
abitanti contro il 10,94 della Puglia e addirittura al 2,91 presente a livello nazionale.
La Commisione Ambiente della Provincia di Lecce ha già in agenda un incontro con i
sindaci interessati, in particolare con quelli di Otranto ed Uggiano i cui depuratori, in
estate, appaiono ancora insufficienti. Tuttavia, il dato è di quelli che fanno molto
riflettere, perché si somma ad una situazione deficitaria anche per quel che riguarda
la raccolta differenziata che ad Otranto è al 3,7 per cento ed al numero veramente
esiguo di aziende che si sono riconvertite all’agricoltura biologica. Insomma nel
silenzio totale delle associazioni ambientaliste del territorio, una grave forma di
inquinamento, quella delle falde acquifere, rischia di bloccare lo sviluppo della zona
che ha raggiunto importanti traguardi in campo turistico proprio vantandosi della sua
qualità ambientale. Insomma, gli agriturismo e le strutture che scaricano in falda, il
carico antropico, l’uso smodato di agenti chimici in agricoltura, l’insufficienza dei
depuratori e l’inesistenza della differenziata (che andrebbe effettuata soprattutto nelle
strutture turistiche) potrebero distruggere il nome che nel campo turistico la città
Otranto si è faticosamente conquistato.
La situazione generale della falda acquifera nei comuni delle Terre D’Oriente, ed in
particolare ad Otranto è, come abbiamo visto, critica, ma non irreversibile, almeno
per quanto assicurano i tecnici che hanno effettuato lo studio. In particolare, per quel
che riguarda l’inquinamento chimico. Il professor Francesco Paolo Fanizzi presidente
della Società Chimica Italiana sezione Puglia, spiega che <<la situazione non è
affatto irreversibile e lo studio segnala anche elementi positivi come l’assenza di
metalli pesanti. L’inquinamento chimico, del resto, comprende una serie vasta di
elementi e qui tale inquinamento è molto relativo. Ci sono soprattutto – continua
Fanizzi – ammonio e nitrati elementi che vanno collegati ai pozzi neri a perdere ed
all’attività agricola. In particolare, abbiamo visto che l’inquinamento di ammonio
aumenta d’estate quando si riempiono le case coloniche di turisti ed in primavera
per colpa dei concimi. Ma la fortuna è l’assenza di metalli pesanti quindi basterebbe
mettere a norma gli impianti fognari, magari creare condotte sottomarine e soluzioni
simili, ciò del resto va fatto in tutto il Salento, Infine, occorre il monitoraggio
continuo della risorsa che è, tra l’altro, un bene preziosissimo>>.
Soluzioni percorribili, dunque, che salverebbero l’avvelenamento della falda ed il suo
degrado. Lo conferma anche la dottoressa Antonella De Donato, la quale spiega il
fatto che <<la situazione possa migliorare lo indicano gli stessi risultati. Ad esempio,
il dato sulla salinizzazione delle acque indica un eccessivo emungimento dai pozzi,
basterebbe controllare i prelievi ed attendere il ‘tempo di ravvenamento’, basterebbe
monitorarli e tenerli sotto controllo per evitare tale fenomeno. Allo stesso modo,
basterebbe controllare il corretto uso dei pozzi neri per evitare che inquinino la
falda, occorre intervenire con controlli e sensibilizzazione>>.
Il punto è proprio qui, basti pensare che solo due aziende su centinaia a Otranto usano
sistemi alternativi, come l’esempio della ‘Grotta dei Cervi’ a Badisco che ha la
48
fitodepurazione ad impatto zero e Masseria Montelauro che usa la sub-irrigazione.
Esempi virtuosi che dovrebero far scuola, si spera, nell’immediato futuro. (28)
*
Spuntano dappertutto nascoste, alcune più, altre meno, tra gli ulivi secolari:
sono sempre di più le discariche abusive a cielo aperto che deturpano i diversi angoli
della campagna copertinese. Restano immutate, tranne quando qualcuno non
contribuisce con il proprio gesto di inciviltà ad aumentarne la quantità di rifiuti già
presente; nessuno che da palazzo ‘Briganti’ si adoperi con interventi di bonifica
nonostante l’allarme ambiente cresca di giorno in giorno. Quali le strategie
dell’amministrazione per limitare la continua crescita dei siti inquinanti? Quali le
figure preposte al controllo successivo alla bonifica? Quante le denunce? Neanche a
fronte di cittadini che a novembre 2008 rinunceranno a parte del raccolto d’olive,
perché a ridosso di un’altra discarica già più volte denunciata, si è aperto un tavolo di
discussione sull’argomento. Tanto nonostante la ‘percentuale di successo raggiunta
dalla raccolta differenziata’ le discariche abusive continueranno ad esistere, come se
queste non rappresentassero comunque una cocente sconfitta in tema di rifiuti.
Ecco spuntare l’ennessima ‘bomba ecologica’ in un’altra area della zona industriale
di Copertino, non lontana dall’isola ecologica della società Multiservizi: sacchetti di
spazzatura sparsi ovunque a ridosso del ciglio della strada comunale, rottami di auto,
frigoriferi, televisione, materiale elettrico, edile e di risulta, carcasse fatiscienti di
mobilia, bidoni arruginiti, resti di cassette di frutta in plastica, batterie d’auto, pezzi di
pneumatici, lamiere per arredamenti da esterno, pezzi di materasso e voluminosi
sacchi di rifiuti perfettamente annodati che si offrono ogni giorno alla vista di quanti
si recano al lavoro, ma anche abitano, nei pressi della zona industriale. Impossibile
descrivere il lezzo nauseabondo che proviene da quei rifiuti, che si accentua con
l’aumento delle temparature estive, che rende l’aria irrespirabile ad ogni cambio di
vento e che attira nugoli di insetti. Inutile far presente la pericolosità delle lastre di
eternit sparse lungo quel ciglio della strada: la discarica abbonda di fogli di amianto
scaricati tra il resto dei rifiuti. Questo è solo quanto però emerge ad un primo
sguardo, perché con una tale quantità e varietà di rifiuti, non si può non supporre
anche un inquinamento del sottosuolo. Si era parlato di potenzialità progettuali su
territorio comunale intendendo ampliare le attività svolte proprio nell’ambito
Ambiente e Territorio: tra i potenziali servizi gestibili c’era proprio il monitoraggio
ambientale a seguito delle opportune e quanto mai sempre più necessarie bonifiche
dei siti, ma gli evidenti risultati sono del tutto scoraggianti se ancora, dopo un anno di
raccolta differenziata porta a porta è possibile imbattersi in simili montagne di rifiuti.
(28)
*
Comune di Trani e Amiu ancora inadempienti: la discarica per i rifiuti solidi
urbani di contrada Puro Vecchio, che può ospitare fino a 1,5 milioni di metri cubi di
immondizia ed è al servizio di cinque Comuni, non ha ancora l’impianto di raccolta
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del biogas, che se non raccolto risulta altamente pericoloso. E così la Procura, dopo
ben due sequestri preventivi dell’area con facoltà d’uso disposti tra il 2005 e il 2006,
ritorna a interessarsi della questione, acquisendo la relativa documentazione negli
uffici di Comune, Amiu, Ato, Provincia di Bari e Regione Puglia. L’acquisizione è
stata effettuata dai carabinieri del Noe di Bari, su disposizione del pm, al fine di
accertare perché degli impianti non c’è traccia. Per la verità, secondo quanto disposto
dall’amministrazione commissariale l’anno scorso, doveva essere l’Amet (l’altra
società comunale che si occupa di elettricità e trasporti) a realizzare e gestire
l’impianto di captazione del biogas per trasformarla in energia elettrica. Ma quella
disposizione commissariale è rimasta lettera morta, mentre nel frattempo la discarica
si è di molto ampliata con l’entrata in esercizio del terzo lotto autorizzato dall’ex
commissario per l’Emergenza ambientale Nichi Vendola.
Il Comune, che condivide la proprietà dell’area con l’Amiu (la società comunale per
la raccolta e lo smaltimento di rifiuti solidi urbani, che gestisce la stessa discarica),
sta cercando di correre ai ripari. L’Amministrazione cercherà di portare nel Consiglio
comunale del 16 giugno 2008 la delibera per poter bandire la gara di affidamento dei
lavori per l’impianto di biogas. La realizzazione degli impianti di captazione del
biogas era tra le prescrizioni imposte dalla Procura quando, nel marzo 2006,
accosentì il dissequestro della discarica (i sigilli erano stati apposti nel maggio 2005
dal gip del Tribunale), che all’epoca comprendeva solo due lotti. Ma nel giugno
successivo arrivò un altro sequestro del gip, motivato dal presunto inquinamento
della falda acquifera, ma anche perché i gas che si sviluppavano (non raccolti dagli
opportuni impianti) avrebbero potuto dare origine a combustioni ed esplosioni e
generare l’inquinamento dell’aria. Da allora nulla è cambiato, mentre la discarica si è
ampliata e anche i rifiuti smaltiti. (28)
*
Nella notte del 31 maggio 2008, a Monteroni (Lecce) è andata in fiamme la
spazzatura, ad opera di ignoti. A fuoco in tutto cinque contenitori dei rifiuri sistemati
in due diverse zone del paese. In un caso, sono state bruciate tre ‘campane’ piazzate
tra le vie cittadine per il riciclo dei rifiuti e nell’altro, invece, sono andati distrutti due
cassonetti. I contenitori di proprietà della società ‘Ecotecnica’ che gestisce il servizio
di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani e che ha dichiarato oltre 3mila euro di
danni. Scartata, fin da subito, l’ipotesi di incendio accidentale o autocombustione, sia
per la concomitanza dei due eventi e sia per la notevole lontananza dei luoghi in cui
sono avvenuti.
Il gesto, quindi, di chiara natura dolosa, giunge all’indomani della presentazione del
servizio di raccolta differenziata ‘porta a porta’ messo a punto dall’amministrazione
comunale e che prenderà il via dal 16 giugno. Su questo doppio incendio doloso
indagano i carabinieri della Stazione di Monteroni, al lavoro per capire se dietro il
gesto sconsiderato si nasconda solo la bravata di qualche scriteriato o, invece, si celi
qualcosa di più come, ad esempio, un messaggio intimidatorio o altro ancora.
Comunque qualche elemento utile potrebbe giungere dalla visione dei filmati delle
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telecamere del ‘Pon sicurezza – Progetto Grottella’ che tengono sottocchio diverse
zone nevralgiche della cittadina. (28)
*
Un uomo di Noicattaro (Bari) di 29 anni è stato arrestato il 1° giugno 2008 e
posto ai domiciliari dai carabinieri di Triggiano per associazione a delinquere
finalizzata al traffico illecito di rifiuti. Tra l’ottobre del 2005 e il mese di gennaio del
2006, avrebbe messo su, in concorso con altre persone, un’organizzazione criminale
che trafficava illecitamente rifiuti, anche pericolosi, per 2.648 tonnellate.
In particolare il 29enne, impiegato e socio di due ditte, in più occasioni e in varie
località della Calabria, della Campania e del Lazio, collaborava nell’avviare ingenti
quantità di rifiuti speciali in Estremo Oriente e in Europa per un giro d’affari
complessivo di 397mila euro. (28)
*
Con l’accusa di disastro ambientale, traffico illecito di rifiuti e una serie di
violazioni in materia ambientale i carabinieri del Noe di Bari e del Comando
Provinciale di Foggia, nell’ambito dell’operazione <<Black river>> il 4 giugno 2008
hanno arrestato e posto ai domiciliari 12 persone tra imprenditori, direttori dei lavori,
titolari di ditte di autotrasporti e di frantumazione e agricoltori. Altre 5 persone sono
indagate a piede libero. Le ordinanze di custodia cautelare sono del gip del Tribunale
di Foggia, in parziale accoglimento delle richieste del pm (quest’ultimo chiedeva 17
arresti domiciliari). Sequestrati anche 42 camion utilizzati per il trasporto e scarico
dei rifiuti.
Scaricando abusivamente 500mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi ed è stata
così realizzata vicino Castelluccio dei Sauri (Foggia) – accanto al torrente Cervaro e
con il letto del fiume trasformato in strada sterrata percorsa dai camion – una mega
discarica abusiva di oltre 5 ettari, posta sotto sequestro dall’agosto 2007. Si è di
fronte – dicono carabinieri, pm e gip – a un disastro ambientale per rimediare al quale
ci vorebbero opere di bonifica del costo di 315milioni di euro.
Il profitto – secondo l’impostazione accusatoria – è nei 2milioni e mezzo di euro che
la <<Agecos>> di Rocco Bonassisa, titolare delle ditta vincitrice dei lavori di
ampliamento della discarica di Deliceto e principale indagato del blitz, ha risparmiato
evitando di mandare quei rifiuti pericolosi in siti dove dovevano essere trattati e
smaltiti. <<Avviare il tutto ad una discarica autorizzata – scrive il gip nel
provvedimento di cattura – avrebbe fatto lievitare i costi, tanto da assorbire l’intero
contributo di 2 milioni fornito dalla Regione, e indebitare la società>>. Gli indagati
respingono le accuse. In conferenza stampa il Procuratore della Repubblica di Foggia
ha rimarcato: <<Giusto per dare l’idea di cosa parliamo, la Procura di Napoli ha
recentemente rubricato un disastro ambientale per 58mila tonnellate di rifiuti, qui a
Castelluccio dei Sauri la cifra è 10 volte superiore>>.
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Siamo al paradosso di <<produzione di rifiuti a mezzo di rifiuti che ha prodotto una
delle più devastanti metamorfosi del territorio a seguito della creazione di una
vastissima area di discarica abusiva>>, come scrive il gip nelle 32 pagine
dell’ordinanza di custodia cautelare, rimarcando il danno provocato. <<Nel letto del
torrente Cervaro sono state realizzate – aggiunge il giudice – vere e proprie “opere
di urbanizzazione” costituite da rampe di accesso, strada e sistema di
coinvolgimento delle acque del fiume per rendere agevole ai camion l’accesso
all’area destinata a essere adibita a deposito di rifiuti>>. Rifiuti altamente inquinanti
e pericolosi vista la presenza di solventi, idrocarburi, benzene, come accertato dalle
analisi disposte dalla Procura.
Proprio l’andirivieni quotidiano di camion dalla discarica in costruzione di Deliceto a
Castelluccio dei Sauri – circa 6 chilometri – allertò i carabinieri nell’aprile 2007.
Arrivavano i mezzi, spesso privi di documenti di trasporto, scaricavano il terriccio e
ripartivano. Quel materiale di scavo – dice l’accusa – proveniva dalla nuova discarica
che “Agecos” e “Cornacchini” stavano costruendo a Deliceto, a sette metri dalla
vecchia struttura ormai satura. Ma il materiale interrato, stratificato e ricompattato
con ruspe a Castelluccio dei Sauri non era affatto semplice “terreno di scavo”, come
avrebbe certificato falsamente un chimico ora indagato a piede libero. Sono invece
rifiuti pericolosi secondo le analisi disposte dal pm, in quanto il terreno scavato era
inquinato dal percolato, sgocciolato dalla vecchia discarica, situata a soli sette metri
dalla nuova struttura in via di costruzione. Peraltro – è stato detto in conferenza
stampa – i contratti con le ditte di trasporto per lo scarico del materiale di scavo
prevedevano la consegna dei rifiuti in siti di Foggia, non certo nell’area di
Castelluccio dei Sauri. (28)
Le parole scritte dal gip, nell’ordinanza di custodia cautelare, sono pesantissime. Il
giudice parla d’inchiesta che <<ha per oggetto una delle più devastanti metamorfosi
del territorio, a seguito della creazione di una vastissima area di discarica abusiva
su un’ansa del Cervaro>>, là dove il letto del torrente è stato spianato per crearvi una
strada sterrata per facilitare l’accesso dei camion. (28)
Su tutto questo sorgono dei dubbi sul come è possibile che le autorità si siano accorte
del cratere di immondizia con tanto ritardo. Eppure il via vai di camion
indispensabile per colmare la discarica abusiva avrebbe potuto sollevare sospetti. A
questi interrogativi risponde il colonnello Gennaro Badolati, comandante del Noe, in
un intervista, rilasciata il 6 giugno 2008 al Corriere del Mezzogiorno, il quale parte
da alcune precisazioni: la discarica abusiva, scavata in un territorio assolutamente
fuori dai grandi traffici, era stata posta sotto sequestro nel luglio 2007, praticamente
tre mesi dopo l’entrata in funzione. Questo grazie al comandante della stazione di
Castelluccio, nel cui territorio è stato scavato il cratere che ha deviato il fiume
Cervaro e che si era accorto dell’intenso traffico di camion. Insomma, onore al merito
del maresciallo Luigi Raffele, perché se le forze dell’ordine fossero arrivate in ritardo
la discarica sarebbe stata irriconoscibile. <<E’ stata costruita con un’astuzia
incredibile – racconta il colonnello – praticamente studiando a tavolino la
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morfologia del territorio per ingannare nel modo migliore le autorità di controllo
che di fronte si sarebbero trovati un semplice terreno>>.
Tutto parte dalla discarica di Deliceto, a 7 chilometri di distanza, dove, come negli
altri siti, la pressione dei rifiuti indifferenziati, non selezionati, crea del liquido
inquinante che deve essere stoccato in siti adatti. Gli autori della truffa, però, hanno
Anche la Legambiente nutre qualche dubbio sulla tempistica delle operazioni sulla
discarica perché mancano i controlli in sede locale, del resto i carabinieri, il Corpo
forestale, la Guardia di finanza non possono oggettivamenente controllare tutto. (28)
*
Per l’Italia è in arrivo una nuova procedura d’infrazione in materia di rifiuti da
parte della Corte di giustizia europea. E questa volta la regione accusata è la Puglia,
responsabile, secondo la Ue, del mancato rispetto delle procedure relative al rilascio
della valutazione d’impatto anbientale dell’inceneritore di Massafra, nel tarantino. La
Commissione europea ha annunciato il 5 giugno 2008 l’invio al governo italiano di
una lettera di costituzione in mora (primo avvertimento formale della nuova
procedura di infrazione), e <<in caso di un’ulteriore inadempienza – precisa la Corte
europea – lo Stato membro potrebbe incorrere in un’ammenda>>.
La struttura massafrese che potrebbe far pagare una forte ammenda allo Stato italiano
appartiene all’Appia Energy, una Spa controllata per il 51% dal Gruppo Marcegaglia
(attuale presidente nazionale di Confindustria)e per il 49% dalla Cisa
dell’imprenditore tarantino Antonio Albanese. Il termovalorizzatore, in funzione da
quattro anni, produce ogni anno dai rifiuti 72 milioni di Kilowattora. L’interesse
dell’Unione europea per le infrazioni amministrative riscontrate nelle procedure
autorizzative dell’impianto in questione, risale al 2001.
Allora la Commissione chiese chiarimenti al governo italiano per il mancato
procedimento della Via all’impianto Appia Energy. Il ministero dell’Ambiente
italiano fece presente che l’infrastruttura, per carateristiche e finalità, godeva di
speciali deroghe. Il 30 maggio del 2006, però, le conclusioni dell’avvocato generale
Damaso Ruiz Jarabo Colomer stabilì l’inapplicabilità di quelle deroghe ed invitò le
autorità italiane a procedere al rilascio della valutazione ambientale. Nel frattempo la
regione Puglia si era attivata in tal senso e a luglio del 2007, come conferma
l’imprenditore Albanese, <<fornisce il certificato Via alla Appia Energy. Per le
autorità Ue, però, <<una valutazione dell’impatto a posteriori dell’incerenitore non
garantisce un’efficace consultazione dell’opinione pubblica come richiesto dalla
direttiva europea>>. Per questo Bruxelles ha deciso di inviare all’Italia <<una lettera
di costituzione in mora (primo avvertimento) ai sensi dell’articolo 228 del Trattato
Ue, che si applica quando uno Stato membro non ha dato piena esecuzione a una
sentenza della Corte di giustizia europea>>. La Regione, da parte sua, assicura di
aver provveduto a sanare la sentenza della Corte europea relativa all’inmpianto di
Massafra, con la presentazione a Valutazione di Impatto Ambientale di quello
stabilimento e che, a fronte delle nuove osservazioni della Commissione europea,
53
relative a un deficit di partecipazione (osservazioni pubbliche su progetti presentati),
ha chiesto alla società proprietaria dell’impianto, un atto integrativo per evitare il
protrarsi dell’infrazione. (28)
*
Sequestrato il depuratore comunale di Soleto (Lecce) gestito dall’Acquedotto
pugliese. I sigilli sono stati messi il 7 giugno 2008 dai carabinieri della locale
Stazione e del Nucleo operativo ecologico per l’inquinamento ambientale. Dalle
indagini è emerso che ci siano degli sversamenti di acque reflue nella falda idrica il
che potrebbe comportare dei problemi per la salute dei cittadini se le acque dovessero
entrare nella catena alimentare.
Il sequestro sarà sottoposto al vaglio del pubblico ministero e del giudice delle
indagini preliminari di turno per le convalide. Come è avvenuto in altri casi analoghi,
è previsto il ricorso a periti per stabilire quale sia il grado di inquinamento ambientale
che le soluzioni da adottare per la bonifica.
Quanto alle responsabilità, se ne profilano in capo agli amministratori di Soleto ed ai
dirigenti dell’Acquedotto, ma se dovranno emergere lo stabilirà il pubblico ministero
a cui sarà assegnato il fascicolo. (28)
*
Non era certo nascosta, o alla periferia più estrema della città. Era lì all’ingresso
del Villaggio artigiani con tanto di cartello che indicava che era vietato scaricare i
rifiuti. Dal 7 giugno 2008 un’area di oltre 5500 metri quadrati trasformata in discarica
abusiva è sotto sequestro. A mettere i sigilli i carabinieri del Nucleo operativo
ecologico di Bari che hanno sequestrato il cantiere edile adiacente alla discarica, un
suolo di 650 metri quadrati dove dovevano sorgere numerosi locali commerciali, box
per auto, abitazioni e magazzini. I carabinieri hanno denunciato 6 persone, dirigenti e
dipendenti delle imprese coinvolte nei lavori con l’accusa di concorso in traffico
illecito di rifiuti.
Nell’area adiacente al cantiere le imprese hanno riversato ingenti quantitativi di
rifiuti, la maggior parte costituiti da terra e roccia presumibilmente proveniente dallo
scavo. Non solo tutto ciò era illegale, secondo i carabinieri, visto che quella non era
un’area destinata allo smaltimento dei rifiuti. Ma, dopo una serie di controlli, i
carabinieri hanno accertato che la società a cui erano stati affidati i lavori di
costruzione degli immobili era in possesso di un permesso illegittimo, ovvero
sprovvisto dei documenti attestanti la caratterizzazione dei rifiuti prodotti.
L’importo complessivo delle due aree poste sotto sequestro si aggira intorno al
milione di euro. Come sia stato possibile che tutto ciò accadesse in una zona
trafficatissima è come sempre un mistero. Ora l’amministrazione comunale corre ai
ripari.
54
Intanto la discarica abusiva dovrà essere bonificata, e per questo serviranno
finanziamenti ad hoc. (28)
*
Oltre 300mila metri quadrati, buona parte dei quali ricoperti di montagne di
eternit e altri rifiuti, sembra sostanze chimiche, tutti altamente pericolosi.
L’ecomostro è un ex cava del Comune di Torre Santa Susanna (Brindisi), dismessa
da oltre un decennio, parcellizzata e venduta, è stata sequestrata l’8 giugno 2008 dai
militari della Guardia di finanza di Francavilla Fontana. Secondo quanto accertato, la
discarica abusiva, al confine tra Torre ed Erchie, conterrebbe circa 5mila tonnellate di
rifiuti speciali. In particolare, una quantità enorme di eternit malridotto, di materiale
plastico, di carcasse di elettrodomestici, soprattutto frigoriferi. Ma a destare maggiore
allarme sono state alcune zone nelle quali sono stati trovati depositi di liquidi
sospetti, forse solventi, in notevole quantità. Si teme possa trattarsi di rifiuti tossici.
E’ quanto i tecnici dell’Arpa di Brindisi dovranno accertare al più presto.
L’indagine è durata oltre un mese. Non è stato facile individuare gli attuali sette
proprietari che, naturalmente, sono stati denunciati. Dovranno rispondere di reati
ambientali.
Le discariche con rifiuti speciali sono un fenomeno molto diffuso nel Brindisino,
sostengono gli investigatori, intanto perché trasportare e smaltire il rifiuto pericoloso
ha un costo elevato, inoltre i siti deputati alla raccolta sarebbero in numero ridotto.
Ma è evidente che l’aspetto economico incide in modo significativo sulla scelta di
percorrere la via dell’illegalità.
I Baschi verdi hanno scoperto anche depositi immensi di materiale riveniente da
demolizioni e scavi. A questo proposito, è stato ipotizzato che possa provenire dai
lavori in esecuzione nelle aree vicine. Cantieri in piedi per la realizzazione di villette
e capannoni. Sospetti cui si sta cercando di trovare conferme. Molto di quel materiale
è stato trovato sotterrato. Gli operai, con molta probabilità, sempre secondo gli
investigatori, scaricavano i camion nella cava e poi ricoprivano tutta la terra per dare
l’impressione che potesse essere materiale calcareo. (28)
*
Doveva essere una zona protetta anche perché fa parte del Parco Nazionale del
Gargano e da anni gli ambientalisti ci stanno realizzando zone di popolamento della
Gallina Prataiola.
Così la Polizia Provinciale nel corso dei controlli ha trovato tre cave tufine di
Manfredonia, abbandonate da alcuni anni, che erano diventate una grande discarica
illegale a cielo aperto.
Nel corso delle indagini della Procura di Foggia i tecnici dell’Arpa hanno effettuato
diversi prelievi sia per verificare la pericolosità o meno di molti dei rifiuti trovati
nella discarica abusiva ma, soprattutto, per accertare se il materiale depositato nella
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discarica abbia già inquinato il terreno circostante che, oltre a rientrare nel Parco
Nazionale del Gargano, è di particolare pregio dal punto di vista naturalistico. (28)
Il Parco del Gargano non lo hanno lasciato mai tranquillo. L’11 giugno 2008 il
Tribunale del riesame di Foggia ha disposto il sequestro preventivo di beni di Marco
Scaramella, imprenditore napoletano e personaggio dai mille volti; Matteo Fusilli , di
Monte Sant’Angelo, ex presidente del Parco del Gargano e Matteo Rinaldi, pure di
Monte, ex direttore del’ente Parco e di un professionista che avrebbe comunque
svolto un ruolo marginale. Sono indagati a vario titolo per truffa, abuso e falso in
relazione alla modalità di conferimento dell’incarico a Scaramella, da parte dell’ente
parco, titolare della Eccp, un’agenzia che si occupava di “crimini ambientali” con
sede a Washington e una rappresentanza a Napoli.
La magistratura ritiene che sarebbe stato omesso di verificare i requisiti prima di
affidare l’incarico.
Scaramella puntò direttamente su Peschici con ruspe e pale meccaniche per demolire
gli imobili abusivi costruiti su aree demaniali. Il tutto sotto l’occhio dei carabinieri a
difesa del funzionario del Ministero delkl’Ambiente, aveva ricevuto l’incarico di
buttare giù fabbricati realizzati a Foce Varano, Rodi Garganico, Peschici e Vieste.
Tutto ciò nel 2003. Due delibere finite nel mirino della Procura di Foggia e dei
carabinieri del Noe di Roma. La prima è datata giugno 2002, con cui l’ente parco
avrebbe liquidato 374mila euro a Scaramella – l’80% della somma gli sarebbe stato
dato prima dell’inizio dei lavori – per l’abbattimento degli immobili abusivi. Era una
cifra eccessiva dice la Procura: secondo il consulente dei pm quei costi non hanno
superato i 30mila euro, anche perché i rifiuti prodotti con l’abbattimento dei
manufatti non furono affatto smaltiti ma interrati nello stesso parco. La seconda
delibera per un incarico analogo affidato a Scaramella è del dicemkbre 2003 e
prevedeva il pagamento di 500mila euro, ma fu bloccata dalla nuova direttrice del
parco, subentrata a Rinaldi: per questo episodio la contestazione è di tentata truffa.
Come dicevamo il riesame di Foggia ha disposto il sequestro del conto corrente di
Scaramella (già interessato peraltro da un’analoga inchiesta della Procura di Bari); il
sequestro della quota del 50 per cento di Rinaldi di un immobile del valore di 50mila
euro; il sequestro della quota del 50 per cento di Fusilli di un immobile del valore
stimato in 150mila euro circa.
Solo per la cronaca. Il nome di Scaramella lo troviamo nell’intricato giro
internazionale che vide coinvolti addirittura il Kgb (il servizio segreto russo) e alcuni
politici italiani.
Il Governo italiano dell’epoca istituì una commissione di inchiesta, la nota Mitrokhin,
che in verità produsse più rumore che risultati concreti. Tra i consulenti della
commissione c’era lo stesso Mario Scaramella, il cui compito per gli inquirenti
sarebbe stato quello di produrre vario materiale allo scopo di screditare varie
personalità politiche, soprattutto in vista delle elezioni politiche italiane del 2006. (28)
56
Ma vediamo di conoscere meglio questo discusso ex agente 007 Mario Scaramella
(l’avvocato partenopeo, consulente di sicurezza salito alla ribalta internazionale per il
caso Mitrokhin, in seguito all’avvelenamento dell’ex agente russo Aleksandr
Litvinenko avvenuto a Londra il 23 novembre 2006 e rinviato a giudizio dalla
procura di Foggia con le accuse di truffa ai danni dello Stato e falso) negli anni 2002
e 2003 era di casa a Monte Sant’Angelo presso la sede dell’Ente Parco del Gargano
di via Sant’Antonio Abate. Già attivo al Parco Nazionale del Vesuvio, si era proposto
anche a Monte Sant’Angelo per l’abbattimento di opere abusive nell’area protetta del
Gargano, essendo a capo di un’organizzazione per la prevenzione di crimini
ambientali. In realtà quegli abbattimenti non sono mai stati eseguiti (se non
parzialmente) nell’area protetta, anche perché Scaramella non aveva né uomini né
mezzi per eseguire lavori così importanti. E’ la conclusione cui è giunta la Procura di
Foggia dopo lunghi mesi di indagini. Come si ricorderà negli anni 2002 e 2003 la
Eccp, società riconducibile appunto all’ex 007 napoletano, ricevette l’incarico dal
Parco del Gargano di esguire degli abbattimenti, a cui abbiamo già fatto cenno. Il
contratto fu formalmente assegnato alla Eccp, sefinita <<organizzazione
intergovernativa di diritto pubblico con sede a Washington Dc e rappresentanza a via
Vetriera a Chiaia n.12, Napoli>>. Insomma il solito sottoscala del Cinema Delle
Palme. Rappresentante legale dell’organizzazione Giorgia Dionisio, all’epoca
compagna di Scaramella in veste di “special assistant secretary general dell’Eccp”.
Si difende Fusilli. <<Fu dato un segnale molto netto, deciso, che doveva proseguire.
In seguito se ci sono stati vizi formali io non lo so, ma la questione mi era sempre
parsa come un’azione per il bene del Gargano e contro il dilagante fenomeno
dell’abusivismo>>. <<Noi all’epoca ci informammo e prendemmo contatti con il
Parco del Vesuvio, là dove un organismo riconosciuto aveva operato abbattimenti
anche a strutture di proprietà della camorra. Era un organismo di diritto quello di
Scaramella, partecipato dell’Università di Napoli. Scaramella era peraltro un
giudice onorario, nominato dal Csm, consulente di varie procure. E proprio su
queste basi si predisposero gli atti e le modalità per l’affidamento. Non si può oggi
delegittimare soltanto e non mettere in risalto questa azione dimenticando il contesto
in cui si agiva, si operava per il bene del Gargano>>. (28)
*
Centinaia di tonnellate di rifiuti derivanti da sottoprodotti di origine animale,
pericolosi per la salute e destinati ad essere smaltiti, venivano invece riutilizzati per
produrre concimi, fertilizzanti e addirittura prodotti per uso alimentare. E’ quanto
emerso grazie alle indagini del Corpo forestale dello Stato, che hanno portato ad
indagare dodici persone (sei di queste raggiunte da ordinanze di custodia cautelare,
sulle quali si dovrà però pronunciare la Cassazione) e al sequestro di automezzi,
stabilimenti di trasformazione dei sottoprodotti e mattatoi, nell’ambito
dell’operazione “Alto rischio”.
I particolari dell’indagine, durata oltre un anno e coordinata dal sostituto procuratore
di Lecce, sono stati esposti il 20 giugno 2008 in Procura, alla presenza anche del
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Procuratore capo di Brindisi. Secondo quanto rilevato dagli agenti forestali, i
sottoprodotti di origine animale di categoria 1, ad alto rischio infettivo e dunque
destinati allo smaltimento, venivano invece mischiati con quelli di categoria 3, per i
quali era previsto – dopo un opportuno processo di trasformazione – l’utilizzo come
concimi, fertilizzanti e mangimi.
Per gli inquirenti è impossibile quantificare con precisione il giro d’affari attorno al
quale ruotava la truffa. Di certo, erano molte centinaia di tonnellate di scarti che
venivano utilizzate in questo procedimento. La truffa, dunque, viaggiava su due
diversi piani: da un lato, l’abbattimento dei costi che si sarebbero dovuti sostenere per
un corretto smaltimento dei rifiuti, dall’altro il guadagno dato dalla produzione di
concimi e mangimi grazie anche a quegli stessi scarti. Un’attività estremamente
pericolosa, visto che in questo modo è stato possibile riutilizzare scarti animali ad
altissimo rischio infettivo. Gli indagati dovranno ora rispondere di associazione per
delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti.
Apparentemente l’iter che seguivano i sottoprodotti di origine animale pericolosi era
quello previsto dalla legge: arrivavano in un impianto di transito del salernitano, poi
trasferiti in un’azienda di Latina, dove venivano trasformati in farine animali,
destinate ai termovalorizzatori. Ma era solo un processo fittizio: in realtà, i
sottoprodotti pericolosi finivano in un impianto di Napoli, dove erano trasformati in
concimi, fertilizzanti e addirittura gelatine per uso alimentare.
Sono sei le aziende a cui l’autorità giudiziaria ha posto i sigilli. Tra queste vi
sarebbero attività della provincia di Brindisi (Francavilla Fontana). Chiusi anche tre
mattatoi, due a Lecce e uno a Bari.
L’operazione, condotta dai comandi di Brindisi e Lecce, ha riguardato non solo
aziende pugliesi, ma molte altre dislocate anche nel resto della penisola: sequestri e
perquisizioni hanno interessato ditte delle province di Napoli, Salerno, Latina e
Ravenna. E’ stato grazie alle intercettazioni telefonmiche e ambientali che le
indagini hanno subito un’accelerazione, permetendo di individuare i responsabili. (28)
*
Un allarme incendio, il 23 giugno 2008, ha impegnato per alcune ore le squadre
degli agenti del Comando Stazione Forestale di Gallipoli alle dipendenze del
Comando provinciale di Lecce, che sono intervenute nello spegnimento di un
incendio verificatosi in località “La Reggia – Torre Alto Lido”, agro del Comune di
Galatone, in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed idrogeologico.
Il fuoco ha devastato un’area di oltre 26 ettari di cui 12 di bosco di Pino d’Aleppo
(250 piante con diametri variabili da 20 a 50 centimetri e con un’altezza media di 7
metri) e 14 ettari di terreni saldi con presenza di roccia affiorante e pietre.
Segnaliamo la notizia perché si suppone che il fuoco abbia avuto inizio dal margine
stradale della litoranea che collega Lido Conchiglie a Santa Maria al Bagno per cause
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presumibilmente di origine dolosa, in considerazione anche del fatto che sono stati
rinvenuti alcuni resti di cumuli di rifiuti.
(28)
*
Cinque cave per l’estrazione del marmo e di altro materiale lapideo, estese su
una superficie totale di 24 ettari, fra Minervino Muge e Andria, sono state sequestrate
e 23 persone sono state denunciate da uomini del Corpo forestale dello Stato
appartenenti al coordinamento territoriale per l’ambiente di Altamura.
Le persone denunciate sono i titolari delle cinque imprese e gli esecutori materiali dei
lavori di estrazione, vietati essendo quel territorio zona di protezione speciale e sito di
importanza comunitaria, in quanto ricadente nel Parco dell’Alta Murgia.
Le indagini sono state coordinate dal pm della Procura di Trani. Il provvedimento
preventivo di sequestro è stato eseguito su disposizione del gip del Tribunale di
Trani.
Le cave sarebbero state realizzate senza autorizzazione, in violazione dei vincoli
ambientali e paesaggistici previsti per le aree protette e senza valutazione di
incidenza ambientale. L’Ente Parco, che rappresenta l’autorità amministrativa del
territorio, autorizza esclusivamente piani di recupero e coltivazione delle cave. (28)
*
Una vera e propria discarica a cielo aperto, rifiuti e scarti di ogni genere e
soprattutto resti in amianto ed ternit. Il tutto in pieno parco regionale, quella della
Palude del Conte e Duna Costiera di Porto Cesareo, zona sottoposta a vincolo
paesaggistico.
Non proprio uno spettacolo piacevole per i Cavalieri d’Arneo, gruppo che da tempo
opera sul territorio, la cui associazione è stata ufficializzata ad aprile 2008 e che vede
circa 25 persone, uomini e donne, provenienti dalle province di Lecce, Brindisi e
Taranto e da fuori impegnate a controllare, tutelare, preservare il territorio da attacchi
esterni, incuria e vandalismo.
Proprio durante uno dei tanti giri di perlustrazione i Cavalieri si sono trovati di fronte
la discarica, in località “Riva degli Angeli”, sulla Torre Lapillo-Torre Columena nei
pressi di un canale naturale. Da lì <<è subito partita la segnalazione agli organi
competenti, ad associazioni e amministratori – racconta uno degli associati – ma
niente. Da allora è passato oltre un mese ma ci hanno fatto spallucce, il problema
rimane irrisolto e la nostra attività viene vanificata>>.
Non solo, le sentinelle a cavallo si trovano quotidianamente a dover fronteggiare
musi lunghi e minacce velate da parte di quanti non vedono di buon occhio il loro
operato.
*
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Oltre cinquemila metri quadrati pieni di eternit, materiale plastico ed edile di
risulta, vetri rotti e addirittura qualche elettrodomestico. I militari del Comando
provinciale della Guardia di Finanza di Lecce hanno posto sotto sequestro un terreno
agricolo di Squinzano pieno di rifiuti pericolosi, e hanno proceduto alla denuncia di
una persona all’autorità giudiziaria.
La scoperta è stata fatta il 24 giugno 2008, quando gli uomini delle Fiamme gialle
hanno potuto appurare la presenza sul terreno di rifiuti speciali molto pericolosi. In
particolare, sono state le lastre sfaldate di amianto a destare la maggiore
preoccupazione.
Una vicenda del tutto simile a quanto accadde in maggio a San Donato, in una
discarica abusiva scoperta sempre dai militari della Guardia ndi Finanza: in quel caso,
grazie al particolare tipo di rifiuti abbandonati in un campo, fu possibile risalire ad
uno dei responsabili. (28)
*
Sembra che questa sarà un’estate calda per il territorio neretino. Dopo il grave
incendio che ha distrutto la zona della Sarparea, sono andati a fuoco vari ettari di
terreno distribuiti nell’immenso agro di Nardò. Incendi di origine dolosa, che destano
preoccupazione.
Gli episodi più gravi si sono avuti in una zona accanto alla pista ‘Gioppo kart’ e in
località Monteruga, al confine con Veglie.
Bruttissimo l’incendio che nel pomeriggio del 24 giugno 2008 ha distrutto il giardino
attorno ad una villa privata. Quasi un ettaro in fuoco, oltre al giardino con tutto il suo
arredo, molti alberi, per lo più pini, e due dipendance in legno e tegole.
Fortunatamente salva l’abitazione principale.
Dalla villa l’incendio si è propagato al recinto della pista di go-kart ‘Gioppo’,
distruggendo fra l’altro attrezzi di plastica e gomme conservate in un magazzino.
Nonstante il pronto intervento dell’Ispettorato delle Foreste. dei Vigili del Fuoco e
della Protezione Civile, lo forza del fuoco ha provocato danni per molte migliaia di
euro ad entrambe le strutture.
Tre ettari di terreno in fumo e rischi addirittura all’interno della pista della Prototipo
sono invece le conseguenze di un incendio in località Monteruga.
A bruciare stavolta è stata la macchia mediterranea insieme a campi coltivati ed
alcuni alberi di ulivo. Le fiamme si sono propagate anche ad una zona interna
all’anello della pista, tanto che è intervenuta l’autobotte di proprietà della saocietà
Prototipo.
Il pomeriggio caldo non ha risparmiato neanche le marine. Nei pressi del Villaggio
Resta, ardevano tre ettari di erbacce in un terreno incolto. Un altro incendio, anche in
questo caso di vaste proporzioni, si è invece verificato in contrada Torre Mozza,
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bruciate molte sterpaglie. Incendi di più piccole dimensioni si sono registrati al
confine con Porto Cesareo e verso Riva degli Angeli. (28)
*
Prosegue senza sosta l’attività delle Fiamme Gialle e della Sezione Operativa
Navale della Guardia di Finanza a tutela dell’ambiente. Nell’ambitro di specifici
controlli finalizzati a prevenire e a reprimere gli illeciti in materia ambientale,
compiuti lungo il litorale ionico-tarantino, i militari della Sezione Operativa Navale
hanno individuato, il 26 giugno 2008, una vasta area utilizzata come discarica
abusiva di rifiuti classificati come speciali e pericolosi. La zona, di circa 76000 metri
quadrati, è stata posta sotto sequestro ed una persona ritenuta responsabile di
violazione delle norme a tutela dell’ambiente è stata denunciata alla magistratura.
I militari hanno provveduto anche alla quantificazione dei rifiuti trovati, pari a circa
1.300 tonnellate. Nell’area finita sotto sequestro sono stati trovati cumuli di diversi
materiali fra cui eternit, pneumatici ed elettrodomestici usati, plastica e materiali di
risulta di lavori edili.
L’operazione è stata condotta dai militari della Stazione Navale con i colleghi del
Nucleo di Polizia Tributaria, per gli ulteriori sviluppi in materia di polizia
economico-finanziaria nonché di applicazione della cosiddetta ecotassa. Questo tipo
di servizi si inquadra nell’ambito di una azione a tutela dell’ambiente che in provincia
ionica vede le Fiamme Gialle impegnate in prima linea, anche alla luce delle
convenzioni stipulate di recente tra la Guardia di Finanza e la Regione in materia di
monitoraggio dei siti inquinati nell’ambito del territorio pugliese.
Com’è noto, i rifiuti vengono smaltiti spesso illecitamente per ridurre notevolmente i
costi. Ma aggirare le norme che regolano questo tipo di attività significa rischiare di
provocare danni ingenti all’ambiente, soprattutto quando nelle discariche abusive
vengono abandonati rifiuti come l’eternit che logorato dalle intemperie libera fibre di
amianto. (28)
*
Una discarica abusiva di oltre 7mila metri quadri è stata sequestrata dalla
Guardia di Finanza a Giovinazzo (Bari), in contrada Cappuccini. All’operazione
hanno preso parte anche gli elicotteristi delle Fiamme Gialle e i volontari del Wwf.
L’area era controllata nelle ultime settimane dalle guardie volontarie del Wwf per
verificare eventuali e ulteriori abbandoni di rifiuti pericolosi. (28)
*
Era da poco trascorsa l’una del pomeriggio del 28 giugno 2008, nella zona di
Monte Cucco, a Santa Maria di Leuca. Lo spettacolo che si è presentato è stato
terribile. Un inferno di fuoco e di fumo che, alimentato dal vento, si dirigeva verso
alcune abitazioni. Immediatamente è scattato l’allarme, ma il fuoco non dava tregua.
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due ore per spegnere le fiamme. La conta dei danni parla di cinque ettari tra pini e
macchia mediterranea inceneriti. L’origine del rogo è quasi sicuramente colposa. Le
sterpaglie presenti sul ciglio stradale, probabilmente arse per un mozzicone,
avrebbero originato l’incendio. (28)
TRAFFICO DI ESSERI UMANI
Vi è poi il traffico di esseri umani, dove dobbiamo segnalare una nuova ondata di
tanti piccoli Amir, in fuga da zone di guerra, profughi in Italia, i cui nomi e relative
vite riempiono scarni fascicoli, al massimo tre pagine di storia personale, sui tavoli
del Tribunale per i minorenni di Bari chiamato a nominare un tutore per la loro
richiesta d’asilo politico. Un fenomeno in aumento, in particolare di afgani, per il
quale esistono pochi rimedi, strutture insufficienti, nessuna mediazione culturale.
La storia di ciascuno di loro è simile alle altre: un prezzo da pagare ai trafficanti, dai
1.500 ai 3.000 euro, a seconda delle misure di sicurezza che si adottano durante il
lungo viaggio e della destinazione finale. Il pacchetto più alto non prevede soste
intermedie e l’arrivo tanto desiderato in località del nord Europa. Nessuna garanzia,
per carità, solo qualche possibilità in più. I 1.500 euro, invece, non sono ritenuti cifra
degna, dalle organizzazioni criminali, che per integrarla costringono i ragazzini a
lavorare in Iran o Turchia, sfruttandoli per qualche mese prima di portarli a Bari.
Il viaggio, poi, è un’altra terribile incognita: piazzati nel camion o assicurati sotto i
mezzi con cinghie, spesso all’insaputa degli autisti, partano dai porti della Grecia.
Arrivati a Bari, se va bene, proseguono la corsa su strada fin quando è possibile.
Quando i camionisti se ne accorgono, sempre che nel frattempo i ragazzini (sono
sempre più di uno) non muoiano durante il viaggio, chiamano la polizia o li
abbandonano lungo il tragitto. In quest’ultimo caso, i clandestini chiamano i basisti
dell’organizzazione e rientrano nel giro.
Un destino altrettanto orribile è riservato a quelli che, scoperti al porto barese dalla
polizia di frontiera, vengono rispediti in Grecia, primo Paese di arrivo. I ragazzini
vengono cacciati anche da lì, perché la Grecia, in violazione della Convenzione di
Dublino, ha bloccato tutte le procedure di richiesta di asilo politico. I minori afgani,
quindi, ritornano a Bari e spesso nella rotta fra i due porti, spariscono. Molti di loro,
raccontano gli atti giudiziari di altre Procure, vengono ritrovati alla stazione Ostiense
di Roma, dove in pieno giorno alimentano la prostituzione minorile, a vantaggio di
clienti della “Roma bene”. Per altri c’è lo spettro del traffico di organi.
E allora diventa una possibilità di vita essere scoperti dalla polizia di frontiera, che
per legge segnala la loro presenza ai servizi sociali e all’autorità giudiziaria. I
minorenni stranieri, non accompagnati e richiedenti asilo, finiscono così in una
comunità del barese, che purtroppo non è preparata per curarne le esigenze. Si tratta
di strutture a numero chiuso, dove è una fortuna entrare e dove vivono anche minori
destinatari di ordinanze di custodia cautelare.
Lì proprio per scarsa preparazione specialistica, nessuno spiega a questi ragazzini
spaesati che possono usufruire della tutela prevista per legge. E così loro scappano
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finendo nuovamente nelle mani dei trafficanti: l’80 per cento dei fascicoli si chiude in
breve tempo per irrintracciabilità dei minorenni. Di loro non se ne sa più nulla. (6)
*
Il blitz Ebano della sezione criminalità extracomunitaria della squadra mobile
di Foggia è partito all’alba del 15 marzo 2008 e ha portato all’arresto di 5 nigeriani e
libanesi che vivono a Stornarella (4 donne e il compagno di una di loro), accusati a
vario titolo di sequestro di persona; maltrattamenti sotto forma di pestaggi e cibo
negato; favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione; favoreggiamento della
permanenza in Italia di clandestini.
L’inchiesta è nata dalla denuncia di una nigeriana costretta a prostituirsi sulla statale
16 che nel luglio 2006 chiese aiuto alla polizia, che è andata avanti intercettando 6
mila telefonate tra Foggia, Modena, Nigeria. Una ventina le prostitute nigeriane
identificate dalla squadra mobile, ma soltanto una ha deciso di parlare. Il che è indice
– rimarcano gli agenti – del clima di terrore in cui vivevano le donne, per paura dei
riti woodoo praticati in Africa da stregoni.
Pur se non viene contestata l’associazione per delinquere, i poliziotti sono convinti di
aver scoperto un giro di prostituzione internazionale che parte dalla Nigeria,
attraversa la Spagna e finisce in Italia in varie regioni.
L’organizzazione, è convinzione degli inquirenti, <<ha nigeriani che si occupano del
reclutamento delle ragazze in Patria e lo fanno spesso con il consenso dei familiari
delle ragazze. Per vincolarle vengono esercitati riti woodoo perché le prostitute si
comportino bene, altrimenti ne pagheranno le conseguenze loro stesse e i familiari
rimasti in Patria. Le ribellioni vengono punite. Abbiamo registrato casi, attraverso le
intercettazioni delle indagate con connazionali che vivono in Nigeria, di famiglie di
prostitute che si sono impegnate la casa; se le figlie non avessero riscattato il debito,
che va dai 20 mila ai 50 mila euro, l’organizzazione si sarebbe rivalsa sulla
famiglia>>.
Il passaggio successivo al reclutamento è far arrivare le prostitute in Italia, via
Spagna. Ma per dare un quadro realistico del reclutamento e del viaggio a cui sono
sottoposte per raggiungere il posto di lavoro, trascriviamo i punti essenziali della
descrizione rilasciata dalla donna che ha denunciato il losco traffico. A 18 anni <<in
Nigeria ho conosciuto un ragazzo che guidava taxi, mi disse di avere un fratello che
viveva in Europa e che c’erano persone che l’avevano aiutato ad andare lì, e che
avrebbero potuto aiutare anche me. Era la fine di gennaio 2006. Il mio amico mi
portò a casa di... un signore che pratica il woodoo: c’era una donna con lui che mi
disse che in Europa avrei facilmente trovato un lavoro e mi chiese 50mila euro per
condurmi in Europa. Non sapevo a cosa corrispondesse nella nostra moneta quella
cifra e pensando che si trattasse di una cifra molto inferiore, ho accettato senza
troppe esitazioni. La donna mi disse che prima di partire avrei dovuto fare il
woodoo, così avrei avuto la certezza che avrei pagato il mio debito una volta in
Europa>>. Chi praticava il woodoo metteva in contatto le ragazze che volevano
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andare via dalla Nigeria con donne che vivono in Europa <<e mi chiese 5mila euro
per la mediazione>>.
<<Il 19 marzo 2006 partii per il Laos con..., poi arrivai in Costa D’Avorio, il 20
marzo presi l’aereo per Tunisi e da lì in aereo sono arrivata in Spagna e sempre in
aereo a Napoli, dove ho preso un treno per Foggia; con me c’era sempre... Era la
sera del 31 marzo 2006, alla stazione di Foggia c’era ad attenderci “madam”. Il mio
accompagnatore mi lasciò costringendomi a dargli il passaporto, dicendomi che non
mi sarebbe più servito, né l’ho più rivisto>>.
A Foggia, come abbiamo letto, venivano prese in consegna dalle protettrici – le
“madame” arrestate nel blitz Ebano – alle quali consegnavano i soldi incassati,
incontrando decine di clienti sulla statale 16. <<Ogni “madame” ha il proprio
territorio – ha detto il capo della squadra mobile – dove le ragazze si prostituiscono,
territorio che si può fittare a qualche altra protettrice. Sono emersi collegamenti con
analoghi protettori che operano in Emilia Romagna per cui quando una prostituta
creava problemi, o era controllata ripetutamente dalle forze dell’ordine, la si
spostava. Abbiamo anche accertato l’istituzione di una cassa comune, denominata
“meeting”, dove tute le prostitute sfruttate mensilmente versavano una parte dei loro
guadagni sino ad un ammontare di mille euro, soldi che a turno venivano prelevati
dalle “madame”>>. La versione offerta dalla ragazza agli organi inquirenti è stata
ritenuta assolutamente attendibile tant’è che il gip nell’ordinanza di custodia
cautelare scrive: <<la credibilità della ragazza è corroborata anche dal contegno
assunto al momento della ricognizione dei luoghi effettuata con la squadra mobile:
alla vista dell’abitazione ove la tenevano segregata, ha avuto un cedimento
emotivo>>.
*
Per avviarle alla prostituzione non vi sono soltanto le nigeriane, anche le romene
attirate in Italia con la promessa di lavoro, letteralmente vendute ai protettori,
violentate e costrette a prostituirsi. Colombiane che fittano periodicamente
monolocali al <<Salice nuovo>> per incontrarvi i clienti, previo appuntamenti fissati
sul telefonino. Una casa a luci rosse in pieno centro con cinesine in camera da letto e
clienti in coda. Sono le inchieste a lungo termine (tre negli ultimi quattro anni,
entrambi della squadra mobile), gli arresti in flagranza e le denunce occasionali a
disegnare la mappa della prostituzione a Foggia e in provincia.
Negli anni Novanta, soprattutto sul finire, la città fu ‘invasa’ da albanesi e nigeriane
che si prostituivano nei pressi della stazione e che pullulavano sulla statale 16, in
tutto il tratto tra Cerignola e San Severo; sulla Foggia-Manfredonia. Decine di retate,
controlli pressanti, denunce, arresti, fogli di via sull’onda della protesta dei cittadini,
consigliarono le <<donne allegre>> (ma conoscendone le storie di povertà,
sfruttamento e violenza di allegro non c’è davvero nulla) ad una presenza meno
massiccia e imbarazzante. E fu proprio sul finire degli anni Novanta che a Foggia e
San Severo si registrarono gli omicidi di due prostitute dell’est europeo, i cui
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responsabili non sono mai stati identificati; delitti indicativi degli interessi dell’affare
prostituzione e della spietatezza di chi lo gestisce.
Adesso le prostitute sono principalmente straniere, gestite da organizzazioni di
connazionali, pur se quando vengono controllate dicono sempre di ‘battere’ per conto
proprio e di non avere nessun protettore. Le tre indagini a lungo termine sul
fenomeno della prostituzione – tutte condotte dagli agenti della sezione criminalità
straniera e prostituzione della squadra mobile – dicono il contrario. Il 6 aprile del
2004 scattava il blitz Iside con l’emissione di 7 ordinanze di custodia cautelare nei
confronti di 3 foggiani (arrestati) e 4 romeni (uno solo è stato arrestato, gli altri
sfuggirono al blitz) accusati a vario titolo per associazione per delinquere finalizzata
allo sfruttamento della prostituzione, violenza sessuale e riduzione in schiavitù. Fu il
dramma di una romena, ricoverata in ospedale per un tentativo di suicidio, a svelare i
retroscena del giro. Era arrivata in Italia convinta dal fidanzato rumeno, che poi
l’aveva venduta ad un connazionale, il quale l’aveva violentata. Se il ‘ceppo’ romeno
si occupava di reclutare le ragazze da mettere su strada, i foggiani procacciavano
clienti – diceva l’accusa – mostrando loro le ragazze e talvolta accompagnandole sul
posto di lavoro, la circonvallazione di Foggia. Nel processo di primo grado cinque
condanne.
Il primo giugno del 2006 con il blitz ‘Butterfly’ e 4 ordinanze di custodia cautelare
emergeva un giro di ragazze romene che si prostituivano vicino Foggia: erano
sfruttate da connazionali e albanesi che spesso cambiavano le ragazze con altri gruppi
e che con frequenza telefonavano in Romania per sapere quando sarebbe arrivata la
nuova ‘merce’.
*
Finalmente il 4 aprile 2008, “Salice nuovo”, uno spicchio a luci rosse è stato
chiuso con il sequestro di 13 mini-alloggi, per la gioia dei cittadini che inondavano di
esposti le forze dell’ordine (l’ultimo giunto proprio mentre i carabinieri mettevano i
sigilli alle case) e per il dolore dei tanti clienti che frequentavano le prostitute
colombiane e rumene pagando dai 50 ai 100 euro per ogni rapporto sessuale.
L’operazione dei carabinieri del nucleo operativo della Compagnia dauna e della
Procura, basata su riprese filmate e interrogatori di alcune prostitute ha portato
all’arresto bis di Celestino Magnatta, imprenditore già noto alle forze dell’ordine,
detenuto da una mese per una vicenda analoga. Magnatta – nel suo passato arresti e
assoluzioni per estorsione e usura ed un agguato misterioso al quale sfuggì nel
gennaio 2004 – è il proprietario delle case d’appuntamento. Secondo l’accusa non
poteva non sapere che le inquiline si prostituivano in quegli alloggi fittati per 500
euro al mese.
Magnatta è stato accusato di esercizio di casa di prostituzione, in violazione della
legge Merlin che nel 1958 abrogò le <<case chiuse>>. L’ordinanza cautelare gli è
stata notificata nel carcere di Foggia dove è detenuto dal 3 marzo 2008 sul
provvedimento di cattura furono gli agenti della squadra mobile ad arrestarlo per
65
favoreggiamento della prostituzione. L’accusa gli contestava di aver fittato le case al
Salice nuovo a prostitute nel periodo che va dal luglio 2003 al novembre 2005.
Sostanzialmente gli stessi fatti contestati nel nuovo provvedimento di cattura – sia
pure con una diversa imputazione – per un periodo che va dal novembre 2006 al
marzo 2008.
La novità dell’indagine è rappresentata dal sequestro di 13 alloggi occupati da
prostitute rumene, identificate e sloggiate. Il valore delle case sequestrate – hanno
detto gli inquirenti durante la conferenza stampa di presentazione dell’intervento
repressivo – ammonta a 2milioni di euro.
L’indagine è partita nel novembre 2006, con il monitoraggio del quartierino a luci
rosse, con il filmini dei carabinieri che hanno ripreso le donne mentre si mostravano
ai clienti, ricevendoli in casa.
Il passo successivo dell’indagine è stato quello di accertare chi fosse il proprietario
degli alloggi. (19)
*
A due prostitute albanesi, giunte di recente in Italia, che esercitavano il mestiere
sulla statale ‘16’, all’altezza del bivio per Stornara, un cerignolano le avvertiva,
minacciandole, che lì comandava Alfredo. Si tratta di Afrin Bayrakurti, albanese,
nominato Alfredo, senza fissa dimora che abitava presso amici in Largo
Spontavomero a Cerignola, già destinatario di un decreto di espulsione emesso dal
Questore di Foggia, il 26 settembre 2007 e rimasto inosservato. Infatti Alfredo si era
fatto vivo con le due ragazze (l’una di 27 anni, l’altra di 18 anni) imponendo loro il
prezzo del suo ‘comando’: 150 euro alla settimana per la meno giovane, 200 per la
diciottenne.
La cosa è andata avanti per un po’, ma i controlli effettuati dagli agenti del
Commissariato di Cerignola ha portato all’arresto dello sfruttatore. I poliziotti della
giudiziaria erano riusciti a conquistare la fiducia delle due ragazze che avevano
raccontato loro di essere giunte consapevolmente in Italia per prostituirsi,
considerandolo un vero e proprio lavoro.
Tra l’altro la 27enne aveva detto di avere quattro figli in patria e che era quello
l’unico modo per mantenerli. Poi era spuntato fuori il nome di Alfredo ed il suo ruolo
di sfruttatore. I poliziotti erano riusciti a convincere le due ragazze a tendere una
trappola all’albanese ed erano stati attivati servizi di monitoraggio fino a quando non
sono riusciti ad incastrarlo.
Le due ragazze gli hanno consegnato alcune banconote da 50 euro che erano state
precedentemente fotocopiate ed il giovane ha intascato il denaro. A quel punto gli
agenti sono usciti allo scoperto e l’albanese è stato bloccato ed arrestato negli ultimi
giorni di aprile 2008. Un episodio che conferma il controllo degli albanesi, da non
molto, sulla prostituzione al punto che le donne di colore che prima lavoravano sulla
66
‘16’ sono state progressivamente sostituite da giovani provenienti dal Paese delle
Aquile.
Nel 2006 la polizia aveva arrestato tre albanesi per lo sfruttamento di prostitute sulla
statale per Foggia, senza evidentemente smantellare un’organizzazione che ancora
opera in zona. (19)
ESTORSIONI - USURA
Il Rapporto di “Sos Impresa” della Confesercenti colloca la nostra regione tra i primi
territori in Italia per numero di estorsioni ben il 30% dei nostri commercianti
subirebbe la tassa imposta dai malavitosi. Altrettanto dicasi per l’attività usuraia.
Non c’è settore economico che i salvi dalle mani delle mafie: persino per la vendita di
frutti di mare sui banchetti napoletani si deve pagare il ‘pizzo’; persino sul pane
venduto di domenica sulle bancarelle la criminalità fa affari (a Napoli si pensa ad un
giro annuo di 500 milioni). Dal turismo alla moda, dall’agricoltura agli appalti, dai
video-giochi alla pesca è tutto business per “Mafia spa”, come è stata definita da
Confesercenti. E, infatti, con i 90,5 miliardi di fatturato, pari al 7% del Pil nazionale,
pari a 5 manovre finanziarie, 8 volte il mitico ‘tesoretto’, l’Azienda mafia è la prima
in Italia, alimentata da estorsioni, furti, rapine, contraffazioni, contrabbando,
imposizioni di merci e controllo degli appalti. E’ una ragnatela gigantesca che strozza
l’economia italiana e in particolare quella meridionale, soprattutto intorno alle grandi
città. Luca Ricolfi, nel suo libro, Le tre società, valuta il fatturato delle organizzazioni
criminali in 93 miliardi di euro (‘ndrangheta 35 miliardi; cosa nostra 30 miliardi;
camorra 28 miliardi).
Il fatturato dell’Azienda a confronto con i Grandi Gruppi (in mld di euro)
Exxon
Walmart
(petrolio)
(supermercati
)
270
247
Mafia
90,5
Philips
Morris
(tabacco)
90
ENI
(idrocarburi
)
86
Gruppo
FIAT
52
Microsoft
ENEL
(informatica)
(energia)
40
38,5
Fonte: l’Unità del 23.10.2007
Il quadro fornito dal rapporto è terribile, anche perché non sono soltanto le piccole o
micro imprese preda delle mafie, ma anche i grandi imprenditori che investono, per
esempio, nella costruzione della Salerno-Reggio Calabria e che cedono nonostante la
loro forza economica spesso premiata dalla Borsa perché <<conviene così>>.
Naturalmente per il settore del commercio sono il pizzo e l’usura gli strumenti con
cui gli operatori vengono particolarmente strangolati. In Italia i commercianti
taglieggiati sono 160.000 oltre il 20% dei negozi italiani. Cifre che in Puglia
crescono: è il 30% pari a 17 mila esercizi, concentrati prevalentemente a Bari, Foggia
e nord barese, dove si toccano punte del 50%. Nell’hinterland e nelle periferie dei
capoluoghi paga praticamente il 100% delle imprese.
Pressappoco un terzo dei colpiti è in Sicilia. In questa regione sarebbe coinvolto il
70% delle imprese, che sale all’80% a Catania e Palermo. In Calabria sarebbero
67
15.000 quelli che pagano il “pizzo”, cioè la metà del totale; Reggio Calabria, poi,
avrebbe il primato, perché qui la quota degli estorti raggiungerebbe ben il 70% dei
commercianti. A Napoli, nel nord Barese e nel Foggiano saremmo a quota 50%, con
punte, nelle periferie e nell’hinterland di queste città, per la quasi totalità delle attività
commerciali, della ristorazione e dell’edilizia.
In queste zone, si afferma nel rapporto, <<gli unici a non pagare il pizzo sono le
imprese già di proprietà dei mafiosi o con cui essi hanno subito rapporti collusivi e
affaristici>>. Molto forte la pratica del pizzo anche nel Salento, meno, invece, a
Brindisi e Taranto.
La mappa del pizzo del mondo del commercio sarebbe questa: in Sicilia i
commercianti coinvolti sono 50.000, cioè il 70% del totale; in Calabria la percentuale
scende al 50%, pari a 15.000; 40.000 sono in Campania (40%); in Puglia i
commercianti coinvolti sono 17.000 (30%), in Basilicata 1.000 (10%); 6.000 nel
Lazio (10%); 2.000 in Abruzzo (10%); 5.000 in Lombardia (5%); 2.000 in Piemonte
(5%); 2.000 anche in Emilia-Romagna (5%); mentre nelle altre regioni i
commercianti costretti a pagare sono 20.000, pari al 6% del totale.
Naturalmente non tutti subiscono passivamente, senza reagire: in Puglia si registra il
10,4% (dal 10,5% del 2005) di denunce per estorsione, ma mentre la percentuale in
Campania è in aumento, nel 2006 si è raggiunto il picco di denunce con il 21% , al
contrario in diminuzione in Sicilia (dal 10,5% al 10,2%) e Calabria, quest’ultima con
il dato più basso(dall’8,6% al 7,2%). Cifre lontanissime dalla media del resto d’Italia:
49,72% nel 2006, quasi 4 punti sotto rispetto al 2004. Incrociando i dati delle
denunce con altri reati di intimidazioni di vario tipo è stato ricavato un “indice
sintomatico dei fatti estorsivi” (tra denunce, incendi, danneggiamenti, attentati) che
vede Foggia al primo posto nella graduatoria pugliese, ma al decimo in quella italiana
(seguono Brindisi e Bari al tredicesimo e quattordicesimo posto, Lecce e Taranto al
ventesimo e ventunesimo).
Sos Impresa, inoltre ci fornisce i dati dell’esercito della mafia: composto da circa
20.000 affiliati. In particolare fanno parte di ‘cosa nostra’ 5.500 soggetti, alla
‘ndrangheta ne appartengono 6.000, alla ‘camorra’ 6.700 e alla ‘sacra corona unita’
2.000. La camorra genera un giro d’affari annuo pari a 28 miliardi di euro, la
‘ndrangheta arriva a 35 miliardi e cosa nostra fattura 30 miliardi.
Sarebbero, poi, 150.000 quelli coinvolti in rapporti usurai, di cui almeno 50.000
sarebbero indebitati con associazioni per delinquere di tipo mafioso. La metà del
totale dei commercianti italiani, che ricorrono all’indebitamento usuraio, si
concentrerebbe in Campania, Lazio e Sicilia. In rapporto al numero di attivi, la
Calabria primeggerebbe con 30%, seguita da due regioni, ritenute libere da
radicamento mafioso, il Molise (28%) e il Lazio (29%). In Puglia sarebbero 14.500
commercianti coinvolti in rapporti usurai, cioè il 19% sul totale dei commercianti in
regione, con un giro d’affari intorno ai 1.250 euro, <<fenomeno sociale diffuso, che
si espande secondo la congiuntura economica>>. Ecco perché Taranto è la prima
delle città pugliesi ad esserne colpita.
68
Il giro d’affari complessivo dei reati a danno dei commercianti è di 77,8 miliardi di
euro. Di cui 30 mld provengono dall’usura, 10 mld dal racket, 7 mld da furti e rapine,
4,6 mld dalle truffe.
Vi è poi l’impietosa fotografia che scatta lo studio di Confcommercio-Gfk Eurisko.
Da questa ricerca risulta che la Puglia è una delle capitali del racket delle estorsioni.
Seconda soltanto alla Campania e batte perfino regioni come Sicilia e Calabria. Il
22% degli imprenditori pugliesi si trova a versare il pizzo.
Ma andiamo con ordine. Secondo lo studio citato, l’8% degli imprenditori italiani nei
settori del turismo, del commercio e dei servizi dichiara di essere vittima del racket.
In testa alla classifica dei taglieggiati c’è la Campania (30%). Seguono: Puglia (22%),
Sicilia (15%), Basilicata e Calabria (12%). Il dato crolla al 2% in Umbria, Marche,
Trentino e Friuli. Alto è anche il numero degli imprenditori (11%) che dichiara di
aver avuto esperienza ‘indiretta’ del racket conoscendo colleghi vittime degli
estortori. In Campania il 30% degli intervistati ha risposto affermativamente al
sondaggio. In Basilicata e Calabria la percentuale scende al 24%, in Puglia al 19%, in
Sicilia al 17%. Numeri più bassi in Sardegna (3%), Marche e Umbria (5%), Trentino
e Friuli (6%).
Si materializza così una vera e propria mappa della criminalità. La Puglia sale sul
podio del malaffare, ancorché è tra le realtà ‘più reattive’ ai clan: se in Italia appena il
cinque per cento dei titolari di ditte piccole o medie denuncia i ricatti, da queste parti
la percentuale si raddoppia, sale cioè al dieci per cento. Sono gli stessi che cercano di
difendersi come possono, al di là dell’intervento delle forze dell’ordine: essere
assicurati lo considerano un salvagente (25%), oppure fanno ricorso alla vigilanza
privata (28%), né disprezzano l’installazione di telecamere (19%) e di vetrine
corazzate (11%). Ma c’è il 26% dei diretti interessati che veste i panni della
maggioranza silenziosa e ostaggio inerme delle cosche.
Proprietari e gestori di queste attività - anche in questo caso il 22% e sempre secondi
alla Campania – inoltre, spesso nonché malvolentieri finiscono per essere imbrigliati
nella rete degli usurai da cui non riescono più a liberarsi.
Su questi dati esprime le sue perplessità il sottosegretario alla Giustizia Alberto
Maritati che li considera il frutto di un inganno. Pur convenendo sulla rispettabilità
delle analisi, avanza dubbi sulla classifica del malaffare così come stilata, tenuto
conto che lo stesso reato in Calabria, così come in Sicilia, raggiunge livelli pazzeschi,
ancorché non c’è lo straccio di una denuncia.
Ciò non toglie che la situazione è tutt’altro che confortante. D’altra parte questi dati
fanno il paio con una delle ultime analisi elaborata dal Ministero dell’Interno quando
si trattò di mettere a punto il programma operativo destinato ad assicurare la
“sicurezza per la sviluppo del Mezzogiorno”. Il Viminale marchia come <<province a
forte condizionamento criminoso>> quelle di Foggia e Lecce, dove estorsori e usurai
recitano il ruolo di padroni incontrastati, o quasi, del territorio. Salento e Capitanata
poi fanno registrare una <<elevata mortalità e natalità di imprese>> è <<il probabile
69
sintomo del tentativo di penetrazione nell’economia legale da parte della criminalità
organizzata>>.
Quelle di Bari, Brindisi e Taranto invece sono <<aree che un tempo presentavano
significativi apparati industriali oggi in via di smantellamento>>.
L’ultimo rapporto sulla sicurezza del Ministero dell’Interno informa che sono
aumentati di circa il 45% in cinque anni i reati di estorsione denunciati alle autorità
giudiziarie: da 3.628 casi nel 2002 si è passati a 5.288 nel 2006. Crescono anche le
domande delle vittime delle estorsioni per accedere ai benefici del Fondo di
solidarietà. In Italia nel primo semestre del 2007 sono state 130 in più del 2006.
Il Comitato del Viminale, che gestisce il fondo, tra gennaio e agosto dell’anno in
corso ha erogato complessivamente 17 milioni e 431 mila euro a chi ha subito
estorsioni o usura; una cifra equivalente a circa 6 milioni e mezzo in più rispetto allo
stesso arco temporale del 2006. La fetta maggiore è toccata alle vittime del racket: 10
milioni e 186 mila euro. Per le estorsioni la regione che ha ottenuto i maggiori
benefici previsti dalla legge è stata la Calabria con 4 milioni e 198 mila euro. Al
secondo posto, la Sicilia con 3 milioni e 326 mila euro, seguita dalla Campania (1
milione e 187 mila euro) e dalla Puglia (quasi 399 mila euro). Nel 2005 erano 155 i
procedimenti penali in corso nei tribunali pugliesi per reati di estorsione.
Le tasse della mafia
Importi mensili in €
Venditori e
ambulanti
Commerciant
i al dettaglio
Commercianti
all’ingrosso
Alberghi e
ristoranti
Costruzio
ni
Appalti
lavori
autostradali
60
457
508
578
2-4
17.000
Fonte: Ricerca “I costi dell’illegalità”Fondazione Chinnici, Università di Palermo, Associazioni Industriali
L’economia della mafia
Denaro
movimentato
% gestita dalla
criminalità
organizzata
Costi per i
commercianti
Commercianti
colpiti
USURA in mld €
30
36
12
150.000
RACKET in mld €
10
95
6
160.000
La situazione in Puglia
1
2
3
4
5
Vibo V.
Caltanissetta
Reggio C.
Messina
Crotone
Le province più a rischio
Indice Ise*
16,2
11 Cagliari
15,4
12 Cosenza
10,2
13 Brindisi
9,5
14 Bari
7,3
15 Ragusa
Indice Ise*
5,9
5,7
5,6
5,0
4,8
70
6
7
8
9
10
Enna
Siracusa
Catanzaro
Palermo
Foggia
7,0
6,9
6,7
6,3
6,2
16
17
18
19
20
Agrigento
Trapani
Caserta
Benevento
Catania
4,7
4,5
4,4
4,2
3,5
Fonte: Confesercenti. (*) Ise (indice sintomatico di fatti estorsivi) è un indicatore che incrocia i dati delle denunce con il numero di intimidazioni
alle aziende di richieste di pizzo, d’incendi dolosi e di attentati.
Come si è letto Foggia compare tra i primi dieci posti nella classifica delle province a
rischio racket, Brindisi e Bari rispettivamente al 13° e 14° posto. Taranto non appare
in questa autentica “zona rossa” delle attività estorsive, ma non per questo può dirsi al
sicuro.
Numerosi gli episodi, anche recenti, che segnalano la presenza sul territorio del
fenomeno criminale. Il 13 agosto 2007 un blitz della polizia, effettuato tra Brindisi,
Ostuni, Carovigno e San Vito, ha portato all’arresto di 12 persone, accusate di
estorsione ed usura. L’operazione delle forze dell’ordine hanno portato a sgominare il
clan così detto delle ‘asteggiudiziarie’. Tra gli arrestati anche un gioielliere. Alla fine
di agosto 2007 un attentato è stato compito nella panetteria “Sisma” di Ceglie
Messapica. Ma una serie di episodi riguardano anche Lecce e Taranto, come la
distruzione di tendoni di uva a Torricella.
A Bari dopo una netta flessione registrata nel 2005, il numero delle estorsioni è
tornato ad aumentare. Le fonti della Corte d’Appello di Bari parlano del +18%. Così
riferisce Carmela Formicola, sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 6 settembre 2007.
Nel 2006 la Procura della repubblica di Bari ha accertato un numero doppio di reati:
184 rispetto ai precedenti 98. Il Presidente della Corte d’appello di Bari si dice
preoccupato per come si è sviluppata, negli ultimi tempi, l’attività estorsiva. Questa è
verosimilmente gestita da associazioni che ricorrono all’autofinanziamento da
investire nei traffici di armi e sostanze stupefacenti. <<L’esiguo numero di denunce
sporte alle autorità – aggiunge il Presidente – non consente l’effettiva percezione del
fenomeno che costituisce una vera e propria piaga sociale sul territorio barese e
foggiano, per essere la causa determinante del collasso delle aziende e
dell’indebitamento familiare per quanti non in grado di garantire il prestito, non
possono ricorrere al credito di banche ed istituti finanziari>>.
I commercianti e gli imprenditori, secondo l’articolo di stampa della Gazzetta del
Mezzogiorno, vivono fino in fondo il clima dell’intimidazione; nonostante il numero
degli arresti, per questo reato, sono aumentati. Sono moltissimi i fascicoli di indagine
aperti su iniziative delle stesse forze di polizia, a seguito di denunce delle
associazioni antiracket, e varie informazioni provenienti da collaborazioni ufficiali o
ufficiose. Altre inchieste rientrano nel più ampio filone di indagine sulla criminalità
organizzata.
La Squadra Mobile della Questura intercettò una lettera che il boss Antonio Capriati
aveva spedito ad uno dei suoi luogotenenti sul quartiere, dal suo clan controllato. Il
boss sollecitava di organizzare un giro di vite di richieste a commercianti ed
imprenditori in occasione del periodo natalizio.
71
Le vittime preferite rimangono i commercianti e i piccoli e medi imprenditori.
racconta l’articolo di stampa che <<l’entità delle tangenti rimane basso: 500 euro
mensili, talvolta 1000, in alcuni casi 2000. Ci sono personaggi che chiedono il pizzo
una tantum, altri che non pretendono soldi ma che saccheggiano con frequenza la
vittima di turno senza mai pagare la merce presa o la consumazione (è il caso dei
ristoranti)>>.
Da uno studio del fenomeno fatto dai poliziotti della squadra mobile di Bari, che
recentemente hanno concluso alcune inchieste, riuscendo a stanare i responsabili,
emergono i numeri del fenomeno e soprattutto i quartieri di Bari, dove gli
imprenditori devono fare i conti con le continue richieste di pizzo. Al rione CarrassiSan Pasquale usura e pizzo sono <<in netta espansione>>. Questo genere d’affari nei
clan baresi viene spesso affidato alle donne. Molto più prepotenti, arroganti,
aggressive dei loro mariti o figli. A dimostrarlo è sempre un’indagine della polizia,
che l’anno scorso (2007) ha smascherato nove donne appartenenti alla cosca dei
Capriati che arrivarono addirittura a picchiare i commercianti che si rifiutavano di
pagare la tangente. Le zone di Bari vecchia e del murattiano erano sotto il dominio
dei Capriati, mentre i titolari delle botteghe pagavano in silenzio. In caso contrario
venivano picchiati e mandati in ospedale.
FURTI
Il furto si è arricchito di una nuova mania, che dilaga in tutte le province pugliesi, ma
in particolare nel Barese. Chi si cimenta in questa, apparentemente singolare, attività
si è fregiato del titolo “bastardo del rame”. Finora erano noti perché rubando i cavi
che alimentano il traffico su rotaie, hanno lasciato decine di treni in panne.
Ora stanno mettendo in pericolo l’intero sistema regionale di gestione dell’acqua. In
alcune aree la campagna irrigua non può partire a causa dei furti e degli atti vandalici.
Si tratta di una emergenza senza precedenti.
Sommando i dati si scopre, che solo nel Barese, dal 2007 al primo quadrimestre del
2008 sono state condotte 117 azioni predatorie, su un totale di circa 200 impianti.
Siccome per pompare l’acqua dal sottosuolo o per distribuirla agli acquedotti, è
necessario usare sistemi di sollevamento alimentati elettricamente, ogni colpo messo
a segno, di fatto, blocca l’erogazione della risorsa idrica in una o più aree. Spiega alla
Gazzetta del Mezzogiorno un funzionario del Consorzio di Bari: <<In un
trasformatore ci sono 7 o 8 chili di rame che, al mercato nero, vale 4 o 5 euro al chilo.
Per prelevare il metallo questi rompono il trasformatore....per cui la collettività dovrà
comprare un nuovo trasformatore. Il costo è elevato...>>.
Le azioni delinquenziali hanno ridotto del 50 per cento le attuali capacità di fornire
risorsa idrica per irrigare. Si sarà costretti per alcuni territori di Minervino Murge a
rimandare l’avvio della stagione irrigua. Un danno enorme e un’ecatombe per le vere
vittime dei ladrti di rame: chi vive di agricoltura.
Gli operatori addetti alla gestione dell’acqua sospettano che non si trovi di fronte a
disperati od improvvisati, sa dove mettere le mani. Sono professionisti – è loro
72
convinzione – hanno mestiere. Per esempio, lanciano catene sulla linea elettrica e
fanno scattare un cortocircuito che attiva i selezionatori di sicurezza (che sono come
dei salva-vita), poi disattivano l’alimentazione dell’impianto con attrezzatura
adeguata. Così riescono a portar via pure i cavi sotteranei. Inoltre, resti di falò trovati
denunciano che usano il fuoco per eliminare la guaina di plastica che ricopre i cavi.
Li rendono anonimi. Infatti, su ogni guaina è stampigliata una sigla che
permetterebbe di rislaire a chi li ha venduti e, quindi, a chi li ha comprati.
*
Non solo furti di rame, nel Leccese, ma anche di pannelli solari. Ce ne sono stati
a macchia di leopardo, in tutta la provincia, soprattutto ai danni delle scuole. La notte
del 4 giugno 2008 hanno tentato il colpo grosso che, per fortuna, non è riuscito.
Una banda composta da quattro, forse cinque, individui ha tentato di rubare i moduli
dell’impianto in fase di ultimazione, da parte della ‘Terni energia’, nelle campagne
attorno a Veglie. Si tratta di un grosso impianto, già acquistato da Enel, che dovrebbe
servire per l’illuminazione della stessa Veglie e delle vicine Salice Salentino e
Carmiano.
Li ha messi in fuga la guardia giurata, ne avevano smontati e trasportati 37 in un
casolare disabitato, ed altri 43, già svitati, erano pronti a prendere il volo.
Qui ci siamo limitati a segnalare il fenomeno, esentandoci così dal trascrivere, per
ogni provincia, una lunga sequela, quasi quotidiana, di furti che sarebbe risultata
inutile ancorché stucchevole.
(19)
TRAFFICI INTERNAZIONALI
Il fenomeno criminale pugliese è in una fase di ricerca di maggiori spazi di potere, sia
in termini territoriali, sia economici, nella società civile e nell’industria del crimine.
Le nostre organizzazioni, quindi, sia per settori di interesse che per le modalità
operative vanno valutati con parametri diversi da quelli che comunemente sono
utilizzati per le altre grosse organizzazioni criminali.
La Dda di Lecce ci dice che esiste una sorta di internazionalizzazione di frange della
Sacra corona unita, quelle ancora in libertà, con collegamenti in Olanda e Brasile,
sempre per l’approviggionamento degli stupefacenti, utilizzando i latitanti trasferitisi
in quei paesi.
L’immigrazione clandestina è gestita con un coinvolgimento della Grecia in quanto
sono trasportati con le imbarcazioni dalla Turchia in Grecia e qui imbarcati per le
nostre coste.
Dalle indagini condotte dalla Dda è emerso come l’Albania rappresenta una delle
piattaforme per la contrattazione mondiale del traffico di cocaina.
Rappresenta, o almeno ha rappresentato, una via d’ingresso in Europa, della cocaina
proveniente dall’America Latina in sostituzione delle porte d’ingresso spagnole e
olandesi.
73
La criminalità albanese perciò ha un peso nella gestione di traffici attraverso il canale
d’Otranto con trasferimento sulle coste brindisine e la distribuzione delle sostanze
(marijuana, eroina, cocaina) in altre zone del territorio in collegamento con gruppi
criminali di altre regioni.
A conferma di quello che sostiene la Dda viene in soccorso l’operazione Skifteri (il
falco che cattura la preda) conclusa il 12 marzo 2008 dalla Dia di Puglia e Basilicata
che ha permesso di sgominare un’organizzazione dedita al traffico internazionale di
droga (eroina, cocaina, ed ecstasy) con base operativa in Albania e diramazione in
Olanda e in numerose regioni italiane. In Puglia per conto del clan operava, in veste
di distributore con sede a Barletta, Roland Lame. A lui si rivolgevano alcuni grossisti,
anche loro di origine albanese, da tempo domiciliati a Lecce.
Nel corso delle investigazioni, che sono state avviate nel 2006, è stato possibile
sequestrare 20 chili di droga tra eroina e cocaina e sventare un omicidio che era in
fase di esecuzione per regolare contrasti sorti tra i diversi gruppi in Italia.
Gli investigatori hanno spiegato che l’indagine ha permesso di ottenere la conferma
che i gruppi albanesi hanno assunto un ruolo centrale nei traffici di ogni tipo di droga.
Le difficoltà investigative sono legate alle difficoltà di comprensione dei dialetti
albanesi che vengono utilizzati nelle conversazioni dai trafficanti i quali non
coinvolgono mai in ruoli di responsabilità gli italiani. Alle difficoltà di comprensione
si aggiungono quelle legate a sistemi di consegna della merce oltremodo sofisticati e
ingegnosi.
Il percorso della droga prevede che la merce arrivi dall’Albania, attraverso l’utilizzo
di Tir che si imbarcano sui traghetti diretti in Italia oppure che i trafficanti albanesi
organizzino il viaggio della cocaina dalla Colombia sino ad Amsterdam e Rottherdam
per poi farla arrivare in Italia attraverso l’utilizzo di corrieri di ogni genere, in
particolare camionisti.
Il punto di riferimento pugliese dell’organizzazione, Roland Lame, si
approvvigionava nelle Marche. Portava la droga in Puglia, in grandi quantità, e quindi
la distribuiva ai referenti locali.
Il Comandante della Dia pugliese evidenzia la necessità che si ponga grandissima
attenzione a questo traffico di droga che si presenta come una vera e propria
emergenza, perché non si può escludere che si ripeta in Puglia ciò che accadde negli
anni Settanta e Ottanta con il contrabbando delle sigarette.
Non sono poche le sentenze di condanna passate in giudicato dalle quali emerge
l’esistenza di trafficanti che muovono la droga in grandi quantità verso l’Italia e la
Puglia. Ma in assenza di accordi bilaterali tra l’Italia e l’Albania quei trafficanti non
corrono alcun rischio e possono continuare ad organizzare traffici.
Né l’Italia è l’unica area di riferimento dei trafficanti albanesi. Le indagini
permettono di documentare l’ingresso di eroina in Italia attraverso i Tir o l’utilizzo di
scafi sulla rotta adriatica, ma anche flussi di cocaina che partono dalla Colombia,
arrivano in Olanda e da lì in Italia e anche in Grecia.
74
Il Comandante della Dia ha tenuto a sottolineare che l’obiettivo principale non è
quello di sequestrare la droga, ma di ricostruire i fenomeni di criminalità organizzata.
Di capire e intervenire sulle cause che danno vita ai fenomeni mafiosi di criminalità
organizzata. E’ importante capire com’è ramificata l’organizzazione. <<Dieci
spacciatori arrestati possono essere rimpiazzati da altri 50 giovani che pensano di fare
facili guadagni con lo spaccio>>.
Un altro elemento caratterizzante del fenomeno è che i pugliesi, a differenza di
quanto avveniva con il contrabbando delle sigarette, svolgono un ruolo da manovali,
sono l’ultimo anello di una catena di una organizzazione con al vertice esponenti
della criminalità albanese i quali, a loro volta, si fidano solo di altri albanesi che
operano come gestori dei depositi nelle varie aree geografiche. Non è concepibile un
rapporto fiduciario tra albanesi e italiani.
Ancora, i grandi guadagni sia dei capi che dei rappresentanti dei clan che operano nei
diversi territori vengono investiti esclusivamente in Albania. I grandi capitali
accumulati in Italia vengono trasferiti in Albania e investiti in ogni tipo di attività
lecita o per finanziare ulteriormente i traffici di droga. Ne è testimone il fatto che due
fratelli albanesi divenuti punti di riferimento dei trafficanti a Brindisi in poco tempo
avevano accumulato beni nella loro terra per 1 milione e mezzo di euro. E’ scontato
che in mancanza di strumenti legislativi e di accordi bilaterali che prevedono
l’estradizione dei condannati, combattere il traffico di droga è impresa titanica. La
verità è che i trafficanti oltre l’Adriatico operano come manager intoccabili.(1)
*
Passa per lo scalo di Bari il traffico internazionale di auto rubate, un business da
milioni di euro all’anno che riguarda soprattutto le vetture di categoria superiore.
Quattrocentocinquanta sone mediamente le vetture che ogni giorno spariscono in
tutta Italia, secondo i dati del Ministero dell’interno. Quasi la metà viene ritrovata
dopo pochi giorni ma per quanto riguarda le vetture di categoria superiore, la
possibilità di essere recuperate si riduce di almeno un terzo. Molte prendono la strada
dell’Albania e dell’Europa dell’Est, passando proprio per il porto di Bari. L’ultimo
baluardo, per porre un argine a questo commercio illegale, è rappresentato dai
controlli eseguiti proprio a Bari prima degli imbarchi. Nei giorni 26, 27, 28 maggio
2008 gli uomini della squadra della polizia giudiziaria della polizia di frontiera hanno
recuperato prima una Mercedes ML rubata in Germania nel mese di marzo e poi una
Mercedes Cls 320 Cdi portata via al suo proprietario di Reggio Emilia l’8 maggio
2008.
Gli uomini che erano alla guida delle vetture sono stati arrestati. Si tratta di un
britannico di origini albanesi Shuti Bylbyl e di un cittadino albanese Keli Elion.
I detective dello scalo marittimo e aereo di Bari, dopo aver individuato le vetture
hanno eseguito a tempo di record una complessa serie di riscontri e verifiche grazie
alle quali sono riusciti a scoprire che i documenti di proprietà quelli di circolazione e
le targhe di entrambe le vetture erano stati contraffatti.
75
In base alle statistiche più recenti, riferite al 2006, (ultimo anno per quale esiste uno
studio analitico del fenomeno), il record dei furti va alla Campania (31.239 furti
denunciati), seguita da Lazio (30.935), Lombardia (28.606) e Puglia con 18.377 furti.
(11)
PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
Non va tuttavia sottovalutata l’attenzione che la criminalità organizzata pugliese
viene manifestando attraverso talune strategie operative poste in essere dai gruppi più
avveduti, i quali, venuti meno o ridottisi i tradizionali campi di illecito, al fine di
mantenere il budget dei profitti criminali impegnano le proprie risorse in altri settori
di interesse, anche secondo differenti modalità d’intervento, possibilmente incruente
e scevre da clamori.
In particolare l’attività e gli interessi economici che ruotano attorno alle scelte delle
pubbliche amministrazioni locali possono costituire oggi un settore di puntuale
interesse delle diverse organizzazioni criminali operanti in Puglia.
Siffatte iniziative sono gravi e pericolose perché, quando non sono esplicitate con i
tradizionali metodi intimidatori e violenti, si snodano contro i pubblici amministratori
in modo subdolo, anche attraverso percorsi indiretti e utilizzando intermediari.
Quella generale capacità di mimetizzazione della criminalità pugliese potrebbe
dunque sperimentarsi anche sul differente terreno dell’infiltrazione nell’economia e
nelle pubbliche amministrazioni.
D’altro canto, anche il venir meno di una fonte di ricchezza criminale così imponente
come quella assicurata dal contrabbando dei tabacchi lavorati esteri spinge i gruppi
ad una riconversione verso affari altamente lucrativi con il riciclaggio delle risorse
illecite nelle gestione dei servizi alle imprese e alla pubblica amministrazione,
conquistati con il metodo mafioso delle intimidazioni o della collusione con i
pubblici poteri. Non è un caso che episodi di tal fatta sono già nell’agenda delle
autorità giudiziarie.
Nella città capoluogo, poi, con l’operazione ‘Vela’ la Dda di Bari ha accertato
organiche relazioni illecite tra mondo dell’imprenditoria, ambienti politici e
criminalità mafiosa, ipotizzando una vera e propria associazione per delinquere di
stampo mafioso.
ALTRI CAMPI DI INTERVENTO
Per quello che abbiamo detto dovrebbe risultare chiaro che le organizzazioni pugliesi
hanno, da tempo, interagito con gruppi di altre regioni (in particolare la ‘ndrangheta
nel nord barese) o anche con clan dell’area balcanica.
Hanno quindi diversificato, di volta in volta, le attività ed i servizi, sfruttando
l’evoluzione dello scenario politico e criminale dell’altra sponda dell’Adriatico, ora
trafficando armi per la ‘ndrangheta e cosa nostra, ora occupandosi di stupefacenti
76
(dalla marijuana albanese alla cocaina colombiana stoccata in Albania) ora
trafficando esseri umani o sfruttando l’immigrazione clandestina.
La magistratura salentina è impegnata a delineare l’organizzazione che gestisce le
attività di immigrazione dei curdi e ad accertarne le modalità. Attraverso la
collaborazione di stranieri imputati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare,
è riuscita ad ottenere un quadro sufficientemente ampio e completo delle
caratteristiche e modalità di gestione del traffico, dell’organizzazione che se ne
occupa, di coloro che la dirigono. Difficoltà sono state segnalate sul piano della
cooperazione internazionale da parte della Turchia, che nonostante un’apparente
disponibilità manifestata in una serie di incontri a Bruxelles presso Eurojust con i
magistrati leccesi e con le autorità di altri Stati Europei ha sostanzialmente trasmesso
alcune rogatorie all’autorità giudiziaria di Ankara.
Se dovessimo stilare una graduatoria degli interessi criminali nelle province pugliesi
meridionali (in particolare Brindisi e Lecce) spicca il traffico e lo spaccio della droga.
Per questo si sono instaurati rapporti operativi tra gruppi salentini e albanesi.
La nostra criminalità si contraddistingue per una fluidità strutturale e per una
continua innovazione nelle stesse dinamiche del gruppo. L’alta frammentazione, ad
esempio, o i frequenti ricambi interni, con avvicendamenti nei ruoli apicali e grande
mobilità esterna tra appartenenti a clan differenti. Gli accordi tra gruppi sono fluidi,
rimodulabili di volta in volta in base a un obiettivo preciso.
RICICLAGGIO DEI PROVENTI
Le continue trasformazioni, invece, si possono realizzare spesso attraverso conflitti
armati tra i gruppi per il controllo del territorio e le fortune, ricavate dalle loro
numerose attività, sono ormai immense per alcuni personaggi della malavita. Non
solo di beni individuali e societari, rilevabili nella regione, ma anche di patrimoni
residenti all’estero, specialmente in Olanda e Germania. Questi paesi sarebbero stati
scelti perché là si sono creati solidi rapporti con i clan, ivi residenti, in connessione
con i traffici di sostanze stupefacenti.
Del resto il rapporto con la criminalità albanese non si fermerebbe al traffico illecito
ma proseguirebbe con un concreto rapporto sul piano del riciclaggio dei proventi.
Esponenti dei clan malavitosi della provincia di Taranto avrebbero stabilito rapporti
con cittadini albanesi, venezuelani, equadoregni, rumeni e peruviani, residenti in
Italia e non, per la fornitura di stupefacenti e di donne da avviare alla prostituzione
ma anche per concordare canali di investimenti e nella ricerca di strumenti tipici del
crimine economico e finanziario.
Questa necessità, riteniamo, è abbastanza generalizzabile per la nostra regione. Ma ci
ritorneremo dopo, con un particolare accento, perché, a nostro modestissimo avviso, è
questa oggi la nuova frontiera della lotta alla malavita organizzata.
E torniamo agli investimenti dei clan. Perché crediamo che si debba aprire un nuovo
fronte, e non ci riferiamo agli organi inquirenti che, per le cose che abbiamo già
riferito e per quello che riferiremo, sono già impegnati in quella direzione. Con
77
l’applicazione della legge Rognoni-La Torre (requisizione e confisca dei beni della
mafia) i malavitosi hanno capito che devono abbandonare gli investimenti
immobiliari per dirottarli in direzione di beni che possono eludere il pericolo di una
requisizione: beni mobiliari, finanziari e soprattutto ricerca di mercati più tranquilli e
difficilmente raggiungibili da parte degli organi investigativi. Tutto questo significa
attrezzarsi di uomini che sappiano consigliare per il meglio, sappiano indicare canali
più convenienti. E’ impensabile che i loro affari siano autogestiti e qui devono
forzatamente entrare in campo professionisti di capace abilità, in possesso di
strumenti adatti ad assicurare il buon esito degli investimenti. E’ inutile stare ad
indicare di quali specialisti intendiamo parlare. Siamo presuntuosamente certi che
accanto alla mafia tradizionale si sia formato un nucleo che accompagna e consiglia
per il meglio. Tanto per intenderci: siamo ormai in presenza di quella che si chiama
‘la mafia dai colletti bianchi’ Ecco perché credo che la lotta alla malavita
organizzata oggi si arricchisce di un altro nemico, verso cui bisogna prestare la
massima attenzione ma anche la più forte denuncia.
Siamo partiti ponendoci delle domande. Quanta economia legale è illegale? Quante
imprese sono controllate direttamente o indirettamente dalla malavita? Quanti operai
e impiegati sono a busta paga della criminalità che gestisce attività lecite in edilizia,
autotrasporto, agricoltura, mercati ittici e delle carni, smaltimento dei rifiuti? Quante
imprese sane non si insediano in Puglia, o se ci sono, rinunciano a crescere perché la
criminalità, più o meno organizzata, esercita la sua condizionante presenza?
E’ nostra comune convinzione che questa parte dell’economia locale, nera o grigia
comunque la si voglia definire, deve cominciare ad essere denunciata con più
determinazione.
E tanto per non rimanere nel vago, ci soffermeremo su alcuni fatti.
Un’operazione condotta dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza che
ha permesso di notificare in otto regioni italiane 164 avvisi di garanzia ad altrettante
persone rappresentanti di società di distribuzione di beni “food” e “non food”. Tutti i
destinatari del provvedimento sono indagati per associazione per delinquere
finalizzata all’emissione di fatture false per 190 milioni di euro, dichiarazioni di
reddito fraudolente e omesse dichiarazioni dei redditi.
Un meccanismo quasi perfetto che dava vita, secondo gli investigatori, al sorgere di
un mercato parallelo, integralmente sommerso, grazie a 40 società “fantasma” in
Paesi comunitari (dalla Grecia al Portogallo, dalla Spagna al Regno Unito, dalla
Francia all’Austria). Le merci partivano dalla “Migro Cash & Carry”, colosso della
grande distribuzione di Molfetta, destinate ad altri Paesi dell’Unione Europea e
quindi con esenzione d’imposta. In realtà sarebbero state rivendute in nero, in
particolare in Campania e Puglia a prezzi notevolmente vantaggiosi .
Le province di residenza degli indagati sono Frosinone, Napoli, Catania, Brindisi,
Lecce, Taranto, Caserta, L’Aquila, Roma, Campobasso, Salerno, Avellino, Potenza e
Pistoia. Nelle indagini risultano coinvolte più di 100 imprese nazionali di
autotrasporto, almeno metà delle quali completamente sconosciute al fisco.
78
Tutto avveniva, questo è stato sempre il sospetto, con l’aiuto della Camorra e della
Sacra corona unita.
Per correttezza d’informazione dobbiamo però riferire che la Ingross Levante,
la società che gestisce i punti vendita Migro, i supermercati leader nel cash&carry in
tutto il Meridione, ricorse alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari contro
l’accertamento dell’Agenzia delle entrate che intimava di restituire l’Iva evasa, a
giudizio della Procura di Trani dal 1999 al 2004; secondo i magistrati (che a luglio
del 2005 arrivarono anche ad arrestare i vertici della Migro con l’accusa di
associazione per delinquere finalizzata all’emissione di fatture false, alla frode fiscale
e all’evasione di Iva) l’azienda aveva fondato, come abbiamo già visto, fittiziamente
decine di società fantasma in tutta Europa. Ora la Commissione Tributaria ha ritenuto
che ci sono vizi procedurali nel procedimento e soprattutto ha sottolineato la buona
fede degli imprenditori. Cioè hanno sì evaso, ma senza esserne consapevoli.
<<Gli imprenditori – ribattono i giudici della Commissione – non erano a conoscenza
della truffa. E gli elementi addotti dall’Agenzia delle entrate non provano che la
società Ingross Levante fosse partecipe di un disegno criminoso finalizzato a una
frode Iva, apparendo meri indizi nemmeno concordanti tra loro. Né – continuano i
giudici – può ritenersi che lo scrupolo e la precisione negli adempimenti formali che
assecondano l’applicazione dell’Iva evidenzino alcun intento di affidamento delle
disposizioni in materia>>.
<<Nessuna responsabilità – conclude nella sentenza la Commissione Tributaria – può
quindi essere attribuita a chi vende nel rispetto delle regole formali; il venditore non
ha l’obbligo di accertare la destinazione della merce pedinando il trasportatore o
inseguendo la merce stessa>>. (3)
*
Il sequestro nel 2008 del tesoro del clan di Eugenio Palermiti che operava in un
quartiere di Bari, un patrimonio che ammonta a 15 milioni di euro. L’inchiesta della
Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo pugliese testimonia – per la prima
volta in questa dimensione – che la mafia barese ha tentacoli lunghi, capaci di
infiltrarsi saldamente nei gangli dell’economia pulita del territorio e di condizionarne
le fortune. Non sono le automobili di lusso, le ville, gli appartamenti, le motociclette,
qualche terreno gli indicatori della ricchezza reale dei clan. E non è la loro ricchezza
a sollecitare la nostra attenzione. E’ la straordinaria capacità di infiltrarsi nel
commercio, nell’edilizia, nella finanza e nella pubblica amministrazione.
Se l’iter giudiziario dovesse procedere fino alla confisca dei beni, ora sotto sequestro,
e alla conferma della trama accusatoria, emergerebbe un dato inquietante: la
riconferma dell’invisibile saldatura tra economia pulita ed economia parallela. La
delinquenza che diventa holding. La nuova strategia dell’inabissamento (si uccide
meno) ha reso possibile lavorare nell’ombra, stringere affari, muovere denaro
secondo una programmazione geometrica che destina il fiume di denaro sporco – in
arrivo dal traffico internazionale di droga – al finanziamento di attività pulite, vere,
79
sane. Con quali aiuti? Con quali connivenze? Con quali minacce? Sono le stesse
domande che ha posto una brillante giornalista di cronaca nera.
Una delle società riconducibili ad Eugenio Palermiti, la <<Tre G srl>>, le cui quote
sono state sequestrate, è specializzata nel campo dell’edilizia, nel movimento terra,
perfino nei lavori portuali e aeroportuali. Sarebbe davvero interessante indagare nel
mondo degli appalti (e dei subappalti) e verificare in quali recenti opere sia stata
impegnata la <<Tre G srl>> per scoprire, magari, il suo massiccio impegno in una
delle più imponenti opere urbanistiche degli ultimi anni. E’ lecito chiedersi perché
una domanda di pulizia, di trasparenza, di chiarezza non si levi dalla stessa voce di
tutti quegli imprenditori che cercano, con onesta fatica, di lavorare rispettando le
regole?
Come pure desta curiosità quella società (anch’essa sotto sequestro) attiva
nell’universo della Formazione Professionale, tra l’altro negli anni flagellato da
inchieste della magistratura. La <<Jet srl>> sempre di Eugenio Palermiti. Ha forse
questa società usufruito di finanziamenti pubblici? Ce lo domandiamo con la stessa
forza espressa dalla giornalista e continuiamo a chiedere chi ha erogato i contributi
era a conoscenza della reale appartenenza dell’azienda? Le domande sono infinite.
Sono diventati i criminali troppo bravi a far soldi e a nasconderli sotto gli occhi di
tutti?
E perché non restino dubbi, vi è un dato, che vogliamo sottolineare, riportato nella
richiesta di rinvio a giudizio, formulata dal pm antimafia per 18 presunti appartenenti
ad un’organizzazione che commercializzava la sostanza stupefacente a Japigia e in
altri quartieri della città. Al centro dell’indagine c’è anche Vincenzo Longobardi,
barese, figlio di un grossita di carni. A lui, sostiene l’accusa, Giovannio Palermiti,
figlio del presunto boss Eugenio, avrebbe fittiziamente intestato la discoteca ‘Moma’,
acquistata con 132mila euro. La proprietà del locale era stata messa all’asta. Una
prima offerta, secondo quanto ricostruito dalla Dda, era stata presentata dalla società
che faceva capo a Palermiti e che sino a quel momento aveva gestito il ristorante,
aperto nel locale. Ma alla fine, nel giorno dell’udienza dell’asta, si era presentato
soltanto Vincenzo Longobardi che, così, si è aggiudicato il ‘Moma’. Un’operazione,
ipotizza la Dda, non casuale, ma gestita interamente dal Palermiti al quale
Longobardi, peraltro in quel periodo in una situazione finanziaria non facile, farebbe
capo. Il pm ha infatti affidato uan consulenza a due archietetti, accertando come la
proprietà del ‘Moma’ fosse stata acquistata ad un prezzo inferiore, rispetto al suo
reale valore. Da qui la contestazione per Giovanni Palermiti e Vincenzo Longobardi
dell’accusa di trasferimento fraudolento di valori. Intestando la proprietà del locale ad
un giovane, non noto alle cronache criminali, il gruppo che fa riferimento ad Eugenio
Palermiti ha tentato di evitare eventuali misure di prevenzione, come i sequestri
patrimoniali che invece sono arrivati. E hanno interessato anche la discoteca che,
come è stato annunciato nella ‘Giornata della Memoria e del Ricordo delle Vitime di
mafia’ (organizzata da Libera a Bari) diventerà un centro di aggregazione giovanile.
80
La Dda, intanto, partendo dal caso del locale sequestrato, approfondirà anche le
dichiarazioni che il nuovo collaboratore di giutizia ha reso recentemente. L’interesse
che il gruppo del quartiere Japigia, secondo il pentito, avrebbe sempre mostrato per il
mondo delle aste giudiziarie, partecipando con prestanomi, che diventerà materiale
di indagine. (32)
*
Del resto non è la prima volta che la mala si interessa alle procedure di
esecuzione immobiliare. Pare che le aste giudiziarie siano nel mirino dei boss e dei
clan, come nuova occasione per il riclaggio del denaro ‘sporco’.
Un avvocato di Bitonto è indagato dalla Dda di Bari per reati collegati a irregolarità
nella partecipazione ad aste giudiziarie – a quanto sembrerebbe – anche per concorso
esterno in associazione mafiosa. Negli ultimi giorni di giugno 2008, il professionista
bitontino ha ricevuto una perquisizione, alla quale hanno partecipato due pm della
Dda. I magistrati avrebbero portato via carte, computer, cd rom.
La perquisizione, com’è noto, incorpora la informazione di garanzia. In concreto, alla
persona viene comunicata la iscrizione nel registro degli indagati dalla Procura.
Alla base della visita nello studio del professionista – del quale non si è appreso il
nome – una inchiesta della Dda dalla quale sarebbe emersa una conferma chiara del
nuovo ‘fronte’ del riciclaggio del denaro sporco. In questo caso, a quanto pare, da
parte della malavita organizzata di Bitonto. Cioè i clan starebbero concentrando tendenzialmente – i loro interessi nell’acquisto di beni immobili, cercando, tra l’altro,
l’affare nelle aste giudiziarie.
Il legale indagato sarebbe coinvolto in una operazione illecita riguardante una vendita
giudiziaria. Fra i compratori – secondo le indagini della Dda – ci sarebbero stati
personaggi vicini a qualche clan della malavita organizzata. I pm ipotizzerebbero,
secondo indiscrezioni, che lui sia un ‘consulente’ dell’acquisto. L’indagine sarebbe ai
primi passi. (32)
D.N.A.
Abbiamo letto quello che dicono della malavita pugliese sia la Dia che l’Uic. Ma
vogliamo insistere su questo argomento. Nella “Relazione 2006” sull’attività della
Direzione Nazionale Antimafia, consegnata al Parlamento l’8 febbraio 2007, è, per
esempio, descritto il dilagare dell’usura, fenomeno inserito in un <<circuito
criminale che riguarda il mondo bancario>>.
Ancora: <<Roma è stata eletta quale sede di figure criminali legate alle varie
consorterie, che svolgono funzioni ‘diplomatiche’ e di raccordo per ottenere
sempre maggiori profitti dalle attività illecite>>.
Sempre dalla Relazione: gli ambasciatori dei clan sfruttano nella Capitale le
<<opportunità di intrecciare rapporti in ambienti affaristico-imprenditoriali che
accrescono le infiltrazioni criminali, attuate, in gran parte, tramite centri di
81
intermediazione formati da strutture con altissime capacità professionali in
campo economico-finanziario>>. Si legge di alleanze tra clan <<nei meccanismi
di reimpiego dei capitali>> (il neretto è nostro). Prestanomi, vorticosi passaggi di
proprietà di negozi . Un fiume di soldi da ripulire.
Dice il Procuratore Nazionale Antimafia, in occasione di una audizione in
Parlamento, quello che davvero preoccupa sono <<le nuove alleanze tra i gruppi di
cosa nostra con settori della Pubblica amministrazione>> e la sottoscrizione di
patti con holding <<imprenditoriali di rilevanza nazionale>>. (il neretto è sempre
nostro)
Per cercare di dare una pallida idea della forza economica dei clan basta pensare che
l’organizzazione criminale per entrare nel business legato al ponte sullo Stretto si
rivolge all’ingegnere italo-canadese Giuseppe Zappia, arrestato nel 2004 per
associazione mafiosa, il quale si dice disponibile. Il pm che sta curando l’indagine sta
cercando di chiarire come fosse possibile alla “Zappia International” finanziare la
costruzione del ponte senza stanziamenti pubblici.
In un processo di mafia che vede coinvolti 38 imputati, per cui il pm Lucia Lotti ha
chiesto condanne per 191 anni di carcere, ebbene tra questi imputati vi sono ben 15
direttori di banca.
Sono solo alcuni esempi che confermano la nuova strategia mafiosa. Sappiamo bene
che si va a scoprire sepolcri imbiancati ma anche espressioni di poteri forti, quindi
superprotetti. Restiamo, tuttavia, convinti che si deve alzare il tiro, non solo da parte
della magistratura che, come abbiamo visto, è ben cosciente di questo nuovo fronte,
ma anche da parte di tutti quelli, associazioni, stampa, singoli opinionisti, che si sono
posti come parte attiva nella lotta alla criminalità organizzata.
COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALI
Come, però, riconoscere un’azienda pulita da una controllata dal
crimine
organizzato? Come dragare nell’economia sana fino a scovarne le sacche
dell’illecito? Problema che si è posta la Commissione Affari Costituzionali della
legislatura conclusa anticipatamente il 2008. Si prefiggeva l’obiettivo di censire lo
stato della sicurezza dei cittadini e delle imprese rispetto alla criminalità organizzata.
Le audizioni sarebbero terminate in gennaio, per poi presentare la Relazione, sui
rischi e lo stato effettivo della sicurezza in Italia, al Parlamento.
Tuttavia nei primi giorni del dicembre 2007 sono comparsi dinanzi alla Commissione
i due coordinatori delle direzioni distrettuali antimafia di Bari e Lecce, Giovanni
Colangelo e Cataldo Motta, nel corso di una seduta dedicata anche alle
comunicazioni del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, dei rappresentanti
della Confcommercio e Confesercenti e del presidente di Confindustria Luca di
Montezemolo.
Da Montezemolo, ad esempio, non sono mancate bacchettate a un certo modo di fare
impresa nel Mezzogiorno, a quella cultura dell’assistenzialismo dura a tramontare.
<<Nella nostra assemblea del maggio scorso – ha detto tra l’altro il presidente di
82
Confindustria – abbiamo detto forte: basta con gli incentivi, basta con questa legge
488 che ha rappresentato in tante aree del Sud quello che io chiamo il management
del sottosviluppo e della criminalità>>. Ma il problema nelle regioni dell’Italia
meridionale non è soltanto quel fiume di denaro pubblico che continua ad alterare il
sistema produttivo. La spina nel cuore dell’economia del Mezzogiorno ha vari nomi.
Si chiama usura, estorsioni, infiltrazione, condizionamenti. Ed ancora, lavoro nero,
evasione fiscale, mancanza di regole.
Giovanni Colangelo ha evidenziato alcuni casi di acquisizione di imprese e
comunque <<di danni conseguenti per l’economia, dato che le imprese gestite da
soggetti legati al mondo criminale agiscono, come è facile intuire, con criteri molto
disinvolti. Mi riferisco – ha continuato – alla mancata osservanza delle leggi
sull’assunzione, sul collocamento, sull’infortunistica, su tutto il settore finanziario e
sul regime delle imposte. Questo ovviamente consente un risparmio di costi ingenti
ed un incremento degli utili, con danno inevitabile per la concorrenza. Infine, da parte
di alcune imprese, si fa ricorso a mezzi forniti dalle organizzazioni criminali per il
contenimento dei costi o per la gestione. in questo caso, non vi è una vera e propria
collusione tra organizzazione criminale e impresa, ma una fornitura di beni e servizi,
quasi assimilabile ad un contratto d’opera>>.
Colangelo ha anche evidenziato la saldatura tra usura e racket, soprattutto nella città
vecchia di Bari, e la difficoltà a svolgere indagini patrimoniali a causa di una legge
che va cambiata.
Tutto ciò non toglie che si creino compartecipazioni di vecchie e nuove consorterie
per gli affari, e creazioni di sempre nuove alleanze anche tra opposte fazioni con il
ricorrente cambio dei vertici criminali.
La frantumazione sollecita una capacità di intessere rapporti illeciti di ogni tipo,
occasionali e transitori, con qualsiasi gruppo italiano o straniero, alla cui base vi è
solo la convenienza economica e non già alleanze strutturali.
83
BARI
Premessa
Giustamente la Dia definisce di ‘servizio’ la criminalità barese (pronta e disponibile a
temporanee alleanze con le grandi organizzazioni) o più felicemente criminalità a
‘vocazione commerciale’.
Questo non autorizza a sottovalutare talune sue strategie poste in essere, come quella
di impegnarsi, una volta che ritiene esauriti alcuni campi di intervento, in altri settori,
modificando le proprie modalità di operare.
Intanto estende i suoi tentacoli sui comuni della provincia, allarga la sua zona di
influenza, infoltisce le fila dei suoi scagnozzi, assolda nuovi potenziali sicari e
soprattutto aggiorna le linee strategiche di sviluppo e competitività del sistema
produttivo criminale allargando il suo ‘business’ fino ad oggi concentrato sullo
spaccio di sostanze stupefacenti e sulle estorsioni anche al ‘ramo’ rapine. Decimati
dai blitz che hanno portato in carcere i ‘mammasantissima’ e i loro picciotti più fidati,
i clan non hanno perso tempo a risistemare le fila del loro piccolo esercito di
spacciatori ed estorsori, arruolando nuova manodopera. Non basta. Stando ad una
analisi della evoluzione del fenomeno malavitoso condotta dagli stessi investigatori, i
clan starebbero fagocitando nuovi groppuscoli, soprattutto bande di rapinatori.
Rapporto sulla criminalità del Ministero dell’Interno – Giugno 2007
La capitale degli omicidi, lo snodo cruciale per il traffico illegale delle sostanze
stupefacenti, il fenomeno dell’usura in preoccupante ascesa. E’ questo il quadro di
Bari dipinto dal Viminale, nel rapporto del giugno 2007 sulla criminalità. E’ il
Ministero dell’Interno a lanciare l’allarme: <<fattori determinanti della pervasività e
pericolosità della criminalità – è scritto – sono rappresentati dal crescente
coinvolgimento dei minori, dall’attiva partecipazione alle scelte dei clan da parte
delle donne e dai collegamenti tra soggetti detenuti ed affiliati in libertà>>. L’attività
più remunerativa e diffusa sembra essere quella del traffico delle sostanze
stupefacenti.
<<Gli ingenti quantitativi di droga – si legge nell’analisi – fanno di quest’area un
crocevia fondamentale per l’approvvigionamento di altre regioni italiane ed estere>>.
Secondo il rapporto del Viminale, la criminalità locale <<si pone come
organizzazione di servizio per i traffici internazionali>>. A preoccupare è la ripresa
della guerra sanguinaria tra le diverse cosche. Nel 2006 – ultimo dato preso in
considerazione – nel capoluogo di regione si sono registrati 3,6 omicidi volontari di
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stampo mafioso ogni 10mila abitanti (nella classifica vengono prese in
considerazione solo le città oltre i 300mila abitanti). Il rapporto più alto d’Italia, più
di Napoli (3,3 seconda) e di Catania (terza con 2,6 omicidi). Rispetto al 2004 (1,6) e
al 2005 (0,6) si registra un’escalation; gli omicidi si sono praticamente triplicati. E
nel 2008 potrebbero aumentare ancora, visto lo stato d’instabilità: secondo la Dda,
infatti i clan mafiosi ‘perdenti’ si sono alleati contro la cosca più agguerrita e
dominante, quella degli Strisciuglio. <<In prospettiva – è scritto nel dossier – è
ipotizabbile un’evoluzione delle dinamiche criminali delle diverse consorterie. La
criminalità barese è caratterizzata dall’accentuata frammentazione dei gruppi
criminali, dalla mancanza di un vertice comune ed aggregante e dall’insorgere di
tensioni e scontri>>. (Su questa alleanza abbiamo dedicato un paragrafo che troverete
in chiusura del capitolo Bari).
Ma a spaventare non è solo la macrocriminalità. C’è una recrudescenza della
microcriminalità che le forze dell’ordine stanno cercando di soffocare. Ad esempio, i
furti negli appartamenti sono il tallone d’Achille delle città settentrionali. Però
<<Bari – è evidenziato nel rapporto – è l’unica città meridionale che presenta tassi di
furto nelle abitazioni più simili a quelle del Nord, in linea con quelli di Milano>>.
Dopo Bologna (516 rapine ogni 100mila abitanti) e Torino (395), il capoluogo
pugliese si posiziona al terzo posto (340). A seguire Milano (336) e Roma (257).
Catania (173), Palermo (120) e Napoli (92) sono in fondo alla graduatoria.
La provincia barese è anche la ‘regina’ per quanto riguarda i furti di camion, con 3,5
mezzi pesanti rubati ogni 1.000 veicoli. Dimezzati, invece, gli scippi (si è passati da
341 a 138 casi ogni 100mila abitanti). Vita dura per i rapinatori: il 45,8 per cento è
arrestato, si tratta della media più alta d’Italia. (2)
Furti - Rapine
Un tempo era solo il capo della banda criminale di paese ad avere aderenze con i clan
del capoluogo, ora le cose sono cambiate. E’ l’intera banda che accetta di vestire la
casacca del clan e di rappresentarlo, aumentando in questa maniera il proprio
‘prestigio’ negli ambienti malfamati. Il fenomeno, confermano gli investigatori,
starebbe verificandosi in tutti i Comuni raggiunti da questa “ondata colonizzatrice”
della malavita organizzata. Aggregazioni sarebbero avvenute nelle zone di Adelfia,
Valenzano, Casamassima dove contemporaneamente è cresciuto il fenomeno dei
ricatti e dei taglieggiamenti. Gli investigatori hanno motivo di ritenere che parte della
nuova ‘forza lavoro’ sia stata impiegata nel ramo industriale delle estorsioni. Indagini
importanti sono in corso nei comuni appena citati da parte dei carabinieri del Reparto
operativo provinciale.
Una caratteristica dei nostri clan è quella che non sono riconducibili ad una struttura
unitaria, a differenza della ‘ndrangheta e di cosa nostra, ma anche della camorra,
dove vi è, invece, una forte struttura unitaria, certo con forme e modi diversi. Non
hanno una struttura piramidale. Il ‘capo dei capi’ non è mai realmente esistito, anche
se la figura di Savino Parisi continua a rimanere l’emblema di come il carisma
personale sia la cifra distintiva di un intero territorio. Forse l’egemonia di Parisi si è
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ormai ammantata anche di leggenda, mentre altri boss sono nel frattempo cresciuti e
crescendo, hanno contribuito a cambiare il volto e il linguaggio del crimine barese.
Un processo di inglobazione e assimilazione che non si limiterebbe, sostengono le
fonti accreditate, alla cosiddetta forza lavoro ma riguarderebbe lo stesso business
delle rapine. Come un parassita la mafia starebbe ora succhiando una parte dei
proventi delle rapine, partecipando alle spartenze che un tempo erano riservate
unicamente a chi partecipava ai colpi. E’ come se ogni banda, tra quelle che si sono
piegate alla nuova politica industriale dei clan, avesse un componente in più, un
nuovo socio con cui dividere il bottino. Nelle casse della ‘piovra’ entrano, sempre più
in maniera sistematica, le spartenze di rapine a Tir (vi è un paragrafo che si intrattiene
su questi tipi di furto), farmacie, supermercati, tabaccherie, distributori di carburante,
banche.
La ‘piovra’ barese ha allungato i suoi tentacoli raggiungendo ad esempio Torre a
Mare, Mola, Capurso, Valenzano, Triggiano ed Acquaviva sotto l’influenza del
gruppo Parisi e degli Stramaglia. Ci sono poi Ceglie, Adelfia, Bitritto, Santeramo e
Cassano che orbitano in area Di Cosola. Gli Strisciuglio vengono segnalati oltre che
in diversi quartieri di Bari compresi Santo Spirito e Palese, anche Giovinazzo,
Bitonto, Noicattaro. I Capriati restano nella loro roccaforte di Bari vecchia e a
Modugno. Non a caso in questi comuni si contano frequenti episodi anche di efferata
criminalità. Si aggiungono, naturalmente, zone di radicate tradizioni criminogene
quale il Nord barese, che ha come epicentri: Andria e Barletta.
Il contrasto rimane, ma con connotati familistici tra i Capriati (nella configurazione
Capriati/Rizzo/Lorusso) e gli Strisciuglio (nella configurazione Strisciuglio/De
Felice/Caldarola); è in questo solco che il fuoco può riaccendersi.
Ciò non significa che sono completamente assenti fatti di sangue. Per esempio il 10
marzo del 2008 vi è stato un agguato nel quartiere Japigia del capoluogo regionale. Il
sorvegliato speciale Emilio Quarta, tornato in libertà a gennaio dopo un periodo di
detenzione, è stato raggiunto da tre colpi di pistola mentre si trovava nel piccolo
cortile recintato della sua abitazione. Due proiettili l’hanno raggiunto all’addome, il
terzo alla coscia destra. A far fuoco, con una pistola semiautomatica calibro 9,
sarebbe stata una persona scesa da una motocicletta, guidata da un complice.
Immediatamente soccorso è stato trasportato al Policlinico e sottoposto ad intervento
chirurgico. Dopo cinque giorni di agonia è morto.
La vittima viene considerata dagli investigatori un <<pesce piccolo>>, privo di
spessore criminale, non coinvolto in dinamiche di mafia. E’ possibile che abbia
pestato i piedi a qualcuno e che questi si sia vendicato.
Non per questo siamo autorizzati a sottovalutare, anzi è il segnale di una criminalità
disposta a tutto e che quindi se il caso non si sottrae ad imbracciare le armi. (2)
Reclutamento dei minorenni da parte del clan Telegrafo per arricchire il
proprio patrimonio
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C’è un’altra inquietante tipicità, unica nel panorama nazionale: l’inserimento
scientifico e sistematico dei minorenni nelle organizzazioni. Ragazzini reclutati con
estrema facilità. Manipolabili. Sacrificabili. I soldatini di una guerra che la
criminalità organizzata nella sua interezza ha dichiarato alla società buona,
all’economia sana, alle regole della convivenza civile. Quindi non solo per il
trasporto delle armi appena usate per attentati o omicidi ma anche, per esempio, per
liberare il terreno dai bossoli lasciati durante l’esecuzione di un omicidio,
naturalmente per ostacolare le indagini. Ma non ci si ferma qui, esiste una vera e
propria scuola per l’avviamento alla carriera criminale, iniziando dagli scippi che
rappresentano l’avvio ad un esercizio illecito. E’ di non molto tempo addietro la
scoperta di un diciottenne che impartiva, ad un gruppo di piccoli allievi, lezioni
appunto di scippi.
E la conferma ci viene dall’operazione dei Carabinieri portata a termine alla fine di
febbraio del 2008: un gruppo (il clan Telegrafo) particolarmente agguerrito quello
sgominato, che dettava legge al San Paolo con il pugno di ferro, obbligando i suoi
giovani affiliati (anche ragazzi di 17 anni) a darsi anima e corpo, anche a costo di
sacrificare gli affetti familiari. A parlare di ragazzi temerari e avventati ne fanno
cenno proprio i capi, come risulta dalle intercettazioni dei carabinieri. Pronti a sparare
e utili nello spaccio delle sostanze stupefacenti. Estorsioni ai gestori di grandi centri
commerciali o imprese di costruzioni e poi il traffico d’armi e gli avvertimenti in
puro stile mafioso a chi non sottostava agli ordini della cosca. Ed è proprio sulla
feroce e delirante determinazione dei nuovi picciotti, disposti ad offrirsi come
volontari per le spedizioni più pericolose (tanto da essere soprannominati kamikaze),
se ben ricompensati con denaro ed i galloni della promozione, che il presunto clan
Telegrafo è rinato nel quartiere San Paolo a cavallo tra il 2004 e il 2005,
perpetuandosi fino ai giorni nostri.
Il clan Telegrafo dettava legge nel San Paolo, estorceva danaro, smerciava droga,
usava armi. Nel quartiere popoloso pagavano tutti, il 5 di ogni mese: le richieste
oscillavano tra i 250 e i mille euro a settimana, in base al volume d’affari
dell’esercizio commerciale. Di solito i negozi più grossi pagavano cache, quelli
piccoli anche “in beni e servizi”, mettendo le loro capacità al servizio
dell’organizzazione. Pagavano anche i venditori ambulanti del mercato del venerdì: a
loro era lasciata la possibilità dell’offerta libera. E alla legge imposta dal clan
Telegrafo non c’era chi si opponesse. Il dominio era incontrastato, grazie anche ai
giovani adepti. L’associazione mafiosa era capeggiata – secondo l’accusa – dal
quarantunenne Lorenzo Valerio e dal suo luogotenente Carlo Iacobbe di 38 anni.
Aveva una organizzazione manageriale. Le competenze erano ben marcate: al livello
più basso, il primo, c’erano i kamikaze; al secondo gli addetti allo spaccio della droga
e alla riscossione del pizzo; al terzo i responsabili di zona, addetti alla gestione dei
kamikaze e dei pusher.
Disarticolato attraverso una serie di inchieste che nel 2003 culminarono con un blitz
che portò in carcere ben 46 presunti mafiosi, il gruppo già capeggiato da Nicola
Telegrafo detto ‘il brigante’ (morto in carcere per malattia nel giugno del 2004) è
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rinato nel tempo. Un mostro a forma di serpente dalle molte teste, gran parte delle
quali vennero mozzate nel 2003, è rinato grazie a giovani virgulti innamorati della
malavita.
Per essere ammessi ai ruoli di vertice c’era nel clan una vera e propria cerimonia di
affiliazione, un banchetto che veniva consumato in un circolo ricreativo di via Ciusa.
Al picciotto ‘graduato’ veniva consegnato un anello con solitario che poteva essere
ritirato in caso di condotta non soddisfacente. Erano gli interessi economici il vero
collante del gruppo ma questa cerimonia era un modo di rafforzare il vincolo di
appartenenza a un’unica famiglia dominante.
Nel novembre del 2004 i giovani kamikaze erano stati chiamati ad aprire il fuoco
contro i carabinieri per evitare che venisse scoperto un deposito di armi. Ma il piano
fu fortunatamente sventato grazie alle intercettazioni. Nel corso dell’indagine –
avviata tra ottobre e novembre 2004, al termine dell’operazione Iceberg, e proseguita
per 18 mesi – sono state sequestrate nove pistole, un fucile a canne mozze, circa 900
munizioni, 700 grammi di cocaina e sette chili di hascisc.
Ma non c’erano solo i ragazzi. Consapevoli, partecipi, praticamente complici, sono le
donne del clan: le mogli, le madri, le sorelle dei presunti picciotti finiti in carcere a
seguito dell’operazione dei carabinieri. Però nessuna delle donne coinvolte
nell’indagine e per le quali è stata richiesta la custodia cautelare ha visto aprirsi le
porte del carcere. Non è stata arrestata neppure la neo mamma, moglie di uno degli
esponenti più in vista del clan (figlio di un vecchio sodale della organizzazione
Telegrafo) la quale, in base alla ricostruzione dei carabinieri, non avrebbe esitato a
diventare complice del consorte nel trasporto di un carico di droga. Ha affiancato il
marito nel viaggio in macchina per le vie del quartiere, tirandosi dietro il figlio di
pochi mesi pur di offrire una copertura e ingannare le forze dell’ordine. (2)
Il 26 maggio 2008, a tre mesi dall’arresto dei picciotti del clan, i carabinieri del
reparto operativo provinciale sequestrano beni del valore complessivo di due
milioni di euro gestiti – secondo la Direzione distrettuale antimafia – dalle donne
dei boss.
L’operazione ha portato all’esecuzione di nove provvedimenti di sequestro di beni,
alla metà ‘rosa’ dei clan, gli investigatori dell’Arma ritengono di aver inferto un altro
durissimo colpo allo storico sodalizio criminale, capeggiato – secondo l’ipotesi della
Dda – da Lorenzo Valerio e dal suo luogotenente Carlo Iacobbe, arrestati a febbraio
2008 (con numerosi altri affiliati) con le accuse, a vario titolo, di associazione
criminale di stampo mafioso, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione di armi ed
estorsione.
Il provvedimento di sequestro preventivo è stato emesso dal giudice delle indagini
preliminari su richiesta del pubblico ministero.
I sigilli del Tribunale sono stati apposti innanzitutto a un rilevante pacchetto di quote
della società in accomandita semplice “Sogega”, avente per oggetto custodia e
lavaggio di autoveicoli, trasporto di merci, rimessaggio e riparazioni di barche,
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gestione di parcheggi, servizi di pulizia e manutenzione, custodia e vigilanza di
edifici e gestione e conduzione di impianti sportivi. La stessa ditta risulta proprietaria,
inoltre, di un’area di circa cinquemila metri quadrati nel pieno centro cittadino,
anch’essa sequestrata.
Ancora sigilli giudiziari a: due appartamenti di 130 metri quadrati ciascuno, sempre
in città; sei conti correnti e libretti di deposito dove, secondo l’accusa, transitavano i
proventi illeciti del sodalizio criminale e dai quali, sempre in base agli accertamenti
dei militari, si attingeva per le spese di qualsiasi natura dei clan, comprese quelle
legali; nove fra auto e moto di grossa cilindrata, utilizzata dai componenti del clan per
il traffico di droga e il trasporto di armi.
L’attività investigativa, com’è stato chiarito nel corso di una conferanza stampa, ha
messo in luce il ruolo centrale ricoperto dalle donne del clan, che dietro una facciata
di apparente normalità costituita dal vivere all’interno di palazzine di edilizia
popolare e dal mantenere un tenore di vita senza eccessi, in realtà – stando alle
verifiche investigative – erano beneficiarie dei proventi dell’attività illecita dei propri
mariti e familiari.
In effetti, l’indagine ha evidenziato che il defunto capo storico del clan Nicola
Telegrafo aveva intestato le quote societarie della “Sogega” a sua moglie. Altrettanto
avrebbe fatto il suo presunto luogotenente Carlo Iacobbe, che avrebbe suddiviso i
suoi guadagni in una serie di conti dei quali beneficiano anche la madre e la figlia.
Intanto, sempre il 26 maggio 2008, una pattuglia delle Volanti della Polizia ha
arrestato per violazione degli obblighi della sorveglianza speciale, a Carbonara un
altro Telegrafo, anche lui Nicola, barese. L’uomo è stato sorpreso in piazza Umberto,
mentre conversava con persone conosciute alle forze dell’ordine. (2)
*
Almeno dieci banditi hanno assaltato, il 15 maggio 2008 poco dopo le 15, il
portavalori, un blindato che, dopo aver raccolto l’incasso dell’Ipercoop Mongolfiera
ed aver attraversato Molfetta, si stava immettendo sulla statale 16 per rientrare a Bari
dalla svincolo Cola Olidda di Giovinazzo.
A bordo del blindato si trovavano tre vigilanti che non hanno opposto resistenza. Per
questo la rapina non si è trasformata in tragedia. Prima di allontanarsi i componenti
del commando hanno dato alle fiamme quattro delle auto impiegate per bloccare il
blindato, tutte risultate rubate.
Nel frattempo è partita la caccia all’uomo anche con l’impiego di elicotteri.
Determinanti saranno le testimonianze dei tre vigilanti. Il colpo, ne sono certi gli
investigatori, era stato studiato nei dettagli. E’ stato messo a segno da preofessionisti
del crimine, uomini che non hanno mai perso il controllo ed hanno fatto attenzione a
non lasciare scie di sangue. (2)
*
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In soli due mesi erano diventati il terrore della Valle d’Itria. Ma erano anche
andati oltre, colpendo in almeno due occasioni le villette dell’agro monopolitano.
Sono stati tutti catturati, il 20 maggio 2008, i componenti della “Banda delle ville”,
dopo verifiche e pedinamenti dei carabinieri della Stazione di Locorotondo in
collaborazione con il Nucleo operativo della Compagnia dei carabinieri di Monopoli.
In quattro sono finiti in manette e rinchiusi nella Casa Circondariale di Bari. Sono in
attesa di convalida degli arresti Francesco Conte di Locorotondo (avrebbe avuto un
ruolo di basista), Giovanni Palmisano e Vito Decarolis, entrambi di Fasano, oltre
all’albanese Ivi Tusha, residente da tempo a Fasano. Volti già noti ai carabinieri per
alcuni precedenti penali. Sono accusati di associazione a delinquere finalizzata a
rapine in villa e ad esercizi commerciali sempre con la tecnica del sequestro di
persona. (2)
*
E’ la Direzione Investigativa antimafia a lanciare l’allarme sull’aumento delle
rapine ai tir, un fenomeno che in provincia di Bari sta assumendo proporzioni
preoccupanti. Lo dimostrano i numeri: nel biennio 2006-2007, i colpi messi a segno
agli autoarticolati diretti o provenienti dalla zona industriale del capoluogo pugliese
sono stati 212. Un numero elevato che presuppone l’esistenza di un vero e proprio
mercato parallelo dove la merce rubata viene smistata o come scrive la Dia <<una
rete distributiva ramificata su varie aree del territorio pugliese>>.
E proprio per fermare il fenomeno, la Procura a Bari ha istituito un coordinamento
interforze che, coordinato dal magistrato della Dda, sta conducendo indagini per
sgominare le bande dei tir. Gruppi che, scrive la Dia nel rapporto trasmesso alla
procura di Bari, agiscono con <<inaudita efferatezza>>, utilizzando auto rubate. <<In
molti casi – aggiungono i detective della Dia – i malviventi si vestono da poliziotti>>
e usano auto simili a quelle in dotazione agli agenti della Questura>>. Ai camionisti
impongono l’alt, poi commettono la rapina. Spesso sequestrono i camionisti, dopo
aver rapinato il tir, li abbandonano in aperta campagna. Più frequenti, aggiunge la
Dia, i colpi messi a segno ai danni di autoarticolati, fermi, in sosta, nelle aree di
servizio. I conducenti dei tir vengono sorpresi in piena notte o meglio alle prime luci
dell’alba, costretti a cedere le chiavi del camion con i quali i banditi poi scappano. Un
fenomeno che allarma non solo i camionisti, ma anche gli imprenditori baresi perchè
le bande scelgono autoarticolati che trasportano merce di ogni genere, come i prodotti
alimentari, quelli per l’igiene della casa e della persona, l’abbigliamento o
fitofarmaci, concimi cioé destinati all’agricoltura. Alla relazione, trasmessa in
Procura, gli agenti della Dia hanno allegato alcuni schemi che, anno per anno, rapina
per rapina, indicano la tipologia della merce sottratta. E soprattuto confermano come
gli obiettivi delle bande dei tir siano diversi.
Le indagini della procura che già in passato ha chiesto e ottenuto l’arresto di una
ventina di rapinatori puntano non solo ad individuare i componenti dei gruppi
criminali specializzati nei colpi, ma anche a risalire alle organizzazioni che smistano
90
la merce rubata. Secondo gli investigatori, esiste un vero e proprio mercato parallelo:
i prodotti, frutto delle rapine ai tir, vengono ceduti a commercianti che, in questo
modo, possono risparmiare e soprattutto rivenderli a prezzi più bassi, alterando così il
normale regime di concorrenza. (2)
*
I carabinieri nella notte tra il 23 e il 24 giugno 2008, nel corso di un servizio di
controllo a Bitonto, hanno individuato e sequestrato due auto di grossa cilindrata, che
risultavano rubate, all’interno delle quali erano nascoste centraline per blocchi di
accensione dei quadranti contachilometri e chiavi utili ad avviare il motore di diversi
tipi di veicolo, per un totale di settanta pezzi, uno scanner e due radio sintonizzate
sulle frequenze delle forze di polizia, quattro torce, un passamontagna, due fasce di
pile, due paia di occhiali, sessantacinque arnesi da scasso flex, trapani estrattori,
tenaglie, cacciaviti, martelli, chiavi inglesi, forbici, pinze, taglierini, seghe, scalpelli,
tubi ed altri strumenti artigianali. Forse si stava preparando una o più azioni criminali.
(2)
Le contraffazioni
Tassello dopo tassello gli uomini della Guardia di Finanza della compagnia di
Monopoli con il coordinamento del sostituto procuratore della Repubblica di Bari,
hanno ricomposto il racconto di un business milionario, che prende forma nelle
lontane regioni a nord di Shangai per dipanarsi lungo l’Europa, fino ai dettaglianti del
Senegal che popolano le strade d’Italia.
Con le operazioni <<China box>> e <<Shangai>>, l’una figlia dell’altra, con 4
arresti, 65 indagati e sequestri per 60 milioni di euro, le Fiamme Gialle hanno chiuso
il cerchio intorno a una delle più complesse e ramificate organizzazioni malavitose
multietniche attive nel campo della contraffazione. Borse, cinture, occhiali, scarpe,
milioni e milioni di pezzi tutti rigotosamente falsi, tutti rigorosamente griffati.
Gli uomini del GdF hanno avviato le indagini nel maggio del 2006. In poco meno di
due anni sono stati 800mila gli articoli contraffatti sottoposti a sequestro con 11
container e 5 depositi. L’organizzazione multietnica disarticolata dai dinanzieri era
specializzata nell’introduzione e commercializzazione in Italia di ingenti quantitativi
di articoli di abbigliamento (soprattutto borse, cinture, calzature e altri accessori
d’alta moda). Merce destinata ad alimentare un mercato parallelo dalle proporzioni
vastissime.
L’indagine ha permesso d’individuare anche le fabbriche di produzione della merce
nella Repubblica Popolare Cinese. Così, per la prima volta, si conoscono i nomi dei
produttori e quelli degli spedizionieri, le rotte, le modalità di trasporto e di cessione.
Segnalazioni in tal senso sono state fatte all’Alto Commissariato contro la
contraffazione. Nel corso dell’attività investigativa, viceversa, non è stato possibile
accedere allo strumento della rogatoria per l’assenza di accordi bilaterali tra la Cina e
l’Unione Europea sia in materia giudiziaria che amministrativa.
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Gli investigatori hanno individuato un personaggio del Senegal, che vive a Bari,
perno tra i produttori cinesi e i dettaglianti senegalesi. E’ lui che acquista dagli
orientali di stanza in Campania per poi rifornire i nordafricani ambulanti attivi in
Puglia. Sarebbe lui, inoltre, il rifornitore di alcuni italiani attivi nel Nord Barese nella
vendita on line di merce contraffatta. Quanto ai senegalesi che vendono sulle
bancarelle allestite nelle feste di paese o nelle mete tutistiche tra Bari e Brindisi,
l’inchiesta ha accertato il loro schieramento sul territorio di tipo militare: ognuno
svolge un ruolo ben preciso. C’è il venditore, c’è la staffetta che rifornisce la
bancarella di merce tenuta in automobile parcheggiata in zone; c’è il palo e ci sono le
sentinelle, che in maniera diversa sorvegliano la zona per segnalare l’eventuale arrivo
delle forze dell’ordine. Ci sono anche uomini nerboruti capaci di intervenire nel caso
di possibili sequestri delle forze di plizia. (2)
Il verdetto con gazzarra per il delitto Marchitelli
Il 14 maggio 2008 è stato emesso il verdetto che ha condannato 15 dei 17 imputati
nel processo per l’omicidio di Gaetano Marchitelli, il 15enne pony express di pizzeria
ucciso a Carbonare il 2 ottobre 2003, perché sfortunatamente e incosapevolmente al
centro dello sbarramento di fuoco indirizzato ad altri.
La Corte ha condannato a 30 anni di reclusione ciascuno i quattro presunti
appartenenti al <<gruppo di fuoco>>, così come identificato dalle indagini della
Squadra mobile: Francesco Luigi Frasca, i fratelli Luigi e Vincenzo Guglielmi e
Giovanni Partipilo, tutti oggi poco più che ventenni e tutti ritenuti vicini al clan
diretto – secondo l’antimafia – da Antonio Di Cosola di Ceglie del Campo. Secondo
la Dda, il <<gruppo di fuoco>>, quella sera, sarebbe entrato in azione contro due
presunti esponenti del clan avversario degli Strisciuglio, Francesco e Raffaele
Abbinante, condannati rispettivamente a 6 anni e a 4 anni e mezzo di reclusione per
episodi minori.
A 17 anni ciascuno sono stati condannati, per altri fatti di violenza: Cosimo Di
Cosola, fratello del presunto boss, Andrea Caporusso, Domenico Marzullo e
Domenico Masciopinto (già condannato a 30 anni per il delitto Marchitelli).
Sconteranno 15 anni e 6 mesi ciascuno Salvatore Walter Arganese, Pietro Barberio e
Luigi Schingarro. Ancora 4 anni e 6 mesi per Antonio Lasorsa e due anni, con il
beneficio della sospensione condizionata della pena, per Angela Maria Masciopinto.
Assolti da ogni accusa il calabrese Francesco Costa e Nicola Murgolo.
Gli imputati ritenuti componenti del <<gruppo di fuoco>> dovranno risarcire i danni
alla famiglia Marchitelli, al Comune e al ragazzo che rimase ferito. Per ora, la Corte
ha fissato provvisionali di 100mila euro ai Marchitelli e al Comune e di 20mila al
giovane ferito.
La lettura della sentenza ha conosciuto accese proteste, offese ai giudici e assedio al
palazzo di giustizia.
Fra i protagonisti delle aggressioni verbali ai giudici dell’Assise (presidente De Feo, a
latere Maria Scamarcio) e al pm Desireé Digeronimo, la madre dei fratelli Luigi e
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Vincenzo Guglielmi. La donna ha fatto esplodere la sua rabbia quando il presidente
ha letto il passaggio del dispositivo riguardante i suoi figli. Le sue reazioni hanno
costretto l’esperto magistrato a interrompere la lettura. I carabinieri di presidio hanno
allontanato dall’aula la donna che è svenuta per alcuni secondi. (2)
Giustiziato nel 2000, nel 2008 il verdetto
Due condanne sono state emesse il 26 maggio 2008 dalla Corte d’Assise di Bari, per
l’omicidio di un giovane pregiudicato, Pasquale Sinibaldi, di 23 anni, giustiziato con
un colpo di pistola alla testa a maggio del 2000 alla periferia di Sannicandro, centro a
una quindicina di chilometri da Bari
La pena più alta, 18 anni di reclusione, è stata decisa per Carlo Biancofiore; a 15 anni
di reclusione, invece, è stato condannato il collaboratore di giustizia Angelo Bruno,
che ha quindi usufruito degli sconti di pena per i ‘pentiti’ e comunque ha ottenuto la
prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti. Il verdetto ha confermato
sostanzialmente l’impianto accusatorio.
Secondo quanto emerso dalle indagini Sinibaldi sarebbe stato ucciso materialmente
da Giovanni Pinto, all’epoca 21enne, ritenuto dagli investigatori un boss emergente
del quartiere Carrassi di Bari, divenuto poi collaboratore di giustizia, e morto suicida
in carcere negli anni scorsi.
Sinibaldi, ritenuto un piccolo spacciatore, secondo la prospettazione accusatoria fu
assassinato sia perché aveva chiesto di partecipare agli utili dello spaccio di sostanze
stupefacenti (anziché continuare ad avere la normale paga settimanale) sia perché fu
ritenuto un ‘infame’ in quanto avrebbe riferito a un poliziotto vittima del furto della
propria automobile, il nome dell’autore, Giovanni Pinto, che all’epoca dei fatti agli
arresti domiciliari. Nella motivazione della sentenza, i giudici chiariranno il proprio
convincimento riguardo al movente della esecuzione.
La vicenda giudiziaria si ricollega, quindi, a quella personale di Giovanni Pinto.
Scampato per miracolo a un attentato nell’estate del 1992, quando aveva 13 anni e
mezzo (raggiunto da quattro proiettili finì in Rianimazione), negli anni successivi
Pinto – stando alle risultanze di alcune inchieste sulla mala cittadina – scalò le
gerarchie criminali fino ad approdare alla decisione di collaborare con la giustizia.
Poi cambiò idea, fino alla crisi interiore che lo spinse al gesto estremo. (30)
Un quartiere difficile: San Pio anzi Enziteto
Il quartiere S. Pio (più conosciuto come Enziteto) a nord della città, lontano e terribile
nel suo cemento spietato, è l’attuale bazar della droga a cielo aperto di Bari. Come
Japigia negli <<anni d’oro>> di Savinuccio Parisi.
Prezzi della droga più bassi rispetto ad altre piazze cittadine dello spaccio; la
vicinanza del quartiere alla statale 16, una delle strade più importanti della rete
provinciale; cocaina, eroina hashish e marijuana sempre disponibili; infine una
situazione ambientale favorevole tra indifferenza e omertà delle persone che vivono
in quelle strade dove lo smercio di stupefacenti è più frequente.
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Sono queste le ragioni che hanno fatto del rione San Pio il nuovo quartiere dello
spaccio, il luogo dove ogni giorno decine di dosi di sostanze diverse passano di
mano.
Sull’autobus 19 che parte da piazza Moro sale una variegata componente umana della
città e dell’hinterland che si confonde tra le signore e gli studenti che rientrano nel
quartiere. Questo popolo di frequentatori va a S. Pio, compra droga e torna in città.
Non è un problema, perché non vi sono tracce di vigili urbani che nel quartiere hanno
un loro presidio, sono chiusi nel recinto di piazzetta Eleonora e se provi a citofonare
difficilmente qualcuno risponde.
Quando scendi dall’autobus, al capolinea del quartiere, ci sono ragazzi che tornano in
città, dopo aver comprato le dosi e altri che camminano lungo le strade vuote
lentamente e spariscono.
Qualcuno ha riferimenti ben precisi, sa a chi rivolgersi, sa a quale porta andare a
bussare. Altri si infilano, attraverso i varchi delle scale esterne condominiali, sotto i
famosi portici, quella lunga camminata pedonale che, nelle intenzioni dei progettisti,
avrebbe dovuto essere la strada dei negozi e delle botteghe. Viceversa, quei locali
sono stati presi d’assalto dagli abusivi che ne hanno fatto abitazioni. Lì si sono
insediati uomini, donne, famiglie, bambini, ragazze madri, Un’umanità varia di
margine. In quelle case, per anni, decine e decine di bambini si sono lavati nelle
bacinelle e hanno usato i pitali per i bisogni. Tutti lo sapevano. Ma non hanno mai
fatto niente. In silenzio le istituzioni dicevano: siete abusivi, cosa volete? Ringraziate
che avete un tetto.
Abusivi che nessuno manda via. In questi bassi – secondo la polizia – verrebbero
nascoste discrete quantità di sostanze stupefacenti. Questo stratagemma
consentirebbe agli spacciatori di avere sempre sotto mano dosi da vendere ai
numerosi acquirenti in arrivo dalla città, ma di non averne addosso, nel caso
dell’improvviso arrivo delle forze di polizia e di una conseguente perquisizione.
Gli abusivi verrebbero costantemente intimiditi dai soldati del clan. Le famiglie,
estranee ai traffici, subirebbero una sorta di condizionamento oggettivo: se uno di
questi personaggi bussa alla porta e <<chiede il favore>> di custodire un pacchetto,
sarebbe praticamente impossibile opporre un rifiuto.
Non solo, ma è attivo anche il reclutamento. Confessa una mamma ad un inviato del
più diffuso quotidiano barese: <<Mio figlio ha 16 anni. Gli hanno proposto 500 euro
per vigilare i portici, dove spacciano la droga. Lo sappiamo benissimo che spacciano
la droga, ma dobbiamo tenere gli occhi bassi e far finta di niente. Se no sono guai>>.
E’ stato avvicinato da ‘quelli lì’, i soldati del clan Strisciuglio, come molti altri.
Cinquecento euro praticamente per non far niente, per vigilare su quella striscia
pedonale di cemento. <<Gli spezzo le gambe piuttosto – aggiunge la mamma
coraggio – Gliel’ho detto: tu guarda a terra e fatti i fatti tuoi. Cammina con i
paraocchi come i cavalli>>. (15) Ed è vero a Enziteto bisogna guardare sempre in
basso. Camminare con gli occhi per terra. Anche se, osserva un giornalista di
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Repubblica, è bene anche turarsi il naso, perchè di puzzare puzza. In un pomeriggio,
continua il suo racconto, caldo e afoso anche i tombini nascondono la droga, pure la
fogna, è la sua amara conclusione, è in grado di dare da mangiare. E’ stato al centro
sociale dove ha raccolto le confidenze delle signore che lo frequentono. <<E’
cambiato tanto in un anno emezzo. E noi abbiamo paura. Non per noi, ma per i
bambini>>, in coro affidano alla stampa, il loro sconsolato lamento. La paura si tocca
con mano. Esempi: la Opel Astra, di proprietà di una signora presente all’incontro,
piace molto al figlio dei vicini di casa. Tutti i giorni, a partire da una settimana, gliela
chiede gentilmente in prestito. <<Dammi le chiavi>>, le dice. E lei annuisce e
consegna il mazzo. Conviene. Tempo fa disse di no al ragazzino, 20 anni: era un’altra
occasione, il giovane le domadò gentilmente di tenere in casa una scatola. Davanti al
rifiuto quello non battè ciglio. Il giorno dopo, per caso, un vetro della macchina fu
ritrovato in frantumi. <<Ora se qualcuno mi chiede cosa fa quel ragazzo con la
macchina, io non glielo so dire. E sinceramente non posso nemmeno chiederlo a lui.
Ho paura>>. Un’altra signora racconta di sua figlia, 17 anni. <<E’ successo l’altro
giorno (9 giugno 2008, nostra nota), ero fuori al balcone, qui alle palazzine dei
Matarrese che non sono case popolari ma cooperative, noi siamo gente per bene. E’
arrivato uno con un macchinone, è entrato nel complesso – che è pure vietato – e gli
si è avvicinato un ragazzino. Non so cosa si sono detti so che quello si è allontanato, è
andato dietro a un albero, poi ha preso una bustina, gliel’ha data in cambio di soldi,
ed è scappato via. Io guardavo e mia figlia mi ha urlato contro “Mamma entra subito,
ancora ti vedono”. Io sono entrata e ho acceso la televisione>>. Paura appunto. Si
devono guardare bene da quel signore che ieri pomeriggio (10 giugno 2008, sempre
nostra nota) urlava in canottiera dal balcone (pare che la giustizia gli impedisca di
uscire di casa) di non fotografare un tempio di San Pio da lui costruito su un terreno
di proprietà del Comune. <<Mi dà fastidio. Non si può fotografare>>. (15)
Le numerose indagini condotte dalla Squadra Mobile hanno permesso di accertare
che la zona dei portici è il luogo eletto ad area di spaccio e punto di riferimento dei
tossicodipendenti. La distribuzione massiva e capillare della droga a <<San Pio>>,
sostengono gli investigatori, è favorita dalla particolare conformazione urbanistica di
quel pezzo di rione, protetto da sentinelle e vedette sistemate nei punti strategici, a
protezione di quello che gli stessi poliziotti hanno ribattezzato il <<fortino>>.
In uno di questi bassi abitava la piccola Eleonora, morta di stenti, e i suoi crudeli
genitori (condannati in primo grado per averne provocato la morte). Nel locale al
piano terra che era un tempo l’abitazione di Eleonora, ora è sorta la ludoteca
ribattezzata <<Casa Eleonora>>, che si trova, in sostanza, proprio nel cuore dello
smercio al dettaglio di stupefacenti. La Ludoteca è spesso chiusa, per ragioni
facilmente ipotizzabili.
Sotto i portici sono invece sempre in servizio le sentinelle del quartiere, a bordo di
potenti scooter, ovviamente senza casco, circolano appena qualcuno s’affaccia nel
loro territorio. Verificano, controllano. All’occorrenza intervengono. L’intero
quartiere è nelle mani del clan Strisciuglio. Quelli che si vedono all’opera sono i
95
soldati di Mimmo <<la luna> (il riconosciuto capo-clan) che si è impossessato del
controllo del mercato della droga anche in questo lembo di città.
La vendita si consuma senza difficoltà, perché le strade sono vuote, perché il rione
potrebbe sembrare disabitato, per questo silenzio e questo senso di vuoto che si
respira lungo le strade. Sotto i portici, sugli usci dei bassi, gesti furtivi ma fin troppo
chiari. Le dosi vanno a ruba, 20, 30 50 euro, a secondo del tipo di sostanza e della
quantità acquistata. L’incasso della giornata è notevole.
Sul quartiere, ad ogni modo, si concentra l’offensiva della Squadra Mobile. Negli
ultimi mesi sono finiti in carcere in manette Giuseppe Franco, 22 anni, ritenuto
responsabile di una intensa attività di spaccio condotta proprio sotto i portici. Ancora
prima era stato scoperto Vincenzo Vernone , 34 enne, trovato in possesso di oltre 100
grammi di sostanza. Ed ancora nella rete degli inquirenti sono finiti uno dietro l’altro
Saverio Faccilongo e Luca Spina, di 20 e 22 anni, giovanissimi, nomi noti del
quartiere, Renato Mema, 32 anni e Nicola Ciaramitano 21. Ingente la quantità di
droga sequestrata. Nel solo mese di febbraio sono state recuperate 58 dosi di cocaina,
29 di eroina e 60 di hashish.
Il 14 marzo 2008 gli investigatori della quinta sezione della squadra mobile hanno
tratto in arresto con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti un giovane di 20
anni, Piero Mesecorto, trovato in possesso di 24 grammi di eroina e cocaina già
confezionate in dosi. Appena ventenne si tratta comunque di una vecchia conoscenza
delle forze dell’ordine, non legato comunque alla mafia barese o affiliato a clan.
Secondo il racconto degli investigatori, il giovane avrebbe manifestato un innato
talento a ficcarsi nei guai sin da giovanissimo. In base alla ricostruzione della polizia
apparterebbe a quella schiera di ‘pusher’ che non solo vendono droga tra Catino e
San Pio ma che in quella zona ci vivono, sapendo di poter contare sulla complicità di
amici e vicini. Non è un caso che spesso lo smercio avviene nelle stradine più
malfamate dove l’indifferenza, l’omertà a volte anche la complicità sono la regola.
Il ‘fiato sul collo’ degli spacciatori le forze dell’ordine provano a farlo sentire, anche
se i cervelli e i manovali dello spaccio le studiano tutte. (8) A cominciare dall’uso dei
walkie talkie, ricetrasmittenti di vecchissima generazione le cui conversazioni sono
difficili da intercettare, almeno con gli attuali apparati in uso alle forze dell’ordine,
calibrati per le linee della telefonia fissa e mobile. Con i walkie talkie le sentinelle
che presidiano il quartiere e, in particolare, la zona pedonale dei portici, si scambiano
informazioni, segnalano l’arrivo di persone, si mettono reciprocamente in allerta.
E’ uno degli stratagemmi individuati dal crimine organizzato che ha fatto del
quartiere un fenomeno di autentico allarme sociale.
Zona di riferimento dello stupefacente è il quartiere Libertà e non poteva essere
altrimenti visto che quella è la zona di elezione di Mimmo Strisciuglio. I giovanissimi
spacciatori da San Pio raggiungono il Libertà per acquistare notevoli quantità di
cocaina, eroina e droghe leggere. Il tragitto – sempre con l’obiettivo di sfuggire alle
forze dell’ordine – lo percorrono a bordo di ciclomotori scegliendo strade minori e
percorsi alternativi, cambiando di volta in volta itinerario.
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Su questo fenomeno enorme e devastante è tra l’altro in fase di conclusione una
robusta inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia. Ma la repressione non basta,
non può bastare per mettere fine a un’attività che, oltre tutto, confina nella paura (e
chiusa in casa) la gran parte dei residenti del rione.
Ma Enziteto è un lembo di territorio così remoto da rendere difficile anche la
repressione.
E’ doveroso aggiungere che la coraggiosa campagna di stampa su Enziteto promossa
da “La Gazzetta del Mezzogiorno” ha comunque prodotto i primi risultati; da giugno
entrerà in funzione il sistema di videosorveglianza, voluta dall’amministrazione
comunale. Sono 41, in particolare, le telecamere che l’amministrazione sta per
installare nelle periferie cittadine, dal San Paolo a Carbonara fino appunto a San Pio.
Non solo, sembra aver toccato un nervo scoperto delle cooperative sociali, sempre la
campagna di stampa, tanto che si sono risentite perché l’inchiesta giornalistica
avrebbe, secondo loro, trasmesso una immagine negativa del loro lavoro che invece
con la loro azione etica e professionale sostengono con qualità di risultati in tutti i
quartieri cittadini, numerosi servizi socio assistenziali rivolti a minori, famiglie,
disabili, anziani, homeless.
Certo però che qualcosa non sta funzionando se molti ragazzi continuano a rimanere
vittime del disagio e della devianza. (11)
Ma in tanto il quartiere rimane ancor più in mano alla criminalità. Per toccare con
mano questa realtà riportiamo fedelmente il racconto della visita a Enziteto fatta da
un giornalista del Corriere del Mezzogiorno il 9 aprile 2008:
“Se ci fossimo imbattuti nei segnali di ‘Alt’ o ‘Stop’, avremmo pensato ad uno dei
vecchi check point di confine. Solo il cartello stradale di benvenuto a San Pio ci
ricorda che siamo in Italia, in Puglia, a Bari. Sarebbe il caso di dire ad Enziteto. E sì
perché, al di là dei buoni intenti e di qualche opera meritevole, San Pio (com’è stato
ribattezzato) resta Enziteto. Il quartiere – per l’appunto – al confine dove regna
l’anarchia. Peggio ancora, la malavita. Spadroneggia su chi vorrebbe vivere una vita
tranquilla. Si impone con la forza, con i suoi fucili e le sue pistole. Come quella che
ci mostra Nicola (il nome è di fantasia, pericoloso chiedergli la vera identità) a pochi
passi da piazza Eleonora...........E’ la zona pedonale il centro nevralgico dei malaffari
del clan Strisciuglio, è lì che le facce devono farsi riconoscere.
<<Chi sei?>> chiede Nicola - ventenne dai capelli gelatinati, fede al dito e abiti
griffati - in tono minaccioso e in dialetto.
E’ il primo check point che cronista e fotografo devono superare. E’ stato avvisato
della mia presenza da un suo ‘collega’, una sentinella ferma in una Smart fuori dalla
zona pedonale. In mano ha un walkie talkie, un ricetrasmittente per dialogare a
distanza. <<Dove vai?>>, è il secondo quesito. Guai ad accennare nervosismo o
mostrare troppa spavalderia, al posto di blocco bisogna fermarsi e sottostare. Le loro
non sono semplici curiosità, sono lì per proteggere i propri affari (droga e armi) dalla
‘madama’ e dagli assalti dei clan rivali. <<Cosa vuoi?>>, è la terza richiesta
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d’informazione. Assodato che siamo giornalisti (il tesserino è utile quanto una carta
d’identità o un pass in zona di guerra, non fosse altro per dimostrare la propria verità)
e promesso che non ci fermeremo troppo tempo, la raccomandazione che ci fanno è
una, ma perentoria. <<Se fotografate auto, moto o persone vi spariamo>>. Forse lo
dice per incutere timore, forse no. Fatto sta che dietro la cintura, nei jeans, porta una
pistola. Che ci mostra a scanso di equivoci. Siamo liberi. proseguiamo. E’ ora di
pranzo, sono quasi le due. San Pio è deserto, in giro poche anime.........E le sentinelle
che ci seguono con gli sguardi, senza mai perderci di vista. San Pio è il quartiere della
polvere bianca, quella che spappola il cervello e ammazza.
Nell’ultimo mese, polizia e carabinieri hanno fermato sette persone, poco più che
maggiorenni. Sono loro i ‘portantini’, a loro è affidato anche il compito di sorvegliare
il perimetro di Enziteto. Il rione dimenticato, progettato distante dalla città e pensato
in maniera tale da farlo diventare una roccaforte inespugnabile. Nessuno entra o esce
indisturbato. Dalle finestre dei palazzi in prefabbricato gli uomini costretti agli arresti
domiciliari vigilano su ogni movimento. E segnalano. Non siamo tranquilli durante
la nostra visita, l’impressione è che la sicurezza qui sia una parola sconosciuta. Al di
là della sede della polizia municipale - quasi un comando in trincea – la presenza
dello Stato è vaga. Spesso polizia e carabinieri provano delle incursioni, stazionano
nei posti di blocco – quelli veri, quelli ‘legali’ – ma non fanno paura. Non spaventano
la malavita. Non più di quanto riescano a spaventare noi. <<Ancora qui siete?>>, ci
rinfaccia un’altra sentinella. Sono trascorsi non più di 15 minuti dal passaggio check
point. <<Dai, la gita è finita, adesso dobbiamo lavorare>>. Ci mostra la strada:
<<Andate verso la statua di San Pio. E non tornate>>. Perché qui non basta cambiare
nome al quartiere. San Pio è ancora Enziteto. Quartiere di confine. (11)
C’è un po’ di tutto in questo quartiere: la convivenza difficile e scomoda tra le
famiglie della malavita e quelle che con lo spaccio della droga non vogliono avere
a che fare ma che per non aver problemi girano la testa dall’altra parte e fanno
finta di niente. Ci sono gli spacciatori, quelli che vengono dal Libertà e quelli del
posto che vendendo droga sbarcono il lunario..
L’8 giugno 2008 gli investigatori della sezione antiscippo sono arrivati nel quartiere
mentre si faceva giorno. Si sono nascosti nei luoghi ancora bui e hanno osservato
quello che accadeva. I ‘tossici’, come li chiamano da queste parti, sono arrivati alla
spicciolata. Non erano neppure le 7,30 che erano già tutti in fila, soldi bene in vista ad
attendere il loro turno. Cocaina, eroina, hashish, marijuana al mercatino di San Pio
c’è tutto quello che serve per un viaggio da sballo, tra l’altro a prezzi convenienti.
Quando i detective della mobile sono piombati sulla scena del reato, i ‘tossici’ si sono
allontanati tra mugugni di paura e di sorpresa. Il pusher è saltato via nell’aiuola dove
aveva nascosto la ‘roba’ ma non ha fatto in tempo a portare via nulla che i poliziotti
gli erano già addosso. Il suo nome, Cosimo Pelargonio, 25 anni, uscito dal carcere un
paio di mesi orsono dopo un arresto per rapina, secondo l’accusa, aveva nascosto in
una siepe 12 dosi di cocaina (peso 12 grammi) e 21 di eroina (altri 23 grammi).
98
E’ il sedicesimo spacciatore che finisce in manette al quartiere dal giorno di Natale
per iniziativa della Squadra mobile, un record. Riuscire ad ingannare quella strana e
inquietante connivenza tra una parte della popolazione e la malavita che controlla il
mercato della droga non è facile. Un tacito consenso e una tolleranza che a volte
coinvolge anche i non malavitosi. Chi sa tenere la bocca chiusa viene risarcito.
Duecentocinquanta euro a settimana è il prezzo del silenzio per chi, ad esempio,
lascia che gli spacciatori facciano i propri comodi. Ognuno fa la sua parte, anche i più
piccoli, inconsapevolmente, ma non troppo. Capita che bambini di 6, 7 e 8 anni,
istruiti a dovere, riconosciuti i poliziotti in giro per il quartiere abbiano dato l’allarme.
Per loro è un gioco al quale partecipano per imitare i più grandi. Non ci sono
ricompense, a spingerli è la voglia di entrare a far parte del mondo degli adulti. (15)
Per i ragazzi e i giovanotti, e non solo per loro, vi è una vera e propria tabella delle
retribuzioni e degli onorari, di cui un’anticipazione ci era stata offerta dalla mamma
che aveva paura di un possibile coinvolgimento del proprio figliuolo nel gioco della
droga. Lo stipendio settimanale per un pusher che lavora nelle strade di Enziteto va
dai 700 agli 800 euro. Onorario per una vedetta motorizzata, nello stesso periodo: 500
euro. Se tutto va bene alla fine del mese un giovanotto senza troppi scrupoli e la
voglia di fare soldi facili, lavorando sulla piazza di San Pio, può mettere in tasca tra i
2000 ed i 3000 euro. L’iscrizione nel libro paga della holding dello spaccio è
l’alternativa alle liste di collocamento o alle agenzie di lavoro interinale. E’ questo
un altro aspetto della drammatica realtà minorile e di quella di disoccupati e precari
di ogni età nei quartieri San Pio, Libertà, San Paolo, Japigia, Madonnella,
Carbonara.
Non ci si ferma qui. La mala che controlla lo smercio adotta anche la politica
dell’assistenza per i complici che vengono arrestati e del risarcimento per coloro che
finiscono nei guai senza aver fatto nulla. In quest’ultimo caso si tratta di abitanti del
quartiere che sono fuori dal giro e che vengono coinvolti, loro malgrado, nelle attività
della organizzazione che controlla lo spaccio. Succede, ad esempio, che uno
spacciatore invada una proprietà privata (un balcone, un sottoscala o altro) oppure
nasconda le sue dosi nel bucato lasciato ad asciugare al sole e che questo
comportamento finisca per coinvolgere e mettere nei guai l’inconsapevole
proprietario del bucato o del sottoscala, che non appartiene al giro della droga e che
viene risarcito tra i 200 ed i 250 euro a settimana.
Per gli affiliati invece che hanno la sventura di finire dietro le sbarre,
l’organizzazione assicura assistenza legale. L’omertà e la complicità nascono il più
delle volte dalla paura. Chi vuole stare fuori dal giro a San Pio più che altrove deve
tenere la bocca chiusa se non vuole avere seri problemi.
Secondo gli investigatori, il sabato e la domenica il business raggiunge quota 10,
anche 11mila euro. Nei giorni feriali non si superano il tetto dei 7000 euro. (15)
Bisogna pur dire, per obiettività, che le istituzioni non sono state completamente
assenti, anzi sono state prese lodevoli iniziative, tutte volte a ripristinare la legalità
nel quartiere. Certo non sono mancati i fallimenti, come quello clamoroso del
99
‘dentista’. Infatti, il 17 aprile 2007 fu inaugurato, con tanto di taglio di nastro da parte
del Presidente della Regione, il centro odontoiatrico di Catino ed Enziteto, il posto
dove i migliori odontoiatri di Bari avrebbero offerto gratuitamente la loro professione
alla povera gente, a donne, uomini e soprattutto bambini del quartiere. E’ passato più
di un anno e quello studio non ha mai aperto. Nemmeno per un giorno, un’ora, mai
un’estrazione, una pulizia dei denti. I dentisti si difendono scaricando la
responsabilità alla dannata burocrazia. La normativa vigente, spiegano, dice che per
poter funzionare uno studio deve avere l’autorizzazione sanitaria. In quel locale
manca, per esempio, l’autorizzazione che specifichi la destinazione d’uso. Insomma
c’è qualche carta che non permette ai medici di fare il loro lavoro come volontari.
Anche, per il vero, il centro antitumori sullo screening mammario fu inaugurato, ha
funzionato per un mese e mezzo. E poi ha chiuso.
Più efficace l’azione delle forze dell’ordine e di quelle inquirenti. Le indagini sul clan
che gestisce lo spaccio di droga in quel quartiere ci sono già ed in passato
l’operazione denominata ‘Eclissi’ sono sfociate anche in numerosi arresti: più di 180
nel gennaio del 2006, i carabinieri del reparto operativo infersero un duro colpo al
clan Strisciuglio. Molti spacciatori che, nel quartiere, avevano la propria base
operativa, dopo il blitz, sono finiti in carcere, ma il loro posto, con il tempo, è stato
preso da altri. Giovanissimi, ma non minorenni, ragazzi che passano il tempo a
spacciare. Ora il pm che ha coordinato l’operazione ‘Eclissi’, ha convocato per il 12
giugno 2008 una riunione con carabinieri e polizia. Un incontro che assomiglia ad un
vero e proprio vertice che è servito a fare il punto sulle indagini già avviate e a
rafforzare una linea di intervento comune: i blitz di polizia e carabinieri che, in
momenti e circostanze diverse, hanno permesso di portare in carcere alcuni
spacciatori, confluiranno in un solo fascicolo di indagine. (15)
Sappiamo che con questa notizia sforiamo il 1° semestre 2008 ma per completare
in modo positivo il capitolo dedicato al quartiere San Pio non potevamo rimandare al
2° semestre l’annuncio della clamorosa e brillante retata che, all’alba del 9 luglio
2008, ha, finalmente, smantellato il bazar della droga installato in quella estrema
periferia della città. Un blitz della Squadra Mobile che ha svolto le indagini sotto la
guida del pm della Dda di Bari
I detective della sezione criminalità organizzata e quelli della sezione antirapine,
autori delle indagini (nel fascicolo sono confluiti anche gli atti di una inchiesta
condotta dai carabinieri) hanno notificato provvedimenti di fermo a 15 persone vicine
al clan Strisciuglio con l’accusa a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata
allo spaccio di droghe, spaccio di stupefacenti e detenzione di armi: è stata contestata
anche l’aggravante mafiosa dell’articolo 7 per aver favorito un clan mafioso. I fermati
sono: Saverio Faccilongo, di 22 anni, capo del gruppo di spacciatori, Giuseppe
Caizzi, di 39 anni, il suo luogotenente, Arturo Amore di 21, Angelo Bartoli di 25,
Salvatore Dimatteo di 25, Antonio Lepore di 19, Michele Patruno di 26, Pasquale
Allegrini di 21 e Antonio Davide Goffredo di 24. Il decreto è stato notificato in
carcere a Giuseppe Ballabene, di 26 anni, Nicola Ciaramitano di 25, Giuseppe Drago
di 21, Luca Spina di 20, Gaetano Prudente di 37. L’unico agli arresti domiciliari era
100
Giuseppe Franco, 22 anni. Ventuno in tutti gli indagati. Nelle 150 pagine
dell’informativa della squadra mobile un capitolo a parte è dedicato alle minacce
subite dal giornalista del Corriere del Mezzogiorno, e delle quali abbiamo già
raccontato.
Crediamo di esserci sufficientemente soffermati a descrivere questo quartiere di
confine, dove gli spacciatori erano liberi di vendere cocaina, eroina e hascisc alla luce
del sole, di costringere casalinghe a nascondere droga nei panni stesi o nei vasi delle
piante e di rendere quasi impossibile l’attività di polizia giudiziaria. Al punto che i
poliziotti sono stati costretti a nascondersi sui tetti dei palazzi per filmare scene di
spaccio e restare lì fino a notte fonda prima di andar via senza farsi vedere. Dal
dicembre 2007 gli investigatori della squadra mobile hanno pedinato gli spacciatori,
fotografato lo scambio di denaro e droga, interrogato i tossicodipendenti per poi
infine operare il bltz.
(35)
Droga
Ma le sostanze stupefacenti non sono un mercato esclusivo di Enziteto. Anche la
movida di fine settimana si muove tra le varie sostanze tanto da comparire in un
fascicolo della Procura distrettuale antimafia.
Lo scenario in cui si muovono gli adolescenti della Bari bene, così come descritto dai
pm inquirenti, è allarmante: pasticche di droga sciolte nelle bottigliette di acqua
minerale, figli di noti boss mafiosi che circolano armati nelle discoteche e
l’inevitabile ‘pizzo’ per parcheggiare la macchina. I reati ipotizzati (al momento non
ci sono indagati) sono associazione mafiosa, estorsione e spaccio di droga.
L’inchiesta dell’antimafia abbraccia un arco di tempo a partire dall’estate del 2006
fino al marzo del 2008.
L’indagine preliminare, strada facendo, si è arricchita delle conferme fornite dal
racconto di un testimone di giustizia. Il quale avrebbe spiegato che l’organizzazione
della serata è affidata dai gestori delle discoteche (che in realtà affittano il locale per
una o due feste a sera, la prima alle 18 per i ragazzi più piccoli e la seconda dopo
mezzanotte) a universitari che, a loro volta, si servirebbero di studenti di 15 e 16 anni,
soprattutto dei licei che si occupano invece della prevendita dei biglietti nelle scuole.
In questo modo gli organizzatori assicurano ai ragazzini guadagni fino a duecento
euro a settimana. Per ogni biglietto venduto, che alla cassa ha un prezzo di 15 euro, i
quindicenni riceverebbero tre euro per la prevendita.
Il testimone, a quanto è dato sapere, ha spiegato lo scenario inquietante in cui si
svolgono le feste; durante le serate gli studenti minorenni entrano continuamente in
contatto con esponenti di clan mafiosi che gestiscono i parcheggi delle discoteche;
all’interno dei locali, i figli dei boss provvedono a fornire, a chi ne fa richiesta,
pasticche di droga e sarebbero in grado di vendere altri tipi di sostanze stupefacenti. I
giovani perbene assisterebbero inoltre alle scorribande dei ragazzi vicino alla
criminalità barese che girano con la pistola ben in vista nella cintura dei pantaloni. E,
durante altre serate, non sono mancate risse e furti di giubbotti e cellulari.
101
Nel mirino della magistratura sarebbero finite sei o sette discoteche di Bari. Intanto
sono stati ascoltati i gestori dei night club i quali hanno detto di non sapere nulla di
quanto ipotizzato dai magistrati: si limiterebbero ad affittare il locale per la serata
richiesta.
Ma facciamo parlare i protagonisti. Marco è uno studente del liceo Scacchi ed è uno
degli organizzatori più famosi nel mondo del divertimento under 18. <<Da una
serata, fatta bene, io riesco a mettermi in tasca anche mille euro>>. Come? Si affitta
un locale. L’affitto si paga con il costo dei biglietti che vanno dagli otto ai dodici
euro. Non tutto però. <<In media si fa cinquanta e cinquanta>> spiega Marco, metà al
proprietario del locale, metà agli organizzatori. Poi c’è il bar. Di solito intasca il
proprietario, che procura i baristi, i liquori del discount travasati nelle bottiglie di
primo livello e sforna Mojto, Coca&Rum e Negroni sbagliati: contando che per feste
di questo genere si parte da una base minima garantita di almeno 200 ragazzi
scalmanati, è un affare. Affarissimo se si pensa che quasi tutti hanno tanta voglia di
bere, cinque euro almeno a cocktail, la base di partenza soltanto di consumatori è di
duemila euro. Poi ci sono i pr, coetanei di Marco che lavorano per Marco. A loro
spetta il compito di portare più persone possibili alle feste: intascano i due euro di
prevendita dei biglietti. Alcune sere fa tutti in un locale di Triggiano, garantisce
Eddy, che ti dà anche la consumazione gratis.
Marco nega che di mezzo ci sia la malavita come invece sostiene la Procura
distrettuale antimafia molte di queste feste sono gestite dai figli dei boss. Annalisa
assicura, di contro, <<i Cheyenne arrivano, eccome se arrivano>>. I Cheyenne sono
truppe di ragazzini che da Bari vecchia, San Paolo ed Enziteto soprattutto si fiondano
nelle feste degli under 18 (ci sarebbero anche quelle universitarie ma sono altri
canali: se arriva droga, arriva con gli stessi meccanismi del resto della città). I
Cheyenne hanno cognomi pesanti (mitologici sono i racconti delle feste nelle quali
interveniva ‘il ragazzo con la pistola’ e la sua banda di compagni, ora tutti al minorile
per una serie di rapine). I Cheyenne non fanno parte direttamente dell’organizzazione
delle feste ma in parte ci entrano. Illegalmente: rubare telefonini e portafogli dai
giubbotti dei ragazzini e dalle borse delle ragazzine è un classico. Oppure
‘legalmente’: si occupano dei parcheggi (la moto, due euro, euro cinque la macchina)
o in alcuni casi (quando per esempio si affittano i locali) gestiscono il bar. C’è poi la
droga perché c’è: a Bari città droghe sintetiche poche. Quelle vengono smistate nelle
feste, nei locali di Capitolo e soprattutto del tarantino, nella zona di Castellaneta.
Tanta cocaina, invece, anche agli under 18. Dice la Dda di Bari che si tratta di un
fenomeno criminale da non sottovalutare. Sono d’accordo anche i gestori dei locali:
in questi giorni stanno sfilando in Procura a dire che di spaccio di droga, durante
queste feste, loro non ne hanno mai saputo nulla. Ma da dicembre 2007 si sono dati
una regola: tutti i titolari dei più importanti locali da ballo della città (i 13 che
aderiscono alla Cna) hanno firmato un patto di non belligeranza. Almeno fino ad
aprile 2008 niente più feste di ragazzini, troppo pericolose. <<Noi non le faremo mai
più, è incredibile quello che succede>> giura Giulio Tedone del Cafè del Mar. Non
102
tutti i suoi colleghi sono però d’accordo: ad aprile arriva il sole, la bella stagione. E,
insegna Marco, ad aprile cominciano gli affari. (22)
Intanto però arrivano in Procura Dda le prime conferme inequivocabili a quella che
era inizialmente una ipotesi investigativa preoccupante.
I gestori delle discoteche e anche alcuni organizzatori di feste private nei locali da
ballo confermano: <<Sì, abbiamo il fiato sul collo della malavita>>. E aggiungono:
<<Non sappiamo come liberarcene>>. E’ quanto trapelato dagli interrogatori condotti
negli ultimi giorni dal pubblico ministero inquirente che ha avviato con la Squadra
mobile una serie di accertamenti sulle presunte infiltrazioni malavitose negli ambienti
dei ragazzi perbene.
L’esperto pm ha già sentito una decina di persone, fra gestori dei locali e
organizzatori di feste private, per raccogliere informazioni sufficientemente precise.
Sia gestori sia promotori dei party vengono ascoltati come <<persone informate sui
fatti>>, cioè come potenziali testimoni. Insomma, nessuno di loro è sottoposto a
indagini.
A rafforzare la convinzione degli inquirenti, comunque, c’erano le rivelazioni di un
‘testimone di giustizia’ (cioè una persona non indagata ma interna agli ambienti
malavitosi) che avrebbe confermato la propensione dei clan a inserirsi il più possibile
nell’orbita dei locali da ballo.
Gli interrogatori da parte della Procura e della Squadra mobile, continueranno. E
chiariranno meglio i contorni del fenomeno, che oggettivamente preoccupa migliaia
di genitori di teen-ager e anche di giovani studenti universitari alla ricerca di un po’
di svago e invece – a quanto pare – si imbattono in personaggi, anche giovanissimi,
legati ai clan della criminalità organizzata. In particolare, secondo indiscrezioni,
sotto i riflettori degli investigatori ci sarebbe più precisamente un clan che da un
decennio gestirebbe gli affari illeciti in parecchi quartieri cittadini e che avrebbe
come caratteristica la propensione a diversificare le proprie attività e a investire
uomini e mezzi nel tipo di affare che – in un determinato momento – potrebbe essere
più redditizio. Gli inquirenti della Dda e la Mobile comunque si stanno impegnando
a, si può ben credere, non mollare. (24)
Resta comunque il fatto che il traffico di sostanze stupefacenti dilaga su tutto il
territorio provinciale.
*
Solo leve della criminalità, non ancora una vera organizzazione i 13 ragazzi (un
quattordicesimo è ricercato) che il 27 marzo 2008 a Bisceglie sono finiti in manette
nell’ambito dell’operazione <<Again>> condotta dai carabinieri di Trani su
disposizione del gip del Tribunale di quella città, che contesta loro i reati di concorso
in spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione, detenzione di armi e, in qualche
caso, anche di violazione degli arresti domiciliari. Non una organizzazione
verticistica, secondo gli inquirenti, ma a tirare le fila del gruppo c’erano i due fratelli
103
biscegliesi Giuseppe e Michele Catino (rispettivamente 26 e 20 anni) e il cugino
Giuseppe Catino (23 anni). E di questo facevano parte anche quattro ragazze, che
spesso facevano da ‘staffetta’ della sostanza stupefacente da un posto all’altro, ma
tenevano anche la contabilità.
L’attività era in generale frenetica, come hanno dimostrato le lunghe intercettazioni
ambientali e gli appostamenti dei militari che hanno permesso di raccogliere gli
elementi alla base della poderosa ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip.
Le indagini che hanno portato a smantellare sicuramente buona parte del traffico di
marijuana a Bisceglie, partono dalla gambizzazione di Giovanni Leuci, pregiudicato
di 45 anni, conosciuto come ‘mazzombrell’, avvenuta il 27 gennaio 2007
nell’affollata piazza del pesce della cittadina: quest’ultimo apparteneva a un gruppo
opposto a quello sgominato, che si contendeva lo spaccio a Bisceglie, e finì
anch’esso, nel giugno 2007, con l’operazione <<Cerbero>>.
Ma fu l’incidente in cui morirono il 17enne Enrico Pasculli e il 18enne Nicola
Maddalena, il primo maggio 2007, nel quartiere Sant’Andrea, a fornire ulteriori
elementi agli inquirenti: i due ragazzi finirono schiantati contro un albero a bordo di
uno scooter, alla presenza di alcuni passanti; ma quando i carabinieri arrivarono
trovarono solo alcuni pezzi del motorino. Qualcuno lo aveva fatto sparire per evitare
che i militari scoprissero che il mezzo serviva appunto per portare la droga ai tanti
clienti: ragazzini ma anche professionisti, tra cui i carabinieri hanno individuato
anche un infermiere e il titolare di un’attività commerciale.
Il motorino fu poi rintracciato in possesso di una terza persona riconducibile al
gruppo e risultò essere stato sottratto a una custodia giudiziale a Molfetta ed era
appunto uno dei tanti utilizzati per smerciare la sostanza. Quasi sempre motorini
proventi di furto, con cui i pusher riuscivano a muoversi con estrema disinvoltura da
un posto all’altro della città e che, in qualche caso, non hanno esitato <<a
carambolare contro le autovetture delle forze dell’ordine>>.
A dimostrazione ulteriore della spregiudicatezza di questi giovanissimi, il gip rileva
come i 14 indagati, tutti giovanissimi (hanno tra i 20 e i 26 anni, solo una delle
ragazze ha poco più di 30 anni), abbiano <<tranquillamente continuato a spacciare
stando agli arresti domiciliari, servendosi di familiari e minori nel confezionamento
delle singole dosi>>.
Per sfuggire ai controlli delle forze dell’ordine, era abbastanza abituale anche
l’utilizzo di termini criptici per indicare la sostanza stupefacente: marmitta,
giocattolo, sigarette, bicicletta, bombola, pizze. Ma anche per indicare i luoghi
d’incontro per la consegna: castello, alla madonna, alla grotta azzurra, al garage
azzurro, ai tre archi.
Proprio in uno di questi luoghi, la cosiddetta ‘grotta azzurra’ (ovvero due stanze prese
in affitto a due passi del Teatro Garibaldi), i carabinieri, durante l’irruzione del 28
marzo 2007, sequestravano oltre 30 dosi di marijuana e materiale per il
confezionamento. L’intervento fu possibile solo grazie all’aiuto del servizio
104
veterinario perché a guardia della ‘grotta’ c’erano due grossi pit-bull. Nel corso
dell’attività investigativa dell’ultimo anno, sono stati sequestrati complessivamente
un chilo di marijuana e arrestate altre sette persone. (22)
*
Ma anche a Bitonto sono in forte aumento gli spacciatori minorenni ed
insospettabili. La conferma si è avuta il 28 marzo 2008 quando nel sacchetto di
plastica, che i carabinieri sono riusciti a recuperare, c’erano trentuno dosi di hashish e
ventuno di cocaina per un totale di oltre sessanta grammi di sostanza stupefacente.
Nessuna traccia del giovane pusher che, alla vista dei militari, si è allontanato in tutta
fretta dopo essersi liberato delle dosi.
Il sequestro è avvenuto nel corso di uno specifico servizio di controllo antidroga
nella città vecchia, nei vicoli dello spaccio, in cui giovanissimi, assoldati dai clan,
vendono droga a tossicodipendenti che arrivano anche da altre città del circondario.
Tutto è accaduto nella tarda serata. Ad insospettire i militari era stato proprio la
presenza numerosa di tossicodipendenti che si aggiravano nelle vie della città vecchia
alla ricerca del pusher di turno che si è accorto della presenza dei carabinieri che ha
pensato bene a guadagnarsi la fuga. (22)
*
Il panorama dello sballo dei giovani è ampio. <<C’è una droga per ogni tasca>>,
spiegano allarmati gli investigatori che operano in questo campo. E per l’uscita del
sabato sera c’è da scegliere, tanto che anche gli spacciatori si sono adeguati,
diversificando l’offerta. C’è la ketamina, polvere giallina, i granelli che avanzano
dalla sniffata. E’ una delle nuove droghe che utilizzano i ragazzi baresi, giovani
anche minorenni con pochi soldi nelle tasche e l’insana voglia di ‘provare’. La
chiamano anche ‘cat Valium’ o in modo più innocuo come una nota marca di cereali,
‘Special K’, come se fosse di casa. In realtà è un anestetico dissociativo, utilizzato in
veterinaria soprattutto sui cavalli, disponibile in farmacia in forma liquida e quindi
iniettabile come l’eroina o trasformabile in polvere (basta un microonde, dicono,) e
quindi inalabile come la cocaina.
Circola nelle discoteche, nei locali notturni e dà quello che i ragazzi, anche
minorenni, cercano: la ‘bolla’, e cioè la sensazione di essere sospesi, di fluttuare con
la mente che si distacca dal corpo, attraversando esperienze fortemente dissociative,
viaggio tra la vita e la morte. E’ pericolosa come tutte le altre droghe, costa poco e si
sta diffondendo a macchia d’olio.
Sulla bancarella clandestina c’è l’eroina, richiesta dai vecchi tossicodipendenti e
quindi non può mancare. Prezzo di listino: 25-30 euro a dose. Roba da vero
supermarket.
Ma c’è anche la cocaina, così diffusa che Bari è stata soprannominata la ‘seconda
città bianca’, naturalmente dopo Ostuni. Per la cocaina i prezzi sono calati, tanto da
105
essere sempre più alla portata dei ragazzi che con 40 euro se ne portano via una dose
(di circa mezzo grammo). La sniffano, ma la fumano anche, in associazione con
sostanze di altro tipo come la marjuana: sigari, chiamati ‘blunt’ che hanno un costo
contenuto, tanto da essere venduti anche a 10 euro. Ancor più a buon prezzo per i
giovani sono le pasticche di ecstasy: se ne trovano anche a 5 euro ciascuna. E non
inducano in errore i giovani abbronzati, giacca attillata e spalle muscolose, che si
aggirano nei locali con la bottiglietta dell’acqua. Non è una nuova tendenza, ma
semplicemente
un
modo
per
i
‘salutisti’
d’assumere
‘Mdma’
(metildiossimetanfetamina), il principio attivo dell’ecstasy comprato in polvere e
sciolto in acqua o nei coktail colorati.
Insapore e inodore, è ancor più pericoloso se somministrato all’insaputa di chi crede
di bere bevande analcoliche.
L’ecstasy, classificata tra le sostanze stimolanti (prolunga la resistenza in discoteca) e
allucinogene, è anche conosciuta tra i fruitori come ‘la droga dell’amore universale’,
perché chi la assume vede tutto quello che lo circonda come buono e giusto, entrando
in facile sintonia con l’ambiente circostante, ma soprattutto eliminando qualsiasi
barriera.
Per i ragazzi baresi non è difficile, purtroppo, acquistare droga in città. E, di certo, i
costi esigui danno una grossa mano alla crescita del mercato illecito. Piccoli pusher
sono a disposizione nei locali della movida, a Bari vecchia, così come attorno a quasi
tutte le discoteche. E il sospetto degli investigatori è che spesso a rifornire gli
acquirenti sono gli stessi pr che, per conto degli organizzatori, vendono biglietti per le
serate.
Ma lo sballo si compra anche in altre zone, <<ovunque>>, dicono gli inquirenti: a
Poggiofranco e Japigia o nei giardinetti di piazza Umberto, tra i giochini colorati, lì
dove si contendono gli spazi gli extracomunitari che vendono le loro borse
contraffatte e le mamme che trattengono per mano i bambini irrequieti. (22)
*
Due gruppi gestivano il mercato della droga raccattando clienti tra Altamura e
Matera e garantendo, al proprio interno, una rappresentanza femminile adeguata e
qualificata. La prima organizzazione era addirittura capeggiata da una donna, Maria
Iurlaro, detta Stefania e poteva vantare una presenza del gentil sesso vicina al
cinquanta per cento, comprese una mamma di 55anni e le sue due giovani figlie
rispettivamente di 25 e 29 anni.
Nel secondo gruppo, invece, guidato da Antonio Francia, non si andava oltre il dieci
per cento. Sono stati i carabinieri della Compagnia di Altamura a disarticolare i due
sodalizi e condurre in carcere e ai domiciliari i componenti con l’accusa di
associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o
psicotrope.
106
L’inchiesta ha preso il via nel 2005 ed è culminata, il 6 maggio 2008, con
l’esecuzione, da parte dei carabinieri, di 35 ordinanze di custodia cautelare (19 in
carcere, 15 ai domiciliari, una in comunità) sulle 40 emesse dal gip. Solo a
ventiquattro delle persone finite in manette, uomini e donne, è stato contestato il reato
associativo, per gli altri le accuse sono lo spaccio e il favoreggiamento. Più di cento
le persone indagate negli ultimi tre anni ma il cerchio delle indagini si è chiuso
intorno a quaranta imputati ai quali sono stati contestati 83 capi di imputazione. Più
di 100 inoltre gli assuntori di droga identificati dei quali 57 sono stati segnalati
all’autorità amministrativa. Un lavoro immane che gli investigatori hanno portato
avanti su tre fronti: il primo delle investigazioni telefoniche; il secondo dei
pedinamenti e delle registrazioni video e audio degli incontri per la consegna della
droga; il terzo, quella della identificazione e audizione degli acquirenti e dei venditori
della droga.
La politica dello spaccio – secondo gli investigatori – avrebbe funzionato alla grande,
incentivando il mercato, le cui fila erano saldamente nelle mani dei presunti capi dei
due sodalizi e dei loro collaboratori più stretti.
Stando alla ricostruzione fatta dagli investigatori, Maria Iurlaro aveva creato una
specie di ‘call center’ al quale giungevano le ordinazioni di cocaina, eroina e hashish
che lei gestiva direttamente insieme al suo braccio destro e attuale compagno
Leonardo Paulicelli, fissando l’appuntamento per la consegna delle dosi e scegliendo
il pusher al quale affidare la sostanza. Sempre per la versione dei carabinieri si
alternavano all’utenza ‘call center’ le donne del gruppo, facendo credere che ci fosse
sempre la Iurlaro a quel capo di telefono. La presunta ‘mammasantissima’ si aggirava
per Altamura tessendo i suoi traffici e in alcune circostanze, i carabinieri, che la
pedinavano, l’avrebbero vista accompagnarsi con il figlio di cinque anni. La sua
posizione dominante, il suo carisma – stando ai contenuti dell’inchiesta – sarebbe il
frutto della sua lunga militanza negli ambienti del malaffare altamurano essendo stato
in passato compagna di due malavitosi del posto, entrambi deceduti, il primo in un
agguato, il secondo per una grave malattia. I carabinieri hanno accertato che erano
cinque le donne aggregate al gruppo Iurlaro e che avevano un ruolo attivo accanto
alla presunta boss. Molti dei componenti della organizzazione gravitavano intorno
all’abitazione della donna, un condominio nel quale avevano casa anche altri affiliati
in via Buonarroti.
Un gruppetto meno importante, composto da appena due donne, era invece presente
all’interno del secondo sodalizio, formato da un numero maggiore di persone e
capeggiato – dicono i carabinieri – da Antonio Francia con la collaborazione di
Giuseppe Debenedictis. L’accorgimento dei due gruppi era quello di non pestarsi i
piedi e di conseguenza di lavorare in zone diverse della città. Cosa che ha permesso
ad entrambi di portare avanti il proprio business in maniera proficua e per diverso
tempo. (22)
*
107
Su alcuni appunti avevano annotato le formule chimiche che permettevano loro
di sentetizzare la sostanza stupefacente con la plastica. Così riuscivano ad eludere i
controlli. Le valigie che contenevano la droga superavano il sistema di vigilanza negli
aeroporti, come è accaduto per un trolley che, a Bari, è arrivato, passando da tre scali
internazionali, Giuseppe Pietro Spinosa di Locorotondo, con una fedina penale pulita,
Francesco Pellegrino, barese e un operaio rumeno, residente a Roma, erano i
componenti dell’organizzazione che importavano la sostanza stupefacente a Bari e
nel quartiere Japigia in particolare. Ai tre, gli uomini Gico della Guardia di finanza, il
21 maggio 2008, hanno notificato un provvedimento cautelare, richiesto dall’apposito
sostituto procuratore.
L’operazione costituisce una prosecuzione di quella condotta nel 2005 e che aveva
portato a cinque arresti. In carcere era finito anche il fratello di Francesco Pellegrino,
Vito che aveva trasformato il sotteraneo di una clinica nel quartiere Japigia dove
lavorava come custode in una raffineria. La polvere bianca, attraverso un particolare
processo chimico, veniva sintetizzata nella plastica delle valige. Un sistema
sofisticato che permetteva di eludere i controlli in tutti gli aeroporti. La droga,
proveniva dalla Colombia, via Madrid, sfuggiva anche al fiuto dei cani antidroga e
dall’estero arrivava in Italia.
A Bari gli uomini dell’organizzazione, capaci di trattare con i narcotrafficanti
internazionali, commercializzavano la polvere bianca, grazie ad accordi stretti con i
clan egemoni in città, come quello degli eredi di Savinuccio Parisi nel quartiere
Japigia. La fase della vendita sul territorio pugliese era però preceduta da un’altra
operazione complessa: la sostanza stupefacente veniva estratta dalla plastica, nella
quale prima della partenza era stata sintetizzata. La conferma è arrivata con i
sequestri, effettuati in quella che era stata trasformata in una vera e propria raffineria:
gli uomini del Gico hanno, infatti, rinvenuto provette, bilancini di precisione,
sostanze da taglio e soprattutto appunti, manoscritti sui quali erano state annotate le
formule chimiche, applicate per il processo di riconversione della droga. Decisivo,
secondo quanto ricostruito dalla Dda, il ruolo di Giuseppe Pietro Spinosa: gestore di
una ditta di trasporto e in difficoltà economiche, metteva a disposizione
dell’organizzazione i propri camion perché la cocaina venisse trasportata sul territorio
nazionale.
Nel corso dell’inchiesta, gli uomini del Gico che hanno cominciato ad indagare
seguendo un corriere colombiano, hanno sequestrato tre chili di polvere bianca, 185
chilogrammi di hascish ed una pistola. L’arma, così come una ricetrasmittente e un
telefono, erano nascosti nei controsoffitti del laboratorio artigianale. Il 21 maggio
oltre a notificare le tre ordinanze di custodia cautelare, i militari hanno apposto i
sigilli a beni per un milione di euro, riconducibili agli indagati e ricavati dal traffico
internazionale di sostanze stupefacenti. Il sequestro, disposto per colpire il patrimonio
dell’organizzazione criminale è scattato per cinque auto, due moto, dieci mezzi
pesanti, due imprese (operanti nel settore ortofrutticolo e in quello dei trasporti) e per
alcune quote societarie. (22)
108
*
Lo sballo sintetico di ultima generazione si chiama Ketamina e viaggia sulla
tratta Bari-Londra. Ne sono convinti gli investigatori della Squadra mobile che
indagano sul mercato della droga barese, hanno individuato le coordinate di una
ipotetica rotta Bari-Londra, risalendo a tre giovani, due uomini e una donna, che
presumibilmente, nel recente passato, hanno attraversato la Manica per rifornirsi del
potentissimo allucinogeno in formato liquido. Una volta fatto ritorno a Bari –
secondo l’ipotesi investigativa – i tre avrebbero ‘cucinato’ in padella il liquido,
potente anestetico dissociativo per uso veterinario e umano, trasformandolo nella
micidiale polverina che da diverse settimane sta circolando tra feste rave parties
clandestini e locali alla moda. I due uomini vivono insieme in una villa di Picone,
zona Santa Fara dove la polizia ha trovato 60 grammi di hashish, 141 milligrammi di
Ketamina allo stato liquido, un grammo allo stato solido; 12 grammi di MDMA
meglio conosciuta come Ecstasy; 7 piante di marijuana; il kit del perfetto spacciatore
comprendente bilancini di precisione, cartine per il confezionamento delle dosi e la
famigerata padella per la cottura.
I due amici e complici sono stati arrestati e processati per direttissima. Hanno
patteggiato una pena di 10 mesi e sono tornati a casa.
Si tratta di un ragazzo di 27 anni, incensurato, operaio, figlio di un impiegato e del
suo amico di 25 anni, anche lui sconosciuto alle forze dell’ordine, studente in
biologia, madre e padre professionisti, Disk jochey per diletto, avrebbero preso parte
all’organizzazione di alcuni rave-parties nella provincia barese. La terza presunta
pusher di sostanza allucinogena è una studentessa di lingue orientali di 23 anni che
vive da sola nel quartiere Madonnella. Le sono stati trovati in casa 200 milligrammi
di un farmaco liquido con le caratteristiche della Ketamina insieme alla già citata
padella. Le indagini di laboratorio stabiliranno se si trata effettivamente della
sostanza incriminata. Per il momento gli agenti hanno proceduto alla denuncia in
stato di libertà.
L’uso di allucinogeni (Lsd, Mescalina, Psilocibina, Peyotl, e Ketamina) si è diffuso
all’interno dei movimenti giovanili collegati alla cosiddetta cultuta psichedelica.
Anche attraverso espressioni artistiche e letterarie, il consumo di allucinogeni, in
combinazione con ecstasy e anfetamine, continua ad associarsi in certi ambienti che
possono definirsi alternativi alla ricerca della esperienza percettiva e nuovi stati di
coscienza.
Per la prima volta gli uomini della Squadra mobile hanno scoperto e sequestrato la
Ketamina i cui effetti allucinogeni peraltro sono stati descritti da ragazze baresi
vittime di violenze sessuali. L’ultimo caso risale agli inizia di aprile 2008 quando una
studentessa di 20 anni ha denunciato alla polizia di essere satata drogata e poi
stuprata a turno da tre giovani, nella toilette di una discoteca. Per questa ragione gli
investiogatori definiscono la Ketamina “la droga degli stupri”. Sulla vicenda il
sostituto procuratore della Repubblica del Tribunale di Bari ha aperto una inchiesta e
109
iscritto nel registro degli indagati i nomi di solo due dei presunti violentatori, un
ragazzo di 17 anni e di un secondo di 19. Manca all’appello il terzo. (22)
Per gli investigatori dragare nel sommerso della giovane borghesia barese è ben più
difficile. Ma il giro d’affari è ampio e destinato a gonfiarsi. I canali di rifornimento
della droga liquida sono gli stessi delle sostanze sintetiche e delle pasticche in
generale, canali che possono anche prescindere da quelli consolidati dall’eroina e
della cocaina o del ‘fumo’. I venditori dell ‘nuove’ droghe sono contigui al mondo
giovanile (scolastico e universitario) e a quello del divertimento notturno. Bazzicano i
locali alla moda, le discoteche, le feste private.
Dove si acquista la Ketamina, dove ci si rifornisce. I canali di approvvigionamento
sono sostanzialmente due. C’è un gruppo che, come abbiamo visto, va a comprarla
direttamente in Inghilterra, a Londra. Un folto gruppo di ragazzi acquista la droga on
line, su internet, navigando nei siti giusti (quasi tutti in lingua inglese) dove sono
aperti anche forum di discussione sull’assunzione, sugli effetti, su quando si scivola
nel “k hole”.
Ma c’è ancora una fetta di giovani che predilige le sostanze sintetiche, le pasticche,
gli allucinogeni che tuttavia non frequenta i locali modaioli o le patinate discoteche
del Barese. Sono quei giovani sedotti dai rave party, dai luoghi distanti, segreti,
dismessi. Sono quelli che la ketamina la assumano lentamente, leccandola, tutti
insieme ma ognuno per fatti suoi. Di questi raduni, in verità, la Gazzetta del
Mezzogiorno ne ha parlato in una inchiesta pubblicata l’autunno 2007, quando un
cronista si mescolò tra i ragazzi e le ragazze riuniti alle cosiddette “Macerie”, una
vecchia fabbrica sulla ‘16’, alla periferia di Molfetta. Venti euro a dose per ingollare
ketamina e finire la notte a vomitare.
(22)
Il racket
Non è certo più tranquillo l’affare racket. Gli episodi di violenza, che ci accingiamo a
riferire, per la loro scansione dei tempi sono il segnale più chiaro che il morso della
malavita non si arrende e non tralascia la strada delle intimidazioni, degli attentati per
portare a più miti consigli i riottosi.
Il 26 marzo 2008 a Bari, in corso Sonnino, scoppia l’incendio all’interno della
pasticceria <<New Betty>>, il fuoco ha innescato una reazione a catena all’interno
del locale, culminata in una deflagrazione che non può che essere il prodotto di un
attentato. La forza dello scoppio ha divelto le vetrine e le saracinesche del negozio,
danneggiando un furgone Fiat Doblò.
I detective della questura non sono stati in grado di stabilire da subito la matrice di
questa aggressione che ha un precedente inquietante in un altro fatto accaduto la
settimana precedente quando il titolare della pasticceria, un uomo di 38anni, è stato
rapinato degli ultimi guadagni (10mila euro) mentre rincasava, dopo aver chiuso il
negozio.
Anche se l’uomo e suo fratello, soci nella gestione dell’attività, giurano di non aver
mai ricevuto minacce o richieste di denaro, gli investigatori non escludono che
110
possano essere finiti nel mirino degli estorsori. Anzi è questa, al momento, l’ipotesi
più accreditata.
*
Il 29 marzo 2008 a Triggiano è andato a fuoco un bar nel centro storico della
cittadina. Le fiamme hanno danneggiato l’interno del locale rovinando il bancone, la
cassa, la posizione per la ricezione di schedine e scommesse. Dal soffitto sono crollati
calcinacci. Il balcone dell’appartamento al piano di sopra è rimasto annerito. Inneschi
non ce ne erano.
I carabinieri, però, non hanno dubbi che si è trattato di un incendio doloso. Qualcuno
deve aver gettato del liquido infiammabile tra le maglie larghe della parte superiore
della saracinesca.
Marito e moglie, titolari della caffetteria Gemma, sono amareggiati e più che
preoccupati, perché non sanno da chi devono guardarsi e perché dovranno
rimboccarsi le maniche, rimettere tutto a posto, pagare le ripazioni.
Anche in questo caso la tesi più accreditata è quella dell’intervento della malavita che
vuole imporre il ‘pizzo’.
*
Il giorno successivo, 30 marzo, a Molfetta qualcuno nel silenzio della notte e
lontano da sguardi curiosi, dopo aver sollevato la saracinesca di qualche centimetro,
hanno sistemato una bomba-carta davanti all’ingresso del bar Venere, nella zona 167.
La deflagrazione ha mandato in frantumi tutto ciò che era nelle immediate vicinanze
dell’ordigno sia all’interno del bar che all’esterno.
Anche qui la titolare del bar, una donna di cinquantanni, ha dichiarato di non aver
mai ricevuto minacce né richieste di denaro.
I carabinieri stanno vagliando tutte le piste possibili dalla vendetta privata, alla
ritorsione, all’avvertimento.
Sta di fatto che questa cittadina ha visto negli ultimi trenta giorni consumati tre
esplosioni causate da ordigni. Il 27 febbraio fu la volta di un capannone in
costruzione nella zona industriale, il 3 marzo toccò ad una salumeria, ora è andato in
rovina un bar. (19)
*
E’ accaduto in una sala giochi situata al confine fra i quartieri Japigia e San
Pasquale. Quattro malfattori hanno fatto irruzione, chiedendo il pagamento di un
‘pizzo’ mensile al proprietario, un giovane di 28 anni. Al suo rifiuto, hanno picchiato
sia lui sia il padre, di 58 anni, e hanno messo in subbuglio il locale.
111
Il primo guarirà in una quindicina di giorni, il secondo ha riportato ferite lievi. I
quattro aggressori sono stati sottoposti a fermo di polizia giudiziaria dalla Squadra
mobile. E’ accaduto la sera del 23 aprile 2008.
A conclusione di indagini rapide ed efficaci, gli uomini della Squadra mobile hanno
condotto in carcere Arturo Lovecchio, sottoposto alla sorveglianza speciale, Gaetano
Franco (entrambi conosciuti alle forze dell’ordine), Vittorio Lovecchio, fratello di
Arturo e Carlo Ludovico, tutti residenti al quartiere Japigia.
A quanto si è saputo, le indagini sono state avviate dopo la segnalazione dei medici
del servizio di emergenza ‘118’, fatti intervenire dalle persone aggredite.
I quattro malviventi, subito dopo il raid, si erano allontanati a bordo di una
‘Cinquecento’ di colore scuro. (19)
*
Il 30 aprile 2008 a Toritto le maestranze di un cantiere nel prendere servizio
hanno notato in uno scantinato la inconsueta presenza di una bombola di gas g.p.l. da
cucina in un seminterrato. Allertati i carabinieri che hanno provveduto a isolare
l’intera zona, gli uomini del reparto artificieri, nell’ispezionare i luoghi, hanno notato
che la bombola del gas era collegata ad un conghe esplodente. Poteva finire in
tragedia se non ci si fosse accorti della presenza di un ordigno all’interno del cantiere.
L’episodio è ancor più allarmante se si tiene conto che quello stesso cantiere il 13
marzo fu il bersaglio di alcuni colpi di pistola esplosi da due ragazzi a bordo di uno
scooter.
L’imprenditore bitontino Evangelista Pastoressa, ha escluso ai carabinieri che i due
gesti siano legati a forme intimidatorie di natura estorsiva. Ma per gli investigatori
che pur non escludono ogni tipo di pista, quella del racket estorsivo è l’ipotesi più
accreditata. Un pista che, però, porterebbe l’attenzione degli inquirenti al di fuori del
territorio torittese proprio verso Bitonto, la città d’origine dell’imprenditore. (19)
*
E’ la procura a lanciare l’allarme, a chiedere di blindare in un incidente
probatorio le dichiarazione della vittima: un noto imprenditore, proprietario di una
concessionaria. Davanti al magistrato, negli ultimi giorni di aprile 2008, ha ammesso
di essere stato costretto a cedere ai ricatti di due noti pregiudicati: Nicola Vavalle e
Giovanni Cassano, in carcere con l’accusa di aver fatto parte della banda della
Cayenne, un gruppo specializzato, lo leggeremo nel corso di questo capitolo,
nell’assalto ai bancomat, alle tabaccherie, ai supermercati. Scrive il magistrato per
motivare la richiesta di incidente probatorio: <<Vi è fondato motivo che l’uomo possa
essere oggetto di minacce e violenze da parte dei prevenuti o da loro emissari
finalizzate a ottenere in dibattimento una deposizione falsa o reticente>>.
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La storia di cui l’imprenditore sarebbe stato vittima comincia nel settembre 2001
quando Giovanni Cassano si presenta al concessionario, pretendendo dal proprietario
la cessione di una Audi ultimo modello, in cambio della sua Audi A4 che, lasciata per
una riparazione nell’officina, era stata danneggiata da un incendio da lui stesso
appiccato. I mesi e gli anni successivi, così come ricostruito dagli uomini del Gico
della Guardia di finanza, per l’imprenditore, è stato un crescendo di minacce e ricatti.
Giovanni Cassano, ad esempio, sarebbe ritornato più volte nel locale commerciale,
esigendo un trattamento di riguardo.
In un caso prospettando il rischio di incendi o danni al concessionario, si sarebbe
fatto consegnare una ‘Audi RS6’, in un altro, invece, avrebbe preteso di pagare la
metà un’altra auto, intestata poi alla moglie. E Giovanni Cassano non è l’unico
protagonista di quelle che la procura considera una escalation di minacce e violenze.
Nicola Vavalle, personaggio di spicco della criminalità organizzata, all’imprenditore
si sarebbe rivolto per ottenere l’assunzione di quattro suoi familiari o la cessione
gratuita di macchine di diverso tipo. E anche lui, racconta l’inchiesta della procura,
non ha esitato a terrorizzare l’imprenditore, promettendo ritorsioni anche nei
confronti dei suoi familiari. A Nicola Vavalle il magistrato contesta anche un altro
episodio: la vittima è stata costretta a vendere al pregiudicato una Porsche Cayenne
del valore di 65mila euro al prezzo di quindicimila euro. Somma che, dopo cinque
mesi, al momento della restituzione dell’auto di grossa cilindrata, Vavalle ha
trattenuto, come anticipo per l’acquisto di un’altra macchina che poi ha intestato al
cognato.
Dopo l’operazione della Guardia di finanza che nel febbraio 2008 ha portato
all’arresto dei due pregiudicati e dei loro tre complici, accusati di aver commesso
rapine con Porsche e Audi rinforzate, la procura ha scoperto le estorsioni, commesse
ai danni dell’imprenditore. Il rischio, ora, è che l’imprenditore venga avvicinato,
minacciato e costretto, in un eventuale processo, a fare marcia indietro, a scagionare,
con il suo racconto, Nicola Vavalle e Giovanni Cassano. Il magistrato, nella richiesta
di incidente probatorio, richiama l’attenzione infatti sul <<lungo periodo in cui è
stato esposto e ha subito le vessazioni dei due e del timore di ritorsioni che questi
ultimi incutono ancora oggi sullo stesso>>. Un pericolo fondato, dimostrato anche
da alcune intercettazioni telefoniche e confermato <<dalla personalità degli indagati
come emerge dai certificati penali che evidenziano il loro spessore e la loro caratura
criminale>>. Ora sulla richiesta del pm si pronuncerà il gip che dovrà decidere se
ascoltare l’imprenditore nel contraddittorio tra accusa e difesa.
Sarà protetto l’imprenditore che ha ammesso di aver subito le pressioni e le
intimidazioni da Vavalle e Cassano. La decisione è arrivata il 5 giugno 2008 nella
riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Ed è scatta dopo
l’incidente probatorio in cui l’uomo ha confermato le dichiarazioni, già rese, come si
è letto, davanti al pubblico ministero. Sono stati gli uomini del Gico, che hanno
condotto le indagini, a segnalare la necessità di una misura a tutela dell’imprenditore.
E il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, presieduto dal Prefetto, ha
condiviso la posizione delle fiamme gialle. (19)
113
*
Condannato a tre anni di reclusione, per il reato di tentativo di estorsione, il
presunto boss di Bitonto Domenico Conte. Il verdetto è stato emesso il 27 maggio
2008 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari, al termine di un
processo celebrato con rito abbreviato. Condivisa sostanzialmente la tesi della
pubblica accusa.
I fatti risalgono ai primi di giugno del 2007. Secondo la prospettazione accusatoria
della Direzione distrettuale antimafia, Conte sarebbe entrato in azione con un
complice che fu ucciso in un agguato di criminalità organizzata il 20 luglio
successivo. In base alle indagini, i due esercitarono opportune ‘pressioni’ su un
imprenditore edile andriese che in quel periodo stava lavorando su Bitonto, allo scopo
di farsi consegnare una tangente di 20mila euro. Il costruttore, però, ebbe il coraggio
di non obbedire alle richieste di Conte e del complice.
Conte fu arrestato nell’ambito di questa inchiesta e si trova tuttora rinchiuso in
carcere ad Asti.
Il gup ha invece assolto Conte dall’accusa analoga di aver tentato di estorcere una
somma di denaro a un altro imprenditore edile, questa volta di Bisceglie (in quel caso
si trattava di sette-ottomila euro): sul punto, il gup ha accolto in pieno la richiesta dei
difensori dell’imputato.
Il giudice renderà nota la motivazione della sua decisione.
(19)
*
Ha intascato 500 euro in cambio della restituzione di un quadriciclo rubato ed è
finito in carcere. Si tratta di Vincenzo Mangione, di Gravina, noto alle forze
dell’ordine, arrestato, il 28 maggio 2008, dai carabinieri della locale Stazione con
l’accusa di estorsione e ricettazione, in esecuzione di un’ordinanza di custodia
cautelare emessa dal Gip del Tribunale di Bari.
Le indagini scaturite a seguito della denuncia di furto avvenuto in Gravina il 29
febbraio 2008 ai danni di un operaio del luogo, hanno consentito ai militari di
accertare che alcuni mesi più tardi la vittima era stata avvicinata dal Mangione, il
quale le aveva proposto la restituzione del veicolo in cambio di 2mila euro. Dopo una
serie di ‘contrattazioni’ avvenute nel corso dei giorni successivi ed avuta prova del
reale possesso del veicolo mediante visione dei documenti di circolazione, il
proprietario del mezzo era riuscito ad otenere uno ‘sconto’ sulla somma da versare,
sino a consegnargli definitivamente 500 euro e riuscendo ad ottenere la restituzione
del maltolto.
Il quadro probatorio presentato dai militari dell’Arma ha così permesso all’Autorità
Giudiziaria di emettere il provvedimento eseguito, come abbiamo deto il 28 maggio.
Mangione, che dovrà rispondere anche della violazione degli obblighi imposti dalla
114
soreglianza speciale alla quale era sottoposto, è stato poi rinchiuso nel carcere di Bari.
(19)
*
Ha tentato di estorcere ai suoi ex datori di lavoro, due imprenditori edili di
Andria, diecimila euro a testa. Così è finito in manette, il 30 maggio 2008, Antonio
Iennariello, di Andria, già noto alle forze dell’ordine, sottopposto a fermo dai
carabinieri della Compagnia di Andria con l’accusa di tentata estorsione continuata.
Le indagini hanno permesso ai militari di accertare che Iannariello, dopo aver
intestato una scheda telefonica a una persona del tutto all’oscuro, aveva inviato alcuni
sms ai due imprenditori edili, per i quali aveva lavorato tempo prima, attraverso i
quali pretendeva la consegna di 10mila euro a testa.
In mancanza di soddisfazione della richiesta li aveva anche avvertiti che avrebbero
potuto trovarsi con qualche bomba davanti all’azienda o all’abitazione.
La perquisizione eseguita dai militari nell’abitazione del sospettato ha permesso di
trovare, all’interno di una fessura del caminetto, il telefonino cellulare utilizzato per
inviare i messaggi. Nella memoria del cellulare sono stati persino rintracciati i testi
delle estorsioni seguite da minacce. L’uomo è finito in carcere a Trani. (19)
*
Un incendio di natura dolosa è divampato, il 23 giugno 2008, nel cantiere edile
della stazione delle ferrovie Nord barese, in fase di costruzione.
Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco e agenti della polizia della Questura di
Bari che hanno trovato una tanica in ferro con all’interno residui di liquido
infiammabile con il quale è stato appiccato il fuoco a due container adibiti ad uffici
della ditta appaltatrice dei lavori. Indagini sono in corso per identificare i
responsabili. Di certo, non si può esludere la pista estorsiva. (19)
Attentati
Francesco Ieva, imprenditore edile di Andria, è stato vittima, il 17 maggio 2008,
di un’aggressione, qualcuno ha cercato di ucciderlo, scaricandogli addosso due colpi
di pistola.
E’ successo nel centro della città, in via Salvator Rosa, dove l’uomo stava
camminando per raggiungere alcune persone con cui aveva appuntamento, poco dopo
aver parcheggiato l’auto. Mentre camminava – così come ha raccontato ai carabinieri
del Comando di Andria che indagano sull’accaduto – ha sentito il rumore di un colpo
di arma da fuoco alle sue spalle: a quel punto l’imprenditore si è voltato e ha visto un
uomo, sicuramente giovane, con il volto nascosto da un passamontagna e armato di
pistola.
A quel punto il sicario ha sparato un secondo colpo, che lo avrebbe sicuramente ferito
in maniera seria alla natica, se non fosse stato per il telefono cellulare che aveva nella
115
tasca posteriore sinistra: l’apparecchio, che si è distrutto, ha deviato il colpo. A quel
punto l’imprenditore ha cominciato a correre per mettersi in salvo. Ma girandosi,
mentre correva, si è reso conto che il suo killer aveva tentato di sparargli addosso un
terzo colpo, senza però riuscirci in quanto la pistola si era inceppata.
Il movente dell’attentato sarebbe da ricercare sicuramente nel lavoro di Ieva. Forse un
appalto conteso del quale l’imprenditore si stava occupando negli ultimi tempi.
Anche se nessuna ipotesi viene ancora esclusa dagli investigatori, nemmeno quella
del taglieggiamento sebbene l’interessato abbia dichiarato di non aver ricevuto
minacce o richieste estorsive. Ma è una pista, quest’ultima, che, almeno al momento,
non può essere esclusa, in quanto quello dei cantieri edili ad Andria rimane un settore
di forte interesse per la criminalità, sempre pronta a offrire personalissime forme di
protezione dietro pagamento.
Sebbene gli avvertimenti per indurre i titolari a sottostare alla personale protezione di
alcuni gruppi ricorra generalmente a sistemi diversi, quali le bombe davanti ai
cantieri o alle sedi delle aziende, minacce telefoniche e siumili. Più difficilmente
colpi di pistola. (19)
*
Attimi di terrore nella notte: un lancio di molotov, le fiamme che divampano
all’improvviso, poco dopo le 22 del 16 giugno 2008, in due diversi punti del campo
rom nel quartiere Barberini, a Barletta, a 100 metri dalla statale 16 bis. Le urla, la
sensazione di essere in trappola e di non farcela. Poi il capo, un montenegrino, che
chiamano tutti Gigi, da 40 anni in Italia, urla di mettersi in salvo dalla parte del
campo risparmiata dalle fiamme. Scappano tutti (in 16, compresa una bimba di 9
mesi in braccio alla madre), mentre bruciano quattro baracche e le masserizie. Nessun
ferito, tutti riescono a mettrsi in salvo, ma sul campo cala l’ombra cupa della paura.
Arrivano i vigili del fuoco, i carabinieri e la polizia municipale per le prime indagini
e far defluire il traffico. <<Ho visto una moto con due ragazzi a bordo – racconta
Gigi – ronzare da queste parti mezz’ora prima che accadesse l’incendio: hanno urlato
qalche parolaccia, ma li ho lasciati peredere. Poi evidentemente sono tornati, avevano
in testa il casco all’improvviso hanno lanciato due bottiglie incendiarie, scatenando
l’inferno. Finora qui non abbiamo avuto problemi, ma non resteremo inermi. Se
necessario, ci armeremo>>. (19)
*
Ancora una notte di paura nelle strade di Modugno. Prima, un finestrino di
un’auto rotto e una lattina di benzina gettata all’interno: il fatto è avvenuto alle 2 del
29 giugno 2008, in via Kennedy e i malviventi non hanno fatto in tempo ad appicare
le fiamme. Poi – e siamo all’ultimo episodio – tre colpi di pistola, probabilmente
calibro 7,65, sono stati esplosi in piena nottata sempre tra il 28 e il 29 giugno, nel
cuore del centro storico, nei pressi della chiesa matrice non molto distante da Palazzo
di Città. Nel mirino dei malviventi è finita una ‘Peugeout 307’ di colore grigio scuro
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di proprietà di un disoccupato, di origine bitontine, ma residente a Modugno. Un
episodio che ha acceso la paura per una serie di dettagli: il proprietario dell’auto,
Nicola Vacca, è stato recentemente impegnato in politica. Candidato alle ultime
elezioni amministrative di Bitonto è risultato tra i primi dei non eletti della lista del
sindaco Raffaele Valla. Gli investigatori sul posto hanno rinvenuto le parti anteriori
dei tre proiettili esplosi sul marciapiedi accanto all’auto forata alla fiancata destra.
Dopo una serie di accertamenti e dalla ricostruzione della dinamica del fatto, gli
investigatori della locale Compagnia dei carabinieri, sono portati ad escludere che
l’accaduto abbia un qualche nesso di causalità con Vacca, incensurato e i carabinieri,
d’altra parte, sono convinti che la sua attività politica con l’epidosio non abbia
connessioni. Probabilmente potrebbe essersi trattato di uno scambio di persona o di
una euforica bravata notturna estiva di un gruppo di manigoldi. Intanto, i tre bossili
recuperati sono stati inviati per gli esami balistici ai laboratori del ‘Sis’ dei carabinieri
di Bari. Esami che chiariranno con certezza se si tratta effettivamente del calibro
supposto e soprattutto se i tre colpi siano stati esplosi da una pistola dotata di
silenziatore, visto che nessuno degli abitanti della zona, proprietario dell’auto
compreso, ha udito l’esplosione di colpi di pistola nel silenzio della notte. (19)
Il clan Capriati
La famiglia Capriati è stata il primo gruppo malavitoso della città a tentare l’alchimia
della trasformazione. Da banda di stile gangsterisco, la famiglia ha provato a
diventare un’organizzazione mafiosa con l’inevitabile corollario di potere cinico,
simbolico e, soprattutto, finanziario.
Sono passati circa vent’anni da quando i Capriati hanno messo da parte il
contrabbando delle sigarette per dedicarsi alla droga come alle estorsioni. Vent’anni
di lutti. Vent’anni di criminalità vera. Con la città vecchia divenuta la roccaforte della
famiglia, il territorio inviolabile dell’Antistato e perfino la scena della faida, quando
il clan Strisciuglio ha cominciato a sparare sull’egemonia dei Capriati. Vent’anni di
storia cittadina, con quell’ombra scura che si è affacciata nella politica, negli affari,
nell’economia.
Si celebra ora il tramonto. La scure del giudice, al termine del processo celebrato con
il rito abbreviato il 1° aprile 2008 si è abbattuta sulla malavita di Bari vecchia,
decapitandone i vertici e recidendo i legami con complici e sodali (salve inversioni di
rotta di Corte d’Appello o Cassazione).
Condanne per complessive 405 anni di reclusione in carcere, le più pesanti, 20 anni a
testa, per i <<mammasantissima>> riuniti nella cupola dello ‘zio Tonino’, Francesco
e Domenico, Giorgio Martiradonna alias ‘u dent’. Poi le donne del clan, capaci di
gestire in autonomia il giro di usura e di estorsioni.
Il pm antimafia ha ottenuto condanne per 49 imputati fra presunti capi, affiliati e
fiancheggiatori del clan Capriati. Quattro le assoluzioni decise dal giudice.
Costituite nel processo le parti civili fra le quali l’Amministrazione comunale di Bari,
il Coordinamento provinciale antiracket, la Fondazione antiusura San Nicola e Santi
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Medici e nove vittime di usura (per la prima volta a Bari ci sono vittime che sono
diventati testimoni di giustizia). Il giudice ha condannato gli imputati al risarcimento
dei danni in favore delle parti civili e al pagamento delle spese processuali. Alle 9
vittime è stato riconosciuto un risarcimento complessivo superiore ai 270mila euro, di
cui 145mila dovranno essere liquidati immediatamente. In favore del Comune di Bari
il clan dovrà versare 100mila euro, 25mila euro a testa dovranno essere invece
risarcite al Coordinamento provinciale antiracket e alla Fondazione antiusura.
Una pena di 4 anni e 4 mesi è stata inflitta all’avvocato Alessandra De Filippis,
coinvolta in due presunti episodi di estorsione in concorso con l’attuale collaboratore
di giustizia Michele Oreste, all’epoca dei fatti suo callaboratore nell’attività
professionale, anche lui condannato a 5 anni di reclusione.
I reati contestati al clan sono quelli di associazione criminale di stampo mafioso,
traffico di sostanze stupefacenti, usura, estorsione, detenzione abusiva di armi e
anche un tentato omicidio.
Il processo si è svolto a Bitonto per motivi di sicurezza. Le donne condannate –
secondo l’impostazione accusatoria – non si sarebbero limitate ad agire per nome, per
conto e in sostituzione degli uomini detenuti in carcere, ma avrebbero gestito in
autonomia il giro di usura e di estorsioni del clan. Tra di loro anche Maria Faraone,
moglie del boss Antonio Capriati, detenuto in carcere, a parte brevi parentesi, dal
1991.
Il processo ha riunito due inchieste della squadra mobile. La prima culminata nel bltz
del 27 maggio 2006 che portò in carcere 40 persone accusate a vario titolo di
associazione mafiosa finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, usura ed
estorsioni ai danni di decine di commercianti del capoluogo. Dalla seconda indagine
scaturì, il 3 agosto dello stesso anno, l’operazione <<Sine die>> con l’arresto di 6
donne, unite da vincoli di parentela, accusate di aver creato una piccola società di
credito usuraio al femminile praticato tra le famiglie e le piccole attività commerciali
dei vicoli della città vecchia
Intanto sui beni confiscati si procede a piccoli, ma proficui passi verso il ripristino
della legalità. Certo, il braccio di ferro con le istituzioni continua. La via dello
sgombero ‘concordato’, però, in alcuni casi sta dando risultati positivi, premiando
così la strategia della collaborazione.
Tra appartamenti e locali sono 51 i beni immobiliari riconducibili al clan Capriati
confiscati in base alla legge antimafia. Di questi 11 sono già stati liberati, altri 3 lo
saranno a breve, ma senza incidenti grazie alle proroghe chieste ed ottenute da alcuni
nuclei familiari. C’è chi dovrebbe lasciare l’appartamento il 7 aprile dopo aver avuto
il tempo di trovare una soluzione alternativa e chi (è il caso di due famiglie) ha
chiesto di poter traslocare il 16 giugno in modo da far terminare l’anno scolastico ai
propri figli.
Ovviamente tra i casi rimasti non è detto che si possa raggiungere l’intesa. Anzi.
Donne e bambini sono sempre pronti a barricarsi laddove le forze di polizia si
presenteranno per sgomberare gli alloggi. Per il momento Questura, Prefettura e
118
Comune, ognuno per le rispettive competenze, incassano questi risultati, frutto della
linea della fermezza e del buon senso che non ignora i problemi di carattere sociale.
E’ questa poi la filosofia alla base dei futuri interventi decisa dal Comitato
provinciale per l’ordine e la sicurezza. E’stato stabilito che i servizi sociali del
Comune interverranno in modo da fornire adeguata assistenza ai bambini. Inoltre,
all’atto repressivo – lo sgombero forzato dell’abitazione – si deve affiancare il
momento della solidarietà, in particolar modo se nei nuclei familiari sono presenti
minori, che con le donne, hanno diritto a maggiori tutele.
Ad operazioni concluse l’Agenzia del demanio potrà trasferire all’amministrazione
comunale i beni confiscati alle famiglie malavitose (in virtù di un recente protocollo
d’intesa che assegna al Comune di Bari questi beni).
Come si è visto, nella vicenda giudiziaria e sociale che ruota intorno al clan Capriati,
alla sua ascesa di sangue, alla sua attuale resa, si muovono la droga, le armi, la morte,
i soldi sporchi. Ma anche i vicoli, i bambini, le orecchiette, il folklore. La repressione
e la prevenzione. L’indignazione, la demagogia.
I Capriati, per la stessa storia sociale della città, sono infatti la più riuscita forma di
criminalità di matrice familistica. Una radice potente. Il clan si è esternizzato, è
disceso da se stesso, si è visceralmente rigenerato come per natura fa ogni famiglia.
Le giovani generazioni sono state cresciute nella prospettiva ereditaria del passaggio
di consegne; nessun minorenne di casa Capriati si è sottratto al binario deviato del
suo destino. Come pure, formidabile protagonismo va riconosciuto alle donne della
famiglia che hanno contribuito a tramandare e salvaguardare il cromosoma
dell’illegalità, sostituendosi attivamente agli uomini (talvolta perfino con maggiore
autorevolezza) nei momenti di maggiore difficoltà.
(21)
La spavalderia
Hanno presentato una richiesta e hanno ottenuto l’ammissione al gratuito
patrocinio. E cioè sarà lo Stato a pagare la loro difesa, quella che è servita loro
durante le indagini preliminari e nel processo abbreviato.
Su 52 imputati, sono più di dieci presunti boss che hanno dichiarato di essere
nullatenenti e di non avere quindi i soldi per pagare gli avvocati. C’è Luigi
Martiradonna ma anche altri componenti del clan Capriati, nomi che, almeno nel
passato e da quello che risulta dalla sentenza di primo grado, contavano
nell’organizzazione criminale di Bari vecchia. Il gratuito patrocinio è stato concesso a
Raffaele, Domenico e Pietro Capriati, giusto quelli che hanno avuto le pene più alte.
Gli imputati, ammessi al gratuito patrocinio, in momenti diversi (in fase di indagini
preliminari o durante il dibattimento), hanno presentato una richiesta al giudice,
allegando un’autocertificazione per dimostrare di essere nullatenenti, Perché questo
prevede la legge 15 del 2002.
Se l’imputato, anche sospettato di mafia, è povero, allora, sarà lo Stato a sostenere le
spese per la difesa e cioè per un diritto sancito dalla Costituzione, Luigi Martiradonna
e i citati Capriati nell’autocertificazione, hanno dichiarato di avere un reddito non
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superiore ai 9.700 euro all’anno e di non avere in famiglia altre fonti di guadagno. E
cioè di essere in possesso dei requisiti che la normativa richiede. La documentazione,
così come prevede la legge, è stata trasmessa dal giudice al ministero che, per ogni
singola pratica, ha avviato accertamenti, verificando la veridicità
dell’autocertificazione. Sarà lo Stato, quindi, a liquidare le parcelle degli avvocati.
Nel processo Capriati i presunti appartenenti alla criminalità organizzata che hanno
fatto richiesta di ammissione al gratuito patrocinio sono più di dieci. Molti altri non
hanno presentato alcuna domanda perché hanno quelli che i giudici della Cassazione
chiamano <<redditi presunti>> e cioè perché le indagini hanno dimostrato di aver
accumulato denaro con attività illecite, come l’usura e l’estorsione.
Nel distretto della Corte d’Appello di Bari, solo nel periodo compreso dal primo
luglio del 2006 e il 30 giugno 2007, hanno fatto ricorso al gratuito patrocinio 2724
indagati. 2159 le domande accolte. L’anno precedente invece erano stati 3233 i
cittadini che, per il pagamento delle spese legali, si erano rivolti allo Stato. Secondo
le statistiche, elaborate dalla Corte d’Appello di Bari, questa voce, cresciuta negli
ultimi anni, <<assorbe ben oltre la metà dell’intero importo delle spese di
giustizia>>. Le richieste, presentate e accolte dal primo luglio 2006 al 30 giugno del
2007, infatti, hanno comportato un esborso di più di due milioni di euro. Una cifra
invariata rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
L’impudenza e la spavalderia non si ferma alle richieste burocratiche ma va oltre. E’
certo che sono queste una caratteristica, a tutto tondo, dei malavitosi baresi.
*
Paolo Cassano che aveva visto suoi ben rientrati nel sequestro più generale a
seguito di un’inchiesta sul clan Parisi, di cui era un addetto, il 17 gennaio 2008
pretese dall’avvocato, amministratore giudiziario dei beni, la restituzione di alcuni
canoni di affitto di un autolavaggio, successivamente dissequestrato. Al diniego
dell’avvocato, che non aveva ricevuto comunicazioni in tal senso dall’autorità
giudiziaria, Cassano reagì con minacce e la promessa di passare alle vie di fatto
qualora non fosse stata soddisfatta la sua richiesta.
E’ stato arrestato il 2 aprile dello stesso anno dagli uomini della Direzione
investigativa antimafia di Bari con l’accusa di violenza e minaccia aggravata a
pubblico ufficiale. (21).
Usura, affari e truffe
I carabinieri hanno sgominato a Molfetta una holding a gestione familiare e hanno
arrestato, l’11 aprile 2008, cinque persone. Si tratta di Giacomo Germinario, di sua
moglie Marianna De Bari, di Cosimo La Forgia, titolare di una tabaccheria, accusati a
vario titolo di usura (Germinario è accusato anche di emissione di fatture per
operazioni inesistenti finalizzate alla frode fiscale); Damiana De Bari, cognata di
Germinario e di suo marito Michele Picaro accusati di emissione di fatture per
operazioni inesistenti finalizzate alla frode fiscale.
120
Nell’ambito della stessa operazione che i carabinieri hanno chiamato <<Black out>>,
altre cinque persone risultano indagate.
Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati beni immobili (6 fabbricati ad uso
abitazione, uffici ed autoparchi, 2 terreni, 7 autovetture/autocarri ed un motociclo)
sono tutti riferibili al capo della holding ed alla moglie, per un valore di sei milioni di
euro.
Secondo quanto accertato dagli investigatori a capo dell’organizzazione, c’era
Giacomo Germinario, imprenditore locale, che forniva ai commercianti in difficoltà
liquidità in cambio di assegni post-datati ad un mese di un valore superiore fino al sei
per cento, per un interesse annuo di circa il 48 per cento.
L’intermediario della holding era Cosimo La Forgia, titolare di una tabaccheria a
corso Umberto, anche lui gravato da una consistente situazione debitoria nei
confronti del capo della holding, tanto da cedergli la proprietà della propria
abitazione. Il tabaccaio rappresentava il passaggio obbligato per poter avvicinare
l’usuraio. Ruolo attivo nella holding aveva Marianna De Bari, moglie di Germinario.
Gli episodi che hanno portato alla individuazione dei cinque sono sostanzialmente
tre, due si riferiscono a due commercianti, un macellaio e un gommista, finiti in un
vorticoso giro di assegni, l’altro si riferisce ad una coppia di giovani imprenditori
denunciati a piede libero, prima aiutati a superare un momento di crisi economica
con l’affidamento di alcune prestazioni d’opera nell’ambito di commesse appaltate
alle aziende collegate a Germinario poi strozzate con assegni, cambiali ed emissioni
di fatture per operazioni inesistenti nei confronti delle aziende controllate da
Germinario. Le indagini hanno consentito di individuare 5 aziende con a capo i
familiari dell’usuraio e altre 9 ditte fittizie con sede sociale in Puglia, Veneto e Friuli
Venezia Giulia, tutte intestate ad un prestanome molfettese, nullatenente.
Le attività d’indagine sono state svolte dai carabinieri della Compagnia di Molfetta.
Per la parte fiscale ci si è avvalsi della collaborazione tecnica di un dirigente della
Agenzia delle entrate.
I fatti oggetto di accertamento sono riferiti al quinquennio compreso tra il 2002 e il
2007 e rappresentano il frutto di attività investigative svolto negli ultimi 10 anni.
Il Gip del Tribunale di Trani ha sostanzialmente condiviso il quadro sul presunto giro
d’usura molfettese tracciato dal pubblico ministero tanto da porre a base
dell’ordinanza di custodia cautelare il pericolo di inquinamento probatorio e di
reiterazione di reato.
<<La pluralità dei reati commessi – scrive il gip nell’ordinanza – consente di
effettuare una prognosi recidivante>>. Dal provvedimento di arresto emerge come le
indagini siano tutt’altro prossime alla conclusione: di qui il pericolo d’inquinamento
probatorio. <<Situazioni di concreto ed attuale pericolo per l’acquisizione e la
genuinità delle prove>>. Le indagini finalizzate alla delimitazione dell’intera area
interessata dall’illecita attività nonché all’identificazione di altri presumibili complici
e l’approfondimento delle valutazioni sulle condotte ed i diversi ruoli degli indagati,
121
potrebbero essere gravemente ostacolate dallo stato di libertà, con interferenze lesive
sulle attività dirette all’acquisizione di nuove fonti di prova, anche testimoniali. ed
alla conservazione del materiale probatorio già acquisito.
Una esigenza sentita dal pm che ha evidenziato alcune dichiarazioni di Luigi
Salvemini (indagato a piede libero) secondo cui Giacomo Germinario il 16 novembre
2007, interloquendo con lui, si sarebbe raccomandato di <<nascondere tutto e non dir
niente>>. Diverse le intercettazioni telefoniche richiamate nell’ordinanza, in cui si
ricostruiscono movimenti contabili, false fatturazioni ed assegni. Il gip parla di
<<stretta collaborazione tra Giacomo Germinario e Cosimo La Forgia emersa da
telefonate in cui si evidenzia come il La Forgia gestisca per conto di Germinario
alcuni rapporti bancari, tanto che di fronte alle sollecitazioni degli istituti di credito
che intimano La Forgia di coprire assegni venuti a scadenza, questi contatti il
Germinario per coprirli>>.
Oltre ai 5 arresti, l’inchiesta conta altrettanti indagati a piede libero a vario titolo:
Michele De Bari, Giovanni Murolo, Isabella Cuocci, Luigi Salvemini e Mariangela
Palumbo. Questi ultimi, marito e moglie, entrambi imprenditori, sono definiti dal gip
<<complici atipici, poiché vittime del disegno criminoso>>, comunque indagati per
altri profili. E proprio dalle dichiarazioni rese dal Salvemini si evince <<quale fosse
la condotta criminale adottata da Giacomo Germinario: al fine di costringere le
vittime, divenute di fatto insolvibili per l’onerosità dei tassi richiesti e dal debito
maturato, richiedeva l’emissione di fatture per operazioni totalmente o parzialmente
inesistenti che compensava col 5% dell’importo lordo riportato in fattura, che andava
a decurtare con la debitoria del soggetto usurato>>.
L’indagine continua, c’è tutta la documentazione sequestrata durante gli arresti dei
coniugi Germinario.
Particolare attenzione viene riservata alla documentazione relativa ai numerosi
appalti pubblici gestiti da Giacomo Germinario, considerato il capo
dell’organizzazione e dalle ditte a lui riconducibili per riuscire a definire l’esatto
ammontare delle evasioni fiscali collezionate e per individuare eventuali complicità.
Al momento, il danno erariale già quantificato ammonta a circa 4 milioni di euro, ma
il numero delle aziende ‘fittizie’ o ‘collegate’ a Germinario è destinato a salire, con
conseguente aumento del valore della frode fiscale.
Sono questi il risultato di attività investigative svolte fino a dicembre 2007, mese in
cui furono depositati in Procura gli atti di indagine e le risultanze investigative.
Nascono da una attenta analisi del tenore di vita tenuto da Giacomo Germinario
supportata anche da dichiarazioni e da attività di intercettazione telefonica ed
ambientale, perquisizione e sequestri di documentazione, assegni, fatture, libri
contabili, effettuati a novembre del 2007. (28)
*
122
Il 14 giugno del 2005 l’agente immobiliare Andrea Cristiano, di San Ferdinando
(Foggia), dopo aver perso l’intero patrimonio personale, preferì suicidarsi anziché
sottostare ai suoi ‘cravattari’, perché vittima, secondo l’accusa, di usura ed estorsione
da parte di un imprenditore barlettano, Domenico Disummo, arrestato il 4 giugno
2008 dai finanzieri della Compagnia di Barletta in esecuzione di un’ordinanza di
custodia cautelare richiesta dal pm della Procura di Trani e convalidata dal gip.
L’uomo (iscritto nell’albo dei mediatori creditizi) dovrà rispondere di usura ed
estorsione, mentre è indagato a piede libero per morte come conseguenza di altro
reato.
Secondo quanto hanno accertato le Fiamme Gialle, Andrea Cristiano chiese cinque
milioni di vecchie lire in prestito all’imprenditore barlettano conosciuto agli uffici
dell’Inps a Barletta, nel 2001, quando stava per avviare un’agenzia immobiliare. Quei
cinque milioni di lire, tra il 2001 e il 2005, sono però lievitati, diventando 160mila
euro, con interessi vertiginosi. Una cifra insostenibile.
Dal giorno del suicidio i carabinieri di San Ferdinando prima ed i finanzieri di
Barletta, poi, hanno avviato le indagini che si sono concluse appunto, come abbiamo
detto, il 4 giugno con l’arresto del Disummo. I finanzieri, inoltre, hanno eseguito il
sequestro preventivo di sue due agenzie immobiliari e di altri beni. Tra questi, un
immobile, originariamente di proprietà di Andrea Cristiano, nel centro di San
Ferdinando, di cui si era impossessato il suo strozzino.
Durante la conferenza stampa il pm ha detto di essere convinto che Cristiano non sia
stato e non sia l’unica vittima di Disummo, per cui ha invitato quelle eventuali
vittime a liberarsi dal peso opprimente di queste situazioni denunciando gli usurai,
potendo inoltre usufruire del fondo antiusura dello stato. (28)
*
L’Associazione Provinciale Antiusura e Antiracket, il 5 giugno 2008, ha
presentato il rapporto della sua attività. Il rapporto inizia con l’elencazione dei
numeri: venticinque persone ascoltate solo nel Nord Barese e solo per l’usura; a cui
vanno aggiunte le venti vittime di racket e le due di truffa. Di queste solo otto sono
arrivate alla denuncia attraverso l’Associazione che alle vittime fornisce assistenza
legale e permette l’accesso al fondo statale di solidarietà per consentire loro la ripresa
dell’attività. Mentre 15 hanno presentato domanda per accedere al fondo.
Le vittime di usura sono essenzialmente imprenditori, quasi sempre piccoli, che per
avviare l’attività o in momenti di particolare difficoltà ricorrono a prestiti usurai. In
provincia, da Nord a Sud, sono decine e decine i casi per i quali l’associazione ha
fornito la sua assistenza. In genere e sulla base dei casi segnalati all’associazione,
l’usura è un fenomeno veramente devastante nel Sud Barese, anche se tiene bene
anche a Barletta e Corato, come ci confermano le diverse operazioni delle forze
dell’ordine.
123
Nel luglio 2007, a Barletta si ricorda il caso dell’usuraio Angelo Mennea che aveva
strozzato un imprenditore tessile. Quando quest’ultimo vide l’usuraio davanti alla
scuola frequentata dalla sua bambina di sette anni, capì di essere seriamente in
pericolo e decise di chiedere aiuto facendo arrestare l’aguzzino. Mentre nel giugno
del 2006, la guardia di finanza fece emergere la storia di un’imprenditrice strozzata,
dopo aver deciso di aprire un asilo nido: la sua è stata una storia finita bene, con
l’arresto degli estortori e il risarcimento previsto dal fondo statale. Mentre nel 2006,
Sergio Dipaola e Luigi Lombardi finirono in manette per aver applicato tassi del
500% sulle somme prestate a un commerciante di Barletta, che per non aver pagato si
era visto picchiare anche il fratello. A Corato, invece, l’imprenditore Flavio
D’Introno era a capo di un’organizzazione che prestava denaro con tassi anche del
270% e funzionava come una vera e propria ‘banca parallela’, realizzata grazie alla
compiacenza di un ex direttore di un vero istituto di credito.
La situazione del Nord Barese non sarebbe molto dissimile da quella di tutta la
Puglia. (28)
*
Simulano incidenti in città, ricattano i malcapitati e se gli va bene fuggono via
con almeno 100 euro in tasca. Truffatori ed estorsori nello stesso tempo, in azione da
tempo. Questo l’allarme lanciato dal Commissariato della Polizia di Stato di
Monopoli che tiene sotto controllo la situazione e invita, chi dovesse essere vittima di
questi abusi, a chiamare subito le forze dell’ordine ai numeri di emergenza. E’
capitato nuovamente il 6 giugno 2008, in contrada S. Nicola a una signora che è stata
tamponata mentre era alla guida della sua auto. Il conducente dell’altro mezzo è
uscito e ha incominciato a inveire per uno specchietto, in realtà già rotto prima del
contatto. Alla richiesta di 100 euro di risarcimento seduta stante la signora ha detto
che non aveva con sé i soldi. Il giovane si è dileguato quando la signora ha deciso di
chiamare il marito. Si tratterebbe, secondo gli inquirenti, di malviventi del nord
barese in azione in zona. Altro episodio simile è occorso a un autotrasportatore
monopolitano allo svincolo con la SS 100 sulla circonvallazione di Bari. E’ stato
tamponato da una Ford Focus con due giovani a bordo che pretendevano di aver
ragione e poi hanno minacciato l’uomo. Il conducente si è quindi dato alla fuga. E’
stato rintracciato e denunciato uno dei giovani. Si tratta di un pregiudicato di
Triggiano. (28).
*
Un grosso giro di prestiti a tassi usurai è stato scoperto dai militari della Guardia
di Finanza a Bitonto. I militari del Gruppo investigativo criminalità organizzata
(Gico), il 19 giugno 2008 hanno notificato sei informazioni di garanzia a un gruppo
di altrettante persone le quali – secondo la tesi accusatoria – avrebbero messo su un
gruppo bene organizzato che pratica prestititi a usura. Le informazioni di garanzia
sono incorporate in un provvedimento di sequestro probatorio di documentazione,
124
compresi effetti cambiari e assegni bancari, che – secondo gli investigatori –
confermerebbero il giro di denaro, prestato a tassi esorbitanti. I presunti usurai sono
quindi indagati a piede libero.
Vittima dei presunti cravattari, un imprenditore edile di Bitonto, che nei mesi scorsi
avrebbe accettato un primo prestito a interesse illecito, perché si trovava in gravi
difficoltà economiche. A quel prestito ne sarebbero seguiti altri, fino ad accumulare
un debito, verso gli usurai, dell’ammontare complessivo di alcune centinaia di
migliaia di euro.
I militari del Gico hanno eseguito il provvedimento (sequestro e informazione di
garanzia) firmato dai pm della Dda e della Procura ordinaria di Bari, i magistrati che
coordinano le indagini preliminari. A quanto pare, dal sequestro delle carte
emergerebbero le prime, importanti conferme alla ipotesi accusatoria. Sui nomi degli
indagati vige il più stretto riserbo. Si sa che non apparterebbero a nessuno dei clan
della malavita organizzata ‘storici’ dell’area bitontina. Insomma, la Dda e la Procura
avrebbero alzato il velo su un nuovo gruppo criminale, bene organizzato,
specializzato nei prestiti a interessi usurai a imprenditori o comunque cittadini onesti
che si trovano in difficoltà economiche.
Adesso i pubblici ministeri inquirenti esamineranno la documentazione sequestrata e
porteranno avanti gli accertamenti necessari a definire le dimensioni del giro illecito
di affari. L’impressione è che il giro sia consistente e che coinvolga anche altri
imprenditori in crisi di liquidità. I documenti, gli assegni e le cambiali acquisite dai
militari del Gico potrebbero rivelarsi interessanti al fine del disvelamento di un affare
molto più clamoroso di quanto inizialmente appare. (28)
*
Il dibattimento sulla presunta “Farmatruffa” o “Farmacopoli” sarà inaugurato
il 12 novembre 2008 davanti ai giudici della seconda sezione penale del Tribunale di
Bari. Nell’indagine sono coinvolti professionisti – medici, farmacisti, manager e
informatori medico-scientifici di case farmaceutiche – di tutta la Puglia, dalla
Capitanata al Salento. Fra essi, anche esponenti ed ex esponenti politici. In
particolare, Oscar Marzo Vetrugno, farmacista, è l’attuale sindaco di Novoli, in
provincia di Lecce; il medico salentino Antonio Marra è stato assessore provinciale.
Inoltre Giovanni Sabato, farmacista di Galatina (Lecce), è stato consigliere della
regione Puglia fra il 1990 e il 1995.
Tra gli imputati, inoltre, ci sono capi area e informatori scientifici di note case
farmaceutiche, anche multinazionali, medici di base e farmacisti. Sono accusati, a
vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla truffa, e di singoli episodi
di corruzione, falso, riciclaggio e comparaggio.
Secondo l’impostazione accusatoria, con il passare del tempo, si era delineato un
sistema collaudato, in base al quale i medici di base, dopo aver ricevuto denaro e
altre ‘utilità’ (anche viaggi premio) dagli informatori scientifici, accettavano di
125
prescrivere una quantità esorbitante di farmaci, a spese del Servizio sanitario
nazionale, e soprattutto – sostengono gli investigatori – all’insaputa dei pazienti
destinatari della prescrizione. Anzi, in alcuni casi i pazienti sono risultati deceduti.
La complicità dei farmacisti – stando agli accertamenti coordinati dal pm – era
indispensabile, perché essi, dopo aver tolto dai medicinali le fustelle (i talloncini
adesivi senza i quali non si può ottenere il rimborso dal Sns), provvedevano a gettare
le confezioni nella spazzatura o comunque a farle sparire: in questo modo si
sarebbero sbarazzati anche di farmaci salvavita che avevano un prezzo unitario che
arrivava fino a 700 euro per ciascuna confezione. In questo modo, gli indagati
avrebbero danneggiato le casse del Servizio sanitario nazionale per una somma che –
secondo l’ufficio inquirente – si aggira sui 20 milioni di euro. (28)
Aggressione mafiosa
E’ mafia anche quella che aggredisce due vigili urbani decisi a sequestrare il
ciclomotore di un centauro 17enne in vena di acrobazie in mezzo al traffico, che per
non rimanere appiedato si mette sotto la protezione di un caporione di quartiere,
amico di Diomede, gente di ‘rispetto’ al rione Carrassi. E’ una logica tutta mafiosa,
quella che alimenta la presunzione del già citato capintesta quando fa da scudo al
diciassettenne con il suo fisico corpulento affrontando gli uomini in divisa li
schernisce e li minaccia: <<Questo ragazzo è roba mia, ne rispondo io. Voi dovete
parlare con me. Attenti a quello che fate, io vi conosco, so dove abitate, vi vengono a
prendere a casa>>. E’ un clima mafioso quello in cui ci si pone al di sopra della
legge, si pretende di fare i propri comodi, si prendono a calci e pugni degli agenti di
polizia municipale e una folla composta da quaranta persone impedisce che il
famigerato capoccia di rione venga caricato sulla macchina di servizio e condotto al
comando della Polizia Municipale. E’ per questa ragione che l’indagine
sull’agressione ai vigili urbani consumata la sera del 27 maggio 2008 e che ha portato
alla denuncia di due ragazzi di 18 anni è diventata subito materia della Direzione
distrettuale antimafia. Ecco spiegato il perché è stato un pm antimafia a coordinare il
lavoro degli investigatori della squadra mobile, in un’attività di ricerca che ha
permesso di risalire all’identità del caporione con pericolose frequentazioni con la
malavita di Carrassi e ai due diciottenni, tra i più attivi la sera dei disordini. Il
centauro acrobata era già stato segnalato al Tribunale per i minorenni. Gli
investigatori sono riusciti a ricostruire le fasi dell’aggressione di gruppo, grazie ad
una indagine giocata sugli elementi raccolti ascoltando alcuni testimoni, su quelli
acquisiti nel corso di perquisizioni e controlli, il tutto corroborato da una serie di
intercettazioni ambientali. Le accuse sono per lesioni, violenza, resistenza a pubblico
ufficiale, interruzione di pubblico servizio, il tutto con l’aggravente mafiosa. Agli
artefici dell’aggresione il conto è stato presentato la sera del 5 giugno 2008 nel corso
di un blitz condotto da Polizia di Stato e Polizia Municipale che ha interessato
l’intero quartiere. (31)
*
126
Ancora un vigile urbano ferito in servizio, per la terza volta in un mese. Ancora
vandali in azione a Bari. Due fatti che si intrecciano nella cronaca della città e che
rilanciano l’allarme sulla questione della sicurezza. L’ultimo episodio è avvenuto la
notte tra il 29 e il 30 giugno 2008, verso l’una, all’interno del Parco 2 giugno a
quell’ora chiuso: una pattuglia della polizia municipale ha sorpreso una decina di
ragazzi che si erano introdotti abusivamente e stavano danneggiando alcuni lampioni
dell’illuminazione pubblica. Ma gli agenti erano solo in due e i vandali hanno pensato
bene di nascondersi nella folta vegetazione del parco, aspettando che i vigili si
stancassero di attendere e rinunciassero ad identificarli. I due agenti, invece, hanno
chiamato rinforzi e poco dopo sono arrivati altre pattuglie, in ausilio alla prima, per
stanare e bloccare i giovani. A quel punto, il gruppetto ha deciso di scappare,
scavalcando il muro di cinta e disperdendosi per le vie limitrofe, in tutte le direzioni. I
vigili si sono messi al loro inseguimento, riuscendo a intercettare uno di loro. Dopo
una forsennata corsa il ragazzo è stato finalmente fermato. Ma lui, un 17enne di Bari
vecchia, non si è arreso ed ha reagito con puni e calci, lottando contro uno degli
agenti che nella colluttazione è caduto all’indietro e ha battuto violentemente il polso
destro. Il minorenne è stato poi bloccato e accompagnato al Comando della polizia
municipale, al quartiere Japigia, dove è stato denunciato all’autorità giudiziaria per i
reati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e di danneggiamento dei beni
pubblici. L’agente ferito è stato trasportato al pronto soccorso del Policlino di Bari.
(31)
Scommesse clandestine
Maxi operazione della Guardia di Finanza per arginare il fenomeno legato alle
scommesse clandestine. Ventidue persone sono state denunciate a piede libero.
Rispondono di accettazione illegale di scommesse. Tra loro anche persone denunciate
per aver violato le norme che regolamentano le intermediazioni finanziarie. In
qualche modo facevano da ‘prestanome’ agli scommettitori che volevano rimanere
anonimi e non si esclude che tra gli anonimi scommettitori si celassero pregiudicati.
In quelle particolari agenzie telematiche sarebbe stato possibile acquistare o ricaricare
le carte personalizzate e prepagate per scommettere on line: in pratica lo
scommettitore gestisce in proprio le scommesse dal suo pc ed in caso di vincita vede
accreditare la somma direttamente sulla sua card.
Ed invece, accadeva anche che in quelle agenzie le scommesse fossero raccolte
direttamente e, in caso di vincita, pagate direttamente; senza distinzione dunque coi
soggetti titolari concessionari di questo tipo di servizio.
Diciannove centri di raccolta scommesse sono stati sottoposti a sequestro. E sono
stati sequestrati anche settantanove computer, novantuno monitor, centoventitre card
prepagate, trentatre modem, seicentocinquantasette ticket per scommesse, diciannove
contratti di affiliazione tra i vari punti di raccolta scommesse, e circa
millecinquecento euro in contanti.
L’operazione partita da Molfetta, ha interessato anche i comuni di Trani, Bisceglie,
Barletta, Ruvo di Puglia, Andria e Canosa. I militari della tenenza di Molfetta si sono
127
avvalsi della collaborazione dei militari del Gruppo pronto impiego di Bari, delle
compagnie di Barletta e Trani e della tenenza di Andria. Tutti i centri di raccolta
scommesse sequestrati non avevano le autorizzazioni previste dalla legge e, nei fatti,
avevano creato un circuito parallelo di scommesse su eventi sportivi nazionali ed
internazionali, che non erano sotto il controllo delle casse statali. (31)
*
In un bar di via Milano, a Barletta, i carabinieri hanno scoperto tre videopoker
nascosti in una sala ‘segreta’. A insospetire i militari è stata una porta che dava sul
retro e che portava ad uno stanzino adibito a vera e propria sala giochi. I videogiochi,
illegali e non allacciati alla rete telematica del Monopolio, sono stati posti sotto
sequestro. Il titolare dell’esercizio pubblico è stato denunciato per esercizio di gioco
d’azzardo. (31)
La banda della <<Cayenne>>
All’alba del 14 febbraio 2008 in un blitz al rione San Paolo gli investigatori del Gico
(gruppo investigativo della criminalità organizzata)della Gurdia di finanza, hanno
sgominato una banda spietata e definita <<di alta pericolosità sociale>>. Sono stati
arrestati Nicola Vavalle, ritenuto il capo dell’organizzazione insieme a Giovanni
Cassano e poi Franco Ponarosa, Giuseppe Lupelli e Romano Straniero, tutti
pregiudicati, accusati di associazione a delinquere finalizzata alle rapine a mano
armata, furti con scasso, ricettazione, estorsione e un tentato omicidio. Altre tre
persone sono indagate a piede libero. Il magistrato inquirente e gli investigatori delle
fiamme gialle hanno lavorato un anno e mezzo per riuscire ad incastrare il gruppo
criminale che riusciva a spostarsi abilmente da una parte all’altra della Puglia e
talvolta anche in altre regioni seminando il terrore tra commercianti e automobilisti ai
quali rubavano auto di grossa cilindrata: in particolare Porsche Cayenne e Audi A3.
Ma la loro vera specialità erano i furti di bancomat che avvenivano solitamente il
venerdì quando gli sportelli bancari venivano caricati di almeno 60 mila euro per il
fine settimana.
La banda in azione utilizzava giubbotti antiproiettili, crick, ricetrasmittenti e
dissuasori di onde elettromagnetiche per disturbare l’uso di telefoni cellulari: le
macchine usate avevano lastre d’acciaio sistemate dietro i sedili posteriori per
proteggersi durante i conflitti a fuoco con le forze di polizia.
Secondo quanto accertato dagli inquirenti, la banda sarebbe responsabile di cinque
rapine di autovetture, (puntavano i fucili a pompa contro gli automobilisti che in più
occasioni sono stati anche picchiati), tre rapine in una tabaccheria di Adelfia. Poi
ancora hanno scardinato un bancomat a Molfetta, assaltato un discount a Bari e
tentato di investire un agente di polizia.
I colpi sono avvenuti nella primavera del 2007, mentre nell’ottobre dello stesso anno
una pattuglia di baschi verdi si è lanciata all’inseguimento di un Audi A8 intercettata
nei pressi di Stradella del Tesoro di San Paolo, ma dopo qualche chilometro i
128
finanzieri hanno dovuto rinunciare perché la strada era stata disseminata di chiodi a
tre punti che si sono incastrati nelle ruote. La banda – così come emerge dalle
intercettazioni ambientali – era spietata.
Intanto il 22 aprile 2008 i militari del nucleo di polizia tributaria del Gico della
Guardia di finanza hanno sottoposto a sequestro preventivo, in esecuzione di
provvedimenti emessi dal gip del Tribunale di Bari, beni appartenenti a tre dei cinque
componenti della famigerata banda della Porsche <<Cayenne>>.
Si tratta di 3 appartamenti (2 a Bari e uno a Modugno), 5 autovetture (Audi A3,
Toyota Yaris, Lancia Lybra e Audi A4), 3 scooter di varie marche e una moto Honda
<<Transalp>>, quote societarie di un ristorante pizzeria che si trova a Bitonto, nella
disponibilità di Franco Ponarosa, alias <<Franchino il molese>, Giuseppe Lupelli,
detto <<U’lup>> e Romolo Straniero, conosciuto come <<Roman>>, tutti del
quartiere San Paolo. Agli altri due presunti componenti della banda, Nicola Vavalle,
detto <<Pacchione>>, ritenuto il capo e Giovanni Cassano, alias <<U’curt>> a
febbraio vennero sequestrati alcuni appartamenti, autovetture, scooter e conti correnti
bancari. Il valore complessivo dei beni requisiti supera i 650.000 euro. (28)
Il boss Di Cosola e il racket dei funerali
I Carabinieri hanno stroncato quella che per la Dda e per la Procura della Repubblica
era un’organizzazione tentacolare che aveva messo radici in ospedali pubblici e
cliniche private con un meccanismo – secondo l’impostazione accusatoria –
collaudato da anni. Fatturava centinaia di migliaia di euro, con un meccanismo che si
basava sulla debolezza psicologica delle persone colpite da un lutto in famiglia, sul
cordone ombelicale individuato fra alcune imprese di pompe funebri e gli infermieri
necrofori e sulla regola non scritta che imponeva a imprese funebri ‘forestiere’ di
pagare una specie di tassa (50 e 100 euro) ai necrofori ospedalieri, quasi fosse un
dazio doganale.
In più, sempre secondo l’accusa, nel caso della impresa gestita da Rosa Porcelli a
Ceglie del Campo, gli affari dovevano servire anche ad arricchire il boss cegliese
Antonio Di Cosola, il quale figurava come dipendente della ditta e anzi riceveva uno
stipendio davvero interessante.
Con le accuse, contestate a vario titolo, di associazione per delinquere, concussione,
corruzione, truffa, peculato e rivelazione di segreto d’ufficio, sono state denunciate
33 persone. Di esse, tre si trovano in carcere, cioè il presunto boss cegliese Antonio
Di Cosola, l’impresaria di pompe funebri Rosa Porcelli e il marito di lei, Pellegrino
Labellarte. Gli altri 30 sono agli arresti domiciliari. Fra essi, tutti necrofori del
Policlinico, del ‘Di Venere’ e dell’ospedale ‘San Paolo’, oltre che di alcune cliniche
private cittadine. Al punto che in particolare i manager delle aziende ospedaliere
pubbliche sono dovuti correre ai ripari, distaccando negli obitori personale di altri
reparti. Ad altri 11 indagati è stato notificato l’obbligo di firma presso le forze
dell’ordine e fra essi l’unico medico coinvolto nelle indagini, il dottor Donato
Santobuono, in servizio nel reparto di Chirurgia del Policlinico e titolare di uno
studio odontoiatrico a Capurso, altri sette sono completamente a piede libero.
129
Stando all’ordinanza del giudice delle indagini preliminari, nella seconda metà del
2006 – questo il periodo monitorato – era stato inventato un sistema che vestiva i
morti e spogliava i vivi. La vestizione, il trasporto della salma e il funerale stesso
erano tre momenti strategici dai quali le organizzazioni delineate dai pm traevano
soldi. Il presunto cartello criminale avrebbe anche organizzato i funerali offrendo
pacchetti <<all inclusive>>. Per un funerale si pagava tra i 1.500 e i 5.000 euro. Lo
snodo – secondo la Procura – era rappresentato dagli infermieri necrofori che
lavoravano negli obitori del Policlinico (10) e degli ospedali Di Venere (5) e San
Paolo (5), ma ci sono anche infermieri professionali (15 in totale) di tre cliniche
private: Mater Dei, San Giovanni e Villa del Sole. Non mancano titolari e
collaboratori di nove ditte di pompe funebri (Santa Rita, L’Umanità, Iofe Humanitas
del gruppo Pacucci; Porcelli Rosa, La Cattolica, Funeral Center e Funeral Service e
Abbatantuono-Mitola).
Il dottor Donato Santobuono, cui è stato imposto l’obbligo di firma, è indagato per
peculato perché si sarebbe appropriato, avvalendosi della complicità di due
infermieri, di medicinali e materiale sanitario dalla Farmacia del Policlinico che poi
avrebbe utilizzato nel suo studio privato.
Alla spartizione degli affari non era estranea la mafia. A ottobre 2006, infatti, una
nuova ditta di pompe funebri tentò di insediarsi al Di Venere ma sarebbe stata messa
in fuga dal boss Antonio Di Cosola. Il pregiudicato è accusato di aver imposto ai
necrofori del nosocomio di Carbonara la ditta Rosa Porcelli. Per essere chiaro e
ottenere un risultato rapido, Di Cosola fece radunare con un pretesto i necrofori
davanti all’ospedale e li raggiunse assieme ad alcuni affiliati. Quindi li minacciò:
<<Se non chiamate la Porcelli scoppia la guerra>>.
I Carabinieri avrebbero accertato che venivano elargiti premi in denaro ai dipendenti
dei nosocomi che segnalavano in tempo reale l’avvenuto o l’imminente decesso di un
paziente: in questo caso la ditta di pompe funebri versava tra i 300 e i 650 euro a
chiamata, in modo da evitare contatti tra i parenti dei deceduti e le imprese
concorrenti. E il ‘pizzo’ veniva caricato sul conto finale. Invece alle ditte che non
facevano parte del presunto cartello criminale veniva imposta una tangente di 50-100
euro per la vestizione delle salme e per il loro trasporto dall’ospedale a casa.
Della tangente e della sua entità ne è prova la telefonata intercettata dai Carabinieri il
24 ottobre 2006, fra il titolare di una impresa funebre e uno dei necrofori del
Policlinico, Spiridione Caricola (ai domiciliari).
Secondo i pm, comunque, una delle più importanti <<centrali operative>>, sempre
nell’ottica dell’inchiesta era l’obitorio del Policlinico, dove i necrofori, come
testimoniano alcune intercettazioni ambientali, avevano intuito proprio di essere
intercettati. Tanto che, il 4 ottobre 2006, gli addetti Giuseppe Campanale e Francesco
Perrini, commentando <<l’improvvisa interruzione della linea telefonica nella
giornata precedente – scrive il gip nell’ordinanza – affermano che, probabilmente il
telefono in uso all’obitorio era oggetto di intercettazione e che, pertanto, avrebbero
dovuto utilizzare i cellulari>>.
130
Per far luce sul fenomeno del caro estinto, che i carabinieri hanno intercettato le
conversazioni degli imprenditori e degli addetti all’obitorio, come appena abbiamo
letto. E poi hanno raccolto il racconto di chi ha trovato il coraggio di denunciare.
Cinque titolari di agenzie funebri hanno scelto di non piegarsi a quello che era un
vero e proprio sistema. E hanno parlato. Sono imprenditori che non facevano parte
del cartello, vittime di un <<malcostume radicato e istituzionalizzato>>. E’ l’ottobre
del 2006 quando i carabinieri ascoltano il titolare di un’agenzia che conferma quanto
già emerge dalle indagini. <<Come tutti i titolari delle ditte di onoranze funebri –
spiega – ogni qualvolta mi capita di trasportare una salma dall’obitorio del
Policlinico, sono costretto a versare del denaro agli infermieri necrofori. Tale forma
di tangente – continua – è corrisposta per evitare qualsiasi forma di ostruzionismo da
parte degli infermieri>>.
Il racconto è ricco di particolari. Dice ancora il testimone: <<La somma varia da 50 a
100 euro a seconda dell’infermiere di turno all’obitorio. Non mi è mai capitato di
rifiutarmi di pagare in quanto nell’ambiente è arcinoto che il rifiuto comporta ritardi
nella preparazione della camera ardente e della partenza della salma>>. Le ditte non
facevano parte del sistema, quindi, non avevano alternative. Dovevano pagare gli
addetti all’obitorio versare un compenso extra per evitare intoppi burocratici.
L’ordinanza cautelare contiene il racconto di più testimoni. E cioè di titolari di
agenzie costretti a pagare. Dichiarazioni convergenti.
L’inchiesta che nel luglio 2005 portò ad altri arresti fece da deterrente ma solo
all’inizio. Poi, <<dopo qualche mese – dice uno dei testimoni – i nuovi infermieri
necrofori si sono adeguati al sistema. Pertanto, attualmente, gli infermieri di turno
agli obitori, al momento del decesso, percepiscono indebitamente denaro>>. A
confermare il racconto dei cinque imprenditori, anche un registro, ritrovato
nell’ufficio di un’agenzia e sul quale, accanto al nome di ogni defunto, c’era anche
l’importo del compenso elargito agli addetti all’obitorio del Policlinico. (28)
La tratta delle schiave
Lucciole con il marchio UE. Sono tornate le passeggiatrici bianche e sono
comunitarie. Sono ancora poco numerose, sono soprattutto rumene. Non
appartengono al mondo della ‘prostituzione invisibile’, ovvero del mercimonio in
appartamento. Battano i marciapiedi tra Madonella e San Giorgio, sulle complanari
della statale 100, allo svincolo della tangenziale di Poggiofranco, in via Bellomo
vicino Santa Fara, sperando di non dare troppo nell’occhio. Lavorano per strada dove
a comandare sono le prostitute di colore. Sono approdate a Bari con lo stesso flusso
migratorio che porta collaboratrici familiari, badanti e commesse. Le rumene,
lucciole con il ‘bollino’ europeo, sono destinate ad aumentare e sulla loro presenza, si
sta indagando. L’inchiesta mette ora i primi passi, gli investigatori hanno cominciato
ad osservare in maniera sistematica e continua il fenomeno per definire i contorni.
Da una analisi del Ministero dell’Interno elaborata con il contributo delle procure
antimafia, degli operatori sociali, delle prefetture e dei comuni emerge che a Bari
come a Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Catania è in
131
aumento il numero delle lucciole rumene e bulgare sulla strada, oggi cittadine
comunitarie e non più espellibili. Inoltre il numero complessivo delle vittime della
tratta e dello sfruttamento delle donne neocomunitarie provenienti dalla Romania ha
superato le vittime di nazionalità italiana. Le ragazze dell’Est (rumene ma anche
albanesi, moldave, russe o ucraine) reclutate con l’inganno, lasciano i loro Paesi e si
accingono alla partenza con la falsa promessa di un lavoro regolare come cameriere,
ballerine, baby sitter, domestiche, badanti.
L’esodo delle nuove schiave bianche verso l’Italia segue principalmente tre rotte:
centro-Europa partendo da Ucraina, Moldavia e Romania, quindi Ungheria e Austria.
La rotta che dalla Romania prevede l’arrivo a Belgrado, via Ungheria e da lì in aereo
nell’Italia del Nord. Infine la rotta via mare attraverso l’Adriatico partendo
dall’Albania. Le lucciole dell’Est evitano di occupare le stesse strade, di riscaldarsi
agli stessi fuochi delle nigeriane, le più presenti sul territorio barese.
Una suddivisione di zone, sulla quale stanno indagando i magistrati della Direzione
distrettuale antimafia di Bari. Un’inchiesta, abbiamo detto appena avviata, che
muovendosi anche sulla base delle testimonianze di ‘schiave’ desiderose di
affrancarsi, sta estendendo gli approfondimenti all’intera città. E così emerge che
sono davvero tante le straniere alle quali gli uomini di Bari e provincia si rivolgono in
cerca di sesso.
Contano su di loro anche alcuni proprietari di appartamenti, spesso collocati in zone
eleganti della città che li affittano a cifre esorbitanti, fino a 2.500 euro per abitazioni
di 100 metri quadri. Munite di regolare contratto d’affitto, per un anno, le
organizzazioni di prostitute sudamericane si gestiscono a rotazione le case.
Funziona così: tenendosi in contatto fra loro, le giovani donne arrivano a Bari, si
stabiliscono per poco tempo nell’appartamento già affittato (a volta anche solo per
una settimana), dove si prostituiscono a prezzi anche molto alti. I clienti, in quei casi,
vengono reperiti tramite annunci in Internet o con inserzioni sui quotidiani locali.
Trascorso il tempo prestabilito, ripartono, mentre nell’abitazione subentra un’altra
donna, pronta a ricominciare l’attività. A farne le spese non è l’affittuario, talvolta
anche inconsapevole di quanto avviene, ma i condomini che lamentano il via vai di
uomini nel palazzo. E sarebbero stati loro, in più di un’occasione, ad aver dato vita
alle indagini degli inquirenti. Su tutto, in ogni caso, incombe l’ombra della
criminalità organizzata barese che darebbe appoggi e coperture logistiche. (28)
*
Non possono affrancarsi dalla schiavitù del corpo, neppure pagando il grosso
debito del viaggio. Possono, al massimo, risalire nella scala gerarchica della
prostituzione, diventando maman e gestendo a loro volta nuove schiave. Sono le
nigeriane che arrivano in gruppi a Bari, che vivono in appartamenti affittati dai
trafficanti che durante il giorno si vendono sulle strade periferiche della città. E che,
se dovessero malauguratamente restare incinte, sono anche costrette ad abortire.
132
Le stesse donne che, come è accaduto tra il 26 e il 27 maggio 2008, vengono
ferocemente picchiate dai loro sfruttatori perché non rendono come dovrebbero.
Questa volta però l’uomo è stato arrestato dalla Squadra Mobile di Bari, che lo accusa
di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamenro della prostituzione:
Peter Ekuase, nigeriano del Benin City ha numerosi precedenti penali.
In giro per l’Italia con le sue ‘donne’, è stato agli arresti domiciliari a Novara, ma è
stato segnalato anche a Caglari e a Roma. L’uomo compare in numerose inchieste
giudiziarie, inclusa quella con cui la polizia a febbraio 2008 fece venire alla luce una
brutta storia di nigeriane sfruttate e maltrattate a Bari. La sua ultima vittima è una
connazionale di 24 anni, arrivata a Bari nel 2004 ma in Italia sin da quando aveva 17
anni.
Per il ‘viaggio della speranza’ in cerca di una vita migliore che costa mediamente 10
mila euro, la ragazza ne aveva già pagati 25 mila, ma al suo sfruttatore non
bastavano: ne pretendeva altri 20 mila, che la giovane non poteva dare, Per questo
l’aveva picchiata violentemente, tanto da procurarle un buco in testa e lesioni per 10
giorni. Del fatto era stata informata la polizia che ha avviato le ricerche.
Sfuggito ad un primo controllo, è stato poi bloccato nel retrobottega di un negozio di
oggetti africani, in via Ravanas 63, al quartiere Libertà. Gli investigatori hanno quindi
ricostruito tutti i passaggi e la storia criminale di Ekuase, che risulta avere numerose
identità, utilizzate a seconda delle esigenze in giro per l’Italia. Tra le sue
specializzazioni, quella di stipulare con inconsapevoli baresi il contratto d’affitto per
le abitazioni, in cui far dormire le sue ‘donne’.
Un ruolo evidenziato già nelle precedenti inchieste ma che finora non era bastato per
far scattare le manette. (28)
*
Due ragazze rumene di 18 anni sono state sequestrate la sera del 3 giugno 2008
da quattro uomini, della loro stessa nazionalità, mentre si prostituivano nella zona
industriale tra Bari e Modugno. Secondo le testimonianze delle due giovani lucciole, i
quattro, dopo averle costrette a salire su due macchine le hanno portate in un vecchio
caseggiato di campagna e costrette ad avere rapporti sessuali per tutta la notte.
All’alba, dopo aver tolto loro il denaro, 600 euro, le hanno anche obbligate a seguirli
in un viaggio verso sud che si è concluso a Putignano. Qui le due ragazze intorno alle
7,30 approfittando di un momento di distrazione dei loro sequestratori, a quanto pare,
sono riuscite ad allontanarsi dalle macchine e a raggiungere il primo negozio aperto,
una pescheria, dove hanno pregato il titolare di aiutarle, di proteggerle e di telefonare
immediatamente ai carabinieri che sono giunti dopo pochi miniti.Dei sequestratori si
erano perdute le tracce. Le due donne, che si esprimono in italiano con grande
difficoltà, hanno dovuto fare ricorso alle cure dei medici per una serie di contusioni al
volto per le quali sono state giudicate guaribili in pochi giorni.
133
L’incubo di Adriana e Melania è durato circa 12 ore ed è finito così, nel pronto
soccorso di un paese a loro sconosciuto. Hanno giurato e spergiurato di non aver mai
visto prima i quattro rumeni che le hanno sequestrate, violentate e rapinate. Adriana
ha raccontato di essere stata aggredita, picchiata e rapinata da tre uomini solo qualche
giorno prima, mentre faceva il suo mestiere stazionando al chilometro 112 della
statale 96, territorio di Palo del Colle. Sono scesi in tre – ha raccontato – da una
macchina azzurra, mi hanno pestato di botte e si sono presi i miei soldi, 500 euro,
lasciandomi lì per terra>>. Dalla denuncia presentata ai carabinieri di Palo del Colle
risulta che la prima ad aiutarla è stata una ragazza rumena, forse quella stessa
Melania compagna di sventura nella note fra il 3 e il 4 giugno. A prelevarla dalla
strada, in quella circostanza, è stata un autolettiga del 118 che l’ha trasportata al
pronto soccorso dell’ospedale di Grumo dove è stata dimessa con una prognosi di 5
giorni. Le indagini si sono messe in moto. Com’è naturale, non ci sono ancora ipotesi
ma solo i resoconti delle vittime. Ci si muove sul terreno delle congetture ed è
possibile per questo immaginare che gli autori delle due violenze possano essere gli
stessi. Gente senza scrupoli, un racket composto da rumeni decisi a sfruttare e
sottomettere Adriana e la sua compagna. Le prostitute bianche sono tornate sulla
strada. Sono le donne dell’Est, lucciole con il marchio Ue.
Sono approdate a Bari con lo stesso flusso migratorio che porta collaboratrici
familiari, badanti e commesse. (28)
La santa alleanza
Lo dicono i collaboratori giustizia. Lo confermano le indagini di polizia e carabinieri.
A Bari il clan degli Strisciuglio è diventato così potente, egemone in alcuni quartieri
della città, che agli altri gruppi criminali non è rimasto altro che creare un’unica
alleanza. Un’unica organizzazione. La novità emerge dalle dichiarazioni di nuovi
collaboratori di giustizia contenute in recentissime informative (un vero e proprio
dossier dell’aprile 2008) che carabinieri e polizia hanno inviato alla Dda. Quello degli
Strisciuglio, quindi, è al momento il clan che nella geografia criminale del capoluogo
pugliese detiene più peso e potere. Gestisce i traffici di droga, le estorsioni e l’usura
nei principali quartieri della città. Ma il gruppo di Mimmo ‘la luna’ (così è conosciuto
il boss del clan) continua ad estendere il suo controllo oltre che in diversi quartieri di
Bari come Palese, Santo Spirito, Enziteto, Carbonara, San Girolamo anche a Bitonto,
Rutigliano, Noicataro, Palombaio e Giovinazzo.
Gli altri gruppi criminali, invece, hanno ripiegato su alcuni centri della provincia
come Adelfia, Ceglie, Bitritto, Santeramo e Cassano che orbitano in area Di Cosola. I
gruppi di Parisi-Palermiti e Stramaglia che esercitano la loro influenza a Torre a
Mare, Mola, Capurso, Valenzano, Triggiano ed Acquaviva. Questi clan una volta
dettavano legge nei rioni Carbonara, Japigia e San Paolo. I Capriati restano nella loro
roccaforte di Bari vecchia e a Modugno. Una situazione che ha portato alla
costituzione di un’unica alleanza. Queste cosche parzialmente estromesse dai traffici
illegali più redditizi della città, si dedicano principalmente allo spaccio di droghe,
all’usura e alle estorsioni ai commercianti (soprattutto nel rione Carrassi ad opera di
134
Diomede). Questa spartizione del territorio avrebbe favorito la pax mafiosa
caratterizzata dall’assenza di contrasti tra clan che, in precedenza, anche sulla stessa
piazza, spacciavano droga e ricorrevano a gambizzazioni e omicidi per risolvere
anche le più banali controversie.
Ora questi personaggi farebbero parte di una coalizione criminale più omogenea, nata
per cercare di sopravvivere all’ascesa irresistibile degli Strisciuglio.
Al gruppo che ha nel quartiere Libertà la sua centrale operativa è stato inferto un duro
colpo grazie all’operazione ‘Eclissi’, conclusasi nel gennaio 2006 con più di 180
arresti. Ma il carisma di Domenico Strisciuglio, capo indiscusso del clan, è ancora
molto forte, detenuto (attualmente si trova a Novara) dal ’98 in regime di carcere
duro. Il boss, comunque, continua ad esercitare il suo potere sugli affiliati. E nelle
carceri proseguono i reclutamenti di picciotti (i battesimi di mafia sono frequenti) che
presto potrebbero tornare in libertà e imporsi sul territorio per conto di ‘Mimmo la
luna’.
Gli ordini arrivano dal carcere. I boss o gli esponenti di spicco dei clan dettano la
linea, anche se dietro le sbarre. E lo fanno perché in cella ricevono costantemente
informazioni, aggiornamenti sulla vita al di fuori delle strutture penitenziarie. Per
comunicare, infatti, i gruppi malavitosi della città, gli Strisciuglio prima di tutto,
hanno ideato un sistema che permette loro di eludere i controlli, di non attivare i
sospetti. Il particolare emerge dalle inchieste che la Dda sta conducendo.
Da una parte, in carcere, ci sono gli esponenti di rilievo del clan, dall’altra, in strade,
nelle piazze dello spaccio, le nuove leve della criminalità. Si tratta di missive che
sono, almeno sulla carta, intestate non agli uomini del clan, ma a piccoli pregiudicati,
spesso immigrati, che in carcere si trovano per reati comuni. Usando il loro nome,
immaginano i componenti dei gruppi malavitosi, sarà più semplice non attirare
l’attenzione degli investigatori. La corrispondenza viene quindi indirizzata a detenuti
insospettabili che dopo averla ricevuta si accorgono del reale contenuto della lettera.
E capiscono che il vero destinatario della missiva (al cui interno spesso c’è un altro
nome) è magari il compagno di cella, e cioè un grosso pregiudicato della malavita
cittadina che in carcere attende indicazioni per poi impartire ordini.
Carabinieri e poliziotti hanno sequestrato alcune lettere, accertando come l’insolito
sistema di comunicazione sia sempre più diffuso tra gli esponenti del clan che, in
questo modo, cercano di sopravvivere alla detenzione. E anche dall’esame della
corrispondenza, intercettata dietro le sbarre, è emerso come quello degli Strisciuglio
sia il gruppo malavitoso più potente e organizzato, capace di arruolare nuovi affiliati
anche tra i detenuti. Nelle lettere sequestrate in carcere, gli uomini del clan,
inneggiano alla famiglie degli Strisciuglio, definita <<la più forte>>, <<la più potente
di tutte>> e in cui si esprime gratitudine alla figura di Mimmo ‘la luna’, considerato
ancora il capo nonostante il lungo periodo di detenzione.
A conferma dell’ascesa del gruppo criminale, secondo quanto emerge dalle
informative, sono decine e decine i nuovi affiliati del clan e non soltanto nel quartiere
135
Libertà, ma anche in altre zone della città dove gestiscono prevalentemente lo spaccio
di droga ma anche le estorsioni.
Si tratta di giovani, vecchie conoscenze delle forze di polizia, tornati in libertà dopo
periodi più o meno lunghi di detenzione, ma anche di ragazzini, di adolescenti che
sono disposti ad impugnare le armi pur di dimostrare la loro fedeltà al clan e che sono
quindi pronti a prendere il posto che è stato dei componenti del gruppo, condannati
nel processo ‘Eclissi’. Questi ultimi sono il nuovo punto di forza del clan e che
vengono usati come spacciatori o vedette, ricevendo in cambio compensi anche
settimanali. (30)
Di tutto questo troviamo una conferma negli scenari del crimine barese
contenuto nell’ultima relazione semestrale (riferita al 2007), inviata al Parlamento
dalla Direzione Investigativa Antimafia.
Si afferma, infatti, che il tempio del crimine organizzato riconducibile al boss Savino
Parisi e ai suoi feroci luogotenenti, diventa terra di conquista degli uomini del clan
Strisciuglio. E’ qui che il gruppo di Mimmo ‘la luna’ avrebbe in atto una potente
campagna di affiliazione. Giovani, giovanissimi reclutati per ripopolare l’esercito di
sentinelle, spacciatori, autisti, killer, gregari di vario livello. I ragazzi di Japigia
sarebbero il seme piantato dal clan Strisciuglio nel fertilissimo terreno malavitoso che
per decenni ha fatto da sfondo all’egemonia di ‘Savinuccio’ e dei suoi accoliti.
Secondo gli esperti della Dia, il ritorno in carcere di Parisi e la raffica di arresti che
ha disarticolato il gruppo di Eugenio Palermiti avrebbe lasciato campo libero al più
feroce dei clan baresi. La battuta d’arresto di Palermiti, in particolare, (con quei 10
milioni di euro di beni sequestrati) ha assunto una importanza simbolica negli
ambienti del crimine. Il clan, nato da una costola di Parisi e poi diventato autonomo,
nel 2007 aveva raggiunto una potenza straordinaria. Le indagini, infatti, hanno
rivelato che se fino a qualche anno fa, nell’approvvigionamento di sostanze
stupefacenti dal Sud America, gli muomini di Palermiti contavano sulla mediazione
del gruppo camorristico Nuvoletta, il più recente quadro investigativo ha messo in
luce <<la capacità del sodalizio indagato di stabilire dirette relazioni con cartelli
sudamericani, addirittura ospitandone esponenti in Bari a garanzia delle
transazioni>>.
I Palermiti avrebbero trafficato droga anche dall’Olanda e dalla Spagna e avrebbero
intrecciato rapporti stretti con narcotrafficanti venezuelani, accumulando capitali
illegali poi ripuliti in attività legali.
Negli ultimi mesi, dunque, secondo la Dia, <<la città ha vissuto una situazione di
calma apparente, fatta eccezione per sporadici episodi, che possono costituire il
segnale del riacutizzarsi di contrasti per l’egemonia criminale nel quartiere Libertà da
parte del gruppo Strisciuglio>>. Nel dossier, riferimenti espliciti vengono fatti ai
proiettili esplosi per strada il primo ottobre del 2007: nessun ferito ma gli inquirenti
sanno che la sparatoria è consumata contro un bersaglio in movimento. Cinque giorni
dopo, un pregiudicato viene arrestato dalla polizia di Stato per detenzione di armi
mentre si nasconde all’interno di un ripostiglio nel sottoscala di un condominio del
136
quartiere Libertà: l’uomo dichiara di aver trovato rifugio perché aveva temuto un
agguato da parte di quattro persone con i volti coperti da caschi integrali, che aveva
visto giungere a forte velocità, a bordo di due motociclette.
Questi episodi e il ritrovamento di numerose armi e munizioni, secondo la Dia,
<<inducono ad ipotizzare una possibile ripresa delle ‘imprese omicidarie’ da parte
del gruppo Strisciuglio e di altre realtà criminali per il controllo delle attività
illecite>>.
E se l’organizzazione riconducibile a Domenico Strsciuglio sarebbe in fase di grande
espansione, da Palese ad Enziteto, dalla città vecchia a Japigia fino al Libertà, proprio
il suo capo storico starebbe vivendo la sua vera prima stagione di declino, fiaccato
dalla lunghissima detenzione e dalle pesanti condanne collezionate nel corso degli
anni. Chi ha raccolto la sua eredità, allo stesso modo temuto, è presumibilmente il
regista delle affiliazioni nel quartiere Japigia, nonché della rinnovata strategia di
conquista del potere criminale.
Infatti, ha preso spazio l’associazione che si coagula intorno alla figura di Stramaglia
(un tempo legato a Parisi). Il gruppo Stramaglia ha in corso un braccio di ferro con lo
storico clan Di Cosola per l’egemonia nello spaccio di stupefacenti sui quartieri di
Carbonara, Loseto, Ceglie e nei comuni di Triggiano, Valenzano, Adelfia e
Casamassima. (30)
Intanto un ingente patrimonio del valore di 1.250.000 euro – costituito da quote
societarie di aziende operanti nei settori delle scommesse e della distribuzione dei
carburanti, da un appartamento, da autovetture e motocicli – è stato posto sotto
sequestro dal Gico nel corso di un’operazione denominata ‘Ecclissi 2’ che ha colpito
al portafoglio alcuni tra i ‘mammasantissima’, i luogotenenti e gli aggregati non solo
del gruppo Strisciuglio ma anche del clan Abbaticchio.
Sconfitto sul piano processuale, il clan Strisciuglio è stato attaccato su quello
economico e finanziario. Gli accertamenti svolti dagli investigatori e disposti dal
sostituto procuratore della Dda hanno riguardato complessivamente 44 persone.
A partire dal novembre 2007 i finanzieri del Gico hanno cominciato ad acquisire una
serie di documenti in ordine alla posizione contributiva, al reddito, al possesso di beni
in qualche modo riconducibili, in maniera diretta o per il tramite di prestanome, agli
indagati e alle loro famiglie.
Gli undici malavitosi finiti sotto la lente di ingrandimento della polizia tributaria,
avrebbero investito il denaro ricavato smerciando droga e ricattando commercianti,
imprenditori in attività legali e in beni come macchine e motociclette.
Tra gli indagati vi sono anche componenti della famiglia Strisciuglio. Cinque i
membri del clan Abbaticchio al quale i militari hanno sequestrato il 50% delle quote
di una società a responsabilità limitata proprietaria di una stazione di rifornimento
carburanti che si trova in via Napoli e una sala scommesse di Bitritto.
I finanzieri hanno notificato il provvedimento di sequestro ai componenti della
famiglia Strisciuglio che occupano, essendone i proprietari, un appartamento in via
137
Crispi. Si tratta di una casa di notevole valore. Nei casi appena citati la custodia
giudiziaria è stata affidata agli stessi soggetti colpiti dal sequestro. Dieci le
automobili requisite di marca Bmw, Audi, Smart, Lancia e Renaut. Sette invece le
motociclette, quasi tutte Piaggio Beverly. Buona parte dei beni è risultata essere
intestata a prestanome e familiari dei malavitosi, compresi figli e nipoti minorenni.
(30)
I clan ricorrono al mutuo
L’inchiesta, per il momento, è sfociata in un arresto e in un provvedimento di
interdizione , ma è destinata a nuovi colpi di scena. Perché nel registro degli indagati
ci sono 28 nomi, insospettabili, promotori finanziari, funzionari di banca, geometri e
poi pregiudicati. Secondo l’accusa facevano parte di un’associazione che,
presentando alle banche atti di vendita o contratti di lavoro falsi, sarebbe riuscita a
ottenere in un anno l’erogazione di mutui per un valore complessivo di cinque milioni
di euro. Soldi che, è il sospetto degli investigatori, potrebbero aver dato nuova linfa
alla criminalità organizzata.
L’indagine è stata avviata dopo la denuncia della filiale di Triggiano di un istituto di
credito che aveva rilevato anomalie nella documentazione, esibita da un cittadino per
la concessione di un prestito. E l’inchiesta su un caso isolato ha permesso di scoprire
una vera e propria organizzazione, composta da vecchie conoscenze delle forze di
polizia, ma anche da insospettabili. Come Luigi Gervasi, ad esempio, barese,
proprietario di alcuni supermercati, è ai domiciliari, Roberto Ressa, di Triggiano,
commercialista e promotore finanziario, invece, è stato interdetto per due mesi dalla
professione. Il meccanismo della truffa, commessa ai danni di quattro banche, era
molto articolato. Gli insospetabili, gente che non aveva pendenze con la giustizia,
accompagnati dai promotori finanziari, si presentavano negli uffici degli istituti
bancari per ottenere un mutuo. Una richiesta, motivata con la necessità di investire
nel mercato della casa, e basata su documentazione, come gli atti di vendita, le
dichiarazioni dei redditi o i contratti di lavoro, rivelatisi poi falsi. Perché gli
appartamenti che avrebbero dovuto acquistare in alcuni casi esistevano solo sulla
carta, in altri, invece, erano abitazioni fatiscenti, il cui valore era stato sovrastimato
per giustificare la richiesta di un mutuo da duecento o trecentomila euro.
Cinque milioni il valore complessivo dei prestiti, concessi ai componenti
dell’organizzazione. Due sono stati erogati, gli altri tre invece bloccati dopo l’avvio
delle indagini. Dell’associazione facevano parte promotori finanziari, geometri che
firmavano false perizie e funzionari di banca in servizio all’ufficio mutui che non
hanno vigilato sulle norme antiriciclaggio. Nell’inchiesta coinvolti anche cittadini, ai
quali venivano intestati falsi atti di vendita e pregiudicati di Bari e provincia. Il
sospetto dei carabinieri, non ancora formalizzato nelle carte dell’inchiesta, è che i
soldi servissero anche per finanziare la criminalità organizzata. (30)
Il Rapporto DIA sul riciclaggio dei proventi
138
Il traffico di stupefacenti continua ad essere il filone aureo degli affari del crimine
barese. La città – secondo l’incrocio delle numerose inchieste in corso – sarebbe
perno del narcotraffico internazionale che mette in triangolazione il Sud America, il
Nord Europa e l’area dei Balcani. Non è un caso che gli stessi vertici della Dia
indichino il porto barese quale <<un importante snodo logistico per tutti i traffici
illeciti>>.
I cacciatori di patrimoni della Dia hanno intensificato il lavoro di intelligence per
rintracciare il flusso di denaro sporco. D’altronde negli ultimi mesi del 2007 sono
state numerose le operazioni finanziarie sospette sulle quali si sono accesi i riflettori
degli inquirenti. L’Antimafia delle manette, come spesso rilevano gli esperti, è
sostanzialmente inefficace se non si accompagna all’Antimafia dei capitali. Ai clan
vanno svuotate le tasche.
I cacciatori di denaro sporco hanno cominciato a dragare il terreno quotidiano della
circolazione del denaro. Al setaccio sono passate operazioni sospette come
l’emissione di alcuni assegni circolari e titoli similari, oppure l’addebito per
estinzione assegno, i versamenti di denaro contante attraverso sportelli automatici o
cassa continua. Ai ragg x anche operazioni come bonifici a favore di ordine e conto,
prelevamenti con moduli di sportello, incassi di assegni circolari o di propri assegni,
bonifici esteri, disposizione di giro conto tra conti diversamente intestati (stesso
intermediario).
Non è sfuggito al controllo della Dia nemmeno l’acquisto di oro e metalli preziosi, la
conversione di banconote in euro, il versamento di contante o di titoli di credito o di
assegni circolari o ancora alcuni contratti di locazione (come il fitto o il leasing) e i
premi assicurativi.
Il numero delle segnalazioni sospette trattenute dalla Dia negli ultimi mesi è insomma
in aumento. Ed è la strada maestra per mettere le mani su quei capitali sporchi che
non vengono reinvestiti in attività commerciali o proprietà immobiliari, fino a
qualche anno fa uno degli strumenti preferiti dalla criminalità organizzata per ripulire
il denaro di provenienza illecita. (30)
Il vertice in Prefettura sulla “Sicurezza”
Il 23 maggio 2008, alla presenza del sotosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, si
è tenuto, in Prefettura, un vertice sulla <<sicurezza>>. Hanno partecipato, tra gli altri,
naturalmente il Prefetto, il capo della Procura barese Emilio Marzano; il giudice per
le indagini preliminari Jolanda Carrieri; il col. Fabrizio Carrarini, comandante
provinciale della Guardia di Finanza e il Questore Vincenzo Maria Speranza.
Le emergenze consegnate al sottosegretario dagli amministratori, dai magistrati, dalle
forze dell’ordine sono stati i cosiddetti “reati metropolitani” che turbano i tutori
dell’ordine pubblico. C’è anche, è vero, la questione dello spaccio massiccio di
stupefacenti a Bari e in provincia, ma la vera preoccupazione sono i furti, gli scippi,
le rapine. Sono questi i reati che – per dirla con il Prefetto - <<destano maggiore
allarme sociale>>. Sfogliando il ‘mattinale’ di polizia e carabinieri, in effetti, i furti
139
in appartamento, i furti d’auto, le rapine all’interno di negozi e aziende, gli scippi, i
furti di rame sono una litania quotidiana.
<<Sono reati – ha commentato lo stesso Mantovano – che non esauriscono il quadro
delle minacce della sicurezza sul territorio. Sono gli aspetti di maggiore sensibilità.
Quelli che soggettivamente, e non solo, danno maggiore fastidio alla popolazione.
Quelli che richiedono una risposta immediata per aumentare la percezione di
sicurezza, un elemento da non sottovalutare. E’ sulla base della percezione di
sicurezza, al di là delle statistiche – ha continuato il sottosegretario – che si forma il
grado di fiducia delle istituzioni che lavorano per la sicurezza. Quindi si avvia un
percorso virtuoso i cui vantaggi sono poi per tutti>>.
Si è parlato anche di stranieri (la cui presenza a Bari non desta l’allarme o la fobia
che si registra in altre città d’Italia) e di rom. Sono 400 quelli censiti sul territorio
povinciale, ma sono assai mansueti, <<solo qualcuno di loro – rassicura il Prefetto –
vive di espedienti, ed è inutile nasconderlo>>.
L’on. Mantovano ha sottolineato che i mezzi contro i mali della criminalità comune
sono per la gran parte contenuti nei provvedimenti in materia di sicurezza approvati a
Napoli dal Consiglio dei ministri che ha quindi illustrato.
Tra le altre risposte possibili per arginare l’assalto quotidiano di ladri, scippatori e
rapinatori, vi è l’incremento del sistema di videosorveglianza a Bari e nelle città della
provincia attraverso contratti di assistenza e gestione pluriennale. Il prefetto ha anche
ribadito che si proporrà ai commercianti la possibilità di installare negli esercizi
commerciali il teleallarme attraverso l’impiego dei finanziamenti governativi.
Questo è tutto quello che riferiscono le cronache sulla riunione in Prefettura.
Ci sia permesso un commento al vertice sulla sicurezza con il dovuto rispetto per
le competenze e le conoscenze indubbiamente in possesso dei partecipanti
all’incontro. E in questo condividiamo molte delle cose messe a punto dalla
gionalista de ‘La Gazzeta del Mezzogiorno’ a margine della cronaca dela
riunione. Infatti, pochi giorni prima del vertice in Prefettura la Dia ha reso
pubblico il Rapporto che periodicamente (ogni sei mesi) presenta al Parlamento
(del suo contenuto abbiamo riferito in altro paragrafo). La Dia ha, infatti,
ridisegnato gli scenari del crimine organizzato regione per regione, con
particolare riferimento, ovviamente, a quelle del Mezzogiorno piegato dal peso
mafioso. Quella barese è stata descritta come una costellazione di sodalizi
(sostanzialmente di matrice familistica) non certo potente e inquientante come
Cosa nostra o la ‘Ndrangheta, ma pure capace di esprimere un pericoloso
potenziale criminale. Ha indicato i clan che si contendono i territori di
competenza e ipotizzando gli scontri possibili per la contesa di quei territori.
Inoltre la Dia ci dice che la mafia barese sa trafficare enormi quantità di droga e
riciclare il denaro sporco. Come si può arguire essa esprime una pericolosità che
può travolgere una parte consistente della nostra provincia. E’ possibile che non
si sia espressa, nella riunione in Prefettura, neanche una parola su questo
aspetto non certo secondario? Sia ben chiaro sappiamo bene che la percezione di
140
insicurezza il cittadino lo avverte dai furti, rapine e scippi commessi, ma
l’egemonia territoriale dei clan difesa anche con le armi è anch’essa una vera
minaccia per la sicurezza dell’intera comunità provinciale. (30)
LECCE
Rapporto della Direzione Investigativa Antimafia - luglio-dicembre 2007
Nell’area del leccese, sostiene la Dia, si evidenziano <<segnali di attivismo
nell’ambito della criminalità organizzata, pur a fronte della sostanziale stabilità
degli indici dei reati-spia>>; nella città capoluogo <<si percepiscono segnali, ancora
embrionali, di riorganizzazione >> e un evidente interesse della criminalità a
<<concretizzare una progettualità di matrice mafiosa attraverso il reclutamento di
incesurati e di giovanissimi, l’adozione di modelli organizzativi più strutturati e il
mantenimento di un basso profilo di esposizione>>.
Il riferimento al reclutamento di incensurati e giovanissimi era stato segnalato dalla
Dia di Puglia e Basilicata già nella relazione del primo semestre del 2007. La novità
rispetto al passato è legata al fatto che vi è nei nuovi gruppi criminali <<la cautela di
esigere>> da imprenditori e commercianti <<modeste tangenti per evitare il
fenomeno delle denunce>>. Anche il traffico della droga continua a essere centrale
negli affari dei clan.
Nella relazione viene segnalato il ruolo che nel Basso Salento esercita il clan
Padovano, attivo a Gallipoli, che si è rafforzato a seguito dell’avvicinamento ai
Tornese di Monteroni. Dopo qualche intesa <<a Casarano, un pluripregiudicato del
luogo, già appartenente alla Scu dei Giannelli, avrebbe costituito un proprio gruppo
autonomo>> per gestire il traffico di droga, con l’approvazione del gruppo
Padovano. Personaggi vicini al gruppo Padovano/Tornese hanno mostrato di essere
attivi nella zona di Matino.
Anche a Galatina emerge il tentativo di soggetti vicini al clan Padovano di riempire il
vuoto nella gestione dei traffici lasciato dal gruppo Coluccia, disarticolato con le
operazioni di polizia degli anni scorsi.
A Monteroni resta saldo il ruolo del clan Tornese, nonostante i capi siano in carcere.
La Dia segnala anche gli atti intimidatori compiuti nel semestre luglio-dicembre 2007
nei confronti di Alessandro Martino, già reggente per conto del clan Tornese a
Monteroni: l’affissione nel paese di manifesti di lutto che annunciavano la sua morte;
il danneggiamento dell’abitazione di una parente; l’incendio dell’auto di un suo
affiliato.
141
Nel Nord Salento, gli investigatori della Dia segnalano che <<il gruppo De Tommasi
starebbe attraversando un periodo particolarmente critico a causa della mancanza
di affiliati in libertà capaci, per caratura criminale, di ricompattare il sodalizio>>.
In questo contesto <<il territorio sembra subire l’influenza di realtà criminali dei
confinanti comuni del Brindisino: San Pietro Vernotico, Cellino San Marco e
Torchiarolo>>. I brindisini si dimostrano particolarmente attivi nel commercio degli
stupefacenti a Campi Salentina, Squinzano e Trepuzzi.
Alcuni attentati ad amministratori pubblici verificatisi nel periodo considerato
(luglio-dicembre 2007) stando alle indagini della Dia non sarebbero riconducibili alla
criminalità organizzata. (34)
Rapporto della Questura – 17 maggio 2008
Nell’ambito delle operazioni di polizia sono state 250 le persone arrestate tra il 1°
maggio 2007 e il 30 aprile 2008; 70 le persone rimpatriate con foglio di via
obbligatorio. Si tratta soprattutto di immigrati non in regola; 235 i chili di droga
sequestrati, di cui 3.901 chili di droghe pesanti e 231,430 droghe leggere.
Droga, usura ed estorsione, furti e rapine, prostituzione, sequestri di patrimoni e di
armi, danneggiamenti ed altri reati ancora sono stati al centro delle principali
operazioni portate a termine dal personale della Questura e dei Commissariati. Per la
droga ci sono, tra gli altri, gli arresti di Antonio De Vergori con 960 grammi di eroina
e quello di Fernandio Elia che insieme a quasi un chilo e 400 grammi di hashish
aveva anche due pistole calibro 7,62 con la matricola cancellata.
Quattro le operazioni contro il racket delle estorsioni e dell’usura, una delle ultime
contro i taglieggiatori della catena dei supermercati Eurospin. In tema di rapine, fra le
sei operazioni segnalate anche quella in cui finì in carcere l’autore delle rapine alle
farmacie durante le festività natalizie del 2007.
Per quanto riguarda i danneggiamenti, nel consuntivo della Questura sono citate le tre
operazioni contro le bande dei ragazzi diventati specialisti in danneggiamenti nelle
scuole: nell’operazione ‘Fighetti’ dell’11 dicembre 2007 furono denunciati 18
minorenni e due maggiorenni, altri cinque il 13 marzo 2008 per nuovi assalti a scuole
a Lecce. Infine per i danni e i furti alla scuola media San Donato sono stati denunciati
14 ragazzi. (30)
Il racket
E l’ombra del racket continua ad oscurare anche il Salento. Cataldo Motta,
coordinatore della dda di Lecce, nel corso dell’audizione alla Commissione Affari
Costituzionali, ha fatto riferimento alla spinosa analisi avviata tra i commercianti e
piccoli e medi imprenditori. <<Abbiamo provato ad avviare un’indagine conoscitiva
senza però ottenere grossi risultati. Lo stesso è avvenuto per i concessionari, per i
rivenditori di autoveicoli, e poi per le discoteche, i bar, i wine bar, i pub e le birrerie
del centro storico di Lecce e delle marine, nel periodo estivo. Abbiamo notato una
difficoltà dei titolari degli esercizi commerciali a riferire circostanze delle quali, in
142
parte, eravamo già venuti a conoscenza tramite l’utilizzo di altri canali. Abbiamo così
scoperto che sono state costituite delle vere e proprie società, non nelle forme degli
istituti di vigilanza, il cui oggetto sociale è dato dal controllo interno degli accessi,
cioè una sorta di vigilanza interna. Secondo la disciplina, chi opera con questo
oggetto sociale, sfugge all’autorizzazione prefettizia: quindi si sono costituiti dei veri
e propri istituti di vigilanza. Questo è un fenomeno che già da tempo si era rilevato in
provincia di Lecce, ma che adesso si è diffuso ancora di più in città. In questo modo –
ha spiegato Motta – si dà copertura all’attività di estorsione, che viene condotta
proprio attraverso tali società, la cui compagine sociale è, il più delle volte, costituita
da esponenti degli ambienti criminali. La stessa situazione si è sviluppata nelle città
di Brindisi e Taranto. Abbiamo predisposto due indagini, concluse proprio nel 2007,
le quali hanno fornito indicazioni sul controllo, direi monopolistico, da parte di due
organizzazioni criminali, due clan entrambi riconducibili agli ambienti più storici e
tradizionali della vecchia Sacra Corona Unita>>.
E le cronache frequentemente danno ragione al Dott. Motta.
*
Alla fine di marzo 2008 gli aspiranti estorsori Tommasino Delle Grottaglie e
Vincenzo Ruffo sono finiti in carcere dopo una brillante operazione di polizia
condotta dalla sezione reati contro il patrimonio della Squadra mobile di Lecce in
trasferta a Taranto: tarantini sono infatti i due personaggi.
Obiettivo la catena di supermercati Eurospin. Cinquantamila euro la prima richiesta,
scesa a 30 mila dopo che le minacce all’amministratore delegato ed altri responsabili
caddero nel vuoto. Uno sconto sì, ma con la prospettiva che quei 30 mila euro
sarebbero diventati un versamento mensile fisso.
Richieste accompagnate dalle minacce di far chiudere i punti vendita e riprendere le
trattative con chi sarebbe subentrato. Ma anche con minacce esplicite alle persone e
alle strutture: promessa di iniziare facendo del male ai dipendenti, risparmiando
temporaneamente i locali perché assicurati.
Il primo contatto risale al 14 marzo, l’ultimo il 25. Il quadro accusatorio attribuisce a
Ruffo di aver fornito al complice i numeri telefonici di cellulari e le utenze private
delle persone da contattare ma anche di fare la parte di mediatore come se qualcuno
lo avesse costretto ad informare i vertici dell’Eurospin raggiunti dalle telefonate che
si trattava di gente che non scherzava.
I pedinamenti, gli appostamenti e le intercettazioni telefoniche hanno fato saltare il
disegno criminoso, stabilendo, tra l’altro, che il Ruffo non era un mediatore
disinteressato, bensì complice di Delle Grottaglie.
I due presunti personaggi sono finiti in carcere con l’accusa di tentata estorsione in
concorso, aggravata e continuata.
*
143
Per non parlare dei frequenti inspiegabili attentati o le numerose auto date alle
fiamme la cui frequenza lascia il sospetto che non siano opera di bulli o teppisti.
E’ il caso delle pescheria di Vincenzo Quaranta di Lizzano. Aveva già subito un
attentato all’esercizio, poi gli hanno bruciato l’auto. Il 29 marzo 2008 è tornato nel
mirino. I malviventi hanno dato fuoco a una Micra di proprietà del commerciante,
parcheggiata sotto casa.
La direzione delle indagini è stata affidata alla compagnia dei carabinieri di
Manduria, i quali non escludono che il Quaranta potrebbe essere stato vittima degli
estorsori. Seguendo questa ipotesi, la prima auto bruciata potrebbe costituire un
pesantissimo avviso, la seconda una vendetta.
Il danneggiato, sentito dai carabinieri, non ha fornito alcun elemento. Nessuna
richiesta estorsiva avrebbe ricevuto, né sarebbe finito nel mirino di qualcuno sì da far
scattare il desiderio di vendetta.
*
Intanto il 1° aprile 2008 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Lecce ha emesso sentenza nel processo con rito abbreviato a carico del gruppo
guidato da Capoccia, prima di diventare collaboratore di giustizia,per aver messo in
atto una serie di attentati e di minacce allo scopo di indurre gli amministratori di
Cavallino e gli imprenditori impegnati nella realizzazione del parco commerciale, a
concedere all’ex assessore Roberto Baldassare la gestione dell’impianto di
distribuzione di carburante che sarebbe sorto nell’area. Baldassare in questo processo
risulta mandante e vittima allo stesso tempo perché è stato riconosciuto parte lesa per
l’incendio della porta del suo studio professionale avvenuto il 24 giugno del 2005.
Stesso orientamento per l’imprenditore Tommaso Ricchiuto e per le aziende di
famiglia.
Pur essendo giunto, il giudice, a condanne diverse dalle richieste formulate dal pm, il
capo di imputazione non è stato sostanzialmente modificato ad eccezione dell’accusa
rivolta a tre componenti del gruppo, i quali avevano scagliato una bottiglia
incendiaria contro la porta dello studio di Baldassare.
Le condanne ai tre autori dell’attentato tengono conto dell’aggravante delle modalità
mafiose correlata all’accusa di estorsione per la bomba piazzata nella villa di
Ricchiuto, per i colpi di pistola contro lo stesso imprenditore, per le pistolettate all’ex
assessore Ennio Cioffi, per le minacce ai consiglieri comunali Antonio Schirinzi e
Giacomo Boccadomo ma anche al progettista Cesare Barrotta.
Quindi si è chiuso il primo grado per i presunti autori materiali di attentati e minacce.
Tocca ora a Baldassaree nelle vesti di mandante.
*
144
Il 1° aprile 2008 bruciata un’altra auto a Surbo. Verso l’una e mezzo di notte è
andata in fiamme la Fiat Punto parcheggiata in via Volturno dove abitano Patrizia De
Santis ed Antonio Pagano. Le fiamme oltre a danneggiare in modo pressocchè
irreparabile l’auto si sono propagate sul prospetto dell’abitazione rischiando di
causare danni gravi anche alle persone: il calore ha fatto esplodere il vetro della
finestra della camera dei bambini che fortunatamente erano stati messi a dormire
altrove.
Vi erano state alcune iniziative della Prefettura per cercare di riportare serenità in un
paese colpito da una serie di incendi di auto ma anche dai cinque colpi di pistola
contro la sede della polizia municipale. Le ultime due macchine bruciate sono le Alfa
Romeo 155 di un carabiniere in pensione e di un collega in servizio a Torre Santa
Susanna (in provincia di Brindisi), come pure quelle dell’ex presidente del Consiglio
comunale e di un dipendente dell’Ufficio Tributi.
Fra le ipotesi seguite (a parte quella riferita ad atti di intimidazione nei confronti della
giunta municipale per l’assegnazione di alcuni lavori) anche quella dell’assegnazione
delle case popolari che ha visto sia la municipale che i carabinieri impegnati a
verificare la presenza dei requisiti per entrare a far parte della graduatoria. (14)
*
E ancora. Nel processo con rito abbreviato andato a sentenza il 22 dicembre del
2004 furono tutti assolti dal giudice per l’udienza preliminare. In quella pronunciata il
2 aprile 2008 dalla Corte d’Appello, sono stati riconosciuti come gli autori
dell’estorsione all’enoteca Linciano, sia Francesco Portulano, che Antonio Rotondo e
Carmine Mazzotta.Più precisamente Portulano è stato condannato a sei anni e due
mesi di reclusione, gli altri a sei anni per l’ipotesi di reato di estorsione aggravata
dall’agevolazione dell’associazione mafiosa. Assolti invece dall’accusa di aver
piazzato la bomba che il 6 marzo del 2003 (stesso giorno in cui fu ammazzato dalla
Scu il proprietario del bar Papaya, Antonio Fiorentino) esplose davanti all’ingresso
dell’enoteca.
E’ stato ritenuto motivato il teorema accusatorio basato sul presupposto che a
Linciano nel 2003 fosse stato chiesto non un contributo per l’organizzazione del
concerto di Gigi D’Alessio nelle cave di Cavallino. Il denaro non sarebbe dovuto
andare all’agenzia teatrale di Rotundo ma sarebbe servito alla criminalità.
La sentenza del 3 aprile ha modificato quella di primo grado nella parte che riguarda
Nico Greco, di Lecce: i quattro anni sono passati ad un anno e quattro mesi in
continuazione con la condanna nel processo “Pit”. Per gli altri imputati è stato
confermato ciò che fu deciso in primo grado: sette anni ad Antonio Cannoletta ed a
Nicola Montinaro; cinque anni e quattro mesi a Marco Cafiero; tre anni a Luca
Spagnolo di Lecce; due anni al collaboratori di giustizia Giampaolo Monaco di
Lecce.
145
Questa presunta holding delle estorsioni venne scoperta dai poliziotti della Squadra
mobile nell’operazione chiamata “Clear” perché fra gli sciampi di questa marca fu
piazzata una telecamera che riprese alcune delle richieste di denaro. Insieme a
Linciano furono presi di mira anche “La Brillante” di piazza Palio, i commercianti
della Mediazione, il Racar residence. (14)
*
Un incendio, nella notte tra il 2 e il 3 aprile 2008, ha distrutto il negozio di
parrucchiere di Luca Metrangolo, a Nardò.
Dopo aver sollevato la saracinesca i pompieri hanno rotto la porta di vetro e trovato
un divano in fiamme oltre agli specchi in frantumi a causa dell’alta temperatura. Il
fuoco ha distrutto anche alcuni degli strumenti di lavoro del parrucchiere.
I poliziotti della Scientifica, assodata la natura dolosa del gesto, hanno accertato che
della benzina era stata gettata sotto la serranda appena sollevata; la moquette che
ricopriva il pavimento del negozio e la soglia di ingresso se ne sono impregnate e
quindi le fiamme partendo da fuori sono penetrate all’interno, attaccando il divano. Il
fuoco ha anche annerito le pareti interne della prima stanza del locale che si sviluppa
in tre locali.
Alla polizia Metrangolo ha raccontato di non aver ricevuto minacce estorsive, tuttavia
resta la perplessità per un episodio avvenuto il 1° aprile e sul momento considerato
un ‘pesce d’aprile’, un episodio che ora va interpretato sotto altra luce.
A quanto pare la mattina del 1° una persona con il volto coperto da un casco integrale
da motociclista è entrato nel locale chiedendo dei soldi. Metrangolo avrebbe rifiutato
accennando al lancio di un oggetto che si trovava sul mobile contro l’uomo, che però
è fuggito senza affermare alcuna parola.
Al gesto sul momento non è stato dato grande rilievo, ma dopo quanto accaduto
l’episodio assume un altro significato. Gli agenti del Commissariato di Polizia
indagano a tutto campo. (14)
*
La notte del 3 aprile a Novoli, località ‘Palude’, su una stradina di campagna, si
è incendiato un furgone Nissan Vanette. I carabinieri di Campi e Novoli hanno
individuato e hanno rintracciato solo la mattina seguente: C. F., 75 anni di Trepuzzi
ma domiciliato a Reggio Emilia, che, per il vero, spontaneamente si era presentato a
denunciare il furto del mezzo che si trovava parcheggiato fuori dall’abitazione di
Veglie, presso il quale l’uomo è momentaneamente alloggiato (è un commerciante di
ortofrutta che viene ogni tanto nel Salento per comprare prodotti di terra da rivendere
al Nord). Al momento del furto il furgoncino era scarico.
146
I Vigili del Fuoco hanno stabilito la natura dolosa dell’incidente. L’uomo, dal canto
suo, ha detto di non aver subito minacce o richieste estorsive, ormai ricorrente la
risposta che si riceve da parte di chi subisce questo tipo di attentati. (14)
*
L’11 aprile 2008 sono stati arrestati tre presunti complici della banda che a
Montenero di Bisaccia (in provincia di Campabasso) rapinò il Tir a un
autotrasportatore di Nardò. All’uomo tenuto sotto sequestro la notte del 17 marzo per
sette ore ed abbandonato nelle campagne di San Severo (in provincia di Foggia) con i
piedi legati con una fascetta da elettricista ad un palo di filari di vite.
L’11 aprile, appunto, era stato fissato l’appuntamento per consegnare una parte del
denaro preteso per restituire il Tir da 120mila euro ed il carico di tre mezzi per la
movimentazione terra del valore di 150mila. L’appuntamento per un caffè, aveva
detto per telefono uno degli indagati al proprietario del Tir, un imprenditore di
Avetrana. L’appuntamento per il ‘cavallo di ritorno’.
Fermato con in tasca diecimila dei 30mila euro richiesti all’imprenditore, i carabinieri
del Nucleo operativo radiomobile (Norm) della Compagnia di Campi Salentino
hanno arrestato Costantino Errico, titolare di una impresa di lavori stradali, vecchia
conoscenza delle forze dell’ordine in particolare per le truffe, insieme a ‘don Errico’
è finito in carcere anche il suo autista, Salvatore Carrozzo di Veglie. Stessa sorte per
Francesco Murgolo di Gravina di Puglia (in provincia di Bari), anche lui titolare di
un’impresa di lavori stradali.
Per Carrozzo e Murgolo i carabinieri hanno effettuato un fermo di polizia giudiziaria
ritenendoli complici di Errico nel reato di estorsione.
Errico e Carrozzo erano stati notati con l’imprenditore di Avetrana il 2 aprile a bordo
di una Peugeot 407 nera, mentre si dirigevano nel Nord Barese. L’auto si fermò sul
piazzale di una stazione di servizio di Gravina di Puglia dove avvenne l’incontro con
Murgolo. L’imprenditore, inoltre, era stato notato a Torre Lapillo in compagnia di
Errico e Carrozzo come pure quest’ultimi erano stati visti ad Avetrana con il
proprietario del Tir rapinato.
Vista la vicinanza tra Torre Lapillo ed Avetrana certe frequentazioni sarebbero potute
passare anche inosservate se non fosse che i carabinieri erano stati avvertiti di
prendere nota anche del minimo movimento sospetto attorno al proprietario del Tir
rapinato. E se gli incontri a Torre Lapillo ed Avetrana non avrebbero potuto dare
alcuna indicazione, il viaggio a Gravina diventò l’occasione per convocare
l’imprenditore e chiedergli cosa stesse accadendo: ai carabinieri del Norm l’uomo
ammise di essersi ficcato nei guai. Era ‘sotto estorsione’ dopo che Errico e Carrozzo
si erano offerti di fargli trovare il Tir tramite loro conoscenze baresi. Cioè Murgolo,
persona con la quale Errico aveva lavorato a Gravina negli anni scorsi.
Quella che sarebbe stata presentata come un’offerta di aiuto avrebbe avuto comunque
un costo: 30mila euro. Se avesse rifiutato il Tir ed i tre mezzi trasportati sarebbero
147
finiti nei Paesi dell’Est per essere venduti al doppio della cifra chiesta al proprietario.
Pagando la metà, lui si sarebbe riappropriato di beni del valore di 270mila uro, loro
invece non avrebbero corso rischi per piazzarli all’estero.
Trascorsi alcuni giorni per racimolare almeno diecimila euro, venne fissato
l’appuntamento per la consegna. Il denaro sarebbe stato preso in consegna da Errico
in una busta, ma nemmeno il tempo di infilarla in tasca ed i carabinieri lo hanno
bloccato ed arrestato. (14)
*
Nella notte tra lunedì e martedì 15 aprile 2008, a Nardò ha preso fuoco, per
mano di ignoti incendiari, una Nissan Vanette della ditta di pompe funebri “La
Millefiori”, di proprietà del neretino Marco Vergano. I Vigili del Fuoco del
distaccamento di Gallipoli, subito accorsi, in breve tempo sono riusciti a domare le
fiamme.
Nell’incendio, che ha completamente distrutto il furgone, sono state coinvolte anche
una Fiat Panda che è stata subito avvolta dalle fiamme e due abitazioni vicine il cui
prospetto è stato gravemente danneggiato.
L’incendio dei due rispettivi portoni di ingresso avrebbe potuto rendere il bilancio
molto più grave.
A quanto è dato sapere i rilievi effettuati nella mattinata di martedì dagli uomini della
Scientifica non lascerebbero dubbi sulla matrice dolosa del gesto. Gli inquirenti,
infatti, avrebbero trovato un finestrino del furgoncino ridotto in frantumi; da qui,
secondo le prime ricostruzioni, sarebbe stato gettato all’interno dell’auto materiale
infiammabile.
Intanto alle autorità intervenute sul posto l’imprenditore avrebbe dichiarato di non
aver ricevuto minacce o subito estorsioni. (14)
*
Il 19 aprile 2008 un’esplosione in piazza Mazzini a Lecce. Una bomba-carta
esplosa sul marciapiedi, a ridosso della vetrine del negozio ‘Tuttinpelle’ che per
fortuna non ha fatto danni che ha però seminato il panico nel cuore della città che
brulicava di centinaia di persone.
Gli agenti hanno effettuato un sopralluogo e raccolto alcune testimonianze. Una
prima ipotesi, fin dall’inizio non suffragata da prove, che forse nel mirino fosse un
negozio di abbigliamento.
*
Bruciate le auto dei familiari del principale indiziato per le minacce al sindaco,
al vice e ad un assessore di Gagliano del Capo. Verso le due e mezzo del 2 maggio
2008 sono state incendiate la Hunday Atos, la Ford Ka e la Fiat Uno della moglie, del
148
fratello e del padre di Antonio Pizzolante, gestore di un bar del centro. Le macchine
erano parcheggiate davanti alla sua casa e che ad innescare le fiamme sia stato un
incendio doloso e non un corto circuito ne sono convinti i carabinieri della locale
stazione e del Nucleo operativo radiomobile di Tricase intervenuti insieme ai vigili
del fuoco.
Prendendo quindi per buona l’ipotesi dell’incendio doloso, chi avrebbe voluto colpire
Antonio Pizzolante? E soprattutto perché? Centra qualcosa la circostanza che il suo
nome sia finito nel registro degli indagati per minaccia, violenza privata,
diffamazione e molestie per le lettere minatorie e le scritte sui muri contro il sindaco
Antonio Buccarello, il vice Antonio Ercolani e l’Assessore Achille Romano?
L’ipotesi è stata presa in considerazione dai carabinieri non fosse altro perché da
quando sono emersi i sospetti sulle minacce agli amministratori Pizzolante non
sarebbe più ben visto in paese. A confermarlo sarebbe anche un volantino circolato
nei giorni scorsi contenente una serie di accuse ed anche qualche litigio davanti al
bar.
In realtà l’uomo è solo sospettato ed al momento non c’è alcuna certezza che sia stato
lui ad inviare le lettere di minaccia o a minacciare gli amministratori con scritte sui
muri. L’inchiesta è ferma ai sequestri del 13 marzo 2008 quando i carabinieri
acquisirono 64 copie di esposti anonimi, tre quaderni con i fogli come quelli
impiegati per inviare le minacce, sei francobolli e 24 buste uguali a quelle ricevute
dal sindaco. Con il ricorso al Tribunale del Riesame sono state dissequestrate le copie
degli esposti perché non ritenuti pertinenti all’inchiesta.
Intanto qualcuno (che nulla avrebbe a che fare con gli amministratori) potrebbe aver
pensato di non attendere i tempi della giustizia e di fare giustizia da solo. (14)
*
E’ stato valutato come un fatto serio e preoccupante dagli investigatori del
Nucleo operativo radiomobile della Compagnia di Gallipoli intervenuti la notte tra il
3 e il 4 maggio 2008 nella cittadina jonica dopo l’allarme creatosi fuori dal
parcheggio della discoteca ‘Premier’ per l’incendio di una Porsche Carrera e di una
Mercedes 220 station wagon. La tanica di benzina, trovata a pochi metri, è stata
versata sul cofano motore posteriore della Porsche di Piero De Lorenzis di Racale,
che nel suo paese gestisce una rivendita di auto di lusso usate e fa parte della famiglia
di costruttori e commercianti di videogiochi, di concessionari di una sala Bingo
nonché di una nota marca di caffè. Le fiamme si sono propagate sulla Mercedes di un
suo amico di Specchia con il quale stava trascorrendo la serata al ‘Premier’.
La constatazione che la Porsche appartenesse a Piero De Lorenzis ha fatto sì che
dell’attentato fosse informata la Direzione distrettuale antimafia di Lecce non fosse
altro perché l’imprenditore, fra i vari precedenti di polizia, conta anche l’arresto per
associazione finalizzata al traffico di droga che poi lo ha visto assolto nel processo di
primo grado; le dichiarazione del collaboratore di giustizia Filippo Cerfeda avevano
accusato lui, il fratello Salvatore ed il barese di Melissano Felice Di Schiena, di aver
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fornito nel 2001 il suo gruppo di 15 chili di cocaina trasportati in cilindri metallici da
un chilo ciascuno. L’ultima fornitura, disse Filippo Cerfeda, avvenne a pochi giorni
dell’arresto, nell’operazione ‘Arpia’, del fratello Simone.
Piero De Lorenzis, come detto, fu assolto in primo grado mentre il fratello Salvatore
fu condannato a nove anni e quattro mesi. Per il primo pende processo in appello
dopo il ricorso del pm, per l’altro la condanna in secondo grado è stata ridotta ad otto
anni ed a giugno 2008 se ne occuperà la Cassazione.
Chiuso quel capitolo finirono i guai con la giustizia dei fratelli De Lorenzis. Ma non
tutti i guai: nell’estate del 2003 furono devastati i locali che impiegavano i loro
videogiochi e fu bruciato anche un ristorante di Gallipoli ritenuto di loro proprietà dal
gruppo criminale che urlò vendetta dopo l’ondata di arresti delle operazioni ‘Pit’.
Ma questo è il passato che sta chiudendo definitivamente i conti con i processi, la
novità è l’incendio del 4 maggio scorso. Ma chi può aver voluto lanciare un
messaggio minaccioso ad uno dei fratelli De Lorenzis. E soprattutto per quale
motivo? Le risposte le stanno cercando i carabinieri del Norm valutando anche tutte
le possibili influenze criminali che oggi possono interessare Gallipoli. Un fatto è
certo: l’autore ha voluto far capire che non si è trattato di un corto circuito ma di un
incendio voluto. (14)
*
Arrestati il 7 maggio 2008 due presunti componenti della banda specializzata nei
furti di escavatori e di altri mezzi per la movimentazione della terra (in qualche caso a
fine estorsivo). Nella mattinata i poliziotti delle Volanti hanno fermato sulla San
Cataldo-Lecce un trattore con al traino una gru su un carrello e preceduta da una Fiat
Bravo. La gru era stata rubata a San Cataldo il 21 gennaio 2008, uno degli ultimi furti
dell’ondata di fine estate che aveva creato tanto allarme fra gli imprenditori da vedere
la discesa in campo dell’Associazione degli industriali e del Comitato provinciale per
l’ordine e la sicurezza. Inoltre, nel corso delle perquisizioni nelle abitazioni e nei
luoghi frequentati dai due fermati è stato trovata un escavatore rubato a Nociglia ad
agosto del 1999.
In manette sono finiti Bruno Vitale, di Lecce e Mario Bursomanno, di Arnesano. Per
entrambi l’accusa di ricettazione in concorso che per la gran parte delle volte si
definisce con una denuncia ma il comportamento tenuto dagli indagati ed i sospetti si
sono fatti strada man mano nel corso degli accertamenti hanno indotto il pm di turno
a dare parere favorevole agli arresti. Cosa non secondaria sebbene casuale, il
magistrato di turno è il titolare dell’inchiesta sulla raffica di furti che ha colpito
soprattutto le aziende edili fra Lecce e Maglie.
Ad aggravare la posizione di Vitale e Bursomanno è stato innanzitutto il tentativo di
prendere una strada di campagna per lasciare la San Cataldo-Lecce appena sono
comparse le pattuglie delle Volanti. Le auto della polizia sono arrivate sulla via del
mare dopo la telefonata giunta al 113 della centrale operativa della Questura che ha
150
segnalato l’anomalia di un trattore che trasportava una gru e di un’auto che faceva
strada. Appena fermati i due presunti ladri hanno sostenuto che stavano portando la
gru ad una azienda di San Cesario che l’avrebbe acquistata per diecimila euro come
ferro vecchio. Ma una volta che gli è stato fatto notare che il mezzo non era certo da
buttare, avrebbero risposto che non doveva essere più fatto a pezzi ma consegnato in
un piazzale.
L’escavatore è stato trovato invece nella masseria Manzi dei Vitale di Surbo, parenti
dell’arrestato, e che il Vitale l’avrebbe usata come deposito.
Il sequestro dei telefonini e di altra documentazione servirà a capire se i due indagati
siano legati all’organizzazione specializzata nei furti dei mezzi di lavoro e nell’usarli
come cavallo di ritorno o nel farli sparire nei Paesi dell’Est. (14)
*
Le fiamme appiccate nella notte tra il 7 e l’8 maggio 2008 hanno distrutto lo
stabilimento balneare “Puntarenas” in località Torre Specchia lungo la costa
vernolese. In pochi minuti è andato distrutto il lavoro di anni servito a trasformare
uno stretto lembo di sabbia e scogli in un locale alla moda frequentato da turisti e
salentini di ogni età. Il 20 novembre 2007 un altro terribile rogo aveva colpito gli
stessi gestori, la famiglia Verri di Vernole, mandando in fumo il deposito di
attrezzature ad Acquarica: 150mila euro di danni. Ignoti i responsabili che hanno
distrutto la struttura, realizzata soprattutto in legno, utilizzando delle bottiglie piene di
benzina che sono state rinvenute vuote dai carabinieri di Lecce e dai Vigili del fuoco.
Insieme a queste un mozzicone di sigaretta. Il rinvenimento di questi oggetti non
potrà aiutare le indagini perché è stato impossibile trovare delle impronte digitali
sulla superficie sciolta a causa delle fiamme e del forte calore. Fra le piste da seguire
c’è anche o soprattuto quella del racket.
Un primo allarme è scattato alle 23 circa del 7 maggio: una guardia del servizio di
vigilanza è accorsa immediatamente sul posto a controllare, ma non ha notato nulla di
sospetto. Dopo qualche ora, il secondo allarme: questa volta non c’era più nulla da
fare. Le fiamme avevano già divorato parte del locale riducendo in cenere la pedana
in legno, il banco, le travi. Rapido l’intervento dei carabinieri di Lecce, di Vernole e
dei Vigili del fuoco, che hanno tentato invano per ore di fermare le fiamme. La
struttura ha continuato a bruciare per diverso tempo sotto gli occhi attoniti dei
proprietari. I danni sono enormi ma ancora non sono stati quantificati. L’intera area è
stata sottoposta sotto sequestro.
Le indagini saranno condotte dai carabinieri della Stazione di Lecce e dal Norm. Gli
inquirenti stanno valutando attentamente ogni elemento. Gli autori potrebbero essere
gli stessi dell’incendio al deposito, attrezzi e fra le piste naturalmente non è da
escludere, anzi, quella del racket. (14)
*
151
Tre pullman ed un furgone quasi completamente distrutti dalle fiamme
dell’incendio scoppiato la sera del 10 maggio 2008 nella sede di via Adriatica
dell’azienda privata di trasporti “Coltellacci”. Confermata l’ipotesi dell’incendio
doloso: sono stati trovati stracci imbevuti di benzina ed un foro dal muro dell’ex
depositato dell’Automat. Si tratta del secondo attentato nel giro di pochi mesi: la sera
del 19 dicembre 2007 ci fu un altro incendio rimasto a livello di tentativo sì, ma per il
quale morì di infarto il titolare dell’azienda. Teobaldo Coltellacci di Lecce, originario
di Martano subì un arresto cardiocircolatorio alla vista di una gomma di uno dei suoi
pullman che andava in fiamme.
I pullman danneggiati la sera del 10 maggio sono stati tre, ed anche un furgone Fiat
Daily.
Il sospetto che qualcuno avesse scavalcato la recinzione ed avesse appiccato le
fiamme ha fatto arrivare anche i carabinieri del nucleo operativo radiomobile della
Compagnia di Lecce ed i poliziotti delle Volanti. Carbonazzati anche due pullman
leggermente danneggiati l’altra volta: stavolta hanno completato l’opera. Con
accanimento. (14)
*
Appena tre giorni dopo l’incendio doloso all’Ufficio Urbanistica e Ambiente del
Comune di Nardò, nella notte del 13 maggio 2008 di nuovo mani ignote hanno
appiccato il fuoco. E questa volta è stato incendiato lo studio di un giovane avvocato
neritino. I piromani hanno preso di mira lo studio situato nel centro storico, in corso
Garibaldi. Dopo aver forzato la tapparella posta a protezione di una finestra ed aver
rotto il vetro, senza entrare nello studio hanno gettato all’interno del liquido
infiammabile (benzina o kerosene) dando poi fuoco. Le fiamme, che si sono
propagate molto lentamente per tuta la notte a causa degli ambienti chiusi, hanno
bruciato alcune pratiche poste sulla scrivania dell’avvocato e danneggiato in maniera
irreparabile un computer. Mentre fumo e fuliggine hanno annerito tute le stanze dello
studio.
Il fortissimo odore di bruciato ha allarmato molti vicini che hanno avvertito
l’avvocato che, solo intorno a mezzogiorno, ha scoperto che il proprio studio era stato
incendiato.
Sono intervenuti i vigili urbani e gli agenti del locale Commissariato di Ps raggiunti
successivamente dai colleghi della Scientifica.
Gli agenti del Commissariato stanno indagando sulla vicenda in maniera serrata e
starebbero visionando le riprese delle telecamere di sorveglianza delle vicine. Poste
alla ricerca di qualche indizio. Secondo alcune indiscrezioni lo studio legale già la
notte precedente avrebbe subito un tentativo di scasso andato a vuto.
Quello del 13 maggio è il secondo atto incendiario in pochi giorni ed il terzo in un
mese. Prima l’incendio ad un salone da parrucchiere in via Volta, poi il fuoco, come
abbiamo accennato, agli uffici dell’Urbanistica ed infine lo studio legale. Un
152
escalation di criminalità che sembra riportare Nardò indietro nel tempo quando, a
metà degli anni ’90, a cadenza quasi settimanale si registravano atti delittuosi
perpretati soprattutto contro esercizi commerciali. Allora i delinquenti usavano
piazzare esplosivo davanti alle serrande dei negozi, oggi danno fuoco con alcool,
benzina o kerosene a uffici pubblici e studi professionali. Il clima di preoccupazione
e di tensione si comincia ad avvertire tra la gente che chiede più sicurezza.
Un altro episodio inquietante, infine, si sarebe registrato, sempre nella stessa via del
centro storico: una mano ignota avrebbe tracciato strani segni e scritte con della
vernice spray sui muri dell’abitazione di un altro noto professionista. (14)
*
Ma vi sono anche le false vittime del racket delle estorsioni. Come
quell’imprenditore agricolo di Copertino che a maggio del 2006 denunciò il furto ed
il danneggiamento dei mezzi di lavoro seguiti da telefonate minacciose ed il 13
maggio 2008 è stato condannato per simulazione di reato e tentata truffa aggravata ai
danni dello Stato. A tradirlo i tabulati telefonici. Si sarebbe inventato tutto per
accedere al fondo di solidarietà destinato alle vittime del racket delle estorsioni.
Presentò una istanza per ottenere circa 20mila euro ma intanto sia i carabinieri della
Stazione di Galatina che l’istruttoria avviata, come di consueto, in Prefettura
dimostrarono che di minacce l’imprenditore non ne avrebbe mai ricevute e quanto ai
furti le indagini non sono riuscite a dimostrare quanto venne dichiarato nella
denuncia.
Il 13 maggio, dunque, il processo a carico del copertinese che sebbene abbia scelto la
formula del patteggiamento non ha mai ammesso di aver simulato alcunché. La pena
concordata: un anno e quattro mesi di reclusione, pena sospesa.
L’indagine fu avviata con la denuncia presentata ai carabinieri della Stazione di
Galatina ai quali l’imprenditore riferì del furto di una saldatrice, di un compressore,
di un camion e di altri macchinari, nonché di presunti danneggiamenti subiti dalla sua
azienda. Inoltre nella denuncia raccontò di aver ricevuto alcune telefonate di minacce
durante la notte, specificando i giorni precisi e gli orari approssimativi. Per risalire
agli estorsori furono acquisiti i tabulati telefonici, sarebbero serviti agli investigatori a
risalire all’utenza da cui sarebbe stato contattato l’imprenditore. Ma delle telefonate
non fu trovata traccia, non c’era traccia di miacce, di richieste di denaro e nemeno di
riferimento ai furti.
Di tanto fu informata la Prefettura che per questo bloccò la pratica con la quale si
richiedeva il riconoscimento di status di vittima del racket delle estorsioni ed un
riconoscimento parziale del danno subito. Ma da questa vicenda l’imprenditore n’è
uscito con l’accusa di essersi inventato tutto al solo scopo di intascare i fondi
antiracket. (14)
*
153
Due auto incendiate a Taviano (Lecce) nel giro di 24 ore e cresce l’allarme in
città. Il primo episodio è avvenuto intorno alle due della notte tra il 30 e il 31 maggio
2008. La vittima è un imbianchino del luogo che aveva parcheggiato la propria auto,
una Bmw 320, all’esterno della propria abitazione. I soliti ignoti hanno cosparso del
liquido infiammabile sulla vettura ed hanno appiccato il fuoco, danneggiandola
seriamente.
Il secondo episodio si è invece verificato la mattina del primo giugno 2008, verso le
cinque. Nel mirino dei malviventi è finita una casalinga. Ad essere distrutta è stata
stavolta una Fiat Punto. Anche in questo caso, l’incendio sarebbe di origine dolosa.
Su entrambi i misteriodi atentati indagano i carabinieri della Stazione di Taviano, no
trascurando – assicurano – nessuna pista compresa quella della richiesta estorsiva. (14)
Il giudice dell’udienza preliminare nel processo cion rito abbreviato del 5 giugno
2008 ha condannato l’imprenditore di Gallipoli Salvatore Capoti a sei anni di
reclusione per estorsione aggravata dalle modalità mafiose.
Il processo ha riguardato le accuse che il 13 febbraio 2007 costarono l’arresto
all’imprenditore (ed in seguito il sequestro del suo patrimonio ad opera dei poliziotti
dell’ufficio misure personali e reali della Questura) per le minacce che avrebbe
rivolto ai titolari di due imprese di movimentazione della terra: non avrebbero dovuto
più mettere piede a Gallipoli perché Gallipoli sarebbe stato territorio suo e di nessun
altro. Tra l’altro nella penultima udienza, una delle vittime ha rischiato di finire sotto
processo per reticenza: con una serie di non ricordo e non so, non ha confermato i
fatti che diedero il via alle indagini dei carabinieri del Nucleo operativo radiomobile
della Compagnia di Gallipoli, coordinati dal pm della Dda di Lecce.
I fatti contestati sono due: il primo riguarda la costruzione di Palazzo Coppola e
l’altro la ristrutturazione e l’occupazione di un capannone sulla Gallipoli-Taviano.
Per Palazzo Coppola l’accusa parla di minacce di Capoti ad un imprenditore del
Basso Salento, se non fosse andato via gli avrebbe fatto saltare il cantiere. Salvo poi
trovare l’accordo: la consegna di tutto il materiale di scavo, del carparo tufaceo. Per il
capannone, invece, Capoti avrebbe impedito la trasformazione in un centro
commerciale perché lo impiegò come sede della sua azienda. Siccome l’imprenditore
avrebbe fatto riferimento ad amicie negli ambienti criminali e siccome ha avuto già
una condanna per mafia, gli è stata contestata l’aggravante mafiosa. (14)
*
Un attentato dinamitardo come tanti a danno di un esercizio commerciale, ma il
primo in assoluto a danno di un’attività gestita da cinesi.
E’ successo la notte tra il 16 e il 17 giugno 2008 a Lecce dove una potente bomba
carta è stata fatta esplodere davanti alla saracinesca di un emporio di abiti e accessori
made in China. La forte deflagrazione ha divelto la base della serranda mandando in
frantumi la vetrina interna e deformando gli infissi. La polvere da sparo ha
danneggiato anche alcuni vestiti che erano appesi all’ingresso del locale. I danni,
154
comunque ingenti, non sono stati ancora quantificati. Il negozio preso di mira è
situato in via Leuca in un quartiere alla periferia della città dove la famiglia di
emigranti aveva allestito un esercizio commerciale per la vendita di prodotti a buon
mercato tutti di manifattura cinese. Le indagini sono condotte dalla Squadra Mobile
di Lecce che avrebbe già individuato una possibile pista su cui investigare.
La Polizia, che ha raccolto le dichiarazioni dell’imprenditore cinese, vittima dell’atto
criminoso, mantiene il doveroso riserbo sull’inchiesta. Anche se precisa che è da
escludere <<una lotta tra cinesi>> come possibile movente dell’attentato. Rimane
quindi l’ipotesi che possa essersi trattato di un avvertimento di natura estorsiva. Se
tale eventualità sarà confermata, il 17 giugno sarà ricordato come il primo giorno in
cui un esercizio commerciale cinese è stato preso di mira dal racket delle estorsioni.
La crescita eonomica della comunità orientale non solo preoccupa la concorrenza
locale, ma fa gola anche alla criminalità organizzata. Una presenza, la loro, mal
sopportata dall’imprenditoria del posto che si vede defraudata di fette di mercato
sempre più ampie grazie ai prezzi assolutamente concorrenziali che solo le
produzioni cinesi riescono ad ottenere. Tornando alle indagini, secondo la Polizia la
tecnica e il tipo di esplosivo utilizzato (<<forse polvere nera compressa>>) è tipico di
chi vuole lanciare avvertimenti alle vittime che non si piegano alla richiesta estorsiva.
(14)
*
Da circa 4 giorni chiamava incessantemente la sua vittima, una casalinga di
Castrignano dei Greci, per chiederle una somma in contanti di circa 190 euro che, a
detta del malvivente, risaliva ad un vecchio debito contratto dal marito della donna,
Andrea Franchina, arrestato pochi giorni prima dai carabinieri della Compagnia di
Maglie per una rapina. Per questo tentativo di estorsione è finito anche lui in manette,
Alessandro Conte di Otranto ma domiciliato a Lecce. Personaggio già conosciuto
dalle forze dell’ordine.
Ai fini della risoluzione delle indagini decisivo l’operato di un carabiniere donna che,
sostituendosi alla vittima, ha collaborato con i carabinieri di Martano per consegnare
il malvivente alla giustizia.
L’arresto, avvenuto il 18 giugno 2008, giunge al termine di una serie di indagini
iniziata pochi giorni prima quando Conte ha avanzato per telefono le prime richieste
di denaro, minacciando di morte la vittima e aggiungendo che se non gli avesse
consegnato la cifra richiesta entro pochi giorni, avrebbe appiccato un incendioo
nell’abitazione della casalinga. La donna si è rivolta ai carabinieri di Martano,
spiegando l’accaduto.
Così sotto la copertura delle forze dell’ordine, la signora Franchina ha poi finito con
l’accettare l’appuntamento con l’uomo, che non aveva mai incontrato di persona, nel
luogo stabilito da Conte: il parcheggio di Lecce situato a pochi metri di distanza dalla
caserma dei Vigili del fuoco. Dato che il Conte non conosceva la vittima, all’incontro
si è presentata la donna carabiniere, mentre i suoi colleghi, appartati all’interno della
155
caserma dei Vigili del fuoco, osservavano costantemente l’evoluzione dei fati. Allo
scambio del deenaro, l’uomo è stato bloccato ed arrestato. (14)
*
Sei colpi di pistola, nella notte tra il 23 e il 24 giugno 2008, esplosi da un’auto in
corsa: E’ accaduto a Leverano, vittima dell’attentato un imprenditore del posto,
Marco Frassanito, titolare con i fratelli di un’azienda loro vivaistica, la ‘Vivai
Frassanito’, sulla via per Porto Cesareo. Difficile al momento stabilire il movente.
Alle 23,30 del 23 giugno una utilitaria, a quanto pare una Fiat Punto di colore grigio è
passata a tutta velocità da via Veglie, ha rallentato la marcia all’altezza
dell’abitazione di Frassanito, una casa ad angolo a due piani. In quel momento
l’imprenditore era fuori, in casa c’era la moglie. I colpi si sono sentiti all’improvviso,
sordi, forti. La Punto, come avrebbero raccontato agli inquirenti alcuni testimoni, con
a bordo due uomini non meglio identificati, ha decelerato e dal finestrino sono partiti
sei colpi in sequenza tutti indirizzati al portone al piano inferiore della casa. Hanno
frantumato i vetri. Un proiettile inoltre è passato oltre gli infissi andando ad
infrangere il vetro dell’auto della padrona di casa, una Seat Arosa, parcheggiata nel
garage.
Il tutto è accaduto in una manciata di secondi, la Punto grigia è infatti schizzata via a
tutto gas e se ne sono perse le tracce, non si sa se qualcuno abbia preso in tutto o
almeno in parte il numero di targa dell’auto.
Sul posto i carabinieri della locale stazione hanno ascoltato numerosi testimoni e
soprattutto Marco Frassanito e la moglie. Nella ridda di ipotesi al momento formulate
dagli investigatori due le piste più battute, quella che condurrebbe all’avviata attività
della vittima come anche quella che porterebe ad inimicizie personali.
Nulla per ora è da escludere, la vittima ha dichiarato di non aver ricevuto minacce.
Quello che si può di dire è che l’attentato è stato di sicuro un avvertimento. (14)
*
Ha tutto il sapore di un’operazione a fini estorsivi, l’attentato subito la notte tra
il 23 e 24 giugno 2008 a Racale da un’autotrasportatore. L’uomo è proprietario di un
capannone in Contrada Martini alla periferia della città dove custodisce il materiale e
i mezzi occorrenti all’azienda. Qualcuno però ha scavalcato il recinto e si è introdotto
nell’area antistante il deposito. Ha forzato il portone d’ingresso e, una volta dentro lo
stabile, ha dato fuoco ad un montacarichi utilizzando del liquido infiammabile.
Alcuni residenti della zona hanno dato l’allarme. Sul posto sono intervenuti i militari
della locale Stazione dei carabinieri e i vigili del fuoco di Gallipoli.
Distrutto il montacarichi, sono rimaste annerite anche le pareti interne della struttura.
I danni ammonterebbero a circa 30mila euro, di cui 20mila relativi al valore del
mezzo meccanico. L’imprenditore avrebbe riferito di non aver ricevuto minacce negli
ultimi tempi. (14)
156
Usura e truffe
A processo, il legale rappresentante di una finanziaria con l’accusa di aver prestato
denaro con interessi usurai ad un imprenditore. Il 22 giugno 2008 il gup del Tribunale
di Lecce, ha rinviato a giudizio Franco Peschiulli, di Taviano: se la restituzione del
denaro dato in prestito fra il 1999 e il 2000 ad Attilio Serravezza, di Parabita,
amministratore unico, all’epoca dei fatti, dell’azienda di trattamento e distribuzione
di metalli ‘Cemis’ di Specchia Preite, sia avvenuta con tassi superiori a quelli previsti
dalla legge, lo stabiliranno i giudici della seconda sezione penale a cominciare
dall’udienza del 10 ottobre 2008.
L’imputato deve rispondere delle accuse emerse nel corso delle indagini condotte dai
finanzieri della Compagnia di Gallipoli che si sono avvalsi anche di una consulenza
tecnica e dell’interrogatorio della vittima. Due gli episodi contestati: i 41 milioni e
450mila lire presi in prestito dall’imprenditore a settembre del 1999 dall’”Istituto
finanziaria agricola” di Taviano e per la cui restituzione Peschiulli avrebbe applicato
interessi del 182,81 per cento all’anno. L’altro episodio si riferisce al prestito di
giugno del 2000: 18milioni 143mila lire che Serravezza avrebbe dovuto dare indietro
con il 31,82 per cento di interesse. (34)
*
Un finanziere in servizio a L’Aquila e un imprenditore arrestati per una truffa
da quasi 100mila euro con i fondi erogati da Sviluppo Italia. Per l’accusa, avrebbero
acquistato con fatture false l’attrezzatura per una palestra. In realtà i macchinari
sarebbero stati pagati solo in una piccola parte. Il 30 giugno 2008 sono stati messi ai
domiciliari, con un termine di 30 giorni, il militare delle Fiamme gialle Alessandro
Perrone e Massimiliano Rella, entrambi leccesi. Il gip del Tribunale di Lecce ha
motivato la necessità di applicare la custodia cautelare con il pericolo di
inquinamento delle prove. Un pericolo concreto: il rappresentante di attrezzature
sportive che con la denuncia diede il via alle indagini, il 4 aprile del 2008 venne
picchiato a sangue sotto casa da un uomo armato di bastone che poi lo costrinse a
leggere ed a rileggere più volte una frase scritta su un foglio e che diceva che sarebbe
dovuto andare dalla Guardia di finanza a riferirire che tutto quello che aveva
denunciato era falso e che la truffa l’aveva fatta lui con l’amministratore della società
dalla quale era stata acquistata l’attrezzatura, la ‘Top Fitness’ di Moglia (in provincia
di Mantova).
Tanto perché il rappresentante aveva intuito la truffa: per ottenere un contributo a
fondo perduto di poco meno di 38mila euro ed un prestito di quasi 84mila 700 euro
da restituire in sette anni con un tasso dell’1,22 per cento annuo, la società
‘Performance sas’ di Rella (amministratore) e di Perrone (socio di fatto) avrebbe
consegnato a Sviluppo Italia una fattura falsa di 106mila 746 euro. Falsa perché
risulta emessa dalla ‘Top Fitness’ quando poi sia i riscontri sui documenti come gli
interrogatori delle persone che hanno lavorato per quella società hanno dimostrato
innanzitutto che non ci sarebbero stati rapporti commerciali con la ‘Performance
157
sas’. Poi, che la fattura allegata è stata sì erogata, ma non dall’azienda leccese. Infine
che la vendita non è stata effettuata, come dichiarato, dal rappresentante di
attrezzature sportive – che è di Poggiardo – perché aveva già smesso di lavorare per
l’azienda del Mantovano.
Dal punto di vista documentale si tratta di una vicenda complessa perché macchinari
della Top Fitness per circa 70mila euro arrivarono nel 2003 a Lecce, ma
all’associazione sportiva ‘Performance Club Us Acli’ con sede in via Buccarelli
gestita anche da Perrone e da Rella. Ma non sarebbero stati tutti pagati, tanto che
l’allora presidente del sodalizio e il rivenditore hanno intentato delle cause civili: il
primo perché le sue cambiali intanto sono andate protestate e l’altro per recuperare
48mila euro.
E’ emerso dell’altro con le indagini condotte dal pm con i finanzieri della sezione di
polizia giudiziaria distaccata in Tribunale: la ‘Performance’ non ha versato la prima
rata del mutuo scaduta alla fine di marzo e nemmeno gli interessi di
preammortamento. Inoltre non è stato possibile stabilire che fine abbiano fatto i
macchinari dopo che la palestra è stata sfrattata dalla sede di via Moricino, al 6,
perché non sono stati pagati i canoni d’affitto. (34)
*
Truffa aggravata ai danni dello Stato con i finanziamenti della 488, condannata
coppia di imprenditori. Il 30 giugno 2008 i giudici della seconda sezione penale del
Tribunale di Lecce hanno inferto quattro anni e mezzo di reclusione a Massimo
Danese, di Matino, ex amministratore del calzaturificio di Ruffano ‘Star Project’. Un
anno di reclusione (pena sospesa) per la moglie Maria De Felice, di Matino anche lei
si alternò con il marito alla guida dell’azienda.
Il processo è frutto dell’inchiesta condotta dai finanzieri della Compagnia di Gallipoli
con il pm sulla domanda di finanziamento della ‘Star Project’ per l’acquisto di nuovi
macchinari nonché per la ristrutturazione e l’ammodernamento dell’azienda.
Il furto e la vendetta
Aggrediti e umiliati dal boss, libero per decorrenza termini. Picchiati per ben due
volte per lasciare segni in viso ben visibili a tutti. Una mascella ed un braccio
fratturati per aver rubato lo stereo dall’auto del figlio della ‘tabaccara’, di una
conoscente del boss che gestisce il bar ‘Lecce club’ di Presicce. E per giunta i ladri
dovettero pagare 700 euro a titolo di risarcimento dell’affronto, 200 dei quali furono
trattenuti dal boss a titolo (simbolico) di mancia. E furono costretti a far aggiustare lo
sportello che avevano forzato per mettere le mani sull’autoradio. E visto che c’erano,
nel conto si aggiunse anche il rifacimento della fiancata rimasta danneggiata in un
vecchio incidente. Con tante scuse per l’errore madornale e la promessa che una
prossima volta sarebbero stati un po’ più accorti alle conoscenze del proprietario
delle macchine da scassinare.
158
Vittime due ragazzi di 21 e 23 anni, di Presicce, ai quali non passò nemmeno per un
attimo per la mente di andare a farsi medicare in ospedale o di rivolgersi alla forze
dell’ordine. “Se denunciano non escono più di casa”, fu uno dei commenti captati
dagli investigatori. Troppo il timore che Lucio Cera, originario di Taurisano e
domiciliato a Presicce, potesse fargliela pagare ancora più cara. Cera è stato arrestato
il 26 maggio 2008 dai carabinieri del Nucleo investigativo, insieme a Stella
Tamborrini, di Presicce, con l’accusa di concorso in estorsione aggravata dalle
modalità mafiose. Stessa contestazione al marito Antonio Morciano, per il quale
pendeva la richiesta di arresto del pm della Dda ma che non era stata accolta dal gip,
poi firmatario dell’ordinanza di custodia cautelare. Sette in tutti gli indagati, fra
questi anche i due ladri di autoradio che rispondono di furto ed altri due giovani di
Presicce accusati di spaccio di droga. E di questa ipotesi di reato rispondono anche i
due coniugi gestori del bar.
Il nome della Tamborrini è venuto fuori dalle intercettazioni telefoniche delle
indagini sulle due bombe fatte esplodere in altrettanti cantieri edili di Presicce il 22 e
il 28 agosto del 2005. Fra i sospettati vi era anche Cera (ma i sospetti non hanno
trovato riscontri) tornato libero ad agosto del 2007 quando un difetto di notifica causò
la scadenza dei termini di custodia cautelare per i cinque arrestati con l’accusa di aver
fatto parte della banda guidata da Corrado Cucurachi che mise sotto estorsione i De
Lorenzis incendiando il ristorante ‘La Perla dello jonio’ di Gallipoli e dannegiando
bar e sale gioco fornite con i loro videogiochi. Conosciuto anche come boss per i
trascorsi di affiliato al clan di Scarlino ‘Pippi calamita’, sarebe stato contattato dalla
Tamborrini il 10 setembre 2007 per chiedergli di risolverle un problema: era stata
rubata l’autoradio della Lancia Y del figlio, studente universitario. E Cera, grazie alle
voci raccolte in un altro bar da una persona che aveva ricevuto l’incarico di portargli
notizie, rintracciò i due ladri e li picchiò in modo talmente brutale da muovere a
compassione persino la mandante. Il boss risolse tutto in poche ore, un paio di
setimane dopo du arrestato nell’operazione ‘Rinascita’ contro il clan mafioso dei
Tornese di Monteroni.
Dopo questo bltz la Tamborrini avrebbe prestato assistenza alla famiglia di Cera ed i
frequentatori del suo bar sarebbero stati contattati tramite lei dalla moglie di Cera per
procurare i soldi da portare in carcere. E la donna si sarebbe rivolta al boss anche
quando nei primi giorni di ottobre tre uomini si presentarono al suo bar per chiedere
di scontare tre cambiali perché ‘dovevano pagare l’avvocato’. Cera promise che
avrebbe risolto il problema anche perché lo scopo di quel modo di dire altro non
avrebe mascherato se non un tentativo di estorsione. (14)
Sia Cera che la Tamborrini sono stati interrogati il 28 maggio in carcere. Lucio Cera
ha negato di ver fatto ricorso al suo spessore criminale di appartenente alla Scu per
risolvere un problema che avrebbe appreso una mattina dell’agosto 2005 nel bar della
Tabaccara: si sarebbe poi limitato a restituirle l’autoradio senza estorcere denaro e
senza picchiarli selvaggiamente.
159
Come abiamo già scritto i fatti che sono costati l’arresto a Cera e alla Tamborrini
sono frutto delle intercettazioni telefoniche acquisite dall’inchiesta dei carabinieri
della Compagnia di Tricase. (14)
La droga e le armi
Arrestati i venditori di morte. In 34 sono finiti in carcere con l’accusa di aver venduto
eroina. Anche quell’eroina che causò tre decessi per overdose in quattro mesi tra la
fine del 2006 e gli inizi del 2007.
L’indagine, culminata con la retata del 9 aprile 2008, fu avviata per risalire al
venditore della droga che il 22 gennaio 2007 ammazzò a Sternatia Renè De Pascalis.
Su questa overdose il pubblico ministero aprì un fascicolo contro ignoti per l’ipotesi
“morte come conseguenza di altro reato” dove, per altro reato, si intende la
detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Il punto di partenza per risalire
all’organizzazione finita il 9 aprile in manette con l’accusa di essersi fornita di eroina,
di averla nascosta e di averla venduta al dettaglio, è stata la rubrica del telefono
cellulare di De Pascalis. Numeri di telefono che tanta importanza hanno rivestito in
questa indagine. Tra i tanti anche quelli di due presunti spacciatori. Anche il
diminutivo di Ornella Baldi, ‘Lella’, 37 anni, di Otranto. Le indagini svolte dai
carabinieri del Nucleo operativo radiomobile (Norm) della Compagnia di Maglie
hanno incluso pure Giuseppe Strummiello, 39 anni, di Palmariggi, fra i probabili
fornitori di De Pascalis.
Ma se per un verso è stato possibile dimostrare chi abbia venduto la dose mortale,
dall’altro quei nomi e i loro numeri di cellulare hanno reso possibile individuare la
rete di trafficanti e spacciatori che avrebbero esaudito le richieste dei consumatori di
eroina dei paesi a sud di Maglie come Scorrano, Palmariggi, Minervino di Lecce,
Uggiano La Chiesa, Casamassella, Giurdignano, Nociglia, San Cassiano, Botrugno,
Poggiardo, Surano, Muro Leccese, Otranto, Diso ed Ortelle ma anche Miggiano,
Ruffano, Supersano, Casarano e Matino.
*
“Hide and seek” il nome dell’operazione del Norm di Maglie che altro non è che
la traduzione inglese del gioco del nascondino, perché lo zoccolo duro
dell’organizzazione nascondeva l’eroina nei muretti a secco nelle campagne tra
Giuridignano e Palmariggi, in contrada Ciuddhi. I carabinieri hanno recuperato: tre
involucri da 512 grammi, 105 grammi e 66 grammi nelle prime ore del 22 aprile
2007. Abbastanza da convincere il magistrato di trovarsi al cospetto di un gruppo ben
organizzato.
Il gruppo è finito in carcere con l’ordinanza di custodia cautelare a firma del giudice
delle indagini preliminari che lo accusa di associazione finalizzata al traffico di
sostanze stupefacenti e detenzione ai fini di spaccio aggravata dal concorso e dalla
continuazione. In altre parole vuole dire che ci sarebbe stato un gruppo capace di
160
comprare eroina all’ingrosso per poi distribuirla ai sottogruppi, ognuno dei quali
avrebbe avuto clienti in uno o più paesi.
Dello zoccolo duro avrebbero fatto parte: Giuseppe Strummiello, Andrea Fracasso,
Francesco Amato, Salvatore Annesi, Ornella Baldi, Fabio Costa, Davide De
Giuseppe, Giuseppe De Maglie, Giammarco Errico, Pasquale Fino, Etilvio Greco,
Salvatore Guercio, Antonio Manisco, Graziano Mariano, Emanuela Martella, Luigi
Rizzo, Alfredo Ruggeri, Vito Stasi, Antonietta Trazza e Paolo Vadrucci. Il gruppo
avrebbe fatto riferimento a Strumiello, sorvegliato speciale di pubblica sicurezza, che
per questo avrebbe dovuto condurre una vita morigerata, e personaggio di terza fila
nell’operazione <<Medusa>> ma che ora avrebbe fatto un bel salto di qualità. A
Strumiello e a Fracasso quando lasciò il carcere per prendere il ruolo di grossista. Ai
vertici dell’organizzazione anche Mariano e De Giuseppe come fedeli collaboratori di
Strummiello.
La provenienza dell’eroina non è certa, dall’imballaggio (buste per alimenti e nastro
da imballaggio) sembrerebbe arrivata via mare forse dall’Albania. Ma i servizi di
osservazione e pedinamento dei carabinieri del Norm, nonché i telefoni messi sotto
controllo, hanno accertato anche che Mariano e De Giuseppe avrebbero comprato a
Lecce un chilo di eroina, pochi giorni prima dell’arresto, la sera del 17 aprile. Che il
gruppo perseguisse lo scopo comune di fare affari con la vendita della droga è stato
dimostrato anche dalla consuetudine di costituire una cassa comune, hanno spiegato
nella conferenza stampa il magistrato e gli ufficiali dei carabinieri: Strummiello e
Mariano avrebbero messo da parte 12mila euro, seimila, 15mila e 27mila dopo aver
piazzato 200, 100, 250 e 450 grammi di eroina. Un’altra partita piazzata ad una
decina di spacciatori in giro fra Giuridignano, Palmariggi, Minervino, Uggiano,
Corigliano e Lecce avrebbe consentito guadagni di 250 mila e 50 mila euro.
Eroina tagliata male o troppo pura? Le tre morti per overdose avvenute nel
circondario di Maglie, Sono diventate il punto di partenza, come abbiamo già detto,
dell’indagine ‘Nascondino’ sul gruppo che avrebbe preso le redini dello spaccio di
eroina. Il primo episodio risale al 3 settembre del 2006 quando morì Alessandro
Botrugno, 30 anni, di Muro Leccese: fu ritrovato disteso nella sua Audi A3 lungo la
Melpignano-Cursi con accanto una siringa.
La seconda morte per overdose avvenne di lì a poco: il 19 dicembre del 2006 perse la
vita l’operaio Roberto Frisulli, 44 anni, di Minervino. Lo ritrovò a casa il suo datore
di lavoro, preoccupato dell’assenza. Sulle prime si pensò ad un malore o qualcosa di
peggio perché la porta di casa ed il cancello erano rimasti aperti. Ma le analisi
cliniche stabilirono in seguito che la morte era stata causata dall’assunzione di eroina.
Trascorso poco più di un mese ed arrivò la terza vittima: Renè De Pascalis, di
Sternatia, morì con una siringa nell’addome nella sua Fiat Tipo. L’auto fu ritrovata
vicino ad una masseria tra Sternatia e Galugnano. I carabinieri del Nur della
Compagnia di Maglie sequestrarono quattro siringhe, tre grammi di eroina ed un
grammo di sostanza da taglio. La consulenza stabilì che la droga era un miscuglio
composto da due grammi e mezzo di cocaina ed uno di eroina. E che la cocaina era
161
stata tagliata per oltre il 50 per cento con la Fenacetina, ossia un analgesico ed
antipiretico. L’eroina non era stata trattata meglio: la sostanza pura risultò essere pari
solo al 13 per cento, il resto era caffeina.
E’ convinto il coordinatore della Procura antimafia di Lecce, Cataldo Motta, che il
gruppo di Giuseppe Strummiello e Andrea Fracasso non ha alcuna sudditanza alla
criminalità organizzata ma si sarebbe mosso autonomamente. Ma per una sorta di
riverenza verso il clan Tornese di Monteroni, Strummiello avrebbe dato la
disponibilità a far arrivare della droga in carcere per Pierluigi Manisco, detenuto con
l’operazione ‘Rinascita’ dei carabinieri del Ros. Il tramite per fornirgli le dosi di
eroina sarebbe stato il fratello Antonio, che per questo è stato arrestato nella retata del
9 aprile con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti in
concorso con Strumminiello, Graziano, Mariano e Davide De Giuseppe.
Non se ne fece nulla, nel senso che l’eroina non arrivò a Borgo San Nicola perché le
pattuglie messe in giro dai carabinieri avrebbero impedito che ad Antonio Manisco
venisse consegnata la droga. (23)
*
Dopo tante segnalazioni che denunciavano un continuo via vai di tossici, il 18
aprile 2008 è scattata l’operazione dei Baschi verdi del nucleo di polizia tributaria di
Lecce. Hanno fatto irruzione nelle palazzine di via Archita da Taranto, quartiere
popolare di Monteroni.
La perquisizione ha rivelato un vero e proprio droga-shop allestito tra le mura
domestiche. In due abitazioni è stata scovata una centrale, tutta familiare, dedita allo
spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare eroina e cocaina.
Massimiliano Martena e la cugina Sara Caputo nei rispettivi condomini, al primo e
terzo piano della stessa palazzina, avevano allestito un punto vendita. Aperto a tutte
le ore. Di giorno e di notte.
Per difendersi da eventuali controlli si erano muniti di una potente telecamera,
piazzata sul balcone della casa al terzo piano, nascosta dietro un cassettino di legno e
collegata ad un monitor sistemato nella cucina. (23)
*
Storie di droga: l’operazione <<Medusa>>, a meno di un anno arriva la sentenza
All’alba del 18 luglio 2007 scattò il blitz <<Medusa>>, i carabinieri arrestarono 14
persone accusate di aver organizzato il traffico di eroina grazie alle partite
all’ingrosso fatte arrivare dagli albanesi.
Il 21 aprile 2008, settantatrè anni di carcere sono stati inflitti a nove degli undici
imputati dell’operazione sul traffico di eroina fra il centro e il Sud Salento negli anni
2004 e 2005. Il giudice dell’udienza preliminare ha assolto Fernando Guarini di
162
Castro, mentre non si è pronunciato su Filippo Cassano di Spongano, perché
deceduto.
L’impianto accusatorio emerso dalle indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri
ha retto tanto che ha indotto il pubblico ministero della Dda a chiedere
complessivamente 126 anni di carcere per gli undici imputati.
La condanna più alta è stata inflitta a Nunzio Guarini di Castro, che oltre all’accusa di
associazione finalizzata al traffico di droga rispondeva pure di possesso di materiale
esplosivo (in altra operazione i carabinieri della Compagnia di Tricase gli
sequestrarono 27 chili di tritolo): dieci anni.
Otto anni e otto mesi sono stati inflitti a: Andrea Fracasso di Scorrano; Antonio
Capoccia di Martano; Piero Capoccia di Lecce, originario di Melendugno; l’albanese
Shpetim Cakrani; l’albanese Argent Arapi. Otto anni ha preso Giuseppe Strummiello
di Palmariggi, arrestato dai carabinieri della Compagnia di Maglie nell’operazione
‘Nascondino’ contro un’organizzazione dedita al traffico di eroina. Sette anni sono
stati inflitti all’albanese Enjgellushe Arapi. E sei a Rocco Mestria di Ruffano. Per
tutti è stata esclusa l’aggravnte del ruolo di promotore e di organizzatore. (29)
*
Non solo droga ma anche armi. Grazie ad un controllo del “Nucleo
antisofisticazioni e sanità” fatto a Castrignano dei Greci, sono stati scoperti in un bar,
in un sacco di plastica, tre chili e mezzo di marijuana. Scoperto quindi, il 15 maggio
2008, un centro di stoccaggio della droga consumata in gran parte dai ragazzi. Dai
fumatori di ‘canne’. Arrestato il titolare del bar ‘Berimbau’ di Largo Pozzelle: i
carabinieri della Stazione di Martano hanno condotto in carcere Rocco Tanieli, con
l’accusa di detenzione, ai fini di spaccio, di sostanze stupefacenti aggravata
dall’ingente quantitativo.
Dopo la perquisizione del bar, a casa è stata trovata altra marijuana e soprattutto un
arsenale da guerra parte del quale detenuto legalmente. Quanto all’“erba” in casa ne
aveva altri 13,2 grammi, quanto alle armi sequestrate per aver superato il numero
massimo consentito sono le seguenti: tre fucili calibro 12, ossia una doppietta, un
sovrapposto ed un semiautomatico. Una pistola Weihrauch calibro 357 magnum, una
balestra ‘Panzer’ con due frecce, quattro sciabole, quattro machete da collezione, tre
coltelli tipo machete e 1.347 munizioni di vari tipo e calibro. Per questo arsenale
Tanieli è stato denunciato per detenzione illegale di armi bianche e munizionamento.
Tutto questo è stato scoperto grazie ai controlli che i carabinieri del Nas stavano
svolgendo nei paesi fra Lecce e Maglie. Il loro compito è controllare lo stato di
conservazione degli alimenti, le date di scadenza, nonché le condizioni igieniche del
locale, dei luoghi e dei contenitori in cui sono stipati gli alimenti. E questo era il loro
compito anche per il bar ‘Berimbau’, ma che ci fosse qualcosa di poco lecito i
carabinieri lo hanno capito quando Tanieli avrebbe letteralmente satrappato dalle
mani del maresciallo del Nas il sacco che conteneva la marijuana. (29)
163
*
I carabinieri del Nucleo operativo radiomobile della Compagnia di Lecce, il 21
maggio 2008, hanno tratto in arresto Giuseppe Pallara, di Lecce, mentre il figlio
Rosario è stato denunciato. Se il padre o il figlio abbiano pensato che gli investigatori
difficilmente avrebbero controllato la busta del pane, non avevano fatto i conti con le
molliche rimaste sulla dose di cocaina venduta il pomeriggio del 20 maggio ad un
consumatore. Appena uscito dalla casa di piazzale Genova dei Pallara il consumatore
è stato fermato e controllato: ed ai carabinieri non è sfuggito che sulla dose ci fossero
delle molliche. Di qui la scoperta che lo smercio avveniva tramite un panino
imbottito.
Con questo indizio sono andati diritti in cucina a cercare il ripostiglio del pane e così
i carabinieri hanno sequestrato una rosetta imbottita da ben sette dosi cocaina, come
se fossero sott’aceti a corredo di qualche fetta di provola e mortadella. Sentito il
parere del pubblico ministero di turno il padre è stato arrestato mentre per il figlio è
scattata la denuncia perché era stato visto contattare il consumatore. (29)
*
Oltre un quintale e mezzo di marijuana e un kalashnikov con quasi duecento
proiettili: è quanto hanno trovato in località Frassanito, ad Otranto, i carabinieri della
Compagnia di Maglie. Il tutto nascosto sotto la fitta vegetazione di quel tratto di
costa. Un ritrovamento che desta sicuramente preoccupazione nelle forze dell’ordine,
che dovranno ora cercare di capire chi sia arrivato a bordo di quel gommone.
Tutto parte nella tarda mattinata del 28 giugno 2008 co il ritrovamento di
un’imbarcazione abbandonata a dieci metri di distanza dal bagnasciuga. I militari
della motovedetta ‘Arena’, coadiuvati dai colleghi della Stazione di Otranto, hanno
constatato che si trattava di un natante semiaffondato di marca Marshall, lungo 3
metri e 80, munito di due motori fuori bordo, vuoto. I militari hanno creduto,
giustamente, che ci fosse sotto qualcosa di più grosso. Immediatamente è partita la
perlustrazione della zona circostante. La fitta vegetazione che avvolge la località
Frassanito è il luogo ideale per nascondere ciò che non si vuole venga trovato. Infatti,
i militari hanno trovato due borsoni contenenti 157 chili di marijuana, divisi in 139
confezioni, un fucile mitragliatore kalshnukov, di fabbricazione cinese, con il
relativo caricatore contenente trente proiettili, nonché altre 166 munizioni, tutte
calibro 7,62x39; accanto a questo materiale anche degli indumenti bagnati e
abbandonati alla rinfusa, presumibilmente indossati dai malviventi per sbarcare. Si
tratta di oggetti che potranno dire molto sulla loro provenienza. Impossibile pensare
che a portare e abandonare tutto quel materiale sia stata una sola persona.
Il gommone recuperato e il materiale ritrovato è stato posto sotto sequestro per le
successive indagini, che mirano a scoiprire chi abbia utilizzato l’imbarcazione e per
quale motivo abbia abbandonato improvvisamente il suo pericoloso carico. (29)
164
*
Dall’arresto dei latitanti a quello dei loro presunti fiancheggiatori. Le
intercettazioni telefoniche, le microspie piazzate nelle auto e i pedinamenti fatti nel
2006 dai carabinieri del Nucleo investigativo per rintracciare prima Tommaso
Montedoro e poi Augustino Potenza hanno consentito di scoprire anche i traffici di
droga nelle zone di Casarano, Racale e Matino. Traffici di droga ma anche di auto
rubate i cui proventi sarebbero serviti per finanziare le latitanze dei due boss.
A capo di questa organizzazione ci sarebbe stato Domenico Autunno, di Matino,
l’uomo indicato dai collaboratori di giustizia Pantaleo Remo e Silvano Galati come
vicino a Montedoro, tant’è che quest’ultimo fu arrestato la sera del 22 febbraio del
2006 dopo essere stato visto scendere dalla sua auto. Autunno avrebbe gestito i
traffici di droga con Giorgio Manco, di Casarano, e con il marocchino di Parabita
Mohamed Es Sabbar, soprannominato ‘Simo’. E si sarebbe messo in affari per
piazzare droga ed auto rubate anche Roberto Giancane, di Monteroni, conosciuto con
il soprannome di ‘Nocciolina’, ma anche per essere scampato ad un agguato, a colpi
di arma da fuoco, la mattina del 20 maggio del 2002 davanti alla rivendita di frutta
del suo paese e per essere stato condannato per favoreggiamento nel processo per il
suo tentato omicidio (nel gruppo di fuoco c’era anche Silvano Galati che si pentì
dopo l’arresto dell’ottobre 2005).
Il 30 giugno 2008 Autunno, Manco, Es Sabar e Giancane sono stati arrestati dai
carabinieri del Nucleo investigativo in esecuzione dell’ordinanza di custodia
cautelare del gip. La richiesta di arresto porta la firma del sostituto procuratore della
Dda di Lecce che contesta ad Autunno, Manco ed Es Sabar l’ipotesi di reato di
associazione finalizzata al traffico di hashish, cocaina e marijuana. Il capo e
promotore dei traffici di droga all’occorrenza non avrebbe disdegnato nemmeno di
vendere la droga al dettaglio perché risponde anche di tre episodi di spaccio e di un
quarto che è poi più consistente: una cessione a Giancane per un importo di 28 mila
euro. In questi affari fra il Basso Salento e Monteroni ci sarebbero entrati anche auto
e moto. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che Autunno si sarebe adoperato
per trovare acquirenti, lo scooter glielo avrebbe procurato Giancane.
L’obiettivo di questi affari, hanno spiegato nella conferenza stampa il procuratore
aggiunto e il capo della Dda, il colonnello ed il capitano dei Carabinieri, era fornire
denaro ai due latitanti: Montedoro aveva con sé 30 mila euro quando fu arrestato a
bordo di una Volkswagen Golf truccata in modo da far cadere dell’olio sul tubo di
scappamento e lasciarsi dietro così una nuvola di fumo in caso di inseguimento. E
100mila euro e due chili di cocaina furono sequestrati nel blitz del 23 ottobre del
2006 che mise fine alla latitanza di Pitenza. (29)
Stridore di armi
Quattro colpi di pistola contro l’auto di famiglia dei fratelli Emanuele e Massimiliano
Zilli, hanno interrotto a Lecce un lungo periodo in cui le armi sono restate a tacere.
165
Atti intimidatori ce ne sono stati sì, ma con l’uso del fuoco e degli esplosivi. Per
risalire all’ultima scarica di proiettili forse bisogna arrivare all’estate del 2004.
Quello che ai poliziotti della Squadra Mobile e delle Volanti è sembrato un atto
intimidatorio dovrebbe essere avvenuto tra mezzanotte e mezzanotte e mezza del 9
aprile 2008. A dare l’allarme il proprietario della Corsa, il meccanico Angelo Zilli,
preoccupato dai colpi di arma da fuoco sentiti quando ormai erano tutti a letto. Le
esplosioni sarebbero state udite chiaramente perché l’auto era parcheggiata accanto
alla sua casa di via Ortigara, una traversa di via Leuca del rione Castromediano.
Le ogive recuperate sono state tre e, sia dalla loro consistenza, che dal diametro dei
fori è stato possibile stabilire che a sparare sia stata una pistola calibro 38.
Resta il fatto che un foro è stato fatto esattamente sull’angolo in basso a sinistra del
parabrezza: ad altezza uomo. Nell’ipotesi che ci fosse stato qualcuno alla guida
sarebbe stato centrato al petto. Come non avrebbe avuto scampo dalla pistolettata
esplosa sotto alla serratura dello sportello anteriore sinistro. Che poi potrebbe essere
proprio questo il messaggio lasciato, ritengono gli investigatori.
Ma a chi? Sembra che sia stato del tutto escluso che il destinatario fosse il meccanico
Angelo Zilli visto che si tratta di una persona che ha mantenuto sempre una condotta
irreprensibile. Qualche sospetto si è orientato invece verso i figli Emanuele e
Massimiliano, non fosse altro perché nel passato sono stati arrestati e processati per
droga. Emanuele il 21 settembre del 2005 con 100 grammi di cocaina nascosti in una
confezione di purè, Massimiliano il 13 settembre del 2004 nell’operazione ‘Carioca’
sul traffico di droga gestito dal Brasile tramite le e-mail e le telefonate dall’allora
boss latitante Fabio Franco. Massimiliano Zilli inoltre a novembre sempre del 2004
fu arrestato per la rapina del 31 agosto in una banca di Melendugno nella quale
impiegò la Opel Corsa della madre.
I colpi di pistola sembrano non c’entrare nulla con i trascorsi dei giovani Zilli.
Tuttavia la polizia sta cercando di tenere sotto controllo lo spaccio di droga in città ed
in questo ambito sta anche cercando di chiarire a chi fossero destinati i due chili ed
ottocento grammi di cocaina sequestrati a Bolzano e costati l’arresto a Ivan Firenze.
(23)
Stefano Zimari di Monteroni di Lecce, personaggio già ben conosciuto alle forze
dell’ordine per vecchi precedenti penali, la sera dell’ 11 giugno 2008 è giunto presso
il pronto soccorso di Copertino in un lago di sangue, a causa di una ferita giustificata
dallo stesso come una conseguenza dovuta ad una semplice caduta nel centro abitato
del paese. Una spiegazione che non aveva convinto non solo il personale sanitario ma
neanche le forze dell’ordine. Così gli investigatori hanno interrogato a lungo il ferito,
mettendolo alle strette, fino a quando la mattina del giorno successivo, cioè il 12
giugno, ha ammesso di essere stato accoltellato da uno sconosciuto – almeno questa
la sue versione.
166
Tutto è stato affidato alle indagini che sono nelle mani dei carabinieri di Monteroni
che hanno già provveduto ad effettuare i dovuti accertamenti e avviato gli
interrogatori nella speranze di identificare l’autore dell’aggressione. (23)
Misteriosa aggressione
E’ giallo su un giovane di San Pietro Vernotico picchiato a sangue a Squinzano e
finito in ospedale a Brindisi con una mandibola fratturata. Giuseppe M. ha raccontato
alla polizia di essere stata aggredito, la sera del 17 giugno 2008, da un gruppo di
giovani a causa di una mancata precedenza mentre era alla guida della sua auto.
Ma il racconto non avrebbe convinto gli uomini della Squadra mobile di Brindisi, che
ora stanno indagando sul caso. E qui si apre un piccolo giallo su chi poassa aver
ridotto in quello stato il giovane sampietrano in trasferta nel paese vicino. E
soprattutto perché. (32)
Delitti della SCU in Olanda
Il pentito Filippo Cerfeda non è considerato credibile dai giudici olandesi. Non è
credibile perché le accuse non hanno trovato riscontro. Con questa motivazione il 21
aprile 2008 i giudici della Corte suprema di Arnhem hanno assolto nel processo di
appello Aldo Giannotta, originario di Acquarica del Capo, dall’accusa di essere stato
il mandante del duplice omicidio dei brasiliani ammazzati la sera del 21 febbraio del
2002 ad Utrecht. In primo grado l’imprenditore salentino trasferitosi ad Amsterdam,
dove aveva avviato un ristorante ed un negozio di specialità alimentari, era stato
condannato all’ergastolo perché indicato come colui che avrebbe pianificato di
uccidere Roberto De Avila Garrido e Josè Paulo Davi, allo scopo di mettere le mani
su 20 chili di cocaina che avrebbe dovuto consegnare agli uomini del clan Cerfeda,
Adriano Palazzo e Tiziano Greco in cambio del corrispettivo in denaro.
Nel processo d’appello, quindi, non sono state individuate prove per dimostrare che
fu Giannotta ad ordinare di non pagare i corrieri e di ammazzarli. I giudici della Corte
suprema di Armhem hanno cercato riscontri anche in Italia nei tre giorni in cui il
2007 il processo si è trasferito nell’aula bunker del carcere di Borgo San Nicola di
Lecce con la presenza del giudice delle indagini preliminari per quanto prevede la
formula della rogatoria internazionale. L’unico a fare il nome di Giannotta fu Andrea
Pagliara, di Lecce, ma solo per sentito dire e non per averlo appreso direttamente: ad
indicargli come mandante l’imprenditore salentino ancora una volta Cerfeda. Tiziano
Greco si avvalse della facoltà di non rispondere in quanto imputato di reato connesso
e le dichiarazioni rese da Adriano Palazzo sembra non trovarono corrispondenza con
quelle di Cerfeda.
Riscontri tanto meno sono stati trovati in Olanda. Giannotta è stato, quindi, assolto
dall’accusa che gli era costato il carcere a vita ma è stato condannato a sette anni di
reclusione per aver organizzato il traffico di cocaina dal Brasile all’Italia attraverso
l’Olanda. Le dichiarazioni di Cerfeda in questo caso sono state giudicate credibili
quando ha raccontato di aver intensificato i rapporti d’affari con il ristoratore italiano
che forniva cocaina a tutti quelli che la vendevano a Lecce. Arrestato il 3 febbraio del
167
2004, Giannotta è rimasto interrottamente in carcere ed avendo già scontato quattro
anni tornerà libero nel maggio 2008.
La vicenda non è però definitivamente chiusa, Perché è legittimo prevedere che di
questo caso si tornerà a parlare nella Corte di Cassazione di Amsterdam.
Il problema resta l’attendibilità di Cerfeda. Nel giro di un paio di mesi per due volte
le sue accuse sono state disattese. Anche le dichiarazioni autoaccusatorie: a dicembre
2007 la Procura di Amsterdam ha archiviato la parte dell’inchiesta che lo ha visto
indagato come autore del duplice omicidio di due slavi ammazzati nel locale notturno
‘The News’ della capitale il 26 settembre del 2002. Cerfeda raccontò di essere stato
lui a sparare i colpi di pistola e le raffiche di kalashnikov che, inoltre, ferirono un
uomo ed una donna. Ma dalle indagini non sono emerse prove evidenti che il killer
fosse lui: la polizia interrogò 30 persone presenti quella notte nel locale e nessuno
riconobbe il volto e le fattezze fisiche dell’allora boss della Scu. Per gli inquirenti si
trattò di una messa in scena per favorire un paio di amici.
Inattendibile in Olanda, quindi, ma attendibile in Italia dove le sue memorie scritte su
dei foglietti di carta consegnati agli inquirenti, appena nell’estate del 2003 si pentì,
sono state la base di partenza di quelle che sono poi diventate le dichiarazioni che
hanno contribuito ad una ventina di ergastoli inflitti negli ultimi processi mafia. E ciò
che in Olanda è stato considerato privo di riscontro sarà utilizzato dalla Corte
d’Assise del Tribunale di Lecce che giudicherà Adriano Palazzo e Tiziano greco nelle
vesti di esecutori materiali del duplice omicidio dei due brasiliani. (23)
Il boss della droga, Giuseppe Lezzi
<<Sono pronto ad accompagnare la polizia nel bosco di Bolstain>>. Il bosco dove fu
seppellito Giuseppe Lezzi, il boss della droga ucciso in Olanda alla fine del 2001
dagli emergenti della Scu. A fare questa dichiarazione è stato Aldo Giannotta in
un’intervista pubblicata nella prima decade di aprile 2008 dal quotidiano olandese
“De Telegraaf”. Alla giornalista che lo raggiunse in carcere l’originario di Acquarica
del Capo raccontò delle sue personali opinioni sulla scelta di Filippo Cerfeda di
affibbiarsi anche i due omicidi del locale notturno ‘The News’ (<<credo che abbia
tentato ottenere un programma di protezione anche alla donna a cui si legò in Olanda
facendola credere in pericolo>>), ma parlò anche della parte dell’esecuzione di Lezzi
di cui non si è fatta abbastanza chiarezza: il corpo non è stato mai ritrovato.
Nel processo in corso nella Corte d’Assise di Lecce sono imputati per questo
omicidio: Andrea Pagliara di Lecce, Orlando Perrone di Surbo e Ivan Vitale di Surbo.
Ma anche i pentiti Fabio Franco di Surbo e Filippo Cerfeda di Lecce. Secondo quanto
ha riferito quest’ultimo, il corpo di Lezzi fu portato via dalla sua casa di Amsterdam
da Franco, Vitale e Perrone per seppellirlo in un terreno sabbioso di fronte al bosco di
Bolstain. Franco successivamente non sarebbe stato in grado di ritrovare il punto
esatto, ma quando militava ancora nelle fila della Scu lo avrebbe mostrato a
Giannotta: <<Una sera mi portò a Bolstain per indicarmi dove avevano seppellito il
corpo di Lezzi >>, ha riferito nell’intervista a “De Telegraaf”. (23)
168
La banda della 166
Nelle prime ore del 23 aprile 2008 i poliziotti della sezione “reati contro il
patrimonio” della Squadra mobile di Lecce hanno arrestato con i colleghi di Brindisi:
Luciano Liuzzi, originario di Brindisi ma residente a Squinzano. In manette pure il
fratello Francesco, residente a Brindisi. Carcere pure per Vito Sicilia, di Brindisi. Per
loro l’accusa di concorso in furto aggravato e ricettazione. In carcere è finito anche il
padre dei Liuzzi, Giuseppe, residente a San Vito dei Normanni, perché sotto il tetto
della sua masseria aveva nascosto un fucile a canne sovrapposte calibro 12 rubato
otto anni prima in una masseria di Brindisi: risponde di detenzione di arma da fuoco.
Sono i componenti della “banda della 166”, gli specialisti del furto che non hanno
mai avuto remore nel mostrare le armi se qualcuno cercava di fermarli. Dopo anni di
scorribande notturne e speronamenti con le forze dell’ordine, ma anche furti e rapine
a ripetizione di auto e pure in negozi e tabaccherie. Gli incappucciati dell’Alfa
Romeo 166 3,2 V6.
Nella notte tra il 22 e il 23 aprile avevano rubato una Ford Fiesta a Cavallino ed un
furgone a Monteroni. Il passamontagna non se lo sono tolti nemmeno per fare il pieno
di benzina, consapevoli della presenza delle telecamere a circuito chiuso. Come
nascondiglio hanno impiegato anche la masseria del boss della Scu brindisina
Salvatore Buccarella. Il che lascia intuire lo spessore di questo gruppo criminale a
valle fra le province di Brindisi e Lecce.
Sono andati a colpo sicuro come se avessero pianificato tutto: dagli obiettivi alle
difficoltà da superare e alle strade da seguire. Non avevano messo in conto, però, che
questa volta erano seguiti. Dopo la sosta a Tuturano per nascondere il furgone nel
pagliaio della masseria di Salvatore Buccarella (il padre Giovanni, 81 anni, è stato
denunciato per ricettazione), hanno proseguito per San Vito. Della spedizione
dovrebbe aver fato parte anche un quarto uomo, quello che si è messo alla guida della
Fiesta rubata a Cavallino.
Luciano Liuzzi e Vito Sicilia davanti al giudice delle indagini preliminari hanno
ammesso i furti,escludendo di far parte della famigerata banda della ‘166’. E
Giuseppe Liuzzi non ha avuto alcuna difficoltà a riconoscere di aver nascosto sotto il
letto della sua masseria un fucile calibro 12, rubato. Di tutt’altro tenore, invece, le
dichiarazioni rese da Francesco Liuzzi: lui non c’entrerebe nulla né con la banda delle
‘166’ e neanche coni furti del furgone e della Ford Fiesta rubati a Cavallino e a
Monteroni. Si sarebbe limitato ad andare a prendere il fratello Luciano e Sicilia senza
sapere cosa avessero fatto e da dove stessero arrivando. (23)
Il pedinamento elettronico. Un sistema che ha segnalato gli spostamenti dell’Alfa
Romeo 166 della banda dedita ai furti notturni. Eppure i malviventi qualcosa
l’avevano sospettata se la 166 è stata smontata pezzo dopo pezzo per cercare una
‘cimice’ o qualsiasi altro segnalatore dei loro dialoghi o dei loro spostamenti.
Evidentemente il tecnico della polizia sarà stato tanto scaltro da prevedere qualche
controllo.
169
La tecnologia ha trovato riscontro nei fatti.
(23)
La fabbrica dei falsari
Una zecca clandestina in piena regola messa in piedi nel giro di un mese nella zona
industriale di Melissano e all’interno della quale sono stati scoperti diversi milioni di
euro. Rigorosamente falsi. Circa centosessantamila banconote da 50 euro, ancora da
rifinire in alcuni particolari, ma di ottima fattura. Solo che i falsari non hanno avuto il
tempo di immetterle nel mercato o di consegnarle a chi, magari, gliele aveva
commissionate. I carabinieri della Compagnia di Casarano unitamente ai colleghi del
Nucleo antifalsificazione monetaria di Roma (Noam) hanno sgominato la banda
appena nata. Cinque gli arresti in flagranza di reato con l’accusa di associazione per
delinquere finalizzata alla falsificazione di moneta europea avente corso legale: si
tratta di Giovanni Gianfreda, imprenditore di Melissano; Giancarlo Camponeschi, di
Roma, tecnico tipografo con precedenti per reati specifici; Rosario Fioretti, di
Carmiano (originario di Brindisi) ex ristoratore; Alberto Alfieri e Luca Manganaro,
entrambi di San Cesario, quest’ultimo sarebbe stato coinvolto per la sua esperienza in
campo tipografico.
Il blitz compiuto il 7 maggio 2008 è il primo risultato di un’indagine del Noam di
Roma coordinata dalla Procura capitolina su un giro di realizzazione e spendita di
denaro falso che avrebbe confini più ampi. La stamperia della falsificazione era stata
collocata all’interno di un capannone in passato adibito in oleificio di proprietà della
società Gim srl di Melissano e poi ceduto in affitto alla Sud Graf, ditta che faceva
capo a Gianfreda, con regolare contratto registrato (l’amministratore della Gim
Francesco Montagna tiene a precisare la sua totale estraneità ai fatti) il 12 aprile
2008. Tra l’altro, l’imprenditore melissanese era già titolare dell’omonimo
etichettificio sempre ubicato nella zona pip. Quando i militari hanno fatto irruzione
nei locali la scena apparsa sembrava tratta da un film: macchinari e matrici in
funzione, bancali banconote impresse su fogli A4, parte di esse pare riposte ad
essicare e cinque persone con il capo chino sul loro lavoro. Le banconote erano ben
fatte anche se mancavano ancora alcuni particolari per perfezionarle e renderle ancora
più simili a quelle vere. Altri passaggi per imprimere l’oleogramma argentato posto
in basso sul bordo destro della facciata frontale. (23)
Che non si tratti di un gruppo di presunti falsari che avrebbe agito in autonomia lo
prova l’arrivo in Salento dei carabinieri del Ris di Roma per fare dei prelievi
dell’inchiostro e della carta, nonché per fotografare, fin nei minimi dettagli, il disegno
del lucido della stampa e delle banconote da 50 euro prodotte nello stabilimento Sud
Graf di Melissano e che, secondo gli ultimi conteggi, ammonterebbero a circa 15
milioni di euro. L’intervento degli specialisti di rilievo serve ai carabinieri del Noam
di Roma per raccogliere elementi e metterli a confronto con quelli analoghi di altre
stamperie clandestine dove nei mesi scorsi sono state sequestrate banconote false.
La regia dovrebbe essere unica, tant’è che l’indagine la conduce a livello nazionale la
Procura di Napoli. L’intervento dei carabinieri sarebbe frutto di una segnalazione
sollecitata dalla Banca centrale europea ed è stato promosso il blitz con urgenza dal
170
Noam perché i 15 milioni di euro da lì a poco avrebbero lasciato Melissano per
andare a finire nella rete tessuta dall’organizzazione per inserirli nel circuito
economico-finanziario senza dare troppo nell’occhio. Mancava l’ultimo passaggio
come abbiamo detto, per imprimere l’oleogramma argentato ed il taglio dei fogli A4
su cui erano stampate le banconote. Poi i soldi sarebbero stati messi in circolazione.
Le banconote erano state impacchettate, l’arrivo dei carabinieri della Compagnia di
Casarano e della Stazione di Melissano ha impedito che in Italia ed in Europa
entrassero in circolazione tutti quei biglietti. Nel Sud Graf c’era anche il lucido della
stampa che, secondo gli esperti è di ottima fattura. Come di livello eccelso sarebbe la
mano e l’occhio di Giancarlo Camponeschi, il tipografo che ha riferito di trovarsi a
Melissano solo per riparare la macchina stampatrice. Gli inquirenti, invece, lo
ritengono una delle pedine di peso dell’organizzazione impiantata nel Salento
insieme a Giovanni Gianfreda, come abbiamo visto, ex titolare di un’azienda di
etichette, ceduta ad alcuni parenti. Ha creato quindi la Sud Graf e visto che in quei
capannoni sono state trovate solo banconote false, è sospettrato di aver chiuso la
precedente baracca per darsi a guadagni ben più redditizi. (23)
Rapina a mano armata
La sentenza emessa il 15 maggio 2008 dal giudice per l’udienza preliminare ha
propinato dodici anni a testa ai due leccesi, Patrick Chironi ed Etrusco Ferri, che
durante la rapina del 6 dicembre 2006 all’Eurospin di via Presta, avrebbero cercato di
ammazzare il titolare Fabio Longo di Cellino San Marco, in provincia di Brindisi.
I dodici anni tengono conto dello sconto di un terzo della pena del rito abbreviato
(sarebbero stati 18 in un processo con rito ordinario) e sono relativi all’ipotesi di
reato di tentato omicidio e di rapina. Le accuse emerse dalle indagini, svolte ndai
poliziotti della Squadra mobile attraverso l’ascolto della vittima, dei testimoni, a
visione dei filmati delle telecamere a circuito chiuso ed una perizia balistica, indicano
in Chironi come colui che avrebbe cercato di ammazzare il titolare del supermercato.
Longo fu afferrato e strattonato dopo avergli tolto il portafoglio con 300 euro ed aver
svuotato di 800 euro le casse. Convinti forse di potere racimolare ben altro bottino ma
anche timorosi di una reazione del titolare, prima lo colpirono alla testa con il calcio
della pistola e poi Chironi gli avrebbe sparato un colpo che si andò a conficcarsi nel
pavimento a pochi centimetri dal bersaglio. Ma non finì lì: sempre Chironi avrebbe
puntato senza mezzi termini la canna dell’arma contro Longo. Il dito indice si
contrasse ma non successe nulla. Nessuna esplosione. L’arma si era inceppata, un
cantrattempo che salvò la vita al commerciante se si tiene conto dell’imputazione.
Solo Chironi fu arrestato in flagranza dopo essere stato bloccato e gonfiato di botte
da Longo. (23)
Il blitz “Arpia” contro i clan mafiosi
Con gli ultimi due ergastoli, il 22 maggio 2008, si sono chiusi i processi di primo
grado nati dal blitz ‘Arpia’ contro i componenti dei clan mafiosi di Surbo-Squinzano
e Lecce-Campi Salentina. La Corte d’Assise ha condannato al carcere a vita Andrea
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De Santis e Valerio Paladini, di Surbo. A tre anni in continuazione con l’ergastolo
rimediato nel primo processo Arpia è stato condannato Antonio Tafuro di Surbo.
Quattro anni, che in continuazione con altra condanna diventano 20, per l’ex boss del
clan di Surbo, diventato poi collaboratore di giustizia, Giuseppe Vincenti. Assolto
Agostino Pati di Campi, originario di Squinzano.
Nel processo si è tornato a parlare dei duplici omicidi di Giancarlo Fantastico e
Cosimo Conversano avvenuto la sera del 5 maggio del 1999 nell’ex ristorante Duca
D’Este di Squinzano, nonché di Fabrice Negro ed Antonio Della Bona del 13 marzo
del 2001 in un bar di Surbo. Se n’è tornato a parlare per accertare le accuse fatte dai
collaboratori di giustizia Giuseppe Vincenti e Giancarlo Mazzei nel primo processo
Arpia.
De Santis è stato condannato al carcere a vita perché ritenuto l’esecutore materiale
del duplice omicidio nel Duca D’Este dove sarebbe giunto con Vincenzo Posa per
interrompere a colpi di Kalashnikov e di pistola 357 magnum un summit degli uomini
del clan avverso di Lecce-Campi guidato allora da Dario Toma: ammazzarano
Fantastico e Conversano, mentre restarono feriti Giuseppe Ricciardi, Ivan Cipponi ed
Ezio Immorlano. In questo contesto Pati era accusato di aver indicato al commando la
presenza degli uomini di Toma, ma, come detto, è stato assolto.
Paladini invece avrebbe fatto parte del commando composto anche da Vincenzo
Presta e Mario Martella (per i quali si è proceduto separatamente) che uccise Negro e
Della Bona a colpi di kalashnikov e di pistola calibro 7,65: Negro perché componente
del clan di Toma (passato anche lui in seguito fra i collaboratori di giustizia), Della
Bona nella guerra di mafia non c’entrava nulla ma ebbe la sfortuna di trovarsi nella
traiettoria delle pallottole. (23)
Otto anni per un tentativo di omicidio consumato quando autore e vittima erano
dei boss. Quando nella prima metà del 2000 Fabio Franco era il braccio destro di
Filippo Cerfeda nel clan mafioso di Lecce e Campi Salentina. E Giuseppe Vincenti
era al vertice della Scu di Surbo. Da qualche tempo sia l’uno che l’altro sono passati
nelle file dei collaboratori di giustizia.
Nel processo con rito abbreviato del 24 giugno 2008 davanti al gup di Lecce Franco
se l’è cavata con otto anni.
Franco provò ad ammazzare Vincenti non certo per la guerra in ato fra i clan di Surbo
e Campi, che di morti ammazzati ne fecero tanti. Perlomeno non c’entrava
direttamente: ad armare Franco, che allora aveva i soprannomi di ‘Nano’ e ‘Fritz’, di
pistola e passamontagna, fu invece la volontà di far pagare a Vincenti lo smacco
ricevuto qualche anno prima quando gli mollò un ceffone alla presenza di altre
persone.
Per questo una sera di un giorno non meglio individuato attese Vincenti nascosto nei
cespugli davanti alla sua casa. Ed appena il boss di Surbo parcheggiò l’auto e scese
con la moglie, Franco saltò fuori impugnando la pistola. Nonostante avesse le
stampelle, Vincenti riuscì a raggiungere la porta di casa ed a chiudersi dentro
172
tirandosi dietro la consorte. Franco sparò due colpi, ma senza centrare il bersaglio.
Poi l’arma si inceppò.
Questa vicenda non andsò a finire nei maxi blitz ‘Arpia’ e ‘Pit’ perché Vincenti si
guardò bene dal presentare denuncia. Ma ne parlò quando nel 2003 decise di pentirsi
di rientro in Italia dopo la latitanza in Sud America. E ned ha parlato Franco dopo che
anche la sua latitanza in America Latina finì con l’arresto del febbraio del 2004 a
Santos in Brasile.
Otto anni, dunque, per Franco che si aggiungono ai 30 delle precedenti condanne. (23)
Processo ai delitti di mafia
L’ergastolo arriva in appello. Oronzo De Trane, di Lecce, chiamato anche Andrea, è
stato condannato al carcere a vita nel processo di secondo grado delle tre operazioni
‘Pit’ contro il clan dell’ex boss mafioso Filippo Cerfeda resosi responsabile da agosto
del 2001 a marzo del 2003 di sette omicidi, cinque tentati omicidi e di due
gambizzazioni per affermare la supremazia del suo clan nei traffici di droga e su altre
fonti illecite di guadagni. Destino agli antipodi per il compagno di De Trane, Orlando
Perrone, di Surbo: l’ergastolo era stato chiesto anche per lui, ma è stato assolto.
Ottanta gli imputati nel processo di primo grado andato a sentenza il 18 ottobre 2004
con il gup, 12 di questi sono stati giudicati anche in secondo grado per l’appello
proposto dal pm della Dda.
Per De Trane in primo grado era stato proposto l’ergastolo con l’accusa di aver
guidato la Renault Scenic impiegata la sera del 16 maggio del 2002 dal commando
che tese l’agguato mortale al gommista di Cavallino, Mario Caroppo, davanti a un
noto ristorante de centro di Lecce. Quel Caroppo considerato dal clan Cerfeda un
concorrente nello spaccio della cocaina e che tentò inutilmente di fuggire. De Trane
in primo grado fu assolto dall’accusa di omicidio, mentre la Corte d’Assise d’Appello
il 19 giugno 2008 ha accolto l’istanza dell’accusa di condannarlo all’ergastolo:
l’accusa ha chiesto di nuovo il carcere a vita ritenendo che non si debba prescindere
dalle dichiarazioni del collaboratore dei giustizia Giampaolo Monaco.
Orlando Perrone, invece, ha rischiato il carcere a vita perché accusato di aver
partecipato al duplice omicidio di Surbo del 24 aqgosto del 2001 di Carlo De Santis e
Francesco Cillo: il suo nome era stato fatto dai collaboratori di giustizia Simone
Cerfeda e Franco Vincenti, mentre il boss Filippo Cerfeda lo aveva tenuto fuori. Il
gup lo aveva assolto perché ha dubitato sull’attendibilità delle dichiarazioni di
Simone Cerfeda mentre per Vincenti si è posto il problema che di Perrone parlò solo
in un secondo momento quando gli fu chiesto di riferire quanto sapesse su quel fatto
di sangue.
Per gli altri imputati il processo si è concluso in questi termini: tre anno ha preso
Andrea Bisconti, di Lecce, con l’accusa di aver detenuto una delle armi del gruppo di
Camillo Lorio (uomo legato a Cerfeda). Ad un anno è stato condannato Antonio
Chiriatti, per aver partecipato alla distruzione della Ford Mondeo impiegata per
l’omicidio di Pompeo Vitale (22 gennaio 2003, fra Porto Cesareo e Nardò). Otto anni
173
ha preso Antonio Pepe, di Lecce, detto ‘Il baffo’, per spaccio di droga. Assolti
dall’accusa di associazione finalizzata al traffico di droga sia Carmelo Miglietta, di
Trepuzzi, che Marino Mungelli, di Lecce: in primo grado avevano preso
rispettivamente sei anni e sei anni ed otto mesi.
(32)
Un delitto annunciato?
Quindici coltellate al cuore e ai polmoni: la conferma di un agguato sotto casa che
altro obiettivo non avrebbe avuto se non ammazzare il consigliere comunale e
provinciale dell’Italia dei Valori, Giuseppe Basile. Non un segno sul volto o su altre
parti del corpo dell’ex imprenditore edile di Ugento. Quindici colpi andati a segno e
quattro a vuoto. E con una lama lunga almeno 15 centimetri che non ha lasciato
scampo. La vita di Basile si è spenta nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 davanti
alla sua casa.
Le indagini si svolgono a 360 gradi per non tralasciare nulla e per non trovarsi
semmai nell’impossibilità di cercare riscontri se la pista privilegiata dovesse poi
rivelarsi infondata. Ma fra i tanti moventi, quello del denaro perlomeno non starebbe
trovando riscontri: Basile non avrebbe contratto debiti importanti anche dopo la
cessazione dell’impresa edile, tant’è che avrebbe pagato di tasca sua i molti impegni
della campagna elettorale. Sono in piedi la pista passionale e quella politica. La sua
politica fatta di battaglie in consiglio comunale con un linguaggio schietto contro
quelli che considerava privilegi in barba all’interesse pubblico. L’ultima, quella
intrapresa solo poche settimane prima della sua uccisione, quando chiese di acquisire
copia delle concessioni demaniali delle spiagge, dei parcheggi e delle aree di sosta
dei camper. Nel passato Basile aveva tuonato contro anche le costruzioni e le
discariche abusive. Ad Ugento dicevano Peppino contro tutti. E che non riscuotesse
sempre simpatie (ma questo non autorizza a formulare ipotesi di delitto annunciato)
lo dimostrano le scritte lasciate sui muri del paese, alcune anche con minacce
inequivocabili: ‘Basile muori’. E non solo, un paio di anni fa ha rinvenuto due bossoli
nella sua cassetta della posta e poi, di nuovo, pochi mesi prima dell’agguato, ha
ritrovato la testa recisa di un animale sull’uscio di casa.
Consigliere provinciale di maggioranza e consigliere comunale di opposizione a
Ugento, area del Sud Salento occidentale, a rischio criminalità secondo il
sottosegretario all’Interno, Mantovano, nella sua attività di controllo politico potrebbe
aver toccato interessi di un certo rilievo. Magari qualcuno ha anche provato a farlo
desistere con le buone, poi con le minacce e infine passando all’azione ingaggiando
qualcuno esperto nell’uso di armi da taglio.
L’impeto del killer e l’arma impiegata costringono gli inquirenti a prendere in
considerazione anche una seconda pista: quella passionale. Non si esclude infatti che
qualche avance nal indirizzata avrebbe potuto innescare una reazione inconsulta e poi
la furia omicida. Ma questo è un terreno ancora tutto da esplorare.
174
BRINDISI
Rapporto della Direzione Investigativa Antimafia – luglio – dicembre 2007
In provincia di Brindisi le indagini della Dia hanno permesso il 9 ottobre 2007, di
decapitare i vertici del sodalizio dei fratelli Brandi. Proprio uno loro era stato capace
di riproporre in città il modello organizzativo della sacra corona unita alla quale era
stato affiliato. L’indagine ha permesso di ricostruire la gestione degli interessi del
clan (traffico di droga in collegamento con gruppi albanesi, estorsioni condotte
imponendo la guardiania ad alcuni imprenditori, attentati per convincere a pagare,
contatti con elementi collegati all’amministrazione comunale).
La droga che proveniva dall’Albania, con l’utilizzo di scafi veloci, veniva stoccata a
Brindisi e poi immessa sul mercato locale o inviata a spacciatori attivi al mercato del
Nord Italia.
Nel mese di luglio 2007 a Mesagne, già patria della Sacra corona unita (la città di
nascita del capo dei capi, Giuseppe Rogoli) si è verificato un attentato alla centrale
fotovoltaica in costruzione. Gli investigatori della Dia non escludono il movente
estorsivo.
A Torre Santa Susanna, emerge nella relazione il ruolo dei fratelli Bruno, con Andrea
capoclan. Nei primi mesi del 2008 si sono concluse le inchieste che hanno portato
all’emissione di numerosi ordini di custodia cautelare in carcere proprio per esponenti
del clan Bruno e per gli stessi fratelli Bruno. I reati contestati: estorsioni e traffico di
droga in particolare. E’ emerso infine un collegamento tra personaggi politici e le
attività della famiglia Bruno, interessata al business delle autorizzazioni per la
produzione di energia eolica attraverso l’installazione di pale in terreni di cui aveva la
disponibilità (di questo ne parliamo diffusamente nel successivo paragrafo). (34)
La Sacra corona unita fa sentire ancora la sua presenza
A fine marzo 2008 i carabinieri del Reparto operativo di Brindisi hanno portato a
termine l’”Operazione Canali” (dal nome della masseria dei Bruno) che ha visto 23
persone in cella e una ai domiciliari. Nessuno politico è indagato in questa inchiesta.
175
Nell’ordinanza sono omessi tutti (o quasi) i nomi dei politici che, stando alle
intercettazioni telefoniche, avrebbero trovato nelle elezioni amministrative dell’aprile
2005, le comunali di Torre Santa Susanna e le regionali una forte base elettorale tra la
malavita.
Il Dott. Motta, che ha presieduto la conferenza stampa illustrativa dell’operazione, ha
tenuto a sottolineare che nessun politico ha avuto contatti diretti con gli elementi
della criminalità organizzata.
I grandi elettori erano loro, i Bruno: Andrea Bruno (latitante), fratello di Ciro
(rinchiuso in una cella), capo-clan a Torre Santa Susanna, lì dove c’è ancora lo
zoccolo duro della organizzazione grazie ad un patto scellerato, stando alle indagini,
con ciò che rimane del clan tuturanese del vecchio Salvatore Buccarella.
Come abbiamo accennato è irreperibile Andrea Bruno, mentre il fratello Ciro è in
carcere anche se, grazie forse a qualche santo in paradiso, gli è stato risparmiato il
41/bis.
E’ anche irreperibile il figlio di Ciro, Vincenzo. Non si trovano neanche i cugini
Daniele ed Emanuele Melechì. Mancano dunque all’appello il capo e i tre
luogotenenti dell’associazione mafiosa dedita al traffico di cocaina e di armi oltre che
ai soliti tabacchi lavorati esteri (le bionde). Presi gli altri torresi, presi anche i
tuturanesi, l’ultima generazione di Buccarella.
Il clan, è stato chiarito sempre dal Dott. Motta, attraverso una ricerca sistematica dei
voti da destinare ai candidati di una parte politica, cercava di creare un vincolo di
sudditanza di alcuni amministratori comunali e regionali.
Andrea Bruno, per conto della famiglia, aveva molto da guadagnare, soprattutto in
vista della realizzazione di un parco eolico sui suoi terreni. La società che aveva
acquistato il progetto avrebbe dato fior di quattrini in cambio della concessione.
Guarda caso l’iter burocratico, che passa dalla Regione, è stato velocissimo. Era
quindi necessario mettere gli uomini giusti al posto giusto, cioè convogliare i voti
verso i candidati che sapevano dove mettere le mani, con i quali non era necessario
fare tante chiacchiere. Erano già convinti.
Droga, armi, contrabbando, voti in cambio di favori. Il tutto con quell’atteggiamento
mafioso che non lascia equivoci.
E’ stato, infatti, riferito dagli inquirenti di una donna, Cosima Guerriero, la stessa che
con le sue dichiarazioni aveva permesso l’arresto di Ciro Bruno, che non riusciva a
vendere le sue proprietà. Emerge così lo spessore criminale di Andrea Bruno. Un
boss che aveva un tale controllo del territorio da essere in condizioni di impedire la
vendita di terreni e immobili da parte di persone sgradite al gruppo, o di controllare
l’esito di aste giudiziarie, o ancora di impedire che terreni limitrofi ai propri finiscano
nelle mani di persone non gradite.
Il caso della Guerriero è emblematico. La donna nei primi anni ’90, fu la testimone
che incastrò Andrea, Antonio e Ciro Bruno, poi condannati per aver sterminato
proprio la famiglia della Guerriero. Nel 2005 la donna tentò di vendere alcune
176
proprietà. Vendite che non andarono a buon fine: un potenziale acquirente era stato
massacrato di botte perché si convincesse che non era il caso di fare acquisti incauti.
Inoltre sui muri della donna apparvero alcune scritte intimidatorie, come ad esempio
“Chi compra muore”, che fecero desistere un’altra persona, interessata ad una
abitazione di proprietà della Guerriero.
Nello stesso anno, un’azienda di Torre acquista ad un’asta giudiziaria un capannone,
al quale erano interessati anche i fratelli Torsello, figli di Damiano, fedelissimo di
Andrea Bruno. Il titolare dell’azienda subisce, nel giro di pochi giorni, il
danneggiamento di un vigneto, l’incendio e il conseguente crollo di due abitazioni
estive, e lo sfondamento del portone d’ingresso di una falegnameria di proprietà,
tanto che l’uomo accetta di rivendere il capannone in questione ai fratelli Torsello.
Quanto riferito ci dice, senza alcun dubbio, che Andrea Bruno esercitava ormai un
controllo totale sul territorio di Torre.
Come avete potuto apprezzare, quindi, una importante operazione portata a termine
che non ha quasi avuto per niente bisogno delle dichiarazioni dei pentiti. Certo non è
finita, si cercano ancora il ‘capo dei capi’ e i suoi luogotenenti.
Per la latitanza ha giocato a favore di Andrea Bruno la scarcerazione (sia pure in
regime di libertà provvisoria in attesa della conclusione del processo) concessa al
termine dell’udienza per l’incidente probatorio della Cassazione nel dicembre 2007.
L’accusa era quella di aver tentato di indurre un imprenditore di San Pancrazio a
ritrattare le sue accuse nei confronti di due soggetti noti alle forze dell’ordine di
Avetrana e di Sandonaci che, a loro volta, gli avrebbero estorto notevoli somme di
denaro e che, nel luglio 2007 (mentre si accingevano ad intascare una tangente)
furono arrestati in flagranza dai carabinieri della stazione di San Pancrazio.
Bruno e altri due complici tentarono il tutto per tutto con lo scopo di far cambiare
all’imprenditore la sua versione dei fatti. Alla vittima furono persino promesse le
scuse per quanto subito oltre alla riconsegna dei soldi versati. L’incontro avvenne
presso un esercizio commerciale dove Andrea Bruno si sentiva a proprio agio. Ma in
quel caso il coraggio della vittima fece saltare i suoi programmi.
Per questo quando la Cassazione decise per la scarcerazione, suscitò un vespaio di
veementi polemiche.
Tra l’altro l’operazione di cui ci stiamo occupando ha anche il merito di aver portato
alla luce tutti i rapporti esistenti tra i vari personaggi appartenenti al sodalizio, i loro
ruoli e, dunque, i loro compiti.
Su questo ci intratterremo, non perché improvvisamente assaliti da un raptus
masochistico, ma perché crediamo che, a chi è interessato seriamente di conoscere la
realtà criminale, bisogna offrire tutto quello che si riesce a carpire dalla cronaca,
sapendo che solo gli atti processuali, una volta esaurite le varie istanze che portano al
verdetto definitivo, possono svelare per intero il lugubre mondo del malaffare.
177
Tre anni di indagini, nate dalla necessità di assicurare alla giustizia un pericoloso
latitante, Cosimo Cafueri, sottrattosi alla cattura subito dopo essere stato condannato
all’ergastolo.
Da lì prende le mosse l’operazione: intercettazioni e pedinamenti portarono alla
consapevolezza che Cafueri – elemento di spicco della Scu, facente parte del clan di
Salvatore Buccarella – stava tentando di ridare vita ad un nuovo gruppo malavitoso,
riunendo i diversi esponenti delle cosche ormai decapitate di Tuturano.
Un ritorno in grande stile, dunque, sulle orme di Buccarella, padre fondatore e capo
indiscusso della Scu. Nelle intenzioni di Cafueri c’era la necessità di convogliare tutti
i proventi delle attività illecite, in particolare del traffico di droga (del quale,però,
pare non fosse entusiasta il boss Buccarella, che non vedeva di buon occhio la
diffusione degli stupefacenti nel paese) e di armi, ma anche del contrabbando di
sigarette, nelle casse del nuovo gruppo.
Le indagini successive portarono a scoprire un filone molto più interessante: un vero
e proprio ‘asse’ criminale tra Tuturano e Torre Santa Susanna.
L’esistenza di questo sodalizio venne riferito anche da un collaboratore di giustizia,
che fece riferimento a Vito Fai, considerato dagli inquirenti un elemento di primo
piano all’interno del gruppo. Fai, a sua volta, aveva stretto forti legami proprio con
Andrea Bruno, all’epoca capo-zona della Scu a Torre, già membro del clan che
faceva capo al fratello Ciro, e ritenuto oggi il capo indiscusso dell’organizzazione
sgominata con l’Operazione Canali.
Diventa quindi Torre Santa Susanna il centro di controllo delle attività illegali del
gruppo mafioso. La famiglia Bruno che spadroneggia indisturbata e i Melechì che
fanno da braccio destro. Il potere del gruppo cresce a dismisura: controllano il
traffico di droghe pesanti, si arricchiscono grazie al contrabbando di armi (molte delle
quali erano nelle disponibilità dell’organizzazione), controllano le amministrazioni
locali.
E proprio una conversazione intercettata la notte del 31 dicembre del 2005 tra
Vincenzo Bruno (nipote di Andrea) e Daniele Melechì emerge con forza il nuovo
corso della malavita torrese.
La nuova Scu, dunque, è tutta in mano ai torresi. E che Andrea Bruno sia ‘il capo dei
capi’ del gruppo criminale lo dimostra il fatto che nessuno, anche all’interno del
gruppo stesso, possa fare alcunché senza l’autorizzazione di Bruno.
L’organico. gerarchicamente definito, della più agguerrita fazione della Sacra corona
unita vede a capo Andrea Bruno; luogotenenti sarebbero stati i cugini Daniele ed
Emanuele Melechì e Vincenzo Bruno, figlio di Ciro e nipote di Andrea. Loro tre
controllavano il territorio in modo capillare. In qualità di promotori sarebbero stati:
Cosimo Berardini, Salvatore Diviggiano, detto ‘Faccia bruciata’, Damiano Cosimo
Torsello, meglio conosciuto come ‘U Poppitu’, Cosimo Carluccio alias ‘Pacciani’,
Vito Fai e Michele Pagano. Tutti, infatti, sono accusati di aver fatto parte di
un’associazione armata di stampo mafioso che aveva come obiettivo quello di
178
commettere una serie indeterminata di reati con particolare riferimento alla
detenzione illegale di armi, al traffico di droga, al contrabbando di sigarette ed al
controllo delle attività criminali e dei traffici illeciti realizzati nel territorio di Torre
Santa Susanna e nelle zone limitrofe da altri gruppi criminali.
Damiano Torsello era considerato il ‘volto pulito’ dell’organizzazione. Era il tramite
per arrivare a soggetti pubblici e privati. Anche la suddivisione dei ruoli nel traffico
della droga rispettava un organigramma ben preciso. Il traffico era diretto ed
organizzato da Andrea e Vincenzo Bruno e dai Melechì, Emanuele, Cosimo e
Daniele detto ‘zumpa nana’ o ‘il grosso’, oltre che da Cosimo Bernardini, Salvatore
Diviggiano e Damiano Torsello che agivano attraverso tre diverse articolazioni.
La prima, operante sul territorio di Tuturano, sarebbe riconducibile a Vito Fai
(capogruppo). Ne facevano parte Mario Cafueri, Piero, Giuseppe, Andrea, Graziano e
Claudio Fai, Vincenzo Schiamone, Daniele Vitale e Rosario Piccinno detto ‘Saro’. La
seconda, sempre operante sul territorio di Tuturano, sarebbe riconducibile al
capogruppo Juri Rosafio con il quale collaboravano Vincenzo Bleve, Gianni Sabella,
Gianluca Saponaro e Laura Vitale. La terza articolazione, che operava sul territorio di
Torre Santa Susanna, aveva come punto di riferimento Francesco Ammaturo che
coordinava le azioni di Dario Totano, Silvio Coccioli, Cosimo Immaturo, Cosimo
Carluccio ed Americo D’Abramo.
Non sembra esserci alcun dubbio, secondo gli inquirenti, che il numero uno
dell’associazione sia Andrea Bruno. Il quarantenne, infatti, ha fatto parte del
sodalizio ed è già stato condannato per questo delitto (articolo 416 bis del codice
penale) con sentenza passata in giudicato. E’ un personaggio di indubbio spessore
delinquenziale – secondo gli inquirenti – insieme ai suoi più stretti collaboratori
avrebbe aggregato intorno a sé un gruppo criminale divenuto con il tempo egemone
sul territorio di Torre Santa Susanna.
In numerose conversazioni telefoniche intercettate è chiaro il carattere associativo del
vincolo e la sua natura gerarchica.
Come abbiamo visto l’unica donna a far parte del gruppo di presunti appartenenti al
clan di Andrea Bruno, è Laura Vitale, ventiquattrenne di Lecce ma residente a
Tuturano. Come per gli altri arrestati, per lei l’accusa è di associazione a delinquere
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.
In particolare, la Vitale avrebbe fatto parte di un ristretto gruppo di persone chiamato
‘articolazione’ nell’ordinanza di custodia cautelare, che faceva riferimento al
territorio di Tuturano. Anche la ragazza, come praticamente tutti gli altri personaggi
coinvolti nella vicenda degli stupefacenti, non disdegnava di provare di tanto in tanto
la droga che smerciava per conto di Andrea Bruno.
Nelle numerose conversazioni intercettate il riferimento alla droga c’era ma veniva
criptato attraverso un particolare linguaggio. Compaiono spesso termini come ricotta,
pillole, acqua e tipi di acqua, mandorle e ceci. Il significato dei dialoghi, secondo gli
inquirenti, sarebbe piuttosto univoco, avendo quasi sempre come oggetto forniture,
179
quantità o pagamenti di sostanze stupefacenti (ed in alcuni casi di sigarette di
contrabbando).
Ma se durante le conversazioni telefoniche gli interlocutori erano più accorti, quando
erano a bordo delle proprie auto non erano soliti utilizzare la stessa attenzione. Ed è
proprio in queste occasioni che si sono spesso traditi. Andrea Bruno ed Emanuele
Melechì si occupavano di individuare anche i luoghi dove poter nascondere la droga.
Generalmente si sceglievano luoghi in aperta campagna e la droga veniva inserita
all’interno di vasi di vetro.
Oltre alle intercettazioni, importanti passi avanti sono stati fatti grazie ai numerosi
sequestri di droga. Il 12 febbraio del 2005, Bruno e Melechì erano a bordo di un’auto
in compagnia di un’altra persona. Avevano otto chilogrammi di cocaina, pronti per
essere venduti. E proprio con questo scopo i tre stavano cercando un’abitazione a
Torre Santa Susanna.
Pochi giorni dopo, il 26 febbraio del 2005, sempre a Torre, all’interno di un muro a
secco che delimitava la proprietà della famiglia Bruno, sono stati sequestrati
materiale chimico, acetone ed etere etilico utilizzabile per la raffinazione e
l’estrazione di sostanze stupefacenti. Sempre a Torre Santa Susanna il 17 settembre
dello stesso anno, furono sequestrati 500 grammi di cocaina e una pressa idraulica per
il confezionamento della droga. In questa circostanza furono arrestati Cosimo ed
Emanuele Melechì, in flagranza di reato il primo, successivamente il secondo.
Qualche mese dopo, nelle campagne di Mesagne, furono sequestrati insieme a pistole
e fucili anche 1,7 chilogrammi di cocaina, sei grammi di hashish ed oltre un
chilogrammi di eroina. Nel corso dell’operazione fu arrestato Salvatore Diviggiano.
In altre conversazioni si fa riferimento ai controlli delle forze dell’ordine, ai metodi
per evitare di essere colti in flagranza e a quelli per guadagnare con i traffici
internazionali. In una conversazione Bruno, Berardini e Diviggiano parlano
addirittura di un arresto avvenuto il 12 febbraio del 2005, nell’ambito di una inchiesta
relativa ad un sodalizio criminale dedito al traffico ed allo spaccio di sostanze
stupefacenti. Si tratta dell’indagine denominata “Buena Esperanza”. La persona
arrestata, era il fornitore, l’intermediario di un quantitativo di 82 chilogrammi di
cocaina sequestrati il 9 luglio del 2003 a Ventimiglia.
I traffici dell’organizzazione sono ingenti, soprattutto perché frequenti. Difficile, allo
stato, calcolare gli introiti economici che non potevano che essere anch’essi ingenti.
Ad esempio il valore della droga venduta ad una decina di persone fa centomila euro.
Una cifra guadagnata in meno di un anno, ma attraverso più cessioni effettuate da
Cosimo Berardini e Salvatore Diviggiano. Si tratta, tra l’altro, di quantità di sostanze
stupefacenti spacciate non solo a Torre Santa Susanna, ma anche in altri paesi della
provincia di Brindisi.
L’attività criminosa di questo clan era oltremodo variegata. Infatti tra i tanti capi di
imputazione che si scorgono nell’ordinanza, anche i furti affrontavano con grande
perizia.
180
Si legge: articoli 56 e 328 comma 3 nr.1 c.p. <<Perché alfine di trarne un ingiusto
profitto, ponevano in essere idonei atti diretti in modo non equivoco ad impossessarsi
di denaro e valori nella disponibilità dell’Ufficio postale di Monteroni di Lecce>>;
articolo 648 bis c.p. <<Perché procedendo allo smontaggio di un camion,
provento di furto denunciato in data 14.06.2005. al quale erano stati rimossi il
motore, la cabina, il cassone ribaltabile e le ruote anteriori, nonché effettuando il
taglio dei longheroni riportanti il numero di telaio, compivano operazioni finalizzate
ad ostacolare la provenienza delittuosa del veicolo>>.
Sono numerosi gli elementi raccolti che dimostrano la natura armata del vincolo
dell’associazione. Non solo il capo e i luogotenenti, ma anche gli affiliati hanno
potuto contare sulla disponibilità di armi, di cui veniva testata l’efficienza prima di
ogni azione delittuosa. All’occorrenza venivano distribuite con modalità tipicamente
militari, come se si trattasse di un vero e proprio esercito. Tra queste vi erano fucili a
canne mozze, pistole calibro 38, 9x21, 7,65 e 357 magnum.
A conferma, aggiunse un tassello importante all’indagine anche l’arresto di Salvatore
Diviggiano, avvenuto nel marzo del 2006, quando nelle campagne di Mesagne oltre a
vari quantitativi di cocaina, hashish ed eroina, furono sequestrati anche due fucili a
canne sovrapposte e quattro pistole con varie munizioni.
Ma continuiamo. Le indagini hanno potuto appurare, anche grazie all’enorme mole di
intercettazioni telefoniche e ambientali registrate in questi tre anni, come gli
appartenenti al gruppo di Bruno tenessero sotto controllo non solo i pregiudicati della
zona, ma anche i Carabinieri della stazione di Torre. Ne studiavano le mosse, li
tenevano d’occhio, ne controllavano le attività, anche al fine di essere aggiornati sulle
indagini che riguardavano alcuni di loro.
Il capo e il suo braccio destro sono preoccupati perché i continui spostamenti delle
forze dell’ordine impedisce loro di portare avanti le attività illecite. Chiedono notizie
sulle indagini che li riguardano. In particolare, proprio Bruno, parlando con un uomo
non ancora identificato , si dimostra infastidito dai continui controlli, e cerca di
sapere se ci sono intercettazioni o dichiarazioni di pentiti a suo carico.
Effettivamente, nella relazione di servizio redatta in seguito da un appuntato della
stazione di Torre, quest’ultimo scrive di essere stato contattato da un uomo che gli
chiedeva notizie in merito ai continui controlli subiti da Andrea Bruno.
E’ comunque costante il controllo che il gruppo dei torresi esercita sui carabinieri
locali: controllano dagli spostamenti agli aspetti della vita privata dei militari. Una
conoscenza di certo non disinteressata, soprattutto quando si parla della moglie di uno
o della casa a mare dell’altro.
Intanto gli inquirenti provvedono ai sequestri. Nelle mani dell’autorità giudiziaria non
finiscono solo droga e armi, ma anche auto e moto nella disponibilità degli indagati.
Pare che fosse un terremoto annunciato l’attacco all’ultima roccaforte della Scu.
181
Abbiamo visto come dalle indagini sono anche emersi elementi che riconducono
quantomeno a un tentativo di voto di scambio tra esponenti della criminalità
organizzata ed esponenti politici. Ma di questi ultimi, ribadiamo, nessuno risulta, per
il momento indagato.
Si presenta così un grande interrogativo: qual’è il livello di intreccio tra politica e
mafia?
L’inchiesta, comunque, non termina qui. <<Ci sono molti aspetti da valutare. – dice il
coordinatore Dott. Motta – Ad esempio la questione delle pressioni per il parco eolico
da impiantare sui terreni della famiglia Bruno, in agro torrese>>.
E su questo parco ci soffermiamo brevemente perché si comprenda bene l’entità
dell’affare.
<<Poi quando abbiamo bisogno si deve mettere a disposizione>>, dice Andrea Bruno
al suo interlocutore (in una delle intercettazioni) che gli chiede voti per un ‘nuovo’
candidato al Consiglio regionale. E non si riferiva solo ad eventuali posti di lavoro.
Un altro politico regionale aveva forse già aiutato la sua famiglia accelerando l’iter
per l’autorizzazione a realizzare un impianto eolico a Torre. L’affare delle ‘pale’,
dell’energia del vento. Non perché i Bruno fossero ambientalisti, ma perché il terreno
scelto per realizzare l’impianto era proprio il loro. E allora negli occhi di Andrea
Bruno brillano immagini di centinaia di migliaia di euro che avrebbe avuto in cambio
della concessione del suolo di famiglia in contrada Canali. Andò tutto liscio. L’iter fu
velocissimo. Ora le pale non ci sono ancora, ma il progetto fu approvato dalla passata
giunta regionale. Superficie 737.255 metri quadrati; 19 aerogeneratori; potenza
complessiva 33.25 Megawatt. Nell’ottobre 2004 la Regione aveva provveduto con
una determina ad escludere il parco eolico di Torre dall’applicazione delle procedure
di Valutazione di impatto ambientale. E non è poco.
Si parla parecchio nell’ordinanza di custodia cautelare del tentativo della Scu torrese
di entrare nel tessuto connettivo delle amministrazioni locali, quella comunale in
primo luogo, ma anche quella regionale dell’epoca.
Si dimostra, si legge nell’ordinanza <<come il clan di Bruno Andrea sia stato capace
di estendere le proprie articolazioni tentacolari non solo nei confronti del tessuto
criminale locale ma anche nei confronti delle strutture amministrative comunali,
adoperandosi attivamente per raccogliere voti da convogliare verso i propri
candidati di riferimento in vista delle imminenti elezioni amministrative dell’epoca
(il riferimento è in particolare alle elezioni amministrative regionali ed a quelle
comunali di Torre Santa Susanna)>>.
<<L’interessamento della famiglia Bruno si è tradotto in una ricerca sistematica di
voti da destinare ai candidati di una parte politica verso i quali si sono proiettati gli
sforzi di Bruno Andrea che addirittura nel corso di una conversazione ambientale
con una donna non identificata indica il candidato sui far necessariamente
convergere i voti della stessa>, continua l’ordinanza. <<La lettura delle
conversazioni intercettate costituisce solo una piccola parte di quelle che
182
comprovano il collegamento del clan Bruno con esponenti politici locali e sono
particolarmente significative nella parte in cui dimostrano come il clan di Bruno
Andrea abbia manifestato una forte propensione alla penetrazione del tessuto
connettivo amministrativo locale con volontà di infiltrare anche quello regionale e
che tale propensione abbia, almeno stando a quanto dichiarato da Bruno Andrea,
creato un vincolo di sudditanza di alcuni amministratori locali. Il campo di
intervento di Bruno Andrea, tuttavia, non è limitato al solo orizzonte comunale,
atteso che il tentativo di sottoporre a controllo anche esponenti politici di livello
regionale gli consentirebbe di tutelare da vicino tutti i suoi interessi parte dei quali,
per specifica tipologia, richiedono l’intervento della Regione (la costruzione del
parco eolico transita per autorizzazione della regione Puglia)>>. E ancora: <<Di
qui l’interessamento verso le elezioni amministrative regionali e di qui la sempre
ricorrente affermazione secondo cui appoggiando tali personaggi la propria famiglia
avrebbe ottenuto favori>>.
Del resto gli attentati intimidatori che si sono verificati a Torre nel corso del 2006 e
2007 contro i vigili urbani, la ditta della spazzatura e contro consiglieri comunali la
dicono lunga sul clima che si respira a Torre Santa Susanna. (15)
Né la provincia può dichiararsi estranea ai fatti delinquenziali.
Dopo un periodo di calma, gli incendi dolosi sono tornati a movimentare la
tranquillità notturna di Fasano.
Nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2008, infatti, ad andare a fuoco è stato un autocarro
furgone Ford Transit di proprietà di un commerciante ambulante di frutta e verdura
molto conosciuto in città. L’incendio si è sprigionato nella periferia del popoloso
comune brindisino nonché delle adiacenze dell’edificio popolare nel quale vive la
vittima dell’attentato.
Secondo la ricostruzione dei militari del Norm della compagnia di Fasano, il rogo
sarebbe partito da una tavoletta infiammabile del tipo utilizzato per accendere i
caminetti e in pochi istanti avrebbe avvolto non solo il mezzo commerciale, ma anche
un’altra vettura di proprietà di una donna, la Renault Kangoo di colore verse
parcheggiata ad un tiro di schioppo dal Ford Transit. Nell’abitacolo della Renault i
carabinieri hanno rinvenuto un’altra tavoletta infiammabile, certamente messa l’
dall’attentatore. In altre parole si voleva distruggere sia il mezzo commerciale che
l’autovettura. I danni, secondo una prima approssimativa stima, ammonterebbero a
circa 5-6mila euro.
A prescindere dai prossimi sviluppi a cui giungeranno gli inquirenti e ai possibili ed
eventuali balordi, non si può escludere la mano di un esecutore criminale in cerca di
estorsioni. (15)
Condannato “La Belva”
La sera dell’11 aprile del 2007 il colpo che ferì a morte Daniele Carella e altri tre,
furono esplosi dall’interno di una Citroen C3 a bordo della quale c’erano Fabio
Fornaro, detto ‘la belva’ e Gennato Giuffrida, detto ‘Gerry’.
183
Il giovane fu raggiunto dal colpo di una pistola calibro 9 alla nuca, mentre si trovava
al lato del passeggero, a bordo della Lancia Y guidata da Angelo Palma. Era
quest’ultimo, in realtà, il destinatario di quei proiettili. Fornaro lo stava cercando da
tempo per i suoi soldi, quelli che Palma non gli aveva ancora pagato per una partita di
cocaina.
Accortosi delle condizioni di Daniele Carella, fu lo stesso Palma ad accompagnare
l’amico all’ospedale, dove morì dopo tre giorni. Da quella sera, chiunque si sia
occupato del caso, ha prima di tutto cercato di stringere il cerchio attorno al
responsabile. Ma che in quella vicenda fosse coinvolto Fabio Fornaro fu chiaro quasi
subito agli inquirenti anche se fu necessario qualche settimana per farlo uscire allo
scoperto.
Infatti, Fornaro e Giuffrida furono arrestati il 6 maggio, dopo poche settimane. Si
contraddicevano le loro versioni dei fatti: Fornaro aveva dichiarato di aver dato
l’ordine poi eseguito materialmente (secondo il suo racconto a cui il pm non ha
prestato fede) da Giuffrida.
E quella notte ci sarebbe potuto essere anche un secondo morto, lo stesso Fabio
Fornaro che, secondo l’accusa, sarebbe stato raggiunto sotto casa dai parenti di
Carella, Maurizio e Oliver Cannalire, attualmente indagati per il tentato omicio di
Fornaro.
Nel fratempo ‘la belva’ aveva deciso di collaborare con la giustizia e quindi con la
Procura antimafia di Lecce. Ma ciò non è servito a fargli ottenere alcuna attenuante
nel processo con rito abbreviato, come richiesto da entrambi gli imputati, che si è
concluso il 22 aprile 2008.
Vent’anni di reclusione per Fabio Fornaro e sedici anni per Gennaro Giuffrida.
Rispondevano di omicidio volontario con dolo diretto nei confronti di Daniele Carella
e tentato omicidio nei confronti di Angelo Palma che, come abbiamo già scritto, era il
vero obiettivo dell’agguato.
Per Fabio Fornaro il pm aveva chiesto trent’anni di reclusione (ventuno per
l’omicidio di Carella, otto per il tentato omicidio di Palma ed un anno per la
detenzione ed il porto abusivo di arma, spari in luogo pubblico e ricettazione della
pistola rubata). La richiesta di pena è stata poi ridotta di un terzo per via del rito
abbreviato e quindi a vent’anni. Il magistrato non ha mai ritenuto credibile la sua
versione dei fatti e, di conseguenza, non aveva concesso alcuno sconto. Il pm, tra
l’altro, aveva però escluso sia per ‘belva’, sia per ‘Gerry’ la premeditazione che
avrebbe portato ad una richiesta di ergastolo. Per Gennaro Giuffreda (ai domiciliari
presso una comunità terapeutica dall’estate 2007) aveva riconosciuto, anche se solo
parzialmente, le attenuanti generiche.
C’è infine da annotare che la vicenda ha segnato di positivo: indagini lampo, arresti
lampo e quindi anche processo e sentenza di condanna con tempi celeri. Forse mai in
passato nessun caso di omicidio a Brindisi il verdetto è arrivato ad un solo anno di
distanza dal crimine. (15)
184
Scu & Politica
Si va avanti nell’inchiesta sugli affari del presunto clan capeggiato dai fratelli Brandi,
dedito al racket delle estorsioni, agli affari di droga e al contrabbando di sigarette. Si
va avanti con due riti abbreviati, due patteggiamenti ed un solo prosciolto. Per tutti
gli altri, e sono dodici imputati, iniziano i gradi di giudizio con il rito ordinario. Una
indagine che lo scorso ottobre 2007 fece scatenare una bufera anche sul mondo
politico, perché tra gli indagati compariva anche il nome del consigliere comunale
Oggiano.
Il 12 giugno 2008, il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Lecce, su
richiesta del pm, ha rinviato tutti a giudizio nell’udienza che si terrà il 24 settembre
2008 davanti alla Prima Sezione penale del Tribunale di Lecce, tranne Tommaso
Marsella che è stato prosciolto. E’ stato concesso il rito abbreviato a Mario Andriola
e ad Adolfo Saponaro.
Si aggiunge ad Andrea Zingarello (titolare di una società di copertura, la Icost), che
già aveva patteggiato la pena, anche Cosimo Gerardi. Sconterà due anni e sei mesi
con l’esclusione del 416 bis e dell’articolo 7 relativo al reato di associazione mafiosa.
Ad ottobre, nell’ambito dell’inchiesta denominata “Berat-Dia” finirono in manette i
fratelli Raffaele e Giovanni Brandi, il loro uomo di fiducia Giuseppe Gerardi, Cosimo
Gerardi, Mario Andriola, Enrico Colucci, Antonio Lococciolo, Andrea Zingarello
(che ha patteggiato), Gianfranco Contestabile, il gioielliere Fiorenzo Borselli (al
quale sono stati concessi i domiciliari) e i fratelli di origine albanese Aben e Viktor
Lekli, i cue uomini che per oltre dieci anni con una paletta avevano gestito il traffico
sulla strada di canale Patri.
Gli affari si facevano soprattutto con il racket (come la guardiania di cantieri edili e la
‘protezione’ di attività circensi e parchi divertimento, ma anche atti dolosi ai danni di
imprenditori edili e agricoli, il riciclaggio di denaro sporco ed il traffico di droga tra
Brindisi e Durazzo (Albania). Oltre agli arresti a fare scalpore, come abbiamo
accennato, fu anche l’iscrizione nel registro degli indagati, insieme ad altre quattro
persone, del capogruppo di Alleanza nazionale nel consiglio comunale, Massimiliano
Oggiano.
La sentenza di rinvio a giudizio era stata depositata il 21 febbraio 2008 dal pm della
Direzione distrettuale antimafia. Sedici le persone coinvolte – secondo gli inquirenti
– negli affari del presunto clan capeggiato dal boss Raffaele Brandi, già condannato
con sentenza defiinitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso ai tempi in
cui militava nella Sacra Corona Unita. Il 28 aprile 2008, in una udienza ‘tecnica’, il
giudice dell’udienza preliminare, sposando la giurisprudenza del Tribunale leccese,
aveva rigettato la richiesta dei difensori di fare copia delle bobine contenenti le
registrazioni di alocune intercettazioni telefoniche che fanno parte del materiale
probatorio acquisito.
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Delle sedici parte offese, tra cui il Ministero dell’Interno, quello di Grazia e Giustizia.
Andrea e Alessandro Carrisi, si sono costituiti parte civile l’avvocato Cosimo
Pagliara, ex presidente della Multiservizi, a cui bruciarono l’auto nel bel mezzo di
una riunione del consiglio di amministrazione della società mista e, in particolr modo,
contro il gioiellieri Fiorenzo Borselli e Giuseppe Gerardi, il signor Antonio Palumbo,
titolare della ditta “Palumbo Costruzioni srl” a cui furono incendiate due autro, soto
casa, a Santa Sabina di Carovigno. (15)
Attentati
Due auto incendiate nella notte tra il 2 e il 3 maggio 2008 a San Pietro Vernotico e
Cellino San Marco. Indagano i carabinieri di entrambe le stazioni locali nel tentativo
di riuscire a risalire all’identità dei piromani.
A Cellino San Marco è stata incendiata una vecchia Golf di proprietà di un operatore
ecologico. L’auto era parcheggiata sotto casa del proprietario.
Qualcuno nella notte aveva cosparso il vano motore dell’auto di liquido infiammabile
ed ha poi appiccato il fuoco. Quasi sicuramente si tratta di un atto di ritorsione nei
confronti del proprietario per questioni attinenti la sua sfera personale, contraddistinta
da qualche tempo da reciproche querele con un’altra persona del posto. Pur non
tralasciando alcuna altra ipotesi investigativa, per il momento resta questa la pista
privilegiata dagli inquirenti.
E la ritorsione nei confronti di un’altra persona pare sia stato il motivo per il quale a
San Pietro qualcuno ha cercato di dare alle fiamme una Fiat Punto. Anche in questo
caso i danni all’auto sembrano siano stati contenuti per via del tempestivo intervento
del proprietario che è riuscito per tempo ad avere ragione delle fiamme.
La pista più accreditata dagli inquirenti, porterebbe in questo caso di ritorsione per
via di una testimonianza che il proprietario avrebbe reso ai carabinieri in relazione ad
un tentativo di rapina, testimonianza rilevatasi successivamente determinante per
arrivare poi all’identità del rapinatore.
In ogni caso, anche per questo secondo incendio doloso gli inquirenti non tralasciano
alcuna altra ipotesi.
In entrambi i casi, però, i carabinieri escludono possa trattarsi di racket a scopo
estorsivo, tuttavia preoccupa la facilità con cui si ricorra ad attentati clamorosi (si
pensi che entrambi si sono verificati in piccoli centri) che ci avvicino più a realtà in
stato di guerra civile che a pacifiche e significative convivenze. (15)
*
Ad Ostuni torna ad infiammarsi il clima. Ancora un rogo, misterioso ed
inquietante. Non è chiaro quale tipo di messaggio possa celarsi dietro l’incendio che
nella notte tra il 10 e l’11 maggio 2008 ha devastato la residenza estiva dell’agente
Pino Quartulli, vigile urbano in servizio presso il Comando della polizia municipale
della città bianca. Il grave episodio ha destato scalpore e sconcerto, soprattutto perché
186
verificatosi a poche settimane di distanza dall’attentato incendiario ai danni
dell’ingegnere capo del Comune Roberto Melpignano (nel mirino la sua auto) alla
testa mozzata di un cavallo recapitata al vice sindaco Vincenzo Pomes. Gli inquirenti,
anche in questa circostanza, non si sbilanciano, con fermando l’avvio di un’attività di
indagine che si preannuncia piuttosto complessa.
Il personale del locale Commissariato Ps è stato chiamato per il 12 maggio ad
eseguire un nuovo sopralluogo all’interno della villetta distrutta dalle fiamme: una
costruzione nel cuore del villaggio di Fontanelle, lungo il litorale ostunese.
Gli investigatori intendono in primo luogo fare luce su quanto realmente accaduto tra
le mura andate in fumo. Sulla matrice dolosa, pochi dubbi. L’impianto elettrico era
disattivo e l’abitazione di fatto disabitata in questo periodo dell’anno. Soltanto la
mano di un ‘piromane’ poteva generare oltre l’uscio fiamme e distruzione. Il motivo
è uno degli interrogativi ai quali gli inquirenti stanno cercando di dare risposta.
Le indagini, curate dalla polizia, dovranno stabilire anche quale tecnica abbiano
utilizzato i malviventi per generare ed alimentare le fiamme. I Vigili del fuoco del
Comando provinciale di Brindisi e del Distaccamento di Ostuni, intervenuti sul posto,
non avrebbero rinvenuto tracce evidenti di liquido infiammabile. Il bilancio dei danni
arrecati dal fuoco è piuttosto pesante, come testimoniano le prime verifiche.
Altrettanto scontata l’inagibilità dell’appartamento.
Il vigile, vittima dell’attentato, non sa darsi una ragione, non sa cosa pensare. Ancora
lui, come già accaduto nel passato, torna ad essere bersaglio del crimine. Era già
accaduto la notte tra il 27 ed il 28 maggio 2006. La sua auto fu data alle fiamme poco
prima dell’alba. In quel caso, il ritrovamento a ridosso dell’autovettura di un bidone
abbandonato sul posto dagli attentatori, chiarì subito la matrice del gesto.
Oscuri, invece, allora come oggi, restano i motivi che vedrebbero il vigile urbano al
centro di tali attenzioni particolari. Impegnato spesso in prima linea nell’attività di
controllo del traffico urbano. Quartulli era stato vittima alcuni anni fa anche di un
altro grave attacco personale. In quel caso si trattò di una vera e propria aggressione,
proprio mentre l’agente municipale era impegnato a dirigire la viabilità in pieno
centro. (15)
*
Il 17 maggio, all’alba, un cavallo è stato ucciso con colpi di fucile in un maneggio
a Mesagne, vicino alla frazione brindisina di Tuturano. Non è ancora chiro se si sia
trattato di una ritorsione nei confronti del titolare del maneggio o del proprietario
dell’animale, un agricoltore della zona. Sull’episodio indagano gli agenti del
Commissariato Ps di Mesagtne. (15)
*
Da un anno Ostuni è alle prese con misteriosi e inquietanti attentati. Che
colpiscono politici di destra e di sinistra, dirigenti amministrativi e vigili urbani. Nel
187
campionario c’è di tutto: dalla testa del cavallo lasciata davanti allo studio del
vicesindaco ai quattro colpi di pistola contro l’ambulatorio dell’assessore ai Lavori
pubblici, passando per auto e ville incendiate, furti, scritte minacciose.
Il Sindaco atribuisce il tutto all’infinito livello di potenziali conflittualità. I vertici
amministrativi hanno raccontato agli investigatori, però risultati non si sono visti.
Certo si possono avanzare supposizioni, ipotesi che tali rimangono. Si fa riferimento
alle 1.500 domande di condono edilizio non accolte; alle vicende delle 90 case
popolari date in custodia nel 1989, quindi non assegnate e perciò oggetto di un
contenzioso infinito; ancora, all’ecomostro, quel rudere abusivo costruito sugli scogli
di Villanova, che non si riesce ad abbattere da 20 anni.
C’è anche chi soffia sul clima avvelenato della politica a colpi di denunce, esposti,
interpellanze, comunicati. La grossa questione urbanistica: l’opposizione accusa
l’amministrazione attuale di non affrontare l’argomento, favorendo chissà chi e chissà
cosa. Il Sindaco assicura di aver inviato al Prefetto copie dei verbali dei consigli
comunali degli ultimi due anni. Confida di aver parlato di urbanistica undici volte,
l’ultima per quesi tre ore. All’unanimità il Consiglio ha riconosciuto la mancanza di
qualsiasi illegittimità. Esplode, infine, in una invocazione: che chi deve indagare,
indaghi.
Anche il vicesindaco, vittima della testa del cavallo, afferma di aver detto tutto quello
che gli veniva in testa, compresi i contenziosi storici e cronici di Ostuni. Non si
possono che attendere pazientemente i risultati.
La città si interroga. Vuol capire. In palio c’è la sua immagine conquistata a suon di
bandiere blu e di trulli acquistati dagli inglesi. Le 500mila presenze annuali legate al
turismo rappresentano il 40 per cento del movimento provinciale, il 10 per cento di
quello regionale.
La presenza criminali da queste parti non ha mai superato il livello di guardia. Ci fu
un tentativo di infiltrazione nel tessuto commerciale da parte dei clan mesagnesi,
fallito. E’ pure passato il periodo del contrabbando. Preoccupa, invece, il rischio
dell’omertà. Di chi vede ma non parla. Sa, ma preferisce tacere, nella speranza che un
giorno tutto finisca. (15)
*
Anche Brindisi vive un momento particolare. Tanti attentati. E tutti a
professionisti. Per non parlare delle pallottole che viaggiano per posta. Ogni volta che
arrivano fanno altrettanto male di quando vengono sparate. Perché chi li receve non
sa da chi deve difendersi. L’autore del lugubre messaggio può essere chiunque, un
banale teppista che lo fa solo per creare allarme, ma anche chi vuole intimorire
volutamente.
Ci fu il sostituto procuratore Milto De Nozza che ricevette una pallottola in una busta.
Analogo messaggio lo ricevette tempo fa il presidente dell’Amministrazione
provinciale Michele Errico e poco prima delle elezioni una busta destinata
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all’onorevole Luigi Vitali fu recapitata alla redazione brindisina del ‘Nuovo
Quotidiano’.
Errico, sempre in periodo pre-elettorale ha subito un altro ‘avvertimento’. Qualcuno,
non ancora identificato, entrò nello stabile, in pieno centro di Brindisi, raggiunse il
secondo piano, dove si trova il suo studio notarile, versò dinanzi alla porta di ingresso
liquido infiammabile. Ma non diede fuoco. Erano da poco passate le 2 del
pomeriggio.
Altro ‘messaggio’ singolare viene lasciato nella tarda mattinata di una domenica alla
porta di ingresso dello studio di Aurelio Corso, direttore generale della squadra di
pallacanestro ‘Prefabbricati pugliesi’ e compagno del sostituto procuratore Adele
Ferraro. Fu il magistrato, rientrato a casa, a notare un pacchetto di sigarette lasciato in
modo tale che fosse leggibile la scritta:’Il fumo uccide’, e accanto le sigarette messe
in modo tale da dare l’idea delle pallottole. Un messaggio alla Ferraro oppure al
compagno dentista?
Un bottiglia incendiaria invece fu scagliata a tarda sera del 24 aprile 2008 contro
l’ingresso dell’edificio che ospita gli studi degli avvocati Carlo Caniglia e Mario
Rubino. L’ipotesi prevalente fu che l’autore dell’attentato potesse essere un cliente di
uno dei due avvocati civilisti rimasto deluso. Ma le indagini non hanno confermato.
Altro attentato incendiario la notte del 4 giugno 2008. Ancora una volta preso di mira
uno studio professionale. Quello del dentista Miche Rodofili. Due bottiglie
incendiarie lasciate sul davanzale della finistra dello studio situato a pianoterra. Delle
due solo una si è incendiata, provocando danni alla tapparella. Il dentista ha riferito ai
carabinieri di non avere idea di chi possa essere stato. (15)
*
Dopo la bufera giudiziaria e il sequestro del villaggio (di cui parliamo più sotto
in un apposito capitolo), su ‘Acque Chiare’ c’è ora il sospetto di un incendio doloso.
Quello che il 20 maggio 2008, intorno alle 17,45, ha distrutto due gazebo (usati come
magazzini) a ridosso della spiaggia, anch’essa posta sotto sequestro ma, a quanto
pare, non vigilata. Nel rogo sono andate distrutte centinaia di coperture in paglia –
per gli ombrelloni in stile resort – e la macchina per la pulizia dell’arenile. Scartata,
dai Vigili del fuoco, la possibilità che il fuoco si fosse propagato a causa di
un’autocombustione il dubbio per le numerose forze dell’ordine che hanno operato
per chiarire l’accaduto, rimane l’incendio doloso. Una mano invisibile che ha forse
cosparso di liquido infiammabile le due strutture in legno. A sincerarsi del sinistro è
arrivato anche il Sindaco che, al momento, e dopo il sequestro dell’intero villaggio, è
il custode giudiziario. ora potrebbero essere le telecamere a circuito chiuso a chiarire
i fatti: se l’occhio virtuale fosse posizionato su quei gazebo anadati a fuoco.
Un momento davvero terribile per un villaggio nato per rilanciare la costa nord del
brindisino e che, dopo l’incendio, getta altre ombre a solo poche ore dal nuovo stop
giudiziario. Eppure da quelle parti fino a mercoledì mattina 28 maggio c’erano
almeno venti operai che si stavano prodigando a rimettere a posto la spiaggia.
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E’ stato il fumo ad allertare alcune persone all’interno del vicino stabilmento balneare
‘Granchio Rosso’.
Senza una guardiania fissa su quell’angolo del villaggio – e dopo che le strutture
erano state già tutte montate per la nuova stagione – lo sciacallaggio poterbbe essere
dirompente.
(15)
*
Un incendio che ha tutto il sapore di un avvertimento. L’ennesimo atto
intimidatorio contro chi combatte – anche con grandi rischi personali – la cultura
dell’illegalità. Un incendio probabilmente di origine dolosa si è sviluppato a
Torchiarolo, il 16 giugno 2008, che lo Stato ha confiscato alla Sacra Corona Unita,
affidandone la gestione alla cooperativa ‘Terre di Puglia – Libera Terra’. L’incendio
giunge a due anni esatti da un primo analogo attentato su quei terreni che
<<rappresentano una sfida forte e continua alla violenza delle mafie locali>>.
Per il vero non è ancora chiaro se si tratti di un incendio provocato da qualcuno o
appicato accidentalmente. I tecnici dei vigili del fuoco lo accerteranno. I danni sono
molto limitati perché sul terreno preso di mira è coltivato un vecchio vitigno destinato
ad essere estirpato per fare posto ad un vitigno più pregiato che la cooperativa potrà
meglio commercializzare.
In ogni caso l’episodio non è da sottovalutare. Lo ha ribadito anche il Prefetto di
Brindisi che ha preso parte ad un sopralluogo insieme con il Comandante provinciale
dei carabinieri e il Commisario del Governo per la gestione dei beni confiscati.
I dirigenti della cooperativa hanno chiesto che sull’episodio venga fatta chiarezza per
dare serenità a quanti operano nell’associazione affidataria dei terreni che una volta
erano dei boss, personaggi di spicco della Scu brindisina. (15).
Delitti di mafia, parla “Bullone”
Vito Di Emidio, detto il “bullone”, boss di un tempo, in una delle ultime generazioni
brindisine della Scu, è da tempo che parla; per questo a molti vecchi sodali tremano i
polsi e non solo.
Sono passati più di dieci anni da quando furono giustiziati, nel quartiere Sant’Elia,
Giacomo Casale, detto “Puffetto” e Lorenzo Rosselli. Li avevano attirati in una
trappola perché dovevano vendicarsi di Franco De Fazio che aveva fatto uccidere
Mino Truppi e Nicola Santacroce. Non erano stati i due nragazzi del Sant’Elia ad
ammazzarli, ma bisognava dare una lezione a “Farfallone” facendo fuori due dei suoi
‘simpatizzanti’, scelti a caso.
Casale e Rosselli furono torturati, strangolati. Ci si accanì persino sui loro corpi
prima di gettarli in un pozzo. Era il maggio 1992. Sono passati dodici anni. Quel
giorno erano in quattro: Di Emidio, Tedesco, detto “Capu ti bomba”, Orlando, alias
“Jo Jo” e Daniele Giglio. Ad accompagnarli c’era Tonino Giglio, cugino di Daniele.
Ma all’ultimo momento non se la sentì, lasciò i quattro e se ne tornò a casa.
190
Il 12 maggio 2008, Daniele Giglio e Giuseppe Tedesco si sono trovati davanti i
carabinieri del Reparto operativo di Brindisi, con l’ordinanza di custodia cautelare
firmata dal gip su richiesta del pm antimafia; non hanno fato una piega. Così come
Pasquale Orlando che l’ordinanza gli è stata notificata in carcere dove si trova.
Tedesco non l’ha fatta franca neanche per un altro omicidio commissionato da
Bullone, quello avvenuto a Bar, in Montenegro, di Giuliano Maglie, avvenuto in una
data non precisata nel 1999. Di Emidio diche che Maglie voleva farlo fuori. Meglio
quindi giorcare d’anticipo. Che sarà stato mai per uno come Vito Di Emidio che ha
confessato di aver ammazzato, quasi sempre con le sue mani, una dozzina di persone,
eccellenti e non, di aver fatto saltare in aria un paio di supermercati e qualche
concessionaria, di aver minacciato di morte e chiesto soldi a imprenditori notissimi,
di aver dato fuoco a quella che pensava fosse l’auto del suo avvocato, di aver fatto
rapine e rubato e trafficato in droga. Stupri no, quelli non ne ha fatti. Non rientra nel
codice d’onore mafioso. Ma per il resto, per sua stessa ammissione, non si è fatto
mancare nulla.
Certo sono passati anni, tanti: il pentimento di Di Emidio potrà fare giustizia.
Erano anni in cui, a Brindisi, non c’era sera in cui non saltasse in aria un negozio o un
supermercato. Bombe che significavano solo una cosa: il titolare non aveva pagato e
per questo andava punito. E, manco a dirlo, esperto del settore era proprio Vito Di
Emidio. Nel maggio del 1998 costrinse i titolari del negozio ‘Cuba libre’ a versare
cinquanta milioni di lire, non prima di aver distrutto il negozio con un ordigno
esplosivo, che fece crollare parte dell’edificio a due piani. Sempre di cinquanta
milioni si parla il 2 febbraio del 2001, quando a saltare in aria fu il supermercato
Conad, nei pressi dell’ex pretura. A causare il disastro una bomba e ben cento litri di
liquido infiammabile, che distrussero ciò che la bomba aveva risparmiato. Gli ingenti
danni e l’incendio che poi si sviluppò evidentemente convinsero il titolare, che versò
nelle tasche del clan Bullone l’intera somma.
Pochi giorni dopo, il 23 febbraio, la bomba esplode davanti al supermercato ‘Gum’.
Gran parte della merce è irrecuperabile, il danno ingente. Sulla vicenda non pesa la
richiesta di denaro: gli inquirenti non si sbilanciano sulla somma richiesta, ma appare
chiaro il legame con gli altri fatti dei mesi e degli anni passati. Di Emidio ha bisogno
di rinforzare il suo controllo del territorio, e lo fa anche attraverso queste operazioni.
Che seminano il panico tra i commercianti, aumentano a dismisura il suo potere sulla
popolazione e gli permettono di entrare in possesso di discrete somme di denaro,
soldi che possono sempre servire ad un gruppo malavitoso particolarmente efferato
come quello di Di Emidio.
Giusto un mese dopo, il 23 marzo, brucia la concessionaria di Bruno Antelmi: due
taniche di liquido infiammabile e il solito, immancabile ordigno causano seri danni.
Molte macchine parcheggiate all’interno del perimetro di recinzione della
concessionaria sono seriamente e irrimediabilmente danneggiate. La richiesta, in
questo caso, era di trenta milioni di lire, dicono gli investigatori. Il 23 marzo è la
notte in cui altri due esercizi commerciali ubiscono danneggiamenti: si tratta anche in
191
questo caso di un supermercato, il ‘Centergross’, che si trovava nei pressi della zona
industriale, e della concessionaria di motociclette ‘Zuccaro moto’, In entrambi i casi
un ordigno esplosivo causa non pochi danni.
In alcuni casi, Di Emidio fu solo il mandante degli attentati seguite alle richieste
estorsive. A piazzare le bombe furono, secondo gli inquirenti, soggetti che tuttora
sono sconosciuti. In altri casi, invece, fu proprio il temuto boss a prendersi la
responsabilità di piazzare gli ordigni. Comunque gran parte degli episodi in questione
furono commessi durante la latitanza di Di Emidio che, seppure nascosto, non aveva
la minima intenzione di abandonare l’azione.
Una carriera criminale di tutto rispetto, quella di Vito Di Emidio. Costellata
soprattutto di omicidi. Morti che servivano a rafforzare il suo potere all’interno
dell’organizzazione criminale, a raggiungere i suoi obiettivi, a farsi temere dagli
amici e dai nemici. Gli inquirenti hanno tentato di ricostruire il curriculum di Bullone
e sono arrivati ad una conclusione: Di Emidio, il super collaboratore di giustizia, a
Brindisi deve rispondere di dodici omicidi e quattro tentati omicidi.
Comincia giovanissimo: a 19 anni, l’11 ottobre del 1986, uccide Francesco
Guadalupi, presidente di Assindustria di Brindisi e titolare dell’omonimo
stabilimento di pastorizzazione del latte, da tutti conosciuto come ‘don Ciccio’. Un
colpo secco di lupara, poi la fuga insieme al complice. La rapina che aveva progettato
finì nel sangue e quello fu il suo battesimo del fuoco. Un mistero risolto dopo 15
anni, solo quando Di Emidio accettò di rivelare agli inquirenti tutti i particolari della
sua tragica carriera di assassino.
Era il fiore all’occhiello dell’imprenditoria brindisina. Guadalupi, negli anni ’70 e
’80, era sinonimo di latte. E’ quindi comprensibile l’angoscia e lo sconcerto che la
sua morte violenta seminano a Brindisi. Tanto più se si rileggono i fatti di quegli anni
alla luce di quello che si sa oggi. Quell’omicidio fu il primo di una lunga serie,
l’entrata in scenma del killer detto ‘Bullone’.
Allora diciannovenne, Vito Di Emidio aveva tentato di portare a termine una rapina
all’interno dello stabilimento al rione Casale. Sono le prime ore del pomeriggio
dell’11 ottobre 1986, Francesco Guadalupi – presidente dell’Assoindustria brindisina,
titolare dell’omonimo stabilimento di pastorizzazione – è all’interno dell’azienda
quando si trova davanti il giovanissimo killer. Di Emidio, forse a causa
dell’inesperienza, appena lo vede gli scarica addosso con la sua lupara una rosa di
pallini all’addome. Don Ciccio si accascia. Di Emidio scappa.
E’ l’inizio di una lunga agonia per l’imprenditore, che morirà poi il 30 novembre. E’
l’inizio, invece, per Di Emidio di una lunga carriera malavitosa che, infatti, il 31
agosto 1991, insieme a Francesco Marrazza, in seguto deceduto, uccide Vincenzo
Zezza. Un omicidio, dicono gli inquirenti, portato a termine per <<agevolare l’attività
dell’associazione di tipo mafioso localmente denominata Sacra corona unita>>.
Stessa motivazione del tentato omicidio, avvenuto il 15 novembre del 1994, di
Pasquale Orlando: un regolamento di conti tra clan rivali all’interno della Scu.
192
Poi, nel 1996, gli omicidi di Casale e Rosselli, portati a termine con l’aiuto di
Tedesco, Giglio e Orlando. Il 5 marzo del 1997 a San Michele Salentino, viene ucciso
Michele Lerna, vittima di una rapina, raggiunto da numerosi colpi di una mitraglietta
mentre si trovava nella propria camera da letto. Il 26 giugno del 1998, l’omicidio che
è alla base della morte di Giuliano Maglie: a Brindisi viene ucciso Salvatore Luperti,
membro di un clan rivale a capo del quale vi era il fratello, Tonino Luperti.
Nicola Petrachi, contrabbandiere di sigarette, viene ucciso il 22 gennaio del 1999,
sempre a Brindisi: si era rifiutato di pagare la tangente sui carichi di sigarette di
contrabbando. Pochi mesi più tardi, servendosi di Tedesco, condanna a morte
Giuliano Maglie, temendo che il giovane fosse a Bar per ucciderlo. Maglie, infatti,
faceva capo al clan di Tonino Luperti, e molto probabilmente era stato spedito in
Montenegro per vendicare la morte di Salvatore.
Pochi mesi dopo, nel settembre dello stesso anno, viene sequestrato e ucciso
Giovanni Maniglio, autista della Stè, legato al clan Buccarella. Per giorni non se ne
saprà niente, il 24 settembre il suo corpo senza vita viene ritrovato in un pozzo nelle
campagne tra Brindisi e San Vito. Responsabili di quella morte sono Di Emidio e
Fabio Maggio. Sempre ad un tentativo di stabilire la propria superiorità e sempre da
parte degli stessi soggetti, è da attribuirsi l’omicidio di Antonio De Giorgi, legato al
clan di Maurizio Coffa, avvenuto lo stesso giorno del ritrovamento del corpo di
Maniglio. E’ in ato una vera e propria guerra tra clan per la supremazia del territorio e
il controllo di quella che è ormai la quarta mafia, la Sacra corona unita.
Quella stessa sera, Maggio e Di Emidio tentano di uccidere il vice brigadiere
Vincenzo Messina e il carabiniere scelto Massimiliano Bauco, in servizio a San Vito,
mentre si trovavano a passare per un posto di blocco disposto dai militari.
Il 12 luglio del 2000 Bullone uccide Tonino Luperti, capo dell’omonimo clan,
sospettato di voler ammazzare il proprio fratello, e ferisce Giovanni Lonoce, che si
trovava alla guida della vettura sulla quale era anche Luperti. Ultimo omicidio, in
ordine di tempo, quello di Giuseppe Scarcia, stalliere di Buccarella, sequestrato e
ucciso a colpi di pietre, e poi finito con un colpo di pistola.
Questo dicono i capi di imputazione che si riferiscono a Vito Di Emidio. Almeno per
quanto riguarda il versante brindisino. In territorio leccese, Bullone ha ugualmente
lasciato una lunghissima scia di sangue, della quale dovrà prima o poi rendere conto.
Comunque la intensa carriera malavitosa viene interrotta verso la metà del 2001,
quando prende la decisione di collaborare con la giustizia e svelare i misteri sui fatti
di sangue.
Non ci sono solo nomi della malavita che ricorrono nell’attività criminale di Vito Di
Emidio. Estorsioni ed intimidazioni erano all’ordine del giorno anche nei confronti di
altri personaggi, soprattutto imprenditori brindisini.
Così tra aprile e maggio 2001, Bullone chiede soldi agli imprenditori Vincenzo
Romanazzi e Pasquale Giurgola. <<Al fine di agevolare l’attività dell’associazione di
tipo mafioso Sacra corona unita>>, scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare
193
con la quale manda in carcere Tedesco, Orlando e Giglio. Trenta milioni di lire
ciascuno è la richiesta, avanzata con minacce, ai due imprenditori. Il tentativo di
estorsione ha esiti differenti: Romanazzi paga, Giurgola no, dimostrando che c’è chi
riesce a dire no al sanguinario Di Emidio.
A confronto con omicidi, traffico di droga e attentati, i reati minori di cui deve
rispondere Bullone sembrano quasi delle ragazzate. E invece sono il segnale che il
vero e temutissimo padrone a Brindisi, era proprio lui. E’ lui che controlla l’affare
delle estorsioni agli imprenditori, quelli edili soprattutto, come dimostra il caso della
richiesta estorsiva a Francesco Morleo, oggetto di una prima richiesta di due milioni e
mezzo di lire, nell’aprile del 2001, e poi trenta milioni, circa venti giorni dopo.
Kalashnikov in mano Di Emidio cercava di farsi consegnare i soldi mediante le solite
minacce.
Le richieste di denaro avvenivano anche all’interno dell’organizzazione mafiosa di
cui Di Emidio faceva parte: nel primi mesi del 2001 chiese 140 milioni dilire a
Damiano Torsello, dedito al contrabando di sigarete, minacciando di ucciderlo se non
avesse acconsentito alla richiesta.
Poi, negli anni, decine di episodi minori, che avevano in particolare come obiettivo le
autoveture di soggetti indesiderati. Come nel mcaso dell’auto di Giovanni Faggiano,
incendiata e distrutta nel 2001 perché si pensava appartenesse all’avvocato di fiducia
di Di Emidio, Daniela Faggiano. O in quello di Achille Zonno, che tra il dicembre del
1993 e il gennaio del 1994 si vide sottrarre la proprio Alfa Romeo 164: costretto poi a
corrispondere la cifra di dieci milioni di lire per riaverla indietro. (15)
Acque poco chiare
Corruzione, falso e lottizzazione abusiva: 8 indagati e l’intero complesso turisticoalberghero di ‘Acque Chiare’ del costruttore Vincenzo Romanazzi sotto sequestro dal
29 maggio 2008 a causa di un iter autorizzativo viziato nei suoi passaggi strategici da
elargizioni di denaro per 150mila euro. Comincia così l’estate brindisina, con un blitz
del Nucleo di polizia tributaria; è l’impatto più pesante di questa indagine che
coinvolge ancora una volta l’ex sindaco Giovanni Antonino, lo hanno subito i 173
proprietari di ville e gli altri 54 promessi acquirenti di fatto buttati fuori. Anche se gli
accertamenti sulla stipula dei rogiti è in pieno svolgimento e la buona fede di chi ha
comprato dal 2006 ad oggi non è scalfita.
Ma il nocciolo della storia di questo villaggio a pochi chilometri da Brindisi, sulla
litoranea per Apani, sta proprio nella vendita delle ville. Nato da un ‘accordo di
programma’ tra amministrazione civica, Regione e Romanazzi, ratificato il 25 agosto
1999 dal Consiglio comunale, sulla base delle deroghe concesse dalle leggi regionali
34/94 e 8/98 e di una variante al Piano regolatore, il progetto aveva precisi vincoli. tra
questi, la non alienabilità frazionata del lotto C, quello che comprende le 227 ville e
l’albergo. Il complesso, con le sue piscine, centri commerciali e di divertimento, la
spiaggia attrezzata ed i servizi sportivi dovevano essere destinati esclusivamente
alloo sviluppo turistico e agli incrementi occupazionali nel settore (77 unità, per la
precisione). Una griglia di condizioni confermata dalla convenzione attuativa del 9
194
febbraio 2001, passata anche in Consiglio. Ma – sostengono gli investigatori – già dal
4 maggio 2001 il costruttore Romanazzi impugna davanti al Tar la clausola che
blocca la vendita frazionata delle ville. Poi avrebbe congegnato assieme al sindaco
pro-tempore, Antonino, una seconda convenzione attuativa, quella del 27 agosto 2002
– non portata in Consiglio – che modificò le regole del gioco e rese le ville cedibili
una ad una a partire da cinque anni dalla prima convenzione. Il notaio che in seguito
stipulerà i rogiti, Bruno Cafaro, stando alle intercettazioni telefoniche riceveva
precise istruzioni da Romanazzi. Antonino invece, per sua stessa ammissione,
avrebbe ricavato ‘utilità’ dall’appoggio all’operazione.
Ma nelle 30 pagine di interrogatorio (quello del 9 marzo 2003) riportato anche nel
decreto di sequestro, firmato dal gip, l’ex sindaco non ammette la circostanza della
corruzione: Romanazzi avrebbe solo appoggiato le sue campagne elettorali,
finanziato la Brindisi Calcio e si era parlato di un aiuto anche per la squadra di
basket. Nel calderone entrano il segretario generale del Comune, Giovanni Battista
De Cataldo, il dirigente dell’Ufficio urbanistico, Carlo Cioffi, il direttore dei lavori
Severino Orsan. Giovanni Matichecchia, responsabile della Sovraintendenza di Bari
per la pratica ‘Acque Chiare’, e un altro tecnico, l’ostunese Domenico Sasso, che
secondo pm e Finanza firmò una consulenza che sarebbe servita solo a far giungere
soldi allo stesso Matichecchia. (31)
FOGGIA
Rapporto della Questura – 16 maggio 2008
Nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’annuale festa della polizia,
sono stati diffusi i reati relativi al 2007 confrontati con il 2006, e quelli del primo
quadrimestre del 2008 rapportati allo stesso periodo del 2007.
195
Nel 2007 ci sono stati 26 morti ammazzati (il dato diffuso dalla Questura parla di 22
omicidi perché non tiene conto di un caso di legittima difesa e dei tre garganici morti
nel rogo di Peschici di luglio, considerato che si procede a carico di ignoti per
omicidio col dolo eventuale), contro i 6 del 2006. A fronte di 26 morti ammazzati, 12
i casi scoperti. I tentativi di omicidio sono stati 35 contro i 27 dell’anno precedente,
l’80 per cento dei quali scoperti. Gli omicidi colposi nel 2007 sono stati 21 contro i
22 del 2006; 2850 i casi di lesioni dolose, percosse, minacce e ingiurie contro i 2373
del 2006.
I reati denunciati nel 2007 sono stati 30113 contro i 25233 dell’anno precedente, con
il 23 per cento dei casi scoperti. Un capitolo a parte meritano i furti, visto che
rappresentano un reato su due commessi in città e provincia. Sono stati 15693 nel
2007 contro i 12987 del 2006: soltanto 480 i casi risolti, pari al 3 per cento. I furti
d’auto sono saliti dai 3743 del 2006 ai 4431 del 2007 (manca il dato sui casi
scoperti). <<Molte di queste auto rubate vengono poi rinvenute dai proprietari, e
spesso si tratta di restituzioni dietro il pagamento di modeste tangenti, – è stato il
commento del Questore – perché si preferisce pagare dai 500 ai 2000 euro piuttosto
che denunciare il ricatto subito col rischio che la macchina venga bruciata>>. Nel
2007 ci sono state 480 rapine (comprese 32 in banca e 143 in esercizi commerciali) a
fronte delle 408 dell’anno precedente: le statistiche parlano di 135 casi risolti, in
pratica il 28 per cento. Nel 2007 sono state denunciate 170 estorsioni contro le 140
del 2006: in 95 casi (pari al 56 per cento) si è arrivati ad individuare i ricattatori.
Se il raffronto tra il 2006 e il 2007 è in negativo, va meglio il dato dei reati relativo al
primo quadrimestre del 2008 rispetto allo stesso periodo del 2007. Gli omicidi sono
stati 4 contro 5; 10 i tentativi di omicidio contro 9; 5 gli omicidi colposi contro 7; 695
i casi di lesioni dolose, percosse, monacce e ingiurie contro 880; 4166 i furti
complessivi (contro 4856) e in particolare sono stati 947 i furti di auto a fronte dei
1429 dello stesso periodo del 2007. Le rapine sono calate da 209 a 145 (9 in banche e
40 in esercizi commerciali). Stazionario il numero delle denunce per estorsione: 47 a
fronte delle 48 del primo quadrimestre del 2007. Il totale dei reati denunciati nei
primi quattro mesi del 2008 è 6068 contro 7524.
Quanto agli arresti sono stati complessivamente 156 nel 2007, mentre i denunciati a
piede libero sono stati 9664. Altri dati riguardano le 11319 richieste d’intervento
giunte al ‘113’ nel 2007 (erano state 10689 nel 2006); le 133.175 persone
identificate; 55 gli avvisi orali, 129 le proposte di sorveglianza speciale, il sequestro
di beni per un valore di 700mila euro, il rilascio di 9426 passaporti, di 761 porti di
fucile per uso caccia, di 8486 permessi di soggiorno.
Come abbiamo potuto constatare, le note positive afferiscono ad un numero più
contenuto di reati nel primo quadrimestre del 2008, rispetto allo stesso periodo del
2007; l’azzeramento dei vertici della mafia foggiana; un controllo del territorio
perfezionato. Le note dolenti: telecamere promesse e non installate; enti locali e
associazioni di categoria quasi mai parte civile nei processi alla mafia e al racket;
fenomeni, quali l’usura, che fanno registrare cifre ai minimi termini (solo 2 casi nel
196
2007), a fronte di un dato molto più preoccupante ma che non emerge per mancanza
di denunce delle vittime; una sicurezza partecipata che lascia ancora a desiderare,
perché ci sono reati che se non vengono denunciati, non si possono certo combattere.
Il Questore, nel corso della conferenza stampa, ha ribadito la volontà delle forze
dell’ordine di non abbassare mai la guardia perché si opera in una realtà ad alta
densità criminale. Non a caso il 2007 è stato un anno duro, con una ripresa degli
omicidi e rapine, nonostante tutto questo, risposte ci son state sotto forma di arresti,
di operazioni anticrimine importanti. I dati relativi al primo quadrimestre 2008 lo
confermano, perché, come pure abbiamo già letto, si registrano meno reati su tutti i
fronti rispetto allo stesso periodo del 2007.
E’ vero, c’è stata la serrata dei commercianti della città con la chiusura dei
supermercati per il rischio rapine; i ripetuti allarmi anche di addetti ai lavori sulle
persone vittime di strozzini; il racket che opera sotto traccia.
Ha risposto il Questore sottolineando la necessità che tutti partecipino a questa
sicurezza, denunciando, per esempio, quando si subisce o si assiste ad un reato.
Arresti se ne fanno (è sempre la risposta del Questore). A febbraio 2008, ha ricordato,
l’operazione ‘Praedator’ ha portato all’arresto di 17 persone per 10 colpi in banca. Ha
poi ricordato che la Capitanata è la principale esportatrice di rapinatori in tutta Italia,
decine di cerignolani arrestati per aver svaligiato banche in tutta Italia
Quanto poi alle estorsioni e all’usura il Questore ha detto: <<il primo passo per la
conoscenza di questi reati è la denuncia. Se il cittadino non collabora, e penso
soprattutto ad un fenomeno sommerso come l’usura, noi forze dell’ordine non
possiamo nulla...>> <<anche se sul fronte della lotta alle estorsioni ricordo il blitz
‘Osiride’ contro la mafia del caro estinto, l’operazione ‘revolution’ che ci ha
consentito di filmare prima e arrestare poi tre telefonisti del racket>>. (23)
Gioco d’azzardo
Intanto in Capitanata si spara. Il 15 marzo 2008 viene ferito con una fucilata alle
gambe, davanti al circolo ricreativo che gestisce in pieno centro cittadino, Nicola
Bevilacqua, 46enne pregiudicato cerignolano. L’uomo è stato ricoverato con prognosi
di 15 giorni. Non ha fornito agli inquirenti elementi utili per l’identificazione dello
sparatore (che peraltro avrebbe agito a volto scoperto), ma secondo indiscrezioni i
carabinieri conoscono l’identità di chi ha compiuto l’agguato e lo stanno ricercando
attivamente.
Pare che all’origine dell’agguato potrebbe esservi una discussione avvenuta qualche
giorno fa tra il Bevilacqua e l’uomo che gli ha poi sparato. Probabilmente per motivi
di interesse legati al gioco o all’attività del ferito che formalmente non è il titolare del
circolo ricreativo anche se di fatto e notoriamente lo gestisce.
Di certo c’è che lo sparatore solitario non ha sparato per uccidere. Vi sarebbero infatti
tutti i connotati di un’ira covata per un po’ di tempo che poi è esplosa dapprima con il
colpo di fucile a canne mozze, ma caricato con cartucce a pallini, sparato contro la
porta d’ingresso del circolo, nella convinzione che ciò avrebbe certamente richiamato
197
di fuori il Bevilacqua. E poi con il secondo colpo di fucile esploso verso il basso, con
l’intenzione di gambizzare l’uomo e di non ammazzarlo.
Una volta ferito il suo bersaglio per l’uomo armato di fucile sarebbe stato, infatti,
semplice ed agevole far fuoco ancora. Messa a segno la spedizione punitiva, chi ha
sparato si è allontanato senza infierire, mentre già stavano arrivando sul posto
l’ambulanza ed i carabinieri. (7)
Droga e armi
All’alba del 27 marzo 2008 i carabinieri del reparto operativo di Foggia facevano
scattare l’operazione Shadow con l’emissione di 19 ordinanze di custodia cautelare
spiccati dal gip di Bari su richiesta dei pm della Dda (18 eseguite, ci sono anche 8
donne).
Per il vero, nelle indagini per catturare il presunto ‘consigliere’ del clan mafioso
Ciavarella, hanno scoperto non solo la fitta rete di favoreggiatori che proteggevano la
latitanza di Michele Ciavarella, ma anche un’attività di spaccio di droga che
proseguiva anche dopo lo smantellamento del gruppo con l’arresto dei fratelli Matteo
e Marco Ciavarella.
Le ordinanze di custodia cautelare contengono le accuse a vario titolo di spaccio di
droga (192 gli episodi contestati a 6 indiziati) e favoreggiamento della latitanza di
Michele Ciavarella, il tutto con l’aggravante delle finalità mafiose. I fatti contestati
risalgono al 2005. In concomitanza con l’esecuzione dei provvedimenti di cattura,
sono state eseguite perquisizioni che hanno portato all’arresto in flagranza di un
presunto spacciatore, marito di una delle donne arrestate nel blitz.
La maxi-inchiesta sulla mafia garganica dimostra – nell’ottica accusatoria – come la
famiglia Ciavarella, coinvolta nella faida con i compaesani Tarantino contrassegnata
da 15 omicidi dall’81 ad oggi, sia poi diventato un clan mafioso che comandava nella
zona di San Nicandro, occupandosi principalmente di droga e alleandosi con il ‘clan
dei montanari’ riconducibili alle famiglie manfredoniane Libergolis e Romito. Al
vertice del clan ci sarebbe Matteo Ciavarella, già condannato all’ergastolo per alcuni
omicidi collegati alla faida sannicandrese.
Un ruolo di primo piano nel clan lo avrebbe svolto lo zio Michele Ciavarella detto
<<la vacca>>, che nel maxi-processo alla mafia garganica è stato condannato in
primo grado a 4 anni per mafia ed assolto dalle accuse di traffico di droga, tentata
estorsione e dell’omicidio di Luigi Tarantino, assassinato nel settembre 2003.
La cattura di Michele Ciavarella nell’ambito dell’inchiesta sulla mafia garganica fu
disposta il 22 aprile del 2005, ma il garganico si diede alla latitanza conclusasi due
mesi più tardi il 26 giugno, i carabinieri lo catturarono sul Gargano.
Ed è in questo scenario che si inserisce l’operazione Shadow. E’stato detto dai
carabinieri e dalla Dda: <<Nel corso delle indagini finalizzate a catturare Michele
Ciavarella abbiamo accertato come suoi familiari e persone a lui vicine gli fornissero
aiuti, supporto logistico e ogni sorta di assistenza per favorirne la latitanza>>. In
questo caso non ci si trova davanti a semplice attività di favoreggiamento, perché gli
198
aiuti al ricercato <<si giustificavano e trovavano una loro logica criminale nella
necessità di garantire, attraverso la latitanza di Michele Ciavarella e le attività illecite
che conduceva in prima persona, l’indispensabile assistenza finanziaria e il
pagamento delle spese legali ai componenti del gruppo già detrenuti>> per essere
stati arrestati tra il novembre 2003 e il giugno 2004.
Dalle intercettazioni telefoniche attivate per la cattura del latitante sarebbe inoltre
emersa <<una florida attività di spaccio di droga da parte di una mezza dozzina degli
attuali indagati. Spaccio portato avanti sia autonomamente da alcuni indagati sia in
collaborazione con lo stesso Michele Ciavarella che avrebbe immesso sul mercato
droga acquistata direttamente durante la sua latitanza. Le accuse si basano anche sulle
dichiarazioni di alcuni pentiti.
<<Ci sono costanti riscontri – spiegano i carabinieri – in materia di droga che
dimostrano la reiterazione dell’attività di spaccio da parte di alcuni indagati. C’è poi
il tentativo di Michele Ciavarella, durante un breve periodo di libertà, di ripristinare
contatti con vecchi presunti complici, il che denota il pericolo di una riorganizzazione
del clan. Non va infine dimenticata la recrudescenza della faida Ciavarella/Tarantino
con l’omicidio di Michele Di Monte, imparentato con i Tarantino, ucciso il 12
settembre 2007 e il duplice omicidio dei coniugi Michele Cursio e Giuseppina
Fratarolo, parenti del Ciavarella, ammazzato il 10 novembre 2007>>. (12)
*
Perché si abbia un’idea di quello che produce il truce commercio dei tanti
Ciavarella in termini di lacerazione sociale e di vero e proprio attentato alla salute di
intere comunità, richiamiamo la mappa tracciata dai Sert sul consumo delle sostanze
stupefacenti nell’intera provincia.
La relazione prende a riferimento gli anni 2001 e 2005. Il primo dato riviene dal
rapporto tra il numero degli utenti in carico, ogni anno, e la popolazione residente di
età compresa tra i 19 e i 54 anni, dove si registrano 52 utenti ogni 10mila persone, a
fronte dei 55 registrati nel 2001. Per quanto riguarda l’incidenza dei nuovi utenti si
dimostra più elevata nei servizi localizzati negli ambiti di Margherita (38,4%),
Cerignola (36,9%), San Marco in Lamis (35,5%), Lucera (31,9%), Troia (30%). Nel
2005, la maggior parte degli utenti ha ricevuto trattamenti per utilizzo di eroina (dal
73,5% del 2001 al 62,5% del 2005). E’ aumentata, invece, la percentuale di utenti che
hanno ricevuto trattamenti per uso di cocaina (dal 12% al 19,2%) e per cannabis (dal
12,5% al 14,2%).
Questi due ultimi dati evidenziano una peculiarità della Capitanata rispetto alle
tendenze nazionali: un maggior utilizzo di cocaina e cannabinoidi. Se si considerano
tutti i parametri (abuso primario o secondario), la percentuale di utenti di cocaina sale
al 52%.
La cocaina è la prima sostanza di abuso primario tra gli utenti del Sert di Cerignola
(57%) e San Severo (27%). La quota più elevata di eroinomani si riscontra nel Sert di
199
Manfredonia (96%) e Vico (77%). Quella di consumatori di cannabinoidi nei Sert di
San Severo (21%) e Margherita di Savoia (19%).
Per quanto riguarda l’uso di cocaina le incidenze più elevate, al di sopra delle medie
provinciali, si riscontrano nei Sert di Cerignola (86%), Manfredonia (71%) e San
Severo (60%).
I maschi rappresentano il 96% dei soggetti in carico. Nel 2005, il 43% degli utenti è
risultato avere una età pari o superiore ai 35 anni. Un’incidenza aumentata
progressivamente nel corso degli anni. L’incidenza degli ‘anziani’ sale se si
considerano separatamente gli utenti già in carico: tra questi la fascia più
rappresentata è quella delle persone di età compresa tra i 35 e i 39 anni (26,2%); se
consideriamo nell’insieme gli utenti già in carico di età superiore o pari ai 35 anni
l’incidenza sale al 50%.
Tra i nuovi utenti la fascia di età più rappresentativa è quella dei soggetti di età
compresa tra i 25 e i 29 anni (28%). Nei Sert di Manfredonia, Foggia e Vico
l’incidenza degli anziani supera il 50% del totale.
Il ricorso al trattamento risulta essere in maggior misura una scelta volontaria per
eroinomani (62%) e cocainomani (48%), Tra gli utenti di cannabis, acquista invece
maggiore importanza la modalità di invio legata ad una segnalazione da parte delle
forze dell’ordine (46%).
Nel 2005 il numero di soggetti sottoposti a trattamento di tipo psicosociale e/o
riabilitativo è pari al 58,2% del totale. I soggetti sottoposti a trattamenti farmacologici
sono pari al 41,8%. Rispetto al 2001 si registra un incremento dei trattamenti
farmacologici e una diminuzione di quelli di tipo psicosociale e/o riabilitativo. Tra i
soggetti sottoposti a terapie prevale il metadone (96,2%).
Nel 2005, il 6% di un campione di 916 soggetti testati è risultato positivo al test Hiv
con una maggiore incidenza degli utenti già in carico (7,2%) rispetto ai nuovi utenti
(1,2%). Le incidenze più elevate di sieropositivi si è registrata nel Sert di Lucera
(18,5%), San Marco in Lamis (13,2%) e Vico (10,3%).
Su 954 soggetti testati per l’epatite “B” e 928 per l’epatite “C”, sono stati riscontrati
casi di sieropositività nel 25,2% e nel 49% dei casi. In entrambi i casi è risultata
maggiore l’incidenza degli utenti già in carico rispetto ai nuovi sul totale (31,4% per
l’epatite “B”, 51,4% per l’epatite “C”). (10)
*
E tanto per restare in tema riferiamo sul processo “Chimera”. Un’assoluzione e
21 condanne per complessivi 92 anni e 8 mesi di reclusione nel processo ‘Chimera’ a
22 foggiani accusati a vario titolo di traffico e spaccio di cocaina, con pene che
oscillano da un minimo di 3 anni e 4 mesi ad un massimo di 8anni. La sentenza di
primo grado è stata pronunciata il 21 giugno 2008 dal gup di Bari al termine del
giudizio abbreviato chiesto dalla maggior parte dei 28 imputati per i quali il 2006 la
Dda aveva chiesto il rinvio a giudizio.
200
Il reato più grave di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio è stato
escluso per 9 imputati e ritenuto sussistente per altri 8 tra cui i fratelli Ciro e Paolo
Novelli i più noti dei 22 foggiani, in attesa di giudizio, per il loro spessore criminale,
per il loro presunto coinvolgimento nei giri di droga , per essere figli del sorvegliato
speciale Pasquale Novelli, assassinato nel luglio del 2002nell’ambito di una guerra di
mafia.
Questo il verdetto: Giuseppe Caggiano, 8 anni per traffico e spaccio di cocaina, pur
con l’esclusione d’essere uno dei promotori dcel clan dei trafficanti; 8 anni per Ciro
Novelli per traffico e spaccio con esclusione dell’aggravante d’essere il capo del clan;
a 5 anni e 8 mesi sono stati condannati, Alfonso Capotosto, Mario Esposito,
Vincenzo Guerrieri, Paolo Novelli, Antonio Paciello, Michele Piserchia; 4 anni per
spaccio a Francesco Cianci, con assoluzione dal traffico; Gianluca Vittozzi, 4 anni
per due episodi di spaccio con l’assoluzione dall’accusa di traffico di stupefacenti; 3
anni e 4 mesi a: Antonio Aquilino, Mauro Bevilacqua, Antonio Giacomo Caiaffa,
Antonio e Fabio Lioce, Lorezo Pignatiello, Pompeo Roseto, Massimiliano Sassone,
Raffaele Sbarra e Luigi Speranza; assolto e scarcerato dagli arresti domiciliari
Alessandro Brun, imputato di un singolo episodio di spaccio.
Il blitz ‘Chimera’ della Dda e della Squadra mobile foggiana scattò all’alba dell’11
novembre del 2006 con l’arresto di 24 foggiani (20 in carcere e 4 ai domiciliari), al
termine di indagini basate su intercettazioni telefoniche. L’accusa originaria
ipotizzava l’esistenza <<di una complessa organizzazione di spacciatori operante in
quattro squadre tutte collegate tra loro>> e ritenute vicine ad un clan mafioso. I
quattro microgruppi che interagivano tra loro alternandosi nello spaccio in modo da
consentire di soddisfare sempre le richieste di cocaina dei clienti che si rivolgevano
ora a una squadra ora ad un’altra.
Un riscontro alle intercettazioni telefoniche - andate avanti dal lugliop all’ottobre del
2006 – era rappresentato nell’ottica accusatoria da una serie di arresti in flagranza
per spaccio e dal sequestro di modeste quantità di cocaina. L’ndagine, poi sfociata nel
bltz ‘Chimera’, era partita nel luglio 2006 per catturare un mafioso ricercato; erano
stati posti sotto controllo i telefoni di alcuni presunti fiancheggiatori ed era emerso
invece il giro di spaccio di cocaina. (10)
*
Nello stesso alveo l’operazione <<Carpe diem>> che il 9 aprile 2008 si è
concretizzata con la sentenza della prime sezione del Tribunale di Foggia che ha
deciso per cinque assoluzioni e cinque condanne a complessivi 24 anni e 2 mesi a 10
foggiani accusati a vario titolo di traffico e spaccio di cocaina e tenta estorsione. Ha
disposto anche come pena accessoria – che scatterà soltanto se la condanna dovesse
essere confermata nei successivi gradi di giudizio – la chiusura del noto locale ‘Carpe
diem’ il cui gestore dell’epoca, Lorenzo Zinco, è stato condannato a 7 anni e 6 mesi,
la pena maggiore inflitta.
201
Il blitz antidroga di carabinieri e Dda, che prese il nome proprio dal locale ritenuto
luogo di summit e per sniffare cocaina, scattò il 6 febbraio del 2004 con 18 arresti.
L’inchiesta contava 26 imputati: 4 furono prosciolti durante l’udienza preliminare, 12
giudicati con rito abbreviato (10 condanne e 2 assoluzioni), 10 rinviati a giudizio e
processati dai giudici foggiani.
Ai vertici del presunto traffico di cocaina sull’asse Foggia-Cerignola ci sarebbe il
mafioso Giuseppe Spiritoso detto ‘Papanonno’, condannato a 12 anni in appello con
rito abbreviato per traffico di droga con assoluzione dal tentativo di estorsione al
titolare di una ditta di legname. Intorno a Spiritoso – dice l’accusa – c’erano vari
complici che lo aiutavano nell’illecito traffico.
I giudici hanno inflitto, come abbiamo già riferito, 7 anni e 6 mesi a Lorenzo Zinco,
riconosciuto colpevole di traffico di cocaina e di una serie di episodi di spaccio, con
assoluzione per altri episodi di spaccio; inflitti 6 anni e 10 mesi di reclusione a Franco
Benvenuto D’Avino, noto commerciante di carne, riconosciuto colpevole di traffico
di cocaina e di un episodio di spaccio, con assoluzione da numerose altre singole
imputazioni di spaccio e dall’accusa di aver fatto da intermediario per conto di
Spiritoso nell’estorsione a un commerciante di legname, dal quale il racket
pretendeva il pagamento del pizzo, dopo una serie di incendi nel 2002; la stessa pena
– 6 anni e 10 mesi – i giudici l’hanno inflitta a Giovanni Domenico Cibelli,
condannato per traffico e spaccio di cocaina, con assoluzione da altre singole
imputazioni di spaccio; Michele Menga è stato riconosciuto colpevole di un singolo
episodio di spaccio e condannato a 1 anno e 6 mesi, con assoluzione da altri episodi
di spaccio e soprattutto dalla più grave accusa di traffico di stupefacenti; stessa
condanna per Luciano Genzano, limitatamente ad un episodio di spaccio, con
assoluzione dal traffico e altri due episodi di spaccio.
Assolto Michele Murani imputato di traffico e spaccio di cocaina, Alfonso Gatta e
Savino Di Biase, anche loro imputati di traffico e spaccio di cocaina e, infine, assolta
anche Enrica Fabbri Calandrini, compagna di D’Avino, imputata di agevolazione
all’uso di sostanze stupefacenti per aver messo a disposizione un locale per sniffare
cocaina. (25)
*
Due presunti spacciatori Ciro Novelli e Antonio D’Elia sono stati arrestati il 7
maggio 2008 dagli agenti della sezione narcotici della squadra mobile che
perquisendo due box di via Napoli hanno sequestrato 60 grammi di cocaina e il
necessario per confezionare le dosi. Il più noto degli indagati è Ciro Novelli, già
coinvolto in vicende analoghe. Secondo i poliziotti, Novelli – nel cui box sono state
rinvenute 12 dosi di cocaina custodite in un ovulo di plastica – era il rifornitore di
D’Elia, spacciato al dettaglio, nel cui garage sono stati sequestrati 50 grammi di
cocaina ancora da tagliare ed un paio di dosi della stessa sostanza stupefacente, già
preparate.
202
L’attenzione degli agenti della narcotici – per quanto riferito da fonti investigative –
da qualche tempo si era concentrata su D’Elia, proprio perché ritenuto il ‘pusher’ di
Ciro Novelli, considerato un elemento di un certo peso nel mondo dello spaccio della
cocaina. D’Elia era stato controllato dai poliziotti in aprile 2008 e in quella occasione
segnalato alla Prefettura perché trovato in possesso di una modesta quantità di
hashish detenuta per uso personale. Il 6 maggio il giovane foggiano è stato fermato
per un nuovo controllo, conclusosi, dopo una serie di perquisizioni, con il suo arresto.
Il passo successivo della polizia è stata la perquisizione di un altro box di via Napoli
che sarebe in uso a Ciro Novelli e del quale avevano le chiavi sia il presunto
spacciatore che lo stesso D’Elia. In questo secondo garage rinvenute in un ovolo di
plastica 12 dosi di cocaina, confezionate come le due – dice la polizia – trovate nel
box di D’Elia. Ecco perché secondo la polizia i due foggiani erano soci nello spaccio.
Ciro Novelli è figlio di Pasquale assassinato la sera del 25 luglio 2002 nell’ambito
della guerra di mafia tra i clan Sinesi-Francavilla e Trisciuglio-Prencipe al quale era
ritenuto vicina la vittima. Ciro Novelli è stato coinvolto in un paio di blitz antidroga,
oltre ad essere stato arrestato un paio di volte in flagranza per spaccio. In particolare
il Novelli fu arrestato il 16 settembre 2003 nell’operazione antidroga denominata
‘Gargano’, contrassegnata da 21 arresti per due presunti distinti traffici di cocaina a
Foggia e Vieste (in primo grado fu condannato a 6 anniper singoli episodi di spaccio
e assolto dal più grave reato associativo). Nuovo arresto per il foggiano l’11
novembre 2006 nell’operazione ‘Chimera’ con 24 arresti, sempre per un presunto
traffico di cocaina in città: per quest’ultima vicenda Ciro Novelli è in attesa di
giudizio con altri 20 coimputati e il processo si celebrerà con il rito abbreviato
davanti al gup di Bari il giugno 2008. (25)
*
Quattro assoluzioni, due condanne per spaccio (con assoluzione dall’accusa però
di aver causato la morte per overdose di un cliente) e due ‘non luogo a procedere per
morte degli imputati. Si è concluso così il processo <<Pitbull>> a otto mafredoniani,
coinvolti nel blitz antidroga del 5 maggio del 2007 che portò all’emissione di 22
provvedimenti di cattura. Gli imputati rispondevano a vario titolo di decine di episodi
di spaccio di eroina, detenzione illegale di pistola, morte come conseguenza di altro
reato (morte per overdose di Michelangelo Trimigno, manfredoniano, trovato morto
nella stazione sipontina il 25 febbraio del 2006) e favoreggiamento.
Il giudice monocratico della sezione distaccata di Manfredonia del Tribunale di
Foggia, con sentenza del 29 maggio 2008, ha assolto l’imputato principale Salvatore
Manzella, imputato di una trentina di episodi di spaccio e di dentenzione illegale di
pistola. Manzella arrestato dai carabinieri il 5 maggio del 2007, è stato scarcerato.
Assolta Valeria D’Alba, assolti Antonio Murgo e Matteo Paolantonio, i due imputati,
detenuti agli arresti domiciliari, sono tornati in libertà.
203
Condannato a 6 anni e 11 mesi Cosimo Spinelli per alcuni episodi di spaccio ma
assolta dall’accusa della morte del mafredoniano, come conseguenza di altro reato.
Inflitti, infine, 7 anni e 4 mesi a Temistocle Castrioti.
Il cuore del processo <<Pitbull>> era rappresentato dalle intercettazioni telefoniche e
ambientali che – per l’accusa – dimostravano una fitta rete di spaccio di eroina. E
proprio richiamandosi a quei colloqui con termini ritenuti ‘criptici’ era stata chiesta la
condanna di tutti e 6 gli imputati.
Il blitz <<Pitbull>> di Procura e carabinieri scattò il 5 maggio del 2007 quando il gip
del Tribunale di Foggia firmò 22 ordinanze di custodia cautelare (11 in carcere e 11
agli arresti domiciliari) per un giro di eroina, in parte spacciata anche sul molo di
Manfredonia e destinata a pescatori al rientro dopo cinque giorni trascorsi in mare. La
Procura aveva poi chiesto il rinvio a giudizio di 20 imputati per 1500 episodi di
spaccio, per episodi avvenuti tra il febbraio e il giugno del 2006. Il processo si è poi
diviso in tre tronconi. Un imputato aveva patteggiato, 8 erano stati rinviati a giudizio
ed altri 11 avevano optato per il processo abbreviato davanti al gup del Tribunale di
Foggia che nell’ottobre 2007 si era concluso con 11 condanne.
L’imputato principale era ritenuto Salvatore Manzella, riconosciuto come uno dei
fornitori degli spacciatori. A Manzella si contestava inizialmente anche l’utilizzo di
un minorenne per un episodio di spaccio: da questa singola imputazione era già stato
assolto nel novembre 2007. Ora è stato assolto dal ‘grosso’ delle imputazioni ed è
tornato in libertà. (25)
*
Che faticaccia spacciare cocaina. La stufa sempre accesa, anche d’estate, per
distruggere le dosi in caso di controlli della polizia. Il conteggio delle bustine. La
cocaina sepolta sotto ulivi e vigneti che talvolta non si trovava perché nessuno
ricordava dove fosse stata occultata. Gli spacciatori ad alternarsi nelle 24 ore perché
il cliente non rimanesse mai a mani vuote quando bussava alla villa-bunker. Sono le
intercettazioni ambientali e le riprese video a raccontare il blitz <<White snake>>
(serpente bianco) della squadra mobile che all’alba del 10 giugno 2008 ha portato in
carcere 9 foggiani e un cerignolano, accusati a vario titolo di mafia, traffico e spaccio
di cocaina, detenzione e porto di armi.
Gli indagati principali sono Gianfranco Bruno, detto ‘il primitivo’, proprietario della
villa-bunker di via Bari, ritenuto il covo della banda; Pasquale Moretti, al quale il
padre ergastolano, Rocco, avrebbe dato in eredità le redini del clan. I due amici
foggiani sono ritenuti gli emergenti del clan Moretti-Pellegrino, protagonisti (e anche
vittime nel caso di Pasquale Moretti che il 16 luglio 2007 sfuggì ad un agguato)
dell’ultima guerra di mafia contro i rivali del clan Sinesi, che dal maggio all’agosto
2007 ha contato un omicidio e tre tentativi di omicidio. Nella villa-bunker di Bruno,
il clan Moretti non soltanto organizzava agguati contro i rivali – dice l’accusa – ma
aveva messo su una centrale della cocaina, dove con la droga acquistata dai
204
cerignolani veniva preparata in dosi e venduta, da una finestrella, a spacciatori e
tossicodipendenti.
<<La villa situata in località ‘Quadrone delle vigne’ di Bruno era la base operativa
del sodalizio in cui si svolgevano le attività criminali più importanti per la vita del
clan>> scrive il gip di Bari nelle 55 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare
“white snake”. <<Villa che presenta caratteristiche del tutto peculiari: situata in
aperta campagna, circondata da vigneti e terreni agricoli, nonché munita di un
sistema di telecamere a circuito chiuso col quale venivano controllate tutte le vie di
accesso (ed era rilevata immediatamente la presenza e l’avvicinamento delle forze di
polizia), ulteriormente difesa da feroci cani da guardia lungo la recinzione interna
ed esterna, che rendevano di fatto impossibile un blitz per sorprendere i soggetti che
vi operavano. tali garanzie consentivano l’attività di spaccio senza alcun contatto
telefonico preventivo, potendo gli acquirenti raggiungere la villa di Bruno e
acquistare la droga al suo interno, senza alcun pericolo di controllo da parte delle
forze dell’ordine>>.
Gli agenti della sezione criminalità organizzata della squadra mobile hanno piazzato
telecamere all’esterno della villa per vedere chi arrivava e chi usciva, dove veniva
nascosta la droga nei vigneti circostanti. E sono riusciti a penetrare nel covo,
piazzando microspie nel laboratorio interno alla villa <<dove i vari sodali
dell’organizzazione – scrive ancora il gip – si riunivano per decidere le strategie
criminali e dove provvedevano a spacciare la sostanza stupefacente>>. (25)
*
I Carabinieri hanno scoperto i ‘pusher’ del presunto clan mafioso Gaeta di Orta
Nova arrestando il 18 giugno 2008 18 persone. Erano quelli che – dice l’accusa –
vendevano al dettaglio esclusivamente cocaina, a prezzi prefissati e con guadagni già
stabiliti per evitare frizioni e contenziosi. Rivolgendosi quindi ad una clentela d’elite
composta anche da Vip. Il blitz <<Millemiglia>> dei carabinieri del Reparto
Operativo di Foggia, dei colleghi della Compagnia Dauna e della caserma di Orta
Nova, ha portato a 26 ordinanze di custodia cautelare: carcere per 9 indagati,
domiciliari per altri 9, obbligo di dimora per altre 8 persone. Complessivamente sono
32 gli indagati. Le indagini si basano su intercettazioni telefoniche e ambientali.
Il gip del Tribunale di Foggia, nell’accogliere in gran parte le richieste del pm, ha
anche disposto il sequestro preventivo di beni per un valore stimato dai carabinieri in
300mila euro: un maneggio, case, terreni, auto e moto che alcuni indagati avrebbero
acquisito spacciando cocaina in quantità industriale, secondo l’impostazione
accusatoria.
Il punto di partenza del blitz è l’operazione <<Veleno>> che il 24 settembre del 2007
portò all’arresto di 52 persone a Orta Nova accusate a vario titolo di mafia, traffici di
droga, ecomafia, truffe all’Inps, condizionamento della vita politico-amministrativa
del paese. Al centro di quella operazione c’è il presunto clan Gaeta, accusato anche di
<<controllare ad Orta Nova il mercato degli stpefacenti, adibendo allo spaccio
205
manovalanza fidata>> come scrive il gip nelle pagine dell’ordinanza di custodia
cautelare. Esponenti del clan Gaeta non sono stati arrestati il 18 giugno perché già
accusati nell’operazione <<Veleno>> del più grave reato di associazione per
delinquere finalizzata al traffico di droga: nella rete ora sono finiti i loro presunti
pusher.
Il blitz <<Veleno>> - di cui <<Millemiglia>> è una costola – si basa sulle
dichiarazioni dei pentiti ortesi Antonio Del Nobile e Antonio Turco che avevano
anche parlato delle regole dello spaccio. I Gaeta avrebbero <<imposto il monopolio
nell’offerta e nella preparazione dello stupefacente, con violenze e minacce a chi
tentava di rompere il regime>>; <<il divieto di spacciare eroina, vigente dal ’93
come nella vicina Cerignola, per l’inevitabile fragilità psicologica degli acquirenti,
con connessi pericoli per l’impunità degli spacciatori; un prezzo imposto di 150mila
lire per un grammo di cocaina, che diventavano 80mila per il mezzo grammo, un
margine di guadagno prefissato sia per spacciatore al dettaglio sia per il rifornitore;
una serie di luoghi topici per lo spaccio, tra cui la piazza principale del paese; le
chiamate da parte dell’acquirente su numeri telefonici intestati a nomi di comodo o
fittizi per rendere più difficoltosa per i carabinieri l’identificazione dello
spacciatore>>.
In questa cornice riassuntiva basata sul racconto dei pentiti si sono inserite le indagini
della Procura e carabinieri. L’attenzione si è soffermata in particolare su Pasquale
Santoro, detto ‘whisky’ e Nicola Silvestri, soprannominato ‘gamb stort’ (finiti in
carcere), ritenuti tra i principali referenti del clan Gaeta. Li collega al clan mafioso
<<I ripetuti colloqui tra Santoro e Silvestri – annota il gip – sui conti e gli acquisti
che devono effettuare col fornitore (sarebbe Andrea Gaeta); l’utilizzo, come punto di
riferimento per lo spaccio, del bar Decanter di cui è titolare la compagna di Davide
Gaeta>> che non è indagata. (25)
Beni per un valore stimato dalla Questura in 115mila euro sono stati sequestrati
dalla polizia e dai finanzieri a Giovanni Domenico Cibelli, originario di Milano e
residente a Foggia, condannato in primo grado a 6 anni e 10 mesi per traffico e
spaccio di cocaina nel processo ‘Carpe diem’. Il sequestro riguarda un’auto ‘Daihatsu
32’ e l’intero pacchetto societario di attività commerciali e conti correnti bancari
nella disponibilità del Cibelli per un valore, appunto, di 115mila euro. A Cibelli è
stata imposta anche la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Foggia.
Il sequestro di beni è una conseguenza del bltz ‘Carpe diem’ della Dda di Bari e dei
carabinieri foggiani scattata il 6 febbraio dsel 2004 quando furono arrestate 18
persone (Cibelli fu posto ai domiciliari) per un giro di cocaina sull’asse FoggiaCerignola. Principale imputato, lo ricordiamo, di quella vicenda era il mafioso
Giuseppe Spiritoso, detto ‘Papanonno’ condannato a 12 anni. Cibelli è accusato
d’aver custodito cocaina: in primo grado, l’8 aprile 2008, è stato condannato alla
pena di cui sopra. (25)
*
206
Un vero e proprio arsenale, in sostanza l’armeria della mala cerignolana, oltre a
vario armamentario utilizzato per commettere rapine ed atti criminosi ed un
sostanzioso quantitativo di cocaina e hashish. E quanto è stato ritrovato nel corso di
un blitz da una task force congiunta di agenti del Commissariato di polizia di
Cerignola, di carabinieri della locale Compagnia, con il supporto del reparto mobile
di Bari, del reparto volo di Bari, di unità cinofile provenienti da Ancona e di unità dei
Vigili del fuoco.
Le forze dell’ordine hanno assediato il rione Gran Sasso, noto anche come ‘Fort
Apache’, effettuando numerose perquisizioni domiciliari ed in locali pertinenti in un
quartiere ad altissima densità di attività illecite quali lo spaccio di stupefacenti, le
rapine e le estorsioni. L’operazione è scattata dopo che le forze dell’ordine hanno
dovuto constatare una recrudescenza di episodi intimidatori ai danni di imprenditori
locali (ben tre in un paio di settimane) nel corso dei quali erano state utilizzate delle
armi. Ed il bltz, anche se ovviamente ciascun pezzo dell’arsenale ritrovato sarà
sottoposto a perizia balistica, ha confermato che l’armeria della mala era gestita
proprio dai malavitosi del Gran Sasso, un tempo roccaforte del clan Di TommasoTaddone.
All’interno di un garage di pertinenza dell’edificio di via Gran Sasso tra i civici 2 e
12, è stata rinvenuta un’autovettura ‘Volkswagen Passat’ risultata rubata tre anni fa a
Trinitapoli nella quale, in sacchi di juta, c’erano una pistola Beretta 92 S parabellum,
munita di caricatore, con matricola abrasa, un fucile senza marca doppietta cal. 12 a
canne mozzate, 35 cartucce per pistola calibro 9 Luger, 47 cartucce per pistola calibro
6,35 Browing, 19 cartucce per fucile calibro 16,43, cartucce per fucile calibro 12.
Per quanto riguarda la droga, 211 grammi di hashish, 187 grammi di cocaina, ancora
da suddividere in dosi, 13 grammi di coca in 20 dosi già confezionate. Infine, un
metal detector, una paletta segnaletica simile a quella in dotazione alle Forze di
Polizia ed un bilancino digitale di precisione.
Nel vano alloggio ascensore del civico 22 sempre della via Gran Sasso sono stati
sequestrati invece 873 grammi di hashish, costituiti da 1 panetto da 420 gr. e da 4
barrette da 100 grammi ciascuna e ulteriori 18 stecche di vario peso e un bilancino di
precisione. Ed ancora: nel vano tecnico ascensore del civico 14 di via Gran Sasso è
stato rinvenuto un fucile carabina marca Franchi completo di silenziatore artigianale
cvalibro 22, con matricola abrasa, un fucile semiautomatico, calibro 12, senza marca
con canne mozzate, 3 pistole marca Beretta modello 85 con matricola abrasa,
complete di caricatore, 1 fucile mitragliatore automatico mod. T33 di fabbricazione
russa con sigle XR25CJCNJ calibro 7,62 Nato, un fucile calibro 28 senza marca con
matricola leggibile, un revolver senza marca e priva di matricola, una pistola marca
Beretta 950 calibro 6,35 completa di caricatore e modificata con silenziatore, una
pistola antica ad avancarica, 3 ottiche per fucile di precisione con relativi supporti, 2
serbatoi bifilari per fucile mitragliatore modello T33, un castello per pistola cal . 6,35
Fiocchi costituita da 2 confezioni da 50 cartucce, 150 cartucce per fucile calibro 7,62
Nato, 40 cartucce per pistola calibro 22 LR, 50 cartucce per pistola calibro 22 di
207
marca ‘American Eagle’, 34 cartucce per pistola calibro 6,35 Fiocchi, 130 cartucce
per pistola calibro 7,65 Browning, 100 cartucce per pistola calibro 9x21, 39 cartucce
per pistola 38 special, 24 cartucce per pistola calibro 21,16, cartucce per pistola 9x19,
10 cartucce per pistola 9x17, tredici cartucce calibro 20,42 e persino una maschera da
carnevale utilizzata per le rapine, 5 radio ricetrasmittenti da inserirsi sulle frequenze
delle forze dell’ordine, un passamontagna, 40 cartucce per fucile cal. 12, 176 grammi
dsi sostanza stupefacente verosimilmente cocaina suddivisa in tre cipollotti e tre
grossi involucri sotovuoti.
Ci rendiamo conto una noisa elencazione, ma abbiamo voluto essere puntigliosi e
precisi perché si avesse contezza della reale forza armata di questo clan. (25)
La gang del riciclaggio
Quattro persone sono state arrestate l’8 aprile 2008 dai carabinieri di Cerignola in
esecuzione di due ordinanze di custodia cautelare firmate dalla magistratura foggiana.
L’accusa è di riciclaggio, distruzione e occultamento di prove, con l’aggravante della
continuazione è stato tratto in arresto il pregiudicato Michele Cartagena,titolare di
fatto della “Eurodemolizioni”, ubicata sulla statale 16 a circa tre chilometri da
Cerignola in direzione Foggia.
L’arresto è giunto al termine di diversi controlli, il primo dei quali risale all’agosto
2006, nel corso dei quali i militari della locale stazione avevano rinvenuto nello
‘sfascio’, numerosi autocarri o parti di essi di provenienza furtiva. Quattro diversi
momenti sfociati in altrettante denunce a piede libero a carico del Cartagena (anche
se la proprietà di Eurodemolizioni cambiava in continuazione, grazie a quelli che i
militari considerano semplici prestanomi) che il Pm ha riunificato in un unico filone
(ed ottenendo), al Gip del Tribunale di Foggia , l’ordinanza di custodia cautelare in
carcere. Nel corso dei controlli erano risultati di provenienza furtiva ben 9 cabine di
autocarri, tre cassoni, 2 gru, una cella frigorifera oltre a dieci motori, sulla cui
provenienza proseguono le indagini. Gli automezzi sono risultati rubati in Abruzzo e
nelle Marche e più precisamente a Porto S. Giorgio, Montesilvano, Porto S. Elpidio,
S. Vito Chietino, Pescara.
I delitti di mafia
La provincia di Foggia si caratterizza anche per quella che una volta si definiva
“faida garganica” trasformatasi poi in guerra di mafia tra le famiglie Martino di San
Marco in Lamis da una parte e Di Claudio di Rignano Garganico dall’altra.
Il 23 giugno 2004 scattò il blitz <<Free valley>> con 23 arresti, in concomitanza con
il maxi-blitz contro la mafia garganica contrassegnato dall’emissione di 99
provvedimenti di cattura. Complessivamente sono 35 gli imputati per i quali la Dda
aveva chiesto il rinvio a giudizio. In 15 furono giudicati con rito abbreviato dal gup di
Bari che il 9 giugno 2006 ne assolse 3 e condannò 12 (per questi ultimi si è il 2 aprile
2008 concluso il processo di secondo grado in corte d’assise d’appello a Bari); altri
20 furono rinviati a giudizio e il processo di primo grado è ancora in corso, dal
dicembre 2005, in corte d’assise di Foggia.
208
Parallelo al blitz <<Free Valley>>, ma comunque estraneo alla faida tra le due
famiglie, sarebbe il duplice omicidio dei coniugi Rinaldi-Mangiacotti alle porte di
San Marco in Lamis la sera del luglio 2003. Marito e moglie erano in auto con i figli
e tornavano a casa dal loro podere quando i killer entrarono in azione subito dopo. Da
un auto fecero fuoco uccidendo Maria Rinaldi; Michele Mangiacotti scappò a piedi,
ma fu inseguito e ucciso a fucilate. La Dda contesta a cinque persone, tra mandanti ed
esecutori, l’accusa di concorso in omicidio collegato a rancori.
I giudici della corte d’assise d’appello di Bari hanno ora assolto 3 imputati e
condannato altri 9. Pena confermata – 20 anni di reclusione – per Antonio Padovano
23 anni di San Giovanni Rotondo, per il duplice omicidio dei coniugi RinadiMangiacotti (in primo grado era stato assolto dall’accusa di mafia quale presunto
affiliato al clan Martino). Confermati i 9 anni inflitti a Ciro Martino, 26 anni di San
Marco in Lamis, imputato di mafia quale affiliato all’omonimo clan, del tentato
omicidio di un rivale e di armi. Confermata la condanna a 8 anni e 4 mesi a Tommaso
Martino, 42 anni, sammarchese, per mafia, estorsione e armi. Confermati anche i 5
anni per mafia a Saverio Di Claudio, 43 anni, di Rignano, quale esponente del
presunto omonimo clan (in primo grado fu assolto da un duplice tentato omicio); i 9
anni sempre per mafia inflitti a Michele De Maio, 43 anni sammarchese, quale
presunto affiliato al clan Di Claudio (in primo grado fu assolto da un duplice tentato
omicidio); 12 anni per mafia, un duplice tentato omicidio dei rivali e furto inflitti a
Tommaso Mancini, 27 anni, di Rignano, anche lui ritenuto affiliato al gruppo Di
Claudio.
La corte d’assise d’appello ha ridotto le pene ad altri e imputati. Severino Testa, 49
anni, sanseverese, ha patteggiato una condanna a 2 anni e 4 mesi per armi. a fronte
dei 4 anni inflitti dal gup (in primo grado era stato assolto da un tentato omicidio e
dall’accusa di essere affiliato al clan Martino). Angelo Martino, 40 anni,
sammarchese, si è visto ridurre la pena a 2 anni e 6 mesi di reclusione per armi con
l’esclusione dell’aggravante delle finalità mafiose, a fronte dei 3 anni e 4 mesi del
verdetto di primo grado (quando fu assolto dall’accusa di essere un mafioso del clan
Martino). Nazario Ianno, 43 anni, sammarchese, è stato riconosciuto colpevole del
solo reato di detenzione illegale di una pistola e condannato ad un anno, pena
sospesa; in primo grado il gup l’aveva condannato a 2 anni e 6 mesi per porto illegale
di armi e assolto dall’accusa d’essere affiliato al clan Martino.
Tre le assoluzioni. Leonardo Limosani, 32 anni, sammarchese, assolto dall’accusa di
armi per le quali gli furono inflitti 2 anni e 8 mesi (con l’assoluzione dall’accusa
d’essere affiliato al clan Di Claudio e di aver partecipato al duplice omicidio di due
presunti rivali). Matteo Limosani, 43 anni, sammarchese, è stato assolto dall’accusa
di mafia quale affiliato al clan Di Claudio (3 anni in primo grado). Anche Luciano
Argentino, 27 anni, sammarchese, è stato infine assolto dall’accusa d’essere un
mafioso del clan Di Claudio (4 anni in primo grado).
Anche i giudici d’appello hanno ritenuto sussistente il reato di mafia sia per il
presunto clan capeggiato da Michele Martino (per lui pende il processo in corte
209
d’assise di Foggia), sia per il presunto gruppo al cui vertice ci sarebbe Matteo Di
Claudio (anche lui è imputato in corte d’assise).
Le due famiglie Martino e Di Claudio un tempo alleate si sarebbero scontrate –
ipotizza l’accusa – sul finire degli anni Novanta e nei primi anni del nuovo secolo.
Scia di sangue contrassegnata da numerosi omicidi e agguati falliti, alcuni dei quali
sventati dai carabinieri. Lo scopo di questa faida trasformatasi in guerra di mafia
sarebbe stato – dice l’accusa – il controllo del territorio di San Marco in Lamis e
Rignano e l’alleanza con il più forte <<clan dei montanari>> riconducibile alle
famiglie manfredoniane Libergolis e Romito. (20)
*
La Cassazione il 12 aprile 2008 ha rigettato il ricorso della difesa, il che significa
che il capo-mafia Salvatore Prencipe, si vedrà notificare in carcere un secondo
provvedimento di cattura per l’omicidio di Pinuccio Laviano, il ventottenne
scomparso a Foggia l’11 gennaio dell’89 nell’ambito di una guerra di mala tra il clan
Rizzi-Moretti e il gruppo Laviano: il suo cadavere fu decapitato e non è stato mai
rinvenuto. Precipe, che si dichiara innocente, è ritenuto uno degli amici che tradì la
vittima, uccidendola e consegnando il corpo al clan rivale. Prencipe è stato
condannato all’ergastolo in primo grado il 24 gennaio 2007 per l’omicio Laviano
pere l’omicidio Laviano con altre 3 coimputati, ma era a piede libero dopo essere
stato arrestato nel luglio 2005 e scarcerato dopo qualche settimana per insufficienza
d’indizi dal Tribunale per la libertà. Prencipe, al momento della sentenza della
Cassazione, è comunque detenuto perché condannato in primo grado a 13 anni e 8
mesi per traffico di droga ed estorsione nel maxi-processo Poseidon al clan PrencipeTrisciuoglio.
Giuseppe Laviano fu vittima della lupara bianca nell’ambito della prima storica
guerra di mafia all’interno della “Società”, come viene chiamata la criminalità
organizzata foggiana. Nella seconda metà degli anni Ottanta si fronteggiarono in città
due clan: da una parte quello capeggiato dai boss Giosuè Rizzi e Rocco Moretti
uscito vincente; dall’altro c’erano i fratelli Pinuccio e Nicola Laviano, sterminato dai
rivali. Quella guerra di mafia fu contrassegnata da una decina di omicidi., tra cui i 4
morti della strage al circolo Bacardi del primo maggio dell’86 (Rizzi sconta 30 anni
per quel massacro).
Uno degli ultimi atti della guerra, fu la lupara bianca di Pinuccio Laviano. Il boss
emergente era già scampato a tre agguati prima di sparire: l’11 gennaio dell’86 fu
ferito in una autodemolizione di via Ascoli; l’11 marzo successivo killer, rimasti
ignoti, fecero fuoco contro la porta di casa, gambizzandolo; il 14 dicembre dell’88
sfuggì ad un nuovo agguato in un bar in Macchia Gialla, nel corso del quale venne
assassinato il suo amico Mario Mondelli. Vista la situazione, il Laviano decise di
allontanarsi da Foggia per salvarsi la vita. L’11 gennaio dell’89 sale sull’auto guidata
dall’amico Franco Vitagliani. L’intenzione era farsi accompagnare alla stazione
210
ferroviaria di San Severo e da lì partire per Taranto, ma non ci arrivò mai. Da
quell’11 gennaio dell’89 del giovane foggiano si persero le tracce.
La svolta delle indagini arrivò l’8 luglio del 2006 quando, su ordinanza di custodia
cautelare chiesta dalla Dda di Bari, la squadra mobile arrestò per l’omicio Laviano
quattro esponenti di spicco della mafia foggiana: Rocco Moretti, detenuto
ininterrottamente dal luglio dell’89; il suo fedelissimo Vito Bruno Lanza; Franco
Vitagliani e appunto Salvatore Prencipe. Secondo la tesi accusatoria, basata sulle
dichiarazioni del pentito napoletano Antonio Riccardi e dal pentito foggiano Antonio
Catalano, Vitagliani e Prencipe amici di Laviano lo avevano tradito per salvarsi la
vita e non essere a loro volta uccisi dal gruppo Moretti. Il prezzo del tradimento fu
quindi la vita dell’amico: Vitagliani andò a prendere in auto Laviano sotto casa per
portarlo a San Severo, sull’auto prese posto anche Prencipe e i due uccisero (a sparare
sarebbe stato Vitagliani) l’amico, consegnando il cadavere a Moretti e Lanza ritenuti i
mandanti dell’omicidio. Il corpo fu decapitato e nel corso di un summit, svoltosi nel
gennaio 89 in un podere di Foggia, Moretti avrebbe mostrato – dice l’accusa – la foto
che lo ritraeva con la testa mozzata di Laviano.
Il 24 gennaio 2007 la Corte d’Assise di Foggia ritenne attendibile il pentito Riccardi,
mentre bollò di inattendibilità il pentito Catalano e condannò all’ergastolo i 4
imputati. In particolare Riccardi ha raccontato d’aver partecipato al summit nel quale
Moretti e Lanza mostrarono la foto, summit al quale avrebbe preso parte anche
Prencipe che gli venne presentato con un altro nome (Ciro) e gli fu indicato come uno
di quelli che avevano tradito il Laviano.
Salvatore Prencipe, come accennato, si vide notificare in carcere l’8 luglio del 2005
uno dei quattro provvedimenti di cattura per l’omicidio. Il 2 agosto successivo il
Tribunale della libertà di Bari accoglieva il ricorso e scarcerava Prencipe (che rimase
comunque in cella per altra causa) per insufficienza d’indizi. Contro quella decisione,
il pm della Dda presentò ricorso in Cassazione che il 15 dicembre del 2005 annullò il
provvedimento di scarcerazione e ordinò al Tribunale della libertà di Bari (una
sezione diversa da quella che aveva esaminato il ricorso della difesa contro il
provvedimento di cattura) per riesaminare la posizione del Prencipe. Cosa che è
avvenuta nel 2007, dopo la sentenza di condanna all’ergastolo. Il Tribunale della
libertà dispose l’arresto-bis di Prencipe. Il difensore ricorse in Cassazione bloccando
l’esecuzione del provvedimento. E quel ricorso è stato ora discusso e rigettato dalla
seconda sezione penale della Suprema Corte.
Per corollario riferiamo, che per Salvatore Prencipe arriva anche una condanna a 2
anni per calunnia nei confronti del pm Dda, per aver sostenuto in Corte d’Assise che
il processo per l’omicidio Laviano era un complotto, che i penti dicevano il falso e
che tutto gli era stato riferito dal pm.
La sentenza di condanna è stata pronunciata dai giudici del Tribunale di Lecce,
competente a pronunciarsi quando parte offesa di un reato è un magistrato di Bari.
I fatti per i quali si è celebrato il processo per calunnia si riferiscono all’udienza del 3
gennaio 2007 svoltasi in Corte d’Assise per il processo Laviano. Quell’udienza fu
211
destinata anche agli interrogatori dei 4 imputati (Rocco Moretti, Salvatore Prencipe,
Vito Bruno Lanza e Franco Vitagliani) poi condannati all’ergastolo. Prencipe si
avvalse della facoltà di non rispondere alle domande del pm e della difesa, ma rese
brevi dichiarazioni spontanee. Parlò di complotto, disse che i pentiti erano falsi, che
quanto raccontato gli era stato riferito dal pm.
Il pm chiese la trasmissione del verbale d’udienza al suo ufficio, poi mandato per
competenza alla Procura di Lecce che incriminò il mafioso per calunnia. (26)
*
Eragastolo confermato anche in appello per Franco Vitagliani, sul cui capo
pendono 6 condanne al carcere a vita. Assoluzione, con verdetto ribaltato, per
Rocco Moretti, Vito Bruno Lanza e Salvatore Prencipe che in primo grado si
erano visti infliggere a loro volta l’ergastolo. E’ la sentenza pronunciata il 12 giugno
2008 dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari nel processo-bis ai quattro mafiosi
accusati dell’omicidio premeditato e aggravato dalle finalità mafiose di Pinuccio
Laviano.
Rocco Moretti, detto ‘il porco’, boss storico della mafia foggiana, è stato assolto
dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio e colui che aveva decapitato il
cadavere del rivale, resta comunque detenuto perché sconta tren’anni per omicidio,
mafia e droga. Assolto e scarcerato Vito Bruno Lanza, detto ‘il lepre’ detenuto, per
questa vicenda, dall’8 luglio 2005, ritenuto il braccio destro di Moretti e in tal veste
indicato come istigatore e mandante dell’omicidio del rivale, alla cui decapitazione
aveva contribuito secondo l’accusa. Assolto Salvatore Prencipe, detto ‘pie’ veloce’,
che resta detenuto perché condannato a 13 anni (in primo grado) per droga ed
estorsione nel processo Poseidon: era considerato uno dei due amici che avevano
tradito Laviano, vendendolo al clan rivale per salvarsi la vita.
Solo Franco Vitagliani si è visto confermare l’ergastolo perché se nei confronti degli
altri tre imputati c’era soltanto la parola del pentito Riccardi, contro Vitagliani
c’erano due testimoni pesanti: la propria moglie e la convivente di Laviano. La
moglie di Vitagliani diventata testimone di giustizia protetta dallo Stato, ha
raccontato che il marito le confidò d’aver ucciso l’amico Laviano. La convivente
della vittima ha riferito che quando il compagno scomparve, la matina dell’11
gennaio del 1999, fu proprio Vitagliani ad andarlo a prendere sotto casa con l’auto
(circostanza ammessa dall’imputato) per portarlo in stazione a San Severo.
Il pentito Antonio Riccardi, camorrista napoletano che negli anni Ottanta aveva
vissuto tra Foggia e il Gargano entrando in contatto con la malavita locale, è stato
ritenuto inattendibile, per il suo racconto contraddittorio. Inoltre sulle presunte foto
con la testa mozzata della vittima, ha fornito ben 14 versioni differenti su chi era
ritratto e con chi. Per finire, sulla descrizione di Prencipe aveva fornito una
descrizione che non collimava con le caratteristiche fisiche e somatiche
dell’imputato. (26)
212
*
Nella storia giudiziaria di Donato Delli Carri, detenuto da 16 anni, ci è sempre
un testimone di troppo. Una volta gli è andata bene perché il teste che disse di averlo
riconosciuto mentre uccideva, al processo fece marcia indietro e l’imputato fu
assolto. Una volta gli è andata male perché il teste confermò e per quel delitto –
l’omicidio Panunzio – il killer sconta 26 anni. Ora la moglie di un pentito sostiene
d’aver visto in faccia Donato Delli Carri la sera del 28 novembre ’90 mentre uccideva
a pistolettate in via Parini Roberto Bruno.
Il mafioso si è visto, infatti, notificare in carcere il provvedimento di cattura per
l’omicidio Bruno. In cella è rinchiuso dal 7 novembre ’92: fu fermato dalla squadra
mobile nel blitz contro 13 persone scattato subito dopo l’omicidio del costruttore
Giovanni Panunzio, ammazzato la sera del 6 novembre in via Napoli: non aveva
pagato i 2 miliardi pretesi e denunciato gli estorsori. Delli Carri fu fermato per mafia
quale nipote e fedelissimo del capo mafia Roberto Sinesi che si dette alla fuga (fu
catturato a Bologna il 13 dicembre ’93) Una settimana dopo il fermo fu accusato
d’essere uno dei killer di Panunzio. Un ortese -Mario Nero che in seguito a quel
riconoscimento divenne testimone protetto dallo Stato e dovette lasciare la
Capitanata- aveva raccolto l’appello del figlio di Panunzio ai potenziali testimoni e si
era fatto avanti. Nero raccontò che portava a spasso il cane quando vide una persona
scavalcare un cancello di via Napoli, inciampare nel guinzaglio, bestemmiare,
recuperare la pistola, scappare verso un auto. Qualche secondo prima era stato ucciso
Panunzio e la persona vista da Mario Nero era Donato Delli Carri, che si dichiarò
innocente: all’ora del delitto disse che era a casa con la fidanzata poi sposata. In base
a quella testimonianza Delli Carri fu riconosciuto colpevole di omicidio e mafia,
condannato all’ergastolo nel maxi-processo Panunzio, pena ridotta in appello a 26
anni.
Per il vero, il Delli Carri era già passato per una situazione simile, ma gli era andata
molto meglio. Il 31 marzo ’91, la sera di Paqua, in viale Ofanto 33 fu ucciso il
macellaio Vincenzo Lioce. Parcheggiò la Fiat127, s’avviò verso il portone di casa
quando un killer gli sparò 4 colpi di pistola in faccia. Il 6 maggio ’91 Delli Carri
(all’epoca aveva 22anni) fu arrestato dalla squadra mobile quale killer di Lioce, un
giovane aveva detto d’averlo riconosciuto. Al processo in corte d’assise, un anno
dopo, il teste ritrattò e disse d’essersi confuso. Delli Carri fu assolto e scarcerato. Di
lì a qualche mese sarebbe stato riarrestato per l’omicidio Panunzio: da 16 anni è
rinchiuso in cella.
Ma guardiamo più da vicino il capo mafia Roberto Sinisi: becchino sospettato
d’essersi fatto strada nella “Società”, la mafia foggiana, grazie alla sua violenza e
furbizia, l’inchiesta sul “caso Bruno” comporta il primo arresto per omicidio, insieme
al nipote (figlio della sorella) suo fedelissimo.
Per tentato omicidio Roberto Sinesi era già stato arrestato vent’anni fa. Il malavitoso
fu infatti sospettato d’essere coinvolto nel ferimento di Eliseo Zanasi, il costruttore
213
foggiano attuale presidente di Confindustria colpito dalle pistolettate al petto la sera
del 29 aprile dell’88 mentre rincasava, per aver rifiutato di pagare il mezzo miliardo
di lire preteso dal racket delle estorsioni. Sinesi fu accusato del tentato omicidio e del
tentativo di estorsione ai danni dell’imprenditore in concorso con altre due persone.
Si diede alla latitanza nel maggio ‘88, fu catturato a Monte Sant’Angelo dopo un
anno e 4 mesi, il 18 settembre dell’89: dopo qualche settimana pagò una cauzione e
fu rimesso in libertà. In primo grado la corte d’assise di Foggia, sentenza del 6
giugno del ’90, lo condannò a 9 anni per ferimento di Zanasi, sentenza ribaltata in
corte d’assise d’appello a Bari, il 25 marzo del ’91, quando arrivò l’assoluzione.
L’ascesa di Sinesi ai vertici della mafia foggiana risale ai primi anni Novanta, quando
soppiantò i vecchi boss,. Sfuggì alla cattura nel blitz antimafia scattato il 7 novembre
’92 contro 13 malavitosi, poche ore dopo l’omicidio del costruttore Giovanni
Panunzio. Dalla cattura dalla latitanza, il 13 dicembre del ’93 è rimasto in cella per 12
anni e 3 mesi, sino al marzo 2006. Nel maxi-processo Panunzio e “Day bifore” degli
anni Novanta, Sinesi è stato condannato a 15 anni di reclusione complessivi per mafia
e droga.
Mentre era detenuto in carcere si è visto notificare due nuove ordinanze di custodia
cautelare, sempre per mafia: la prima il 24 giugno 2002 nel blitz <<Double edge>>
contrassegnato da 30 arresti in cui era accusato di aver fatto da paciere tra i clan in
guerra (è stato assolto); la seconda il 23 maggio del 2003 nel blitz <<Araba fenice>>
contro 23 foggiani, relativo alla guerra di mafia tra il clan Sinesi-Francavilla e il
gruppo rivale Trisciuoglio-Prencipe, contrassegnato da 14 omicidi e 4 agguati falliti
(nuova assoluzione).
Sinesi è stato scarcerato il 28 marzo del 2006 dopo 12 anni e 3 mesi di reclusione
conseguenza delle condanne per i blitz Panunzio e Day before . Libertà peraltro
durata poco più di un anno. Il 18 aprile del 2007 veniva arrestato per violazioni della
sorveglianza speciale (in primo grado gli sono stati inflitti 3 anni e mezzo). Un mese
dopo, il 16 maggio, Sinesi veniva riarrestato con altre 9 persone nel blitz
<<Osiride>> di squadra mobile e Dda contro il racket del caro estinto. Sinesi in
questa inchiesta è accusato di mafia ed estorsione: l’accusa ipotizza che il boss, socio
di una cooperativa di pompe funebri, ed altri mafiosi si sono spartiti il ricco affare dei
funerali in città. Non solo: da quell’indagine è emerso, grazie ad un pentito, che
Sinesi avrebbe incaricato una persona di pedinare in vista di un attentato ad un
magistrato foggiano, il pm Giuseppe Gatti, le cui inchieste contro la pubblica
amministrazione avevano colpito anche un politico foggiano, Sinesi si dichiara
innocente.
Ma torniamo a Delli Carri. Negli ambienti della criminalità foggiana si è sempre
attribuito l’omicidio di Roberto Bruno al gruppo Sinesi, ma fino al 12 aprile 2008 non
c’erano elementi. Elementi ora trovati grazie alle dichiarazioni del pentito Raffaele
Bruno, figlio della vittima, e della moglie testimone dell’agguato, avvenuto proprio
sotto la finestra della sua abitazione, un piano rialzato di via Parini. E’ quanto
comunicato dalla Squadra mobile di Foggia in una conferenza stampa.
214
Decisivo, quindi, il pentimento nel 2007 di Raffaele Bruno. Ha raccontato che
quando aveva 9 anni, nel giugno 85, vide il padre uccidere Ciro Delli Carri, padre di
Donato. E ha svelato che l’attuale moglie aveva assistito all’omicidio di Roberto
Bruno, non ne aveva parlato in un contesto criminale. La moglie. che all’epoca dei
fatti aveva 15 anni, ha detto di aver visto inizialmente Sinesi fare da palo e poi Delli
Carri inseguire e uccidere Roberto Bruno. Delli Carri gridò il nome della vittima e si
tolse il passamontagna per farsi vedere in faccia dalla vittima, un segnale che si
trattava di una vendetta. Nei mesi successivi la ragazza riconobbe i due killer nelle
foto di Sinesi e Delli Carri, pubblicate dal quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno
per altre vicende di cronaca. Nonostante i 18 anni trascorsi, si sono trovati, da parte
della Squadra mobile, riscontri con le dichiarazioni di pentito e moglie. Per Sinesi è il
primo arresto per omicidio: se i processi confermeranno l’ipotesi accusatoria questi
arresti possono essere una svolta nella lotta alla mafia. (26)
Come abbiamo letto, il nucleo centrale dell’accusa contro Delli Carri e Sinesi è
rappresentato dalle dichiarazioni di Luigia Capobianco e del marito Raffaele Bruno.
Tuttavia il gip, nell’ordinanza di custodia cautelare, ricorda come anche un altro
pentito, Catalano, abbia indicato Sinesi quale responsabile dell’omicidio Bruno.
Antonio Catalano, killer della mafia, reo confesso di 4 omicidi compiuti tra Foggia e
Lucera, collabora con la Giustizia dal gennaio del 2005 ed è sempre stato vicino dichiara – al gruppo Sinesi. Pochi giorni dopo essersi pentito, Catalano parlò anche
dell’omicidio di Roberto Bruno <<attribuendone la responsabilità al gruppo
capeggiato da Roberto Sinesi per vendicare la morte di Ciro Delli Carri>>, come
scrive il gip nel provvedimento di cattura contro zio e nipote. Catalano ha raccontato
d’aver appreso i particolari dell’omicidio di Roberto Bruno (che lui sostiene essere
stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Ciro Delli Carri) da tre malavitosi
foggiani, in distinte occasioni, mentre erano detenuti nel carcere di Foggia. Un paio
delle sue presunte fonti sono ancora vive, la terza è morta ammazzata: si tratta – a
dire del pentito - di Angelo Gallucci, detto ‘il pilota’, mafioso foggiano ferito
gravemente a testa e spalle, in un agguato il 10 maggio del 2003 quando rimase
paralizzato e morto due anni dopo, nell’agosto 2005, in seguito ai postumi di quelle
lesioni. (26)
*
LA MATTANZA – La Corte d’Assise di Foggia il 29 maggio 2008 ha comminato
il quarto ergastolo a Carmine Imacolato Cascio (già condannato in primo grado ad
altri tre ergastoli), detenuto dal giugno 2005, presunto mafioso foggiano riconosciuto
colpevole di aver guidato la ‘Citroen Xantia’ usata per uccidere Pasquale Novelli, il
sorvegliato speciale assassinato a colpi di pistola davanti casa, i mini-alloggi di corso
Roma, la sera del 25 luglio 2002, nell’ambito della guerra tra il clan SinisiFrancavilla e il gruppo Trisciuoglio-Prencipe. Quale esecutore materiale
dell’omicidio Novelli è stato già condannato, con sentenza ormai definitiva Franco
Vitagliani, killer di punta del clan Sinisi-Francevilla ala quale sarebbe affiliato anche
Cascio, che si dice innocente.
215
Avevano testimoniato quattro pentiti – Antonio Del Mobile, Antonio Catalano, Yuri
Allegretti e Gerardina Caruso – che sono stati concordi nel dichiarare che proprio
Cascio aveva guidato l’auto per l’agguato, mentre Vitagliani aveva fatto fuoco.
Pasquale Novelli fu ucciso nell’ambito della guerra di mafia tra i clan SinisiFrancavilla e Trisciuoglio-Prencipe che in 15 mesi – dal luglio 2002 all’ottobre 2003
– contò 14 omicidi e 4 agguati falliti. Novelli doveva essere ucciso per un duplice
motivo, secondo Dda e pentiti: gestiva il traffico di cocaina per il clan TrisciuoglioPrencipe; Vitagliani voleva inoltre vendicare l’omicidio del fratello Paolo (giugno
’98) in quanto riteneva che proprio Novelli avesse nascosto lo scooter e le armi usate
per uccidere il familiare.
La sentenza, di primo grado per il momento, dice che Carmine Cascio, autista di
fiducia del killer Vitagliani, per quattro volte avrebbe guidato le auto utilizzate in
altrettanti agguati collegati alla guerra di mafia del 2002/2003, la più cruenta delle
cinque che hanno caraterizzato la ventennale storia della <<Società>>, la mafia
foggiana. Una guerra dove cacciatori e prede avevano ruoli interscambiabili, se si
pensa che gli stessi Cascio e Vitagliani sono sfuggiti ad agguati tra il marzo e il
maggio 2003. I due ergastolani sono ritenuti componenti del gruppo di fuoco del clan
di appartenenza che approfittando della detenzione di gran parte dei rivali del gruppo
avverso, scatenò l’offensiva tra l’estate 2002 e la primavera del 2003 con una serie di
omicidi, prima che il bltz ‘Araba Fenice’ del 23 maggio 2003 sgominasse il clan con
23 arresti.
Cascio non fu arrestato in quell’occasione, ma due anni dopo – il 30 giugno del 2005
– quando fu arrestato per tre omicidi per i quali nel marzo 2007 è stato condannato
dalla Corte d’Assise ad altretanti ergastol, insieme al suo amico Vitagliani.
Quest’ultimo sparava e poi confidava <<ho stutato pure a questo>>, e Cascio
guidava, questo dicono i processi di primo grado. In particolare Cascio è stato
condannato al carcere a vita per l’omicidio di Luigi La Daga, il giovane becchino
assassinato nella sua impresa di pompe funebri al Carmine Vecchio il pomeriggio del
30 agosto 2002; di Teodorico Casorio, il camionista freddato in un bar di via Dorso la
sera del 22 ottobre del 2002; di Armando Laccetti, il giovane ucciso al Cep la sera del
5 novembre dello stesso anno. La ‘colpa’ delle vittime era l’essere vicine, o
comunque essere ritenute vicine, al gruppo Trisciuoglio-Prencipe al quale il clan
avverso aveva dichiarato guerra.
Cascio avrebbe visto la morte in faccia, questa volta da vittima, la sera dell’11
maggio 2003. Era al Cep quando alcuni killer scesero da un auto sparando con due
pistalo ma senza colpirlo. Il giorno prima era caduto sotto i colpi del clan SinesiFrancavilla Angelo Gallucci deto ‘il pilota’, ritenuto vicinino al gruppo TrisciuoglioPrencipe. La morte di Cascio doveva essere la risposta all’agguato contro Gallucci:
Cascio ha sempre negato d’essere scampato ad un agguato nel maggio 2003, la
squadra mobile dice il contrario. (26)
*
216
Due ergastoli per Franco Vitagliani a fronte dei tre del processo di primo grado;
30 anni per mafia e concorso in due omicidi al complice Carmine Cascio a fronte dei
3 ergastoli del verdetto di Foggia; pena ridotta da 15 a 12 anni di carcere per la
pentita Gerardina Caruso riconosciuta colpevole di un omicidio e di concorso esterno
in associazione mafiosa; assolto Franco Russo, condannato in primo grado a 28 anni
per omicidio. E’ la sentenza, pronunciata il 26 giugno 2008 dalla Corte d’Assise
d’Appello di Bari nel processo-bis per tre omicidi avvenuti in città tra l’agosto e il
novembre 2002 collegati alla guerra di mafia tra il clan Sinesi-Francavilla, cui sono
ritenuti affiliati i quattro imputati e i rivali del gruppo Trisciuoglio-Prencipe, al quale
erano ritenute vicine le vittime.
Vitagliani è stato condannato all’ergastolo quale esecutore materiale degli omicidi di
Teodorico Casorio, il camionista assassinato in un bar di via Guido Dorso il 22
novembre 2002 e di Armando Laccetti, ammazzato al Cep la sera del 5 novembre
2002. E’ stato invece assolto dall’accusa di essere uno dei killer di Luigi La Daga, il
giovane becchino ucciso nella sua impresa di pompe funebri a Carmine Vecchio il
pomeriggio del 30 agosto 2002. Cascio è stato riconosciuto colpevole di mafia,quale
affiliato al clan Sinesi-Francavilla e di aver guidato l’auto usata per gli omicidi
Casale e Laccetti, accompagnando Vitagliani. I giudici gli hanno riconosciuto le
attenunati generiche condannandolo a 30 anni. E’ stato invece assolto dall’accusa di
aver fatto da autista a Vitagliani anche per l’omicidio La Daga. Assolto Franco
Russo, nipote del boss Roberto Sinesi, dall’accusa di essere insieme a Vitagliani uno
degli esecutori materiali dell’aomicidio La Daga. Russo è stato scarcerato per questa
vicenda, ma resta detenuto perché condannato in primo grado all’ergastolo per un
altro omicidio collegato alla guerra di mafia del 2002/2006, quello di un altro
becchino, Francesco De Luca, ucciso nella sua impresa il pomeriggio del 19 aprile
2003.
I giudici d’appello hanno ritenuto responsabile dell’omicidio La Daga la sola pentita
Gerardina Caruso, già convivente di un malavitoso del clan Sinesi-Francavilla
(Silvano Bruno), ucciso nell’ottobre 2003 sempre nell’ambito della guerra di mafia.
La Caruso stessa aveva ammesso di aver pedinato, su ordine del clan, il becchino e i
giudici hanno ritenuto questo pedinamento un concorso materiale dell’omicidio: la
collaboratrice di giustizia si è vista rifurre la pena da 15 a 12 anni (è stata
riconosciuta colpevole anche di concorso esterno in associazione mafiosa). (26)
Il racket del <<caro estinto>> e un misterioso progetto di attentato
Il racket del <<caro estinto>> aveva acquisito il monopolio dei funerali a Foggia,
spartendosi i compiti e accaparrandosi il settore dei decessi in ospedale. Imponeva
inoltre un pizzo di 500 euro alle imprese funebri, estranee al cartello mafioso, per
ogni funerale celebrato in città.
217
Godeva di una fitta rete di favoreggiatori e complici tra medici, infermieri, dipendenti
ospedalieri, autisti di ambulanze e vigilantes in servizio agli Ospedali Riuniti per
essere subito informato – in cambio di soldi – dei decessi dei pazienti in modo da
potersi presentare per primi dai familiari dei defunti e ottenere l’incarico.
Si è così conclusa il 18 aprile 2008 l’inchiesta <<Osiride>>, così come la raccontano
la squadra mobile e il pm Dda di Bari, nei confronti di 38 persone per le quali è stato
chiesto il rinvio a giudizio.
Sono accusati a vario titolo di mafia; 5 tentativi di estorsione; 7 estorsioni portate a
termine; 2 episodi di falso e omissione di atti d’ufficio; 11 casi di corruzione; 2
peculati;1 favoreggiamento, minacce e violazione della sorveglianza speciale.
Il 16 maggio 2008 scadranno i termini di carcerazione entro un anno dall’arresto – il
blitz Osiride è del 16 maggio 2007 con 10 arresti, 9 persone sono ancora detenute – si
deve arrivare al rinvio a giudizio altrimenti scatta la scarcerazione. Molti imputati
sono intenzionati a chiedere il giudizio abbreviato.
In attesa di giudizio: 12 becchini, 2 medici, 6 vigilantes, 5 tra dipendenti e infermieri
degli Ospedali Riuniti e del <<Don Uva>>, 7 autisti di ambulanze, 3 dipendenti
comunali in servizio al cimitero. Il Gup del Tribunale di Bari ha già fissata l’udienza
preliminare per esaminare le richieste di 38 rinvii a giudizio.
Ogni mese a Foggia si celebrano circa 120 funerali con una spesa media tra i 2500 e i
3000 euro. Moltiplicato per un anno significa in teoria affari dell’ordine di 3 milioni e
mezzo. Certo non tutti i funerali saranno gestiti dal presunto cartello mafioso, ma
secondo la tesi accusatoria – basata su intercettazioni, testimonianze e pentiti – i boss
foggiani avevano trovato un accorso per spartirsi il mercato.
Al vertice di questo clan ci sarebbero il boss Roberto Sinesi, becchino, socio
dell’impresa funebre <<Angeli>> di via San Lorenzo; Raffaele Tolonese, altro
elemento di primo piano della mafia dauna, pure lui becchino dipendente delo
<<Centro servizi funebri>>, ritenuto il socio occulto dell’impresa <<L’Annunziata>>
di via Lucera; l’altro boss Federico Trisciuoglio , estraneo al mondo dei funerali ma
ritenuto al vertice del clan di cui farebbe parte anche Tolonese.
I clan Sinesi-Francavilla e Trisciuoglio-Prencipe erano stati rivali nella guerra di
mafia del 2002/2003 contrassegnata da 14 omicidi e 4 agguati fatti in 15 mesi. Con le
scarcerazioni nei primi mesi del 2006 di Sinesi e Tolonese, dopo lunghi periodi di
detenzione sarebbe stata siglata una pax mafiosa, mettendo da parte (per il momento)
i propri morti ammazzati per fare affari sui morti altrui, secondo l’impostazione
accusatoria.
Il cartello mafioso avrebbe previsto che all’impresa di pompe funebri <<Angeli>> di
Sinesi (e altri 4 soci coinvolti nell’operazione Osiride) toccava presidiare gli Ospedali
Riuniti, tramite una fitta rete di complicità e convivenze per avere subito la notizia
della morte dei pazienti in modo da intervenire tempestivamente e ottenere l’incarico
dei familiari del defunto per eseguire i funerali. A Tolonese e la sua impresa
<<Annunziata>> spettava il recupero delle salme in occasione di incidenti e
218
soprattutto il monopolio sul disbrigo delle pratiche amministrative per ogni funerale,
con un incasso fisso di 250 euro.
Le imprese di pompe funebri foggiane e della provincia, estranee a questo accordo,
erano costrette a pagare – da qui l’accusa di estorsione e tentata estorsione – un pizzo
di 500 euro per ogni funerale. Sono complessivamente 12 le estorsioni, tentate e
portate a termine, contestate dalla Dda: in 10 casi le vittime sono impresari di pompe
funebri. Un paio delle presunte vittime – Ciriaco Palumbo e Vincenzo Benedettini –
sono ora imputate di favoreggiamento perché avrebbero negato di aver subito
richieste estorsive.
Il monopolio del boss Sinesi e della sua impresa <<Angeli>> presso l’ospedale
passava – dice l’accusa – attraverso una <<fitta rete di complicità e connivenze>>.
Due medici sono accusati di falso e omissione d’atti d’ufficio per aver sostenuto che
due pazienti morti erano ancora vivi, in modo da consentire all’impresa <<Angeli>>
di traslare le salme. Tre dipendenti comunali in servizio al cimitero (tra cui Ciro
Moffa ritenuto socio occulto della <<Angeli>> e braccio destro del boss Sinesi)
rispondono di corruzione per aver indotto i parenti ad acquistare articoli funerari
forniti in esclusiva dagli <<Angeli>> e l’avrebbero fatto in cambio di denaro. Autisti
di ambulanze, infermieri e dipendenti degli Ospedali Riuniti e del <<Don Uva>>,
vigilantes in servizio al Riuniti rispondono a loro volta di corruzione perché in
cambio di soldi avrebbero informato i soci degli Angeli di persone appena decedute
in ospedale oppure in fin di vita. Due vigilantes rispondono anche di peculato perché,
per informare i soci degli Angeli della presenza di due salme in obitorio, avrebbero
usato una linea telefonica degli Ospedali Riuniti.
Come si è letto la mafia foggiana con il pensiero della morte ci campava. Se la morte
nella stagione di sangue 2002/2003 era stata una questione di leadership tra clan che
si fronteggiavano contabilizzando omicidi in serie industriale; negli anni 2006/2007
gli ex nemici avevano siglato la pax mafiosa su una bella bara da riempire di soldi.
Meglio far di conto sui morti altrui, naturali che piangersi i propri morti, ammazzati,
si sono detti il boss Roberto Sinesi e Raffaele Tolonese, accomunati dal lavoro di
becchino e dall’essere nel top ten del crimine organizzato foggiano.
Quella fitta rete di complicità in ospedale – necessaria ai becchini per essere
informati dei decessi quando il morto era ancora caldo – sarebbe invece da qualificare
sotto la voce malcostume e corruzione da quattro soldi, se l’interlocutore del medico,
dell’infermiere, del vigilante, dell’autista non fosse un boss mafioso.
Ecco perché l’inchiesta <<Osiride>> con le 38 richieste di rinvio a giudizio è
qualcosa più di un semplice blitz antimafia. Perché tratteggia – pur in attesa delle
sentenze – un mondo di potere gestito da un capo-clan. (29)
*
A margine del caso <<caro estinto>>, si collocano le dichiarazioni di una ex
guardia giurata Antonio Niro, originario di San Severo, che ha parlato, tra l’altro, di
un progetto per uccidere un pm che indagava su un politico foggiano.
219
Nell’estate 2006, a detta del Niro, Roberto Sinesi gli avrebbe affidato l’incarico di
pedinare il pm Giuseppe Gatti, al suo arrivo alla stazione (vive fuori Foggia) per
ammazzarlo. Sulle basi di queste rivelazioni il 2 marzo 2007 fu assegnata la scorta la
magistrato che si occupa di reati contro la pubblica amministrazione.
Nella richiesta di rinvio a giudizio contro 38 imputati del blitz Osiride, il
pedinamento di Gatti non figura tra i capi di imputazione, né il politico è imputato,
anche perché, in nessun passaggio della sue rivelazioni il pentito ha detto che fu il
politico a chiedere al mafioso di colpire il magistrato. E’ pur vero che il presunto
progetto d’attentato contro Gatti, nella ricostruzione dell’accusa, è comunque un
elemento importante per ricostruire la rete di potere mafioso gestita dal boss Sinesi,
una volta tornato in libertà nel marzo 2006 dopo 13 anni in cella per mafia e droga.
Ma andiamo con ordine a riferire i fatti, così come narrati dal Niro, se pure
sinteticamente.
Intanto il pentito definisce il suo ruolo nell’organizzazione che era di killer e di
consegnatario di grossi quantitativi di sostanza stupefacente. Fu presentato al Sinesi
da Ciro Moffa, personaggio incontrato nell’operazione Osiride, che lo raccomandò
come persona tranquilla non pregiudicata. Il capo-clan, sempre secondo il racconto di
Niro, gli consegnò una pistola con la quale doveva attentare alla vita del magistrato.
Sulle ragioni per cui il boss voleva colpire il magistrato, il racconto appare alquanto
confuso. Il giudice, per Sinesi, era una persona scomoda che stava indagando su un
politico, l’unico che riusce ad affidargli appalti presso società. Pare di intuire, almeno
dalle notizie fornite dal Niro, che il timore del boss fosse che col politico avrebbero
colpito anche una società foggiana nella quale aveva interessi, anche sotto forma di
dipendenti ivi assunti.
Il Sinesi voleva sapere chi andava a prendere il magistrato in stazione, quando
arrivava con il treno, il percorso che seguiva l’automezzo per raggiungere il posto di
lavoro del Gatti.
Niro ha confessato che non se la sentì di portare avanti il pedinamento. Né obedì
all’ordine di attirare in trappola, nel luglio del 2006, una persona che doveva essere
ammazzata: si trattava del becchino Giuseppe Scopece, nipote di Sinesi, poi
effettivamente scomparso il 6 novembre 2006, vittima di lupara bianca.
Niro cominciò quindi a prendere le distanze da Moffa e Sinesi, si allontanò da
Foggia, fittò case senza fornire il suo nome per timore di essere rintracciato.
Nel gennaio 2007 sostiene, ancora, d’essere sfuggito ad un agguato a San Severo, fu
così che decise di presentarsi alla squadra mobile e di collaborare.
Sinesi, da parte sua, interrogato dopo l’arresto del 16 maggio 2007 per il blitz
Osiride, respinse le accuse di mafia ed estorsione per il pizzo imposto ad alcune
imprese di pompe funebri. Negò qualsiasi coinvolgimento nel progetto di attentato
contro Gatti, dicendo di non conoscere nemmeno il pentito che l’ha tirato in ballo. (29)
220
Reati in agricoltura
Furti di bestiame – Blitz Limousine
Rubavano centinaia di bovini in allevamenti del centro e nord Italia, li portavano a
San Severo e sul Gargano dove il bestiame veniva macellato – in mattatoi clandestini
o in strutture ufficiali grazie a compiacenze – per poi venderli regolarmente sul
mercato. Il nucleo del clan di ladri di bestiame, smantellato da carabinieri e Procura
di Verona, è nella zona tra San Severo, Apricena e il Gargano. Infatti delle 42
ordinanze di custodia cautelare firmate dal gip di Verona su richiesta del pm, ben 28
sono state eseguite (27 in carcere, una ai domiciliari) in Capitanata.
I 42 indagati del blitz <<Limousine>> - carcere per 34, domiciliari per 2, obbligo di
dimora per 6 – sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, furti di
bestiame, falso in atti pubblici, violazione sigilli, per fatti tra il maggio 2006 e il
giugno 2007. Sono 54 i furti di bestiame registrati in allevamenti di Veneto, EmiliaRomagna, Marche, Abruzzo, Toscana, Umbria, Lazio, Molise e Campania. Rubati
complessivamente 770 bovini, 122 maiali, 93 pecore e 91 cavalli per un danno
nell’ordine di 1 milione e 264mila euro. Durante le indagini recuperati 242 capi di
bestiame (180 bovini, 52 maiali, 10 cavalli) sequestrati 13 camion, arrestate in
flagranza 10 persone. Il giro d’affari – dicono i carabinieri – supera i 2 milioni di
euro.
Il blitz è stato denominato <<Limousine>> dal nome di una pregiata razza di bovini;
le indagini sono dei carabinieri di Verona, dei colleghi del Comando provinciale di
Foggia, Nas (nucleo antisofisticazioni) e Noe (nucleo operativo ecologico). Il 19
aprile 2008, nell’ambito dell’operazione, che ha visto impegnati 240 militari
dell’Arma, i carabinieri del Nas hanno sospeso l’impianto di macellazione del
mattatoio di Foggia su via Manfredonia. Nessuna violazione delle norme penali, ma
sono state riscontrate violazioni di norme amministrative e condizioni igienicosanitarie deficitarie. In un allevamento di San Severo sequestrati 40 bovini: se ne sta
accertando la provenienza.
L’indagine è partita dopo il furto di 40 bovini in un allevamento di Nogara, vicino
Verona, il 12 maggio 2006 per un valore di 60mila euro. Sono seguiti colpi con le
stesse modalità. <<I ladri si muovevano di notte con più ‘batterie’ contestualmente,
scegliendo vari obiettivi. – questo il racconto dei carabinieri – Optavano per
allevamenti privi di guardiani e sistemi di allarme. C’era un’auto con 3 persone a
bordo che effettuava il sopralluogo e slegava il bestiame per poi dare il via libera ai
complici a bordo di un camion parcheggiato a un paio di chilometri di distanza:
sopraggiungeva e si caricava il bestiame>>. Veniva predisposta anche falsa
documentazione di accompagnamento e si sceglievano di solito animali ormai pronti
per essere macellati. I bovini rubati venivano trasferiti in allevamenti dell’alto
Tavoliere e del Gargano per essere macellati dopo qualche giorno, << in mattatoi
clandestini oppure in strutture che non effettuavano alcun controllo. La carne veniva
poi venduta da macellai compiacenti: tra gli arrestati ci sono infatti molti macellai e
allevatori. Sia chiaro che non ci sono grossi pericoli per la salute, visto che risulta
221
soltanto la macellazione di un unico capo di bovino affetto di tubercolosi. Però è
anche vero che la carne finita sulle nostre tavole non veniva sottoposta a tutti quei
controlli necessari e previsti>>.
La svolta alle indagini è arrivata quando si è scoperto che due sanseveresi erano stati
controllati nelle adiacenze di alcuni allevamenti poi finiti nel mirino dei ladri. Sono
scattate intercettazioni telefoniche che hanno consentito – dice l’accusa – di
ricostruire il modus operandi e il giro d’affari, ma anche di intervenire in flagranza in
alcuni furti arrestando i ladri. Tra i principali indagati dell’operazione ci sarebbero i
foggiani Ciro Mazzeo, Carmine, Maurizio e Giovanni Delli Calici, Massino Natale,
Settanni e Angelo De Biase. (29)
La fabbrica dell’olio sofisticato
Il 21 aprile 2008 una brillante operazione del Nas di Bari ha portato all’arresto di 39
persone a Cerignola (29), Foggia, Milano, Brindisi, Varese, Campobasso, Napoli,
Latina; ed al sequestro di 4 oleifici a Cerignola e Foggia, 2 ditte di autotrasporti di
Cerignola, una fabbrica di lattine a Modugno.
Quattro distinti clan cerignolani – dice l’accusa – acquistavano olio di semi (talvolta
geneticamente modificato come una ingente partita arrivata dagli USA), lo
mischiavano con clorofilla e betacarotene, lo imbottigliavano come olio extravergine
d’oliva prodotto da ditte fantasma, lo vendevano in tutta Italia a ristoranti, pizzerie,
piccoli supermercati, negozi di generi alimentari (escluso il coinvolgimento di
supermercati della grande distribuzione).
Le 39 ordinanze di custodia cautelare (25 in carcere, 14 ai domiciliari) sono stati
firmati dal gip del Tribunale di Foggia che ha quasi integralmente accolto le richieste
del pm che chiedeva 42 arresti. Gli indagati sono accusati a vario titolo di
associazione per delinquere finalizzata alla truffa ed alla frode in commercio,
contraffazione e commercio di sostanze adulterate, vendita di sostanze non genuine
spacciate come genuine, commercializzazione di sostanze alimentari mischiate con
sostanze di qualità inferiore. I fatti contestati vanno dal 2006 al 2007. Nell’ambito
delle indagini sequestrate 15 mila lattine vuote (da riempire ciascuna con 5 litri d’olio
spacciato per extravergine d’oliva); 33 mila etichette di marchi inesistenti da
attaccare a bottiglie e lattine; 5 mila lattine già piene di olio sofisticato per un totale
di 250mila litri; 2800 bottiglie da un litro; 250 chili di clorofilla; 7 tra oleifici, ditte di
trasporti e di lattine, il tutto per un valore stimato in 10 milioni di euro.
In conferenza stampa, per il racconto dell’operazione, si è sottolineata l’importanza di
aver evitato che l’olio sofisticato arrivasse al consumatore. Si è ancora spiegato che
dal momento in cui sono partite le indagini nel 2006, dopo il sequestro di una partita
d’olio spacciata per extravergine vicino Torino, sono scattate intercettazioni
telefoniche che hanno consentito di seguire in tempo reale le strategie dei quattro clan
cerignolani. Parlavano liberamente al telefono e questo ha agevolato il lavoro svolto
dai Nas sequestrando il prodotto sofisticato negli oleifici oppure sui camion che lo
trasportavano o al momento dell’arrivo al destinatario. Alcuni acquirenti erano
consapevoli d’aver acquistato olio sofisticato , altri erano in buona fede. Tant’è che
222
proprio dalle analisi fatte fare all’olio acquistato da un commerciante, che ha scoperto
trattarsi di olio di semi, è partita la segnalazione al Nas di Torino, che ha dato il via
all’indagine. Si parla di un giro d’affari milionario, dato che la documentazione
contabile acquisita denuncia che uno dei clan individuati aveva acquistato olio di
semi per un valore di 2 milioni di euro. Il guadagno è facile calcolarlo: un litro d’olio
sofisticato, tenendo conto anche del costo di lattina ed etichetta, all’organizzazione
veniva a costare 80 centesimi sul mercato lo si vendeva a 4/5 euro, con un ricarico di
400/500 per cento. E’ stata di certo un’operazione brillante perché ha impedito che
questo traffico nazionale diventasse internazionale, visto che c’erano partite destinate
in Usa, Svizzera e Germania.
Box di autoparchi, casolari, garage, qualche volta anche oleifici. Ecco la ‘fabbrica’
dell’olio sofisticato, sfornato in produzione industriale da quattro presunti clan
cerignolani, scoperta dai carabinieri del Nas. Clan strutturati – dice l’accusa –
secondo compiti precisi: fornitori di olio di semi e lattine, addetti alla sofisticazione,
trasportatori, distributori e commercializzatori.
Gli acquirenti: Alberghi di San Giovanni Rotondo e Abano Terme; un mercato
rionale di Monza; negozi all’ingrosso di alimentari vicino Padova e ad Abano Terme;
ditte di prodotti alimentari vicino Modena; ristoranti, trattorie, pizzerie, panifici di
Modena e provincia, di Reggio Emilia; negozi di generi alimentari, panifici,
salumerie, macellerie, ristoranti di Milano e dell’hinterland milanese.
Le indagini della Procura, che riunito in un unico procedimento 52 distinte
segnalazioni di olio adulterato giunte da tutta Italia, hanno consentito di individuare –
dice sempre l’accusa – 4 distinti clan che operavano a Cerignola, producendo olio
‘taroccato’. Ci sarebbe il gruppo Pedico composto da 8 persone: (Rosario e Antonio
Pedico, Diroma, Ricciardone, Stefano Napolitano, Castellana, Flaccomio), accusati di
aver prodotto olio sofisticato sotto la copertura di ditte inesistenti: <<coop agricola
La Torre>>, <<Casale Santa Maria>>, <<Il frantoio>>, <<il Nobile>>.
C’era il gruppo Sinerchia-Giannatempo composto da 35 persone (Giannatempo,
Sinerchia, Piacentino, Nicola Frasca, Mastropietro, Casanova, Crescenzio, Matteo e
Luigi Strafezza, Boldri, Petruzzello, Salvatore Napolitano, Vaira, Flaccomio, Russo,
Giovanni Battista Compierchio, Norante, Branca, Totaro, Dibisceglie, Paciletti,
Vaglia, Galanti, Albanese, Cosimo e Francesco Perchinunno, Bollino, Izzi, Capuano,
Carnevale, Posa, Porciello, Alibrandi, Pizzinato e Pegoraro) che avrebe prodotto olio
sofisticato sotto la copertura di quattro ditte inesistenti: <<castello degli ulivi>>,
<<uliveto di Piacentino>>, <<gocce d’oro>>, <<Spremuta d’oro>>.
Il terzo gruppo denominato Errico sarebbe composto da 11 persone (Errico,
Perchinunno, Gisorio, Quarta, Angelo e Francesco Catapano, Timofti, Mastropietro,
Flaccomio, Norante e Sinerchia) che avrebbe prodotto olio sotto la copertura di
queste ditte fantasma: <<azienda agricola Perchinunno>>, <<azienda agricola
Rossignuolo>>.
Il quarto presunto clan di sofisticatori farebbe capo a Paolo Merra e altre sei persone
(Pietro e Gennaro Frasca, Giuseppe Totaro, Scarcelli, Norante e Sinerchia) che si
223
sarebbe servito di queste ditte inesistenti: <<agricola olearia pugliese>>,
<<eurocatering>>, <<Puglia-antiche tradizioni>>. (29
Le rapine della <<Società>>
Due grosse rapine furono messe a segno a Foggia nel ’96.
La prime il 31 gennaio al deposito dei monopoli di Stato di via Spalato (sottratte 3
tonnellate e 700 chili di sigarette per un valore di 823 milioni di lire). La seconda il
24 ottobre ai danni della ditta di trasporti <<Effediemme>> sulla circumvallazione,
quando furono rapinati 6 camion carichi di generi alimentari per un valore di 100
milioni di lire.
Il processo ai presunti responsabile si è svolto davanti al gup di Bari perché la Dda,
contestava ai 4 imputati l’aggravante della mafiosità per aver compiuto la rapina per
agevolare la <<Società>>, la mafia dauna.
La sentenza pronunciata il 22 aprile 2008 ha condannato soltanto il pentito Antonio
Catalano, assolti gli altri tre imputati che il collaboratore di Giustizia aveva chiamato
in causa.
Antonio Catalano, foggiano, killer della mafia, pentitosi il 4 gennaio del 2005 dopo
esser stato arrestato per omicidio, è stato condannato come reo confesso a 2 anni e 8
mesi per la rapina ai monopoli, assolto invece4 per il colpo alla ditta di trasporti (pur
coinvolto, aveva detto d’essersi poi tirato indietro). Felice Direse, foggiano, ritenuto
elemento di spicco della mafia dauna, è stato assolto dall’accusa di aver partecipato
ad entrambe le rapine. Stesso verdetto per Mario Luciano Romito, manfredoniano,
ritenuto al vertice del <<clan dei montanari>> (peraltro assolto in primo grado
dall’accusa di mafia nel maxi-processo alla mafia garganica), anche lui accusato di
entrambe le rapine. La terza assoluzione ha riguardato Franco Romito,
manfredoniano, fratello di Mario Luciano, presunto mafioso (pure assolto nel maxiprocesso) accusato di rapina ai monopoli. L’inchiesta originariamente contava un
quinto imputato, il foggiano Luigi Mazzola, sospettato della rapina alla
<<Effediemme>: le accuse contro di lui erano state archiviate.
Per questa vicenda la squadra mobile, su ordinanze firmate dal gip di Bari e chieste
dalla Dda, aveva arrestato l’8 luglio del 2005 sia Direse sia i fratelli Romito (il
foggiano è attualmente detenuto per altra causa, come Franco Romito);
successivamente i 3 imputati erano stati scarcerati.
Catalano, quando si pentì a gennaio 2005, parlò anche delle rapine avvenute nel ’96
dicendo d’aver partecipato all’assalto al deposito dei monopoli e di essere stato
coinvolto nel successivo colpo alla <<Effediemme>>. I due fratelli Romito, Direse e
Catalano erano accusati della rapina compiuta all’alba del 31 gennaio nel magazzino
dei monopoli di Stato. Otto banditi, a volto coperto ed armati, sequestrarono alcuni
dipendenti, chiudendoli nei locali. Catalano sostenne di aver progettato lui il colpo
perché all’epoca dei fatti lavorava in una impresa di pulizie che si occupava di
condomini situati nei pressi del magazzino dei monopoli. Il che gli aveva consentito
224
di assistere allo scarico di sigarette. Catalano raccontava d’aver coinvolto nella rapina
Direse che a sua volta aveva chiamato i fratelli Romito.
Catalano, Mario Luciano Romito, Direse e Mazzola erano poi imputati della rapina
avvenuta la sera del 24 ottobre del ’96 alla ditta di trasporti. I rapinatori erano a volto
coperto, armati, fecero irruzione nel piazzale della ditta, minacciando dipendenti e
camionisti che dovevano caricare la merce. Gli ostaggi furono rinchiusi in una stanza
e i banditi si impossessarono di generi alimentari, caricandoli su mezzi della ditta di
trasporti.
A dire del pentito, era stato Direse a progettare il colpo che aveva coinvolto anche
Mario e Luciano Romito. Accuse che non hanno retto al vaglio del giudice di primo
grado: condannato solo il pentito, assolti i coimputati. (29)
La vendetta
La sera del 30 settembre 2004 a Trinitapoli, Michele Miccoli era in auto con l’amico
Savino Saracino, quando da una Ford Fiesta due killer fecero fuoco con pistole e
fucili. Saracino fu colpito alla testa e morì. Miccoli scappò a piedi fu inseguito e
bloccato e uno dei killer gli sparò in testa. I sicari andarono via convinti che anche
Miccoli fosse morto, invece il proiettile non aveva leso organi vitali e il miracolato
raccontò ai carabinieri che i responsabili dell’omicidio dell’amico e del suo ferimento
erano Cosimo Damiano Carbone e suo nipote Leonardo Lafranceschina, che furono
arrestati. Miccoli raccontò che Carbone gli chiese se fosse lui il responsabile
dell’agguato da lui subito il 3 novembre 2003 quando rimase ferito ad un braccio:
Miccoli negò e Carbone ordinò a Lafranceschina di sparargli. In seguito alla
testimonianza di Miccoli, Carbone e Lafranceschina (si dicono innocenti) sono stati
condannati all’ergastolo in primo e secondo grado.
La vendetta fu eseguita il 25 febbraio 2008. Michele Miccoli e il genero Luca Sarcina
erano a bordo di una Renaut Megane guidata da Sarcina quando, alle 13,30 in via
Candida, scattò l’agguato. Due persone con il volto coperto da passamontagna ed
entrambe armate di pistole calibro 9, a bordo di una Mini-cooper gialla, bloccarono
l’auto dei rivali ed aprirono il fuoco. Miccoli e Sarcina scapparono a piedi in
direzioni distinte: anche i pistoleri si divisero inseguendoli. Secondo la ricostruzione
dell’accusa Giuseppe Gallone, di Trinitapoli, sorvegliato speciale, alla guida della
Mini-cooper, inseguì Sarcina ferendolo gravemente alla testa e al torace (venne
ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale San Paolo di Bari, poi si è ripreso ed
è stato dimesso) e andando via quando vide il giovane a terra, convinto di averlo
ucciso. Il presunto complice – un altro giovane trinitapolese ancora ricercato –
inseguì invece Miccoli ma la pistola s’inceppò e fu costretto a rinunciare quando la
vittima designata reagì, difendendosi con una spranga trovata in strada. I due pistoleri
risalirono sulla loro auto dileguandosi.
Giuseppe Gallone è stato catturato il 22 aprile 2008.
Secondo i carabinieri il movente del duplice tentato omicidio è collegato all’omicidio
del 30 settembre 2004, già descritto. <<Le indagini si sono subito indirizzate su
225
Gallone – hanno spiegato i rappresentanti del reparto operativo dei Carabinieri – in
quanto per l’agguato era stata usata una Mini-cooper gialla di cui erano stati rilevati i
numeri di targa. Quell’auto era stata acquistata presso una concessionaria di
Cerignola proprio la mattina del ferimento e ne aveva il possesso Gallone: l’abbiamo
poi ritrovata bruciata a fine marzo in campagna. L’indiziato ha inoltre i capelli lunghi
e uno dei due killer aveva i capelli che fuoriuscivano dal passamontagna. Cercammo
Gallone già la sera del ferimento senza trovarlo. Qualche settimana prima avevamo
individuato il suo covo in una masseria vicino Andria, ma quando intervenimmo era
già scappato. Il 22 aprile mattina lo abbiamo localizzato nell’appartamento di Orta
Nova, arrestandolo e rinvenendo in casa mitra e munizioni>>. (29)
Le rapine alle banche, alle gioiellerie e gli assalti ai furgoni blindati e
un’assoluzione per vizio formale
Ha abbandonato la strada della dichiarazione d’innocenza, della sua presenza per
caso davanti alla banca rapinata e scelto di patteggiare una sensibile riduzione di pena
Salvatore Cannarile, foggiano che si è visto ridurre in appello da 6 a 4 anni di
reclusione la condanna per il ‘colpo’ alla Credem di corso Roma avvenuto il 4 aprile
del 2007, quando la squadra mobile arrestò in flagranza tre persone. Finirono in
manette Cannarile, ritenuto il basista della banda, e i napoletani Luigi Neri e Gaetano
Borriello, bloccati dai poliziotti mentre uscivano dalla banca dove avevano appena
rapinato 7500 euro. Anche Neri e Borriello hanno patteggiato riduzioni di pena: 4
anni e 6 mesi a testa a fronte dei 6 anni e 8 mesi del verdetto di primo grado.
La sentenza è stata pronunciata dai giudici della prima sezione della Corte d’Appello
di Bari il 24 aprile 2008. I tre imputati restano in carcere e la sentenza d’appello
potrebbe avere un riflesso importante per Cannarile e Neri che sono attualmente
imputati anche dell’operazione <<Praedator>> nei confronti di 17 foggiani, lucerini e
campani accusati di una serie di rapine in banche di Foggia e provincia, organizzate
dai foggiani e materialmente messe a segno dai campani. Cannarile si dichiara
innocente nel blitz Praedator, dov’è accusato di associazione per delinquere quale
capo clan, 9 rapine, armi, truffa, estorsioni, furto, minacce. In caso di condanna per
l’operazione Praedator – Cannarile ha scelto il giudizio abbreviato che dà diritto allo
sconto di un terzo della pena – la condanna andrebbe comunque inflitta in
continuazione con la pena a 4 anni adesso patteggiata per il colpo alla Credem e la
continuazione (più reati compiuti nell’ambito di un unico progetto criminoso) non
può essere superiore al triplo della pena base, quindi non più di 12 anni.
La rapina alla banca Credem fu compiuta il pomeriggio del 4 aprile del 2007. Due
persone – poi identificati per i napoletani Neri e Borriello – scesero da una Renault
Scenic; Borriello si mise una parrucca, entrarono in banca e armati di taglierini si
fecero consegnare 7500 euro. I poliziotti seguivano i sospettati da un’ora e si erano
appostati all’esterno della banca: nel momento in cui i due banditi uscirono, furono
subito bloccati: Stessa sorte per Cannarile che era a bordo di una Lancia Thema in
attesa – diceva l’accusa – dei complici napoletani. Interrogato dopo l’arresto,
Cannarile sostenne di non conoscere i napoletani e d’essersi trovato per caso a
226
transitare davanti alla banca al momento della rapina. Aveva sentito sparare – un
poliziotto fece fuoco a scopo intimidatorio – si era spaventato ed era scappato ma la
squadra mobile lo aveva arrestato.
Il processo di primo grado davanti al gup di Foggia, il 3 luglio 2007, si era concluso
con la condanna di Cannarile a 6 anni, e quelle dei due napoletani a 6 anni e 8 mesi a
testa. (29)
*
Assolti i cinque presunti componenti della ‘cellula’ foggiana del clan di
rapinatori, pene sostanzialmente confermate invece per gli altri 8 imputati calabresi e
baresi. Si è concluso così, il 31 maggio 2008, il processo d’appello <<Commando>>
a 13 foggiani, cerignolani, manfredoniani, calabresi e baresi, accusati di far parte di
un clan mafioso che assaltava furgoni blindati sulle strade della Capitanata. Due colpi
compiuti da calabresi e baresi tra il 2004 e il 2005 fruttarono un bottino complessivo
di quasi 800 mila euro; altri assalti analoghi vennero progettati dai foggiani – diceva
l’accusa – ma non portati a termine. Anche in appello, come già era successo nel
giudizio di primo grado, è peraltro caduta l’accusa di associazione per delinquere di
stampo mafioso derubricata in quella di associazione per delinquere ‘semplice’.
I giudici della prima sezione penale della Corte d’Appello di Bari hanno assolto
dall’accusa di associazione per delinquere Felice Direse, foggiano, ritenuto un
elemento di spicco della mafia dauna, condannato in primo grado a 4 anni. Assolti
anche i cerignolani Francesco Pio Lo Surdo e Vincenzo Sciusco; il mafredoniano
Raffele Russo e l’ortese Maurizio Di Palma (tutti condannati in primo grado a 4 anni.
Secondo la tesi accusatoria la ‘cellula’ calabrese-barese del clan aveva organizzato e
messo a segno due rapine a furgoni blindati. La prima avvenne la mattina del 10
novembre 2004 sulla superstrada Foggia-Candela ai danni del furgone della ‘Np
Service’; un commando di rapinatori esplose 93 colpi di mitra Kalashnikov,
rapinando 762mila euro in contanti. La seconda è datata 28 gennaio 2005 quando sul
tratto foggiano dell’autostrada A/14, nei pressi del casello di Cerignola, finì nel
mirino il blindato dell’istituto di vigilanza ‘Sos’: furono esplosi 40 colpi di mitra per
costringere i vigilantes a fermarsi, ma i banditi dovettero accontentarsi di 30mila
euro.
Una volta sgominata la ‘cellula’ calabrese del clan con l’arresto in flagranza di 6
persone, avvenuto il 13 marzo 2005 in un casolare di Corato, col sequestro di armi e
munizioni, era entrata in azione – ipotizzava l’accusa – la ‘cellula’ foggiana e
cerignolana organizzando nuovi assalti ai blindati, alcuni pedinati durante i loro giri,
che però non vennero portati a termine. Anche perché il 29 novembre 2005 scottò il
blitz ‘Commando’ di Dda e carabinieri del Ros con l’arresto di 17 persone.
Secondo la Dda ci si trovava davanti ad un clan mafioso per la militarizzazione del
territorio, il coinvolgimento nella banda di esponenti della ‘ndrangheta della ‘Società’
foggiana; le modalità degli assalti con commandi composti da 7/8 banditi che
227
bloccavano il traffico, aprivano il fuoco, esplodevano centinaia di colpi per
costringere le guardie giurate ad arrendersi.
Le assoluzioni in appello sono avvenute perché le accuse si basavano soltanto su
intercettazioni telefoniche, con colloqui comunque vaghi. Tutt’al più dalle
intercettazioni, è stata la tesi difensiva, si poteva desumere che ci fosse un progetto di
rapinare un furgone blindato dopo averlo pedinato, ipotesi rimasta tale per cui non
sussisteva il reato di associazione a delinquere. (29)
*
La sola parola del pentito dalla memoria prodigiosa – capace di ricostruire
anche a distanza di anni ogni singolo momento delle rapine, il suo ruolo e quello dei
presunti complici – non è sufficiente per condannare i 27 imputati. L’hanno stabilito
il 24 giugno 2008 i giudici foggiani assolvendo tutti i cerignolani. Ma per arrivare
alla sentenza di primo grado del processo ‘Cartagine bis’ ci sono voluti 12 anni, se si
pensa che la prima udienza si è celebrata il 22 febbraio del ’96.
I 27 imputati erano accusati a vario titolo di associazione per delinquere e di 18
rapine in banche, gioiellerie, negozi, compiute nei primi anni Novanta, oltre che di
furti, armi e ricettazione.
L’accusa poggiava tutta sulle dichiarazioni di Michele Strafezza, deto ‘Cheché’, uno
dei primi pentiti storici della malavita cerignolana nel ’94: coinvolto nella guerra di
mafia aveva anche parlato di rapine che aveva compiuto (in ‘Cartagine’ bis aveva
patteggiato) o di cui era comunque venuto a conoscenza. Il blitz ‘Cartagine bis’ scattò
in due fasi tra il novembre del 2004 e il luglio successivo quando complessivamente
furono spiccate 27 ordinanze di custodia cautelare. Pur se erano 68 i capi
d’imputazione contestati dalla Procura, il nucleo del processo era rappresentato da 18
rapine compiute nella zona del basso Tavoliere.
L’inchiesta fu denominata ‘Cartagine bis’ perché era una costola della più importante
indagine ‘Cartagine’ che nel giugno del ’94 aveva portato ad una setantina d’arresti,
posto fine alla guerra di mafia tra clan rivali e inferto un durissimo colpo alla
criminalità organizzata del basso Tavoliere, il cui affare principale era (e resta) il
traffico di centinaia di chili di cocaina, importata da Milano e smerciata non sola a
cerignola ma anche in centri della Capitanata e fuori provincia.
Le dichiarazioni di Strafezza su una serie di rapine avevano poi portato all’inchiesta
‘Cartagine bis’. (29)
*
Assalto ai due portavalori che a bordo di un’auto blindata dell’Istituto di
vigilanza barese trasportavano un’ingente somma destinata ai bancomat di alcuni
istituti di credito foggiani, la mattina del 30 giugno 2008 alle 8,10 sulla corsia nord
dell’autostrada A/14 nel tratto tra Cerignola e Foggia. Assalto sventato dopo un
conflitto a fuoco tra i banditi e le due guardie giurate, con queste ultime che hanno
228
fatto inversione a <<u>> in autostrada e costretto i malavitosi a rinunciare. I quattro
rapinatori hanno poi abbandonato, sempre in autostrada, in una piazzola di sosta, la
‘Audi A4’ bruciandola per distruggere eventuali tracce: era stata rubata nel marzo
2008 a Lucera.
Subito dopo l’allarme lanciato dalle guardie giurate dell’istituto di vigilanza ‘Aldo
Tarricone’ di Modugno, è scattata una maxi battuta – che non ha poi dato esito – con
l’impiego di pattuglie della Polstrada distaccate sul tratto autostradale dell’A/14,
colleghi della Squadra mobile di Foggia e del Commissariato di Cerignola e con
l’impiego anche di un elicottero giunto da Bari.
Non è noto quanto trasportassero i due mportavalori che dovevano fornire denaro a
vari bancomat di banche foggiane. Erano le 8,10, come abbiamo già riferito, e la
‘Punto’ dell’istituto di vigilanza di Modugno era nei pressi del casello di Cerignola
est quando è stata affiancata dall’Audi con 4 banditi con passamontagna. Uno dei
rapinatori ha sparato con un fucile a pompa contro le gomme della ‘Punto’ per
indurre i vigilantes a fermarsi; le guardie giurate hanno risposto al fuoco (non ci sono
feriti) e il vigilante alla guida, come abbiamo detto, con un testa-coda ha invertito la
marcia. Due rapinatori sono scesi dall’auto ed hanno continuato a sparare ma alla
vista di una pattuglia della Polstrada sono risaliti sulla berlina dileguandosi,
abbandonando poi il mezzo dopo averlo bruciato.
E’ il terzo assalto fallito ai portavalori dall’inizio dell’anno sulle strade foggiane. Il
primo è del pomeriggio del 14 febbraio quando sulla Lucera-Campobasso, nella
galleria vicino Motta Montecorvino, 2 banditi con fucili a canne mozze piazzarono un
camion in mezzo alla carreggiata per bloccare un furgone blindato di un istituto di
vigilanza di Campobasso che trasportava 250mila euro; i banditi rinunciarono e
fuggirono con la ‘Fiat Marea’ rapinata ad un automobilista in transito. Il secondo raid
fallito è della mattina dell’8 aprile quando sulla Foggia-Candela sei rapinatori su due
auto fecero fuoco a ripetizione e bloccarono un blindato che trasportava 500mila euro
a banche e uffici postali. I banditi con un flessibile tagliarano il portellone del furgone
ma i soldi erano custoditi nella cassaforte e dovettero rinunciare. I responsabili di
questi due assalti non sono stati mai identificati. (29)
Ma ritorniamo alla rapina di lunedì 30 giugno. La caccia ai potenziali rapinatori non
si è fermata.
Ma c’è un aspetto che si è fatto strada proprio alla luce di un altro assalto avvenuto a
Bologna, dove una decina di uomini mascherati e armati, almeno quattro auto (tutte
poi bruciate) e un flessibile, hanno dato vita ad uno spettacolare assalto a due furgoni
portavalori tra Castel San Pietro e Ozzano dell’Emilia, nel bolognese. A Bologna è
stato forzato solo un blindato e, secondo la ricostruzione della Squadra Mobile della
polizia, il bottino è di qualche centinaio di migliaia di euro.
Cerignola è il paese in cui si appuntano le maggiori attenzioni degli inquirenti,
essendo notoriamente una delle cittadine che esporta il maggior numero di personaggi
dediti a colpi a mano armata. Giornalmente giungono alla centrale operativa
cerignolana di polizia e carabinieri note informative di questo o quel personaggio in
229
odore di colpi a mano armata ora nelle Marche, ora in Veneto, ora in Friuli, ora nel
Lazio, come avvenuto in passato. Il colpo nel Bolognese, proprio alla luce dell’altro
assalto fallito sull’autostrada alle porte di Cerignola al portavalori, potrebbe anche
autorizzare gli investigatori a pensare che si tratti della stessa banda: in fondo alcuni
dettagli operativi porterebbero ad associare i due assalti come opera della stessa
banda. (29)
*
La Corte d’Appello di Bari con sentenza del 25 giugno 2008 ha assolto e
scarcerato Alessandro Aprile, fioraio già noto alle forze dell’ordine, nonostante che
per due volte – durante le indagini e in aula – la vittima della rapina lo avesse
riconosciutoquale responsabile dell’aggressione.
La sera del 20 agosto 2007 un giovane a volto scoperto ed armato di pistola aggrediva
un coetano in piazza Puglia e si faceva consegnare una moto Yamaha R6 (dopo
qualche giorno fu rinvenuta bruciata vicino Lucera). Il giorno dopo la vittima si recò
di nuovo in Questura per un nuovo interrogatorio e incrociò casualmente Aprle,
convocato dalla Squadra Mobile per essere risentio sull’agguato da lui subito qualche
giorno prima. La vittima, come abbiamo detto, vide Aprile lo riconobbe come il
rapinatore, lo indicò alla Squadra Mobile che fermò il foggiano. Il 27 novembre del
2007 la vittima aveva nuovamente riconosciuto in aula l’imputato e i giudici avevano
condannato Aprile a 5 anni di reclusione.
Secondo gli investigatori la moto rapinata doveva essere usata per un agguato.
Alessandro Aprile la sera del 12 agosto 2007 era sfuggiato ad un agguato in corso
Roma mentre l’amico che lo accompagnava fu ferito gravemente al volto: Aprile e
l’amico erano su uno scooterone quando due killer fecero fuoco da una moto.
Secondo l’accusa sono stati esponenti del clan Moretti/Pellegrino (quattro persone
sono indagate per tentato omicidio tra presunti mandanti ed esecutori) a sparare
contro Aprile, ritenuto vicino al clan rivale capeggiato da Roberto Sinesi. Aprile se la
cavò con una ferita di striscio alla gamba ed otto giorni dopo – ipotizzava la Squadra
Mobile – armato di pistola si era procurato, rapinandola, la motocicletta da usare per
un agguato poi saltato in seguito al suo arresto.
Ma veniamo alla sentenza di assoluzione. I motivi sono da ricercarsi nel fatto che la
vittima aveva sì riconosciuto Aprile, ma senza le formali procedure che vedono
l’indagato, posto accanto a persone, con caratteristiche somatiche e fisiche simili.
Anche al processo, in aula, il rapinato aveva guardato l’imputato indicandolo come e
il responsabile della rapina, anche in questo caso senza che fosse disposta una
ricognizione formale. (29)
La sentenza d’appello sulla <<Mafia garganica>> e una Giustizia che non fa il
suo corso
L’inchiesta della Dda e carabinieri portò al maxi-blitz del 23 giugno 2004 con 99
ordinanze di custodia cautelare. Complessivamente erano oltre 100 gli imputati per i
quali era stato chiesto il rinvio a giudizio per centinaia di imputazioni: mafia, traffico
230
di droga; 22 omicidi; 4 tentativi di omicidio; 153 episodi di spaccio; 23 estorsioni;
112 episodi di detenzione illegale di armi; 16 furti; 1 rapina; 2 episodi di usura, 1
sequestro di persona. Se per 73 imputati (che avevano optato per il giudizio
abbreviato) si è già giunti al verdetto d’appello, per altri 25 che furono rinviati a
giudizio è ancora in corso in Corte d’Assise a Foggia, dal novembre 2005, il processo
di primo grado.
Dagli 80 imputati giudicati in primo grado dal gup con rito abbreviato, si è scesi ai 73
imputati del processo d’appello (un paio sono morti ammazzati nel 2007) conclusosi
l’8 maggio 2008 con 38 assoluzioni e 35 condanne (tra cui 17 patteggiamenti con
riduzioni di pena) per complessivi 182 anni di reclusione, cui aggiungere un
ergastolo.
Qual’era l’impostazione originaria dell’accusa basata principalmente sulle
intercettazioni: al vertice della mafia garganica c’era il <<clan dei montanari>>, con
Franco Romito e Armando Libergolis capi riconosciuti, riconducibile alle famiglie
Romito e Libergolis (i fratelli Armando, Matteo e Franco Libergolis sono imputati in
Corte d’Assise a Foggia) che comandava nella zona di Manfredonia, Monte
Sant’Angelo, Mattinata e San Giovanni Rotondo. Il ‘clan dei montanari’ estendeva la
sua influenza anche nella zona di San Nicandro per l’alleanza con il clan Ciavarella
(protagonista di una faida con i rivali Tarantino). Nella prospettazione accusatoria i
Libergolis rappresentano il braccio armato dell’organizzazione, mentre i Romito si
sarebbero occupati del riciclaggio del denaro sporco; di infiltrarsi nel tessuto
economico, anche cercando appoggi con politici, magistrati e forze dell’ordine. Se la
tesi sulla mafiosità del clan Ciavarella ha sostanzialmente retto in primo e secondo
grado (una decina di condanne per 416 bis) quella sul ‘clan dei montanari’ traballa, se
si pensa che le condanne per mafia dei presunti affiliati al clan Romito-Libergolis si
riducono al solo Giuseppe Pacilli (confermati 8 anni di reclusione).
Anche la Corte d’Assise d’Appello, come già il gup di Bari, ha escluso che i Romito
(padre e tre figli) fossero mafiosi. Franco Romito – ritenuto un capo del ‘clan dei
montanari’ – ora è stato assolto anche dall’accusa di concorso nel sequestro di un
ragazzo, per il quale, in primo grado, gli erano stati inflitti 4 anni. Il gup di Bari,
nell’assolvere i Romito, specificò che non erano certo stinchi di santo ma aggiunse
che i tre fratelli erano stati utilizzati dai carabinieri come confidenti e agenti
provocatori per cercare di far confessare ai Libergolis episodi criminali. Tradotto in
soldoni significa – disse sostanzialmente il gup nelle motivazioni della sentenza di
assoluzione – che se i Romito volevano incastrare i presunti complici, non si può
sostenere che fossero affiliati al ‘clan dei montanari’. Motivazione non condivisa né
dalla Dda né dal Procuratore Generale (se si partecipa ad un summit mafioso vuol
dire che si è mafiosi, la tesi dell’accusa).
Tra i 73 imputati giudicati dalla Corte d’Assise d’Appelo uno dei più noti è
certamente Ciccillo Libergolis, allevatore di Monte Sant’Angelo, principale
esponente dell’ominima famiglia coinvolta nella faida con i Primosa/Alfieri che nel
’78 ad oggi ha contato 35 morti. Libergolis era già stato assolto dall’accusa di essere
231
un mafioso, affiliato al clan, capeggiato dal nipote Armando Libergolis (figlio del
fratello Pasquale, ucciso nel ’96 delitto di faida) oltre che dal coinvolgimento
nell’omicidio di Biagio Silvestri, ucciso nella Foresta Umbra il 31 agosto del ’98,
altro omicidio di faida.
L’unico ergastolo è stato inflitto – come già aveva fatto il gup nel processo di primo
grado – a Matteo Ciavarella, per 4 omicidi avvenuti tra il 2001 e il 2003 collegati
anche alla faida con la famiglia rivale dei Tarantino. La madre di Matteo Ciavarella,
maria Cursio è stata invece assolta dalle accuse di aver partecipato alle riunioni in cui
si decise di uccidere due rivali e si è vista ridurre la pena da 20 a 8 anni di reclusione
per mafia, droga e armi.
Assolto in appello il poliziotto Giuseppe Bronda condannato in primo grado a 1 anno
per favoreggiamento: si ipotizzava che avesse aiutato Franco Romito a eludere le
indagini dei carabinieri presentandogli un tecnico per bonificare una masseria da
eventuali microspie. Assolti anche in appello i marescialli dei carabinieri Russo e
Rauseo. Inizialmente gli si contestava l’accusa di concorso esterno in associazione
mafiosa sul presupposto che, indagando sulla mafia garganica, avessero favorito i
Romito cercando di evitare che le indagini li toccassero; dimensionando l’accusa
sostenendo che andavano condannati a pene nell’ordine di un anno <<solo>> per
rivelazione d’atti d’ufficio. Sono stati assolti anche da questo reato. I due sotoufficiali
hanno sempre sostenuto che i contatti con i Romito, di cui erano a conoscenza i loro
superiori, erano finalizzati ad acquisire notizie utili per le indagini: nessuna
collusione, nessun ‘favore’. (29)
*
Ma la Giustizia non sempre trionfa, purtroppo. Sono, infatti passati 4 anni dal
bltz con 99 arresti, 3 anni dal rinvio a giudizio e il processo di primo grado in Corte
d’Assise è ancora lontano dalla conclusione.
Una valanga di intercettazioni, così possente che neppure otto periti sono riusciti a
smaltire, trascrivendole integralmente, da tre anni soffoca Foggia il processo per ‘la
faida del Gargano’. Si arriverà così a quella che si chiama decorrenza dei termini di
carcerazione preventiva, vuol dire che Armando Libergolis, allevatore di
Manfredonia dell’omonima famiglia coinvolta nella sanguinosa faida di Monte
Sant’Angelo con i rivali Primosa /Alfieri, contrassegnata da 35 morti in trent’anni,
tornerà a breve ad essere un uomo libero. Dopo 3 anni e 9 mesi trascorsi in cella.
Libergolis, detto ‘Calcarula’, è ritenuto al vertice della mafia garganica e nel processo
in Assise è accusato anche di 5 omicidi oltre che di traffico di droga, armi e furto: si
dichiara innocente. La Corte d’Assise di Foggia ha disposto per il 26 giugno 2008 la
scarcerazione del presunto boss, sia pure vietandogli di vivere a Manfredonia e
imponendogli l’obbligo di recarsi ogni giorno a firmare in caserma dai carabinieri nel
paese dove si stabilirà.
Con Libergolis, saranno scarcerati altri 3 imputati del maxi-processo: Giovanni
Prencipe, di San Giovanni Rotondo, detto ‘Giovannuzz’ imputato di due omicidi,
232
mafia e traffico d’armi (resterà però detenuto per un altro omicidio); il compaesano
Giovanni Cirella accusato di mafia e omicidio; Vincenzo Padula, di Apricena, che
risponde di spaccio. E nell’arco di un mese stessa sorte – scarcerazione per
decorrenza termini – per altri imputati: al momento, dei 24 imputati in attesa di
giudizio, la metà sono detenuti. A breve saranno scarcerati altri imputati ritenuti
elementi di spicco della malavita garganica quali Franco Libergolis (fratello minore
di Armando) accusato di mafia, 2 omicidi, droga ed estorsione; Giovanni
Giovanditto, di Sannicandro, è accusato di aver compiuto e/o partecipato a ben 13
omicidi, oltre a rispondere di mafia, droga, armi, favoreggiamento. Al momento la
sua istanza di scarcerazione per decorrenza di termini è stata rigettata, sarà accolto il
prossimo 10 luglio quando anche per lui matureranno i tre anni massimi di
carcerazione preventiva.
Il blitz di Dda e carabinieri contro la presunta mafia garganica scattò il 23 giugno
2004. Armando e Franco Libergolis sfuggirono alla cattura e si costituirono tre mesi
dopo, nel settembre 2004, al carcere di Melfi. Dei 107 imputati per i quali la Dda
aveva chiesto il rinvio a giudizio, in 80 optarono per il giudizio abbreviato (già
celebrato il processo di primo e secondo grado). Per altri 24 invece, nel giugno 2005,
il gup di Bari dispose il rinvio a giudizio in Corte d’Assise a Foggia: il processo è
iniziato il 5 novembre 2005. Per i detenuti imputati di omicidio bisogna arrivare alla
sentenza di primo grado entro un anno e mezzo dalla data del rinvio a giudizio (in
caso di condanna i termini di carcerazione ripartono da zero). Vista la complessità del
processo, i giudici di Foggia il 21 novembre 2006 avevano sospeso i termini di
carcerazione preventiva. Ma – dice il codice di procedura penale – la durata massima
della custodia cautelare non può superare il doppio dei termini previsti: cioè non può
superare i tre anni di reclusione.
Ecco spiegata la scarcerazione di Armando Libergolis, ossia colui che l’accusa pone
al vertice del <<clan dei montanari>> insieme a Franco Romito, anche lui di
Manfredonia, che però nel processo abbreviato è stato assolto in primo e secondo
grado da tutte le accuse, comprese quelle di mafia. I giudici foggiani, nel prendere
atto che i termini di carcerazione sono scaduti, rimarcano anche come <<allo stato
non possono dirsi venuti meno i gravi indizi di colpevolezza, come pure le esigenze
cautelari>> nei confronti degli imputati che saranno scarcerati: da qui il divieto di
dimora nel proprio comune di residenza, con l’obbligo di firma quotidiano in caserma
per Armando Libergolis, Prencipe, Cirella e Padula. Se Armando Libergolis è
ritenuto il capo della mafia garganica, Giovanni Prencipe è considerato il refernte
nella zona di San Giovanni Rotondo del cosiddetto <<clan dei montanari>>. Nel
decidere di scarcerarlo per decorrenza termini, i giudici hanno rimarcato come di
fronte ad arresti a catena per reati comunque connessi (Prencipe è stato arrestato
prima per un omicidio e dopo qualche mese per un secondo omicidio), la data da cui
partire per calcolare i termini di carcerazione preventiva è quella del primo arresto
non dell’ultimo. Prencipe resta però detenuto in atesa di giudizio di un altro omicidio.
Quindi porte aperte, per far uscire dal carcere Armando Libergolis. Porte aperte
anche per Giovanni Cirella (risponde di un solo omicidio) e al pusher Vincenzo
233
Padula. Tra un mese, come abbiamo più sopra precisato, sarà la volta del killer
Gennarino Giovanditto, ritenuto la mano armata di 13 delitti e del fratello di
Armando, francesco Libergolis, accusato di due morti.
Scarcerazioni che hanno sollevato un polverone di polemiche, mentre si scopre che
un perito del tribunale nominato dai giudici di Assise per trascrivere le
intercettazioni, un ex sottufficiale dei carabinieri, per un intero anno non avrebbe
fatto nulla e per questo è stato denunciato. Solo in seguito ne sarebbero stati nominati
altri sette, che si sono trovati in gravi difficoltà per l’elevata mole di lavoro.
In quello che sta diventando una storia al veleno, si incrociano ora accuse più o meno
esplicite, cassette audio manipolate, verbali mancanti o non firmati e migliaia di
intercettazioni. Una scelta, quella di utilizzarle tutte, fatta in nome della trasparenza
dal primo pm, quando emersero collusioni fra carabinieri incaricati delle indagini ed
esponenti del clan: nelle scrivanie di due marescialli furono trovate cassette originali
di intercettazioni ambientali, che avevano registrato un summit mafioso, le cui copie
ascoltate in aula erano invece state manipolate e rese inservibili.
La notizia della raffica di scarcerazioni vive ora di indignazioni e proteste di chi si
chiede come sia potuto succedere e chiede subito spiegazioni.
Prende subito le distanze il Procuratore della Repubblica di Foggia: << Non è la
Procura di Foggia ad aver istruito il processo, bensì la Direzione distrettuale
antimafia di Bari. Non c’entriamo nulla in questo che sta accadendo>>. Giudici
contro giudici insomma, lo scontro tra toghe si ripete. E le accuse del Procuratore di
Foggia ai magistrati della Dda non sono cadute nel silenzio. Poche ore dopo è stata la
stessa Procura generale della Corte d’Appello di Bari a chiedere informazioni urgenti
alla Dda del capoluogo sulle scarcerazioni di boss e pericolosi killer. E la risposta
della Dda non si fa attendere: <<Siamo stati ufficialmente investiti di una richiesta di
notizie dalla procura generale e daremo una risposta quanto prima>>, è stata la
lapidaria dichiarazione del Procuratore della repubblica di Bari, che è anche
coordinatore della Dda.
Ma è indignato lo stesso Armando Libergolis perchè nel momento in cui la Corte
d’Assise di Foggia lo scarcera per decorrenza di termini, gli ha vietato di vivere a
Manfredonia. <<Lì ho la casa, lì vivono mia moglie e i miei figli. E’ un’ingiustizia
che mi si vieti di viverci. Quasi quasi resto in cella per protesta>>, aveva pure
pensato Libergolis, come se il carcere fosse un albergo dove si sceglie se entrarci o
uscirvi. (29)
Attentati
Attentato incendiario, o più semplicemente un ‘avvertimento’, la notte del 19 aprile
2008 nella centralissima piazza Duomo a Lucera. A essere preso di mira dai ‘soliti
ignoti’ è stato il noto bar Saraceno di Sergio Vellonio. Nella notte qualcuno è riuscito
a introdurre del liquido incendiario sotto l’uscio di una delle entrate secondarie del
locale che sono situate lateralmente all’entrata principale.
234
Del fumo e di quanto stava bruciando all’interno del locale se ne sono accorti i
gestori di una vicina pizzeria. Subito dopo nella zona è passata una ‘volante’ della
Polizia di Stato che, registrato l’evento, ha provveduto ad avvisare il proprietario del
locale, Una chiamata provvidenziale che è valsa ad intervenire prima che le fiamme
ghermissero tutto il locale, magari alimentate dalle centinaia di bottiglie di vino e
liquori in genere stipate sugli scaffali antistanti il bancone del bar. I danni, comunque,
ci sono stati alle suppellettili e ammonterebero ad alcune migliaia di euro.
Le indagini sono state avviate e non ci sarebbe, manco a dirlo, nemmeno l’ombra di
un testimone.
*
Esplode bomba dinanzi ad attività commerciale. Il fatto è accaduto la notte del
21 maggio 2008 a Vieste, in una stradina del centro, precisamente in via Giuliani. Lo
scoppio, molto forte, è stato avvertito in tutta Vieste dalla popolazione che data l’ora
(poco dopo le 22,30) era ancora sveglia. Indubbiamente, la forte deflagrazione ha
creato non poco panico, anche perché non è, purtroppo, la prima volta che a Vieste si
registrano episodi molto preoccupanti. Fortunatamente non sono stati rilevati danni
significativi. Resta il dato di fatto che non può destare apprensione considerata la
spregiudicatezza da parte di chi (o di coloro) che stanno, com’è comprensibile,
seminando paura tra la popolazione. Le indagini vengono condotte dai militari della
locale Tenenza dei carabinieri e dalla Compagnia di Vico del Gargano.
Per il momento non ci sono piste privilegiate, anche se è possibile che lo scoppio
della bomba sia da collegare all’incendio appiccato alcune notti addietro alle auto del
marito e del padre della proprietaria del negozio dove è stato fatto esplodere
l’ordigno.
L’episodio, appena descritto, segue di poco quello che vide incendiata l’auto di
Nicola Tantimonico, noto costruttore del luogo. Allora fu possibile evitare che le
fiamme raggiungessero anche altre sette autovetture che erano parcheggiate a pochi
metri di distanza. Fu però danneggiata leggermente l’edicola ‘De Maria’. (29)
*
Un incendio, la cui origine non è stata ancora accertata, ha distrutto un camion
con rimorchio, parcheggiati in un’azienda per la trasformazione di prodotti agricoli,
aperta il 2003 da due fratelli foggiani e situata nell’area industriale Asi di Borgo
Incoronata. Le fiamme sono state domate dai vigili del fuoco del comando
provinciale che si sono riservati di pronunciarsi sulle cause dell’incendio, pur se si
sospetta l’orogiune dolosa. Le indagini sono affidate alla polizia.
L’allarme è scattato all’una nella notte tra il 30 e il 31 maggio 2008. Le fiamme
hanno distrutto l’autoarticolato ‘Scania’ con rimorchio sul quale erano caricati
cassoni in parte vuoti, in parte contenenti residui di lavorazione: il mezzo è andato
distrutto e i danni ammontano ad alcune migliaia di euro.
235
I poliziotti hanno interrogato la titolare che avrebbe escluso d’aver ricevuto minacce
e/o richieste estorsive. (29)
*
I carabinieri sono al lavoro per far luce su un oscuro episodio avvenuto la notte
tra il 12 e ilo 13 giugno 2008 alloché ignoti hanno esploso quattro colpi di fucile
calibro 12 all’indirizzo di un ristorante ubicato a qualche centinaio di metri dallo
scalo ferroviario di Cerignola-Campagna sulla provinciale per Manfredonia. Il fatto
dovrebbe essere avvenuto nel cuore della notte, quando il locale era chiuso e nall’area
di sosta annessa (frequentatissima da camionisti) vi erano diversi Tir.
Nessuno si sarebbe accorto di nulla, al punto che la scoperta delle vetrate infrante dai
colpi di fucile è stata fata verso le sei del mattino dal proprietario del locale. Un paio
di camionisti, interrogati dai carabinieri, hanno detto di aver udito dei botti durante la
notte, ma di aver pensato che si fosse trattato di qualcosa di simile a mortaretti. (29)
*
Incendiata nella notte tra il 13 e il 14 giugno l’auto di Fernando Frattulino,
foggiano, avvocato e consigliere comunale per il Partito Democratico. Indagini per
identificare i responsabili dell’incendio sono state avviate dalla polizia: il consigliere
comunale è stato interrogato dagli investigatori ai quali ha detto di non aver ricevuto
minacce o intimidazioni. Nessun dubbio sull’origine dolosa dll’incendio divampato
in un cortile di via Labriola, dov’era parcheggiata la ‘Toyota Yaris’ di Frattulino.
Nella stessa nottata è stata incendiata in via D’Addedda la ‘Lancia Y’ di una
foggiana: le fiamme hanno danneggiato anche una ‘Fiat 600’ parcheggiata accanto. Si
escludono, almeno per il momento,, collegamento tra i due incendi. (29)
*
Una busta di colore giallo contenente una cartuccia da fucile da caccia e la scritta
<<Stai attento bastardo>>. Questa la spiacevole scoperta fatta nella mattinata del 13
giugno 2008 presso la locale sede della Cgil di via Mancini 13. La lettera, composta
da ritagli da giornali, e contenente la cartuccia era indirizzata al coordinatore della
Camera del Lavoro di Lucera, recava la scritta << X Ennio Festa>>.
Un avvertimento mafioso in piena regola quello indirizzato al sindacalista che dal
luglio 2006 dirige la Cgil di Lucera che raccoglie anche i centri limitrofi del
Subappennino dauno settentrionale. A denunciare l’accaduto al commissariato di
pubblica sicurezza lo stesso sindacalista che ha segnalato inoltre alle autorità di
polizia di aver rinvenuto, nei giorni precedenti l’accaduto, la testa mozzata di un gatto
appoggiata sul cofano anteriore dedlla propria autovettura, parcheggiata nei pressi
dell’assessorato ai servizi sociali di via Petrarca. La lettera anonima, contenente la
cartuccia, è stata rinvenuta alle 13,55 del 13 giugno, è stata quindi depositata nella
cassetta postale della Cgil in pieno giorno quando gli uffici del Sindacato brulicavano
236
di iscritti ed utenti. Un particolare questo che ancora più inquietante per un episodio
già di per sé allarmante per la città, dopo le diverse missive anonime ricevute, nei
mesi scorsi, dal Sindaco, nei propri uffici del Comune e nella cassetta delle lettere
della propria abitazione. Se a quest’ultimo sono state indirizzate lettere scritte in un
italiano maldestro, con ingiurie e minacce generiche, ben più grave appare l’episodio
della busta inviata al coordinatore della Camera del Lavoro, sia per la presenza di una
cartuccia che per la tecnica di utilizzare ritagli di giornali per comporre
l’avvertimento.
Gli investigatori sono al lavoro per cercare di capire i motivi dell’avvertimento, se è
opera di un mitomane o se tra spunto da qualcos’altro. (29)
Il Sindacato, da parte sua, chiede che la Direzione distrettuale antimafia si occupi del
‘caso Lucera’, magari prendendo le mosse proprio dalle precednti denunce partite
dalla Cgil di Lucera. Ma non basta, il Sindacato ha segnalato, più volte,
l’imbarbarimento del clima che non di rado ha lambito anche le sponde della politica
locale. Nel novembre 2007 la Cgil rese pubblico un documento che in qualche modo
racchiudeva la propria posizione, scaturita a seguito di un impegnato dibattito interno.
<<Gli atti intimidatori ostacolano il confronto sereno e democratico dello
svolgimento dell’ attività politica>> dichiarò lo stesso Festa all’indomani della
notizia di una terza lettera minatoria ricevuta dal Sindaco. E sono ancor più gravi se
raggiungono il primo cittadino con il chiaro intento di colpire l’insieme delle
istituzioni democratiche in un Comune in cui è difficile fare politica. E aggiunse:
<<L’intreccio tra politica e affari a Lucera ha raggiunto un inquinamento pauroso e
quello che sta succedendo negli ultimi mesi è solo la diretta conseguenza di questa
situazione. Noi, come Sindacato, abbiamo denunciato queste cose pubblicamente, ma
ci dispiace non registrare riscontri e segnali da chi è chiamato a chiarire fatti e
vicende che oramai sono praticamente di dominio pubblico. Purtroppo sta passando
una sorta di messaggio che disegna Lucera come terra dove fare affari e, con
questioni come l’eolico e il Piano Urbanistico, si capisce bene come gli interessi si
facciano sempre più pressanti>>.
Come si legge, facile profeta nell’anticipare quello che sarebbe accaduto, in tema di
tensione, sospetti e accuse velate pronunciate anche negli ultimi consigli comunali,
con la discussione del problema dell’eolico. E si parla anche di una variante che
interesserebbe la zona della 167.
Elementi per elettrizzare non mancano, anche se il clima lo era anche undici mesi fa.
Il 5 giugno 2007 quando Vincenzo Morlacco, candidato Sindaco, si vide recapitare
presso l’amministrazione provinciale, dove presta servizio, una lettera anonima
imbucata in quel di Bari. (29)
Due feroci assassini
Dopo nove mesi di indagini hanno un volto i presunti assassini di Marisa Scopece, la
ragazza 23enne di origini foggiane il cui cadavere carbonizzato venne ritrovato l’11
settembre 2007 a Barletta, nella zona della Madonna dello Sterpeto, uccisa da otto
colpi di pistola. Si tratta di due cugini di Trinitapoli, Raimondo Carbone (29 anni) e
237
Giuseppe Gallone (31 anni), che potrebbero aver ucciso la ragazza il 6 settembre,
dopo che uesta aveva preteso la restituzione del denaro – non meno di 20-5mila euro
che Marisa portava sempre con sé – affidato loro qualche tempo prima.
La mattina del 19 giugno 2008 sono stati raggiunti da provvedimenti di custodia
cautelare in carcere nell’istituto di pena di Foggia, dove sono detenuti per il tentato
omicidio di Michele Miccoli e Luca Sarcina, avvenuto a Trinitapoli il 25 febbraio
2008. Proprio questo tentato omicidio ha incastrato i due, in quanto la pistola a salve
modificata utilizzata in quell’agguato è risultata essere la stessa che aveva già
freddato Marisa Scopece. Il sostituto procuratore di Trani che ha coordinato le
indagini della Squadra mobile della Questura di Bari e del commissariato di Barletta,
li accusa di omicidio premeditato, distruzione di cadavere e detenzione illecita di
arma da fuoco. Accuse sostenute dal pm anche a carico di Emanuele Modesto,
sempre di Trinitapoli, socio di Gallone e Carbone in varie attività criminali. Modesto,
peraltro, lavorava insieme a Carbone in un’azienda che si trova poco distante dal
luogo in cui venne trovato il cadavere della ragazza. Il giorno presunto dell’omicidio
i due non si presentarono al lavoro. Ma il gip non ha ritenuto di applicare la misura
cautelare nei confronti di Modesto, mentre altre due persone di Cerignola risultano
indagate per favoreggiamento.
Carbone fu colui che vendette, per 100 euro, i due cellulari della ragazza a due
magrebini qualche giorno dopo l’omicidio. Mentre non sono stati mai trovati la sua
auto, una Opel Tigra, e i soldi che portava sempre con sé. L’unica cosa trovata, il 22
ottobre, fu la borsetta con i documenti e alcuni effetti personali lungo i binari della
ferrovia in direzione di Trinitapoli. Il che portò gli investigatori a pensare che i suoi
assassini se ne fossero disfatti mentre tornavano a casa. La pista foggiana è diventata
però quella risolutiva dopo molti tentativi, che avevano portato gli inquirenti anche a
indagare su un pregiudicato che perseguitava la ragazza e l’aveva costretta a
prostituirsi anche in Montenegro; sul suo fidanzato bitontino, molto violento; su un
uomo di Corato fortemente indiziato per reati di tipo sessuale. E non sono mai stati
trascurati nemmeno i tanti contatti della ragazza con professionisti di varie città, che
erano suoi clienti. Marisa, con un passato difficile alle spalle di bambina allontanata
dalla famiglia di origine e data in affidamento per poi finire in una comunità, e aveva
finito con il prostituirsi e assumere anche sostanze stupefacenti. (32)
*
E’ avvolto nel mistero l’assassinio di Ciro Piancone, un muratore di 35 anni di
San Severo, crivellato di colpi all’alba del 21 giugno 2008 nella sua abitazione, un
basso in uno dei quartieri storici del centro dell’Alto Tavoliere. Chi lo ha ucciso ha
sparato 11 volte, utilizzando una pistola ‘357 Magnum’ raggiungendolo alla testa, al
petto e alle gambe. Inutile ogni tentativo di soccorso.
Un testimone – nel quartiere abitano molti agricoltori, che si alzano molto presto – ha
segnalato alla polizia, d’aver visto un auto scura in fuga con due persone a bordo.
238
Quasi certo che Piancone conosceva i killer: lo si pensa perché la vittima potrebbe
aver aperto la porta ai sicari. Così come il fatto che alle 4,30 il muratore fosse già
vestito potrebbe far pensare che aspettasse qualcuno, che avesse un appuntamento
con chi magari aveva progettato di ucciderlo.
Le indagini sull’ottavo omicidio in questo primo semestre 2008 in Capitanata – il
primo a San Severo – seguono due piste privilegiate in questa primissima fase: quella
passionale, anche perché una voce insistente parla di una donna presente in casa al
momento del delitto (pur se la polizia smentisce); oppure quella di un litigio forse
legato alla gestione di qualche slot-machine (anche questa non confermata dagli
inquirenti).
Si scava nel passato della vittima per cercare un movente e quindi i killer. Nel
fascicolo di Piancone solo un paio di vecchie denunce per reati minori che poi non
avevano avuto seguito. In una città dove gli affari della criminalità sono legati
principalmente allo spaccio di droga, all’estorsione, il nome della vittima non era mai
comparso nelle decine di inchieste di anni remoti e recenti.
Piancone da anni separato dalla moglie, viveva da solo nel piccolo locale a
pianterreno di via Volturno 10. Fino a maggio aveva lavorato per un’impresa di
Torremaggiore, poi era stato licenziato per mancanza di lavoro. Qualche giorno fa
pare che avesse avuto un violento alterco con un concittadino pure identificato. Due
le voci sul perché di questo litigio: la prima per motivi di gelosia, la seconda legata
alla gestione di videogiochi. (32)
La sentenza del processo <<Domus>>
Voleva sì far sloggiare il concittadino dall’alloggio popolare per sistemarci l’amante,
ma non tentò di ucciderlo. E’ il senso della sentenza d’appello nel processo
<<Domus>> a Giuseppe Pacilli, detenuto presunto mafioso di Manfredonia
soprannominato ‘Peppe u’ muntanare’, ora condannato a soli 4 anni e 6 mesi per
violenza privataa fronte dei 16 anni di reclusione che gli erano stati inflitti in primo
grado a Foggia per tentato omicidio, armi e tentata estorsione: è stato assolto dai reati
più gravi.
Pene ridotte con derubricazione dei reati più gravi anche per gli altri 4 coimputati.
Gesualdo Fiore è stato condannato a 2 anni di reclusione (pena sospesa) per tentata
violenza privata ed armi; è stato assolto dall’accusa di concorso in tentato omicidio
per la quale era stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione. Condannato
a 2 anni Nicola Fiore, per violenza privata a fronte dei 10 anni inflitti per tentato
omicidio. Un anno di reclusione a Gennarino Lungo: anche per lui è caduta l’accusa
di concorso in tentato omicisio per la quale gli erano stati assegnati 9 anni e mezzo di
carcere. Un anno e 2 mesi di reclusione, infine, per Giuseppe De Cristofaro: in primo
grado gli furono inflitti 9 anni per tentato omicidio, reato ora derubricato in tentata
violenza privata.
La sentenza della Corte d’Appello di Bari, pronunciata il 24 giugno 2008, ha quindi
di gran lunga ridimensionato l’impostazione accusatoria dell’inchiesta della Procura
239
di Foggia e della Compagnia dei carabinieri di Manfredonia, che il 14 ottobre del
2005 portò all’arresto di 7 persone.
Secondo la tesi accusatoria originaria, Giovanni Potenza, giovane pescatore di
Manfredonia, per tre volte era sfuggito al fuoco dei killer che intendevano punirlo per
non aver obbedito all’ordine del boss Pacilli che gli aveva intimato di lascioare la
casa popolare, in quanto intendeva sistemarvi la propria amante. Nel luglio del 2002,
Giovanni Potenza aveva occupato con moglie e figli un alloggio popolare, situato nel
secondo piano di zona. Il problema era che quella casa Giuseppe Pacilli la voleva per
sé. Da qui l’invito e le minacce a Potenza – diceva l’accusa – perché lasciasse libero
l’alloggio.
Il suo rifiuto aveva provocato la reazione di Pacilli e dei complici, nella
prospettazione accusatoria. Il 17 agosto del 2002 Potenza era in auto quando era stato
ferito ad una spalla dalle pistolettate esplose da due persone; il 30 ottobre del 2002 il
pescatore sipontino sfuggì ad un nuovo agguato solo perché il fucile impugnato da un
killer s’inceppò; il 12 marzo del 2003 infine Potenza quando vide una persona armata
avvicinarlo, temendo per la propria vita scappò. E fu dopo quell’episodio – diceva
l’accusa – che il pescatore terrorizzato non solo lasciò la casa popolare, ma andò via
anche da Manfredonia.
L’imputato principale era, come abbiamo letto, Giuseppe Pacilli, ritenuto vicino al
‘clan dei montanari’: è coinvolto nell’inchiesta sulla mafia garganica per la quale è
stato condannato a 8 anni per mafia, estorsione e armi. E’ stato invece recentemente
assolto in appello dall’accusa di aver ucciso, il 5 agosto del 2002, il macellaio
manfredoniano Matteo Quitadamo perché non voleva lasciare alla moglie
l’appartamento che la donna aveva venduto: in primo grado Pacilli era stato ritenuto
l’esecutore materiale dell’omicidio e condannato a 30 anni, in appello era stato
assolto. (32)
TARANTO
Il rapporto della Direzione Investigativa Antimafia – luglio – dicembre 2007
Nella provincia di Taranto <<il quadro della criminalità si presenta disomogeneo,
pur a fronte di residuali presenze sul territorio dei gruppi storici>>.
Gli investigatori della Dia evidenziano come nel periodo considerato <<non si
rilevano segnali dell’esistenza di associazioni dedite alle estorsioni e all’usura>>. La
mancanza di organizzazioni criminali non significa però che i reati di estorsione e
usura non vengano compiuti. Semplicemente <<le estorsioni in danno di
commercianti e imprenditori sono generalmente praticate da delinquenti comuni>>.
Per quanto riguarda il resto della provincia non emergono situazioni da segnalare in
particolare che possano dimostrare un ruolo di primo piano della criminalità
240
organizzata o di tipo mafioso. Gli attentati posti in essere nei confronti di
amministratori locali (a Torricella, Monteisai e Castellaneta) non sarebbero
riconducibili al crimine organizzato. (34)
Gioco d’azzardo
In un circolo di Ginosa venivano effettuate scommesse clandestine. Con quest’accusa
due persone sono state denunciate, mentre strumentazione informatica e altre
attrezzature del valore complessivo di 30 mila euro sono finite sotto sequestro. I
carabinieri della Compagnia di Castellaneta hanno fatto irruzione il 22 aprile 2008 in
un circolo in cui erano stati installati quattro computer e altro materiale ritenuto utile
per svolgere l’attività illegale. Secondo l’accusa due persone del posto hanno messo
su il giro illecito. Per questo sono state denunciate a piede libero. A far scattare il
blitz degli uomini dell’Arma è stato il continuo e insolito andirivieni di gente dal
locale che, stando a quanto emerso dagli immediati accertamenti, non era muinito
dalle autorizzazioni necessarie per le scommesse. (18)
Truffe
A giudizio della Procura il sistema che gli indagati avevano ideato sembrava perfetto
per poter raggiungere i propri scopi; creare una società commerciale al di sopra di
ogni sospetto, prendere contatti con ditte fornitrici, acquistare merci in gran quantità
e, poi, quando arrivava il momento di saldare i conti far trovare ai malcapitati
creditori solo le briciole, sempre che ve ne fossero rimaste.
A giudizio della Procura quello che sembrava essere stato un maxi-raggiro in piena
regola avrebe causato danni patrimoniali calcolati nell’ordine del milione e 680mila
euro. Una somma accumulatasi nel corso almeno di un paio di anni, fino a quando le
prime crepe non si sono manifestate facendo scricchiolare un impianto che dovrà
essere valutato da un giudice. E questo alla luce della richiesta di rinvio a giudizio
con cui il pm inquirente ha definito il proprio lavoro. Gli elementi raccolti
nell’ambito di una lunga attività di indagine non hanno fatto altro che deporre contro
tutti coloro che avrebbero dato vita agli ipotizzati raggiri. Tant’è che l’epilogo
naturale è stata la trasmissione del procedimento al gup del Tribunale, avvenuta il 16
giugno 2008.
Sono 24 le persone che rischiano di doversi difendere nel corso di un regolare
processo. Di queste, cinque risultano gravate dall’accusa di associazione a delinquere.
Un’associazione di cui Claudio Anastasio Recchia, imprenditore di origine tarantina,
viene ritenuto l’indiscusso protagonista. Sarebbe stato proprio lui a pianificare, prima,
e a porre in essere, successivamente, una serie di artifici e raggiri tesi a carpire la
buona fede delle ditte interlocutrici, le stesse che poi sarebbero rimaste vittime dei
bidoni. Nel corso dell’inchiesta Recchia si è difeso sostenendo di non sapere nulla
delle maxi-truffe. Ha illustrato una versione dei fatti diversa da quella sostenuta dalla
magistratura. Si è difeso tentando di tirare fuori dai guai la moglie e gli altri soggetti
travolti dalle indagini. Stando alle decisioni della Procura, la sua versione non ha
convinto.Recchia è, infatti, accusato di aver gestito direttamente o indirettamente
svariate società commerciali. Le stesse che, stando a quanto ipotizzato, sarebbero
241
diventate lo strumento utilizzato per mettere a segno le truffe. Gli accertamenti dei
carabinieri hanno rilevato che il sistema ideato dagli indagati stava funzionando alla
grande, tenuto conto del volume d’affari realizzato. Secondo la Procura, solo
un’associazione a delinquere avrebe potuto gestire una simile situazione.
Il sistema fu portato alla luce dagli arresti e dai sequestri effettuati nel febbraio 2007.
A finire nel mirino della magistratura furono lo stesso Recchia ed altre sei persone.
Fra queste sono in cinque a doversi difendere dall’accusa di associazione a
delinquere. Oltre a Recchia figurano nell’elenco: Mario Morea, Teresa La Neve,
Francesco Sportelli ed Angelo Pontrelli. Altri inquisiti sono accusati di aver preso
parte alle truffe, mentre un numero esiguo di indagati deve difendersi dal sospetto di
aver riciclato il denaro, provento delle attività illecite contestate dalla Procura.
Secondo il pm solo un processo potrà far chiarezza su un raggiro che avrebe causato
gravi danni economici a numerose società commerciali. Come una appartenente al
gruppo ‘Carrefour Italia’ che fu la prima a sporgere denuncia. (18)
Troppi attentati, le estorsioni ?
Preoccupano gli incendi che stanno infiammando le notti di Taranto.
Nel mese di marzo 2008 sono andate in fiamme 21 autovetture. Il dato emerge da
un’elaborazione dei Vigili del Fuoco. In provincia i casi registrati sono 27.
Solo il 29 marzo 2008 un incendio ha distrutto tre autovetture e danneggiato una
quarta in una via della città.
Anche se non tutti i casi segnalati sono di origine dolosa il dato è in ogni modo
preoccupante, tanto che il 1° aprile sul tema si è tenuto un incontro in Prefettura a cui
hanno preso parte, tra gli altri, i vertici della Questura e dei Carabinieri.
Quanto accaduto non può non creare nuovi timori nella città.
Il modus operandi è spesso simile. La sostanza infiammabile, molto probabilmente
benzina, viene versata sul cofano anteriore (per farla scolare nel motore) e sugli
pneumatici, poi viene appiccato l’incendio.
Durante la riunione in Prefettura è stata scartata l’ipotesi di un disegno criminoso
mirato a seminare il malcontento nella città. Ciò però non può del tutto escludere,
secondo alcuni, che parte di essi siano il frutto di minacce o di veri propri
avvertimenti legati a tentativi di estorsione. (18)
*
Tanto più che è del 2 aprile 2008 l’arresto di due giovani, da parte dei militari
dell’aliquota operativa della Compagnia Carabinieri di Taranto, che minacciavano a
scopo estorsivo un imprenditore edile.
I due giovani sono Luciano Sale di 32 anni e Antonio Vapore, 22enne, entrambi noti
alle forze dell’ordine.
242
I due avevano in mente di mettere in atto l’estorsione di Natale. I carabinieri durante
le indagini hanno appurato che i due giovani si sono recati più volte presso un
cantiere edile che si trova nei pressi di corso Umberto e, dopo aver contattato il
titolare dell’impresa, hanno richiesto un ‘regalo’ di 500 euro per assicurare
un’adeguata vigilanza.
Una circostanza definita ‘inquietante’ dagli investigatori è stata quella che, proprio in
quei giorni, nel cantiere, ignoti avevano tranciato un cavo elettrico di alimentazione
dei macchinari, provocando non pochi disagi alla ditta. Si dovrà appurare se si tratta
di una casualità oppure di un atto studiato per intimorire e ammorbidire la volontà
dell’imprenditore edile.
Le indagini sono state condotte con l’ausilio di intercettazioni ambientali, servizi di
osservazione e pedinamento. Indagini non semplici.
Durante i colloqui con la vittima, i due non avrebbero mai parlato di estorsione, ma di
‘servizi di vigilanza’ dal prezzo ‘di un panettone’ di 500 euro.
Gli esiti sono stati riferiti all’Autorità Giudiziaria che ha provveduto ad emettere un
provvedimento restrittivo. (18)
*
E che l’estorsione non possa essere esclusa tra i delitti che imperversa il
territorio lo conferma ancora l’episodio accaduto il 3 aprile 2008. Ignoti hanno dato
fuoco, nella notte tra il 2 e il 3 aprile, a tre escavatrici di proprietà di una impresa
edile che si trovavano all’interno di un cantiere. Il fuoco è stato appiccato mediante
del liquido infiammabile versato all’interno delle cabine dei mezzi. Il danno ammonta
a 75mila euro.
Il titolare dell’impresa, che non ha commesse per lavori pubblici ha dichiarato agli
investigatori, come generalmente accade, di non aver ricevuto mai richieste estorsive.
I carabinieri, tuttavia, non scartano né l’ipotesi che dietro l’attentato vi sia il racket
delle estorsioni, né che i motivi siano da ricercarsi in dissidi maturati nell’ambito
lavorativo o personale dell’imprenditore. (18)
*
C’è anche di più. Due personaggi col volto semicoperto da un cappuccio e con
fare spregiudicato, per far capire che non scherzavano, in più occasioni hanno fatto
irruzione in un supermercato di Talsano e hanno dato l’aut aut al proprietario.
Stando ad una prima ricostruzione dei fatti, col pretesto di dover recuperare un
credito per conto di un fornitore, hanno intimato al commerciante di sborsare la
somma di 50 mila euro in contanti. Secondo l’accusa, l’ultima volta che si sono
presentati per paventare il commerciante e indurlo a cedere al ricatto hanno tuonato
ancora: <<Ti conviene pagare. Altrimenti saranno guai. Ti faremo saltare in aria
insieme al supermercato>>.
243
Il commerciante, spaventato, ha trovato il coraggio per denunciare l’accaduto alla
Polizia, riferendo di essere taglieggiato da due individui. E’ scattata così la trappola.
Gli agenti della Squadra mobile hanno predisposto un servizio di osservazione
durante il quale hanno identificato i due taglieggiatori. Alla vittima hanno dato
precise indicazioni sull’ora, le modalità di pagamento e la consegna della somma
pretesa.
Presentatisi all’interno del supermercato, hanno prelevato la busta che avrebbe
dovuto contenere il denaro mentre in realtà erano state sistemate solo alcune
banconote da 50 euro, precedentemente fotocopiate dagli investigatori.
Ricevuta la busta con i soldi, i due sono stati circondati dai poliziotti che li hanno
bloccati e condotti in questura.
Daniele De Pace, incensurato, e Sergio Restano, già noto alle forze dell’ordine,
entrambi tarantini, l’11 aprile 2008 sono stati arrestati e condotti in carcere in quanto
ritenuti responsabili di estorsione in concorso fra loro.
Proseguono le indagini della mobile per scoprire se svolgono il ruolo di braccio
armato di una organizzazione più vasta e pericolosa.
Gli investigatori non escludono che l’episodio sia il segnale del racket delle estorsioni
che tenta di rialzare la testa e di allungare le mani sulle attività commerciali della
borgata. (27)
*
Nelle prime ore del 12 aprile 2008 a San Giorgio Jonico è stato perpetrato un
attentato incendiario ai danni del supermercato “Supernegozi Meta”.
Sono scattate le indagini dei carabinieri della Stazione di San Giorgio Jonico e della
Compagnia di Martina Franca, i quali hanno effettuato un accurato sopralluogo alla
ricerca di elementi utili per l’attività investigativa.
La proprietaria, una donna del posto ascoltata dai militari, avrebbe spiegato di non
aver ricevuto minacce o richieste estorsive. Da quanto si è appreso, non avrebbe
saputo fornire alcun elemento utile per orientare le indagini in una direzione ben
precisa.
Gli investigatori non escludono che possa essersi trattato di una possibile azione del
racket delle estorsioni. (27)
*
Ancora un attentato incendiario. La notte tra il 14 e il 15 aprile 2008, in località
Bagnara, ignoti hanno dato fuoco al chiosco di una rosticceria aperta soltanto durante
l’estate.
Le fiamme hanno divorato l’intera struttura e varie attrezzature custodite al suo
interno, causando danni ingenti, per un ammontare (stando alle prime stime) di
diverse migliaia di euro.
244
Sull’inquietante episodio sono scattate le indagini dei carabinieri della stazione di
Lizzano e della Compagnia di Manduria. I militari stanno seguendo diverse piste nel
tentativo di fare piena luce sul movente dell’attentato e di identificare gli autori.
Il chiosco è di proprietà di un commerciante di Sava, un incensurato, e questo li
induce ad escludere un possibile collegamento con ambienti o con affari poco puliti.
Una delle ipotesi al vaglio è quella di un’azione scaturita da questioni di rivalità. Allo
stesso tempo, però, gli investigatori dell’Arma non escludono un’altra ipotesi, più
inquietante. Quella di una possibile azione del racket delle estorsioni tornato a colpire
nel versante orientale della provincia. (27)
*
C’è ancora l’ombra del racket dietro l’incendio che la sera del 16 aprile 2008 ha
semidistrutto un camion a Lizzano.
Gli accertamenti dovrebbero appurare l’esatta natura dell’incendio. Gli investigatori
non escludono la natura dolosa, sebbene il proprietario del mezzo abbia asserito di
non aver ricevuto minacce o richieste estorsive. Le indagini si muovono ad ampio
raggio. E il secondo caso in due giorni: indagini sono in corso a Lizzano per accertare
le cause dell’incendio che il 15 aprile ha semidistrutto una rosticceria in località
‘Conche’ sulla litoranea salentina.
In tanto ad Avetrana, sempre il 16 aprile, si è verificato un altro incendio che ha
distrutto un capannone. Il danno subito dall’imprenditore edile che ha in uso il locale
ed è proprietario dei mezzi ammonta a diverse decine di migliaia di euro. L’uomo ha
visto andare in fiamme sia il garage che i mezzi custoditi al suo interno,
un’automobile e due furgoni, Non del tutto chiare le cause dell’incendio. (28)
*
Sembra non finire mai la lunga serie di attentati. Il 18 aprile 2008 è toccato al
caseificio ‘La Contadina’ in viale Magna Grecia a Taranto. Ignoti hanno cosparso di
liquido infiammabile la saracinesca e hanno appiccato il fuoco e, mentre le fiamme si
propagavano rapidamente si sono allontanati senza lasciare traccia.
Il sospetto degli investigatori è che il commerciante titolare del caseificio sia finito
nel mirino del racket delle estorsioni, anche perché non si tratta del primo atto
intimidatorio. Nei giorni immediatamente precedenti, è stato dato alle fiamme un
furgone di un’altra attività gestita dallo stesso commerciante, un vivaio di viale Unità
d’Italia. I due episodi potrebbero essere opera della mala invisibile pronta a ricorrere
a metodi convincenti per imporre la legge del pizzo.
I poliziotti stanno tentando di acquisire elementi utili per imboccare la strada giusta.
Purtroppo la telecamera installata davanti all’ingresso, la notte dell’attentato non era
attiva.
245
Ma la notte tra il 17 e il 18 aprile è stata di fuoco. Infatti un analogo episodio si è
verificato nelle campagne fra Ginosa e Ginosa Marina dove un deposito di
attrezzature agricole è stato danneggiato dalle fiamme. Sono scattate le indagini dei
carabinieri con un accurato sopralluogo alla ricerca di elementi utili al prosieguo
delle indagini. Sembrano non esservi dubbi sull’origine dolosa dell’incendio. (28)
*
Ancora la notte del 25 aprile 2008 un attentato incendiario a Talsano. Nel mirino
di ignoti è finito il supermercato “La bottega più”, in via San Bonaventura.
Sull’inquietante episodio indagano i carabinieri della Compagnia di Taranto e della
Stazione di Talsano. Non è escluso che si sia trattato di un’azione intimidatoria del
racket delle estorsioni tornato a colpire nella borgata per imporre la legge del ‘pizzo’.
Il commerciante, un incensurato, non ha saputo fornire alcun elemento utile per
orientare l’attività investigativa su una pista ben precisa. In questa fase delle indagini,
comunque, nessuna ipotesi viene esclusa, a cominciare da quella più preoccupante.
Quella di un possibile attentato a scopo estorsivo. (28)
*
Attentato incendiario ai danni di un elettricista. E’ stato perpetrato la notte fra
il 25 e il 26 aprile 2008 a Castellaneta, in via Togliatti. L’Alfa 166 era parcheggiata
sul margine della carreggiata. Intorno alle due, ignoti hanno appiccato il fuoco dopo
averla cosparsa di liquido infiammabile (molto probabilmente benzina).
Sull’episodio sono scattate le indagini dei carabinieri della Compagnia del posto. I
militari stanno vagliando tutte le ipotesi che hanno portato all’attentato, il racket ma
non escludono che possa essersi trattato di una ritorsione riconducibile a questioni di
carattere personale.
*
Nella notte tra il 29 e il 30 aprile 2008 si sono verificati diversi incendi di auto.
Nello specifico, agenti della Polizia di Stato sono intervenuti in via Venezia dove due
veicoli erano interessati da un incendio.
Un altro incendio di autovetture si è verificato in via Temenide. Anche in questo caso
è andata semidistrutta un’autovettura per cause ancora in via di accertamento. Su
entrambi i casi stanno investigando gli agenti della Questura di Taranto. Sono proprio
troppi gli incendi di auto che si verificano in città e non solo. Anche su nessuno di
questi ultimi si è affacciata l’ipotesi estorsiva?
*
Misterioso attentato dinamitardo ai danni di un pensionato. L’inquietante
episodio si è verificato la notte tra il 1° e il 2 maggio 2008 a Torricella. Un ordigno
rudimentale è stato collocato e fatto esplodere sotto u’Alfa Romeo 146 parcheggiata
246
in via sergente Menza. La deflagrazione ha provocato danni pesanti alla parte
anteriore dell’autovettura.
I carabinieri della Stazione di Torricella e della Compagnia di Manduria hanno
avviato le prime indagini, da cui è emerso che gli autori hanno utilizzato una bomba
carta.
L’autovettura presa di mira è di proprietà di un pensionato del posto, incensurato.
L’assenza di precedenti penali del destinatario dell’attentato induce i militari ad
escludere possibili collegamenti con ambienti malavitosi. La pista privilegiata, in
questi casi, è quella di una possibile vendetta per questioni di carattere personale.
Comunque, la vicenda è ancora tutta da chiarire. (28)
*
Un attentato incendiario è stato perpretato la notte tra l’8 e il 9 maggio 2008 a
Crispiano. Nel mirino è finito uno dei bar più frequentati dalla cittadina di provincia,
il ‘New dimension’. Sono andati completamente bruciati l’intero gazebo, tavolini,
sedie e altre strutture del locale. La presenza di legno e di altri materiali facilmente
infiammabili ha favorito il rapido propagarsi delle fiamme.
Ingenti i danni subiti dall’attività, ammonterebbero ad alcune decine di migliaia di
euro.
La proprietaria del bar è una donna del posto. Ascoltata dai militari, non avrebbe
saputo fornire alcun elemento utile per indirizzare le indgini sulla pista giusta. Si
tratta di una incensurata, quindi, questo induce gli investigatori ad escludere ogni
possibile collegamento con ambienti o affari poco puliti.
Non è escluso che l’attentato sia stato perpretato per questioni di carattere personale.
Comunque si tratta di una delle ipotesi al vaglio dei carabinieri che, in questa fas
delle indagini, non tralasciano nulla. Nemmeno l’ipotesi più inquietante, ossia quella
di una possibile azione del racket delle estorsioni che tenta di imporre la legge del
pizzo nella citadina di provincia.
*
Misterioso atto intimidatorio la sera del 22 maggio 2008 sulla TarantoGrottaglie. E’ stato perpetrato poco prima delle 22 da due individui piombati a gran
velocità a bordo di una moto di grossa cilindrata nell’area di servizio dell’Agip.
Entrambi avevano il volto coperto dal casco integrale e il loro arrivo ha terrorizzato
un operaio addetto alla distribuzione del carburante e un cliente che in quel momento
era fermo per fare rifornimento alle pompe di gpl.
Sull’episodio sono scattate le indagini per far luce sul movente. Probabilmente il
messaggio intimidatorio non era indirizzato al dipendente (un giovane tarantino
incensurato) ma alla stessa attività. I malavitosi potrebero aver sparato contro la
prima auto che hanno trovato ma questo non vuol dire che l’avvertimento a suon di
piombo fosse rivolto al giovane.
247
Purtroppo le telecamere del sistema di videosorveglianza non saranno di alcun aiuto
per gli investigatori in quanto i malviventi si sono fermati sul margine della
careggiata, quindi fuori dal raggio di azione. (28)
*
Resta in primo piano la pista del racket per dare identità agli autori
dell’atttentato, messo a segno la sera del 7 giugno 2008, ai danni dell’azienda Valvin,
situata nella zona industriale a cavallo tra San Giorgio e Faggiano, le cose si
complicano.
I militari hanno effettuato una serie di controlli, ritenendo che ad agire sia stata
sicuramente una frangia di quel racket delle estorsioni che ha sicuramente messo
radici nel settore orientale della provincia.
Allo stato, nonostante i lavori dei tecnici procedano con celerità ma con particolare
attenzione, si nutrono pochissimi dubbi sul fatto che, nel caso della ditta Valvin, si sia
trattato di un incendio doloso.
D’altra parte, i militari della Stazione di Pulsano e quelli della Compagnia di
Manduria avrebbero accertato che il portone d’ingresso è stato forzato.
L’azienda, finita nel mirino dei malviventi, è specializzata nella realizzazione di
impianti industriali per gas, gpl e metano. Si trova in contrada Baronia, zona
industriale alla periferia di San Giorgio che appartine in buona parte a Faggiano,
secondo una ripartizione geo-territoriale. (28)
*
E’ quasi certamente di natura dolosa l’incendio che ha distrutto un garage di
un’azienda agricola di Ginosa.
L’azienda agricola si trova sulla strada statale 580 che collega Ginosa Marina a
Ginosa nei pressi del caseggiato. Le fiamme, divampate nella serata del 14 giugno
2008 verso le 23, hanno distrutto oltre al deposito anche un trattore e attrezzi agricoli
contenuti all’interno del locale. Gravi i danni, stimati in alcune decine di migliaia di
euro.
Sul posto sono intervenuti anche i Carabinieri di Castellaneta per avviare le indagini
sul caso. I militari hanno ascoltato il proprietario dell’azienda agricola il quale ha
affermato di non aver mai ricevuto minacce o richieste estorsive. Gli investigatori
non scartano alcuna ipotesi, nemmeno quello che l’attentato possa essere maturato
nell’ambito della sfera lavorativa del piccolo imprenditore agricolo. (28)
*
Attentato incendiario ai danni di una nota cartoleria del Borgo. La sera del 22
giugno 2008, ignoti hanno dato fuoco alla tenda parasole della cartoleria “Albano &
248
Amodio”, in via De Cesare. Le fiamme sono state domate dai Vigili del Fuoco e
sull’accaduto sono scattate le indagini di carabinieri della Compagnia di Taranto.
Probabilmente si è trattato di un atto vandalico. L’entità dell’episodio induce gli
investigatori ad escludere l’ipotesi di una possibile azione di matrice estorsiva in
quanto il racket colpisce in maniera molto più dura, almeno che non si tratti di un
primo avvertimento. (28)
*
Misterioso incendio nel garage dell’abitazione del sindaco di Castellaneta, Italo
D’Alessandro. Le fiamme hanno bruciato una catasta di carta destinata alla raccolta
differenziata. Era stata depositata in un angolo del garage condominiale,
probabilmente in attesa di essere smaltita. Nella mattinata del 23 giugno 2008 le
fiamme hanno distrutto il cumulo, per fortuna senza provocare danni ingenti. Hanno
danneggiato una porta interna e il fumo ha annerito una parete. Poi si sono
autoestinte. Sull’accaduto sono scattate le indagini dei carabinieri della Compagnia di
Castellaneta. Pur essendo un episodio apparentemente di scarsa rilevanza, in questo
periodo nulla viene trascurato dai militari del posto. Qualsiasi episodio, anche quello
più insignificante, è accuratamente vagliato.
Da quanto si è appreso non ci sono dubbi sull’origine dolosa dell’incendio. Ed è
proprio la matrice dell’incendio ad indurre gli investigatori dell’Arma a non
trascurare il minimo dettaglio. Negli ultimi mesi, a Castellaneta, sono stati perpretati
pesanti atti intimidatori nei confronti di alcuni amministratori, l’ultimo dei quali
proprio ai danni del sindaco e di sua moglie.
E’, comunque, al vaglio dei carabinieri anche un’altra ipotesi che se fosse fondata
ridimensionerebbe notevolmente l’accaduto. Non è escluso che l’incendio sia stato
appiccato da qualcuno che ha deciso di adottare un sistema pericoloso, ma sbrigativo,
per eliminare quel cumulo di cartacce. (28)
*
Forse si tratta di un altro atto di teppismo. La notte tra il 23 e il 24 giugno 2008,
ignoti hanno incendiato un muletto parcheggiato nella parte retrostante il palco
montato sulla Rotonda del lungomare.
Stando ad una prima ricostruzione dell’accaduto, qualcuno ha appiccato il fuoco
all’interno della cabina guida. Le fiamme si sono propagate rapidamente bruciando il
mezzo. I poliziotti non escludono la matrice dolosa dell’incendio anche se nella zona
non è stato rinvenuto alcun elemento che possa confermare l’ipotesi del dolo.
Saranno le indagini a fare chiarezza sull’episodio che da quanto si è appreso sarebbe
riconducibile all’azione dei soliti teppisti di turno. Sarebbero da escludere ipotesi più
inquietanti come quella di una possibile azione del racket delle estorsioni.E questo di
certo conforta i cittadini, anche se, d’altra parte, questi incresciosi episodi cominciano
ad essere numerosi per non allarmare. (28)
249
Si torna a sparare
Più preoccupante è il fatto che si è ripreso a sparare per le vie cittadine.
Infatti, il 2 aprile 2008, vi è stato un agguato nel quartiere Paolo IV. Verso le 22 uno
o più sconosciuti hanno scaricato addosso al pregiudicato Osvaldo Mappa colpi di
pistola. L’uomo, un quarantenne, è in fin di vita. Ferita anche la madre, Natalia Axo.
Stando ad una prima ricostruzione, ignoti hanno citofonato all’abitazione dell’uomo.
Mappa, dopo aver risposto è sceso in strada e lì raggiunto da tre colpi di arma da
fuoco, uno all’addome, uno alla gamba e uno al torace.
Ferita in modo lieve la mamma, scesa in strada anch’essa, forse dopo essersi
insospettita della citofonata ricevuta a quell’ora tarda.
Ex collaboratore di giustizia, Mappa è rimasto coinvolto in numerosi processi di mala
tarantina: è uno degli imputati ‘eccellenti’ del maxi-processo originato
dall’operazione antimafia avvenuta negli anni Novanta denominata “Paolo VI” che
fece luce su omicidi e attività delittuose perpetrati da quello che veniva considerato
un clan emergente di cui Mappa faceva parte.
Un uomo che, nel corso degli anni, si era creato conoscenze ma anche nemici: una
circostanza che rende più complesse le delicate indagini condotte da investigatori e
inquirenti.
Un’auto completamente bruciata è stata ritrovata il 5 aprile nelle campagne fra Paolo
VI e Martina Franca. Si tratta di un ritrovamento casuale fatto dagli agenti del
Commissariato della cittadina della Valle d’Itria nel corso dei controlli del territorio.
Ma, considerando l’agguato di mala, di soli due giorni prima, al quartiere Paolo VI,
potrebbe esserci un collegamento col tentato omicidio. Non è escluso, infatti, che si
tratti dell’auto utilizzata dal commando per piombare a casa del bersaglio designato,
Osvaldo Mappa, e per darsi poi alla fuga. Certo, per ora, è soltanto un’ipotesi che i
carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale stanno accuratamente
vagliando ma non c’è alcun elemento che possa avallarla.
Da quanto emerso dagli immediati accertamenti l’auto, una Audi A4, è di
provenienza furtiva, rubata alcuni mesi fa a Matera. Il proprietario aveva denunciato
il furto.
Se è stata incendiata, per cancellare le tracce, sicuramente è stata utilizzata per
commettere un reato, forse un furto o, molto probabilmente, una rapina.
Saranno carabinieri e poliziotti a fare luce sugli episodi criminosi nei quali è stata
impiegata l’auto. (18)
*
Nel giro di solo 24 ore, quindi il 3 aprile 2008 verso le 21,45 un sicario a volto
coperto è entrato nella pizzeria di proprietà di Pietro Mariano, pregiudicato 35enne.
Quest’ultimo si trovava di fronte al forno, pare intento ad estrarre delle pizze, il killer
250
gli ha esploso contro quattro colpi di pistola calibro 9, uno lo ha raggiunto alla
schiena, ferendolo in modo grave.
Gli investigatori stanno cercando di capire se i due tentati omicidi: quello di Mappa a
Paolo VI e quello di Mariano, sono in qualche modo collegabili fra loro.
Gli agenti della Scientifica hanno trovato i quattro bossoli espulsi dalla pistola a poca
distanza dal luogo del ferimento.
L’agguato è avvenuto in pieno quartiere Salinella a pochi metri delle ‘case
saracinesca’.
Mariano apparteneva al clan degli Appeso. A conclusione del maxi-processo
“Penelope” venne condannato negli anni Novanta a 10 anni di reclusione per i reati di
associazione mafiosa e per spaccio di droga.
Due reati cui si aggiunse, qualche tempo dopo, anche quello di concorso in omicidio
di Antonio De Filippis, un giovane tarantino che venne ammazzato per un tragico
errore la sera del 18 marzo del 1992. Vittima designata era invece Gianfranco
Parabita.
I carabinieri subito dopo l’agguato al Mappa hanno effettuato numerose
perquisizioni, interrogati alcuni sospetti, i cui alibi sono ancora al vaglio, hanno
sottoposto due indiziati alla prova dello stube. In attesa dei risultati, l’attività
investigativa continua come confermano gli ultimi interrogatori.
Diventato collaboratore di giustizia, Mappa confessò l’assassinio di Magli, e di tre
esponenti del clan, Vincenzo Caligine, Ciro Bartiromo e Cosimo Ble. Tutti furono
attirati in un tranello e colpiti alle spalle. Il primo perché, secondo alcune
testimonianze, si sarebbe rifiutato di eseguire alcuni ordini. Il secondo per uno sgarro.
Ble fu crivellato di colpi sotto gli occhi della moglie e del figlio.
Per i quattro omicidi, Mappa (che ha ottenuto i benefici previsti per i collaboratori di
giustizia) ha collezionato 23 anni di reclusione ma è a piede libero per motivi di
salute. Gli uomini dell’Arma non escludono che, tornato in libertà, si sia inserito di
nuovo negli ambienti criminali all’interno dei quali è maturata la sentenza di morte.
Non è escluso che le indagini giungano ad una svolta anche in tempi brevi.
A distanza di circa un mese dal tentato omicidio di Paolo Vito, altri nomi che non
lasciano indifferenti investigatori e giornalisti di nera. Due agguati da leggere con
attenzione. E’ bastato leggere, per esempio, il nome di Mappa perché tornassero alla
mente i fantasmi di un passato segnato da una lunga scia di sangue. Anche innocente.
Come quello dell’agente di Polizia penitenziaria Carmelo Magli, scelto a caso e
crivellato di colpi all’uscita dal carcere per rispondere di presunti maltrattamenti
avvenuti oltre le sbarre . Una prova di forza senza precedenti.
Esecuzioni plateali e casi di ‘lupara bianca’, vendette trasversali consumate anche nel
giro di poche ore, ‘sgarri’ pagati con la vita.
251
Insomma, centocinquanta omicidi in un periodo di oltre cinque anni che va dalla
‘storica’ contrapposizione Modeo-De Vitis alla più recente lotta tra i cosiddetti clan
emergenti, Perelli e Martinese.
Osvaldo Mappa fu uno dei protagonisti di quegli anni, prima come componente del
gruppo di fuoco del clan Perelli, poi nelle vesti di collaboratore di giustizia.
Ora il suo nome è tornato prepotentemente al centro delle cronache e con lui una serie
di interrogativi inquietanti che si riassumono nel timore che dopo la quiete possa
tornare la tempesta. (18)
Il 15 aprile si è appresa una vera novità, rappresentata dal passaggio di consegna fra
gli organi inquirenti. Adesso a dover indagare, a doversi occupare della delicata
vicenda, a dover far luce sulle cause e sull’identità degli autori dello spietato agguato
non sarà più la Procura tarantina, bensì l’Antimafia di Lecce.
Sul motivo che ha impresso questa svolta di carattere investigativo non è trapelato
praticamente nulla. Così come nulla è filtrato sul contenuto degli interrogatori di due
soggetti ascoltati in qualità di persone informate sui fatti. Segno evidente di come i
titolari del fascicolo vogliono lavorare nel massimo riserbo senza pregiudicare il
cammino di indagini che erano e continuano ad esserlo estremamente delicate.
A fronte dell’ovvio silenzio degli inquirenti non resta che formulare solamente ipotesi
circa la matrice del mancato assassinio di Mappa. E quello secondo cui si sia trattato
di un regolamento di conti rimane la più valida. (18)
A distanza di diciotto giorni dalla sparatoria, il killer pentito è morto domenica
mattina, 20 aprile 2008, in seguito alle ferite riportate. I risultati dell’esame autoptico
potrebbero rivelarsi importanti e consentire agli investigatori di acquisire ulteriori
elementi utili alla ricostruzione della dinamica del delitto, tenuto conto che non è
stato possibile acquisire testimonianze.
Il decesso del Mappa ha fatto ritornare il Paolo VI nel clima degli anni bui della
guerra fra clan malavitosi. Nel quartiere serpeggia il timore di una possibile vendetta.
Anche gli investigatori non escludono che si possa scatenare una nuova faida fra
gruppi criminali contrapposti. Non a caso si sono rafforzati i controlli anticrimine nel
quartiere e l’attenzione sulle dinamiche interne agli ambienti criminosi è massima.
Due sono le piste seguite dai carabinieri: quella del traffico e dello spaccio di
sostanze stupefacenti e quella delle estorsioni, in un regolamento di conti maturato
nell’ambito di rivalità per il controllo di traffici poco puliti.
Alla luce degli ultimi sviluppi è diventato più pesante il sospetto che grava su due
pregiudicati sottoposti alla prova dello stube subito dopo l’omicidio. Al Comando
provinciale dell’Arma sono in attesa che il Ris di Roma faccia conoscere l’esito del
test per determinare la bontà o meno della pista seguita. (18)
*
252
Nel tentato omicidio del 28 aprile 2008 forse la mala e i suoi loschi affari non
c’entrano. Questa volta sono stati probabilmente futili motivi ad armare la mano
dell’individuo che ha sparato e ferito gravemente un 18enne, Andrea Tardiota.
Stando ad una prima ricostruzione dell’accaduto, prima del ferimento, avvenuto
intorno alle 21,30, il giovane si trovava alla guida della sua moto, insieme ad
un’amica.
Un automobilista li ha sfiorati, rischiando di scaraventarli per terra. Nei pochi istanti
in cui i due veicoli si sono affiancati, c’è stato un scambio di offese e minacce
pesanti. L’alterco, poco dopo, ha avuto un seguito. L’automobilista, armato di pistola,
si sarebbe messo alla ricerca del motociclista.
Dopo averlo trovato in via Cesare Battisti, gli ha puntato contro una pistola di grosso
calibro e ha esploso alcuni colpi. Due hanno raggiunto all’addome il ragazzo il quale
ha cercato di mettersi al riparo dai proiettili rifugiandosi in una pizzeria. Arrivato
davanti al bancone si è accasciato sul pavimento. Soccorso e trasportato all’ospedale
Santissima Annunziata, è stato sottoposto ad un delicato intervento chirurgico per
tamponare l’emorragia interna.
Si tratta del terzo fatto di sangue verificatosi in città dall’inizio di aprile. Infatti, come
abbiamo riferito, il 2 aprile, in viale Della Liberazione, al quartiere Paolo VI, è stato
ferito a colpi di pistola Osvaldo Mappa. E’ deceduto il 20 di aprile. La sera del 4
aprile, in via Lago d’Albano, al quartiere Salinella, il secondo agguato. Un muratore è
stato ferito a colpi di pistola. In questo caso la Polizia ha incastrato il presunto autore,
Egidio Vinzi.
Non si tratta degli unici tre agguati tesi in città dall’inizio del 2008. Infatti, la sera del
29 febbraio, in viale Japigia, è stato ferito a colpi di arma da fuoco un personaggio
molto noto alle forze dell’ordine, Paolo Vito. Si tratta di episodi privi di qualsiasi
collegamento che destano molta preoccupazione perché dimostrano che in città la
mala è tornata a sparare per la strada, incurante delle conseguenze, anche tragiche,
che i regolamenti di conti possono provocare. (18)
*
Le auto erano parcheggiate in due diverse strade a Castellaneta: via Caduti la
Lancia K, via Arco Calderai la Peugeot 107, nella notte fra il 19 e il 20 maggio 2008.
La prima appartiene al sindaco della città Italo D’Alessandro, la seconda alla moglie.
I malviventi lo sanno e trasformano in un rogo proprio quelle, anche se poi le fiamme
finiscono col coinvolgere anche altre due auto una Fiat Punto e una Fiat Marea.
Una vendetta in piena regola, un gran danno per la famiglia, un messaggio
inquietante per un sindaco che aveva già subito un altro ‘attentato’ sicuramente più
lieve, ma ora qualcuno ha alzato il tiro per ragioni che toccherà ai carabinieri della
Compagnia di Castellaneta.
E poi è un fatto, l’aministrazione comunale di Castellaneta in una maniera o nell’altra
è finita nel mirino. Una escalation di intimidazioni che ha riguardato consiglieri
253
comunali, assessori, a cui qualcuno ha tagliato le gomme, altri danneggiato l’auto, in
una strategia che se per gli investigatori appare oscura, è da addebitarsi al clima di
litigi eredidato, agli attacchi piuttosto aspri. Lo sforzo, sempre secondo il Sindaco, è
stato quello di restituire ai cittadini una comunità tranquilla e a qualcuno questo
potrebbe dare fastidio.
(28)
*
Un attentato nella notte in via Capecelatro. Un attentato che suona come un
pesante avvertimento di stampo malavitoso e portato a segno nei confronti della
moglie e dei tre figli dell’ex pentito Francesco Di Bari che risiedono in una palazzina
della via.
L’esplosione, avvenuta verso le 4 del mattino del 26 maggio 2008, ha provocato
danni ingenti all’androne dell’edificio, mandato in frantumi i vetri del portone
d’ingresso del palazzo e di quelli confinanti e danneggiato un’auto e un furgoncino
parcheggiati poco distanti dall’edificio.
Quello che pare essere, a tutti gli effetti, il destinatario dell’avvertimento, il pentito
Francesco Di Bari, ex personaggio di spicco della malavita locale, è detenuto nel
carcere Molinette di Torino. Da qualche tempo, però, è ricoverato nell’ospedale del
capoluogo di regione per problemi di salute.
Naturalmente si sta indagando a tutto campo sull’episodio: una vendetta trasversale,
un avvertimento.
L’episodio non è isolato ed è preoccupante. Da gennaio sono stati cinque gli attentati
di mala in città, ma, due di questi, proprio perchè non hanno ancora una chiave di
lettura, suscitano maggiore allarme per gli investigatori e gli inquirenti.
Di Bari, imputato in procedimenti antimafia come quello legato all’operazione ‘304’
o all’inchiesta ‘Ellesponto’, sta scontando una condanna per vari reati, tra cui l’aver
preso parte all’organizzazione della strage della barberia, fatti di droga e rapine che
l’uomo avrebbe compiuto quando era pentito. Ma è proprio per la strage della
barberia che Francesco Di Bari è diventato noto alle cronaca nera: la sera del primo
ottobre 1991 tre innocenti persero la vita perché si trovarono nel posto sbagliato nel
momento sbagliato. Nella sala da barba di via Garibaldi fecero irruzione tre killer che
iniziarono a sparare all’impazzata sui presenti pensando che tra loro vi fosse la
vittima designata. Le raffiche di proiettili non risparmiarono anche chi, solo per un
caso, si trovava nella sala da barba in quel momento.
Alla fine rimasero a terra quattro morti, fra cui il gestore del salone da barba, e due
feriti gravi. Nessuno di loro era la vittima designata.
Di Bari si autoaccusò di essere stato uno degli organizzatori della strage ma di non
avervi preso parte, diventando poi collaboratore di giustizia.
Ma la strage è un episodio troppo lontano nel tempo per essere collegabile
all’attentato del 26 maggio.
254
Cosa ha portato ad accendere la miccia che ha provocato l’esplosione per il momento
resta un giallo. Gli investigatori hanno ascoltato persone vicine alla malavita tarantina
e coloro che risiedendo nella via che in qualche modo possono aver visto qualcosa o
sentito qualcosa prima del fragoroso scoppio.Una caccia alla pista che. ci si augura,
potrebbe portare a scoprire gli autori del gesto e fornire una valida traccia sui fatti
accaduti in questi ultimi mesi a Taranto. (18)
*
La questione sicurezza è in primo piano e non solo in città. Il 26 maggio 2008 si è
riunito il comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico presieduto dal Prefetto.
Tema al centro dell’incontro tra i vertici ionici delle forze dell’ordine è stato
l’attentato al sindaco di Castellaneta, Italo D’Alessandro, finito con la moglie nel
mirino di incendiari, e gli atti intimidatori subiti da alcuni consiglieri comunali. Un
incontro a porte chiuse da cui è trapelato tutta l’attenzione delle istituzioni sulle
questioni legate alla sicurezza.
E se in provincia l’attenzione è puntata sul comune di Castellaneta, a Taranto il
rischio di una recrudescenza della malavita organizzata preoccupa l’opinione
pubblica. Così dopo aver affrontato, con la presenza del sindaco di Castellaneta, gli
attentati in cui sono rimaste vittime sia lo stesso primo cittadino che alcuni consiglieri
comunali della città jonica, il Prefetto è rimasto chiuso nel suo ufficio con i vertici
delle forze dell’ordine. In questa seconda fase dell’incontro sarebbero state affrontate,
stando a quanto si è appreso, questioni tecniche inerenti la sicurezza nel Tarantino e
nella città capoluogo di provincia. (18)
*
Di nuovo i killer in azione. Questa volta lo scenario è via Carducci a Palagiano
dove due uomini hanno gambiazzato, il 29 maggio 2008, il titolare di un’agenzia di
pompe funebri e un uomo che era con lui.
Le vittime dell’agguato sono Pino Loperfido e Lorenzo Putignano. Secondo una
prima ricostruzione dell’accaduto, i due sono stati sorpresi dai sicari all’uscita
dell’agenzia di proprietà di Loperfido.
A bordo di una motocicletta e con il volto coperto dal casco i due killer hanno aperto
il fuoco – a quanto pare – con due pistole contro le vittime designate. Il titolare
dell’agenzia è stato ferito ad un piede, mentre il Putignano è stato raggiunto da un
proiettile alla coscia. Entrambi soccorsi sono stati portati in ospedale, il primo a
Massafra e il secondo, in più gravi condizioni, al Santissima Annunziata di Taranto.
Il movente della sparatoria è ancora oscuro. Gli investigatori, stanto a quanto si è
appreso, seguono due piste. Una è quella di una vendetta, per questioni di carattere
personale. L’altra è quella di possibili contrasti maturati nell’ambito del settore delle
onoranze funebri per questioni di concorrenza.
255
E’ certo che ormai l’uso delle armi ricorre, in questa realtà, con molta frequenza. E’
questo il quarto agguato che si è verificato da febbraio, e l’allarme tra i cittadini
lievita sempre di più, così come le preoccupazioni degli investigatori e degli
inquirenti. (18)
*
Una forte esplosione nel cuore della notte ha svegliato gli abitanti di via Leonida.
Alle 3,45 del 5 giugno 2008 una bomba è esplosa davanti a una tabaccheriaricevitoria a pochi metri dall’incrocio di via Japigia.
La forte deflagrazione ha sventrato l’ingresso dell’esercizio commerciale,
scaraventando la saracinesca sul lato opposto della carreggiata, danneggiando anche
due autovetture parcheggiate nelle vicinanze.
Questa volta non si tratta di racket ma, stando alle indiscrezioni, l’attenzione dei
militari dell’Arma si è concentrata sull’ipotesi di una vendetta o di un avvertimento
scaturito da questioni di carattere personale ancora tutte da chiarire. Il proprietario
dell’esercizio, già noto alle forze dell’ordine, è stato ascoltato dagli investigatori, ma,
da quanto si è appreso, non avrebbe saputo fornire alcun elemento utile per le
indagini, perciò si stanno scandagliando gli ambienti frequentati dal titolare della
tabaccheria.
Attentati dinamitardi, rapine, furti, regolamenti di conti evidenziano una escalation
degli episodi criminosi. Una escalation che suscita non poche preoccupazioni perché
potrebbero essere il segnale di un possibile risveglio della mala e dei contrasti tra
gruppi criminali. Contrasti che vengono regolati a suon di bombe.
(18)
*
In fiamme, alle 4 del mattino del 5 giugno 2008 a San Pietro in Bevagna, non una
villa comune, ma quella bifamiliare, in parte di proprietà della moglie del vicesindaco
di Manduria, Gregorio Dinoi, e in parte della sorella di lei. Una circostanza che fa
andare al di là della semplice ipotesi dell’atto vandalico o del furto con incendio.
Per adesso gli investigatori stanno lavorando nel campo delle ipotesi: una vendetta
trasversale, un errore di appartamento o un atto vandalico.
Resta il fatto che gli attentatori hanno agito con perizia e determinazione e che il loro
intento era provocare quanti più danni possibili. Il vicesindaco, persona rispettata per
la sua integrità in paese e impiegato in un centro di promozione culturale della
Regione ha la delega ai Lavori Pubblici. Delga ‘difficile’ che potrebbe aver portato
Dinoi a compiere scelte amministrative poco gradite dalla malavita locale.
Nel novero delle ipotesi, al vaglio degli investigatori, anche l’atto vandalico, uno
come tanti di quelli che stanno accadendo negli ultimi tempi a San Pietro in Bevagna.
La marina di Manduria viene presa di mira dai vandali e dai ladri di appartamenti
soprattuto in inverno, quando le residenze estive sono disabitate. Capita a volta che i
256
ladri, dopo aver fatto razzia di quanto trasportabile, danno l’appartamentro alle
fiamme per distruggere impronte e tracce che potrebbero far risalire alla loro identità.
Il dubbio è che la malavita ionica si stia sempre più interessando alla politica
cercando di imporre la sua legge della paura. I precedenti ci sono: a Castellaneta,
consiglieri comunali, assessori e infine, come abbiamo riportato, il sindaco, sono
finiti nel mirino di ignoti attentatori. A marzo 2008, sono state incendiate le auto di
un consigliere di Alleanza Nazionale, Giuseppe Rochira, e di alcuni familiari. Nei
mesi precedenti, un altro consigliere, Annibale Cassano, esponente di Forza Italia, si
è ritrovato in diverse occasioni con le gomme dell’auto tagliate. (18)
*
A Taranto l’ennesima sparatoria si è verificata poco prima delle 23 del 9 giugno
2008, nel cuore della città vecchia.
A restare ferito Giuseppe Gigante. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, il
malcapitato sarebbe stato raggiunto da alcuni colpi di fucile ad una coscia. L’uomo è
ricoverato al SS. Annunziata. L’agguato è avvenuto in via Duomo, dinanzi ad un
circolo ricreativo, a pochi metri dalla basilica di San Cataldo. A sparare sarebbe stata
una sola persona, probabilmente a piedi che poi avrebbe fatto perdere le sue tracce
fuggendo tra i vicoli della città vecchia. Sul posto sono intervenuti gli agenti della
Squadra Mobile e della polizia Scientifica che conducono le indagini. (18)
*
Nuova pesante offensiva della malavita nel Tarantino. Questa volta il conto è
stato regolato in una cava, a Lizzano, di proprietà della famiglia della vittima,
Damiano Pasquale Mele, personaggio di spicco nella geografia della malavita locale
e sorvegliato speciale. Il corpo dell’uomo, freddato da da due colpi di fucile, è stato
trovato verso le sette del mattino del 9 giugno 2008 dal padre, all’interno della vasta
cava di proprietà della famiglia. Sul posto i carabinieri del Comando provinciali e
della Compagnia di Manduria hanno avviato le indagini di un delitto che ha tutte le
caratteristiche dell’agguato di mala.
I militari hanno ascoltato i familiari della vittima e gli operai impiegati nella cava.
Stando a quanto si è appreso uno o più killer si sono introdotti nella cava e hanno
sparato alcuni colpi di fucile a pallettoni alle spalle di Mele che hanno raggiunto
anche la nuca. Un attentato preparato nei minimi dettagli: le bocche di fuoco che
hanno ucciso il pregiudicato potrebbero essere entrate da un passaggio secondario
nella cava per evitare la strada principale di accesso
Alcune indiscrezioni raccolte, dicono che le investigazioni si stanno muovendo negli
ambienti malavitosi del versante orientale. Territorio dove il clan Melesi muoveva in
contrapposizione di un altro clan storico di quel versante della provincia: il clan dei
Pappalà.
257
Il Mele, arrestato nel luglio del 2000 durante l’operazione ‘Quo vadis’ era uscito dal
carcere nel 2005, dopo che la Cassazione aveva annullato le sentenze di primo e
secondo grado con condanna a 18 anni di carcere. L’accusa per tutti i componenti del
clan Mele coinvolti nell’operazione fu a vario titolo di associazione di stampo
mafioso finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti. Stando all’accusa, il
sodalizio avrebbe gestito lo smercio di eroina e cocaina e perpetrato estorsioni ai
danni di commercianti e piccoli imprenditori del Lizzanese e di zone limitrofe. Con il
denaro, provente dei taglieggiamenti, gli inquisiti avrebbero potruto garantirsi di
imprecisati quantitativi di droga. Che poi una volta messi sul mercato, sarebbero stati
in grado di assicurare introiti di un certo rilievo. (18)
*
L’omicidio di Mele potrebbe innescare una faida. Per scongiurare questo rischio
le Forze dell’ordine hanno intensificato i controlli nel versante orientale della
provincia.
Un summit sulla sicurezza ha riguardato Lizzano. Sulla scorta dell’omicidio Mele è
stata attentamente esaminata la situazione della cittadina. Un altro ha riguardato
invece Manduria, convocato per fatti diversi ma altrettanto gravi, come l’attentato
incendiario alla cognata del vicesindaco, episodi che hanno destato non poca
preoccupazione nei due centri. Al fine di potenziare l’attività di controllo di
Carabinieri e Polizia è stato deciso l’invo da Bari di militari della Compagnia di
Intervento Operativo (Cio). Non si tratta del primo intervento di tal genere nella
provincia ionica.
La mala sembra essersi risvegliata. I fatti di sangue degli ultimi mesi potrebbero
essere il sintomo di dinamiche conflittuali interne agli ambienti malavitosi. (18)
*
Tre colpi di pistola, una vittima e un presunto colpevole; prima scarcerato e poi
ricondotto in cella a Taranto: vanno prendendo forma i contorni dell’efferato
omicidio di Saverio Soleto, 57enne, guardia giurata, che ad ottobre 2007 fu vittima
dell’aggressione in Corso Vittorio Emanuele a Talsano.
A far tornare in carcere Cristian Cocciolo, 22enne, riconosciuto subito dopo il delitto
da alcuni testimoni come il killer che aveva premuto il grilletto, i risultati dei rilievi
compiuti dalla Polizia Scientifica: dagli esami condotti su campioni prelevati dalle
mani dell’indagato sono emerse tracce di polvere da sparo; quindi che ad impugnare
l’arma e a sparare sia stato proprio Cocciolo, con precedenti per fatti di droga.
Una conferma per gli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Taranto, i
quali già dalle ore immediatamente successive al delitto imboccarono il percorso che
li portò a Cocciolo. A indicare il giovane, come l’assasino del Soleto, una serie di
testimoni che in quel momento si trovavano nella frequentatissima via di Talsano.
Testimonianze che portarono all’arresto del 22enne pescatore con precedenti. Una
258
carcerazione, richiesta dal pm e firmata dal gip del Tribunale di Taranto, durata circa
cinque mesi: il 12 marzo 2008 Cocciolo viene scarcerato a seguito di una decisione
della Corte di Cassazione che ritiene insufficienti gli indizi sui quali era stato fondato
il fermo.
Ma le indagini non si sono fermate nonostante la scarcerazione del sospettato.
Le indagini hanno permesso al pm di formulare una nuova richiesta di misura
cautelare, accolta dal gip con l’emissione di una nuova ordiananza di custodia
cautelare in carcere. Nel pomeriggio del 24 giugno 2008 la misura è stata eseguita e
gli agenti della Mobile hanno arrestato Cocciolo e trasferito nella casa circondariale
di Taranto. Ancora non del tutto chiari i moventi, su questo le indagini sono ancora
aperte. (18)
L’usura
La Procura di Taranto, completate le indagini su episodi verificatisi ai danni di
imprenditori sino al giugno 2004, sul versante occidentale della provincia ionica, ha
indicato i reati che rappresentano il caposaldo di questa delicata inchiesta:
associazione a delinquere, concorso in usura, estorsione continuata, danneggiamento.
Dovranno giustificare le rispettive posizioni nell’ambito di un regolare dibattimento
otto persone, le stesse che i carabinieri della Compagnia di Castellaneta hanno
individuato al termine di meticolosi accertamenti partiti a seguito di una
segnalazione.
Il p.m., preso atto dei risultati investigativi, con trasmissione al Gup del Tribunale il
18 aprile 2008, ha ritenuto di puntare l’indice contro soggetti che, dopo aver concesso
finanziamenti di un certo importo, avrebbero preteso per la restituzione interessi poi
giudicati dagli stessi inquirenti ‘fuorilegge’.
Emblematico il caso di quell’imprenditore di Laterza che dopo aver ricevuto un
prestito di 5 milioni di vecchie lire sarebbe stato costretto (dopo pesanti atti vandalici
ai danni della sua auto) a promettere la corresponsione di una somma complessiva di
circa 200 milioni, il tutto proprio a causa di tassi praticati da chi gli anticipò il denaro.
Secondo il capo d’accusa, ad essere finiti nella ‘morsa’ sarebbero stati dodici fra
titolari di aziende e commercianti di Laterza, Ginosa, Castellaneta, Massafra, tutti alle
prese con problemi economici che mettevano a rischio la prosecuzione della loro
attività.
Appare superfluo aggiungere che l’ottenimento di quei prestiti non risolse nulla.
Anzi, peggiorò lo stato delle cose. I nuovi oneri da dover rispettare, per gli interessi
maturati, rese spesso praticamente impossibile l’estinzione del debito. Ma non basta.
Uno degli imprenditori che aveva ottenuto le anticipazioni di denaro, anche dopo aver
estinto il debito iniziale fu costretto a corrispondere ulteriori interessi usurai,
circostanza che lo ridusse sul lastrico.
259
Quanto stava succedendo alle malcapitate vittime fu portato all’attenzione dei militari
dell’Arma che, attraverso una delicata ricostruzione dei fatti, riuscirono ad
individuare i presunti protagonisti della vicenda.
Preso atto degli esiti delle indagini, il pubblico ministero ha ravvisato gli estremi per
contestare solo a carico di quattro indagati l’accusa di associazione a delinquere
finalizzata al riciclaggio e all’usura (questi avrebbero praticato interessi pari al 50 per
cento); nei confronti di altri tre inquisiti è stato ipotizzato solo il concorso in usura,
mentre per l’ultimo inquisito, che rischia il rinvio a giudizio, le accuse vanno
dall’estorsione al danneggiamento (oltre all’usura).
Adesso al Gup il compito di valutare il caso e decidere se farlo arrivare a
dibattimento
*
L’operazione <<Bonifica>> partì nella seconda metà degli anni Novanta.
All’epoca finirono in carcere 24 persone. ci furono sequestri di beni e titoli per
miliardi di vecchie lire e la notifica di avvisi di garanzia per almeno venti persone.
Le indagini sulla presunta organizzazione partirono a seguito di una miriade di
denunce e fecero leva soprattutto su una serie di perizie di natura tecnica. Secondo la
tesi ipotizzata dall’accusa, commercianti ed imprenditori dell’intera provincia ionica
sarebbero stati costretti a pagare interessi da ‘capogiro’ per far fronte ad impegni
presi con finanziatori privati.
Le accuse ipotizzate a carico degli inquisiti andarono dall’associazione a delinquere
all’usura continuata, dalle minacce alle estorsioni e dal falso in bilancio al riciclaggio
di danaro proveniente da delitti. Contestazioni che comunque non furono formulate
nei riguardi di tutti i soggetti coinvolti proprio perché differente sarebbe stato il ruolo
ricoperto da ognuno di essi nella vicenda. L’attività investigativa prese in esame
episodi verificatisi dall’inizio del 1990 alla fine del ’94. Un arco di tempo molto
ampio, lo stesso che ha rappresentato il periodo in cui una parte delle presunte vittime
decise di rivolgersi alla magistratura e di raccontare quanto gli stava capitando.
Secondo ciò che è stato accertato dagli inquirenti, alla base di ogni cosa ci sarebbero
state le difficoltà economiche con cui soprattutto commercianti e piccoli imprenditori
agricoli avrebbero dovuto fare i conti. Proprio il bisogno di denaro affiancato
dall’impossibilità di accedere al credito bancario li avrebbe spinti a rivolgersi a
‘finanziatori’ pronti a prestare in qualsiasi momento somme di denaro anche di un
certo rilievo. Stando a quanto sostenuto dalla Procura alla luce degli esiti delle
indagini, tutti coloro che avevano fatto ricorso a quegli aiuti avrebbero dovuto
sborsare tassi di interesse fuori da ogni portata (sembra che siano arrivati sino al 120
per cento annuo) per far fronte agli impegni assunti. A quanto pare chi non sarebbe
stato in grado di adempiere alle richieste dei ‘finanziatori’ avrebbe passato guai seri.
E a dimostrare questo furono le denunce sporte dalle presunte parti lese. Secondo
queste ultime, si registrarono episodi di minacce, che in determinati casi sarebbero
260
stati prodromici ad attentati. Il tutto è andato avanti fino a quando qualcuno non trovò
il coraggio di ribellarsi e di segnalare ogni cosa alle forze dell’ordine.
Il resto fa parte di una vicenda giudiziaria che a circa tredici anni dalla cosiddetta
<<Operazione Bonifica>> solo il 21 aprile 2008 ha raggiunto la sua prima tappa.
Preso atto di quanto emerso dalla lunghissima istruttoria dibattimentale, il Tribunale
ha aderito solo in parte alle richieste della pubblica accusa. Solo sei condanne a fronte
di una raffica di assoluzioni favorite anche dall’intervento della prescrizione.
Alla fine hanno ‘retto’ solo due reati. Quasi tutto il resto del capo d’accusa è stato
invece spazzato via dalla prescrizione. L’associazione a delinquere, l’usura,
l’esercizio abusivo di attività di concessione di finanziamenti, i falsi in bilancio: nulla
di tutto questo ha potuto influire sull’esito finale. L’incedere del tempo ha svuotato di
significato quelle che erano le contestazioni principali dell’inchiesta che, a metà degli
anni Novanta, svelò un vorticoso giro di prestiti a strozzo ai danni di imprenditori e
commercianti della provincia ionica. Il tempo trascorso ha ‘cancellato’ episodi e
circostanze che caratterizzarono quella delicata vicenda. Ed una volta arrivato al
capolinea il processo non ha potuto non risentirne.
Alla fine hanno ‘retto’ solo due reati: estorsione e riciclaggio di denaro. Solo quei due
reati, gli stessi che sono costati la condanna a sei dei 38 imputati rimasti coinvolti nel
procedimento.
Anche il dott. Nunzio Mascia, proprio colui che sembrava il più gravato fra tutti gli
inquisiti e che per questo rischiava una pena pesantissima: 9 anni, ha chiuso il
processo senza alcun danno. E’ stato assolto sia per l’insussistenza dei fatti a lui
addebitati sia per l’intervenuta prescrizione di ulteriori reati.
Si è così malinconicamente chiusa una vicenda che pure aveva fatto scandalo, anche
le rimanenti pene inflitte sono risultate inferiori rispetto a quelle che erano state
proposte dal pubblico ministero. (29)
*
Sono scattati di nuovo i sigilli per l’area di servizio di proprietà di Corrado
Sorrentino, personaggio noto alle forze dell’ordine, arrestato il 2007 nel corso del
blitz ‘Mediterraneo’.
Gli agenti della Squadra mobile e della Dia di Lecce, a seguito della sentenza della
VI Sezione della Corte di Cassazione, emessa il 22 maggio 2008, hanno nuovamente
sottoposto a sequestro preventivo l’impianto di distribuzione di carburanti, già
oggetto di sequestro nell’ottobre 2007, nell’ambito delle indagini espletate nei
confronti del commerciante.
A ottobre 2007, gli stessi poliziotti avevano posto sotto sequestro l’impianto, al
quartiere Paolo VI, in esecuzione del relativo provvedimento in via preventiva,
emesso dal gip del Tribunale di Lecce.
261
Il successivo 22 novembre il Riesame di Lecce aveva disposto il dissequestro con
ordinanza che la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio, su ricorso presentato
dal pm della Dda di Lecce.
I sigilli, quindi, sono scattati nuovamente per uno degli immobili del patrimonio del
Sorrentino ma non per la villa. La Suprema Corte, infatti, ha respinto il ricorso del
magistrato inquirente. Per l’abitazione, comunque, era stata concessa la facoltà d’uso
ai familiari di Sorrentino.
I beni, del valore di un milione di euro, sono stati sequestrati perché ritenuti il frutto
di investimento dei proventi dei prestiti a strozzo. Accusa che a luglio 2007 ha fatto
scattare una nuova ordinanza di custodia cautelare per Sorrentino. (29)
*
Case, terreni, fabbricati ed esercizi commerciali acquistati con le ingenti somme
di danaro accumulato grazie a presunte attività usuraie. E’ il pesante sospetto che ha
fatto finire nei guai i protagonisti di un caso giudiziario che ruota attorno ad
anticipazioni economiche per la cui restituzione sarebbero stati pretesi interessi
calcolati ben oltre le soglie legali. Anticipazioni che erano state chieste da
imprenditori ed artigiani della provincia ionica ritrovatisi in grosse difficoltà
economiche. Anticipazione che invece di risollevare le sorti dei beneficiari avrebbero
arrecato ulteriori problemi, dato che per i finanziamenti sarebbero stati richiesti tassi
compresi fra il 34 ed il 120 per cento l’anno.
Valutati gli esiti di una complessa indagine, gli inquirenti di Palazzo di Giustizia
hanno fatto partire una raffica di informazioni di garanzia. Queste segnano la
chiusura della prima fase dell’inchiesta. Il pm che ha firmato gli avvisi non ha
puntanto l’indice solo nei confronti dei ‘finanziatori’, ma pure contro alcuni titolari di
aziende e ditte che dopo aver chiesto ed ottenuto prestiti hanno negato di aver
corrisposto interessi illeciti. A finire nel mirino della magistratura sono state
complessivamente 19 persone, chiamate in causa per episodi e reati diversi fra loro.
Fra le accuse spicca quella di riciclaggio, contestata a otto indagati. Più esiguo il
numero di coloro (tre) che dovranno difendersi dal reato di usura, mentre quella di
favoreggiamento personale ha visto come destinatarie sette vittime. L’ultimo soggetto
dell’elenco degli ‘avvisati’ è invece gravato dall’ipotesi delittuosa secondo cui
avrebbe costretto, dietro la minaccia della perdita del posto di lavoro, una sua
dipendente a consegnargli una parte dello stipendio
Si sospettava sui compratori per collegamenti proprio con persone che avevano
‘aiutato’ imprenditori ed artigiani della provincia ionica, prestando somme di denaro
per la cui restituzione sarebbero state poste condizioni capestro. Stando a quanto
contestato dalla magistratura, in un caso per un’anticipazione di 100 milioni di lire
pare siano stati chiesti (ed ottenuti) interessi pari al 34 per cento, garantiti
dall’emissione di cambiali ipotecarie per un controvalore di 200 milioni. Per quei
titoli era prevista la restituzione trimestrale, le cambiali sarebbero state rinnovate nel
tempo, facendo così lievitare in maniera spropositata il debito iniziale. Un altro
262
episodio finito al centro dell’inchiesta è quello di un piccolo imprenditore ritrovatosi
a fronteggiare interessi usurai di poco superiori a un miliardo e 450 milioni di lire. La
somma, maturata nell’arco di una quindicina d’anni, era collegata ad una garanzia di
115 milioni che il debitore doveva per un vasto terreno da utilizzare per lo
sfruttamento del sottosuolo.
Alcuni beneficiari delle anticipazioni, una volta ritrovatisi nell’impossibilità di
onorare gli impegni, si rivolsero alla magistratura, altri invece hanno negato ogni
cosa. Fra le vittime c’è stato più di qualcuno che, in sede di interrogatorio, ha
preferito rendere dichiarazioni di comodo, inverosimili, poco credibili. Secondo la
Procura, quelle stesse dichiarazioni avrebbero avuto come obiettivo solo quello di
depistare le indagini, se è vero che dalla situazione descritta, a ricavare un vantaggio
sarebbero stati proprio coloro che concedevano i ‘prestiti’. In ogni caso le versioni
fornite dalle vittime non hanno fatto breccia e la loro incriminazione per
favoreggiamento personale lo sta a dimostrare.
Valutata la copiosa documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza nel corso di
una lunga e complessa attività istruttoria, il publico ministero ha ritenuto completo il
quadro indiziario e ha chiuso il proprio lavoro firmando gli avvisi di garanzia. (29)
*
Col bottino dei colpi nelle ville finanziavano i prestiti a strozzo. Per i sei presunti
componenti dell’organizzazione, la mattina del 26 giugno 2008, si sono aperte le
porte del carcere. L’arresto è scattato in esecuzione del mandato di cattura emesso dal
gip del Tribunale di Taranto su richiesta del pm dello stesso Tribunale.
Secondo l’accusa, l’organizzazione ripuliva le abitazioni, trafugando soprattutto
denaro e preziosi. Prendeva di mira le abitazioni e studiava i colpi nei minimi
particolari, scegliendo bene il giorno in cui entrare in azione. Solitamente in
occasione di feste particolari, quando i proprietari erano assenti. I colpi (una
quindicina quelli accertati) sono stati messi a segno in abitazioni delle province di
Taranto, Brindisi e Lecce.
Le indagini, condotte dalla tenenza dei carabinieri di Manduria, sono scattate un anno
e mezzo fa in seguito ad un sequestro effettuato a bordo dell’auto del principale
sospettato, Antonio Caniglia, di Lizzano, ex agricoltore, di recente dedito alla
commercializzazione delle cialde per le macchine da caffè.
La perquisizione non è stata casuale. L’uomo è stato fermato ad un posto di blocco e
all’interno dell’auto sono stati rinvenuti assegni e altri titoli di credito.
Documentazione che, secondo le Fiamme Gialle, era riconducibile ad una attività di
strozzinaggio.
Attraverso un’attenta analisi della documentazione, i militari sono riusciti a risalire
alle vittime. Operai, commercianti e professionisti. Per poter ottenere somme che
oscillavano da un minimo di 10.000 ad un massimo di 80.000 euro, si era costretti a
pagare tassi di interesse elevatissimi che variavano dal 100 al 250 per cento annui. Le
263
vittime accertate, cinque, suscettibili di aumento, anche perché, durante l’esecuzione
dei mandati di cattura, sono state effettuate una ventina di perquisizioni domiciliari
nel corso delle quali sono stati sequestrati altri gioielli, probabilmente anche questi di
provenienza illecita e altra documentazione ritenuta interessante. Da parte delle
vittime, hanno evidenziato gli investigatori, non c’è stata alcuna forma di
collaborazione e tantomeno una denuncia, ciò a conferma del pesante clima
intimidatorio instaurato dai presunti strozzini.
L’organizzazione, hanno spiegato gli investigatori, ha tentato anche di compiere il
salto di qualità riciclando i proventi dell’usura nel traffico di sostanze srupefacenti, in
particolare di eroina e cocaina. La fornitura delle partite di droga sarebbe stata
assicurata da un altro lizzanese, Antonio De Roma, residente a Conazzo, in provincia
di Lodi. I Finanzieri hanno sequestrato anche un cospicuo quantitativo di eroina.
A conclusione dell’operazione battezzata “Re Mida” sono finite dietro le sbarre i due
lizzanesi Caniglia e De Roma, tre tarantini, Michele Ferrares, Giuseppe Epifani,
Giovanni Mele, già noti alle forze dell’ordine ed Eriberto Tondo, di Leverano. (29)
Maxi-processo antimafia
I 71 imputati del maxi-processo antimafia “Orrilo”, uno dei più importanti
procedimenti avviati a metà degli anni Novanta dalla magistratura nell’ambito della
lotta alla criminalità organizzata, ad oltre sette anni dalla sentenza di primo grado
sono comparsi davanti ai giudici d’appello, preferendo regolare i conti con la
giustizia, concordando la pena, una sorta di ‘patteggiamento’ che in pratica ha
esaurito la loro vicenda giudiziaria.
L’11 aprile 2008 la stragrande maggioranza degli inquisiti ha ‘limato’ le precedenti
condanne proprio grazie alla scelta di una soluzione che mettesse fine a questo
processone. Quindi dopo le decisioni messe nero su bianco presso la Corte d’Appello,
Sezione distaccata di Taranto, ad attendere di conoscere il proprio destino giudiziario
saranno più o meno quaranta, un piccolo esercito di inquisiti che ha optato per il rito
ordinario.
Le condanne inflitte attraverso i concordati sono andate a sanzionare vecchi delitti su
cui fu fatta luce soprattutto grazie alle dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia,
gli stessi che negli anni scorsi avrebbero rivestito ruoli importanti nell’ambito dei
gruppi malavitosi poi finiti alla sbarra. Proprio grazie a quelle rivelazioni fu possibile
tornare ad indagare su fatti risalenti a circa quindici-vent’anni fa, su fatti criminosi
che inizialmente erano rimasti senza alcuna soluzione. Vecchi fatti che sono stati
ripercorsi e ricostruiti in un processo di primo grado che, va ricordato, durò oltre due
anni. In quell’occasione, preso atto dei numerosi faldoni in cui era stata custodita la
storia di vicende caratterizzate da gravi attività delittuose, l’organo giudicante emise
un verdetto che aderì quasi totalmente alle tesi sostenute dal rappresentante
dell’accusa. Le condanne inflitte furono tantissime, ma va posto in risalto che
neppure le assoluzioni mancarono. Nel complesso, queste ultime risultarono 28 e
264
videro come beneficiari anche imputati per i quali era stata proposta l’affermazione di
responsabilità. Una situazione che però si ribaltò per altri inquisiti che dopo aver
sperato di chiudere il procedimento senza grossi problemi risultarono destinatari di
pesanti sanzioni.
Ad avere un peso decisivo ai fini di quel verdetto fu il riconoscimento
dell’associazione mafiosa finalizzata alla commissione di una serie di delitti, fra cui il
traffico di sostanze stupefacenti e le estorsioni. Due fattispecie criminose che
avrebbero rappresentato la maggior fonte di guadagno per i presunti appartenenti
all’organizzazione.
Del resto, i magistrati requirenti, nell’esporre le tesi alla base dell’assunto
accusatorio, sottolinearono come, alla luce degli episodi trattati nel processo, ci si
trovasse di fronte ad un gruppo ben strutturato e capace di imporre il proprio dominio
potendo contare sul numero dei propri sodali e sull’efficacia delle loro azioni. In
ordine alle estorsioni (che erano fra le attività prevalenti del sodalizio), vittime dei
gruppi finiti sul banco degli imputati sarebbero stati commercianti e piccoli
imprenditori. Le vessazioni avrebbero riguardato soprattutto i titolari di locali di
prodotti ittici e di negozi ben avviati. Alla luce di quanto emerse dal dibattimento, ci
sarebbe stato anche chi, pur di non diventare oggetto di pesanti attentati, preferì
pagare forti somme di danaro che variavano dai 5 ai 2 milioni di vecchie lire mensili
a seconda della grandezza della ditta posseduta. Dalla ricostruzione dei fatti operata
nel corso delle lunghe indagini è emerso che, prima e durante il maxi-processo, più di
una zona cittadina si sarebbe ritrovata sotto l’influenza della presunta associazione
che, sfruttando il provento delle estorsioni, avrebbe autofinanziato il gruppo,
acquistato le partite di droga, comprato armi e munizioni e ricompensato tutti i
partecipanti alle attività delittuose. Le maggiori condanne si registrarono per episodi
di detenzione ai fini di spaccio di cocaina, eroina e di hashish, che (come appurarono
gli investigatori) sarebbero state addirittura confezionate in saponette pur di sfuggire
ai controlli. Secondo la pubblica accusa, il sodalizio non avrebbe lasciato nulla al
caso, sfruttando ogni espediente pur di evitare che le loro attività venissero svelate.
Ogni espediente, come quello che lo portò a scegliere una cappella del cimitero per
occultare anche pistole e kalashnikov. Armi che avrebbero dovuto servire per mettere
a segno attentati ai danni di persone e di strutture.
I fatti presi in esame dal maxi-processo ‘Orrilo’ risalgono alla metà degli anni
Novanta e si sarebbero sviluppati nell’arco di un quinquennio, fino a quando
imponenti operazioni antimafia (prima fra tutte quelle denominate “Ellesponto” e
“Penelope”) non misero in ginocchio i maggiori sodalizi criminosi operanti sul
territorio ionico. In primo grado (si parla del 2001) il Tribunale chiuse il proprio
lavoro infliggendo condanne per oltre 12 secoli di reclusione. Aderendo quasi
totalmente alle richieste del pm, l’organo giudicante dichiarò la responsabilità per
113 imputati, mentre in ventotto, come abbiamo già segnalato, beneficiarono
dell’assoluzione.
265
L’11 aprile 2008 in Corte d’Appello, in 71 hanno chiesto ed ottenuto di poter
concordare la pena beneficianfo (in determinati casi) di sensibili riduzioni di pena.
Dopo le decisioni dei giudici di secondo grado, ad attendere l’esito del processo sono
poco più di una quarantina di imputati. (27)
Droga e sangue
Una duplice pesante condanna fa calare il sipario sulla vicenda giudiziaria che ruota
attorno al brutale omicidio di Alessandro Cimoli, il giovane tarantino ucciso
nell’agosto del 2006 dopo essere stato attirato in un tranello. Una duplice pesante
condanna che sanziona quello che fu un delitto segnato da modalità efferate e da un
movente che, a detta di uno dei ‘rei-confessi’, sarebbe stato originato dal mancato
pagamento di una grossa partita di cocaina.
La sentenza che ha chiuso il delicato procedimento è stata emessa il 14 aprile 2008 al
termine di un giudizio abbreviato che di certo non ha risparmiato ‘colpi di scena’.
La pena più alta è stata inflitta a Cosimo Nardelli, colui che avrebbe perpetrato
materialmente l’assassinio. Giudicato colpevole di due capi d’accusa che gravano sul
suo capo (concorso in omicidio e porto abusivo di coltello), all’omicida è toccata una
pena pari a 30 anni di reclusione beneficiando della diminuente prevista per la scelta
del rito. Dieci anni in meno rispetto a quanto irrogato a Nardelli sono stati invece
inflitti all’altro imputato Matteo Basile, colui che nel corso del procedimento ha
cominciato a collaborare con la magistratura fornendo indicazioni ritenute dagli
inquirenti in grado di far chiarezza sia sul perché sia sull’identità degli autori
dell’episodio criminoso. Alla luce di quanto stabilito dal Gup del Tribunale, Basile è
risultato destinatario di 20 anni di reclusione per il concorso in omicidio, per la
detenzione di un’arma da guerra e per aver detenuto ed occultato una pistola.
E’ semplice ipotizzare che a risultare determinante per l’adozione del verdetto sono
state proprio le dichiarazioni rese dagli inquisiti. Fra i due ha sicuramente raccontato
di più Basile che ha pure tirato in ballo il presunto mandante del delitto, vale a dire
Cataldo Ricciardi. Dal canto suo, dopo aver già escluso un proprio coinvolgimento
nella vicenda nell’ambito di una formale deposizione resa in Procura, ha pure sporto
querela contro chi lo ha accusato. Al di là di questo, non pare azzardato sostenere che
le dichiarazioni con cui i due uomini finiti alla sbarra hanno ricostruito le fasi
dell’assassinio, siano state proprio quelle che hanno spianato la strada alla duplice
condanna.
In epoche e circostanze distinte, sia Nardelli sia Basile ammisero di aver ricoperto un
ruolo nell’omicidio. Nel corso degli interrogatori, il primo a parlare fu Nardelli che
dopo un iniziale tentativo volto a negare tutto ammise di aver ucciso Cimoli.
Ritrovatosi con le spalle al muro, lui confessò l’assassinio, aggiungendo però di non
aver commesso il delitto volontariamente. Si addossò ogni responsabilità, ma
sostenne di aver agito solo per difendersi. Nella su ricostruzione dei fatti il reoconfesso sostenne di aver incontrato Cimoli, di aver dato vita con lui ad un’accesa
discussione, di aver avuto paura per la propria vita e di aver esercitato solo un
266
legittima difesa. Successivamente parlò pure Basile, ma lo fece aggiungendo altri
particolari, a cui il complice non aveva fatto cenno.
Le indagini fecero registrare una prima svolta grazie ad alcuni indizi che permisero di
risalire a Nardelli (strane ferite che furono rilevate sulle sue braccia, macchie di
sangue rinvenute nell’auto di cui aveva la disponibilità ed un alibi che non
convinceva più di tanto).
Inizialmente l’inquisito negò tutto sostenendo di non sapere nulla dell’omicidio, ma
la linea di difesa scelta non persuase nessuno, tanto che poco dopo ammise le proprie
responsabilità, anche se non parlò di complici. Ma che avesse agito da solo non parve
una circostanza plausibile. Difficilmente quell’efferato omicidio poteva essere stato
commesso da un’unica persona. Ed il successivo coinvolgimento di Basile lo
confermò.
Il 14 aprile 2008, a poco meno di due anni dalla spietata uccisione di Cimeli, dal
punto di vista giudiziario, la vicenda ha trovato una prima soluzione. (27)
Vecchi omicidi di mala
Il tarantino Salvatore Chirico, collaboratore di giustizia, che aveva dichiarato di aver
ricoperto un ruolo di primo piano nella uccisione di Paolo Dragone e Achille
Ciliberti, il 18 aprile 2008, alla conclusione del processo presso la Corte d’Assise di
Taranto, si attendeva una condanna.
Per il vero, il Chirico era gravato da reati che vanno dall’omicidio al traffico di
sostanze stupefacenti e dalle estorsioni al porto e detenzione di materiale esplodente,
tanto che il collaboratore di giustizia ha riportato una pena complessiva pari a 10 anni
di reclusione, l’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, l’obbligo di risarcire
l’unica parte civile costituitasi.
A parere della Corte, gli elementi probatori evidenziati nell’ambito dell’istruttoria
dibattimentale e ribaditi dal pm antimafia non hanno lasciato dubbi circa la
responsabilità del Chirico. Al contrario dell’altro inquisito, il tarantino Nicola
Russano che, chiamato a rispondere del concorso negli omicidi, è stato sollevato da
tutte le imputazioni per non aver commesso il fatto.
Il verdetto non si è limitato a sanzionare i due fatti di sangue, ma alla sua attenzione
erano finiti: i traffici di sostanze stupefacenti, le estorsioni e i danneggiamenti ai
commercianti e piccoli imprenditori. Per aver partecipato alla detenzione e allo
spaccio di ingenti quantitativi di droga e alle minacce affiancate dalle richieste di
tangenti, il tarantino Stefano Speciale è stato condannato a 6 anni di reclusione,
Cosimo Damiano Serra è stato giudicato colpevole per aver preso parte al traffico di
eroina e cocaina importate in Puglia dalla Calabria fra il 1990 e il ’92, condannato a
7 anni; Antonio Calabrese è stato riconosciuto colpevole del reato di estorsione e ha
riportato una pena pari a 3 anni.
267
La sentenza della Corte d’Assise di Taranto ha riguardato episodi verificatisi a partire
dal 1984 (in quel periodo furono perpetrati gli omicidi) per arrivare poi al 1999,
quando si registrarono gli ultimi danneggiamenti ai danni del titolare di aziende di
confezione martinesi.
A dar vita all’intero procedimento furono le dichiarazioni di alcuni pentiti che
riaprirono così casi giudiziari irrisolti.
Da sottolineare che ai due fatti di sangue, che videro come vittime Dragone e
Ciliberti, avrebbe preso parte anche Antonio Modeo, all’epoca figura di spicco del
panorama malavitoso tarantino, che rimase vittima di un agguato a Bisceglie
all’inizio degli anni Novanta. (29)
Appendice al processo antimafia <<Cruise>>
Affermazione di responsabilità per tutti tranne che per un’imputata. Questo, in
estrema sintesi, il verdetto che l’8 maggio 2008 ha fatto calare il sipario sul processo
originato dall’inchiesta antimafia denominata ‘Cruise’, quella che circa sette anni fa
pose fine ad attività delittuose che, sviluppatesi nel capoluogo ionico, avrebbero visto
come protagonista il gruppo capeggiato da Claudio Modeo.
Già suggellata da una serie di pesanti condanne, quella vicenda è tornata
all’attenzione dei giudici per episodi che la magistratura inquirente ha ritenuto
collegati al procedimento principale. Episodi caratterizzati da detenzione di arma da
fuoco, da estorsioni ai danni di commercianti e da dichiarazioni che, rese dalle
vittime dei reati, sono state giudicate non veritiere. Preso atto di quanto emerso
dall’interpretazione data a numerose conversazioni intercettate in carcere, la Seconda
Sezione Penale di Taranto ha definito il processo con una decisione che ha sancito la
condanna di ben 11 imputati, molti dei quali chiamati a rispondere di falsa
testimonianza. La pena più alta è stata inflitta alla tarantina Luigia D’Addario che ha
riportato 2 anni e sei mesi di reclusione. Ad aver determinato il riconoscimento di
colpevolezza della donna sono stati due episodi estorsivi (per un terzo ha beneficiato
dell’assoluzione) che sarebero stati messi a segno ai danni di commercianti fra
gennaio e febbraio del 2000. Stando alla tesi dell’accusa, le richieste di denaro furono
fatte per assicurare il mantenimento di familiari o detenuti in carcere o in libertà. Per
lo stesso motivo è stato pure condannato Cosimo Di Pierro, già imputato di spicco sia
al procedimento ‘Cruise’ sia al maxi-processo antimafia ‘Ellesponto’, il lungo
dibattimento che si occupò della cruenta ‘guerra di mala’ che insaguinò Taranto e
provincia fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.
Di Pierro si è visto irrogare dodici mesi di reclusione che vanno ad aggiungersi alla
condanna a 4 anni emessa a suo carico dalla Corte d’Appello di Taranto il 14 giugno
del 2005. Otto mesi rappresentano la sanzione inflitta a Matteo De Santis,
riconosciuto colpevole per la detenzione di una pistola completa di munizioni e
caricatore appartenuta a Di Pierro. E sempre per armi è scattata la condanna pure per
Cataldo Sambito. L’inquisito dovrà sconmtare un anno di reclusione che va ad
aggiungersi alla pena decisa nei suoi confronti al termine del processo ‘Cruise’.
268
Altri sette imputati (tutti accusati di aver reso falsa testimonianza nel corso del
processo) sono stati giudicati colpevoli dei reati loro ascritti e condannati ad un anno
e 4 mesi ciascuno. Sugli inquisiti è pesato il sospetto per aver negato di aver avuto a
che fare con alcuni dei personaggi coinvolti nel processo ‘Cruise’ quando invece il
contenuto delle conversazioni intercettate avrebbe fatto intendere il contrario. Fra
coloro che sono stati riconosciuti responsabili figurano pure vittime di estorsione. Ad
ogni modo la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto ha riservato buone notizie per
una delle donne finite alla sbarra. E’ stata assolta perché il fatto non sussiste. (29)
Armi e munizioni
Aveva un piccolo arsenale nascosto in un sottoscala della propria abitazioni Roberto
Mastrovito, arrestato per detenzione di armi da sparo detenute illegalmente e
munizionamenti.
Armi pronte per essere utilizzate: un fucile a canne mozze, una pistola calibro 6,35 e
un revolver entrambi con matricola abrasa e delle munizioni. A fare il 14 maggio
2008 l’imprevista scoperta sono stati gli agenti della Questura di Taranto.
Un equipaggio della Squadra volante, dopo una segnalazione giunta alla sala
operativa 113, è intervenuta in una villetta bifamiliare che si trova in via Unità
d’Italia (Talsano), dove era stata segnalata una lite in famiglia. Sul posto gli agenti
dopo aver riportato alla calma i due litiganti (Roberto Mastrovito e la moglie), hanno
perquisito la casa in considerazione dei piccoli precedenti penali dell’uomo.
Una intuizione che ha portato in pochi minuti alla scoperta dell’armeria.
Nella cantina dell’appartamento, all’interno di un borsone, gli agenti hanno trovato
munizioni di vario calibro, poi in uno zaino; l’altra scoperta: il fucile a canne mozze,
smontato ma perfettamente funzionante, una pistola calibro 6,35 con matricola
abrasa, una pistola revolver sempre con matricola abrasa e diverse cartucce di vario
calibro.
Armi e munizioni sono state sotoposte a sequestro, mentre l’uomo è stato associato
alla locale Casa Circondariale, dove si trova a disposizione degli inquirenti. A cosa
sarebbe servita l’armeria non è ancora del tutto chiaro. Ma non è da escludere che
fosse conservata per conto di altri.
Inquietanti a questo punto le ipotesi sull’utilizzo delle armi, tutte perfettamente
funzionanti. (29)
Furti di mezzi agricoli
Arriva al capolinea con una condanna e cinque assoluzioni il processo originato
dall’inchesta che il 2000 svelò l’esistenza di una presunta organizzazione che avrebbe
chiesto danaro per restituire mezzi agricoli rubati. Denominata “Maciste, l’epilogo”,
quell’operazione fece finire nei guai una dozzina di soggetti sospettati di aver dato
vita ad un vero e proprio racket ai danni di agricoltori e proprietari terrieri del
versante occidentale della provincia ionica. All’epoca gli inquirenti rilevarono indizi
tali da far scattare accuse estremamente pesanti, ma con il trascorrere del tempo
269
quelle contestazioni hanno perso valenza e la riprova si è avuta il 12 maggio 2008
con la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto. Preso atto degli esiti del lungo
dibattimento e delle argomentazioni formulate dal pubblico ministero e dal collegio
difensivo, l’organo giudicante ha proceduto alla condanna di un solo inquisito
sollevando dalle imputazioni il resto di coloro che attendevano
di conoscere il proprio destino giudiziario.
Il verdetto di colpevolezza ha riguardato il 72enne Giuseppe Masi che riconosciuto
responsabile del reato di ricettazione ha riportato una pena pari a 2 anni di reclusione.
L’assoluzione perché il fatto non sussiste è stata invece decretata per Anna Masi,
Giacomo Masi, Francesco Pinto, Antonio Masi e Giovannio Palmisano. Nel segnalare
che per una imputata è stato disposto di non doversi procedere perché deceduta nelle
more del processo. Si ricorda che l’intero procedimento ruotava attorno ad episodi
che, verificatisi fino al marzo del 2000, sarebbero stati caraterizzati dal furto di mezzi
agricoli e di teloni utilizzati per la copertura di coltivazioni, da richieste estorsive e
dalla ricettazione di trattori la cui provenienza è stata giudicata dagli inquirenti
dubbia. (29)
270
APPEND I C E
INAUGURAZIONI ANNI GIUDIZIARI
271
L’Amministrazione della Giustizia costituisce nella sua operatività fondamentale
osservatorio sull’esistenza e consistenza dei fenomeni di criminalità organizzata, il
cui riconoscimento è la risultante delle attività di contrasto, maturate poi in indagini e
processi, i cui esiti non sempre costituiscono pieni successi raggiunti dalla
magistratura. Nonostante ciò e soprattutto uscendo dai rigidi schemi del tecnicismo
giuridico e giudiziario, si riesce ad ottenere una visione il più possibile fedele dei
fenomeni.
“Il termometro della situazione” in forma di efficace sintesi è rappresentato dalle
annuali relazioni in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari. Si tratta di un
interessante bilancio a consuntivo dei distretti di Corte d’Appello esposto dai
rispettivi Presidenti.
Poiché vogliamo rispondere a programmate esigenze di esposizione su tutto il tema
che ci interessa, partendo da iniziali riferimenti non lontani nel tempo, esordiamo con
le relazioni inaugurali dell’anno 2006 per i resoconti dall’1 luglio 2004 al 30 giugno
2005 in Puglia (Corti d’Appello di Bari e Lecce).
Anno giudiziario 2006
C.d.A. – Bari. Per quanto concerne il Distretto di Bari (Bari, Foggia, Lucera, Trani), è
stato evidenziato in maniera molto forte l’incremento nel capoluogo del fenomeno
mafioso, sempre più rampante e ambizioso, dopo avere talvolta mutato le sembianze
più accreditate dei colletti bianchi. Particolare allarme è stato evidenziato a causa di
molti omicidi e scontri a fuoco commessi nelle vie del centro città. Il punto
d’osservazione spostato nel foggiano ha rilevato l’acuirsi del contrasto tra opposte
fazioni criminali e la conseguente recrudescenza di fatti di sangue consumati, a parere
del relatore, in un clima di singolare omertà.
Sulla scorta delle informazioni fornite dalla Dda, è stato sottolineato che le attività
delinquenziali delle associazioni di tipo mafioso si esplicavano prevalentemente nel
settore del traffico delle sostanze stupefacenti, delle estorsioni e delle rapine. E’ stato
calcolato che il 50 per cento dei reati di spaccio di droga è stato consumato nel
territorio di Foggia, dove la particolare pericolosità della delinquenza risentiva di
evidenti infiltrazioni di gruppi organizzati, soprattutto nel capoluogo dauno.
Il senso di allarme e di preoccupazione è stato espresso per quelle forma di
ereditarietà del potere mafioso, trasmesso di padre in figlio; caratteristica questa della
criminalità minorile barese che, oltre alla sua strumentalizzazione per la
consumazione di omicidi nella guerra tra bande, ha introdotto elementi di sub-cultura
della mafiosità.
Particolare attenzione è stata dedicata ai reati di estorsione, scoperta come attività
gestita dalle associazioni delinquenziali sotto forma di autofinanziamento, per
investire nei traffici di armi e sostanze stupefacenti. Il fenomeno è stato visto in
chiave di forte condizionamento negativo per lo sviluppo economico del territorio. Il
sensibile calo del 22 per cento rispetto al precedente periodo è stato visto a merito
272
delle attività giudiziarie svolte, con la celebrazione di vari processi a carico di
imputati detenuti con condanne a pene molto pesanti. Al successo hanno contribuito
alcuni coimputati, collaboratori di giustizia, che hanno usufruito dei benefici previsti
dalla legge.
I reati di usura rubricati hanno fatto registrare un notevole e crescente incremento,
ferma restando la considerazione che i dati venivano comunque considerati
sottodimensionati per la ben nota e scontata scarsa propensione per le vittime alla
denuncia. Fra queste, piccoli imprenditori per un difficile o addirittura impossibile
accesso al credito, ricorrevano (e tutt’ora ricorrono) alla malavita che, infiltrandosi,
assume il ruolo di finanziatrice. Non per nulla alcune esperienze giudiziarie si sono
allargate a vicende fallimentari collegate a reati di usura. Questo fenomeno è stato
rilevato più presente in maniera significativa nel foggiano, a causa della grave crisi
economica e commerciale.
A beneficio degli argomenti trattati nel presente lavoro, abbiamo voluto estrapolare
dalla relazione inaugurale dell’anno 2006 l’argomento legato ai reati nel loro genere
qualificati contro l’incolumità e la salute dei cittadini, ma più specificatamente
appartenenti al fenomeno più ampio dell’illegalità ambientale.
Ciò viene da noi considerato come antesignano motivo d’allarme in ordine all’attuale
gestione dei rifiuti tossici, degli scarichi non autorizzati e degli incendi boschivi da
parte della criminalità organizzata.
C.d.A. – Lecce. Diversa la situazione nel Distretto della Corte d’Appello di Lecce
(Lecce, Brindisi, Taranto) per il periodo 2004-2005, illustrata in occasione della
inaugurazione dell’anno giudiziario 2006.
Seppur non supportata da valori numerici e percentuali, il relatore ha ugualmente
fornito un resoconto esaustivo sulla consistenza del fenomeno criminale.
E’ stato rilevato che la potenzialità delle organizzazioni, storicamente inserite nella
Scu, è stata sempre di più ridimensionata da interventi di contrasto. Dall’altra parte, è
stata rilevata la tendenza ad alimentare collegamenti all’estero nel campo del traffico
di droga, dove la Scu ha avuto momenti di latitanza in Olanda e Brasile.
L’organizzazione mafiosa ha inoltre assunto un ruolo di rilievo nei rapporti con
quelle della Sicilia, Campania e Calabria, infiltrandosi nel settore degli investimenti,
riciclaggio di denaro sporco, traffico di stupefacenti.
La provincia di Brindisi non ha evidenziato segnali di ripresa delle organizzazioni
mafiose, le cui potenzialità risultavano assai ridotte per efficaci attività investigative
conseguenti alle collaborazioni giudiziarie. Sul piano delle indagini, a quel tempo
ancora in fase di svolgimento, erano emerse concrete potenzialità di infiltrazioni
mafiose nelle imprese, nel mondo degli appalti, con approfondimenti rivolti
all’eventuale presenza, fra i dipendenti delle imprese aggiudicatarie, di esponenti
dell’era Scu. Tra le ipotesi avanzate nella relazione, quella di eventuali
condizionamenti mafiosi nei confronti delle libere scelte elettorali.
273
In provincia di Taranto il consuntivo 2004/2005 ha sottolineato il ridimensionamento
costante dell’organizzazione uscita sconfitta negli anni precedenti, dopo la
definizione di importanti processi che hanno comminato severe condanne.
L’esposizione si è soffermata nel riferire di indagini nel territorio provinciale
tarantino, dalle quali sono emerse influenze mafiose in occasione dello svolgimento
di elezioni amministrative, con l’obiettivo di mettere le mani nel sistema degli appalti
pubblici e dei sub-appalti.
Particolare attenzione è stata dedicata alla delinquenza minorile, dalle precipue
connotazioni a Taranto, dove è stato rilevato che i giovanissimi venivano coinvolti in
associazioni delinquenziali, sia di stampo mafioso, che di specializzazione nel
traffico di droga. La situazione è stata aggravata a causa di due omicidi verificatisi
con il coinvolgimento di minorenni, rapine e tentata estorsione.
Ancora Taranto è stata indicata come luogo in cui si commettevano reati di usura. La
emblematicità è stata spiegata per la realtà economica del territorio.
Anno giudiziario 2007
C.d.A. – Bari. Anche in questa occasione inaugurale è stato dedicato uno spazio al
fenomeno mafioso e alle associazione che ne fanno capo. Sono state prese in
considerazione le segnalazioni della Dda che ha individuato sia a Bari che a Foggia il
persistere di uno stato di relativa quiete, certamente per i continui e sistematici
interventi giudiziari compiuti. Questa, definita ‘pax mafiosa’, sostanzialmente calata
su buona parte del territorio barese, ha trovato la sua ragion d’essere per l’interesse
delle compagini nel ricercare un continuo afflusso di denaro da destinare a favore
degli accoliti nelle carceri, delle rispettive famiglie e per l’assistenza legale, alla luce
degli innumerevoli processi penali in fase di svolgimento.
E’ stato considerato verosimile che il periodo di relativa quiete non sarebbe stato
durevole per l’eterna discordia tra le contrapposte compagini baresi, per la
considerata incapacità organizzativa all’interno di ogni clan e al facile ricorso alla
violenza, che ha caratterizzato i dieci anni precedenti con agguati armati, mire
espansionistiche delle varie organizzazioni, vendette personali.
Segnali di preoccupazione sono stati espressi per il tempo successivo a causa del
probabile acuirsi delle frizioni come conseguenza delle precedenti liberazioni
anticipate dei detenuti dai penitenziari pugliesi.
Le prime avvisaglie sono state avvertite nel circondario barese per segnali
preoccupanti sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica. A Foggia e
provincia, dopo gli scontri armati che hanno caratterizzato la ‘seconda guerra di
mafia’, è stata riscontrata una concreta tranquillità sociale per meglio dedicarsi agli
affari criminali.
Tra i fenomeni criminosi collegati alle associazioni di tipo mafioso, hanno assunto un
certo rilievo i delitti di omicidio, tentato omicidio e porto e detenzione di armi.
274
Per quanto attiene ai reati di traffico di sostanze stupefacenti, sottolineata l’intensa
attività delle associazioni operanti tra l’Albania e l’Italia, che spesso hanno utilizzato
la Puglia come territorio di transito di tali sostanze, dirette verso altre regioni d’Italia
o addirittura verso il Nord Europa.
I reati di estorsione sono stati oggetto di analisi; dopo una netta flessione registratasi
tra il 2004 e il 2005, la tendenza è cambiata per un aumento del 18% nel distretto, con
una punta del 100 per cento nel territorio di competenza della Procura della
Repubblica di Bari. Tra le finalità perseguite dalle associazioni, la forma di
autofinanziamento finalizzato ai traffici di armi e sostanze stupefacenti, atteso che il
contrabbando ha subito da tempo un forte ridimensionamento.
I fenomi di usura, anche questi considerati come strumenti di autofinanziamento,
hanno assunto una certa rilevanza nelle province di Bari e di Foggia. Purtroppo
l’esiguo numero di denunce sporte alle autorità non ha potuto permettere di cogliere
la reale percezione del fenomeno, considerato piaga sociale e causa determinante del
collasso delle aziende e dell’indebitamento familiare per quanti, non in grado di
garantire il prestito, non possono ricorrere al credito di banche e di istituti finanziari.
Sulla criminalità minorile sono state espresse analoghe preoccupazioni, così come nel
passato, nelle sue diverse manifestazioni; in particolare quella di tipo mafioso, della
quale, per economia espositiva, attesa purtroppo la mancanza di variazioni in senso
migliorativo, è stato fornito resoconto nella relazione inaugurale dell’anno
precedente.
C.d.A. – Lecce. La relazione del Presidente in tema di fenomeno mafioso, ha
evidenziato il continuo e forte ridimensionamento della Scu nelle province di Lecce e
Brindisi nonché della criminalità organizzata, sempre di stampo mafioso, nella
provincia di Taranto.
Questa osservata tendenza positiva, ha trovato le proprie motivazioni dal complesso
delle attività di contrasto, dall’esito delle indagini giudiziarie grazie anche ai
collaboratori di giustizia e al numero dei processi celebratisi. Nonostante ciò, è stata
rilevata una certa ripresa di vitalità delle organizzazioni criminali, anche quelle di
stampo mafioso.
In provincia di Lecce è stato registrato un consistente numero di denunce per
estorsioni, molte delle quali commesse con metodo mafioso, la cui rubricata
qualificazione è stata ottenuta a merito della maggior fiducia nell’intervento
giudiziario tanto che è stata rilevata prevalenza del numero dei procedimenti con
indagati noti, rispetto a quello degli ignoti.
Il traffico delle sostanze degli stupefacenti non ha subito flessioni nonostante le
innumerevoli azioni di contrasto.
In provincia di Brindisi è stata rilevata la persistenza di attività criminali legate al
traffico di sostanze stupefacenti ad opera di gruppi mafiosi e non mafiosi, nei
confronti dei quali è stata rivolta un’attività di intervento. Evidenziati anche episodi
275
di violenza ad esercizi commerciali (appiccamento di fuoco, esplosione di ordigni) di
chiaro segno intimidatorio, finalizzato all’estorsione.
In provincia di Taranto, nonostante le positive conseguenze di successi giudiziari, la
criminalità mafiosa ha manifestato segnali di riorganizzazione con episodi di
violenza. Più in generale, è stato rilevato che, seppur in uno scenario frammentato e
disorganico, continua ad essere prevalente sia nella provincia che nel capoluogo, il
traffico delle sostanze stupefacenti ad opera di piccoli gruppi autonomi, liberi da
logiche di controlli accentrati, ma con collegamenti all’estero.
Per quel che concerne eventuali infiltrazioni mafiose in appalti e servizi pubblici, è
stato riferito che alcuni casi erano ancora al vaglio della magistratura giudicante dei
tre circondari.
Per quel che concerne la giustizia minorile penale, la Relazione ha sottolineato il
notevole aumento dei procedimenti penali iscritti a ruolo. Entrando poi nei particolari
riguardanti la proposizione delle denunce, ne è stato rilevato un aumento per quasi
tutti i tipi di reato e in particolare: rapine, estorsioni, lesioni personali. Solo per i reati
in materia di stupefacenti, vi è stata una riduzione delle denunce.
La provincia di Brindisi ha rappresentato in maniera determinante e preoccupante
questa tendenza. Sia in città che in alcuni altri comuni più popolosi hanno agito per
mesi piccole bande composte da minori e giovani adulti, autori di rapine e numerosi
altri reati, anche gravi, come le rapine. Riguardo a quest’ultima rilevazione da tenere
sotto stretta sorveglianza, è stato considerato il pericolo di immissione di nuove leve
pronte ad immettersi nella criminalità organizzata, come motivo di riorganizzazione
dopo l’incisiva azione di polizia giudiziaria.
Questa la considerazione riassuntiva: dopo poco più di tre anni di contrazione del
fenomeno, ci si è trovati di fronte alla recrudescenza della criminalità minorile, la cui
ripetuta periodicità è posta in relazione al manifestarsi della criminalità di una
‘generazione’, dove sono presenti più minori devianti e prima che si riesca ad
individuarli.
In tema di reati contro l’incolumità pubblica e la salute dei cittadini, legati anche
all’ambiente, non sono state segnalate particolari novità rispetto al precedente
periodo.
Anno giudiziario 2008
C.d.A.– Bari. Della relazione del Presidente, ci preme far risaltare alcuni aspetti, in
sintonia con la logica di raccolta, informatrice di questo lavoro di ricerca.
Per quel che concerne il fenomeno delle associazioni mafiose è stata rilevata una loro
diffusa pericolosità nel circondario di Foggia. Analoga situazione negli altri centri più
importanti della provincia (Cerignola, San Severo, Manfredonia, Monte S. Angelo).
Per tutti questi la locale delinquenza si era presentata articolata in gruppi mafiosi
organizzati e con il livello di ferocia sempre più crescente. Ciò ha comportato un
notevole aumento dei reati di omicidio.
276
Sottolineata inoltre la presenza sul territorio di associazioni criminali di stampo
mafioso, dedite prevalentemente al traffico degli stupefacenti, alle attività estorsive e
alle rapine. Non sono emerse invece infiltrazioni significative nelle concessioni di
appalti e servizi pubblici.
Il quadro fornito ha ottenuto le relative conferme dalle attività giurisdizionali della
Corte d’Assise con l’emissione di tre sentenze aventi ad oggetto il delitto di
associazione di stampo mafioso.
Da parte sua, la Procura di Bari ha segnalato, per il periodo di riferimento, numerosi
procedimenti in materia di associazioni per spaccio di stupefacenti, di associazioni di
tipo mafioso, oltre ai reati di estorsione ed usura.
In particolare, i reati di estorsione accertati hanno evidenziato nel numero una
stazionarietà (572). Interessante poi la puntualizzazione che il fenomeno è apparso
maggiormente diffuso nei circondari di Trani e Lucera, mentre Foggia e Bari in
flessione.
Una certa attenzione è stata dedicata, per incrementi vertiginosi, ai reati contro
l’incolumità pubblica e la salute dei cittadini, come quelli di tutela dell’ambiente e
del territorio; benché meno avvertite sul piano emotivo e mediatico, sono state
considerate nuove forme di aggressione alla legalità non meno inquietanti per la
convivenza civile.
Per quel che concerne la giustizia minorile, appare interessante la notizia sulla
continuazione dell’attività giudiziaria promossa l’anno precedente in ordine
all’iniziativa assunta dal Tribunale e dalla Procura minorile nel richiedere alla
Procura di Bari e alla Dda copia della documentazione disponibile, con riferimento a
tutti i soggetti maggiorenni coinvolti in procedimenti penali per associazione a
delinquere di stampo mafioso, per fatti di criminalità organizzata ed altri gravi reati.
Ciò allo scopo di accertare l’esistenza di figli minori, eventualmente a rischio di
pregiudizio per la negativa influenza dei genitori. La Procura minorile ha promosso
circa 60 di questi procedimenti, con la prospettiva di successivo incremento.
L’obiettivo era costituito dalla pronuncia di provvedimenti di decadenza dalla potestà
genitoriale.
Sempre in coerenza con i metodi di scelta degli argomenti di questa nostra ricerca,
rileviamo che, in tema di situazione della criminalità organizzata di stampo mafioso,
sul piano generale, la Corte d’Appello di Lecce ha riconfermato il perdurante
affievolirsi degli elementi di riconducibilità al nucleo storico della Scu.
Nel circondario di Taranto la criminalità organizzata tende gradualmente verso una
fase di frammentazione del fenomeno associativo con compagini più ristrette,
localizzate su specifiche aree territoriali. Questa metamorfosi, al di là di logiche
legate ai nuovi assetti, è stata vista come conseguenza della lunga carcerazione dei
capi storici della malavita tarantina, cui non ne è seguita l’emersione di nuove figure
altrettanto carismatiche. La visione di prospettiva è stata considerata confortante in
virtù di sentenze di condanna, in grado di appello, emesse ai sensi dell’art. 416 bis, in
277
tema di intimidazioni e infiltrazioni nei settori economici, negli appalti e nei servizi
pubblici.
Preoccupazione, tuttavia, è stata espressa per le risultanze di indagini che hanno visto
un sodalizio storico dedito allo spaccio di stupefacenti, alle estorsioni di tipo mafioso
ai danni di imprenditori, avvalendosi della forza di intimidazione esercitata da
esponenti del sodalizio o da loro affiliati. Di rilievo anche il riciclaggio attraverso
varie attività imprenditoriali.
Poco è stato segnalato su Brindisi; richiamata però l’attenzione su alcuni segnali,
ritenuti non trascurabili, di attività mafiose emersi a seguito di indagini svolte nel
capoluogo e nelle zone di Mesagne e Torre Santa Susanna.
Nel circondario di Lecce sono stati avvertiti ancora effetti positivi delle precedenti
azioni di contrasto. Il resoconto dell’anno ha indicato specifiche attività di intervento
giudiziario su condotte criminali di gruppi mafiosi, da quelle di estorsione, commesse
con modalità mafiose o per finalità di agevolazione mafiosa dove è stata
sistematicamente applicata la custodia cautelare in carcere in tempi i più brevi
possibili, a quelli di traffico di droga. E’ stato però rilevato qualche segnale di vitalità
(quartiere Castromediano, Surbo, Trepuzzi, Squinzano, Campi Salentina, Monteroni,
Gallipoli). La ripresa sembrava fosse da attribuirsi alle numerose scarcerazioni e, fra
queste, di esponenti di primo piano dei clan storici. E’ apparsa confermata la
tendenza delle locali organizzazioni mafiose ad alimentare collegamenti all’estero nel
campo del traffico di droga.
E’ apparsa confermata la tendenza delle locali organizzazioni mafiose ad alimentare
collegamenti all’estero nel campo del traffico di droga. Questo fenomeno di
internazionalizzazione risalente già alla Scu è stata vista in termini di continuità,
proprio attraverso gli eseguiti sequestri di partite di eroina, cocaina e marijuana, in
gran parte provenienti dall’Albania.
Confermato anche il ruolo assunto dalla Scu nei rapporti con le altre associazioni
mafiose, sia nel settore degli investimenti e del riciclaggio dei proventi illeciti, sia in
quello del traffico degli stupefacenti.
Episodi di estorsione con metodo mafioso o per finalità di agevolazione mafiosa,
sono emersi sia a Lecce che in provincia. Non sono mancati interventi repressivi di
particolare efficacia.
Sempre per rimanere in tema, la relazione inaugurale ha dato informazione sull’esito
delle indagini svolte su alcune frange mafiose già operanti a Lecce ed esponenti della
politica specialmente in occasione di consultazioni elettorali. Per queste vicende è
stata formulata imputazione di corruzione elettorale commessa per finalità di
agevolazione mafiosa, nei confronti di un candidato alle elezioni del Consiglio
Comunale di Lecce del 2002.
Nel circondario di Brindisi risultavano ancora in corso le indagini sulle eventuali
infiltrazioni mafiose nelle imprese e l’interesse delle organizzazioni di tipo mafioso
agli appalti.
278
Nel circondario di Taranto sono state definite le indagini preliminari tra esponenti
della criminalità organizzata ed ambienti del Comune di Taranto (influenza sul
rilascio di concessioni e sulla gestione delle attività); è emersa anche l’ipotesi di
corruzione elettorale commessa per finalità di agevolazione mafiosa in occasione
delle amministrative comunali del 3-4 aprile 2005.
Preoccupante è stato considerato il frequente coinvolgimento di minorenni nella
consumazione di reati. La Procura della Repubblica presso il Tribunale per i
minorenni di Lecce ha rilevato un forte incremento, fra l’altro, di rapine, estorsioni,
armi e stupefacenti. Per altro, talune rapine ed estorsioni, specie se commesse in
concorso con maggiorenni e con uso di armi, sono state inquadrate come potenziali
strumenti di collegamento o vicinanza con le organizzazioni criminali in fase di
ricostruzione sul territorio, dove la ricerca delle nuove leve viene generalmente
indirizzata tra i più giovani appartenenti a un gruppo familiare già inserito
nell’organizzazione.
Il fenomeno dell’inquinamento ambientale visto come reato, è stato giudicato molto
imponente. Particolare attenzione è stata dedicata ai reati di adulterazione e
contraffazione di sostanze alimentari,commessi nel circondario di Lecce e nel
territorio di competenza del Tribunale di Brindisi.
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Il Diario di Bordo 1 Semestre 2008 - Osservatorio per la legalità e la