FEBBRAIO2009
www.bab3l.splinder.com
C O N T E N T S
012
2 0 0 9
PROGETTO EDITORIALE
federico res
COPERTINA
tommaso “gatsu” de benetti
GRAFICA E IMPAGINAZIONE
federico res
EDITING DEI TESTI
giovanni “giocattolamer” donda
SITO WEB
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BABEL È OSPITATO DA
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REDAZIONE
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federico res
giovanni “giocattolamer” donda
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simone “karat45” tagliaferri
tommaso “gatsu” de benetti
vincenzo “vitoiuvara” aversa
016
LIPS
FAKE PLASTIC MICS
AFRIKA
INTO THE WILD
COPYLEFT
2007/2008 Babel Edizioni
Babel è rilasciato sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 3.0
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Suite 300, San Francisco, California,
94105, USA.
BABEL
002
020
008
COVER STORY
Lips 003
FRAME
Meteore: che fine hanno fatto i
film interattivi? 008
REVIEW
Banjo: Nuts & Bolts 013
Afrika 014
Call of Duty: World at War 019
Lips 018
Need for Speed Undercover 020
Valkyria Chronicles 016
UNDERRATED
Echo Night Beyond 021
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
Un discorso del c***o 004
ODIO DI GOMITO
Spezzatori di lance e... 005
ESCO DI RADO
Pensaci su 006
ARS LUDICA
La perdita di controllo 007
LA TV CHE VIDEOGIOCA
Guitar Queer-o 024
1492
Un uomo e il suo sogno 012
TIME WAITS FOR NOBODY
Episodio 3 022
FILM INTERATTIVI
DAI LASER GAME A CAPTAIN POWER
NEXT MONTH
Killzone 2 025
012
COVER
E
STORY
' un mondo di glitter, di luci
della ribalta. Un mondo,
come direbbe Elio, di "Piccole donne, grandi labbra / piccolo uomo grandi labbra
apprezzerà". Un mondo dove ci
si pesa divertendosi, si impugna
un microfono e si inizia a cantare, si premono a caso tasti in
chitarrine di plastica e chi si era
mai divertito così. Ho visto il Pupazzo Gnawd, nostro esimio collaboratore, pubblicare in rete i
video della sua "band" che
"suona" pezzi di Guitar Hero. Ho
visto un mio amico di 130 kg, i
cui orizzonti musicali iniziano e
finiscono con i madrigali e Burzum, improvvisamente impazzire
per Rihanna e i microfoni con le
lucine di Lips, ne ho visto un'altro che lavora 10 ore al giorno in
una maschia acciaieria proporsi
al mondo come spericolato
emulo di Dido.
Ho visto labbra, ho visto corpi.
Di maschi. E non è stato bello.
Ma non possiamo piangere sul
latte versato tutto il tempo: il videogioco reclama il nostro corpo,
mai come ora, e noi incuranti del
LIPS
senso del ridicolo glielo concediamo. Ma non solo, invitiamo i
nostri amici, fidanzate, conoscenti, e parenti tutti a partecipare al sacrificio con noi. Alcuni li
costringiamo. "Canta che anche
tu devi fare la figura dello
scemo". Va bene così? Forse sì,
forse era ora. Ora di scrollare di
dosso dal videogioco un'aura di
drammaticità che salvo sporadici
casi ha sempre indossato con disagio. Il rovescio della medaglia,
in tutto questo, è che presto dovremo essere più bravi e più belli
degli altri. Quando per tutti sarà
normale giocare a SingStar alle
feste, o avere la serata Rockband con gli amici del bar, non
avremo più scuse. Rifiutare sarà
come ammettere di non saper
giocare a calcio. I videogiochi
vogliono salire on stage, portandoci con loro. Ma noi lo sappiamo
quel che succede a chi sale su
quel palco: un giorno hai labbra
scintillanti e applausi tutt'intorno, quello dopo sei solo un
nessuno qualunque.
Tommaso De Benetti
003
Tommaso De Benetti
Uno che i VG preferisce discuterli
Tommaso De Benetti è stato membro
fondatore e colonna portante di Ring, la
rivista più amata dai videogiocatori
meno rincoglioniti. Qualche tempo fa,
esasperato dall’ignavia invincibile degli
ormai depressi ringhici, ha lanciato da
solo il progetto RingCast (reperibile su
iTunes), primo podcast italiano a tema
videoludico, a cui comunque la vecchia
guardia partecipa a corrente alternata.
Gatsu, secondo il nick con cui è solito
firmarsi su Internet, attualmente vive e
tromba ad Helsinki, tra frotte di bionde
ninfomani e sferzate di gelo più o meno
devastanti.
DAL VANGELO SECONDO TOMMASO
Un discorso del c***o
D
Pochi videogiochi affrontano
tematiche sessuali. Mass Effect e Silent Hill 2 lo fanno
bene, God of War: Chains of
Olympus e Grand Theft Auto
(con il suo Hot Coffee) lo
fanno in modo molto più discutibile
004
ue minuti fa ho visto il
primo nudo integrale maschile della storia dei videogiochi. Il gioco incriminato, e
non mi viene in mente un candidato migliore, è Grand Theft
Auto IV: The Lost and Damned.
Seguono piccoli spoiler che però
fareste meglio a leggervi. La
missione vede il protagonista
Johnny dialogare con un politico
- notate il particolare, democratico di facciata, ma segretamente
sostenitore di una dittatura illuminata - in un centro massaggi.
Questo omuncolo di potere,
senza preoccuparsi più di tanto,
ciondola da una parte all’altra
della stanza completamente
nudo. Per quasi tutto il tempo la
telecamera si mantiene a livello
ombelico, poi, di colpo, un piano
americano ci svela la tremenda
verità: gli uomini nudi non finiscono sopra l’inguine. Mi auguro
che sia cosa nota: se vi siete mai
interrogati sull’escrescenza nelle
vostre mutande, dovreste sapere
anche di cosa stiamo parlando.
Non essendo questa una puntata di Siamo Fatti Così ci dobbiamo però porre la domanda
giusta: perchè c’è un uomo nudo
in Grand Theft Auto IV: The Lost
and Damned? Procediamo per
ipotesi. Potrebbe essere una risposta di Rockstar a chi si ostina
a lanciarle contro accuse di misoginia. Accuse forse false, ma
quante donne di classe vi ricordate in Grand Theft Auto? Non
molte, ad assere sinceri. Donne
interessanti, donne vissute,
certo, ma raramente qualcosa
più di battone o spacciatrici.
Forse mostrare un uomo inerme,
di mezz’età, con il pippero al
vento è una mossa per riequili-
brare le cose - fermo restando
che in GTA nemmeno gli uomini
ci hanno mai fatto una gran bella
figura. Voglia di provocazione
gratuita, magari. E se fosse semplicemente un modo per infrangere l’ultimo tabù, ed
esorcizzarlo? “Ecco qua. Un pene
barzotto. Mai visto uno? Uuuh,
che paura.”
Nell’episodio #36 del podcast
di Multiplayer.it, uno dei ragazzi
che vi partecipa (A. Jodice)
mette sul tavolo la questione
sesso & videogiochi, domandandosi perchè sia così difficile coniugare le due cose quando da
sempre in film e libri destinati a
qualsiasi target esistono scene di
sesso per ogni gusto: esplicite,
suggerite, perverse, romantiche,
disperate, frigide, violente. Quasi
a sottolineare il difficile approccio
al tema, gli altri del gruppo non
si risparmiano in battute maliziose e perculate. Discutere di
sesso fra maschi finisce sempre
ed inevitabilmente in accuse di
omosessualità latente, ma è con
Jodice che incrocio (metaforicamente) il pene in segno di reciproca stima. Serve del sesso per
fare un buon videogioco? No. Lo
vogliamo in ogni nuovo titolo?
No. È necessario per una buona
storia? No. Possiamo accettare
che anche il sesso diventi un
soggetto narrativo (o ludico, se
si può far meglio di God of War:
Chians of Olympus) nè più nè
menò di tematiche come politica,
cavalli, religione, macchine, invasioni aliene, cani abbandonati e
brutalità assortite? Sì, possiamo.
Pensate a Ken e a Barbie. Negli
anni ottanta avevano gli organi
genitali lisci: generazioni di bambini son cresciuti con la convin-
zione che le donne non avessero
i capezzoli. L’ultima volta che ho
avuto fra le mani una Barbie (...)
ho notato che adesso Mattel
stampa le mutande direttamente
sulla plastica per nascondere l’inenarrabile verità: Barbie ha la
patata e, al pari di Megan Fox,
ogni tanto deve andare al bagno.
Posso capire che avere una Barbie con organi genitali dettagliati
sia sostanzialmente superfluo.
Ma poi penso al popolo di videogiocatori cresciuti negli anni ottanta a pane e Kenshiro, fruitori
di porno dalle medie, appassionati di manga tutt’altro che candidi, gente che spazia fra cultura
alta e bassa senza grossi problemi. Siamo bambine che giocano con le bambole, servi di un
sistema che nega l’evidenza perchè l’evidenza è in qualche modo
contraria al buoncostume, i cui
standard a loro volta negano la
natura? Qual’è il gran segreto
che ci devono nascondere, il mistero che - ipocritamente - dobbiamo fingere di non conoscere?
Se proprio dobbiamo cercare
un senso nel cazzo, che sia questo: è parte del nostro corpo, ce
l’abbiamo nelle mutande da sempre. È un amico fedele che condivide con noi gioie e dolori. Lo
conosciamo perfettamente, così
come la conoscono tutti gli altri
uomini del pianeta. È tempo che
i protagonisti dei videogiochi da
pupazzi di legno diventino bambini veri, perchè se è vero che
andare in giro a sventolare i
gioielli di famiglia è cattivo
gusto, negarne l’esistenza non
ha davvero alcuna giustificazione.
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni
Giovanni Donda, in arte Giocattolamer, è
italiano di nascita e inglese d’adozione.
“Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È
entrato a far parte dell'industria dei
videogiochi dalla porta di servizio, e lì è
rimasto. Oggi è a capo di una piccola
azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o
prodotti qui non verranno mai men-
zionati. Questo ci ha costretti a scriverlo
lui. Va da sé che le sue opinioni siano appunto tali. Pure questo. La moglie, invece, gradirebbe che simili premure le
riservasse a lei, e alla figlia, non a quella
ditta del... Ma lo ama tanto. Fortuna che
non capisce l'italiano e crede ancora che
“Odio di Gomito” sia solo il romanzo che
gli pagherà il mutuo.
odio di gomito
Spezzatori di lance e picchiatori di cavalli morti
Q
uella bighellona di Dorotea
aveva ragione, non c’è
posto come la propria
casa. E Sony lo deve aver capito,
perché la scommessa Home inizia nel migliore dei modi. O per
meglio dire, nel migliore dei
posti. Ovvero dalla tua casa. Non
che il nome suggerisse altrimenti, vero, ma è importante
specificare. Per esempio, Home
non inizia da un anonimo isolotto
nell’anticamera del mondo, dove
ti vengono impartite noiose istruzioni di fisica, nel mentre che
altri niubbi come te incasinano il
tutto. No, a differenza di Second
Life, Home inizia nel privato del
tuo appartamento. Completamente solo. Puoi muovere così i
primi passi senza l’angoscia di
nessuno che ti rompa gli zebedei. Puoi goderti la bellissima
vista sul porto turistico senza
che nessuno ti inizi a danzare
davanti, quando ancora non sai
neanche come si faccia a mandarlo a quel paese, tanto meno
mostragli due passi di polca.
Per quanto l’etichetta di ‘gioco’
gli sia stata cucina addosso sul
lato sbagliato, Home inizia proprio come tale. Crei l’avatar ad
immagine e somiglianza di come
vorresti che diventasse da
grande tuo figlio, o figlia. Lo
vesti degli abiti che sai già milioni di altri utenti avranno
scelto, pensando - come te - che
nessuno andrebbe per quella
combinazione di vestiti lì. Infine,
passi il tutorial al sicuro delle tue
quattro mura e via, verso il
primo livello. Non proprio così
immediato, a dire il vero, perché
il primo livello non è altro che la
piazza principale di Home e questa dev’essere prima scaricata,
ma poco importa. L’importante è
che ti sei mescolato al resto della
comunità e il mondo è tuo. Puoi
schifare il cabinato di Echochrome dopo pochi minuti, guardarti il trailer esclusivo di
Watchmen che hai già visto su
YouTube, e... beh, è un hub ed è
nella fase di beta, di quel che c’è
non manca nulla.
Certo, cosa sia esattamente
questa beta di un hub mi continua a sfuggire, e questo nonostante una seduta intensiva,
passata ad attendere che gli avatar altrui mi si materializzassero
davanti, per capire se il placeholder con cui stavo parlando fosse
un morto di figa, oppure uno che
si spacciasse per figa. Potrebbe
non rimpiazzare quell’incerto
tentativo di arte moderna conosciuto ai più come l’XMB. Potrebbe fare la fine del dodo - o di
Second Life, per rimanere in termini semi-ludici - e non imparare
mai a volare, diventando così lo
scemo del villaggio. Potrebbe,
del resto, scomparire velocemente e silenziosamente quanto
è apparso l’altra mattina accanto
al PlayStation Store. Probabilmente non accadrà nessuna delle
tre probabilità, e specialmente
non quest’ultima. Sei hai già dimostrato di avere le braccine talmente corte da crearci un hub,
pur di non buttar via anni di sviluppo del fu The Getaway, prima
di farlo scomparire del tutto, lo
tramuti in un museo a pagamento piuttosto. Ma sto divagando.
Mia nonna – quella della carriola – aveva un detto: “chi visse
sperando, morì cagando”. Sacrosanto. Ma credere in Home non
richiederà un’intensiva seduta
sulla tazza del cesso. Perché non
c’è molto da sperare qui, quanto
da aspettare. Avrò dubbi su cosa
sia oggi, ma su quello che sarà
un domani, no, perché il fulmine
a ciel sereno l’ho visto anche con
i prosciutti da fanboy sugli occhi.
Home è l’ennesimo gimmick a
fare capolino sulla nostra industria preferita. Uno specchio per
le allodole, come il Nunchuk, aggiungerei per aiutarvi a capire
dove stia andando a parare.
Come gli achievements, aggiungerei per sbattervelo in faccia. E
sei bella così.
Home deve invogliare gli utenti
a giocare di più. O meglio, a
spendere di più. E a farlo con
Sony. Sì - uno potrebbe portare
sul tavolo della discussione però ci sono già, rispettivamente, il Sixaxis e i Trofei.
Ahimè, Sony ha dimostrato che
non è solo la prima frittata a non
venire mai bene, ma anche la
seconda. La terza andrà meglio,
deve andare meglio, anche perché per una volta non è una
copia, ma direttamente l’originale. Per vincere la guerra del
porting multiplatform, allora,
quale idea migliore di un idilliaco
appartamento con una vista
mozzafiato, tutto vostro, da arredare, espandere e tramutare in
quello che non avrete mai in vita
vostra? Ah, è gratis*.
Voi chiamatelo escaspismo, se
volete, per me è solo la solita
storia di chi ce l’ha più grosso. E,
putacaso, noi videogiocatori
siamo sempre i primi a tirare
fuori il righello.
Non è stato amore a prima vista,
il mio sodalizio con Home. Ma in
un certo, preciso istante qualcosa è scattato. Non è stato dar
il via a una danza collettiva davanti alla pubblicità di PlayStation Portable. Non è stato
vedere rincorrere da una mandria di ragazzini brufolosi, un divorziato alcolista fintosi donna
meretrice. No, l’amore è sbocciato a seguito dell’incantesimo
più antico e potente del mondo:
vincere. Il mio è stato amore a
primo scacco
*Attenzione: vita sociale non inclusa, leggere le avvertenze prima dell’uso, non è
proprio gratis.
005
Vincenzo Aversa
Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque
migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr.
Vitoiuvara ha deciso di condividere con
il mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per
Videogiocatori Professionisti” che oltre a
renderlo famoso, lo ha definitivamente
consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del
suo fidato quaranta pollici ma, come ama
ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi
tutto il suo tempo libero a videogiocare, è
fermamente convinto che, nell’arco di
massimo cinque anni, sarà fuori da
questo ambiente di sfigati.
esco di rADo (ma gioco pure troppo)
Pensaci su
È
il mio mese dedicato alla pigrizia. Considerando quanto
io sia pigro già di mio, è
quasi un problema. Considerando
che i mesi ormai sono quasi due, è
un problema vero e proprio. Perché non lo so, capita. Sarà il
freddo della mia sala giochi senza
termosifoni, sarà la pioggia che mi
irrita le giornate, oppure sarà il
materasso in memory che ho
comprato. Dio quanto lo adoro, è
come dormire su una vagina gigante, impagabile. Fatto sta che
non c’ho voglia, so che non è ancora tempo di appendere le chitarre e i pad al chiodo, ma adesso
non c’ho voglia.
Ed è in questi momenti, quando
il telecomando gira troppo veloce,
che ti fai delle domande. Guardi
indietro, ti guardi adesso e subito
il futuro ti sembra limpido e
chiaro. Io proprio non mi ci vedo
tra una manciata di anni a litigare
con i videogiochi. Non a tutti sembrerà così evidente, ma i videogiochi chiedono tanto prima di dare
qualcosa. Sono delle puttane
avide che regalano amore solo a
comando. E non sto parlando di
soldi, ma di quel prezzo d’ingresso
così faticoso, a volte noioso, altre
solo trascurabile, che ogni videogioco richiede. Sistemi di controllo
sempre diversi, interfacce da interpretare, motoseghe da accendere al momento giusto. Oggi,
nonostante la pigrizia, quella
rogna iniziale non è sempre un
male necessario. A volte quella
sensazione di smarrimento e di
frustrazione alla partenza è parte
del divertimento. Perché prima o
poi verrà vinta, le sue reni cadranno al suolo devastate e un
profumo di soddisfazione inonderà
le radici del malcapitato lcd di
turno.
Ma domani? Difficile immagi-
006
narmi della prole al fianco prima
ancora di aver trovato l’infornatrice, ma è possibile che qualche
rompicoglioni ci sarà in futuro. E
se anche non fossero loro, avrò
davvero la voglia di aspettare ancora che i videogiochi diventino
maturi? Perché a tirare le somme
spesso ci si fa del male. Sono
grandi in quanto ad intrattenimento puro, sono perlopiù fuffa
quando ti aspetti emozioni forti.
Non sempre, non solo, ma perlopiù fuffa. Io in questi cazzo di giochi continuo a vedere un
potenziale smisurato, non intrattenimento, potenziale vero. Sogno
scelte difficili, decisioni importanti,
X per l’etica, quadrato per la morale, cerchio per il fanatismo religioso. Sogno di giocare storie
importanti, perché di salvare questo cazzo di mondo, o altri cazzo
di mondi, ne ho piene le palle.
E allora in quel futuro di prima,
con poco tempo libero, lo stesso
lavoro stancante e una mente
meno vogliosa di soddisfazioni faticose, non sarà più facile guardare i Soprano o chissà cosa in
Red Ray. In quel futuro, quando ci
sarà da rattoppare qualche ora,
non sarà più appagante riempirsi
la bocca di qualcosa che riempia
veramente? Avete solo una colazione a disposizione e due tipi di
cereali davanti a voi. Nel primo
pacco ci sono quelli buonissimi,
nel secondo quelli buoni. Chi sarebbe tanto pazzo da consumare i
secondi?
È il mio mese dedicato alla pigrizia. Vedo tutto nero, non posso
farci nulla. E se dovessi fare una
previsione oggi, in questo preciso
momento, racconterei di un mercato con pochi Grand Theft Auto
IV e tante bilance. Perché finalmente si vedeva una luce in fondo
al tunnel e l’inatteso successo del
divertimento usa e getta made in
Nintendo ha spento l’interruttore.
Forse no, magari sbaglio, ma forse
sì. Ragiono da uomo pratico. In
quel futuro, sempre lo stesso, se i
videogiochi saranno Wii Fit, non
sarà più divertente correre per
un’oretta tra le strade del mio
quartiere? C’ho bella musica nel
mio ipod shuffle, non credete.
Non dico di credermi, ma di
pensarci su, un paio di minuti basteranno. Sapete perché credo che
questo mondo, questo settore,
stenti a decollare? Perché tanto
potenziale rimane perlopiù materiale da anteprima? Perché i migliori, in questo mondo, se ne
vanno prima o poi. Ci passano in
tanti, ci crescono in molti, poi
ognuno per la sua strada, sono
pochi a continuare a spalare la
neve. È fisiologico credo. Ma tanto
ricambio, così tanta fioritura costante di nuove braccia per la
terra, appiattisce e smorza la crescita. Una volta un muratore nasceva da bambino, cresceva,
diventava bravo e insegnava il suo
lavoro. Oggi nasce a trent’anni,
dopo due pensa di aver capito
tutto e si mette in proprio a rovinare appartamenti. Sarò all’antica,
ma si cresce davvero se nello
stesso teatro ci sono gli attori
bravi, le comparse che saranno attori e qualche ragazzino in platea
che sogna di salirci, un giorno, su
quel palco.
Mi sto deprimendo, figuratevi
voi. Domani arriva Killzone 2, poi
Street Fighter 4 e ho da farmi un
giro di prova con Fear 2 e Silent
Hill 5. Domani il mese della pigrizia sarà finito, ma continuerò a
vedere lo stesso futuro. Non deprimente, diverso. Due minuti,
non di più, pensateci su.
Simone Tagliaferri
Si perde troppo spesso per mondi virtuali
Simone Tagliaferri nacque e sta ancora
cercando di recuperare da quella faticaccia immane. Nel frattempo ha scritto articoli per molte testate, tra le quali
Gameoff, Xoff, PSW, PC Games World e
altre di cui non ricorda molto (sapete... la
senilità). Attualmente scrive articoli su
multiplayer.it, cura la sezione videogiochi
del Mediaworld Magazine e scrive assiduamente su Ars Ludica, progetto nato
nel lontano 2005 che si occupa di spammare un po' di cultura videoludica in giro
per il web. Tra le sue altre attività, oltre
allo spaccio internazionale di pannolini
usati, traduzione di guide ufficiali e di
videogiochi.
ARS LUDICA
www.arsludica.org
La perdita di controllo
D
iceva qualcuno che è nei momenti di crisi in cui si vede il
vero valore di un uomo. Perché, se è facile dissimulare tranquillità quando tutto va bene, non
lo è altrettanto quando la situazione è fuori controllo. Da Omero a
Uwe Boll, il tema della perdita di
controllo dell’essere umano davanti
a una situazione di crisi è stato
centrale. Non a caso il controllo è
uno dei principi su cui si basa lo
sviluppo stesso della civiltà (non inteso in senso prettamente lineare),
e intorno a cui si è sviluppata la
cultura. Quello del controllare è un
concetto complesso che si apre a
moltissime interpretazioni, dal superficiale controllo dei fenomeni
criminali al più profondo creare un
pantheon di divinità per spiegare e,
quindi, controllare culturalmente i
fenomeni inspiegabili che l’uomo si
trovava davanti (un lampo, un terremoto, la follia stessa, la morte e
così via).
Uno dei principi della psicologia
della Gestalt che più mi affascina è
quello della similarità, secondo cui
due elementi con caratteristiche
comuni (forma, dimensione, colore
e movimento) vengono percepiti
come un’unica forma dal cervello, il
quale li unisce automaticamente
creando l’illusione d’insieme. Ovviamente il cervello può operare in
questo modo soltanto sul piano generale e non su quello particolare,
perché, nel caso l’osservatore si
concentrasse sul singolo elemento,
l’illusione dell’insieme sparirebbe.
Avvio Far Cry 2 e inizio a guardare. È il gioco che invita a farlo
perché parte con un breve viaggio
all’interno di un auto da cui posso
soltanto guardarmi intorno (HalfLife docet). Capisco che siamo in
Africa perché la vegetazione somiglia terribilmente a quella di alcuni
film ambientati in Africa (ma quale
parte dell’Africa? Si tratta di un
continente immenso, il cui paesaggio può variare moltissimo e in cui
vivono molte culture diverse, nonostante le barbare credenze occidentali). Gli sviluppatori ci tengono
moltissimo a farmi entrare nello
scenario a gamba tesa e a mostrarmi le meraviglie del loro motore grafico. Sulla strada non
manca nulla: vegetazione, guerriglieri, corsi d’acqua e i famosi incendi ultra realistici di cui i PR
hanno tempestato i comunicati
stampa nei mesi precedenti alla
pubblicazione. Fortunatamente
sono un cinico disilluso e riesco a
non stupirmi più di tanto… e poi la
boscaglia del concorrente diretto,
Crysis, è molto più boscaglia. Vista
una viste tutte. Inoltre, inizio a
pensare che odio la vegetazione
perché mi occlude la vista dei nemici, mentre loro riescono comunque a colpirmi con precisione
chirurgica. Ma sono già avanti. Torniamo al viaggio.
Arrivo all’albergo con in testa un
quadro preciso della situazione: i
gruppi di guerriglieri locali e dei
gruppi stranieri dominano l’area e
combattono per il potere. Mi viene
un po’ da ridere. Fortunatamente
arriva la malaria a far svenire il
protagonista, favorendo la dissolvenza che porta alla sequenza successiva in cui il terrorista cattivo lo
va a trovare nella stanza dell’hotel
dove il nostro se ne sta a letto impotente e morente. Niente, non
lo/mi uccide. Un po’ ci speravo.
Assaltano l’hotel e finalmente
prendo il controllo del personaggio.
Segue una sparatoria e un nuovo
svenimento. Dopo un dialogo con il
mio salvatore posso finalmente andarmene in giro per il mondo di
gioco. Svolgo la missione tutorial e
posso tornare in città (chiamiamola
così) per esplorarla. Qualcosa non
torna. Il quadro generale è Africa,
la situazione politica del territorio
fa molto film con Schiattaneger
ambientato in Africa… ma qualcosa
non torna lo stesso.
Dove sono gli africani? Maledetti,
dove siete finiti? Non vi vedo! Dai,
non fate i dispettosi e uscite fuori
da quelle baracche di lamiera. Dovete esserci. Altrimenti, chi li scaverebbe i diamanti sparsi per tutto
il gioco? Su chi si eserciterebbe il
potere dei gruppi dominanti? Il
prete cittadino per chi direbbe la
messa? Dove diavolo siete andati a
finire? C’è la polvere, ma non ci
siete voi nella polvere. I bambini…
mancano anche i bambini! Eppure
l’equazione Africa=bambini affamati è immediata. Inizio a osservare attentamente e il quadro si
sfalda finendo in pezzi. Non mancano solo le persone, mancano
anche gli animali. Inizio a non sentire il rumore degli insetti e la vegetazione diventa di carta pesta.
Non ci siamo, sto perdendo il contatto con l’illusione. È colpa mia. Ne
so troppo e pretendo troppo, oppure ne so troppo poco, ma pretendo troppo lo stesso. Non posso
più giocare perché questa non è più
l’Africa che ho in testa, le somiglia,
ma non lo è. Non posso più giocare
perché l’illusione ha perso il controllo e ha mollato la presa, finendo
in crisi.
Eppure tutto questo non mi è capitato con Crysis o con
S.T.A.L.K.E.R.! Ci penso un po’, poi
capisco. In Crysis e S.T.A.L.K.E.R.
non mi aspettavo di trovare altri
esseri viventi che nemici ben armati, perché i lori mondi lo permettono. Far Cry 2 non lo permette…
ho quindi immaginato una Liberty
City abitata da soli criminali e ho
capito che non avrebbe avuto
senso.
Africa, ti viene da urla’, una
stramaledetta cartolina dell’Africa!
007
f
r
a
m
e
di Gianluca “Unnamed” Girelli
METEORE: che fine hanno fat
i film inte
on in molti lo ricorderanno, ma già verso la
fine degli anni ‘80 c’è
chi affermava che il
modo di intendere il videogioco sarebbe cambiato radicalmente. L’utilizzo massiccio
della grafica 3D era ancora a venire, eppure le premesse per una
prospettata rivoluzione videoludica sembravano esserci tutte, o
almeno così promettevano numerose software house che investirono ingenti risorse su quella che
doveva essere la nuova frontiera
del fotorealismo videoludico. Una
nuova sensazione di ‘coinvolgimento’ che doveva passare attraverso sequenze in game di qualità
cinematografica. Anzi, il videogioco avrebbe abbattuto il limite
del cinema stesso, tant’è che il
fruitore non sarebbe stato più un
mero spettatore delle sequenze
video, ma ne avrebbe fatto parte.
Era appena nata una nuova corrente, quella dei cosiddetti ‘film
interattivi’. Venti anni più tardi ci
si chiede che fine abbia fatto.
Con il termine ‘film interattivo’
non viene indicato un genere,
piuttosto una corrente di idee che
avrebbe dovuto portare ad una
N
008
nuova e solida commistione tra
videogioco e film. Il nuovo filone
doveva valicare dei problemi di
carattere tecnico piuttosto complessi: tenendo conto delle possibilità espresse dall’hardware
durante l’arco di sviluppo del genere, raggiungere il fotorealismo
con questo metodo significava
bruciare parecchie tappe. E i compromessi derivanti da questa
scelta erano più che evidenti. Le
sequenze video, per quanto spettacolari, mostravano il fianco ad
una poca interattività, poiché gestire ogni possibile variabile equivaleva a girare ulteriori ore di
filmato. In seguito vennero adottate diverse soluzioni, come unire
scene filmate a fondali pre-renderizzati o in real-time, tuttavia il
problema non venne mai risolto
completamente per ovvi motivi.
La corrente dei film interattivi si
sviluppò di pari passo con l’arrivo
sul mercato home dei primi sistemi multimediali. Primi esponenti del genere furono i laser
game, sviluppati a metà degli
anni ‘80, il cui nome derivava
dall’utilizzo di un lettore laserdisc
per la gestione delle sequenze
animate. Anticipando di qualche
anno l’uscita sul mercato dei compact disc (da cui parte della tecnologia deriva), i laserdisc
offrivano numerosi vantaggi, tra
cui l’utilizzo di dati digitali facilmente interpretabili da un computer (sebbene la parte video fosse
in realtà gestita ancora in maniera
analogica), una migliore gestione
di freeze/seeking oltre che, ovviamente, alla mancanza di tutte
quelle problematiche derivate
dall’utilizzo continuativo dei nastri. Mutuando soluzioni tecniche
prese dal televideo, venivano inserite all’interno dei filmati alcune
linee video non visibili su cui venivano trascritte informazioni e con
cui l’hardware poteva sincronizzarsi per il controllo delle sequenze. Un sistema già di per sé
relativamente complesso, che
però non permetteva la creazione
di impianti di gioco altrettanto articolati.
Audiovisivamente notevoli, i lasergame avevano un’interattività
limitata ad alcune sequenze, o ad
alcuni passaggi da eseguire rigorosamente in sequenza in un preciso istante poiché pre-trascritti
sulla traccia video. Molti lasergames si limitavano alla pressione di
tasti con tempistiche ben precise,
cosicché, paradossalmente, giochi
tecnicamente meno validi offrivano un’attrattiva maggiore perché più ‘liberi’. Spina nel fianco
furono i costi di gestione/manutenzione delle macchine di cui i
lettori erano la parte più critica,
oltre ovviamente ai costi di produzione di quelli che erano veri e
propri film. Queste spese non potevano che ricadere sul giocatore,
il quale finiva per pagare uno
sproposito una partita che in alcuni casi durava persino secondi.
A metà degli anni ‘90 la partita
si sposta dal campo arcade a
quello domestico, dove il genere
avrebbe avuto la sua prima vera,
e forse unica, popolarità ed
espansione. Nascono su PC i primi
titoli ‘ibridi’: i laserdisc fanno
posto ai cd-rom, mentre dalle avventure grafiche punta e clicca
viene preso in prestito
Und
to
erattivi?
l’impianto di gioco. Niente più sequenze narrative testuali, ma filmati
della durata di diversi minuti; niente
più fondali pitturati, ma allestimenti
scenografici veri e propri; via i ‘guy
brush(ed)’ per far posto ad attori che
recitano le linee di dialogo ripresi su
sfondo verde. La navigazione all’interno delle scene avviene mediante
schermate 2D rielaborate al computer
o più spesso tramite l’utilizzo di mondi
realizzati in 3D in grafica pre-renderizzata, il cui stacco con le riprese reali è
meno traumatico rispetto al 3D realtime, che almeno per il momento non
può competere in qualità. Le novità
apportate danno fiato al genere, ma
non risolvono totalmente le carenze di
interattività, al filone non resta che
svincolarsi puntando maggiormente su
questo aspetto a scapito della componente filmica che assume un ruolo minore. C’è chi però ancora crede nella
validità dell’idea, in futuro filmati e interattività andranno a braccetto (non è
chiaro come) e quando questo accadrà
attori famosi sostiuiranno gli avatar
nei cuori dei giocatori e le pellicole ci-
nematografiche verranno soppiantate
definitivamente.
Il filone acquista una certa popolarità, le avventure grafiche sono ancora
un genere forte e questi nuovi prodotti
sembrano essere la loro naturale evoluzione. È però anche l’era in cui il 3D
inizia ad affacciarsi in maniera massiccia in ambito delle produzioni per il
mercato home, e anche i film interattivi dovranno adeguarsi: mischiano sequenze filmate a concept di gioco in
3D real-time. Un ulteriore passo indietro sulla componente filmica, ma un
passo necessario per fare sopravvivere
il filone. A questo punto, però, cosa è
rimasto dell’idea iniziale? Poco, forse
solo la paventata chiamata in massa di
star di Hollywood, o meglio, di ex star
di Hollywood in cerca di nuova notorietà. Più di una ventina di volti noti e
meno noti fanno comparsa in molte
delle produzioni, decantando le potenzialità del media. Forse ci credono
poco pure loro, oppure sperano – assurdamente - che Hollywood crolli, facendoli così divenire pioneri del nuovo
corso del cinema.
der A Killing Moon, forse il massimo esponente del genere
Si è parlato di ambiente PC, su console, invece, si dovrà aspettare il consolidarsi delle piattaforme dotate di CD
(MegaCD, CD32, 3DO, PcEngineFX,
etc.) per vedere affiorare nuovi prodotti, anche se tra gli esponenti solo
pochi esulavano dal vecchio modello
punta e clicca. Da notare che se mentre molte software house occidentali si
buttarono a capofitto sul filone, in
Giappone rimasero sempre piuttosto
freddino, preferendo dilazionare l’uscita dei – pochi - titoli in un’arco di
tempo più dilatato, buttandosi sulla
commistione con il genere dei giochi di
ruoli piuttosto che sull’avventure grafiche.
Quand’è che l’industria ha smesso di
credere ai film interattivi? Intenzionalmente mai, la trasmutazione dall’idea
di partenza a quelli che sono i prodotti
odierni è stata fin troppo lenta e naturale perché qualcuno potesse rendersi
conto del cambiamento. In realtà,
come per altre correnti ludiche che
non hanno avuto il successo sperato, i
film interattivi nel vero senso del termine hanno subito un declino piuttosto
(sotto) Malcom McDowell e Mark Hamill, probabilmente i più famosi tra
gli attori che hanno prestato il loro
volto nei film interattivi. Il primo è
finito a fare, ehm, Heroes. Il secondo
è finito e basta
lento. Tuttavia, non avendo mai raggiunto una grandissima popolarità, in
pochi si sono preoccupati della loro
scomparsa. Lo stesso genere ha sofferto di crisi di identità piuttosto
spesso nel corso della sua breve vita,
tant’è che non è immediato identificare, o meglio associare i titoli a questa categoria. Avatar più realistici da
impersonare, congiuntamente all’introduzione di nuovi metodi narrativi all’interno del videogioco, hanno contribuito
a dare la mazzata finale ad una corrente ludica le cui basi erano molto
probabilmente traballanti fin dal principio.
Lo sapevate? Anche il cinema tentò il suo
personale approccio al ‘film interattivo’.
Negli anni ‘80, soprattutto in campo televisivo, furono sviluppate soluzioni in grado di
espandere le potenzialità della TV attraverso
alcuni dispositivi che potessero interagire
con essa. Ad esempio nella serie televisiva
Captain Power alcune sequenze del telefilm
erano state studiate per ‘interfacciarsi’ ai
giocattoli dell’omonima serie. Negli anni ‘90
anche – pochi - cinema si attrezzano: in Mr.
Payback: An Interactive Movie era possibile
scegliere in anticipo che direzione avrebbe
preso la trama utilizzando una pulsantiera
che ricorda quella di Buzz per PlayStation 2.
Successivamente, grazie all’avvento del
DVD, fu più facile proporre film a scelta multipla con riprese a diversa angolatura. Tuttavia non ci fu mai un gran interesse per il
genere. Insomma, il risultato alla fine fu lo
stesso: un disastro
009
Italian Top Games Chart
1492
L
alla scoperta delle ‘indie’
e
storie di
successo
che giungono
dal mondo indie
si moltiplicano e si fanno sempre più frequenti. Se prima erano gli indipendenti più validi a essere reclutati nel gotha della produzione
videoludica, oggi, grazie anche alle possibilità offerte dal digital delivery, i progetti più interessanti
vengono presi in carico dalle major o addirittura
distribuiti autonomamente dai loro stessi creatori.
Il ritorno dei bedroom coder? Se Crayon Physics
Deluxe è un’indicazione attendibile, sì. In ogni
caso una certezza esiste: parte del videogioco sta lasciando la catena di montaggio per riappropriarsi della sua
dimensione umana.
UN UOMO E IL SUO SOGNO
Scaricate Crayon Physics Deluxe al seguente indirizzo:
http://www.crayonphysics.com
012
a cura di
Marco “Il Pupazzo Gnawd” Barbero
CRAYON PHYSICS DELUXE
N
on si può non amare un
pazzo come Petri Purho. Un
soggetto che da due anni a
questa parte si è lanciato in una
personale sfida: produrre un gioco
al mese. I risultati (che verranno
discussi in una futura puntata di
1492) sono sorprendenti per qualità
e inventiva. Una di queste dimostrazioni ha però catalizzato più di
ogni altra l’attenzione della critica e
degli habitué di
www.kloonigames.com: Crayon
Physics Deluxe. Un’idea tanto semplice quanto geniale. Hai una pallina, hai una stella e hai una
matita: fai in modo che la palla rotoli, rimbalzi, si catapulti, qualunque cosa purché raggiunga la
stella. Gli strumenti a propria disposizione? La fisica e una matita
con cui dare vita a qualsiasi forma
ti venga in mente. Il concetto è
molto simile a puzzle quali The Incredible Machine, ma in questo
caso è la genesi degli strumenti per
mettere in moto la reazione a catena il fulcro e non la reazione
stessa. Quello di Crayon Physics
Deluxe è un passo indietro strutturalmente e un paio di passi avanti
concettualmente. Una libertà simile
raramente la si è sperimentata all’interno di un videogioco. I primi
momenti sono pura estasi. Gran
parte del merito è dovuto a un impianto audiovisivo che è un trionfo
di stile e funzionalità: gentile nei
suoi tratti infantili, semplice come il
foglio stropicciato che fa da base
alla propria fantasia e rilassante
grazie a melodie mai invasive, capace di cullare i pensieri. È un
mondo di calma quello di Crayon
Physics Deluxe, una disconnessione
dalla realtà esterna che stimola a
rispolverare il fanciullino, che a giudicare dalla qualità artistica dei risultati non è cresciuto molto dai
suoi primi scarabocchi (vi accorge-
rete di quanto siete scarsi, garantito). Nonostante la pochezza e l’incertezza delle forme disegnate, il
programma non si scompone, interpretando e collocando nel mondo di
gioco qualsiasi schifezza la vostra
matita/mouse partorisca. Quella di
Purho è una vittoria su tutta la
linea. Un titolo che farà parlare a
lungo di sé, perché pur rielaborando meccaniche di certo non
nuove le propone da un punto di
vista inedito, creando un videogioco
nuovo, da sperimentare assolutamente. È un peccato che la libertà
prenda spesso il sopravvento. Solo
la mancanza di limiti, infatti, può
portare al paradosso che la maggior
parte dei puzzle possa essere risolta con un sistema di carrucole. È
vero, la filosofia del gioco è quella
di stimolare fantasia e creatività, di
godere delle mostruosità più ardite.
Quando succede è effettivamente
un momento da tramandare ai posteri, ma anni di videogiochi ci
hanno portato a cercare la crepa
nel meccanismo per poi sfruttala
senza pietà. E di questo Crayon
Physics Deluxe soffre, soffre pesantemente. È un peccato che solo a
conclusione del gioco si abbia la
possibilità di recuperare ulteriori
stelle basandosi su criteri differenti
(disegnare un numero minimo di
forme oppure non usare spilli), perché se questi stimoli a limitare lo
sfruttamento della libertà concessa
fossero evidenti sin dall’inizio,
Crayon Physics Deluxe non rischierebbe di alienare la sua utenza
prima della conclusione. Se questo
sia un limite è affare dell’utente e
del suo modo di interpretare il
gioco. L’editor di livelli e una comunità on line molto attiva sono comunque un rimedio più che
sufficiente agli eventuali mali del
parto di Petri Purho.
360
BANJO KAZOOIE NUTS & BOLTS
Io bullono, ergo sono
piattaforma 360 sviluppatore rare ltd produttore microsoft versione pal provenienza uk
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
volte ci vuole fantasia.
Immaginate nella stessa
riunione un dirigente
Microsoft, una coppia di
programmatori Rare e Banjo. Immaginate ora quanto possa essere
incazzato il primo per le scarse
vendite del gioco, poi immaginate
quelli di Rare scrollare le spalle e
infine immaginate Banjo, rinchiuso
in una gabbia per gatti, che si dichiara innocente. Un giorno qualcuno condannerà i colpevoli e poi li
rilascerà in libertà condizionata, ma
non è oggi il giorno del processo.
Oggi, un paio di mesi dopo il fattaccio, possiamo solo constatare
che Banjo-Kazooie: Nuts & Bolts è
una vittima. Una fottuta vittima
della mafia videoludica, più potente
della cinese, più feroce della russa,
più istruita di quella italiana. Una
mafia che macella la sua coca sempre sullo stesso scaffale, quello natalizio.
A giocare con Viti e Bulloni ti
passa la voglia di programmare videogiochi, pure se non lo hai mai
fatto in vita tua. Perché un buon lavoro non può essere lasciato alla
deriva da una collezione così pacchiana di imperdonabili errori. Il
primo sbaglio è non spiegare che di
platform non si tratta. Ci sono i livelli sì, ci sono i salti sì, ci sono
pure le note collezionabili e uno
scenario perfetto, ma di platform
non si tratta. E grazie a Dio, perché, dopo Kameo, Rare si rilancia
come regina dei controlli indecenti.
Banjo sarebbe il dito in culo di ogni
pad se dovesse solo saltare in testa
a qualcosa. Il secondo sbaglio è
una demo pedante e noiosa, fuorviante e inefficace, una stronza che
nemmeno fa capire che di platform
non si tratta (appunto). Non era facile inzaccare una formula tanto
nuova in cinque minuti di pubblicità, ma ti vuoi del male se non
lasci nel cassetto quella che ha invece invaso il marketplace. Il terzo
sbaglio, e qui mi fermo, è lo scontro tra un massimo e un mosca.
Quelli del marketing avranno fatto i
loro conti, sembra sciocco e superficiale sputare sul lavoro di tanta
brava gente, ma bisogna essere
degli imbecilli patentati per oscurare uno spaghetto alle vongole
con del parmigiano. Che in questo
caso gli spaghetti siano un gioco di
A
orsi e il parmigiano un misto di
motoseghe e sangue ha davvero
poca importanza.
A volte ci vuole fantasia e questo
Banjo è un cavallo sbizzarrito nel
vostro cervello. Le regole del tavolo
sono tanto chiare quanto indefinite.
Una missione, un obiettivo, e poi
solo un foglio bianco da riempire
con gli scarabocchi di progetti assurdi e improbabili. Lo rispiego,
meglio stavolta. Rare sceglie un
punto d’arrivo, il giocatore costruisce il percorso, Banjo ritira il premio. È proprio difficile da spiegare
Nuts and Bolts, perché tanta libertà
non si era davvero mai vista. Un’ispirazione, un lampo di genio, una
lampadina sulla testa magari e il
più bastardo dei livelli si trasforma
in un esemplare gioco da ragazzi.
L’importante è creare un mezzo
con motore, un sedile e qualche
ruota. Un gioco senza regole e
senza muretti. Come se in un picchiaduro si potesse lanciare contro
il nemico uno di quei tifosi ubriaconi alle tue spalle. Come se in un
RPG si potesse prendere a bastonate il cattivo prima che diventi
fortissimo. Come se si potesse
porre fine ad Heroes dopo la prima
stagione, per sempre.
Rare ti sfida a fottere e scavalcare le sue regole, perché di regole
vere e proprie ne ha scritte poche.
Il giocatore costruisce la sua avventura più di quanto non si faccia
in Little Big Planet. Il gioco si modella a sua immagine e somiglianza, si fa grande o piccolo in
base alle capacità del suo manovratore. Nuts & Bolts è un gioco diverso per chiunque lo giochi, il
primo esempio di codice volatile e
permeabile.
Si potrebbe pure parlare degli
inevitabili bug, della sala giochi, dei
segreti marini, dei mille pezzi a disposizione, della fisica credibile, di
alcune insopportabili gare e di alcune missioni dannatamente frustranti. Ma facendolo, supererei i
3800 caratteri e questa recensione
richiederebbe un’altra pagina di
spiegazioni. E Banjo-Kazooie: Nuts
& Bolts, il gioco che la LEGO
avrebbe sempre voluto fare, non si
può spiegare. Si può giocare e, per
una volta, fatevi il piacere.
8
Quello che sorprende maggiormente nel gioco,
è la facilità con la
quale si riesce a
partorire il proprio mezzo dei
sogni. Davvero
splendida ed intuitiva l’interfaccia del piccolo
meccanico
013
ps3
AFRIKA
Formaggio
console ps3 sviluppatore rhino studios produttore scei versione jap provenienza giappone
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
eve essere cominciato tutto il giorno
della mia prima comunione. Tra gli innumerevoli regali (adesso
che ci penso i miei non mi
hanno fatto toccare le bustarelle con i soldi, bastardi)
non posso dimenticare i miei
preferiti: una mountain bike,
un gameboy in bundle con
Tetris, un Commodore 64
con Kick Off Franco Baresi e
due splendide macchinette
fotografiche, una Nixon e
una Casio.
Adesso capite? Sony ci rimane male, se la lega al
dito, e ben diciotto anni dopo
(porca di quella vacca, diciotto) si vendica con un
gioco dedicato alla fotografia
e alle sue macchinette fotografiche. Il cerchio si chiude,
troppo facile Watson.
La mia carriera di fotografo è
poi proseguita tra splendidi
primi piani, gente che spegne le candeline e gruppi ordinati di gente felice. Una
volta ho pure fotografato una
sposa colpita con ferocia dal
riso, quanti bei ricordi. Ma
Afrika, così magari torniamo
a fare il nostro sporco lavoro, è davvero un gioco di
fotografia? Più no che sì, a
dire il vero.
Chi di obiettivi se ne intende davvero, infatti, quelli
che sanno cos’è la regola dei
terzi, lamenta carenza di opzioni, poche luci sul palcoscenico e risoluzioni troppo
basse. Chi sa pigiare il tasto
nero senza la messa a fuoco
e il flash automatici, insomma, delle fotografie di
Afrika se ne fa davvero poco.
In fondo non è un grosso
problema. Ma allora Afrika è
REVIEW
D
014
un gioco documentaristico
sugli animali? Più no che sì,
a dire il vero.
Dietro le pregevoli animazioni degli animali, infatti, si
nascondono delle routine
pane al pane, basilari più che
altro. Il bufalo va all’acqua,
poi torna indietro. L’elefante
va alla cascata, poi torna indietro. L’ippopotamo va in piscina, poi ne esce. L’iguana…
ecco, se vi capita di beccarla
l’iguana fatemi un fischio che
una gomitata d’amicizia
gliela do volentieri. Un andirivieni di dolcissime passeggiate interrotte, solo di tanto
in tanto, da alcune missioni
speciali. In quelle, e solo in
quelle, si assiste alla caccia
dei predatori e ad alcuni momenti fuori dagli schemi.
Come un minigioco, solo parecchio uguale al gioco vero
e proprio. Ma allora, guardandoci negli occhi, Afrika
cos’è?
Afrika è un gioco, né più
né meno. Un gioco con macchine digitali, jeep per spostarsi, animali e missioni. Più
classica di quanto possa far
credere, l’Afrika di Sony è un
videogioco senza rivoluzioni.
Pacato e singolare certo, ma
con una struttura da manuale. Accetti la missione,
scatti la tua foto, prendi la
ricompensa e ritorni sulla
giostra. Il resto è contorno,
ma in fondo non c’è molto
altro da fare.
Perlomeno gli obiettivi sono
raramente banali, le situazioni non si ripetono troppo e
la noia ha la meglio solo su
chi ha proprio sbagliato acquisto. Ma allora vien da
chiedersi, perché Afrika è lo
stesso un’esperienza gratificante e coinvolgente?
Perché ha un sapore
strano rischiare la vita e il lavoro di
A delle ottime animazioni non si
può dire certo corrisponda una grafica all’altezza. Lo
scenario è spoglio,
brutto, a tratti ridicolo. Il low budget ha un suo
costo. Tutto sommato stavolta non
ci arrabbiamo
un’intera giornata stando nascosti in un cespuglio. Perché
guardare negli occhi un animale che si sta infuriando e
attendere ancora un secondo
prima di darsela a gambe è
qualcosa che non avevo mai
fatto in vita mia. Da buon videogiocatore ho sempre
corso dei rischi, ma ho pure
salvato tutte le volte che potevo. In Afrika no, ho ucciso
tre boss finali, ho ignorato il
save point e mi sono scagliato in faccia ad un nemico
più grosso. Ho rischiato,
spesso ho perso, mi sono
maledetto e poi ci sono ricascato ancora.
Ho mentito all’inizio, la mia
carriera di fotografo non è
mai stata un granché. Gli
scatti ammucchiati nell’hard
disk di PlayStation 3 ne sono
infelici testimoni. Ma sapete
una cosa? Sticazzi, mi sono
divertito.
8
015
ps3
VALKYRIA CHRONICLES
Guns of the patriots?
console ps3 sviluppatore sega produttore sega versione pal provenienza giappone
a cura di Michele “Guren no kishi” Zanetti
atevi un favore, saltate il
prossimo paragrafo.
Troppi spoiler. E se c’è
una cosa che non vorrete
rovinarvi, sarà lo svolgersi dei capitoli di Valkyria Chronicles, sbloccati così duramente sul
campo di gioco.
La Federazione Atlantica e l’Alleanza Imperiale si combattono su
tutto il territorio di Europa per il
possesso dei giacimenti di Ragnite,
un particolare minerale usato per
moltissimi scopi: da fonte energetica per ogni tipo di macchinario,
alla cura stessa delle persone se raffinato in un particolare modo. Le vicende si svolgono nel piccolo regno
di Gallia, invasa dall’Impero per essere usata come testa di ponte con
cui colpire la Federazione. Gallia,
però, nasconde vari segreti, oltre
che una potentissima arma che potrebbe far comodo all’Impero. Sotto
assedio, la vita spensierata dei semplici civili cambierà con l’arruolamento, trasformandoli in veri
combattenti, desiderosi non solo di
difendere la propria terra, ma anche
quello che hanno di più importante.
Wellkin è il nostro protagonista,
chiamato nella milizia, ‘taggato’ tenente e messo a comando della
Squadra 7. Squadra a cui molto presto si aggiungeranno nuove leve, diventando così una sorta di famiglia
allargata da cui attingere truppe e
con cui approfondire i rapporti.
Le truppe da schierare si dividono
in cinque classi. Gli Scout hanno resistenza bassa, ma una capacità di
movimento gigantesca. Utilissimi da
mandare in avanscoperta per determinare la posizione dei nemici più
nascosti. Gli Shocktrooper sono la
classe d’assalto: libertà di movimento limitata, compensata da un
ottimo sbarramento di fuoco. Riescono anche a tirar giù carri armati
colpendoli al radiatore. I Lancer
sono una classe pensata per smantellare tutto ciò che è troppo grosso
e metallico. Torrette, mortai, carri
armati, cannoni e così via. Gli ingegneri sono l’asso nella manica della
vostra squadra. Possono riparare
trincee demolite, riparare l’Edelweiss (il vostro carro armato),
curare un’unità in difficoltà, disarmare mine antiuomo e anticarro.
Non male, soprattutto perché hanno
in dotazione molte granate con cui
combinare degli scherzetti mica da
ridere al nemico. Infine, non pote-
REVIEW
F
016
vano mancare i cecchini: basso movimento, difesa ridicola, ma ultra letali coi loro fucili con mirino
telescopico. Mirando alla testa dell’avversario, sempre che il colpo
vada a segno, questi passerà subito
a miglior vita.
Il fattore peculiare di VC è che
dopo aver schierato le truppe in
campo si hanno a disposizione vari
turni all’interno della fase in corso.
Nel momento in cui si seleziona
un’unità la visuale passa dall’alto
della cartina topografica ad una in
terza persona dietro all’unità scelta,
direttamente sul campo. Da quel
momento ne avrete il controllo diretto. A voi gestire come muovervi,
quando attaccare, dove posizionarvi
e via dicendo. Terminato il turno in
corso ritornerete alla schermata dall’alto. Potrete selezionare una
truppa diversa oppure ancora la
stessa con cui avete appena giocato, ma questa, essendo stanca,
disporrà di una capacità di movimento più limitata. Gestendo turni,
ordini e truppe con la massima efficacia, riuscirete a conquistare gli
accampamenti avversari, portare a
termine manovre di accerchiamento
su larga scala, piccole operazioni di
infiltramento, nonché risolvere situazioni disperate, come completare
una missione con pochissime unità
schierate, portare in salvo un compagno ferito entro tre turni (altrimenti muore) o mandare a segno
col cecchino un colpo da parte a
parte del campo di battaglia. Grandi
soddisfazioni.
Valkyria Chronicles lo si vive completamente, ti entra nella pelle e
non ti molla. Sei lì in mezzo al
campo di battaglia con i tuoi uomini
mentre cerchi non solo di raggiungere l’obbiettivo della missione, ma
anche di farlo il più velocemente
possibile. Meno fasi si impiegano e
maggiori saranno i punti esperienza
e i soldi elargiti dopo la vittoria. E
magari anche qualche arma presa al
nemico.
Una volta tornati al quartier generale vi saranno varie destinazioni
raggiungibili. Si può andare in
udienza con la regina e ricevere medaglie o armi per i vari traguardi
raggiunti. Nel cimitero è possibile
farsi insegnare da un veterano degli
ordini particolari in cambio di esperienza. Vi è anche la possibilità di
parlare con la giornalista Ellen, leggere le ultime notizie e comprare
capitoli extra sui membri della propria squadra per approfondirne la
conoscenza (alcuni dei quali presentano anche delle battaglie aggiuntive). Il reparto ricerca e sviluppo,
invece, è il luogo in cui spendere
Il Canvas Engine fa sembrare il gioco un dipinto
su tela in movimento. La
resa finale, nonostante le
scalettine, è più che convincente. Come se già
non bastasse, Sakimoto
Hitoshi aggiunge poi una
marcia in più con la sua
musica inconfondibile,
firmando una delle sue
migliori partiture
Mai mi sarei aspettato
che SEGA proponesse
uno dei migliori giochi
strategici dell’ultima
decade e dell’intera
softeca PlayStation 3.
Il gigante che risorge?
soldi come se piovesse. Dopo varie
battaglie o all’aumento del livello
delle vostre classi potrete acquistare
nuovi armamenti con cui equipaggiare le truppe, nuove potenziamenti e pure vari upgrade per
l’Edelweiss. È consigliato farci un
giro spesso, per vedere se per caso
non ci siano novità in vendita. Nel
campo di allenamento, invece, è
possibile assegnare alle classi l’esperienza acquisita e farle salire di
livello. Tutta la classe fa level up,
non una truppa specifica.
Le ultime opzioni disponibili nel
quartier generale riguardano la sala
di comando e gli alloggi. Nella sala
di comando è possibile aggiungere
unità nella vostra squadra che scenderà in campo fino ad un massimo
di venti. Scegliete con cura: di certo
non vorrete con voi gente che, appena mossa, faccia cadere l’unica
granata a disposizione, o a cui calino tutte le statistiche non appena
si sporca il vestito, o che si senta
sola se non è vicino ai compagni, o
qualche misogino.
Negli alloggi è possibile equipaggiare le armi alle varie classi, in particolare se pensate che in fondo vi
serve di più un fucile potente anziché uno con la mira migliore, e così
via. Nel caso soldi ed esperienza
non vi bastino, potrete rifare più
volte delle missioni peculiari dove
racimolarne quanti ne volete con la
debita pazienza. Avere classi troppo
potenti, però, potrebbe inficiare la
difficoltà del gioco, piuttosto impegnativo in molti punti, rendendolo
più semplice. È possibile salvare
anche in battaglia prima di ogni
turno, ma è meglio che vi teniate
due save separati. Davvero, non si
sa mai che cosa possa accadere e vi
capiterà più volte di ricaricare il
save in battaglia con annessi quaranta secondi di “now loading” in
bella mostra. Gli altri caricamenti
sono tutti sopportabili, merito dell’installazione su disco rigido.
Valkyria Chronicles non è lunghissimo come tempo di completamento, siamo sulle trentacinque
ore, però il counter tiene conto solo
del tempo effettivamente giocato,
non di tutto quello passato a studiare le mappe, venire decimati,
preparare una strategia, ridisporre
le truppe, ricaricare un save perché
il cecchino ha mancato di due millimetri il bersaglio o il Lancer di
turno, sparando in diagonale, è riuscito a mancare il radiatore del
carro armato a due passi da lui. Non
parliamo poi delle missioni più complesse e articolate e quelle in cui af-
fronterete i boss. Ogni missione è unica e può accadere
di tutto, di certo non vi annoierete neanche un po’ e se
lo vorrete rigiocare in un New
Game+ con tutte le classi ai livelli dove le avevate lasciate,
potreste trovare un paio di
gradite sorprese.
Da quanto visto in rete,
Valkyria Chronicles sembrava
sì potenzialmente interessante, ma non così tanto. Un
ottimo lavoro da parte di SEGA
in ogni comparto del titolo,
magari un caricamento più
breve per i save in battaglia e
missioni un pelo più permissive lo avrebbero reso ancora
più giocabile, ma anche se il
trial and error è un po’ troppo
accentuato, VC offre un’esperienza ‘mesmerizzante’ che vi
rimarrà dentro. Un gioco da
avere nella propria softeca.
9
017
360
LIPS
And we don’t care about the SingStar’s folks
console 360 sviluppatore inis produttore microsoft games studios versione pal provenienza giappone
a cura di Tommaso “Gatsu” De Benetti
accio outing: ho comprato Lips perchè volevo infastidire i miei
vicini. L’ho comprato
perchè non so cantare, ma disperatamente vorrei e non è mai
troppo tardi per vivere davvero.
L’ho comprato per le uniche ragioni per cui vale la pena scaraventare sessanta euro nel vuoto:
rendersi ridicolo di fronte agli
amici ad una festa, giocare insieme alle ragazze, far casino e
duettare con qualcuno dopo dieci
birre.
E se queste sono le vostre esigenze, Lips è un successo e vale
tutti i vostri soldi: ha una buona
scaletta generalista, offre due microfoni wireless solidi e belli da
vedere, non sbaglia quasi niente
di veramente fondamentale, offre
dei contenuti scaricabili che lentamente iniziano ad interessare.
Ma grattando la superficie, se
sotto sotto potete ammettere che
passerete la maggior parte del
tempo in sessioni solitarie presso
la vostra grotta a Moria, Lips vi
deluderà come una donna che
sotto il vestito niente.
Sono venuto al mondo dei singing games puro e innocente
come Maria Maddalena, non
avendone praticamente toccato
nemmeno uno prima di questa
release iNiS-Microsoft Games
Studios. Lips, quindi, dovrebbe
essere più che soddisfacente per
uno non particolarmente attento
ai dettagli del genere. Sono invece bastati trenta minuti a SingStar ABBA su PlayStation 3 per
far sì che mi rotolassi nudo in un
campo innevato gridando a
squarciagola: “C‘ho rabbia dentro
di me!“. Rispetto al titolo Sony,
Lips vince a mani basse in quanto
a chiarezza dell’interfaccia e coinvolgimento fisico (saprete infatti
che il gioco prevede l’attivazione
di speciali moltiplicatori in concomitanza con determinate pose
che il cantante deve assumere,
senza contare gli accelerometri
che trasformano i microfoni in
tamburelli). Dove il gioco sostanzialmente collassa su se stesso è
nella totale ed imperdonabile
REVIEW
F
018
mancanza di opzioni: i punteggi
non si possono salvare, la voce
originale non si può rimuovere
dalle tracce, non esistono classifiche, non si può registrare una
performance, le sfide online sono
elementari e governate da regole
derivanti dalla teoria del porcospino di Shinji Ikari. La sezione
MyLips, presentata con rimarchevole faccia di culo come collegamento alla ‘community musicale’,
non permette di sapere automaticamente chi nella lista amici possiede il gioco, né quale sia la sua
lista delle canzoni (fondamentale
in ottica DLC) e, offesa finale, nel
caso qualcuno vi lanci una sfida
non è prevista alcun tipo di notifica. Il che significa, in sostanza,
che senza controllare a mano la
sezione MyLips un giorno sì ed
uno no è impossibile accorgersi
delle sfide, che peraltro hanno
una durata limitata a - attenzione
alla perfidia - 7 giorni dal momento in cui vengono lanciate.
La demenza di tali scelte è imperscrutabile ed imbruttisce il
gioco molto più del dovuto, perchè Lips è fondamentalmente divertente quando ci si limita a
prendere in mano il microfono e
cantare a squarciagola in attesa
che dalla cucina arrivi un nuovo
round di punch doppia vodka. Ancora meno logico è il fatto che a
tale scempio non venga posto rimedio con una patch distribuita
tramite Live, visto che si tratterebbe di una soluzione confezionabile in una manciata di ore di
lavoro. Nella speranza che i prossimi contenuti scaricabili sfoggino
un po’ più di varietà e gusti meno
da MTV, non posso far altro che
attendere un futuro migliore consigliandovi Lips solo in casi di
estrema necessità: compleanni,
inaugurazioni di appartamenti o
funerali particolarmente graditi.
4
Lips permette di importare le proprie canzoni
nella libreria. Al di là del
fatto che i nuovi iPod non
vengano riconosciuti o
che le istruzioni sul come
fare siano abbastanza
vaghe, i pezzi vengono
presentati a schermo
senza testi e con dei
video fittizi di discutibile
fattura. Lo scopo è cercare di ricalcare il più
possibile il tono di voce
originale, ma piccoli trucchetti possono far schizzare il punteggio verso
l’alto senza particolari
problemi. Certo, poter importare gli At the Gates
non ha prezzo
pc 360 ps3
CALL OF DUTY WORLD AT WAR
It’s your duty (to shake that booty*)
piattaforma pc 360 ps3 sviluppatore treyarch produttore activision blizzard versione pal provenienza usa
a cura di Gianluca “Unnamed” Girelli
lla notizia che sarebbe
stata Treyarch a sviluppare il nuovo Call of
Duty ho provato un brivido freddo. Per carità, Call of
Duty 3 era ben lungi dall’essere
brutto, ma trasmetteva come una
sensazione di compitino svolto
senza particolare convinzione.
D’altronde Infinity Ward lasciava in
dote qualità ludiche mica da ridere
e rovinare un già ottimo prodotto
era difficile, a meno di non accanircisi volutamente. Con questo
‘nuovo’ episodio, l’approccio di
Treyarch alla serie è rimasto invariato. Per fortuna o purtroppo.
Niente più ‘guerre alla maniera
moderna’, si ritorna alla classica
Seconda Guerra Mondiale che oramai ha ammorbato un po’ tutti,
anche se lo scenario asiatico è
quantomeno originale. Basta poco
però per rendersi conto di come
World at War sia una copia nemmeno perfettamente riuscita di
Modern Warfare. La sensazione è
che WaW tenti di riproporre paro
paro la struttura delle missioni del
predecessore, ma senza quel
guizzo che caratterizzava il precedente lavoro, e soprattutto senza
una storyline decente che ne faccia da collante. Il paragone è in alcuni casi impietoso. Come
dimenticare la sezione di cecchinaggio di Modern Warfare curata
sia dal punto di vista del (game)
design, sia dal punto di vista narrativo: a pochi secondi dalla decisiva pressione del grilletto i 3
giorni virtuali di appostamento
sembravano pesare come fossero
reali. WaW, invece, rippa l’intera
sequenza, ma stavolta le sensazioni sono le medesime di una
partita a Time Crisis. E il remake
della sezione aerea… lasciamo perdere.
Chi ha giocato al precedente
episodio non avrà difficoltà ad ambientarsi rapidamente, pregi e difetti del sistema di gioco sono
fondamentalmente gli stessi.
Viene diminuito in maniera sensibile il respawn dei nemici, anche
se i più attenti ricorderanno che
Infinity Ward aveva messo una
parziale pezza al problema già in
CoD4: le ondate tendono a diminuire di intensità fino a quietarsi
A
quasi completamente a zona ripulita, in questo modo la sfida è tenuta alta senza dare l’impressione
al giocatore di dover marciare
verso il checkpoint successivo per
veder esaurite le ondate di soldati.
I commilitoni offrono un aiuto inferiore e questa volta, fortunatamente, non potrete contare su di
loro per tirarvi fuori dai guai. Vengono infine limitate numericamente le occasioni di disimpegno
nell’attacco ravvicinato: se in precedenza liberarsi dai fastidiosissimi cani era un terno a lotto,
questa volta di quadrupedi se ne
vedono pochi e gli stessi musi
gialli difficilmente arriveranno
tanto vicini da infilzarvi con le loro
baionette. WaW propone un numero minore di missioni, livelli più
corti e una difficoltà generale diminuita. Se CoD4 ai massimi livelli
si rivelava un’avversario decisamente ostico, lo stesso giocatore
non troverà troppe difficoltà a finire WaW in 2-3 giorni. Purtroppo,
nemmeno l’introduzione dei similachievement sarà sufficiente a tenervi ancorati al single play per un
periodo ulteriore.
A quanto pare, l’impegno più
concreto sembra essere stato riposto sul versante online. WaW ripropone il già ottimo sistema di
gioco del precedente episodio e
per la prima volta introduce il
coop-online che ultimamente va
molto di moda. Qualche aggiunta
alle solite modalità multiplayer e,
per finire, un’insolita modalità Nazi
Zombie a metà strada tra l’Orda di
Gears of War e Left4Dead, che nonostante le finalità di diversivo rispetto all’avventura principale è in
grado di regalare abbondanti dosi
di divertimento.
In fin dei conti non ci si aspettava che Treyarch rivoluzionasse il
franchise, ma il lavoro svolto con
World At War, seppur con alcune
novità, non può dirsi affatto sufficiente. WaW è un buon gioco se
preso singolarmente, solo discreto
se considerato nell’economia della
serie. I possessori di Modern Warfare passino pure oltre, gli altri risparmino pure dindini per il
precedente episodio o per giochi
più meritevoli.
6
* Avete scoperto
qual’è la citazione del titolo
della recensione
(senza usare
Google, eh)? Inviate la risposta
alla redazione,
potreste essere il
fortunato vincitore di un’abbonamento
gratuito per
un’anno alla rivista Babel
019
pc ps3 360
NEED FOR SPEED UNDERCOVER
Bisogno di fermarsi
formato pc ps3 360 sviluppatore ea vancouver produttore ea versione pal provenienza canada
a cura di Gianluca “Unnamed” Girelli
er Need For Speed è arrivato il momento di
congedarsi dai fan. Sarebbe stato più dignitoso se il commiato fosse stato
frutto di una precisa volontà, ma a
giudicare dai non proprio esaltanti
risultati di ProStreet, congiuntamente alla prevista valanga di licenziamenti in sede EA, parrebbe
proprio un blocco forzato. Con Undercover il franchise sembra aver
toccato il fondo e, continuando di
questo passo, probabilmente
avrebbe iniziato a scavare. Riproporre per l’ennesima volta la carta
del free-roaming senza modifiche
sostanziali non è stata una scelta
saggia, anche perchè con Burnout
Paradise in giro c’è solo da prendere schiaffi.
Saltata l’intro, si inizia a girovagare in una città tristemente semideserta con pochissime auto e
nessun pedone. Una breve corsa
che si supera con fin troppa facilità
e la prossima gara è subito
pronta. In effetti, perchè andarsene a spasso tra ambientazioni
decisamente anonime quando si
può benissimo skippare alla gara
successiva con la semplice pressione di un tasto? Di attivare missioni direttamente ‘sul campo’ non
se ne parla, il GPS dimentica di
contrassegnare gli obbiettivi e selezionare manualmente la missione dalla mappa principale è
spesso solo un’inutile perdita di
tempo, data la lunghezza dei caricamenti.
Le missioni paiono tutte uguali:
la solita gara fra truzzi, la cui faciltà rasenta il ridicolo; la corsa nel
traffico, dove il ‘traffico’ torna a
farsi vedere e rendersi utile, ma
probabilmente erano tutti lì ad
aspettare solo voi; l’inseguimento
con la polizia, in cui l’ottima gestione delle vetture viene in parte
vanificata dalla notevole disparità
di prestazioni tra il vostro bolide e
le loro pattuglie. A queste si aggiungono missioni principali un po’
più difficili della norma, dove il
premio generalmente è un’auto
nuova o denaro frusciante. In alternativa, almeno su Xbox 360,
potrete spendere veri e propri Microsoft Points per acquistare auto
o pacchetti upgrade, ma franca-
REVIEW
P
020
mente è solo un’inutile spreco di
denaro. Alcune vetture, tuttavia,
non saranno acquistabili nemmeno
con un conto in banca tale da
comprarvi l’intero parco auto, ma
potrete sbloccarle in seguito facendo salire il vostro livello d’abilità. Statistiche, Nos e Bullet Time
servono però a poco: riuscireste a
battere la maggior parte degli avversari con una mano legata dietro
la schiena. Anche con tutta la
buona volontà, la spinta a continuare è davvero poca, il tempo
passa e spererete fino all’ultimo
che la situazione possa migliorare,
ma di decollare Undercover proprio non ne vuole sapere.
La rincorsa all’esagerazione visiva iniziata con Underground ha
ormai il fiato corto: non se ne può
più di effetti sparati sulla retina spesso a casaccio - e strade che
paiono lastricate di marmo. Se almeno l’engine facesse bene il suo
lavoro, ma mostrare incertezze
nella gestione di una metropoli
meno densa di quella di Driver su
PSX è davvero deprimente. L’online tenta di salvare la baracca
proponendo una sorta di caccia al
ladro tra drivers e pattuglie che
tenteranno di fermarvi prima che
raggiungiate l’obbiettivo; le gare
versus, invece, non offrono una
grandissima attrattiva dato un modello di guida molto permissivo in
cui i danni non inficiano minimamente sulla velocità della vettura.
A salvarsi dalla mediocrità generale è la colonna sonora, non che i
brani facciano gridare al miracolo,
ma il sound spanglish è perlomeno
originale.
Need For Speed ha bisogno di
un momento di riflessione o per lo
meno di idee nuove. Undercover è
la fiera del mediocre, tante idee riciclate e nessun tentativo di bilanciare gli elementi in modo che
formino qualcosa di interessante.
È un vero peccato veder finire così
una serie che tra alti e bassi aveva
saputo conquistare il cuore di moltissimi giocatori. Perché dopo una
corsa sfrenata che ha visto l’uscita
di almeno un episodio all’anno, ora
la serie ha davvero bisogno di fermarsi.
5
(Sopra) Durante
le vostre scorribande avrete la
possibilità di
guadagnare
soldi danneggiando auto e
infrastrutture,
inoltre potrete
sfruttare alcune
zone ‘pericolanti’ per sbarazzarvi una
volta per tutte
degli inseguitori
e allo stesso
tempo incrementare il vostro punteggio
distruzione
playstation2
ECHO NIGHT BEYOND
The Wild Blue Yonder
console ps2 sviluppatore from software produttore digital jesters versione pal provenienza giappone anno 2004
ello spazio nessuno può
sentirti urlare. Né tu
puoi sentire gli altri, con
buona pace – in teoria –
del primo motore emozionale dei survival horror, ovvero
l’impianto audio. Rumori ambientali, accompagnamenti techno-industrial, grida disumane
provenienti dal buio: lo spazio si fa
beffe di tutto ciò. Lo spazio vi isola
completamente nella vostra tuta
da astronauta, disarmati ed in
balia dell’ignoto. È qui che Echo
Night Beyond porta a casa il primo,
probabilmente il più importante,
dei suoi numerosi riconoscimenti.
Pur non essendo privo di rumori e
musiche ambientali (del resto
siamo all’interno di una stazione
lunare pressurizzata), Beyond
punta tutto sulle viscere e il cuore:
il battito cardiaco e il respiro del
protagonista – parallelamente a
quelli del giocatore – dominano l’orizzonte uditivo e scandiscono le
fasi e i saliscendi emotivi dell’intera
esperienza. All’apparire del pericolo
il battito accelera, i tonfi del cuore
si fanno più forti e distinti, il respiro affannoso riempie le orecchie
tanto che sembra di sentirle pulsare davvero. Anche la vista, dal
canto suo, si annebbia e si oscura,
lasciandoci alla mercé del buio più
totale. Non si tratta però di una
semplice trovata scenica. Dove la
paura si fa insostenibile, il cuore
non regge. Il battito supera i livelli
di guardia e in un attimo, magari
mentre si armeggia con una siringa
sedativa per tentare il tutto per
tutto, semplicemente si muore. E
questo è l’unico modo che Echo
Night Beyond ha per ucciderti.
Il secondo riconoscimento di
Beyond sta nella sua totale coerenza interna. Strutturato come un
survival horror classico (ciò implica, tra le altre cose, una buona
dose di back tracking), il titolo
From Software si serve di una nutrita serie di enigmi ambientali per
condurre il giocatore lungo l’avventura. Ognuno di questi è perfettamente coerente con
l’ambientazione e la trama narrata.
Ma c’è di più. In Echo Night
Beyond non esistono armi, di nessun tipo. E non esistono perché i
nemici che si incontrano sono fantasmi, dal primo all’ultimo, e da
N
che mondo è mondo i fantasmi non
possono certo essere uccisi. Altro
che camere obscure. L’unica maniera di sfuggire agli spettri è scappare (non vi seguiranno oltre le
porte chiuse, per un motivo preciso), oppure farseli amici, liberandoli dalla pazzia: è sufficiente
scovare i terminali che controllano
il sistema di ventilazione e succhiare via la densa e misteriosa
nebbia che li rende aggressivi.
Sta qui, in questi pochissimi elementi, il fulcro agonistico di Echo
Night Beyond. E, credetemi, la sua
semplicità è pari soltanto alla sua
efficacia. Così configurato, il gioco
veicola un’esperienza di una solidità e atipicità raramente riscontrate in altri survival horror,
sebbene gli stilemi del genere non
vengano comunque stravolti.
Esplorazione, fascino per l’ignoto, il
gusto ancestrale e inspiegabile per
la paura, sono i pilastri dell’intera
esperienza. Le vicende narrate, nonostante non brillino per originalità, sanno coinvolgere ed
emozionare: ciò in buona parte
perché da ognuno degli spiriti presenti nella stazione, una volta fatti
rinsavire, è possibile ottenere
informazioni ed oggetti assortiti,
talvolta fondamentali per proseguire nell’avventura. Soddisfare le
richieste degli spiriti li renderà liberi, finalmente in grado di ‘tornare a casa’, anche se solo in
forma di spettri. Liberarli tutti, infine, darà l’accesso al finale vero e
proprio del gioco…
Finale grazie al quale Echo Night
Beyond mette in saccoccia l’ultimo
dei suoi premi, sbaragliando la
concorrenza e spiazzando – ma
anche commuovendo – il giocatore
ormai assuefatto al buio e al silenzio. Un colpo di scena degno de Il
Sesto Senso che porta l’ultimo tassello ad un mosaico che già pensavamo completo, donando un
significato logico ed emotivo completamente nuovo all’intera esperienza. E poi, infine, la poesia. In
una delle ending scene più belle a
memoria di videogiocatore, vicina
per estro e sensibilità alla poetica
cinematografica di Tim Burton.
Uno dei migliori survival horror
della scorsa generazione, una delle
opere videoludiche emotivamente
più coinvolgenti di sempre.
UNDERRA TED
a cura di Federico Res
(In alto) Il sistema di monitoraggio della stazione permette
di studiare gli ambienti (ed
eventualmente i loro “abitanti”)
prima di esplorarli fisicamente.
Il gran numero di telecamere e
la possibilità di impiegarle per
panoramiche e zumate ne fanno
un elemento di gioco di prima
importanza. Nelle fasi finali, il
sistema di telecamere sarà impiegato in maniera geniale per
la risoluzione di un enigma ambientale
021
#3
a cura di michele “guren no kishi” zanetti
V
isto che Babel lo
stampate in ufficio e a
star dietro a tutti i titoli
da me giocati, in termini di numero di pagine, farebbe girare
troppe teste, è nato Time Waits
for Nobody. Una serie di uscite
colme di ogni ben di dio Made in
Japan, in un’orgia cromatica pensata per rovinarvi la vista prima
ancora di iniziare a giocare!
AWAY: SHUFFLE DUNGEON
A
way: Shuffle Dungeon (DS,
NTSC/UC, Mistwalker/Artoon, Majesco Games) è un
prodotto abbastanza riuscito che
merita attenzione. Con una grafica
deliziosa e musichette carine mette
in scena un’avventura non proprio
lunga (una ventina di ore), ma
molto giocabile e con una storia
piuttosto imprevedibile, almeno
fino ai primi colpi di scena. Nei
panni di Sword, dovrete recuperare
gli abitanti del vostro villaggio che
sono stati rapiti da un fenomeno
luminoso chiamato Away. I villici si
trovano alla fine di particolari dungeon che si sbloccano in vari modi.
Solitamente pigiando il tasto
giusto nel posto giusto, compiendo
certe azioni e così via. I dungeon si
sviluppano su entrambi gli schermi
del DS e si può passare da una
schermata all’altra, ammesso di
avere un passaggio libero a dis-
posizione. Uno dei due schermi ha
costantemente un bordo lampeggiante, trema e presenta un
counter. Raggiunto lo zero, la
schermata interessata verrà
mescolata e sostituita con un’altra.
I dungeon sono quindi fatti da due
gruppi di schermate orizzontali che
si mescolano e alternano in continuazione mettendo al giocatore il
pepe al culo per muoversi a passare da uno schermo all’altro
prima di venire coinvolto nello
shuffle. Pena la perdita di uno
sputo di energia, l'obbligo di ricominciare il livello daccapo, la
perdita del proprio pod porta
Fupong (esserini di vari tipi e dai
numerosi poteri magici) e lo
stordimento di tutti i Fupong attivi.
Peggio ancora, se state scortando
un villico all’uscita, nel caso venga
preso in uno shuffle questi verrà ricacciato dove lo avete trovato. In-
somma, evitare di subire lo
shuffle sulla vostra pelle è la
parola d’ordine. Come anche saper
posizionare i vari negozi, stando
bene attenti alle informazioni relative al Feng Shui sull’apposita
mappa. Pena trovarsi con negozi
molto lenti a svilupparsi, con un inventario povero o oggetti molto più
costosi del normale. I Fupong, poi,
possono essere potenziati e allevati, ma spesso rimangono incastrati in varie trappole e possono
andare persi se ve li dimenticate
nei dungeon. Frustrante. ASD è
tutto qui, una semplice avventura
senza grosse pretese, giocabile e
divertente con alcune buone idee,
ma un tasso di sfida piuttosto
blando e un riciclo eccessivo di ambientazioni e mostri nei dungeon.
Si merita comunque una chance.
MASTER OF THE MONSTER LAIR
022
3
P
YGGDRA UNION
assando in casa Sony, i possessori di
PlayStation Portable possono godersi - si
fa per dire - Yggdra Union (PSP, NTSC/UC,
Sting, Atlus Co.), se mai se lo fossero lasciato
sfuggire ai tempi della versione GameBoy Advance. Sting è responsabile di prodotti con
enormi alti e bassi, giochi per niente addomesticabili capaci anche di rompere vivacemente
le scatole alle nicchie più nicchie di hardcore
gamers. Sempre che esistano. E anche questa
volta, varie e originali scelte di game design
diventano una scocciatura più che un fattore di
divertimento. Gli oggetti, ad esempio, una
volta equipaggiati non possono essere più tolti
fino allo scadere del numero di battaglie che vi
è concesso portarli. Vi piaceva quell’armatura
così resistente? Bam, svanita dopo x battaglie.
Facevate i galletti ammazzando nemici a destra e a manca con quella spada, eh? Crack,
sparita dopo y battaglie. Nel passaggio a PSP,
YU ha goduto di maggior spazio per visualizzare l’azione di gioco, ma Sting s’è ben guardata dal fare un bel update al comparto grafico
che risulta estremamente datato, tranne nella
rappresentazione effettiva delle schermaglie.
Gli scontri avvengono tra piccole squadre, solo
dopo aver scelto quale carta particolare usare
per attacco e difesa. Tenendo conto anche dei
R
rapporti che governano i vari tipi di armi
(come nella morra cinese), il vostro scopo sarà
quello di annientare in un solo assalto (o indebolire il più possibile) l’armata nemica che vi
si para dinanzi, azzerandone il morale. YU era
un titolo super intransigente su GBA, ma nel
passaggio a PSP è stato reso più semplice,
anche se la sfida è ancora abbastanza elevata
così come la frustrazione nel ripetere numerose volte le stesse battaglie per i motivi
più stupidi. Molto gradita la possibilità di velocizzare i dialoghi e le battaglie. E se il nuovo
doppiaggio non vi piacesse, potete sempre
optare per l’audio nipponico.
NEVERLAND CARD BATTLES
estando sulla 16/9 portatile e continuando in tema di carte e strategici, Neverland Card Battles (PSP, NTSC/UC, Idea
Factory, Yuke’s Company of America) è un
titolo decisamente più accessibile rispetto alle
avventure della principessa Yggdra. Un dio cattivo sul fondo di un tempio sta per sfondare il
sigillo che lo imprigiona. Il guardiano decide
allora di convocare i possessori di particolari
Spectral Cards che contengono frammenti di
quello stesso sigillo, così da poter porre rimedio alla situazione. Nei panni di Galahad, ben
distante dal ‘paladino’ che vi potreste immaginare, dovrete viaggiare di piano in piano, sempre più nelle viscere della terra, fino a
raggiungere il sigillo di cui sopra. Ogni piano
ha la sua ambientazione particolare, quindi non
aspettatevi caverne su caverne. Il problema
maggiore è però rappresentato dagli altri Dominator, i possessori degli altri mazzi di Spectral
Cards, che per un motivo o per un altro vi ostacoleranno. Gli scontri avvengono in modo
strategico sulle classiche ambientazioni divise
parzialmente a quadretti, con la particolarità
che ogni casella su cui vi muovete viene con-
siderata vostro territorio. Più territorio avrete
e più carte potrete evocare in battaglia. Le
carte rappresentano le truppe, da cavalieri di
ogni tipo a muri di difesa, mostri e fenomeni
naturali. Anche le truppe, durante i loro movimenti, possono conquistare territori da aggiungere al pool totale, ottima idea visto che quasi
tutte costano determinati valori per mantenerle in campo. Una volta entrati a portata del
nemico, lo scontro avverrà in un’altra schermata dove ne si potrà osservare l’esito o
potenziare il proprio pupazzetto. Sconfitto il
Dominator avversario, guadagnerete da cinque
a dieci carte da aggiungere al vostro mazzo,
per un massimo di trenta carte attive alla volta.
La costruzione del mazzo ideale si rivela una
priorità assoluta, visto che la CPU non ha alcuna pietà. L’intelligenza artificiale, infatti,
pone una sfida più che adeguata e vi farà sudare le proverbiali sette camicie. Problemi del
gioco? Grafica abbastanza ridicola, doppiaggio
poco all’altezza, musiche ultra ripetitive,
azione soporifera, storia non proprio convincente e così via. Però la sfida impegnativa c’è,
la strategia pure, e in dose sovrabbondante.
023
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Altro no ingagg capito be o e can5 – G o l’episod anno un nteggio d
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veng nti. Avete brano in cidere un n In tut i turno h gere il pu erfetta.
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