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martedì 10 giugno 2014
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Da Redattore Sociale del 09/06/14
Lampedusa, arriva la guida per un turismo
umano e responsabile
Pubblicata da Altreconomia, raccoglie storie di migranti ma anche
consigli sulle meraviglie da scoprire. L’autrice Ivanna Rossi: “L’isola
deve tornare a essere considerata un paradiso”
BOLOGNA – “A Lampedusa non s’incontrano migranti neanche a volerlo. O forse sì, un
paio. Uno che lavora da Ciccio’s, e fa un’ottima pizza e un altro, Adam, che gioca nel
Lampedusa”. È questo che si legge in ‘Lampedusa, guida per un turismo umano e
responsabile’, di Ivanna Rossi e pubblicata da Altreconomia. Una guida turistica, la prima,
tutta dedicata all’isola siciliana, per metà formata da aneddoti e meraviglie segrete da
scoprire, e per il resto dedicata ai racconti, sia sugli abitanti, sia sugli immigrati. Ci sono le
storie di chi lì ci vive e di chi ci è arrivato dopo essere fuggito dal proprio Paese e aver
affrontato un viaggio difficile e pericoloso. E tra le righe, si scopre qualcosa in più sul
Centro di soccorso e di prima accoglienza, che assolutamente “non è un’attrazione
turistica”, si legge nella guida. “La gente si figura una presenza invasiva di migranti, e un
baraccamento che deturpa il paesaggio. Non è così. L’ex caserma usata per il centro è
seminascosta nel fertile vallone delle Imbriacole, a est del paese”.
Tra i racconti raccolti da Ivanna Rossi ci sono quelli dei 20 ragazzi di Radio Delta,
un’emittente attiva dal 2001 e gestita dalla onlus Alternativa giovani. In onda meteo,
trasmissioni per le famiglie, oroscopo, musica e notizie. Mannino, uno dei redattori,
racconta di quando i turisti telefonavano per chiedere se era opportuno vaccinarsi o se la
sera si poteva fare una passeggiata in sicurezza. Ma, ci tiene a precisare che “non si tratta
di ‘sbarchi’ ma di ‘salvataggi in mare’. La gente si confonde, pensa a un’invasione”.
Giida per un turismo umano e responsabile
E ancora c’è la storia di Fabrizio Gatti, il giornalista che si è finto curdo e spacciandosi per
Bilal Hibraim el Habib ha fatto il viaggio dall’Africa a Lampedusa e ne ha realizzato un
reportage giornalistico di 500 pagine (pubblicato da Rizzoli) che gli ha fatto vincere il
Premio Terzani nel 2008. E poi Khaled Chaouki, il deputato di origine marocchina che si è
fatto chiudere nel Cie di Lampedusa. C’è, ancora, la storia di don Stefano Nassi, per 6
anni parroco dell’isola, e c’è la descrizione del cimitero fatto di “lapidi con una data e lo
stemma del Comune. Date di naufragi, senza un nome, senza alcuna concessione di
poesia”. E, tra le altre cose, si racconta della candidatura dell’isola al Nobel per la pace, un
premio che “costituirebbe anche il segno che qualcuno pensa ai migranti come qualcosa di
più che un numero nelle statistiche dei morti”.
La guida però non si concentra solo su questo aspetto ma parla di mare cristallino, della
spiaggia dei Conigli, di tartarughe e coralli ma anche di monumenti, delle colazioni
siciliane “da sballo calorico” fatte di brioche e granite, di piatti tipici – uno su tutti il cous
cous – musica e tradizioni popolari, come pupi e pupari. E rilancia il turismo sull’isola con
percorsi nuovi alla scoperta di luoghi “squadernati ma invisibili”, dice l’autrice. Un
esempio? I timpuna, misteriosi – ma non troppo, dato che c’è chi li ha studiati – cerchi di
pietra a vista che passano inosservati a un occhio inesperto che si lascia confondere dal
naturale aspetto roccioso della costa isolana. E poi una carrellata sulle spiagge nascoste,
storie di pescatori, aneddoti, consigli su ristoranti e alberghi e descrizioni di flora e fauna
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del luogo. “Tutti conoscono Lampedusa non per la bellezza del posto ma per le cronache
fatte di brutte notizie – conclude Rossi – L’isola, invece, deve tornare a essere considerata
un paradiso”. La guida (188 pagine per 14,50 euro) è stata realizzata in collaborazione con
l’Associazione italiana turismo responsabile, Arci e Legambiente, con il patrocinio del
Comune di Lampedusa e Linosa. Il libro, che vanta l’introduzione del sindaco dell’isola
Giusi Nicolini, è stato presentato all’interno del festival di turismo responsabile Itacà a
Bologna. (irene leonardi)
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ESTERI
del 10/06/14, pag. 1/16
Ue, la carta segreta si chiama Lamy
CLAUDIO TITO
IL VOTO del 25 maggio non è stato uno tsunami solo per l’Italia. Ha investito l’intero
continente. Sconvolgendo equilibri consolidati da anni e patti stretti negli ultimi mesi. Ha
sospinto l’Unione verso il mare dell’incertezza: l’intero quadro dei futuri vertici istituzionali
dell’Ue sono infatti ancora da concordare. A cominciare dal nuovo presidente della
Commissione.
EPPURE c’è un nome, rimasto fino ad ora segretissimo, su cui i leader europei hanno
iniziato a confrontarsi per la successione del portoghese Barroso. E che per molti potrebbe
rappresentare la vera soluzione per uscire da un’impasse sempre più evidente. Si tratta
del francese Pascal Lamy, ex direttore del Wto (l’Organizzazione mondiale per il
commercio) ed ex capo di gabinetto di Delors quando l’economista francese approdò nel
1985 proprio alla presidenza della Commissione europea. La sua candidatura è ormai al
centro di tutte le trattative. Anzi, questa ipotesi è stata già esaminata in modo del tutto
ufficiosa nel corso dell’ultimo G7 che si è tenuto la scorsa settimana a Bruxelles.
Per molti, anche per il premier italiano Matteo Renzi, potrebbe rivelarsi la carta migliore per convincere la Gran Bretagna di Cameron ad accettare più miti consigli e per
conservare alcune delle direttrici lungo le quali l’Unione si è mossa negli ultimi venti anni:
l’asse francotedesco e il rapporto politico tra il Ppe e il Pse. Lamy, infatti, da sempre
socialista, ha già ricoperto il ruolo di Commissario indicato dall’allora premier d’Oltralpe
Lionel Jospin. Ma la sua “fermezza” - a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 era soprannominato la
“Bestia di Berlaymont” - potrebbe far cadere i veti britannici e di alcuni paesi del nord.
Che la sua sia ormai la candidatura di cui tutti i capi di Stato di governo stano parlando, lo
dimostra il fatto che persino nei colloqui informali svoltisi a margine della cerimonia per i
settanta anni dello sbarco in Normandia (per l’Italia era presente il presidente della
Repubblica Napolitano che da sempre non nasconde i suoi apprezzamenti nei confronti di
Lamy), si è accennato alla “corsa” dell’esponente francese. Del resto il tempo stringe e
all’appuntamento del 27 giugno, quando il Consiglio europeo dovrà indicare formalmente il
nome da sottoporre al giudizio del Parlamento di Strasburgo, mancano poco più di due
settimane.
Al momento, intanto, una certezza sembra farsi largo tra le Cancellerie del Vecchio
Continente. La coppia Juncker-Schulz appare destinata a cadere. L’accordo siglato prima
delle elezioni tra i Popolari e i socialisti prevedeva infatti l’approdo dell’ex primo ministro
lussemburghese al vertice della Commissione in caso di vittoria del Ppe o del presidente
tedesco dell’europarlamento se ad avere la meglio fosse stato il Pse. Ma l’assenza di una
maggioranza autosufficiente e l’ondata anti-euro che ha travolto molti paesi ha prodotto un
vero e proprio stallo. E nonostante l’apparente insistenza della cancelliera Merkel a favore
di Juncker, il tandem originario è ormai tramontato. Berlino, infatti, sembra in primo luogo
interessata a far saltare la testa di Schulz più che a difendere quella di Juncker. E
all’Eliseo sono soprattutto preoccupati di non ritrovarsi un presidente di commissione che
metta in ulteriore difficoltà Hollande o che gli faccia ombra, dopo la batosta del 25 maggio.
Non a caso qualche dubbio sul nome di Lamy sarebbe stato sollevato proprio dai socialisti
di Parigi che vedono in lui un rappresentante di una “corrente” avversa a quella del
presidente francese. E, anzi, fanno circolare anche il nome di Pierre Moscovici. «I giochi
che leader stanno compiendo intorno alle poltrone di Bruxelles - faceva notare giorni fa
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Renzi ai suoi fedelissimi - farebbero impallidire anche i nostri vecchi democristiani». Il
presidente del consiglio tenta in questa fase di indossare i panni del mediatore. Vuole far
pesare il successo elettorale, chiede un dicastero più impegnativo rispetto a quello
attribuito cinque ani fa al berlusconiano Tajani e prepara una sorta di “Documento” da
sottoporre nei prossimi giorni ai partner. Un testo in cui si fissa il mandato della nuova
commissione e si individuano gli obiettivi da raggiungere. «Se su questa base si sigla un
accordo - è la sua proposta - poi si ragiona sui nomi migliori per realizzare quel
programma». Anche questa via d’uscita parte da una premessa: archiviare la “vecchia
intesa” per darne vita ad una nuova che tenga conto degli sconvolgimenti verificatisi con le
ultime elezioni.
Pure i socialisti, del resto, faticano a chiudere formalmente la “corsa” di Schulz. Tanto che
qualcuno nel quartier generale di Bruxelles inizia a far trapelare una punta di fastidio: «Il
Pse è il partito socialista europeo e non il partito socialista di Schulz». Sta di fatto che
l’ipotesi di lanciare l’ex direttore del Wto al vertice della Commissione sarà discusso anche
oggi nel controverso summit dei “paesi del nord” convocato dal premier svedese Reinfeldt
e al quale partecipano, appunto, la Merkel, Cameron e l’olandese Rutte. Se la candidatura
del francese, infatti, dovesse prendere corpo definitivamente l’”asse del nord” potrebbe
reclamare la presidente del consiglio europeo a favore del finlandese Katainen o proprio
dello svedese Reinfeldt. Ma la strada è ancora in salita e il mosaico da comporre si
presenta tuttora molto confuso. Non a caso anche il presidente del consiglio italiano
preferisce giocare a carte coperte sul nome del nostro rappresentante. Anche se le
“vecchie candidature” si presentano ormai sempre più appassite agli occhi di Palazzo
Chigi.
Del 10/06/2014, pag. 9
Kiev, Mosca e Osce, dialogo per una
«roadmap»
Ucraina. Ieri tre incontri, mentre proseguono i raid e i bombardamenti
nelle regioni oriental
Simone Pieranni
DOmenica Poroshenko ha promesso che entro una settimana porterà il paese alla pace.
Rimane da chiedersi con quale modalità. Nella prima mattinata di ieri è parso che l’intento
del neo presidente non fosse così distante da quello dei suoi predecessori. L’esercito
ucraino ha continuato a bombardare Sloviansk, il numero delle vittime non è stato ufficializzato dai filorussi, mentre Mariupol, già teatro di scontri nelle settimane precedenti,
è stata attaccato ed è stata al centro di violenti combattimenti. Portare la pace, annientando il nemico potrebbe essere una mossa rischiosa da parte del nuovo presidente che
del resto si è insediato con toni nazionalisti, che riguardano anche la Crimea ormai
annessa alla Federazione russa.
Inoltre, benché la propaganda di Kiev prosegua ad ignorare i morti, sottolineando gli attacchi, le notizie che giungono dalle regioni orientali non danno l’esercito di Majdan granché
in forma, soggiogato da defezioni e dalla strenua resistenza dei filorussi.
Non è un caso dunque se ieri, a seguito di almeno tre incontri, Kiev ha ufficializzato una
sorta di accordo trilaterale, benché in nuce, tra Ucraina, Russia e Osce per un dialogo di
pace. è evidente che l’unica soluzione, alternativa ad un massacro quotidiano, può essere
solo una via diplomatica. L’Osce per altro, che ha redarguito Kiev circa i bombardamenti
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dei giorni scorsi e che non ha apprezzato la scelta dell’oligarca presidente di mantenere la
proprietà del canale televisivo Channel 5, ha fatto inoltre sapere di non aver «ristabilito la
comunicazione con i quattro osservatori del team di Donetsk e con i quattro osservatori del
team di Lugansk di cui ha perso i contatti rispettivamente il 26 e il 29 maggio».
Intanto le autorità di Kiev domenica sera hanno liberato due giornalisti russi fermati nella
regione di Donetsk il 6 giugno con l’accusa di spionaggio. I due reporter, che lavorano per
il canale televisivo del ministero della Difesa russo Zvezda, si trovano ora a Mosca. Si
tratta di Andrei Sushenkov e Anton Malishev, consegnati al posto di frontiera di Nekhoteevksaal, al confine con la regione russa di Belgorod. I reporter, che sono rientrati a Mosca
a bordo di un aereo del ministero della Difesa russo, hanno denunciato maltrattamenti
dicendo di essere stati tenuti per due giorni «praticamente senza acqua potabile in una
stanza angusta dove la temperatura arrivava a 50 gradi».
Sushenkov e Malishev erano stati fermati dalla Guardia nazionale ucraina alle porte di Sloviansk e accusati di raccogliere informazioni su un posto di blocco. E mentre si cerca
un’alternativa ai raid aerei e ai bombardamenti, per piegare definitivamente la resistenza
dei «terroristi», come vengono chiamati da Kiev, filorussi, si cerca un accordo sul gas, che
potrebbe essere un viatico reale verso la distensione. La soluzione viene cercata attraverso i consueti «trilaterali» con il commissario Ue all’Energia, Günther Oettinger, e i ministri russo, Aleksandr Novak, e ucraino, Yuriy Prodan. Sembra possibile un accordo, anche
a seguito delle parole di Putin, che venerdì scorso in Normandia per le celebrazioni del DDay aveva detto che Gazprom e i partner ucraini erano vicini alla firma di un accordo
finale. E un’intesa definitiva potrebbe essere vicina, tanto che prima dell’incontro politico
a tre si vedranno anche l’amministratore delegato del colosso russo Gazprom, Alexey Miller, e il numero uno della compagnia ucraina Naftogaz, Andriy Kobolev. Le questioni
aperte sono le solite: il prezzo del gas e i debiti accumulati da Kiev verso Mosca, con la Ue
che tenta di mediare fra i due contendenti, anche per evitare interruzioni delle forniture
a proprie spese.
Del 10/06/2014, pag. 9
Chi ha sabotato il gasdotto South Stream
Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci
Il governo bulgaro ha annunciato domenica scorsa di aver interrotto i lavori di costruzione
del South Stream, il gasdotto che dovrebbe trasportare gas russo nell’Unione europea
senza passare per l’Ucraina. «Ho ordinato di fermare i lavori — fa sapere il premier Plamen Oresharski di un governo in crisi se non dimissionario -, decideremo gli sviluppi della
situazione dopo le consultazioni che avremo con Bruxelles». La decisione è stata presa —
manco a farlo apposta — il giorno prima dell’incontro tripartito Russia-Ucraina-Ue sulle forniture di gas a Kiev. Nei giorni scorsi il presidente della Commissione europea, Josè
Manuel Barroso, aveva annunciato l’apertura di una procedura Ue contro la Bulgaria per
presunte irregolarità negli appalti del South Stream. Appena tre giorni prima, il 5 giugno, la
direzione del Partito socialista bulgaro, che sostiene il governo Oresharski, dava per sicuro
che il tratto bulgaro del gasdotto sarebbe stato costruito nonostante la richiesta di Bruxelles di fermare il progetto. «Per noi è d’importanza vitale», sottolineava il vicepresidente
della commissione parlamentare per l’energia, Kuiumgiev. E il presidente della Camera dei
costruttori, Glossov, dichiarava che «il South Stream è una boccata d’ossigeno per le
imprese bulgare». Che cosa è avvenuto? Il progetto nasce quando, nel novembre 2006
(durante il governo italiano Prodi II), la russa Gazprom e l’italiana Eni firmano un accordo
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di partenariato strategico. Nel giugno 2007 il ministro per lo sviluppo economico, Pierluigi
Bersani, firma con il ministro russo dell’industria e dell’energia il memorandum d’intesa per
la realizzazione del South Stream. Secondo il progetto, il gasdotto sarà composto da un
tratto sottomarino di 930 km attraverso il Mar Nero (in acque territoriali russe, bulgare
e turche) e da uno su terra attraverso Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia e Italia fino
a Tarvisio (Udine). Nel 2008–2011 vengono conclusi tutti gli accordi intergovernativi con
i paesi attraversati dal South Stream. Nel 2012 entrano a far parte della società per azioni
che finanzia la realizzazione del tratto sottomarino anche la tedesca Wintershall e la francese Edf con il 15% ciascuna, mentre l’Eni (che ha ceduto il 30%) detiene il 20% e la Gazprom il 50%. La costruzione del gasdotto inizia nel dicembre 2012, con l’obiettivo di
avviare la fornitura di gas entro il 2015. Nel marzo 2014 la Saipem (Eni) si aggiudica un
contratto da 2 miliardi di euro per la costruzione della prima linea del gasdotto sottomarino.
Nel frattempo, però, scoppia la crisi ucraina e gli Stati uniti — con un lavoro all’unisono tra
Casa bianca e diplomazia congressuale dei Repubblicani — premono sugli alleati europei
perché riducano le importazioni di gas e petrolio russo, che costituiscono circa un terzo
delle importazioni energetiche dell’Unione europea.
Primo obiettivo statunitense (scrivevamo sul manifesto il 26 marzo) è impedire la realizzazione del South Stream. A tale scopo Washington esercita una crescente pressione sul
governo bulgaro. Prima lo critica per aver affidato la costruzione del tratto bulgaro del
gasdotto a un consorzio di cui fa parte la società russa Stroytransgaz, soggetta a sanzioni
statunitensi. Con tono di ricatto, l’ambasciatrice degli Stati uniti a Sofia, Marcie Ries,
dichiara: «Avvertiamo gli uomini d’affari bulgari di evitare di lavorare con società soggette
a sanzioni da parte degli Usa». Il momento decisivo è quando, domenica scorsa a Sofia, il
senatore Usa John McCain, accompagnato da Chris Murphy e Ron Johnson, incontra il
premier bulgaro trasmettendogli gli ordini di Washington. Subito dopo Plamen Oresharski
annuncia il blocco dei lavori del South Stream. Una vicenda emblematica: un progetto di
grande importanza economica per la Ue viene sabotato non solo da Washington, ma
anche da Bruxelles per mano dallo stesso presidente della Commissione europea. Ci piacerebbe sapere che cosa ne pensa il governo Renzi, dato che l’Italia – come ha avvertito
allarmato Paolo Scaroni, ancora numero uno dell’Eni – perderebbe contratti per miliardi di
euro se venisse affossato il South Stream.
del 10/06/14, pag. 19
I figli della giornalista anti-Putin: “Caso aperto, vogliamo il mandante”
Omicidio Politkovskaja, due ergastoli
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA .
Un pizzico di Giustizia è arrivato ieri mattina in un aula di un tribunale di Mosca.
Dopo otto anni di indagini, processi, e vari misteriosi incidenti legali, due ergastoli sono
stati inflitti agli assassini di Anna Politkovskaja, giornalista che denunciava le violazioni dei
diritti umani da parte del regime di Putin, in Russia e nel Caucaso ribelle.
Ma mentre gli imputati rispondevano alla sentenza mostrando sorrisi minacciosi, gli
avvocati di parte civile, i figli della Politkovskaja e i colleghi del suo giornale di opposizione
Novaja Gazeta, erano tutt’altro che entusiasti.
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La notizia della condanna, data con grande enfasi da radio e tv, sembra infatti chiudere la
vicenda e lasciare irrisolto l’unico vero interrogativo: chi ordinò di eliminare la giornalista
più odiata da Putin, scegliendo tra l’altro la data del compleanno del Presidente?
La spiegazione di investigatori e giudici russi resta infatti parziale e lacunosa. Il giovane
ceceno Rustam Makhmudov avrebbe ucciso Anna Politkovskaja la mattina del 7 ottobre
2006. Era appostato nell’androne del palazzo della giornalista. Gli è bastato vederla uscire
dall’ascensore per uccidere. Il tutto gli sarebbe stato ordinato dallo zio Lom-Ali Gaitukayev,
il secondo ergastolo comminato ieri. «Perché, avrei dovuto farlo?», urlava sprezzante al
giudice l’anziano ceceno. La risposta, nelle carte processuali non c’è.
Ad accompagnare il killer sotto casa della vittima e ad organizzare i pedinamenti preventivi
per scoprirne orari e abitudini, ci hanno pensato i fratelli Dzhabrail e Ibragim, condannati
ieri a 14 e 12 anni. A proteggerli e istruirli c’era un tale Serghej Khadzhikurbanov, ex
poliziotto, condannato, sempre ieri, a 20 anni di colonia penale. Perché un ex poliziotto
nella banda di assassini? Domanda inquietante soprattutto se si pensa che in un processo
separato era già stato condannato a 11 anni di carcere duro, Dmitrj Pavluchenkov,
dirigente del distretto di polizia in cui abitava la Politkovskaja. Avrebbe gestito le mosse del
gruppo e procurato personalmente l’arma.
C’erano dunque poliziotti, ambigui personaggi arrivati dalla Cecenia, e chissà chi altri, in
quei giorni a Mosca a pianificare la morte di un personaggio scomodo per il Cremlino.
Inevitabile dunque la reazione dei figli della giornalista, Ilja e Vera: «La vicenda non è
conclusa, andremo fino in fondo. Vogliamo il mandante».
Difficile aspettarsi sviluppi a breve. Tra i giornalisti di Novaja, l’ipotesi più attendibile resta
quella che porta a Ramzan Kadyrov, spregiudicato dittatore della Cecenia per nomina di
Putin, che avrebbe voluto fare così un sanguinoso regalo di compleanno al suo protettore.
Voci che si levano da quella stessa mattina senza trovare conferme. E che svuotano di
senso l’entusiasmo con cui la tv di Stato annunciava ieri: «Finalmente giustizia è fatta».
del 10/06/14, pag. 1/58
Nell’inferno di San Paolo tra i senza terra del
Mundial
CONCITA DE GREGORIO
SAN PAOLO
L’ASTRONAVE della Fifa atterra a San Paolo su una città in guerra. Un enorme uccello
con le piume verdi e fucsia, estraneo regale e impassibile, che plana tra i grattacieli
abbandonati di un centro deserto, abitato da spettri miserabili, fumatori di crack e puttane,
mendicanti.
I NUOVI abitanti, giovani, dell’antico quartiere dell’alta borghesia paulista innamorata
dell’Europa sono oggi i senza lavoro, senza diritti. Sono arrivati dalle periferie coi fagotti e
hanno riordinato, spazzato le macerie, costruito sale conferenze per l’attività politica nei
vecchi auditorium, asili nei garage. Hanno preso possesso della città lasciata vuota.
Manifestanti dei movimenti dei senza casa e senza terra sono ogni mattina respinti con
proiettili di gomma dalla polizia statale in armi. Metro in sciopero, trasporti pubblici bloccati.
Blade runner, il mondo dopo la fine del mondo.
I dirigenti in doppiopetto della Fifa sono arrivati in auto dall’aeroporto, giorni fa, e sono
rimasti per ore intrappolati in una coda di 600 chilometri. Non è un errore: 600. La città
estesa conta 18 milioni di abitanti, come l’Olanda. Per arrivare allo stadio dal centro, in
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condizioni normali, ci vogliono due ore. Con lo sciopero dei mezzi semplicemente non si
arriva. Hanno detto, spazientiti, nel loro inglese: «Bisogna trovare un piano B». Mancano
due giorni all’inaugurazione e non ci sono lettere dell’alfabeto per indicare nessun altro
piano possibile che non sia quello di rendersi conto, almeno per un attimo, di cosa c’è fuori
dai finestrini oscurati delle auto. Del posto in cui l’astronave e i suoi sponsor globali è
atterrata.
Qui la mattina ci si sveglia col rumore degli elicotteri che volano radente ai tetti. Pensi:
l’esercito, e invece no. Ogni giorno è così. Ogni giorno mille persone, nel centro di San
Paolo, escono da casa dopo colazione e vanno al lavoro in elicottero, centrano quella
specie di cestini da pane sistemati sui tetti, aggiustano il doppiopetto e scendono in ufficio.
Mille elicotteri privati in città, il record del mondo. Giù di sotto, per strada, c’è un’altra
guerra.
Non esiste un’altra città al mondo dove nel centro storico, quello dove nel bel teatro rosa
dei primi Novecento danno, stasera, la Carmen di Bizet, si affaccino sulla piazza sei
grattacieli occupati, abbandonati e occupati. Vuoti, gli occhi bucati fino al ventesimo piano,
le finestre senza vetri, le bandiere dei movimenti che sventolano dai bagni comuni.
Davanti al municipio dove lavora il sindaco. La leader del movimento per la casa Mmpt
(Movimento moradia para todos) si chiama Welita Caetano, ha 28 anni e allatta sua figlia
di 3 mesi, Anita, nell’appartamento numero 314 dell’edificio occupato di via Marconi, di
fronte al luogo che la Fifa ha scelto per fare la sua grande ininterrotta festa, il Fifa Fun
Fest. E’ laureata in Economia, sta ancora studiando Diritto, è figlia di immigrati brasiliani
che hanno cominciato ad occupare quando lei aveva 9 anni per la semplice ragione che
non avevano dove vivere. Ha studiato coi soldi del Movimento, adesso è lei che va in
tribunale a difendere le 400 famiglie che rappresenta. «Ci sono a San Paolo 700 mila
famiglie iscritte alle liste di attesa per avere una casa, e nel centro quasi 400 edifici
abbandonati. Il piano del governo ‘Minha casa minha vida’ non riesce a tutelare chi
guadagna meno di 1500 reais, 500 euro al mese, perché a San Paolo il suolo è troppo
caro, prezzi lievitati anche a causa della Coppa, e il sussidio non basta. Le liste di
assegnazione degli alloggi estraggono a sorte e non tutelano chi ha davvero bisogno. Nel
centro abbiamo occupato, noi ed altre associazioni, 60 edifici, grattacieli e non. In questo
di via Marconi vivono 120 famiglie. Diamo la precedenza a donne sole con figli che
fuggono da situazioni di violenza domestica.
Un portiere vigila che non arrivino i mariti a riprenderle. Poi molti haitiani, la nuova
immigrazione, ma anche moltissimi paulisti con redditi bassissimi. Qui non si può bere né
fumare, le regole sono molto severe e chi sgarra esce, abbiamo 70 bambini che vivono nel
palazzo. Il Mondiale della corruzione non ha portato ricchezza né opportunità a chi ne ha
bisogno, ha portato soldi ha chi già ne aveva. Dilma ha fatto molte cose buone, ma col
mondiale ha sbagliato».
Dilma col mondiale ha sbagliato. L’hanno fischiata, all’inaugurazione della Confederation
cup, e oggi – dice il suo ministro dello sport Aldo Rebelo – «non deve aver paura di essere
fischiata ancora, i fischi fanno parte del gioco. Abbiamo fatto quel che dovevamo. Il calcio
è sempre stato un grande veicolo di emancipazione sociale in questo paese, specie per i
neri, i nostri eroi sono stati Fausto, Garrincha e Pelè. Il Mondiale non è stato mai
contestato neppure durante gli anni della dittatura, non capisco perché debba esserlo oggi
». E invece è contestato o almeno non applaudito nella capitale neppure dalla classe
media, che al contrario di sempre non espone bandiere ai balconi, non compra magliette e
gadget gialloverdi, «persino i bambini scaricano dai youtube i video coi rap che attaccano
Dilma sulla corruzione, poi le canticchiano a scuola e se non finiscono l’album delle
figurine pazienza», dice Claudia, madre di due gemelli decenni.
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Oggi la presidenta arriva da Brasilia ad aprire i lavori del congresso Fifa. A poche
centinaia di metri di distanza ci sarà il sit in del movimento Copa pra quem, Mondiale per
chi?, che riunisce i movimenti popolari (per la casa, per la terra, contro la militarizzazione
della polizia) che Rousseff ha sempre difeso e sostenuto. Un paradosso. Fra pochi mesi si
vota di nuovo e la stessa sinistra teme che la contestazione del mondiale possa rivelarsi
alla fine un boomerang, un asso nella manica della destra. Il leader socialdemocratico
Josè Serra, già governatore e sindaco di San Paolo, ex ministro della Salute e storico
antagonista di Dilma, da lei sconfitto nella corsa alla presidenza alle ultime elezioni, dice,
in gran relax a una festa di compleanno, che «Dilma ha sovrapposto la sua immagine a
quella del mondiale dopo aver sbagliato le principali scelte di politica economica, nessun
investimento reale, ha solo planato su una fortuna effimera, il paese oggi ristagna. Se il
Brasile, inteso come squadra, andrà bene lei potrà ancora cavarsela, forse. Se la squadra
affonda Dilma perde il mondiale e la sua corsa».
I lavori, allo stadio Itaquerao, sono ancora in corso. Gli operai dormono in mezzo alla
strada nella pausa pranzo, esausti. Sulla collina che domina lo stadio è comparsa nel giro
di una settimana una favela enorme, si chiama Copa du povo, la Coppa del popolo. I
bambini giocano al pallone in mezzo alla plastica nera delle loro capanne guardando in
basso le bandiere Fifa issate sullo stadio nuovo. Ci sono cinquemila famiglie, dona Elena
è la leader del Movimento lavoratori senza tetto, accoglie chi arriva. C’è una cucina
comune per ogni lotto, 4 reais un pasto, poco più di un euro. Al lotto due cucina Carla: ha
28 anni anche lei come Welita Caetano, due bambini piccoli, Stefany e Mikael. Prima
pagava 450 reais di affitto, dice, ma non lavora e suo marito non abbastanza, non ce la
fanno. «Qui si sta bene», dice. Dorme coi bimbi per terra. «Fa solo un po’ freddo». Alla
manifestazione di oggi no, non potrà andare perché non sa a chi lasciare i figli, e poi c’è
sciopero dei mezzi, non ci si muove, bisogna partire a piedi la notte. Quando è buio gli
invisibili si incamminano verso il centro. Contano di arrivare all’alba. Proprio quando i piloti
degli elicotteri controllano se sia tutto a posto per il decollo dei signori di denari, chi cerca
lavoro si incammina verso l’antica via pedonale dei caffè per un ingaggio diario, i bambini
nei grattacieli occupati si svegliano e la giornata comincia di nuovo.
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INTERNI
del 10/06/14, pag. 2
Renzi parla di vittoria Ma avverte il partito:
posizioni di rendita finite
È soddisfatto per un risultato che ritiene «straordinario», visto che il Pd aumenta il bottino
ed espugna un numero di Comuni superiore a quelli che governava, visto che con Grillo
«è finita 20 a 1, altro che frenata», ma allo stesso tempo Matteo Renzi ammette
apertamente che la perdita di Livorno, tradizionale roccaforte rossa, le sconfitte di Perugia
o Potenza, hanno un valore che è da registrare, da non sottovalutare: significano che i
cittadini ormai votano in base ai risultati, alle esperienze concrete di governo, alla capacità
di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.
A margine dei colloqui con le istituzioni del Vietnam, nel suo primo giorno di visita in Asia,
il presidente del Consiglio trova il tempo di fare un’analisi informale del voto
amministrativo. Analisi sganciata dalla sua partecipazione, minima, agli ultimi giorni di
campagna elettorale, piuttosto ancorata al significato di un voto amministrativo che per lui
significa una cosa sola: «Sono finite le posizioni di rendita, non ci sono più roccaforti»,
ovvero non ci sono più posizioni che possono essere tramandate da un candidato a un
altro.
Il voto amministrativo non è quello Politico, contano le persone prima che i partiti, quello
che hanno realmente realizzato. «Il grado di aderenza alla realtà della buona
amministrazione è sempre più alto», come è giusto che sia, lascia intendere Renzi, nei
saloni dello storico albergo della capitale vietnamita, quel Sofitel Legend che è un
landmark del Paese che fa concorrenza alla Cina per capacità di attrarre imprese europee
manifatturiere e che con Pechino vive da alcuni mesi una progressiva crisi diplomatica.
Renzi vorrebbe minimizzare, lasciare ad altri l’analisi del voto, il ballottaggio, ai suoi occhi,
mentre si appresta ad incontrare lo stato maggiore della nomenklatura cinese (oggi sarà a
Shanghai, domani a Pechino), è comunque un segno minoritario di un trend che si è già
espresso alle Europee. Lui, in quella occasione, ci ha messo la faccia, ha rilanciato l’idea
di un Paese che può voltare pagina e fare riforme mai fatte prima. È stato premiato, con
un record di consensi, al di sopra di ogni aspettativa. Se nel secondo turno delle
Amministrative ci sono anche risultati in chiaroscuro, compresa la perdita di Livorno, poco
male: siamo in piani completamente diversi, fa intendere.
Alle elezioni europee, come avverrà alle Politiche, conta una certa idea del Paese, nella
città vale ben altro, le capacità dei sindaci, delle singole persone, dei singoli candidati e in
questo quadro poco male se ci sono da commentare anche risultati negativi. Livorno è il
primo e bisogna solo essere sinceri: il candidato del movimento di Beppe Grillo, «è stato
bravo, ha fatto bene», ha in sostanza convinto più del candidato del Partito democratico.
Eppure è inutile fasciarsi la testa, «Grillo ha vinto uno solo dei ballottaggi in cui era in
corsa», dunque poco male, il risultato del Pd è comunque lusinghiero.
Ci sarebbe da aggiungere che lui, a differenza del voto europeo, non vi ha messo la
faccia, è rimasto un passo indietro: si è goduto quel record del 40,8% dei voti che non sarà
una rendita ma su cui è possibile mettere una «residenza», secondo l’espressione che ha
coniato, appena chiuse le urne del voto per il Parlamento di Bruxelles.
Di sicuro una cosa non vuole sentire e non condivide. L’idea che ci sia un vecchio Pd che
perde e uno nuovo che vince, che la responsabilità di alcune defaillances sia da attribuire
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a una classe dirigente che non è renziana; un’interpretazione, autorizzata da alcuni dei
suoi, che lo trova freddo quanto contrario: «Il Pd è uno solo e lottiamo tutti per lo stesso
risultato, non ci sono mondi vecchi e nuovi, ci sono solo candidati più o meno bravi». Una
visione laica che lo autorizza a dire a concludere in modo pratico, così: «Ci siamo presi il
Piemonte e la Lombardia, e Forza Italia ha fatto la fine che ha fatto».
Marco Galluzzo
del 10/06/14, pag. 1/16
Se vola soltanto il partito di Matteo
ILVO DIAMANTI
CHI ha vinto queste elezioni?
Il Pd o il PdR? Il Partito Democratico o il Partito di Renzi? È il quesito che echeggia,
all’indomani dei ballottaggi delle amministrative, appena conclusi. Ultimo atto della
competizione elettorale, cominciata due settimane fa, con le elezioni europee e il primo
turno delle amministrative. Le europee, infatti, hanno fornito un risultato inequivocabile.
E HANNO offerto, al tempo stesso, una chiave di lettura che ha condizionato quel che è
avvenuto dopo. Fino al risultato di ieri. Con la tentazione, paradossale, di interpretarlo tutto
in chiave interna. Ponendo Renzi di fronte – e, in alcuni casi, contro – il suo partito.
D’altronde, l’esito del voto amministrativo e, in particolare, dei ballottaggi, tende ad essere
riassunto in alcuni “casi”, di particolare importanza simbolica. Livorno, Urbino, Perugia,
Riccione: città storicamente “rosse”, dove il Centrosinistra ha perso. Come a Padova, dove
governava da dieci anni.
Peraltro, in termini percentuali, il confronto fra il voto al PdR e il PD, nelle città dove si
votava, ha mostrato una chiara prevalenza del primo. Non per caso, il PD alle europee ha
ottenuto più che alle amministrative. Circa 6 punti in più (ha stimato l’Istituto Cattaneo),
mentre in passato avveniva il contrario. Da ciò la conclusione: la “ditta”, per citare la
formula utilizzata da Bersani nel corso della campagna elettorale del 2013, conta molto
meno dell’imprenditore (politico). Il PD, senza Renzi, diventa molto meno competitivo e per
questo, a livello locale, fatica. Perde colpi. Perfino nei suoi luoghi sacri. Nei suoi territori
protetti.
Personalmente, credo che occorra usare prudenza, nel proporre questa chiave di lettura.
Perché, il grande risultato del PdR non permette di interpretare il bilancio di queste
elezioni amministrative come un insuccesso del PD. Certo, i “casi esemplari” suscitano
interesse. Ma vanno inseriti nello scenario generale. E i dati complessivi delle
amministrative sottolineano una crescita ampia e sostanziosa del centrosinistra
e del PD, che ne è, dovunque, il riferimento.
Nei capoluoghi di provincia dove si è votato per il Sindaco, infatti, prima di queste elezioni,
il PD e il Centrosinistra amministravano 16 comuni. Oggi 20.
Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti, la tendenza si conferma in modo anche più esplicito.
I sindaci del PD e del Centrosinistra, prima del voto, erano 128. Oggi sono saliti a oltre
160. Eletti, soprattutto, a spese del Centrodestra (oltre 50), che esce molto ridimensionato.
Prima del voto, aveva quasi 90 sindaci. Oggi gliene restano 43. Meno della metà.
Questa distinzione, peraltro, suggerisce un primo cambiamento. Nel passato, infatti, il
Centrosinistra era più forte – e governava – soprattutto nei Comuni più grandi e, dunque,
nei capoluoghi. Oggi non è più così. È più forte in provincia. Ciò si spiega, fra l’altro, con la
concorrenza – accesa – imposta, soprattutto nei contesti urbani, da altri attori politici e da
altre liste. Dal M5s, ma anche da liste e comitati espressi nell’ambito della Sinistra. Sorti,
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non di rado, dall’interno e dall’intorno dello stesso PD. In nome del cambiamento, della
rottura con il passato. Ma anche in seguito a frazionismi e divisioni (fra pro e anti-renziani).
Inoltre, se osserviamo la geografia politica e amministrativa di questo voto, emerge una
tendenza coerente con la “nazionalizzazione” del Centrosinistra, prodotta dall’irruzione
di Renzi. Il quale pare aver “trascinato” il PD anche su base locale. In altri termini, il
Centrosinistra e il PD sembrano usciti dal recinto delle zone rosse, dove pure hanno
aumentato il numero dei sindaci: da 77 a 82. Ma, soprattutto, hanno allargato, anzi:
raddoppiato, la loro presenza nei governi locali del Nord “padano”. Dove i sindaci del PD
sono passati da 24 a 58.
La sua principale zona di debolezza rimane, invece, come in passato, il Mezzogiorno.
Dove è cresciuta la presenza del M5s e, ancor più, di liste civiche e locali.
Il PdR, dunque, ha conquistato l’Italia, perché ha superato i confini storici del PD. Ma il PD
stesso, a sua volta, si è diffuso nella Provincia del Nord ma anche del Centro. Dove il peso
degli apparati conta meno delle persone. Anzi, si identifica con loro. Con i sindaci. Perché
questo è avvenuto, negli ultimi anni. La fine dei partiti di apparato. Rimpiazzati, sempre
più, dalle persone. E questo cambiamento è stato trascinato, in primo luogo, proprio
dall’elezione diretta dei sindaci, nel 1993. Da allora, si è verificata una sorta di
presidenzializzazione diffusa. Che ha abituato i cittadini a confrontarsi direttamente con le
persone: candidati, amministratori. Sindaci. A livello nazionale, questa tendenza è stata
stressata da Berlusconi, che l’ha tradotta, a proprio vantaggio, nella costruzione del
proprio partito “personale”. E mediatico.
Guardato, a sinistra, con sospetto e con disagio. Salvo, poi, imitarlo, in modo inadeguato e
gregario. Fino ad oggi. Quando Matteo Renzi ha “conquistato” il PD. Partendo da Firenze.
Lui, sindaco, è andato “oltre” il partito. E i suoi limiti. Ma anche il PD, “deve” cambiare. Per
fare fronte ai concorrenti che lo sfidano. Il M5s, ma non solo. Pena la sconfitta. Com’è
avvenuto a Livorno e a Padova.
D’altronde, i Sindaci oggi stanno diventando più importanti dei partiti stessi. I quali sono
divenuti soggetti al servizio dei leader. A livello locale. Ma anche nazionale. Questo,
semmai, è il problema del Partito di Renzi. Il PdR. Non limitarsi a fare “come se il PD non
ci fosse”. Ma spingerlo a riformarsi. Ridimensionando, ancora, lo spazio degli apparati, a
favore di quello dei Sindaci e degli amministratori locali. Per rafforzare il rapporto diretto e
continuo con i cittadini. (Ma anche i controlli, per evitare le degenerazioni emerse in
questa fase.) Perché le fedeltà politiche, al tempo della personalizzazione, sono
scomparse. E, anche in Italia, oltre metà degli elettori cambia partito, schieramento, parte
politica da un’elezione all’altra. Mentre il 15% decide se e per chi votare negli ultimi giorni.
Così, ogni elezione è un “salto nel voto”. Una partita aperta. Che neppure il PdR può
immaginare di vincere senza un PD competitivo.
del 10/06/14, pag. 3
Il retroscena Uno parla di «spine», l’altro chiede una «riflessione
profonda»
Le critiche di Bersani e Letta
Il voto riapre le ferite nel Pd
E l’ala sinistra vuole una «rigorosa analisi» dei risultati
ROMA - Se la vittoria storica del 25 maggio aveva pacificato il partito e silenziato i
capicorrente, il risultato in chiaroscuro dei ballottaggi riapre antiche ferite e rianima la
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minoranza. Il tentativo di alcuni renziani di spaccare il Pd tra nuova guardia che vince e
vecchia guardia che perde ha colpito nell’orgoglio l’ala sinistra del partito, che ora chiede a
Matteo Renzi una riflessione profonda sulla natura del partito e sulla gestione delle realtà
locali. All’ultima direzione il silenzio dei «big» rottamati era stato assordante, ieri invece si
sono fatti sentire uno dopo l’altro, per rimarcare quanto dolorosa sia stata la perdita di
storiche roccaforti e sottolineare, più o meno esplicitamente, che il Pd ha un problema a
sinistra. «Ci sono delle spine - chiede di studiare “a fondo” la situazione Pier Luigi Bersani
- e Livorno è una di queste». Dove il non detto, per i bersaniani, è che dove la sinistra non
va a votare il Pd perde.
Persino Enrico Letta, che non era mai intervenuto nel dibattito politico nazionale dalla
traumatica staffetta con Renzi, a margine di un seminario a Pisa ha commentato il dato
meno felice dei ballottaggi: «La sconfitta del Pd a Livorno merita una riflessione profonda,
perché del tutto inattesa». E Perugia, Padova, Potenza? L’ex premier non entra nel merito
delle sconfitte incassate dal suo partito, ma da toscano insiste su Livorno: «È la sconfitta
più clamorosa e non solo per il suo valore simbolico, per questo credo che necessiti di una
riflessione nazionale».
Parole che suonano molto distanti dalla posizione di Renzi, che dal Vietnam ha definito
«straordinario» il risultato. Anche questa volta il premier tira dritto sulla via della
rottamazione e non si volta indietro. «Dove non abbiamo creato cambiamento abbiamo
perso - è il ragionamento che ha condiviso con i suoi -. Paghiamo un prezzo dove siamo
stati individuati come un partito strutturalmente al potere». Per lui non esistono città
«rosse» e non esistono roccaforti: il voto di domenica dimostra che le rendite di posizione
non valgono più e che il Pd i voti deve andarseli a cercare di volta in volta, anche a destra
e senza puzza sotto il naso. Una strategia molto distante da quella che la minoranza ex
diessina ha portato avanti per anni.
L’ala sinistra chiede di affrontare già nell’assemblea di sabato una rigorosa analisi del voto
e contesta l’approccio dei renziani, i quali insistono nel buttare la croce sulle spalle della
vecchia guardia. Dario Nardella, sindaco di Firenze, la mette così: «Il risultato negativo si è
verificato nelle città dove il Pd non si è rinnovato». Giudizi che Gianni Cuperlo contesta
con forza. In un post accorato su Facebook scrive che «alcune ferite pesano e bendarsi gli
occhi è ingiusto» e si dice colpito da alcuni commenti dei renziani: «Davvero c’è chi pensa
si possa dire che si vince dove il corso renziano si è fatto strada e si perde altrove? E
quale sarebbe la vecchia guardia da rottamare?». Marco Ruggeri, il «dem» sconfitto a
Livorno, «ha l’età di Renzi» ricorda l’ex sfidante delle primarie, Wladimiro Boccali (Perugia)
ne ha poco più di 40 e quando si perde «la prima cosa da fare non è preoccuparsi di dire
che ha perso “uno degli altri”».
Al Nazareno assicurano che le reazioni a catena innescate dai ballottaggi non avranno
ripercussioni sulla nuova segreteria a gestione unitaria, la cui composizione Renzi
annuncerà entro sabato. Eppure i nomi ballano. Prima di indicare le sue scelte Cuperlo
aspetta un incontro con Renzi. Uno dei nodi è che il leader non vuole in squadra chi ha
fatto parte della segreteria di Bersani, come Nico Stumpo o Matteo Orfini. Anche la
questione della presidenza si è riaperta. La lettiana Paola De Micheli, partita favorita, sa
che niente è ancora deciso: «Sono una donna di partito, il resto lo vedremo...». E anche
l’ipotesi che il successore di Cuperlo possa essere una figura forte della sinistra ex ds
come Nicola Zingaretti, appare adesso più lontana.
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del 10/06/14, pag. 6
Democrat sotto shock: si dimette il segretario
cittadino “Ma perché Renzi non è venuto a
fare un comizio?”
Viaggio nell’ex feudo rosso “Vaffa al Pd, non volevamo morire
democristiani”
SIMONA POLI
DAL NOSTRO INVIATO
LIVORNO .
Crede di sognare e invece succede davvero, Livorno si risveglia grillina. Dopo 68 anni di
fedeltà assoluta la città più rossa d’Italia volta le spalle al partitone della sinistra e, come è
suo stile, sdrammatizza persino la cerimonia degli addii. Su un muro del quartiere
Shangai, presidio democratico fino a domenica notte, si legge “Il Pd ci ha un grillo per
capello” e sul web gira una battuta che sembra scritta apposta per il Vernacoliere:
«Livorno ha visto nascere il Partito Comunista Italiano. Quasi un secolo dopo,
comprensibilmente, non ce l’ha fatta a veder rinascere la Democrazia Cristiana».
Una frecciata a Renzi, che però alle Europee anche qui è volato oltre il 53 per cento,
mentre il candidato sindaco Marco Ruggeri si fermava al 40. «Mica erano tutti voti di
elettori di sinistra quelli là», sostiene Lenny Bottai, 37 anni, pugile e allenatore sul ring, uno
che dice di amare “la politica dal basso”, quella delle fabbriche e dei centri sociali. «Renzi
ha beccato anche il consenso del centrodestra e alle comunali non ha vinto Grillo, ma ha
perso il Pd», è la sua analisi. «Non sarà un caso che la prima volta che il partito di
maggioranza va al ballottaggio tutto il resto dell’elettorato gli voti contro. Io non condivido
la politica dei Cinque stelle ma ho messo la croce su Nogarin per disarcionare questo
sistema di potere che ha affossato la città». Nei circoli Arci dei quartieri Corea, La Guglia e
Salviano, alla periferia sud, chi torna dalla spiaggia si ferma al bar per i commenti del day
after. «Clientelismi, favori, la svendita totale del porto che da dieci anni tiene fermo il
cantiere navale più grande d’Europa mentre la disoccupazione galoppa, questo è stato il
Pd per Livorno», dice Plinio detto il Vecchio che fino al ’56 in camera da letto al posto della
Madonna teneva l’altarino di Stalin. Questa storia per lui non ha niente a che vedere con
quella del Pci. Suo figlio Andrea invece spera che il rinnovamento promesso da Renzi
arrivi anche da queste parti, prima o poi. «È stata una doccia fredda, nessuno se lo
aspettava un tonfo così ma alla fine forse per Livorno sarà un bene questa scossa».
Vinicio, 70 anni, il volto abbrustolito dal sole racconta di avere un pollaio nel suo terreno in
campagna: «Ci devo pagare l’Imu e lo faccio volentieri, figuriamoci.
Ma poi quando vedo passare quei papaveroni col Suv che sono tutti dirigenti pubblici mi
chiedo dove vadano a finire i soldi delle tasse. Qui c’è gente che ha i rubinetti d’oro in
bagno, altro che crisi». Con le infradito ai piedi e i bermuda arriva un ragazzo a torso
nudo, tatuaggi sulle braccia e sul petto, un collo da rugbysta. Dice la sua: «Avete mai visto
un politico con gli addominali in Italia? Neanche uno, sono sempre al ristorante a
mangiare. A spese nostre ». L’atmosfera si scalda. «L’ultimo comunista in Italia è
Bergoglio, ce l’avessimo noi uno che parla di uguaglianza», dice Franco, ex campione di
ciclismo che come seconda casa abita il circolo Carli, una delle sezioni dei Democratici in
cui Nogarin ha avuto la meglio. Sembra quasi che lo abbia ascoltato il vescovo Simone
Giusti, che si congratula con il neosindaco mandandogli un biglietto che va oltre il
semplice augurio. «Non si lasci abbattere dalle difficoltà che incontrerà », scrive il
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monsignore. «Confidi nella collaborazione di tanti e affidi questo suo ruolo di primo
cittadino al Signore, in cui, so, lei crede profondamente. Lei che come ingegnere sa
progettare strutture ultraleggere, alleggerisca la burocrazia che asfissia la città». La
benedizione del vescovo suona come una sorta di colpo di grazia sulla classe dirigente
locale. Il segretario del Pd livornese Jari de Filicaia annuncia le dimissioni a metà
pomeriggio: «Chi sta alla guida deve prendersi la responsabilità della sconfitta, è giusto
così», dice. «Non siamo stati capaci di comunicare neppure la nostra preoccupazione in
vista del ballottaggio, molti elettori non sono andati ai seggi perché con una distanza di
venti punti non immaginavano che potesse finire così. Certo che se fosse venuto Renzi a
fare un comizio ci avrebbe aiutato tanto, chissà... ». Ma il premier aveva altri impegni e
neppure Grillo del resto si era scomodato per Nogarin, che non ha certo insistito per farsi
riprendere accanto al leader sul palco.
Qui la campagna dei Cinque stelle è stata fatta sottovoce, un porta a porta quasi
silenzioso spalleggiato negli ultimi quindici giorni da parecchi militanti delle liste che al
primo turno sostenevano Andrea Raspanti, uno di sinistra che piace molto a Nogarin e che
invece il Pd non ha mai digerito. Al bar “I quattro Mori” all’ora dell’aperitivo il dibattito è
aperto. «Per me», dice Giuseppe, medico in pensione, «Livorno ha detto un “vaffa”
gigantesco e ora si sente meglio ». Per me, gli risponde Rino, più o meno la stessa età, la
sedia del potere resta attaccata al culo di tutti. Deh, vediamo se invece questi grillini ci
hanno il solvente».
del 10/06/14, pag. 6
Da Perugia a Spoleto la rossa Umbria si
risveglia azzurra
«Una sconfitta epocale e terrificante»: usa queste parole, il giorno dopo, il segretario
regionale del Pd umbro Giacomo Leonelli. Che poi prova a consolarsi con «Orvieto e
Gualdo Tadino strappati al centrodestra», ma la logica del «prendi due, perdi una» con
Perugia funziona poco, qui non si tratta di fustini per lavatrice, qui c’è un’intera regione,
l’Umbria rossa e polmone verde d’Italia che in poche ore è scolorita parecchio. Altro che
rosso sangue o rosso vermiglio: a Perugia, il capoluogo di Regione, 180 mila abitanti, il
centrodestra ha vinto per la prima volta dal 1946 e con una percentuale di voti, più del 58
per cento, che ha il sapore della batosta forte e adesso incorona il sindaco-ragazzino,
Andrea Romizi di Forza Italia, già ribattezzato «il Renzi della destra».
Ma la debacle è enorme e arriva fino a Spoleto, col suo celeberrimo festival dei Due
Mondi, città consegnata anche qui a un sindaco di centrodestra, Fabrizio Cardarelli.
«Sconfitta epocale e terrificante» che si allarga poi a Bastia Umbra, raggiunge Montefalco,
senza contare Assisi, dove non s’è votato ma che pur sempre resta l’inossidabile
roccaforte bianca e perenne dei frati e dei moderati.
«Ora è suonato un bel campanello d’allarme per Catiuscia…», accusa Diego Dramane
Wague, scrittore del Mali trapiantato a Perugia dall’87, tra i fondatori del Pd cittadino dopo
un passato nella Margherita e apparentatosi alla vigilia del ballottaggio con il candidato
Romizi di Forza Italia in aperta polemica con il suo partito di riferimento. La Catiuscia di cui
parla Wague è Catiuscia Marini, la governatrice rossa dell’Umbria e il «campanello
d’allarme» sta suonando per lei, perché tra otto mesi qui si voterà per le Regionali. E
quella davvero sarà la prova del nove: «Il voto di Perugia mostra un preoccupante
allontanamento dell’elettorato del Pd dal candidato sindaco (Wladimiro Boccali, ndr) ma
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coinvolge il Pd dell’Umbria nella sua interezza — ammette Catiuscia Marini — ed impone
ora un’analisi franca e trasparente».
Parole sante. Anche perché «il preoccupante allontanamento dell’elettorato del Pd»,
secondo Diego Dramane Wague, è dato dal sistema di potere nato in vent’anni intorno alla
nomenklatura democratica regionale. «Un partito divorato dalle beghe tra clan, sempre più
lontano dalle aspettative delle persone e attento solo alla distribuzione delle poltrone e dei
posti pubblici», attacca a testa bassa il dissidente italo-maliano che domenica ha spostato
da solo con la sua lista più di 2 mila voti e dice di aver convinto a votare per Romizi perfino
dei vecchi partigiani. «Catiuscia Marini e Wladimiro Boccali, il sindaco uscente, sono figli
diretti di Maria Rita Lorenzetti e del suo collaudato modello di gestione…», continua
Wague. Già: Maria Rita Lorenzetti, la zarina di Foligno, deputata del Pci nel lontano ‘87 e
poi dal 2000 eletta governatrice dell’Umbria per due mandati, al centro di un sistema
complesso di interessi e di relazioni, finita un anno fa agli arresti domiciliari (poi revocati)
nell’ambito dell’inchiesta sul passante del Tav in costruzione a Firenze.
E sebbene il sindaco uscente di Perugia, Boccali, adesso si assuma «interamente la
responsabilità» della sconfitta, Marina Sereni, vicepresidente della Camera e parlamentare
umbra di spicco del Pd, sembra guardare oltre: «Nel Paese la geografia politica è
cambiata. Per la sinistra non esistono più da tempo zoccoli duri né zone sicure. Ma il Pd e
il centrosinistra vincono là dove riescono ad interpretare la voglia di cambiamento». Al Pd
umbro, insomma, servirebbe un Renzi. «I mali del partito io li conosco bene — conclude
con un sorriso Wague il Dissidente —. Se Matteo vuole, sono a disposizione».
Fabrizio Caccia
del 10/06/14, pag. 8
Effetto ballottaggi sull’Italicum Berlusconi: il
doppio turno mai
«Da adesso con Renzi tratto direttamente io…». È diventata quasi una cantilena quella
che Silvio Berlusconi sta ripetendo ai dirigenti del partito da qualche giorno a questa parte.
Gliel’hanno sentita dire in tanti, anche nelle ultime ore, questa frase. Peccato che l’ormai
ex Cavaliere abbia omesso, almeno nella gran parte delle sue chiacchierate riservate, il
«dettaglio» più importante. E cioè che un «contatto diretto» tra Arcore e Palazzo Chigi ci
sarebbe già stato, nei giorni scorsi. Prima che il presidente del Consiglio lasciasse l’Italia
alla volta dell’Asia. Ci sarebbe, condizionale d’obbligo, anche una «data indicativa» per la
prossima volta che Renzi e Berlusconi si ritroveranno faccia a faccia. E questa data, che
entrambi avrebbero già appuntato sulle rispettive agende, sarebbe tra una settimana
esatta. Martedì 17 giugno. A Roma.
Se si volesse intercettare la tela del dialogo che il presidente del Consiglio del Pd e il suo
predecessore forzista tesseranno a breve, allora bisognerebbe spostare l’attenzione su
quello che è successo nella villa di Arcore ieri mattina. Dopo la lettura dei giornali, infatti,
un paio di parlamentari di Forza Italia — che avevano contattato Berlusconi per chiedergli
una sua «analisi del voto» — hanno ascoltato dalla viva voce del «Presidente» la
considerazione che segue. «Io lo sapevo già», è stata la premessa dell’ex Cavaliere. «Ma
questi ballottaggi mi confermano che questo Paese non può permettersi una legge
elettorale nazionale a doppio turno. Troppo rischiosa per tutti. Noi non potremmo certo
votarla…». Un vero e proprio epitaffio dell’Italicum, insomma. Di più, la marcia funebre nei
confronti di quella legge elettorale che era nata proprio dall’incontro al Nazareno con
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Renzi. E a cui gli stessi protagonisti, martedì 17, potrebbero dare il colpo di grazia. Per
favorire un ritorno all’antico, magari al Mattarellum? Probabile. E con quali ricadute sulla
riforma del Senato? Chissà.
«Questo è stato un voto molto strano. In cui l’astensione ha danneggiato soprattutto noi»,
ha ripetuto ieri mattina l’ex premier ai suoi interlocutori. «Per esempio», ha aggiunto,
«sono rimasto molto deluso dalla sconfitta di Pavia. Ma Alessandro Cattaneo non doveva
essere il sindaco più amato d’Italia? E ha perso così?». Per un dolore, due gioie. La prima
è la rimonta di Padova, dove la vittoria del leghista Massimo Bitonci «ha dimostrato che la
strada del dialogo con la Lega è quella giusta». La seconda è la storica «presa di
Perugia», per giunta arrivata grazie a un giovanissimo (Andrea Romizi, classe ’79), che
l’ex Cavaliere avrebbe già invitato ad Arcore.
Ma se le elezioni sono alle spalle e l’incontro con Renzi già fissato, le grane interne di
Forza Italia sono tutto fuorché risolte. L’ala Fitto potrebbe usare l’ufficio di presidenza di
oggi (l’unico tema all’ordine del giorno è l’approvazione del bilancio) per tornare alla carica
con la richiesta di convocare le primarie interne. «È necessario affrontare con coraggio un
percorso di rifondazione del nostro partito», è stato il siluro mandato da Mara Carfagna.
«Non possiamo dire che in questo ballottaggio abbiamo avuto un grande risultato, chi lo
dice non prende il dato della realtà», ha rincarato la dose Laura Ravetto, altra «colonna»
dell’area che fa capo all’europarlamentare pugliese. Che subito dopo, tra l’altro, è tornata
a chiedere la consultazione interna, seppur implicitamente: «Io sono per un rinnovamento
che parta dalla base. Dobbiamo metterci tutti in gioco». Il tutto mentre Fitto in persona, ieri
mattina, ha annullato la sua manifestazione prevista per venerdì a Napoli, che avrebbe
creato un cortocircuito con la kermesse ufficiale del partito, in programma nella stessa città
e alla stessa ora. «Ancora una volta, faccio prevalere il mio senso di responsabilità e il
lavoro dell’unità», è stata la versione pubblica dell’annuncio dell’ex governatore pugliese.
Che in privato, però, ha spiegato ai suoi che «adesso non possiamo cedere alle
provocazioni, visto che quella di convocare una manifestazione in contemporanea alla
nostra era una provocazione bella e buona».
Di fronte alla controffensiva della «fronda», i colonnelli dell’ex Cavaliere reagiscono in
maniera soft. «Ci sono stati risultati deludenti. E dobbiamo affrontare anche una questione
morale», è stata l’analisi del consigliere politico Giovanni Toti, che paradossalmente ha
utilizzato un’argomentazione non troppo distante da quella del M5S («In Italia ci sono tre
grandi opere in costruzione. E due su tre sono condizionate dalla malapolitica»). «Gli
elettori moderati sono rimasti a casa», ha aggiunto Mariastella Gelmini. E Berlusconi? C’è
chi lo racconta come «indifferente» ai movimenti dell’area Fitto. E chi, al contrario, lo
descrive a tratti come «furibondo» rispetto a «come si stanno comportando Raffaele, Mara
e tante altre persone che ho creato io…». Prima che gli confermassero della rinuncia di
Fitto alla sua manifestazione napoletana, tra l’altro, l’ex Cavaliere s’era abbandonato a un
commento a limite del beffardo. «Che facciano pure quello che credono. Poi voglio vedere
se la gente segue me o loro…». Ma una strategia a colpi di «stop and go» difficilmente
reggerà allo stress test a cui sarà sottoposta Forza Italia a partire da oggi. Quando i
maggiorenti dell’ufficio di presidenza, seppur per ragioni di bilancio, si troveranno di nuovo
seduti allo stesso tavolo.
Tommaso Labate
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del 10/06/14, pag. 10
Il leader “infuriato” per il ko di Pavia: l’exploit di Romizi a Perugia non
basta La fronda guidata dai due ex ministri contesta l’asse di ferro con
la Lega
“Sconfitti per le troppe liti” Berlusconi accusa
Fitto Carfagna: rischiamo l’oblio
CARMELO LOPAPA
ROMA .
Silvio Berlusconi non ci gira intorno, la chiama «sconfitta», anche se non disfatta. Ma lo fa
coi suoi, stavolta nemmeno un comunicato per commentare il bottino del resto magro, che
porta al partito in senso stretto il solo grosso comune di Perugia. «Lo sapevo, tutta colpa
delle liti di queste settimane, i nostri elettori non ne possono più, ci vuole una rivoluzione,
altro che primarie», è stato il primo commento a caldo. Sta di fatto che Forza Italia torna in
ebollizione come un vulcano pronto a esplodere, la tregua di dieci giorni è già finita. Fitto e
Carfagna alzano la voce, invocano un chiarimento e una ripartenza. Che però non ci sarà.
Non oggi. Il leader vuole anestetizzare tutto, almeno per qualche giorno, evitare proprio la
temuta esplosione, che la situazione gli sfugga di mano.
Tant’è che l’ufficio di presidenza convocato per oggi alle 14 resta confermato, ma da
Arcore fanno sapere che il «presidente non ci sarà», resterà a Milano come ieri, alle prese
con la trattativa Mediaset-Al Jazeera e col Milan. L’appuntamento, dunque, ruoterà giusto
attorno all’approvazione del bilancio (prima quello del Pdl poi di Fi). L’attesa resa dei
conti? Se ne dovrebbe parlare la prossima settimana, tra martedì e mercoledì, fanno
sapere col condizionale dalla sede di San Lorenzo in Lucina.
I più schietti tra i dirigenti vicini al capo lo descrivono «infuriato» per come sono andate le
cose. Padova conquistata ma ad appannaggio della Lega, Potenza ai Fratelli d’Italia, il
pallottoliere finale inequivocabile, con quel 20 a 8 per il centrosinistra. «Deluso» lo è l’ex
Cavaliere tanto per cominciare per la figuraccia rimediata dal rampante Alessandro
Cattaneo a Pavia, dopo che su di lui e Giovanni Toti aveva investito per «reclutare mille
volti nuovi» in giro per l’Italia. Anche se in serata circolava la voce, forse più una
provocazione, che vorrebbe Berlusconi in procinto di nominare l’aspirante “anti-Renzi”
quale vice-consigliere politico, al fianco di Toti. Sarebbe come mettere le dita negli occhi a
Fitto e agli altri che attendono ben altre risposte. «A quel punto sì che salterebbe tutto per
aria» si sfoga una parlamentare frondista. Quel che è certo, è che il leader forzista
addebita la sconfitta proprio a Fitto, alla Carfagna e al loro gruppo. «Colpa anche loro,
hanno dato l’immagine di un partito in guerra al proprio interno, mentre i nostri candidati
erano ancora in corsa per i ballottaggi, la gente non ne può più di liti» è il commento
adirato del capo. Disposto per ciò ancor meno ad aprire confronti e dibattiti interni. La
voglia è piuttosto di «radere tutto» al suolo, per ricominciare.
Per lui l’accordo con la Lega regge, nonostante la batosta soprattutto nelle roccaforti del
Piemonte e della Lombardia. Gli altri al contrario sono pronti a chiedere conto proprio
dell’abbraccio con Salvini (alleato della Le Pen) prima del secondo turno, con tanto di
firma dei referendum. I deputati meridionali in rotta vogliono aprire il capitolo in ufficio di
presidenza. Non solo meridionali, se anche Laura Ravetto ammette: «Non siamo andati
bene, soprattutto al Nord, occorre rinnovamento, ma partendo dalla base». La lettura del
braccio destro del leader, Giovanni Toti chiama in causa le inchieste, «è innegabile che
abbiano avuto un loro peso, ma resta la necessità di ripartire, Fi da sola non ce la può fare
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e c’è bisogno di nuove alleanze». La questione morale insomma entra nel dibattito
berlusconiano ed è la prima volta. Anche la Santanché ne parla: «I partiti che sono rimasti
lontani dalla vicenda Mose sono stati avvantaggiati». Fitto, incassata la vittoria a Potenza
e Foggia, annulla la manifestazione già convocata per sabato a Napoli per evitare la
sovrapposizione con quella organizzata (dopo) dal coordinatore locale De Siano con Toti.
«Farò prevalere il senso di responsabilità, gli elettori ci chiedono unità» scrive lamentando
anche il mancato invito. I nemici dicono che starebbe già lavorando a “Forza Sud”. Lui
nega. Con lui, anche Mara Carfagna invoca unità: «Rischiamo l’oblio, bisogna cambiare
ora, per onorare la nostra storia ». La resa dei conti è solo rinviata.
del 10/06/14, pag. 8
Tra governo e sindacati sfida sulla riforma Pa
Il ministro Madia li convoca,ma a sole 24 ore dal varo, venerdì, della
riforma ● Dettori (Cgil): così è solo un’informativa ● Dall’esecutivo
arriva il «Sì» al rinnovo della parte economica nel 2015
Il ministro Madia li convoca,ma a sole 24 ore dal varo, venerdì, della riforma ● Dettori
(Cgil): così è solo un’informativa ● Dall’esecutivo arriva il «Sì» al rinnovo della parte
economica nel 2015 Nello sprint finale per presentare venerdì la riforma della Pubblica
amministrazione, Marianna Madia mantiene la promessa e convoca anche i sindacati. Lo
fa però solo dopo che le categorie del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil avevano già
convocato una conferenza stampa per sfidare il governo e a sole 24 ore dal Consiglio dei
ministri che dovrà varare la riforma.
SÌ AL RINNOVO DEL CONTRATTO
Insieme alla convocazione, il ministro della Pubblica amministrazione ha inviato ai
sindacati un documento in cui esplicita meglio i 44 punti della riforma e - a sorpresa - apre
al rinnovo contrattuale. Erano stati infatti gli stessi sindacati a presentare due settimane fa
le loro osservazioni ai 44 punti, aggiungendo però il 45esimo: la richiesta del rinnovo del
contratto nazionale, bloccato ormai dal lontano 2009. Su questo Madia, a nome del
governo, risponde: «Riteniamo che il blocco della contrattazione abbia prodotto un danno
ingiusto ai lavoratori pubblici, soprattutto in riferimento alle fasce di retribuzione più basse.
Per questo - continua - riteniamo che l’intervento degli 80 euro realizzato dal governo sia
stato di notevole utilità anche nel pubblico impiego. Il tema del rinnovo della parte
economica del contratto merita di essere affrontato a partire dal prossimo anno: è evidente
- conclude - che occorra uno sforzo comune utile a costruire le soluzioni migliori per
garantire il rilancio del paese e la crescita economica». Parole che se da una parte
accolgono le richieste di Cgil, Cisl e Uil, dall’altra condizionano il rinnovo a partire dal
2015. Per il resto nelle 11 pagine dal titolo «Il cambiamento comincia dalle persone »,
slogan scelto per la riforma, vengono ribaditi i punti principali del testo, senza però
specificare quali faranno parte del decreto legge - dunque immediatamente efficaci e quali
della delega - dunque aperti alla discussione - che verranno varati dal Consiglio dei
ministri venerdì.
Uno dei punti chiave inseriti nella bozza di riforma della pubblica amministrazione riguarda
la modifica dell'istituto della mobilità volontaria e obbligatoria. Sotto questo punto di vista i
cittadini italiani sembrano avere le idee chiare sulle misure da adottare. Lo hanno spiegato
in occasione della consultazione online promossa dal Ministero della Funzione Pubblica.
Dalla consultazione pubblica - le 35mila mail inviate al governo - arriva invece la marcia
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indietro sulla «reintroduzione dell’esonero dal servizio», la norma che avrebbe potuto
sostanzialmente licenziare personale in eccesso. Ebbene, scrive Madia, «recependo
talune perplessità emerse dalla consultazione pubblica», «analizzando gli effetti prevedibili
misurandone un ritorno marginale oltre che il rischio di talune distorsioni».
Sulla mobilità la riforma prevede che «sia possibile disporre il passaggio di un lavoratore
da una amministrazione ad un’altra, senza che sia necessario l’assenso del lavoratore
stesso», ma con «il mantenimento del medesimo trattamento economico e precisi limiti
geografici, grazie a «tabelle di equiparazione ».
«DA NOI PROPOSTE CORAGGIOSE»
«La nostra convocazione di giovedì è semplicemente un’informativa - commenta Rossana
Dettori, segretario generale Fp Cgil - . Noi il giorno prima invece presenteremo le nostre
proposte si riforma coraggiose ed unitarie, a partire per esempio dall’idea di un unico
ufficio per i Servizi all’impiego per chi cerca lavoro che metta assieme Province, Regioni e
Inps». La principale critica che i sindacati fanno all’impostazione della riforma del governo
riguarda «il fatto che c’è qualcosa che si fa subito e qualcosa che si fa dopo, manca
dunque un disegno organico », chiude Dettori. Molti interventi riguardano poi i dirigenti:
«possibilità di licenziamento per il dirigente che rimane privo di incarico, oltre un termine»
e «abolizione delle fasce per la dirigenza e carriera basata su incarichi a termine». La
seconda parte della riforma riguarda il capitolo dei «Tagli agli sprechi e riorganizzazione
dell’Amministrazione» e prevede la centrale unica degli acquisti, l’accorpamento di
Motorizzazione, Aci e Pra, l’abolizione del Covip sui fondi pensione - contrastato dai
sindacati perché sarebbe «un favore alle assicurazioni - e l’introduzione di un unico Pin
per il cittadino per entrare in rapporto con tutte le varie amministrazioni.
del 10/06/14, pag. 12
Prepensionamenti pubblici, il governo frena
Scatterà la mobilità obbligatoria a parità di stipendio. Addio al
trattenimento in servizio per consentire la «staffetta generazionale»
Ci sono passaggi che vengono definiti meglio, come quello sulle camere di commercio:
potrebbero essere accorpate in modo da arrivare ad un organismo per regione, con
l’obbligo di destinare la metà dei risparmi a «interventi straordinari a favore delle imprese»,
come si legge nelle bozze del provvedimento. Altri sui quali il governo fa marcia indietro,
come l’«esonero dal servizio», cioè il pensionamento anticipato di chi è vicino alla fine
della carriera per aprire nuovi spazi ai giovani. Doveva essere la chiave per la famosa
«staffetta generazionale» ma adesso il governo la ritiene «non opportuna» con la
necessità di trovare in fretta un «piano B». E poi ancora una mossa tattica, per aprire una
breccia nel muro che i sindacati stanno per alzare: la promessa che «dal prossimo anno»,
quando la riforma dovrebbe essere già approvata, si torni a parlare anche di rinnovo del
contratto, dopo un blocco che va ormai avanti dal 2009. Il ministro della Pubblica
amministrazione, Marianna Madia, convoca i sindacati per giovedì prossimo, vigilia del
Consiglio dei ministri che dovrebbe portare all’approvazione della riforma della Pubblica
amministrazione. Dovrebbe, perché ieri sono circolate voci di un possibile rinvio, anche se
appare difficile che il governo faccia slittare un appuntamento annunciato con grande
risalto più di un mese fa.
Tra le prima bozze che cominciano a circolare e il documento che il ministro Madia ha
inviato ai sindacati, vengono fuori diverse novità rispetto al testo sottoposto per un mese
alla consultazione pubblica. La marcia indietro sul pensionamento anticipato dei dirigenti
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pubblici è probabilmente legata alla contrarietà dei lavoratori del settore privato, per i quali
non è stato ancora del tutto risolto il problema «esodati». Nel documento inviato ieri Madia
scrive che a fronte di un «ritorno marginale» ci sarebbe stato il rischio di «nuove
distorsioni». Niente «scivolo» fino alla pensione, dunque. Mentre dovrebbe restare in piedi
la cosiddetta «opzione-donna», la possibilità di andare in pensione con i requisiti pre
Fornero per le lavoratrici che scelgono il regime contributivo. Ma come costruire, allora,
quella «staffetta generazionale» di cui si parla da tempo? La prima ipotesi è accelerare
sulla cancellazione del cosiddetto trattenimento in servizio, cioè la possibilità di continuare
a lavorare per due anni dopo l’età della pensione. Il governo pensava di liberare così 10
mila posti, ma coinvolgendo anche altri settori - come giustizia, sanità e università - si
potrebbe arrivare almeno a 15 mila. Ma c’è anche un’altra ipotesi, che si incrocia con
l’ammorbidimento del blocco del turnover , oggi limitato al 20% con un nuovo ingresso
ogni cinque uscite. L’idea è di calcolare il rapporto fra entrate e uscite non in base al
numero delle persone ma all’ammontare dei loro stipendi. Un cambiamento che, di fatto,
farebbe venire meno la sacralità della pianta organica, aprendo la strada anche a nuovi
esuberi. Definite le regole anche della nuova mobilità. Non solo perché viene eliminata,
per gli spostamenti volontari, la necessità del nullaosta da parte dell’amministrazione di
provenienza. Ma soprattutto perché il passaggio da un ufficio all’altro sarà possibile anche
senza l’assenso del lavoratore interessato. A patto che sia conservato lo stesso stipendio
e il «trasloco» avvenga entro certi limiti geografici.
Resta da sciogliere il nodo del numero delle Prefetture: l’ipotesi iniziale era di scendere a
40, una per regione con qualche deroga al Sud nelle zone a più alto rischio criminalità. Ma
si ragiona anche su un numero più alto: 56. Non ci sono dubbi, invece, sul dimezzamento
dei permessi sindacali. La spiegazione del ministero, nel documento inviato agli stessi
sindacati, è l’unica che non arriva nemmeno ad una riga: «Il governo ritiene la misura
necessaria».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 10/06/14, pag. 7
Uomini, controlli e sanzioni
i nuovi poteri di Cantone
Venerdì al Consiglio dei ministri il decreto anticorruzione: strumenti per
l’attuazione immediata della legge Severino e l’avvio operativo dell’Anac
Se la corruzione è figlia, anche, della burocrazia e di norme così complesse da essere
criminogene, la lotta alla corruzione negli appalti pubblici passa, anche, dalla riforma della
pubblica amministrazione, dalla riscrittura del codice degli appalti (600 norme), della
giustizia amministrativa e dall’abbattimento del numero delle stazioni appaltanti. Oggi sono
3.600: impossibile controllare tutto.
Nell’attesa quasi messianica che accompagna da settimane il decreto che venerdì
dovrebbe dichiarare guerra alla corruzione, c’è prima di tutto un bisticcio lessicale da
risolvere. Quello che tutti chiamiamo decreto anticorruzione non conterrà norme penali in
più per combattere la corruzione. Gli uffici di via Arenula, sede del ministero della
Giustizia, stanno lavorando al grande pacchetto sulla giustizia. Autoriciclaggio, falso in
bilancio, prescrizione, procedure e processi più rapidi: avrà tutto formadefinitiva a fine
mese. Così promette il cronoprogramma di palazzo Chigi a cui stanno lavorando gli uffici
ministeriali. Blindato dalla consegna del silenzio è invece il decreto atteso per venerdì.
Che è più corretto chiamare «decreto-Cantone », dal nome del magistrato nominato da un
paio di mesi alla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione e costretto ad assistere a
braccia conserte agli scandali di Milano (Expo) e di Venezia (Mose). «Nel decreto nonci
saranno né superpoteri, né miracoli» chiarisce una fonte del governo. Ci sarà piuttosto
«una stretta rispetto a qualcuna delle 83 norme della legge 190/12» altrimenti detta
Severino. Ci sarà, soprattutto, «l’attuazione immediata dei Piani nazionali anticorruzione
che dovrebbero essere già operativi in ogni singola amministrazione» e l’obbligo di vigilare
sull’attuazione di molte di quelle norme anticorruzione che sono già legge ma, dopo due
anni, non sono state ancora applicate. Ci sarà, anche, «la messa a regime dell’Anac»
(Autorità nazionale contro la corruzione), a cominciare dal personale e dai collaboratori di
Cantone, il rafforzamento di alcuni poteri già previsti (ad esempio le ispezioni nei cantieri)
e l’inserimento di altri nuovi. Quello di Cantone sarà un incarico molto più operativo.
Contro cui, è già facile prevedere, si schiereranno lobby e categorie di settore. Anche la
giustizia amministrativa, la rete dei Tar, benzina di burocrazia, e dei Consiglieri di Stato,
spesso il braccio armato della burocrazia.
Indiscrezioni da palazzo Chigi raccontano che Anac, una volta completata la squadra
tecnica (o meglio, creata, visto che finora ci sono solo Cantone e qualche addetto alla
segreteria) dovrà «esercitare il controllo sui bandi di gara e sull’affidamento dei lavori».
Potrà «partecipare alle commissioni di gara» e «verificare la correttezza delle procedure
nella selezione». Prevista anche «la possibilità di controllare gli appalti già conclusi ».
Ancora incerto, invece, «se e quale potere d’intervento nel caso di riscontri su anomalie o
possibili favoritismi». È stato escluso che la ditta che ha vinto l’appalto ed è stata pizzicata
a confezionare tangenti, possa essere estromessa dal cantiere: fioccherebbero i ricorsi al
Tar e sarebbe la paralisi. Amministratori in carcere, operai al lavoro. Piuttosto, a partire da
adesso, sarà cura di Cantone che le ditte che vincono gli appalti abbiano firmato una
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clausola di garanzia (già prevista dalla legge Severino in Modo facoltativo, si tratta di
renderla obbligatoria) che si chiama Patto di integrità: chi viene beccato a rubare o a
truccare una gara, recede automaticamente dal contratto.
Il premier Renzi vorrebbe tanto il Daspo per chi ruba, nelle aziende e tra gli amministratori.
Una sorte di interdizione perpetua, o quasi. Anche in questo caso il governo si accinge a
rendere più severe alcune norme della legge 190: dovrebbe essere abolito il limite deidue
anni di condanna per decadere dalla carica elettiva e dovrebbero rientrare anche i
patteggiamenti, anche con sei mesi di condanna. Non solo: decade anche la differenza tra
parlamentari e amministratori locali dove i primi attendono la condanna definitiva e i
secondi devono invece lasciare l’incarico dopo il primo grado o, è il caso di Orsoni ex
sindaco di Venezia, se raggiunti da una misura interdittiva (salvo immediato reintegro in
caso di assoluzione).
Obiettivo dell’Anac sarà soprattutto prevenire i meccanismi della corruzione. E segnalarli
quando emergono passando subito la parola alla magistratura. «Non ci sarà alcun conflitto
di poteri» si precisa «perché obiettivo del governo è creare le condizioni per prevenire
ruberie e cricche». Per la vigilanza Cantone sarà affiancato oltre che da quattro esperti
anche da un’apposita task force di agenti delle forze di polizia e della Finanza.
Professionisti che conoscono le mille facce della corruzione e la sanno riconoscere da
lontano. Resta da vedere se e come sarà ridimensionata l’Autority di vigilanza dei contratti
pubblici che in questi anni, pur dovendo vigilare sugli appalti, non ha sentito mai la puzza
di una tangente o di una cricca. Sergio Santoro, il presidente, in questi giorni ha fatto molte
interviste. Ma forse ha poco tempo di controllare visto che ricopre quattro incarichi:
presidente di sezione del Consiglio di Stato; presidente di sezione della Commissione
Tributaria della provincia di Roma; presidente dell’Anm della giustizia amministrativa.
del 10/06/14, pag. 12
L’ex sottosegretario, intercettato con Mazzacurati, sarà sentito a
Venezia Il manager: “Ci chiese di far lavorare Lunardi e altre aziende
amiche”
Mose, spunta Gianni Letta “Era il direttore del
traffico indicava le ditte da scegliere”
FABIO TONACCI
FRANCESCO VIVIANO
VENEZIA .
«Letta è l’assicurazione sulla vita!», esclama Piergiorgio Baita davanti ai magistrati. Sono
le 16.30 del 17 settembre scorso, e l’ex amministratore delegato della Mantovani, il
testimone chiave su cui si regge tutta l’inchiesta sulle tangenti del Mose, ha appena
riempito un altro verbale, il quinto consecutivo, con accuse pesantissime contro l’ex
sottosegretario alla presidenza del Consiglio e braccio destro di Silvio Berlusconi, Gianni
Letta. Richieste di favori, appalti agli amici, ore di telefonate con Mazzacurati, pure l’ombra
dei soldi.
I verbali, in forma integrale, fanno parte di quella montagna di carte, 16 faldoni e 110mila
pagine, che racchiude tutta l’indagine veneziana. Letta al momento non è indagato ma
sarà sentito presto dai pubblici ministeri in qualità di testimone informato dei fatti. Ha tanto
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da spiegare. A cominciare dal perché gli uomini del Consorzio Venezia Nuova lo
considerassero, tutti, «l’assicurazione sulla vita» e «il direttore del traffico».
I DUBBI SUI SOLDI
Che Gianni Letta e il presidente Giovanni Mazzacurati siano molto vicini ormai lo sanno
anche i sassi. Rapporto curato «con grande gelosia», specifica Baita, «io non potevo
nemmeno avvicinarmi al sottosegretario». Ma di che pasta è fatto, tale rapporto? L’ex
amministratore della Mantovani, che dopo essere stato arrestato nel febbraio 2013 ha
cominciato a collaborare, alla domanda se siano mai state versate somme di denaro
direttamente a Letta, risponde così: «Non ne ho conoscenza, ma in ambito consortile è
sempre circolata la voce tra i soci che l’incarico di progettista unico affidato a Techintal,
società del Gruppo Mazzi, che era assolutamente fuori mercato, servisse a questo
scopo».
Bisogna capire chi è l’ingegner Alessandro Mazzi, in carcere da sei giorni, per seguire il
mosaico che sta ricostruendo Baita davanti ai pm, e il suo corollario di addebiti gravi sulla
presunta condotta di uno degli uomini chiave dell’ex governo Berlusconi. Mazzi è il titolare
della Grandi Lavori Fincost ed è entrato nella torta del Mose, con una quota del 30 per
cento, attraverso la Mazzi Scarl, di cui la Technital è una controllata. Ma soprattutto l’uomo
vanta, grazie alla famiglia, una «amicizia personale» con Letta. C’è però qualcosa che non
va, osserva Baita, in quel subappalto: «Technital nella vita
del Consorzio ha avuto incarichi per oltre 120 milioni di euro in progettazioni, addirittura a
tariffa maggiore della tariffa piena… come consorziati ci rimettevamo dei soldi». E lei non
si è andato mai a lamentare con Mazzacurati?, lo interroga il pm Stefano Ancillotto, che
con i colleghi Stefano Buccini e Paola Tonini, conduce l’inchiesta. «Sì, mi ha detto di non
rompere, che va bene così».
LE RICHIESTE DI GIANNI
Letta, per Mazzacurati, è il «direttore del traffico». Una sorta di Virgilio tra i dicasteri
romani. Accompagna, indirizza, segnala interlocutori. È il caso di Marco Milanese,
individuato quale gancio per arrivare a Tremonti e chiedergli di autorizzare lo sblocco dei
400 milioni del Cipe, di cui Baita ne ha spiegato così l’importanza vitale: «Per alimentare il
Consorzio, spese proprie, ci vogliono 72 milioni di euro all’anno, se il Cipe sta fermo un
giro è un guaio». Insomma, l’ex sottosegretario di Berlusconi offre all’amico le chiavi per
aprire le porte giuste nei ministeri che contano, l’Economia e le Infrastrutture. Tra i due
intercorrono centinaia di telefonate, raccolte dai finanzieri del Nucleo tributario di Venezia,
ma non utilizzabili ai fini del procedimento perché riguardanti un parlamentare.
Il contenuto, però, lo lascia intendere Baita, che con la sua Mantovani, colosso delle
costruzioni, è entrato nell’affare del Mose nel 2003, sostituendo l’Impregilo: «Dal dottor
Letta abbiamo avuto altre richieste, ma non di versamenti diretti di soldi. Lo so perché è
stato domandato a me di farvi fronte. La prima, modesta, di dare un subappalto a una
certa impresa di Roma, la Cerami. Gli abbiamo dato a Treporti un subappalto
praticamente senza ribasso, in perdita per noi. La seconda, di farci carico dell’esborso…».
La seconda pretesa che Letta ha – secondo quanto sostiene Baita – apre tutta un'altra
storia.
“FATE LAVORARE LUNARDI”
L’esborso, dicevamo. A vantaggio di chi lo chiede, Gianni Letta? «Mi pare fosse
inizialmente di un milione, successivamente di 500 mila euro – dice che era la somma che la Corte dei Conti aveva chiesto all’ex ministro Lunardi per l’Anas».
Baita ricorda un fatto reale. Pietro Lunardi, nel novembre 2006, in qualità di ministro delle
Infrastrutture è stato condannato dal tribunale contabile a risarcire personalmente 2,7
milioni, “responsabilità amministrativa”, per la rimozione dell’allora presidente dell’Anas
senza una delibera del Consiglio.«Praticamente – prosegue Baita – noi abbiamo dato a
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Lunardì 500mila euro non chiedendogli (all’azienda Rocksoil di cui Lunardi è proprietario,
ndr) il ribasso sulla tariffa su una progettazione per la prosecuzione dell’A27 Pian di
Vedoia-Caralte di Cadore».
Il magistrato vuole vederci chiaro, chiede lumi sul passaggio dello sconto. «La
progettazione – spiega Baita – è soggetta a tariffe professionali, ma non esistono, salvo il
caso Technital che le ho detto prima, incarichi dati senza chiedere uno sconto. Quello che
avremmo potuto chiedere (alla Rocksoil, ndr) sarebbe stato 500-600 mila euro». Sconto
che non ci fu, per fare un favore a Lunardi su richiesta di Letta. E il pagamento, a tariffa
piena, fu effettuato subito.
I CONTI DI INCALZA E IAFOLLA
Gianni Letta, è bene ribadirlo, allo stato dei fatti non è indagato. Ma i pm vogliono
approfondire qual è stato il suo ruolo in alcuni passaggi critici per la vita del Consorzio
Venezia Nuova, quale ad esempio quello dello sblocco dei fondi Cipe. Ha spinto anche lui
per ottenere il via libera dal ministero delle Infrastrutture? Si sa che Mazzacurati ha avuto,
anche attraverso Marco Milanese, dei contatti con chi poteva far pendere il piatto della
bilancia dalla loro parte, e cioè Ettore Incalza, il capo della struttura tecnica del ministero
allora guidato da Altero Matteoli, e Claudio Ia folla, che di Matteoli era il capo di gabinetto.
Entrambi non sono indagati, saranno però sentiti più avanti dai pm veneti, i quali
chiederanno l’autorizzazione per avere i flussi bancari di tutti gli alti funzionari del dicastero
delle Infrastrutture. Segnale che anche questa storia è tutt’altro che chiusa.
del 10/06/14, pag. 10
Tre ore dai magistrati, l’ira di Orsoni sul Pd
E poi siamo arrivati al casino organizzato. «Manca solo Alì Babà», «La vostra trasparenza
è come l’acqua dell’Oselin», che sarebbe un fiume molto inquinato di Mestre. Erano una
quindicina, armati di manifesti e cartelli dai quali risultava una certa fantasia negli slogan e
altrettanta aggressività. I soliti noti veneziani, motoscafisti abusivi, reduci dalle breve
stagione dei Forconi, scissionisti della Lega Nord, presenze abituali delle proteste contro i
campi rom.
Le loro telegeniche urla hanno coperto il vuoto pneumatico e l’indifferenza che gravava sul
primo consiglio comunale veneziano dopo l’arresto del sindaco Giorgio Orsoni. «Mai vista
così poca gente» diceva sconsolato Beppe Caccia dei Verdi, prima di scambiarsi qualche
manata con i contestatori. «Voi dove eravate quando abbiamo fatto le battaglie contro il
Mose? Dove eravate quando c’era il vostro Galan?». I solerti vigili urbani hanno evitato
scontri ancora più ravvicinati.
L’episodio vale soltanto come indicatore dell’attuale precarietà del governo cittadino, con
sindaco ai domiciliari e conseguente paralisi istituzionale, poca responsabilità nei fatti di
questi giorni a causa dei suoi scarsi poteri, ma pur sempre un simbolo sul quale lanciare
strali e rancori assortiti, tanto più oggi che risulta debole come non mai. A Ca’ Farsetti,
storica sede della giunta cittadina, va in scena la rappresentazione posticcia di una
indignazione che non c’è nei fatti. Le partite che contano, quelle vere, si giocano altrove.
Giorgio Orsoni è entrato in procura alle undici del mattino, per uscirne solo tre ore dopo,
proprio quando stava per cominciare la finta rissa nel suo ormai ex consiglio comunale. La
versione più accreditata di questo suo nuovo interrogatorio parla di un incontro di natura
quasi «istituzionale», con l’inoltro della richiesta di «poter gestire la misura con gli impegni
d’ufficio», ovvero il permesso di poter incontrare vicesindaco e assessori per mandare
avanti almeno l’ordinaria amministrazione della città. Ma c’è dell’altro.
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L’ormai ex sindaco considera chiusa la sua esperienza politica. Quel che gli interessa è
soltanto un rapido ritorno alla rispettabilità, camminare a testa alta per poter ricominciare il
suo lavoro di amministrativista. Orsoni è furioso con il Pd veneziano, non solo perché a
suo parere non gli avrebbe concesso neppure il beneficio del dubbio. All’origine delle sue
disgrazie, un finanziamento illecito da 450 mila euro, ci potrebbe essere qualcuno che sa
ma non dice. L’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati
racconta di otto diversi incontri mirati a determinate l’importo e le modalità di versamento
di un contributo alla sua campagna elettorale.
L’imprenditore sostiene di aver consegnato i soldi «in nero» a Ferdinando Sutto, ex
socialista, nei fatti il suo ufficiale pagatore, che gli avrebbe dati a un’altra imprecisata
persona incaricata di girarli al futuro sindaco, il quale sostiene di non averli mai ricevuti.
Ammesso e non concesso che Orsoni e Sutto dicano entrambi la verità, l’unica alternativa
possibile è quella di un emissario infedele. Il problema, secondo la sua difesa, non è quel
che ha ricevuto lui, ma qualcun altro a suo nome. Ieri in consiglio comunale si
scommetteva su un pesante intervento pubblico di Orsoni nei confronti del Pd, se e
quando tornerà a piede libero.
Gli umori sono questi, tendenti alla cupezza, in un clima di sospetti e paure. Difficile che il
sereno venga dalle prime, parziali ammissioni di indagati o arrestati, in una inchiesta che
sembra più si configura a cerchi concentrici. Ieri Patrizio Cuccioletta, ex presidente del
Magistrato alle Acque, accusato di aver incassato dal Consorzio uno stipendio annuale da
quattrocentomila euro e vacanze pagate in cambio di limitati controlli sull’attività del
concessionario unico del Mose, ha riconosciuto di aver ricevuto «qualcosa». Ma ha
aggiunto di averle sempre considerato quegli omaggi come «piccole regalie» che mai
avrebbero interferito con il suo lavoro. Giancarlo Galan ha invece fatto sapere di essere
pronto a rilasciare dichiarazioni spontanee davanti ai giudici. L’appuntamento potrebbe
essere per giovedì.
Ieri il consiglio comunale ha votato un ordine del giorno nel quale si chiede al governo una
Commissione d’inchiesta sulle attività del Consorzio Venezia Nuova, il suo scioglimento, il
superamento del regime di concessione unica e l’abolizione della figura del Magistrato alle
Acque. Ripartire da zero. Forse è l’unico modo per ritrovare l’onore perduto di una città.
del 10/06/14, pag. 13
“Abbiamo pagato tutti dal Pdl milanese a
Ghedini e Brunetta”
VENEZIA .
È un mare magnum di imbrogli e di mazzette. Ce n’è per tutti, centro sinistra, centro
destra. Milioni di euro di tangenti e di “finanziamenti” a singoli politici, soprattutto ed anche,
ai partiti. Un malaffare che durava da anni e che coinvolge il Consorzio del Mose sempre
pronto a creare fondi neri proprio per ingraziarsi i politici, regionali e nazionali. «Abbiamo
dato soldi — mette a verbale Piergiorgio Baita, braccio destro del “supremo “ Giovanni
Mazzacurati, nel corso dei suoi 5 interrogatori — a Forza Italia, al Pdl milanese, a
Giancarlo Galan, Niccolò Ghedini, Renato Brunetta, Pietro Lunardi, Altero Matteoli, Giorgio
Orsoni».
Dichiarazioni che scuotono i palazzi del potere romani. Ecco cosa racconta a proposito del
Pdl e della pratica, ormai chiara, della “retrocessione”, cioè lo storno di somme dai bilanci
attraverso le sovraffatturazioni: «Le richieste del Consorzio Venezia nuova continuavano
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ad aumentare. Si è presentata la società Bmc, con la quale eravamo venuti in contatto per
una questione di sostegno elettorale alla campagna del governatore Galan, dicendoci che,
oltre a fare le prestazioni di pubbliche relazioni, immagini e altre cose, loro erano in grado
di retrocedere somme in nero, mestiere che facevano normalmente per tutto l’entourage
politico del Pdl milanese, allora non so se si chiamasse Forza Italia o quello che era. Tanto
è vero che si presentarono accreditate dal segretario regionale del partito, che a quel
tempo era l’avvocato Ghedini. Quindi in quel momento, 2005-2006, cominciammo ad
integrare le retrocessioni derivanti dal sasso (un tipo di lavori effettuati sul Mose) con le
retrocessioni derivanti dal rapporto con Bmc. Questo fino al 2010».
E poi c’erano le elezioni. «Abbiamo sempre pagato le campagne elettorali a un sacco di
gente», confessa Baita, «ogni volta era un salasso... e l’ingegner Mazzacurati proponeva
un budget di fondi neri per ogni competizione, politiche, regionali, comunali». La
spartizione, ricorda l’ex amministratore delegato della Mantovani, «creava difficoltà al
Consorzio Venezia Nuova ed alla nostra impresa, che è tra i principali soci, perché
qualche candidato del partito disponeva di più mezzi di altri, perché pagavamo tutti ma
non pagavamo i partiti, e questo ha creato non pochi malumori a livello di segreterie dei
partiti, perché questi non vedevano arrivare una lira, così che alcuni candidati riuscivano
anche ad imporsi all’interno del proprio partito». La linea imposta da Mazzacurati era
dunque chiara: «Non pagare i partiti, ma le singole persone che avessero avuto una
probabilità di vincere per diventare deputati, sindaci ed altro…».
Baita, negli interrogatori, passa al dettaglio. «Ho pagato come socio la campagna
elettorale delle regionali del 2005 consegnando 200 mila euro alla signora Minutillo, che
lavorava col Presidente Galan, come contributo elettorale. Glieli ho consegnati all’Hotel
Santa Chiara di piazzale Roma a Venezia». Quindi i “contributi” al sindaco di Venezia
Orsoni che il Consorzio sosteneva e che fecero «arrabbiare tanto» il senatore Renato
Brunetta: «Abbiamo sostenuto una serie di costi elettorali per Brunetta, ma non gli ho dato
soldi in contanti». Ed aggiunge: «So che l’ultima campagna elettorale il Consorzio ha
chiesto 250 mila euro di budget. Il candidato su cui aveva puntato in modo preciso era
Orsoni».
Ci sono anche i “contributi” all’ex ministro Matteoli, prima all’Ambiente e poi alle
Infrastrutture. Secondo Baita i soldi a Matteoli arrivano attraverso l’imprenditore romano
Erasmo Cinque che «sui lavori fittizi che prendeva dal Consorzio pagava una tangente del
6 per cento, ed una volta a Matteoli — racconta Baita — furono consegnati 400 mila euro
in contanti». Baita è un fiume in piena, travolge tutto, nonostante i suoi avvocati gli
avessero consigliato di non farsi interrogare e di «andarsi ad operare al cuore» per evitare
il confronto con i magistrati. Mette dentro anche l’Expo di Milano. Fa riferimento a un
appalto che la Mantovani s’era aggiudicata e «che fece infuriare il presidente della
Regione Lombardia Formigoni perché noi eravamo fuori dal “mazzo” delle imprese che
partecipavano. Il governatore ci odiava, ha fatto una dichiarazione di fuoco il giorno dopo
che avevamo vinto».
Baita fa anche il nome dell’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, sostenendo che
Mazzacurati «aveva con lui un dialogo perché Parusso era l’uomo che Massimo Cacciari
aveva chiesto di mettere a Thetis. Poi c’è stato un momento di scontro molto violento con
Cacciari..». E sempre a proposito della Thetis Baita racconta che «Cacciari chiamò
Mazzacurati e gli disse di comprare le azioni dell’Eni in Thetis, sostituendosi all’Eni. Da
quel momento Thetis è stato il Consorzio bis, sottratto ai consorziati». ( f. t. e f. v.)
28
SOCIETA’
del 10/06/14, pag. 13
MAGHERINI TESTIMONI: “NON VOLEVANO
VERBALIZZARE I CALCI”
DEPOSITATE NUOVE DICHIARAZIONI CONTRO I CARABINIERI
A VARESE INVECE IL PM DEL CASO UVA FA MARCIA INDIETRO
E CHIEDE IL PROSCIOGLIMENTO DALL’ACCUSA DI OMICIDIO
di Silvia D’Onghia
inviata a Firenze
Appena Gabriele inizia a leggere “quello che Riky avrebbe voluto comunicarci”, nel teatro
del Cestello cala un silenzio irreale. Tutti ascoltano, in sala e nel vicolo laterale dove è
stata posizionata una cassa, per quanta gente è venuta. Le lacrime velano il volto degli
“amici del Maghero”, di chi lo ha conosciuto bene, perché con lui ha diviso la vita e le notti
che “ogni 30 secondi gli parte un treno”, e di chi è venuto a Firenze seguendo il richiamo di
quella pagina Facebook che in poco tempo ha sfondato quota 6000 adesioni. Soltanto i
bimbi, tanti, che siedono in braccio ai loro genitori o giocano in corridoio, stemperano con
le vocine allegre un pomeriggio di emozioni.
PERCHÉ Riccardo Magherini a San Frediano lo conoscevano tutti. “Questa era la sua
casa, è la nostra casa”, ripetono il fratello Andrea e la mamma, che ancora non ce la fa a
trattenere il pianto. “E a casa sua è morto”, la notte tra il 2 e il 3 marzo scorso, durante un
fermo dei carabinieri. Magherini, che il 17 giugno aveva compiuto 40 anni ed era padre di
Brando, un bimbo di due anni, quella notte aveva avuto un attacco di panico: si sentiva
minacciato da qualcuno e scappava chiamando aiuto. “Si è fermato in una prima pizzeria,
già chiusa – racconta Andrea – e per tentare di prendere un telefono ha dato una spallata
a una vetrina. Poi ha preso un cellulare a una ragazza proseguendo nella corsa”. Nel
frattempo qualcuno ha chiesto l’intervento dei carabinieri, che sono arrivati in quattro,
l’hanno bloccato a terra, ammanettato e chiamato un’ambulanza. Riccardo è morto con il
corpo a terra, dopo un massaggio cardiaco praticato ancora con le manette ai polsi. È
morto chiedendo aiuto, mentre qualcuno dalle finestre di questa via stretta a due passi
dall’Arno gridava: “Basta, fermatevi. I calci no”. Ieri sono state depositate in Procura le
dichiarazioni di due testimoni di quella notte: dalle loro parole, lette in teatro, emergerebbe
un atteggiamento intimidatorio dei militari. Una di loro racconta: “Mentre raccontavo dei
calci che gli davano, il carabiniere non scriveva: non sentivo il rumore dei tasti”; l’altra era
stata addirittura chiamata per quello che sarebbe dovuto essere il procedimento intentato
a carico di Magherini, denunciato – so - stiene il fratello – “a piede morto”. Eppure Andrea
e Guido ieri mattina sono andati alla Festa dell’Arma, “perché mio nonno era un
carabiniere, i loro valori appartengono al nostro Dna”. Che non sarà un processo facile la
famiglia di Riky lo sa bene. È proprio di ieri la notizia che a Varese, dove si celebrava
l’udienza preliminare nel processo sulla morte di Giuseppe Uva, il procuratore Felice
Isnardi – lo stesso che aveva preso in mano il caso dopo la sostituzione di Agostino Abate
e che aveva dichiarato, dieci giorni fa, di voler allargare il capo d’imputazione anche alle
ore passate da Uva in ospedale – ha fatto una clamorosa marcia indietro: richiesta di
proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintenzionale di un carabiniere (l’altro ha
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chiesto il giudizio immediato) e dei sei poliziotti imputati. Resta in piedi solo l’abuso di
potere.
SE C’È UNA SPERANZA in più di verità e giustizia sul caso Magherini rispetto a Uva,
Cucchi, Ferrulli e i troppi altri morti nelle mani dello Stato, è proprio la reazione delle
persone. Coloro che quella notte hanno visto, filmato, fotografato e coloro che, con
coraggio, hanno scelto di testimoniare. “Quello che è successo è stato riscritto da una
comunità che non si è girata dall’altra parte”, ha spiegato lo storico Adriano Prosperi.
Bastava guardare i volti di queste persone: uomini e donne, ragazzi e ragazze che hanno
deciso di non lasciare sola la famiglia Magherini e di restituire, al piccolo Brando prima di
tutti, l’immagine di un ragazzo allegro, solare, amante del calcio e delle donne, pieno di
vita. Che la vita l’ha persa quella notte, ammanettato a pancia nuda sull’asfalto con quattro
carabinieri intorno. Che la vita l’ha persa a San Frediano. A casa sua.
del 10/06/14, pag. 23
Uva, dietrofront della procura: “Forze
dell’ordine innocenti”
MASSIMO PISA
MILANO .
Proscioglimento per i reati più gravi: niente omicidio preterintenzionale, niente lesioni
dolose o percosse, nessun abbandono di incapace o arresto abusivo. Rinvio a giudizio per
abuso di potere. L’ultima svolta del caso Uva è un coup de théatre che rischia di essere
tombale per la battaglia di chi, da sei anni, sostiene che l’allora 43enne artigiano morì per
la notte di sevizie nella caserma dei carabinieri di Varese, e non per la somministrazione di
farmaci sbagliati al ricovero in ospedale.
Stavolta è il procuratore reggente Felice Isnardi a chiedere al giudice per le udienze
preliminari Stefano Sala di prosciogliere il carabiniere (un secondo ha chiesto il giudizio
immediato e andrà a processo) e i sei poliziotti delle volanti in ausilio che
portarono Pino Uva e l’amico Alberto Biggiogero al comando di via Saffi quella maledetta
notte tra il 13 e il 14 giugno 2008. Tace in aula Lucia, la sorella di Giuseppe, che stavolta
non ce la fa a commentare. Spiazzato anche Fabio Anselmo, il legale della famiglia:
«Decisione strana che ci ha colti di sorpresa, soprattutto tenendo conto che pochi giorni fa
lo stesso pm aveva addirittura aggiunto l’imputazione per percosse, che sarebbero
avvenute in un secondo momento in ospedale. Per me non se lo aspettavano neanche gli
imputati, ma si tratta delle richieste del pm, che non condividiamo, contiamo di portare al
giudice argomenti convincenti affinché gli accusati vengano rinviati a giudizio per tutti i
reati».
Se ne riparlerà in aula il 30 giugno, ma il passo indietro del procuratore Isnardi lascia il
segno. Perché arriva a nemmeno tre mesi dall’imputazione coatta ordinata dal gip
Giuseppe Battarino, che per la terza volta aveva bocciato la richiesta di archiviazione dei
pm Agostino Abate e Sara Arduini, da sempre convinti che nelle perizie e nelle
testimonianze sulla notte in caserma non c’erano gli elementi per accusare i due
carabinieri e i sei agenti chiamati a supporto di aver pestato o — peggio — violentato Uva.
E perché lo stesso Isnardi, dopo che i due pm avevano proceduto a incriminare gli otto
appartenenti, aveva avocato a sé il fascicolo per i «profili di illogicità e contraddittorietà
» nei capi di imputazione formulati da Abate e Arduini: intenzionalmente deboli, insomma,
perché alla colpevolezza non avrebbero mai creduto. Non ci crede più nemmeno il
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procuratore. E se il gup, come logica vuole accoglierà la sua richiesta, resteranno per
sempre le ombre sulla morte di Giuseppe Uva: le due ore in caserma, dalle 3 alle 5 di
notte, portati via con Biggiogero per aver tirato transenne in strada alla fine di una serata
alcolica, ma mai formalmente arrestato; la testimonianza dell’amico, che chiamò il 118
dopo aver udito colpi e grida nella stanza di fianco in caserma; l’ambulanza rifiutata dai
militari e il Tso richiesto un’ora dopo per i presunti gesti di autolesionismo di Uva; le
macchie di sangue al basso ventre ufficialmente attribuite a emorroidi; gli slip spariti e mai
trovati.
Del 10/06/2014, pag. 6
«Legge popolare da varare subito»
Eutanasia. L’appello dell’Associazione radicale Luca Coscioni a Camera
e Senato. Ferma a Montecitorio da mesi, con 65 mila firme. Mentre
aumentano gli italiani che vanno a morire in Svizzera
Eleonora Martini
Sessantacinquemila firme raccolte dal Partito Radicale, quindicimila in più del necessario,
ma la legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia è ancora ferma al
palo. In nome del popolo ignorato, come aveva titolato il manifesto quasi tre mesi fa. E nel
silenzio totale dei media di massa. Negli ultimi giorni, però, si è tornati a dibattere
sull’argomento grazie a un paio di medici coraggiosi – il professor Mario Sabatelli, neurologo responsabile del centro Sla del Policlinico Gemelli, e Giuseppe Maria Saba, già ordinario di Anestesiologia e rianimazione all’Università di Cagliari e alla Sapienza di Roma –
che hanno avuto il coraggio di raccontare ciò che tutti sanno, e cioè che anche nelle corsie
di ospedale italiane l’eutanasia passiva è prassi consolidata da anni, ben lungi dall’essere
in contrapposizione col codice deontologico dei sanitari.
E ieri, mentre Carlo Troilo, consigliere generale dell’Associazione radicale Luca Coscioni,
ha rivelato di essere stato diretto testimone di pratiche eutanasiche applicate in ospedali
pubblici della capitale, i suoi compagni di partito, Marco Cappato, Filomena Gallo e Mina
Welby, con una lettera aperta ai membri delle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia
di Camera e Senato hanno chiesto la calendarizzazione urgente della proposta di legge
popolare «Rifiuto dei trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia» che giace dal 13 settembre scorso a Montecitorio senza che sia stata avviata nemmeno la discussione.
È della scorsa settimana l’appello lanciato da alcuni familiari di persone malate che hanno
vissuto il dramma del suicidio — Francesco Lizzani, Chiara Rapaccini, Carlo Troilo e Mina
Welby — perché si legalizzi ciò che nel nostro Paese avviene nella completa clandestinità.
«Ogni anno nei reparti di terapia intensiva 20 mila malati terminali muoiono con l’aiuto dei
medici, quasi sempre con l’assenso dei familiari. Sono i dati di uno studio del 2007
dell’Istituto Mario Negri di Milano — spiega Carlo Troilo — anche se nessuno ne parla perché sia la stampa che la politica sono ferme su questo argomento. In Italia quindi si registrano ogni anno 20 mila casi di eutanasia clandestina e il 67% dei malati terminali
è accompagnato dal proprio medico». «Il moltiplicarsi dei segnali che arrivano dalla
società, che si aggiungono all’invito esplicito del Capo dello Stato ad affrontare il tema del
fine vita, confermano l’urgenza di un dibattito parlamentare — scrivono nella lettera i dirigenti radicali dell’Associazione Coscioni – In particolare, le difficilissime condizioni nelle
quali sono chiamati ad operare i medici rendono necessario l’avvio di un’indagine conoscitiva sul “Come si muore in Italia” per raccogliere informazioni su come le scelte individuali
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dei pazienti e medici influiscono sul processo del morire, anche in comparazione con ciò
che accade all’estero». In effetti, il numero di italiani «che muoiono in esilio» in Svizzera,
dove il suicidio assistito è regolamentato, è in continuo aumento, come spiega Emilio
Coveri, presidente di Exit Italia, associazione «per il diritto a una morte dignitosa».
Coveri racconta di ricevere «circa 40 telefonate alla settimana di persone disperate» e che
da gennaio a maggio di quest’anno la sua associazione ha raddoppiato gli iscritti. «Nei
primi cinque mesi del 2014 — spiega Coveri — sono almeno 14 le persone che si sono
recate in Svizzera. E in 29 hanno fatto domanda di attivazione della procedura di morte
volontaria assistita per i tre centri elvetici: Dignitas di Zurigo; Exit international di Berna
e Lifecircle di Basilea». Ma in Italia la politica latita. Forse aspetta che ancora una volta sia
un giudice a riconoscere il diritto a scegliere per sé una «dolce morte».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 10/06/14, pag. 1/32/33
Obama “La mia America verde”
THOMAS L. FRIEDMAN
QUANDO si parla di come affrontare il problema dei cambiamenti climatici e le sfide
energetiche, ho una regola semplice: se si riesce a cambiare le cose in America,
cambieranno anche nel resto del mondo. Se l’America introdurrà parametri energetici più
stringenti, non solo i Paesi che si sono nascosti dietro la nostra inazione faranno
altrettanto, ma la nostra industria sarà stimolata a inventare più sistemi di aria pulita e
risparmio energetico. Ecco perché le nuove regole dell’Agenzia per la protezione
dell’ambiente (Epa), proposte dal presidente Obama la settimana scorsa per ridurre le
emissioni di anidride carbonica delle centrali elettriche, sono così importanti. Mentre era
impegnato a elaborarle, ho intervistato il presidente Obama. Ecco i passaggi più
significativi del nostro colloquio. Innanzitutto, Obama è consapevole che non possiamo
continuare a bruciare petrolio, carbone e gas naturale finché non si esauriranno.
COME ha detto l’Epa, «di qui al 2050 potrà essere consumato al massimo un terzo delle
riserve accertate di combustibili fossili»: in caso contrario, la soglia di aumento della
temperatura media di 2 gradi Celsius sarà largamente superata. Ho chiesto a Obama se
fosse d’accordo. «La scienza è scienza», ha detto. «E non c’è dubbio che se bruciassimo
tutto il combustibile fossile che c’è sottoterra, il pianeta si riscalderebbe troppo e le
conseguenze sarebbero drammatiche ».
Perciò non possiamo bruciarlo tutto?
«Nel modo più assoluto. Nei prossimi decenni dovremo costruire una rampa che ci porti da
come usiamo l’energia adesso a come dobbiamo usarla. Non smetteremo
improvvisamente di usare combustibili fossili, ma dobbiamo abbandonare gradualmente
i combustibili fossili sostituendoli con fonti energetiche che non rilasciano anidride
carbonica. Credo moltissimo nella necessità di non superare la soglia dei 2 gradi
centigradi».
Perché allora, si domandano gli ambientalisti che la sostengono, continua a
sbandierare le esplorazioni che stanno facendo gli Usa per trovare nuovi giacimenti
di petrolio, carbone e gas naturale?
«Bisogna venire incontro alle persone. Negli ultimi cinque anni abbiamo attraversato una
pesante crisi economica. Se una persona in questo momento non sa se troverà un lavoro
o riuscirà a pagare le bollette, la prima cosa che vuole sentire è che cosa sto facendo per
risolvere il suo problema. Una delle cose più difficili in politica è riuscire a convincere una
democrazia ad affrontare un problema ora quando i benefici si vedono nel lungo termine o
le ripercussioni negative del non agire sono distanti decenni. Cerchiamo di fare passi
avanti, partendo dalla consapevolezza che è impossibile convincere la gente ad
abbandonare le macchine che consumano, perché l’auto elettrica è troppo costosa».
Tutte le mattine i servizi segreti la aggiornano sulle minacce globali: fanno la stessa
cosa per le minacce all’ambiente?
«Sì. John Holdren, il consulente scientifico, mi fa delle presentazioni quando ci sono dati
nuovi. Dimostrano che lo stress ambientale ha effetti sulla politica estera e interna. Per
esempio, gli incendi boschivi stanno consumando una quota sempre più elevata del
bilancio del dipartimento dell’Interno. Ma la cosa che più mi preoccupa sono le gravi
implicazioni nei Paesi più poveri. È ovvio che siamo preoccupati per la siccità in California,
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o gli uragani e le inondazioni lungo le nostre coste. Ma se si pensa al fatto che il
cambiamento del clima può provocare ondate di profughi, al rischio che nascano conflitti,
si vede che è un problema molto serio. È anche per questo che la revisione quadriennale
della strategia di Difesa, ha inserito i cambiamenti climatici tra i problemi di maggior rilievo
per la nostra sicurezza nazionale ».
Quattro anni di siccità in Siria hanno contribuito a scatenare l’insurrezione perché il
governo non fece niente per la popolazione. Cosa succederebbe se ci fosse un’altra
siccità prolungata dopo che metà della nazione è stata distrutta?
«Dà un’idea di cosa succede nei Paesi che ce la fanno a stento. I margini di errore in
questi Paesi sono ristretti. Quando la gente è affamata ed è costretta a fuggire dalla
propria abitazione, quando tanti giovani vanno alla deriva senza prospettiva per il futuro,
finisce per crearsi un terreno di coltura ideale per il terrorismo. E questo può avere un
impatto su di noi».
Che cos’è che ancora l’America non ha fatto, e che dovrebbe fare, per affrontare i
cambiamenti climatici?
«Imporre un prezzo alle emissioni. Non puoi continuare a rovesciare questa roba
nell’atmosfera e farne pagare il costo a tutti gli altri. Perciò mi piacerebbe fissare un prezzo
alle emissioni di anidride carbonica. C’è una chiara resistenza da parte dei Repubblicani
su questo tema. E anche parte dei Democratici è preoccupata, perché in certe aree del
Paese l’industria pesante e le vecchie centrali elettriche sono fondamentali per l’economia
locale. Sono ancora convinto, però, che rendere evidente il prezzo dell’inazione, alla fine
scoraggerà questo genere di attività ».
Come si inserisce in questo quadro il gas naturale? Dopo tutto, ha lati positivi e lati
negativi. Il gas naturale emette solo la metà dell’anidride carbonica che emette il
carbone quando viene bruciato, ma se non si adottano le necessarie precauzioni al
momento di estrarlo dal suolo, il metano (un gas serra più potente dell’anidride
carbonica) può fuoriuscire dal terreno, e tutti i vantaggi di questo combustibile
verrebbero meno.
«Il gas naturale è un ponte utile per andare da dove siamo adesso a dove speriamo di
arrivare: a quando avremo in tutto il mondo economie basate interamente sulle energie
pulite. Gli ambientalisti hanno ragione a preoccuparsi del rischio di emissioni di metano se
la cosa non viene fatta come si deve. Perciò bisogna introdurre dei parametri per le
compagnie estrattive, e fare in modo che tutti li rispettino. Questo non significa
necessariamente che dev’esserci una legge nazionale. Può bastare che una serie di Stati
e le aziende del settore lavorino di concerto per fare in modo che l’estrazione di gas
naturale avvenga in sicurezza».
Non le viene mai voglia di prendersela con i parlamentari che negano i cambiamenti
climatici?
«Sì. È frustrante, quando hai di fronte i dati scientifici. Si può discutere sul come, ma non
si può discutere su quello che sta succedendo. La scienza è chiarissima.. E se vuoi essere
un leader di questo Paese, in questo momento della nostra storia, non puoi non
riconoscere che questa sarà una delle sfide più importanti sul lungo periodo, forse la più
importante tra quelle che questo Paese e il pianeta devono fronteggiare. La buona notizia
è che forse i cittadini sono più avanti dei loro rappresentanti, perché vedono quanto costa
ricostruire dopo uragani come Sandy o fare i conti con la siccità in California, e quando
queste cose cominciano a moltiplicarsi, allora cominciano a pensare: “ Voglio premiare i
politici che parlano di questo problema in modo sincero e serio”. La persona che io
considero il più grande presidente di tutti i tempi, Abramo Lincoln, era coerente quando
diceva: “Con il sostegno dell’opinione pubblica non c’è niente che non possa fare, senza il
sostegno dell’opinione pubblica non c’è niente che possa fare”. Parte del mio lavoro nei
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prossimi due anni e mezzo, e anche oltre, sarà cercare di spostare l’opinione pubblica. E il
modo per farlo è richiamare l’attenzione sul fatto che se noi non faremo niente, per i nostri
figli sarà molto più dura».
Il trucco è trovare l’equilibrio giusto tra far capire alle persone che il problema è
urgente, ma non dare l’impressione che sia insolubile, per evitare che dicano: “Se la
fine è vicina, tanto vale far baldoria”.
«La cosa più importante è tenere la guardia alta contro il cinismo. Voglio fare in modo che
quelli che guarderanno questo programma non arrivino alla conclusione che allora siamo
tutti condannati e non possiamo farci niente. Possiamo far tantissimo. Non sarà rapido,
semplice o elegante come ci piacerebbe, ma se ci impegneremo a fondo dei progressi
sono possibili».
( © 2-014 New York Times News Service Traduzione di Fabio Galimberti)
Del 10/06/2014, pag. 6
A giudizio Erri De Luca, «per reato
d’opinione»
No Tav. Per l’accusa le sue frasi sul sabotaggio della Torino-Lione sono
«istigazione a delinquere». Il processo si aprirà il 28 gennaio
Mauro Ravarino
La decisione arriva in tarda mattinata: s’ha da processare il poeta. E così sia. Erri De Luca
viene rinviato a giudizio dal gup torinese Roberto Ruscello per istigazione a delinquere. Lo
scrittore è accusato di avere – in un’intervista – incitato al sabotaggio del cantiere della
Torino-Lione, in Val di Susa.
Il processo si aprirà il 28 gennaio. L’ennesimo che riguarda l’opposizione al Tav, come se
quest’opera fosse solo un argomento da aule di tribunale. Il giudice Ruscello ha così
accettato la richiesta dei pm Andrea Padalino e Antonio Rinaudo che, dopo la querela di
Ltf (la società di gestione della tratta transfrontaliera), avevano contestato allo scrittore
questa frase: «La Tav va sabotata. Le cesoie sono utili perché servono a tagliare le reti».
Secondo il sostituto procuratore Rinaudo: «Si tratta di un giudizio finalizzato a condizionare l’agire di un altro». A Torino, si arriva al punto di evocare il reato di opinione. E, poco
dopo il rinvio, Erri De Luca digita sul suo profilo Facebook alcune parole: «Mi metteranno
sul banco degli imputati e ci saprò stare. Vogliono censurare penalmente la libertà di
parola. Processarne uno per scoraggiarne cento: questa tecnica che si applica a me vuole
ammutolire. È un silenziatore e va disarmato». Lo scrittore de Il peso della farfalla non fa
marcia indietro sulle sue affermazioni, in una recente intervista a Repubblica De Luca
dove aveva precisato: «Non ho mai fatto l’esaltazione del sabotaggio. Ho semplicemente
detto che quell’opera in Val di Susa va sabotata per diverse ragioni che tutti conoscono
bene…». Tuttora difende il diritto d’opinione, la libertà di parola e il proprio sostegno ai No
Tav. Invita, infine, i magistrati di Torino a indagare i piani alti del Tav, piuttosto che «perseguitare il movimento». È amareggiato il legale di Erri De Luca, l’avvocato Gian Luca Vitale:
«Pensavamo non dovesse essere processato, ora cercheremo di dimostrare che non deve
essere condannato. Ne discuteremo in dibattimento». Uscendo dall’aula in cui si è tenuta
l’udienza preliminare, Vitale ha ribadito: «Le parole di un intellettuale non possono costituire reato». E ha aggiunto: «Il giudice ha ritenuto utile un accertamento dibattimentale, ma
noi continuiamo a essere convinti che questo sia un processo alle parole e dimostreremo
tranquillamente che questa non è stata un’istigazione a delinquere». Di tutt’altro tenore il
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commento di Alberto Mittone, legale di Ltf, costituitasi parte civile, che si dice invece «soddisfatto» del rinvio a giudizio, perché «è quello che chiedevamo».
A favore dello scrittore si erano espressi intellettuali e artisti italiani, da Fiorella Mannoia ad
Ascanio Celestino, da Luca Mercalli al padre comboniano Alex Zanotelli fino ai Wu Ming,
sottolineando come «le parole non si processino ma si liberino». In occasione della prima
seduta dell’udienza preliminare si erano, inoltre, svolti in diverse città presidi con letture
pubbliche dei testi di De Luca.
Ieri, è prevalsa la posizione dei pm che nella scorsa udienza avevano sostenuto: «Al barbiere di Bussoleno possiamo perdonare se dice di tagliare le reti, a un poeta, a un intellettuale come lui, no». Critico sulla decisione del gup, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione: «Continua e si inasprisce sempre di più la criminalizzazione del dissenso, tutti quelli
che non appoggiano la Tav finiscono “menati” o denunciati. Ai magistrati di Torino suggerisco di occuparsi piuttosto del malaffare legato alle grandi opere come la Tav, invece che
processare chiunque esprima il proprio no ad un’opera inutile e dannosa».
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ECONOMIA E LAVORO
del 10/06/14, pag. 31
CHE COSA ALIMENTA LA DISOCCUPAZIONE
LUCIANO GALLINO
NON è affatto vero che lo Stato spende troppo e bisogna quindi tagliarne le spese per
tornare sul terreno virtuoso dello sviluppo. È vero invece che lo Stato spende troppo poco
rispetto a quanto incassa, venendo così a mancare all’impegno di restituire ai cittadini le
risorse che da loro riceve. Il danno maggiore questo squilibrio lo reca all’occupazione. Di
fatto, da quasi due decenni la disoccupazione è spinta in alto dal fatto che lo Stato preleva
ogni anno dal reddito degli italiani decine di miliardi in più di quanti non ne restituisca loro
in forma di beni e servizi, mentre per lo stesso motivo l’economia è spinta in basso.
Stando ai dati del ministero dell’Economia sul bilancio dello Stato relativi al 2013, ad
esempio, lo Stato stesso ha imposto ai cittadini di versargli 516 miliardi in forma di tributi e
altro. Però ha messo in conto di spendere a loro favore, sotto forma di spese correnti (al
netto degli interessi sul debito) e in conto capitale, soltanto 431 miliardi. La differenza a
scapito dei cittadini è di 81 miliardi. Le previsioni, stando ai dati ufficiali del bilancio dello
Stato, sono anche peggiori. Per il 2014 esse dicono che ai cittadini saranno sottratti 55
miliardi, rispetto a quanto loro dovuto, che saliranno a 86 nel 2015 e a 104 nel 2016.
I governi in carica degli ultimi vent’anni e la maggior parte dei media sono riusciti a
diffondere nella popolazione l’idea insensata che la spesa dello Stato serva quasi soltanto
a mantenere un po’ di burocrati dei quali non si vede bene che lavoro svolgano. In realtà la
spesa dello Stato è costituita dagli stipendi di insegnanti e medici, ricercatori e forze
dell’ordine; da un fiume ininterrotto di acquisti di beni e servizi; da investimenti
infrastrutturali come scuole e ponti, argini dei fiumi e tutela dei beni culturali. Sottrarre a
tutto ciò decine di miliardi l’anno significa per l’intera economia un colossale salasso,
insieme con una forte spinta alla disoccupazione, perché ogni stipendio o salario speso in
consumi crea altri stipendi o salari, e ogni acquisto di merci, materiali o servizi serve a dar
lavoro a qualcuno. Se vengono tagliate o soppresse le risorse che equivalgono,
direttamente o indirettamente, a parecchie centinaia di migliaia di posti di lavoro, i risultati
sono quelli drammatici che ormai riempiono le cronache.
Il suddetto squilibrio tra le maggiori risorse sottratte agli italiani e le minori risorse ad essi
restituite sotto forma di beni e servizi si chiama, nel linguaggio della contabilità, “avanzo
primario”. Da questo punto di vista l’Italia è il paese più virtuoso d’Europa. Infatti nessun
altro paese europeo fa registrare da così tanti anni un avanzo primario così elevato.
Sarebbe forse il caso di cominciare a riflettere se questo primato supposto positivo non
abbia qualche relazione con un altro primato sicuramente negativo: il tasso di
disoccupazione, giovanile e non, visto che a parte casi marginali come Irlanda o Grecia,
quello italiano, in piena sintonia con l’andamento dell’avanzo primario, risulta pur esso il
più alto d’Europa.
Dobbiamo far fronte all’onere del debito, si obbietterà, e per ridurre questo serve appunto
un crescente avanzo primario. Di certo gli interessi sul debito sono colossali. Quasi 90
miliardi nel 2013, più di 93 previsti per il 2014, mentre quasi 97 e poco meno di 99 figurano
nel bilancio di previsione dei due anni successivi. Il punto è che il debito, al pari della
possibilità di ripagarlo, sono fortemente influenzati dall’andamento dell’economia. Se lo
Stato insiste nel sottrarre sistematicamente ad essa varie decine di miliardi l’anno, dopo
averli tolti dal portafoglio dei cittadini che in tal modo non li possono spendere, lo Stato
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stesso comincia ad assomigliare a un maratoneta che per correre più in fretta si spara sui
piedi.
Quanto al debito, si può osservare che a forza di asfissiare l’economia perseguendo un
avanzo primario sempre più elevato, con relativa caduta della domanda aggregata
(consumi più investimenti) perché il cosiddetto “avanzo” assorbe risorse sia pubbliche che
private (che sono i soldi sottratti ai cittadini con le imposte e non restituiti in veste di beni e
servizi), lo Stato italiano potrebbe essere ormai caduto nella spirale infernale dell’interesse
composto. Sebbene sia difficile scomporre contabilmente i due elementi, l’irrefrenabile
aumento del debito a fronte di spese dello Stato stagnanti induce a sospettare che lo Stato
sia costretto a prendere a prestito denaro non solo per pagare gli interessi sul debito, ma
pure per pagare gli interessi sugli interessi – che è appunto l’inferno in cui cadono sovente
coloro che contraggono prestiti da qualche usuraio. In forza della spirale dell’interesse
composto, combinata con le politiche economiche regressive che questo governo appare
perseguire come tutti i precedenti dalla fine degli Anni 90, il debito pubblico italiano appare
ormai impagabile.
Proviamo a tirare le fila. Dopo quasi due decenni in cui il tenace perseguimento di un
sempre crescente avanzo primario si è accompagnato a un disastroso aumento della
disoccupazione; una situazione dell’economia che appare in complesso gravemente
deteriorata; un rilevante aumento del debito pubblico, più un cospicuo incremento
dell’interesse sul debito, parrebbe giocoforza riconoscere che la strada sin qui seguita è
del tutto sbagliata. Trovare alternative non sarà facile, tenuto anche conto che i burocrati
di Bruxelles e i maggiori governi Ue non sembrano avere imparato niente dal risultato delle
recenti elezioni per il Parlamento europeo, per cui continuano a battere e ribattere sui loro
rugginosi – e ormai pericolosi – chiodi del pareggio di bilancio e simili. Quanto a idee
provocatorie: se i 55 miliardi di avanzo primario previsti per il 2014 venissero spesi per
assumere subito 3 milioni di disoccupati e metterli al lavoro in numerose opere di interesse
collettivo – una tra tante: la messa in sicurezza delle scuole, ad esempio, visto che se ne
parla – qualcuno può essere sicuro che l’economia, l’occupazione e la questione del
debito andrebbero peggio di quanto non stiano andando al presente?
Del 10/06/2014, pag. 1-5
Alitalia: «2200 esuberi». Senza ritorno
Il piano . L’ad Del Torchio anticipa l’accordo con Etihad: niente cig a
rotazione né solidarietà. Sindacati contrari. Cisl: «Ci convocano per
dirci cosa?». Cgil: «Mobilitazioni». E intanto pare che Malpensa si salvi
Antonio Sciotto
<<Oltre 2.000 persone, 2.200 esuberi strutturali: queste persone purtroppo devono uscire».
La notizia arriva come un flash, in mezzo alle altre agenzie: da poco sono passate le 13,
e il pranzo è rovinato per molte famiglie. L’amministratore delegato di Alitalia, Gabriele Del
Torchio, con le sue parole ha diradato tutti i dubbi (e le speranze) che ancora si addensavano intorno al tema «esuberi»: molti speravano che si potessero affrontare con la cassa
a rotazione e la solidarietà, strumenti che di solito si utilizzano in vista di un rientro, ma
niente da fare. Gli arabi di Etihad hanno dettato le loro condizioni: biglietto di sola andata
per 2.200 lavoratori. E la compagnia italiana, insieme al nostro governo, sembra semplicemente averne preso atto.
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«C’è l’assoluta necessità per Alitalia e le altre compagnie di passare attraverso un complesso, doloroso e faticoso processo di ristrutturazione», ha continuato Del Torchio. E poi,
riferendosi alle persone in uscita: «La posta in gioco sono le oltre 11 mila che resteranno»,
l’accordo con Etihad «ci permetterà di affrontare con maggiore serenità il futuro».
L’impegno, per chi verrà lasciato senza lavoro, ha ancora aggiunto l’ad della compagnia,
è quello di «trovare opportuni meccanismi e forme di tutela». Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che già qualche giorno fa aveva lui stesso anticipato il numero dei 2000–2200
esuberi (facendo capire che c’era un ok implicito del governo Renzi), ha confermato questa linea: «Il problema degli esuberi si sapeva essere presente», e «quindi va affrontato».
Intanto sono state confermate le cifre dell’investimento di Etihad: «560 milioni, per rafforzare la compagnia», ha detto Del Torchio, che ha parlato di «qualche settimana per concludere gli accordi». Cercando poi di fugare gli appunti che potrebbe muovere la Ue: «È
un progetto che vedrà il mantenimento della maggioranza dell’azionariato in Italia,
o meglio in Europa perché abbiamo Air France come socio». «Non stiamo vendendo la
compagnia ai potenziali partner di Abu Dhabi, ma vogliamo allearci con loro».
Insomma, la strada sembrerebbe del tutto in discesa, se non si mettessero in mezzo i sindacati: che per oggi, per “discutere” il piano (in pratica sembra più un “prendere
o lasciare”), sono stati convocati dai ministri del Lavoro Poletti e delle Infrastrutture, Maurizio Lupi. «Cosa ci convoca a fare un amministratore delegato che mette le carte sul
tavolo… dei giornali?», si chiede infatti Giovanni Luciano, segretario generale della Fit
Cisl. «Occorrerebbe più rispetto. Per le persone interessate e per chi le rappresenta. Questi esuberi, oggi fanno un lavoro inutile o sono a spasso? Poi perché 2.200? Come si
arriva a questo numero? Dovrebbe essere tutto correlato al nuovo piano industriale e non
così a prescindere». «Chiedere sacrifici sempre agli stessi può portare a scontri molto
duri», conclude la Cisl. Dura anche la reazione della Cgil: «Del Torchio si sbaglia di
grosso, nel merito e nel metodo», dice Mauro Rossi della Filt Cgil. «Mentre sono ancora in
corso le interminabili trattative con le banche, lui dà per inevitabili oltre duemila licenziamenti. Non mi viene in mente un aggettivo diverso da “scorretto”, con riferimento al bombardamento mediatico sugli esuberi attivato da ieri dall’ad di Alitalia». Claudio Di Berardino, Cgil Lazio, annuncia una possibile «mobilitazione» anti-esuberi. Intanto, se da un
lato si è alzata la tensione sul destino del personale, dall’altro pare essersi calmato il
fronte Malpensa:ieri il ministro Lupi ha incontrato il governatore della Lombardia Roberto
Maroni e il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. «Come scritto nel Piano nazionale degli
aeroporti – ha spiegato Lupi – Malpensa è l’unico scalo strategico del Nord-Ovest per il
quale il piano Alitalia-Etihad prevede il passaggio da 11 a 25 delle frequenze settimanali
dei voli intercontinentali a lungo raggio, con un incremento annuale dei passeggeri
a 550.000». Nei due scali, come anche a Venezia, «arriverà l’alta velocità ferroviaria».
E Malpensa inoltre «vedrà un forte sviluppo del cargo, con l’obiettivo di farlo diventare
l’hub europeo del settore».
Del 10/06/2014, pag. 15
La Cgil batta un colpo, bisogna cambiare
passo
Mirco Rota, Massimo Braccini
Subito dopo le elezioni, il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, parlando di pensioni
ha affermato di «non essere d'accordo con una diminuzione dell'età pensionabile, ma
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piuttosto con un graduale aumento ». Secondo il ministro del governo Renzi, nel paese in
cui in questi anni, da parte dei precedenti esecutivi, sono state introdotte le peggiori norme
pensionistiche di tutta Europa, sarebbe ancora possibile intervenire per peggiorarle.
Affermazioni gravi ed irresponsabili, considerando la situazione del paese, dove i
disoccupati continuano ad aumentare e quasi un giovane su due non trova lavoro. Così
facendo non si risolve nulla, ma si peggiora quanto di negativo oggi c’è. Sulle pensioni le
parole del ministro confermano una sola novità da parte di questo governo rispetto ai
precedenti; la furbizia di parlare dopo le elezioni e non prima, come spesso accaduto, ma
la logica e la sostanza non cambiano. La crisi non la si affronta con le solite fallimentari
ricette che colpiscono il mondo del lavoro: il diritto ad andare in pensione con una
retribuzione dignitosa dopo un numero congruo di anni deve essere garantito. Lo stato
sociale ed i diritti dei lavoratori hanno rappresentato e rappresentano la miglior forma di
progresso civile. Se questo governo intende realmente cambiare segno alle politiche
precedenti, proponga investimenti pubblici e una riduzione degli orari di lavoro. A breve
scadranno anche gli ammortizzatori sociali quali la Cassa integrazione guadagni
straordinaria in deroga, cosa che comporterà un ulteriore aumento dei disoccupati, che si
andranno ad aggiungere agli oltre 9 milioni di persone in difficoltà per le carenze di lavoro
o per la precarietà. Il paese sta sempre più aumentando i livelli di diseguaglianza e spetta
allo stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono alle
persone di essere uguali, come recita l'articolo 3 della nostra Costituzione. Dopo la
liberalizzazione del mercato del lavoro attraverso il decreto Jobs Act, il rischio di nuove
manovre sulle pensioni, la disoccupazione e la disuguaglianza dilagante che rischiano di
mettere in discussione la stessa democrazia formale, è necessario che la Cgil cambi
passo e avvii una vertenza generale, avendo un proprio progetto autonomo e lottando per
realizzarlo nell'interesse dei lavoratori, disoccupati, precari e pensionati. Bisogna cercare
allora una strategia per affrontare le trasformazioni di un’epoca così traumatica che sta
investendo interi segmenti di popolazione. È una sfida, quella che riguarda il mondo del
lavoro, prima vera emergenza nazionale, che va colta subito e senza indugi, contrastando
le politiche del Moloch del pensiero unico, che vedono nel neoliberismo e nell'austerity le
uniche forme possibili di declinazioni per restare a galla. Serve altresì avviare una
discussione democratica interna sul ruolo del sindacato, che non deve ingerirsi in
questioni di calcolo e di alchimia partitica, ma deve concentrarsi sulla perdita del potere
delle retribuzioni, sui contratti di solidarietà, sulle misure a sostegno dei licenziamenti. Su
questi temi un sindacato autorevole, che non teme di essere subalterno rispetto alla
politica, deve far sentire la propria voce, senza esitazioni, rivendicando anche la creazione
di lavoro vero, non precarizzato in forme permanenti, senza nulla cedere sul piano della
legalità, come purtroppo potrebbe avvenire per Expo 2015. Le strade seguite da altri paesi
(Germania in primis) indicano che si può addivenire anche ad un progressivo decremento
dell’età pensionabile, nonché alla rimodulazione della Legge Fornero, che ha dimostrato
tutte le sue falle, con la creazione di un esercito di esodati e l'allontanamento di fasce
sempre crescenti di giovani dal tessuto occupazionale e produttivo che dovrebbe fare da
spina dorsale al sistema paese. Il governo individui piuttosto le giuste coperture finanziarie
per non eludere il problema ed eviti di fare cassa massacrando lo stato sociale, com’è
stato fatto in passato.
Mirco Rota è segretario generale Fiom Cgil Lombardia
Massimo Braccini è segretario generale Fiom Cgil Toscana
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