A cura di Giorgina B. Piccoli
Interviste di Francesca Bechis
Fotografie di Saverio Colella
STORIE
TECA Edizioni
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In copertina:
abbiamo proposto a Patrizia Rosso, che sta scrivendo in questi giorni la storia della sua vita, di
comparire sulla copertina: questo è il nostro augurio per lei e per il suo libro che verrà, ed è anche
un invito a tutti coloro che hanno partecipato o che leggeranno questo libro se non a scrivere,
almeno a pensare che anche la loro è una storia che merita di essere raccontata.
A cura di Giorgina B. Piccoli
Interviste di Francesca Bechis
STORIE
Fotografie di Saverio Colella
Al professor Antonio Vercellone,
maestro della medicina come arte.
Introduzione
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Questo libro nasce dall’amicizia e dalla necessità.
E’ l’amicizia che mi ha fatto conoscere e apprezzare molte
persone e molte storie, alcune delle quali sono state raccolte
in questo libro. E’ per amicizia che ho chiesto di raccontarle,
ed è per amicizia che sono state raccontate.
Man mano che questo lavoro cresceva, al primo nucleo di interviste se ne sono aggiunte altre ed il significato dell’amicizia si è
ampliato a comprendere anche il rapporto partecipe ed affettuoso tra medico e paziente. Il secondo gruppo di interviste,
infatti, è stato condotto grazie ai colleghi del Centro Trapianti,
che hanno cercato di identificare altre persone le cui storie integrassero quelle già raccolte, nel tentativo di fornire un quadro il
più possibile vario della vita con la dialisi e col trapianto renale.
A tutti va il nostro ringraziamento.
Questo libro nasce anche dalla necessità.
La necessità è quella di chi, medico come me, trova arduo spiegare ai propri pazienti una serie di problemi e di difficoltà ma
anche di soluzioni, che non coinvolgono solo gli aspetti più tecnici della terapia, ma anche le ragioni che ne sono alla base.
Credo che leggere queste storie possa servire, più di molte parole difficili, a trasmettere, più che spiegare, alcuni aspetti fondamentali del vivere con la dialisi e con il trapianto renale; e
credo anche che la necessità di capirli sia comune ai medici, ai
pazienti e a tutti coloro che si interessano, per una curiosità
umana e priva di pregiudizi, alla vita in condizioni molto particolari, come può essere quella con la dialisi o con il trapianto di
rene.
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Il fatto che le persone intervistate, partendo dalla malattia,
siano spesso giunte a parlare di tutta la loro vita, la dice lunga
su molte cose. Alcuni spunti verranno recepiti in modo diverso da ognuno. Altre considerazioni meritano di essere dette
apertamente: come i pazienti non si debbano arrendere e come
i medici debbano ricordare sempre di avere davanti delle persone e non soltanto dei difficili casi clinici e come per chiunque, vicino o lontano dalla malattia, sia importante avvicinarsi a questa con la mente sgombra da preconcetti.
Abbiamo scelto il titolo “Storie”, ed abbiamo deciso volutamente
di tralasciare ogni riferimento alla malattia o al suo trattamento,
proprio perché, rileggendo queste interviste, ci siamo resi conto, con stupore ma anche con piacere, che le storie raccolte non
erano e non volevano essere dei semplici racconti di malattia
ma che, partendo da questa, finivano per diventare dei ritratti di
persone nella cui vita la malattia aveva sì un ruolo cruciale, ma
che non si riducevano affatto ad una cronistoria clinica.
Ci sembrava perciò che parlare di “storie di dialisi e di trapianto
renale” sarebbe stato riduttivo e non avrebbe reso giustizia alla
grande fatica che chi ci ha raccontato la propria esperienza ha
compiuto per conquistare una vita piena e ricca, nonostante le
limitazioni della malattia.
Giorgina B. Piccoli
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Prologo
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Giuseppe Segoloni
Abbiamo pensato di inserire la sua intervista, come
responsabile del Centro Trapianti di Torino, all’inizio del libro
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per commentare, in particolare riguardo al trapianto, il significato di questo approccio all’istruzione attraverso l’esperienza.
Abbiamo scelto questo approccio di raccolta di esperienze
dirette, incentrate in particolare sul trapianto renale, perché
il trapianto di rene non è un salvavita, è un qualcosa che si
ricerca per vivere meglio, ed è difficile che risultati puramente clinici possano spiegare il “vivere meglio”. Il trapianto può essere valutato in diverse maniere: per valutare l’efficacia delle terapie abbiamo dei parametri precisi ma, dato
che il trapianto si fa perché il paziente viva meglio, credo
che solamente la sua interpretazione o quella della sua famiglia su cosa è successo possano darci un peso di questo.
Sovente gli obiettivi che scegliamo per la valutazione clinica
sono un po’ grossolani: la sopravvivenza del paziente e del
rene oppure il livello della creatinina. L’impatto che ha avuto
il trapianto sulla vita dei pazienti noi in genere non lo valutiamo, ed uno dei motivi della scelta di questo lavoro è proprio
l’impressione di esserci talvolta sbagliati: un punteggio molto
buono che noi daremmo, da un’ottica clinica, ad una situazione magari andrebbe rivisto, perché al paziente pesano alcuni
aspetti della vita col trapianto renale.
Sicuramente chi si occupa del trapianto è convinto che questo
sia meglio della dialisi, e forse per alcuni aspetti lo è; nei casi
singoli però non siamo sempre così sicuri del bilancio e sono
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convinto che non teniamo assolutamente conto, anche nel trapianto che va bene, di quanto questo sia costato al paziente.
Noi medici consideriamo i trapianti che vanno bene come
dei trapianti riusciti, dei successi.
Però anche dove il bilancio netto è positivo, c’è una parte di
sofferenza che non è assolutamente trascurabile e, forse, in generale, il trapianto è un po’ più destabilizzante della dialisi.
Questo tipo di approccio all’istruzione ha un enorme vantaggio
perché è una specie di “candid camera”, è una presa diretta che
dà una verità soggettiva. È chiaro che questo va maneggiato come
si maneggia un dato emotivo, è un’esperienza personale che segnala, per esempio, delle trappole che per altri non ci sono: è
probabile che le esperienze negative, vissute da un individuo, da
altre persone non sarebbero state percepite come tali.
Quindi il materiale raccolto è una fotografia molto più simile
al paesaggio reale che il paziente si troverà, perché molto
più dettagliata ed articolata delle abituali considerazioni che
vengono fatte in ambito ospedaliero. Quando noi medici diamo un’informazione in genere la diamo più schematica.
Credo che dovremmo usare molta cautela quando sentiamo delle esperienze di trapianto troppo favorevoli. Deve esserci un
taglio nel fare proprie queste esperienze. Con cautela, ma forse
meno, vanno viste anche le esperienze negative. Chi le racconta
così forse le ha vissute in maniera più drammatica di altri.
In ogni caso, i trapianti che vanno bene e non danno mai nessun
problema sono una minoranza. Temo che in alcuni casi anche le
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esperienze che vengono raccontate come positive dimentichino
alcuni momenti difficili: il trapianto può dare un grande benessere ma non tutti i momenti, specie all’inizio, sono di gioia. Il
trapianto è sempre qualcosa di serio: bisogna tenere molto in
conto i dati negativi per non avere delusioni. E’ chiaro poi che
tutti speriamo che vada bene per sempre, ma quella che è secondo me la cosa più triste da sentire è il paziente che dice: “Se
l’avessi saputo non l’avrei fatto”. Questa frase la consiglio come
“cautela per la lettura”: ci sono pazienti che oggi stanno bene
che mi hanno detto, magari al quarantesimo giorno dal trapianto, una frase di questo genere, altri, che oggi non la ricordano,
l’hanno detta il primo giorno; magari era clinicamente
ingiustificata, ma chi l’ha detta l’ha certamente sofferta.
Questo non dovrebbe mai succedere.
Il trapianto ha questa caratteristica: quando ci sali sopra è un
nastro-trasportatore, è un treno, non puoi scendere. Una persona che ha delle titubanze o che non sa cosa l’aspetta rende
tutto più difficile, il vissuto personale e la gestione clinica.
Dovendo dare un consiglio direi: cautela nel maneggiare tutti
questi dati, guardare con uno spirito critico le esperienze troppo
positive, tenere conto di quelle negative senza drammatizzare,
perché può essere che qualcuna sia un po’ esasperata, tener
conto che il nemico peggiore è il senso di delusione.
Non bisogna vedere, anche se può essere molto seducente, il
trapianto come una fuga dalla dialisi: il trapianto è un’opportunità che in genere va molto bene, ma bisogna affrontare anche la
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spiacevolissima eventualità di dire: “Se il trapianto va male cosa
faccio?”
Nel rivedere le interviste ci siamo resi conto che questo testo
potrebbe essere utile sia per i medici, talora poco abituati a
fare mente locale sull’esperienza diretta e su sfaccettature individuali, sia per chi non ha esperienza diretta e apprende dai
giornali informazioni in genere trionfalistiche sul trapianto e
deprimenti sulla dialisi. Come vede questo aspetto?
Direi che questo è uno strumento di formazione poco convenzionale, che può permettere in poco spazio di cambiare alcune
delle idee che uno si fa leggendo i giornali: è uno strumento
prezioso perché porta delle esperienze dirette ed induce a delle
riflessioni completamente nuove, proprio per questo taglio non
di parte, perché non è fatto da chi fa i trapianti, ma da chi li vive.
Venendo ai consigli per chi inizia, chi comincia la dialisi
deve sapere di potere fare un trapianto quando vuole, in un
tempo ragionevole, ma non dovrebbe essere spinto da una
compulsione verso il trapianto. Da un punto di vista clinico-scientifico, un certo periodo di dialisi al massimo può
facilitare il trapianto: può essere discutibile fino a che punto
lo faciliti o meno, ma di certo, almeno per qualche anno, la
dialisi non danneggia la futura riuscita del trapianto.
Fare il trapianto senza passare attraverso la dialisi, dato che il
trapianto può non andare bene, e questo va ribattuto, è molto
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pericoloso, soprattutto dal punto di vista psicologico. Ritornare
alla dialisi dopo un trapianto fallito, che è stato vissuto come
fuga dalla dialisi, è una delle situazioni in assoluto più brutte.
Credo che, proprio perché il trapianto ha un suo carico di difficoltà e non è comunque mai una strada in discesa, anche per
quelli che dicono “splendido” avere un punto di riferimento
sicuro su che cosa è la dialisi possa aiutare a superare molti
problemi. E’ una questione di termini di paragone: al trapianto rispetto alla vita normale si dà una valutazione, rispetto alla
dialisi se ne dà un’altra; in ogni caso l’anticamera della dialisi, ad oggi, è quasi fisiologica.
La corsa in avanti verso il trapianto addirittura prima della
dialisi andrebbe bene se l’esperienza del trapianto fosse di
successo al cento per cento. Ad oggi, purtroppo non bisogna
dimenticare che il trapianto, soprattutto nel primo anno, crea
dei problemi non indifferenti di vita, di riabilitazione, di vincoli (ad esempio di esami due-tre volte la settimana).
Tra i pazienti intervistati due hanno scelto, almeno per adesso,
di non fare il trapianto. E’ possibile dare un consiglio sulla
durata ottimale della dialisi pre-trapianto?
La paura che hanno molti è sulle lunghe attese che li aspettano, una volta presa la decisione.
Quando una persona fa un tipo di scelta a favore della dialisi,
questa merita il massimo rispetto, anche perché corrisponde in
genere ad una situazione dialitica particolare (in tutti e due i casi
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si trattava di pazienti che gestivano direttamente e bene la propria
malattia).
In generale, mentre stare in dialisi una decina d’anni non comporta un cambiamento significativo nelle condizioni cliniche,
almeno per un soggetto giovane, quello che può capitare dopo
i dieci anni di trattamento non è molto prevedibile.
Non credo che sia giustificato, dal punto di vista clinico, sollecitare una persona a stare oltre dieci anni in dialisi, anche se
sta bene; d’altra parte, se però una persona dopo dieci anni sta
bene in dialisi e non si sente di affrontare una diversa avventura, vuol dire che si è strutturata e che ha raggiunto la “complementarità psicologica” al trattamento.
In effetti, ci sono delle situazioni in cui il trapianto può andare
meno bene psicologicamente che clinicamente. Leggevo, per
esempio, che negli USA, dove sono un po’ più drastici, molte
persone sole hanno vissuto delle sindromi da abbandono pazzesche dopo il trapianto: infatti, molte persone trovano nella dialisi un punto di socialità e quando, una volta fatto il trapianto,
vengono seguiti in ambulatorio, perdono un momento di incontro intorno a cui hanno strutturato molti aspetti della propria
vita. Ci sono persone che da trapiantate non hanno più niente,
hanno difficoltà a reinserirsi, perdono gli amici di prima...
La paura dell’attesa è forse oggi eccessiva, i tempi si sono decisamente accorciati, però chi si avvicina al trapianto spesso lo fa
correndo, pensando di avere più opportunità se si mette in lista
d’attesa alla prima dialisi.
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Questa situazione di lunghe attese attualmente è cambiata. La
mia sensazione è che si stia andando verso l’omogeneizzare il
più possibile le attese. L’espansione del trapianto da vivente
porterà probabilmente ad un accorciamento ulteriore dei tempi. Credo che queste lunghe attese, che appartengono soprattutto al passato, non debbano oggi più spaventare.
I farmaci che stiamo usando potranno verosimilmente permettere di adottare dei criteri più elastici per quello che riguarda
la compatibilità; questo miglioramento sicuramente contribuirà
a ridurre le attese troppo lunghe.
Per quanto riguarda l’aspetto clinico, certamente è meglio fare il
trapianto in una persona giovane; visto anche il successo della
dialisi, probabilmente oggi non vale la pena andare a trapiantare
in fasce di età estreme, oltre i sessantacinque-settanta anni.
Il trapianto comunque è una cosa in più, non è una cosa “al
posto” della dialisi: è un completamento, un’integrazione ottimale,
a condizione che il paziente lo voglia, sia preparato, sappia cosa
lo aspetta e lo paragoni con la dialisi e non con una vita del tutto
senza restrizioni, altrimenti corre il rischio di un fallimento, almeno psicologico.
La conoscenza della dialisi è molto importante, la dialisi è una
piattaforma da cui partire, una terapia di cui sappiamo dire
cosa accadrà il giorno dopo, molto scandita, programmata,
prevedibile. Il trapianto, almeno all’inizio, è un momento di
caos ed il suo decorso è molto meno prevedibile.
Non bisogna avere paura della dialisi, perché è una grossa ruota
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di scorta per il trapianto e non viceversa: saltare psicologicamente la fase della dialisi è molto pericoloso in questo senso.
Per questo motivo, avrei molta paura del trapianto predialisi, ci
darebbe probabilmente delle delusioni.
Se il paziente ha provato la dialisi, questa esperienza dà al fatto
di avere un trapianto una valenza più favorevole; non bisogna
però dimenticare che ci sono dei momenti in cui è molto meglio
vivere con la dialisi piuttosto che con un trapianto zoppicante.
In ogni caso, proprio nella loro storia, dialisi e trapianto sono
integrati fra loro; viene da dire “Per fortuna che ci sono”, e
viene da dirlo al plurale: il grande successo del trapianto
renale è proprio l’esistenza della dialisi.
Una cosa che spesso colpisce i pazienti è la sensazione del progresso nel tempo; per questa ragione alcuni hanno l’idea che
l’attendere il trapianto non sia necessariamente un male, perché permette un’ulteriore evoluzione delle conoscenze.
Credo che questo sia vero. È come quando si vuole comprare
un computer e si decide di aspettare un po’ perché poi esce il
tipo nuovo che va meglio.
Per chi ha avuto uno o più trapianti falliti è una situazione da
prendere in considerazione con molta attenzione.
Sicuramente chi è trapiantato oggi ha migliori possibilità rispetto a dieci anni fa; questa considerazione può probabilmente
servire per vivere l’attesa in modo meno drammatico.
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Questo discorso è vero soprattutto dove c’è una buona dialisi.
Oggi una dialisi ben condotta permette non un “parcheggio”
ma il trascorrere una parte della propria vita in buone condizioni, che poi il trapianto potrà ancora nettamente migliorare.
Ritornando al libro delle Storie, che sviluppi pensa ci possano
essere per questo tipo di testo?
Mi piacerebbe continuare a proseguire in questa linea, inserendo anche altre situazioni, per rendere questo libro, o altri
analoghi, ulteriormente articolati e aggiornati, perché non diventino datati. Questo approccio potrebbe diventare un golden
standard d’informazione, potrebbe essere dato non solo ai pazienti che giungono all’ambulatorio pre-trapianti, ma a tutti
coloro che entrano in dialisi.
Mi piacerebbe, ad esempio, che per i pazienti che vengono in
ambulatorio a fare la visita pre-trapianto ci fosse una casella
con su scritto “ha letto il libro”: anche egoisticamente, a noi
operatori toglierebbe un sacco di problemi. Sapere che il paziente ha letto il libro rende sicuri dell’informazione avvenuta
e permette di approfondire in modo produttivo le conoscenze.
Il nostro sistema informativo si concentra nella visita, ma in
questa occasione il paziente spesso non recepisce tutto quello
che diciamo, perché è emozionato, non ha nessuna base su
cui piantare delle informazioni o su cui chiedere delle cose
importanti, dei chiarimenti, dei dubbi.
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È importante che il paziente arrivi con delle informazioni già
interiorizzate perché sappia dove orientarsi e quali domande
fare; la lettura di esperienze dirette permette di conoscere anche dei particolari o dei punti di vista che noi probabilmente
non gli diremmo mai. Nel nostro centro, anziché un consenso
informato generico, farei leggere questo libro e considererei la
sua discussione come forma di informazione e di consenso.
Una raccolta di informazioni così poco tecnica può poi essere
utile anche in altri campi...
Per esempio come mezzo di sensibilizzazione al trapianto ed
alla donazione di organo, ma anche per fare capire che essere
malati non è un buon motivo per essere discriminati.
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Storie
Maria C.
Sono Maria C. Ho iniziato a far dialisi a undici
anni e a quindici anni ho avuto il trapianto.
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Quindi ho cominciato questa storia abbastanza giovane. Sono
stata trattata qui a Torino perché all’inizio, quando mi sono
ammalata, all’ospedale di S. non facevano la dialisi.
E’ stata una fortuna che sia arrivata qua da bambina, appena
ricoverata mi hanno messa in dialisi e ho cominciato a vivere
così, non c’erano altre possibilità. Certo che l’impatto con la dialisi non è stato dei migliori, però a quell’età uno la prende anche
un po’ come viene, anche perché non si sa bene a che cosa si va
incontro. Devo dire che sono stati molto gentili in ospedale e poi,
dopo qualche mese, sono andata a far dialisi in un Centro ad
Assistenza Limitata. Lì è andata molto meglio, perché si faceva
tutto da soli, si montava la macchina, si preparava il filtro, ultimamente mi bucavo anche da sola. Capire il funzionamento della
macchina mi ha aiutata molto. Io ho sempre fatto una vita normale, con gli amici, andavo a scuola.
Poi, per fortuna, a quindici anni è arrivato il trapianto.
Qui non li facevano ancora e ho dovuto andare a Bruxelles. Il
trapianto è andato bene, ho avuto soltanto due rigetti che sono
stati curati subito. I primi due anni ho avuto qualche problema,
poi, con i soliti alti e bassi, nell’insieme è sempre andato bene.
Questa primavera, sono vent’anni che ho fatto il trapianto.
La cosa più bella è che il trapianto mi ha permesso di avere un
bambino, che adesso ha nove anni. Io lo consiglierei a tutti, dal
mio punto di vista.
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Quello che conta non è solo la terapia in sé e per sé, sono anche
le persone che ti sono attorno, i genitori, gli amici, anche i medici e gli infermieri, tutti quelli che ci sono qui. E’ anche, certo,
una questione di carattere; un altro magari reagisce in un altro
modo.
E’ chiaro che ci sono dei problemi anche con un trapianto che
va bene: a volte mi sono sentita anche a disagio. All’inizio, ad
esempio, a Bruxelles sono stata parecchio, perché ho fatto due
rigetti: uno dopo quindici giorni dal trapianto; non avevo ancora
finito quello che già iniziava l’altro. Quindi sono stata via settanta giorni, ma quasi tutti in ospedale: poi vent’anni fa c’erano
anche altre tecniche, essere all’estero è tutta un’altra cosa rispetto a stare a casa.
Mi sono trovata bene come ospedale, perché c’è una certa serietà, come qui del resto, però è così lontano; bisogna sempre allontanarsi da casa. Anche tre anni fa ho avuto un’altra operazione e
sono stata su tre mesi. Mio figlio era a casa, aveva solo cinque
anni ed ha patito abbastanza. Spero che adesso non capiti più,
però purtroppo quando c’è qualcosa che non va sono obbligata a
dirlo e va a finire che devo andare lassù.
E’ chiaro che devo dire tutti i problemi ai medici che mi seguono, poi se c’è qualcosa che non va, non mi obbligano, ma in
genere mi consigliano di andare a Bruxelles. Sono ben seguita
comunque, e da due parti. Il giudizio è positivo sia per questo
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ospedale che per l’altro. Qui mi hanno salvata una volta, quando
ho cominciato a far dialisi. Laggiù ho fatto il trapianto...
Quando ho avuto il bambino hanno fatto di tutto, tutti insieme.
Chiaramente mi hanno consigliato di andare a partorire lassù,
e io sono andata. Però è andata benissimo.
Ci sono stati periodi di alti e bassi, come per tutti.
Il periodo più bello è stato quello in cui ho avuto il bambino.
Prima di tutto il trapianto e poi il bambino.
Ho saputo che c’era gente che aveva avuto figli dopo il trapianto e
non si era trovata bene.
Io non ho niente da ridire su tutto. Se non ci fossero state tutte
queste cose, io a undici anni non avrei potuto più vivere.
Io non ho mai preso male la dialisi, perché anche se ero giovane ho capito che se non ci fosse stato quello ….
Per il trapianto non so neanche io se ero contenta di farlo, oppure no. Sono andata così perché sembrava che fosse una cosa
quasi naturale da fare. Poi per fortuna è andato tutto bene, e
speriamo continui. Certo che ci sono delle altre cose che a volte
danno dei problemi, il fegato, ad esempio: per forza, prendendo
tutti questi farmaci per il trapianto non c’è da aspettarsi tanto,
ma l’importante è che andiamo sempre avanti.
Con le ricerche che si stanno facendo c’è sempre più possibilità
di migliorare ancora.
A chi inizia adesso la dialisi direi di prenderla come qualcosa che
fa continuare ad andare avanti, anche se non è bella, però non si
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può fare niente altro. Direi di darsi una scrollata, di continuare la
vita di sempre, anche perché la dialisi non è più quella di una
volta, hanno fatto tante cose anche in questo campo.
Lo so che uno non si sente bene, anch’io quando uscivo dalla
dialisi il giorno dopo stavo maluccio. Ho fatto dialisi per quattro
anni ma sono andata a scuola, uscivo con gli amici, mi divertivo
anche un po’, non ci pensavo tanto.
Non bisogna buttarsi giù. E poi per i giovani c’è il trapianto, c’è
una possibilità reale. A me è andata bene subito, ho visto persone che hanno fatto due-tre trapianti prima di sistemarsi.
Certo è facile a dirsi ma non a farsi. Quando qualcosa non va, sei
sempre lì col magone, “adesso cosa succederà?”. Però bisogna
andare avanti, se non per se stessi si va avanti per la famiglia.
A volte si ha proprio voglia di lasciarsi andare, però c’è sempre
chi sta peggio di noi.
Forse non è una cosa giusta, però la si pensa.
Secondo me le persone che sono intorno, la famiglia, gli amici
non dovrebbero far sentire la persona malata; io per esempio
non mi sono mai sentita malata. Io ho un disturbo, ho qualcosa
che non funziona, però il termine “malato” non mi è mai andato
giù. Mio marito e gli altri mi dicono sempre che devo reagire,
non mi compatiscono quando ho qualcosa che non va.
Ho visto tanti anziani che vivono benissimo in dialisi, fanno la
loro vita normale. Certo bisogna prendere la vita come viene,
d’altra parte non so chi sia senza problemi oggi, tutti ne hanno
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qualcuno; a noi è toccato questo. Adesso mi preoccupo più
per la mia famiglia che non per me. Forse è questo che aiuta.
Claudio ha nove anni, va a scuola, non sopporta la matematica. Si sta informando sulle professioni, se bisogna studiare, se
c’è tanta matematica, se si guadagna bene, se ci sarà lavoro.
Beh, aspettiamo ancora quattro o cinque anni.
E’ alto e un po’ grassottello, adesso gioca a basket. Poi è molto
sensibile, quando vengo a fare gli esami è sempre in agitazione. Non ha neanche più due anni, ormai sa tutto.
E dice tutto fiero: “Io sono nato a Bruxelles”.
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Luciano S.
Ho quarantanove anni, faccio dialisi da ventun anni e due mesi.
La mia malattia è iniziata improvvisamente, almeno per quello
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di cui mi sono accorto; sono stato ricoverato alle Molinette per disturbi vari: alito cattivo, spossatezza e niente altro. Sono entrato in ospedale qualche giorno prima della vigilia di Natale, dopo due giorni ho
fatto la fistola ed il giorno di Natale la prima dialisi alle Molinette.
Sono stato dimesso senza altri problemi connessi alla malattia esattamente alla fine delle vacanze di Natale.
Allora io avevo ventinove anni ed insegnavo italiano e storia alle
medie. Quando mi hanno dimesso, mi hanno detto di andare subito
a scuola e mi hanno invitato a continuare a fare la vita di prima.
Questo mi è servito molto, sono stato curato bene anche dal punto di
vista psicologico dall’équipe del professor V. Ho patito le prime dialisi fatte alle Molinette, poi mi hanno prospettato la possibilità ed
anche invitato caldamente, vista la carenza dei posti dialisi, a scegliere la dialisi domiciliare. Questo perché ero in condizioni di salute
buone, a parte la dialisi, ed avevo una persona disponibile, che allora
era mia madre. Così sono passato in corso Vittorio, dove è iniziato il
primo vero training, completato poi al centro di corso Regina.
Un po’ per volta le mie condizioni sono nettamente migliorate; all’inizio ero molto debole ma, continuando a lavorare, sono tornato abbastanza in forze in fretta e la dialisi non mi è più pesata.
Sono andato a dializzare a casa dopo circa otto-nove mesi; all’epoca
le tecniche dei monitor e della preparazione della dialisi erano piuttosto rudimentali, specialmente in rapporto ai moderni macchinari
più sofisticati. Negli anni dopo sono stato sempre bene e addirittura
per alcuni anni ho potuto diminuire anche il numero di sedute
dialitiche, che ora sono però tornate allo standard normale, cioè tre
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alla settimana. Anche grazie al fatto che sono stato per diversi anni
in dialisi una sola volta alla settimana, ho potuto completare sia la
vita lavorativa che quella affettiva. Ho potuto fare i concorsi e sono
passato di ruolo e dalle medie alle superiori. La mia promessa sposa
ha accettato di continuare a stare con me, dopodiché mi sono sposato ed abbiamo avuto anche due bambini, che oggi hanno tredici ed
undici anni.
In dialisi continuo a trovarmi discretamente bene, ovviamente non è
più come prima: dopo vent’anni si è più deboli, si cambia di carattere,
si è più stanchi, gli anni passano e secondo me la loro velocità è il
doppio di quella di una persona che non è in dialisi. Tuttavia, non
avendo altri problemi e sopportando bene la dialisi, ormai sono così
abituato a questa vita che non ho ancora deciso per il trapianto, anche
perché ritengo che sia un passo molto impegnativo cui pensare bene,
un traguardo che, protratto nel tempo, offre probabilmente maggiori
garanzie. Finché potrò condurre un’esistenza normale, come sto facendo, con nessuna privazione, dato che continuo ad avere un residuo
di diuresi e non ho problemi di potassio o di dieta, penso di rinviare il
trapianto, che ovviamente non escludo, ancora di qualche anno, se è
possibile. Non mi sono ancora iscritto in lista trapianto.
Ho potuto fare dialisi in giro, anche se non ci muoviamo molto.
Durante le ferie ho fatto dialisi in diversi posti italiani ed a
Montecarlo e mi sono sempre trovato bene.
Ritengo sia molto importante conoscere sia i mezzi tecnici sia il decorso della malattia. Penso, per esperienza, che si debbano ascoltare
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le imposizioni dei sanitari, cosa su cui prima di ammalarmi ero molto
scettico. Ultimamente sono un po’ preoccupato, perché mi pare di
aver percepito che la dialisi domiciliare sia un po’ trascurata ed
emarginata; questo mi pare un grave peccato.
Non ho dializzato a casa per i periodi in corrispondenza della nascita dei figli e sono tornato in corso Regina qualche tempo, oppure sono dovuto ogni tanto rientrare in centro per motivi tecnici,
come cambi del monitor, che sono stati tre o quattro, o per interventi come il rifacimento della fistola e la paratiroidectomia.
Io non sono partito con l’idea del trapianto, anche perché vent’anni fa
era molto più aleatorio di oggi. Sicuramente il trapianto fatto oggi, e
con l’équipe di Torino, è una buona meta. Però non credo che si
debba pensare subito al trapianto, un periodo in dialisi dà la possibilità di rinforzarsi fisicamente e di capire come funziona, anche perché un trapianto fatto da giovane non è detto che durerà in eterno.
Bisognerebbe scandire la terapia nel corso di quella che si spera
sia una lunga vita, sia pure da nefropatici. La dialisi non mi ha
condizionato eccessivamente, se non per i viaggi, cui però non ho
mai tenuto molto. Si può fare una vita normale come prima, specialmente se si è in dialisi domiciliare, che si può gestire secondo
orari e criteri che meglio giovano.
Io vorrei solo aspettare ancora qualche anno, anche per eventuali
innovazioni tecniche e poi, dopo venti-venticinque anni di dialisi,
penso che un trapianto possa dare un pochino più di slancio. Bisogna
pensare che il trapianto non è qualcosa di definitivo, non sempre
dura una vita. Si sa che dopo un periodo di tempo, più o meno lungo
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a seconda della fortuna, uno ritorna poi da capo. Mi pare che quella
del trapianto sia una carta da giocare con intelligenza e con scrupolo.
Io non sono ancora convinto di farlo perché penso che i rischi siano
notevoli, non solo rischi tecnici ma anche derivati dal donatore; poi
la terapia è pesante, si chiude un armadio di medicinali e bisogna
aprirne un altro. Penso che sia stressante controllare sempre che
questo rene funzioni e mi pare che sia molto più rilassante la dialisi
che il trapianto.
Della mia esperienza di dialisi domiciliare non posso proprio lamentarmi; all’inizio, anche se i mezzi erano molto più arretrati,
bisognosi di attenzione e rischiosi, sono stato molto felicemente
impressionato da come eravamo seguiti sia fisicamente che psicologicamente. Auspico che ritorni un analogo impegno.
Vedo dei problemi soprattutto all’inizio, quando si è un po’ frastornati
e bisogna organizzare la casa e coinvolgere un partner. A parte
questo, non penso che ci siano poi vere controindicazioni; dializzare
a casa è sicuramente meglio perché si può gestire e capire meglio
la malattia ed è meno stressante, tanto più se uno vive anche lontano dal centro dialisi e deve avere per una vita sempre quell’orario preciso, inderogabile.
Quando, invece, si dializza a casa, si può cambiare orario ed essere
molto più elastici. Anche all’inizio, quando i macchinari erano primitivi, non ho mai corso dei pericoli veri e propri, anche se abbiamo avuto
degli incidenti, ad esempio è capitato che il monitor si guastasse durante la dialisi, oppure che il filtro fosse fallato o si rompesse.
Bisogna considerare queste quattro ore di dialisi come una tranquilla
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routine, che si fa come qualsiasi altra attività nel corso della settimana. Spesso penso al momento della dialisi con attesa felice, perché
finalmente per quattro ore mi metto lì, nessuno mi disturba e faccio
quello che voglio, guardo la televisione, magari mangiando, se voglio ricevo gente, ma quasi sempre preferisco stare da solo.
Adesso preferisco i passatempi come la televisione o la lettura,
invece all’inizio, quando ero molto più attivo ed impegnato, correggevo i compiti e davo persino ripetizioni. Io presentavo la situazione agli allievi e nessuno si è mai impressionato.
Bisogna però tenere sempre presente che il fisico non è più quello
di prima, si deteriora e si invecchia molto più precocemente, ma
dalla vita non si può avere tutto.
Se dovessi consigliare chi inizia dialisi oggi, direi di tenere conto
dei giudizi dei dottori; io, ad esempio, quando avevo visto tutte le
medicine che mi erano state prescritte ho subito pensato di non
prenderle. Poi, proprio un domiciliare mi aveva fatto capire che
invece non se ne poteva fare a meno.
Direi di mettersi nelle condizioni di accettarla, come si deve accettare qualsiasi altra cosa spiacevole che può capitare nella vita.
Inoltre, direi di impegnarsi il più possibile nel cercare di capire e
gestire la dialisi, nell’essere al corrente di tutto, chiedendo ai sanitari. Infine, suggerirei di continuare a fare l’attività di prima,
anche se costa fatica.
In effetti, quanto più si fanno i lavori abituali, anche faticosi, tanto
più si guadagna anche dal punto di vista del benessere fisico,
anche se nell’immediato bisogna sforzarsi.
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Generalmente, il giorno dopo la dialisi sono sempre molto stanco,
anche perché finisco sempre molto tardi, però, una volta vinto l’impatto con il mattino, la giornata prosegue abbastanza bene.
Ho fatto anche lavori pesanti dal punto di vista fisico perché, contemporaneamente all’insegnamento, avevo un’azienda agricola. La
differenza era che, mentre prima della dialisi potevo lavorare per
un’ora o due senza alzare la testa, ora devo fermarmi per respirare
più di frequente.
All’inizio, nei primi mesi di dialisi, mi sentivo spesso molto giù,
non perché avessi problemi connessi all’uremia, ma perché avevo
avuto la pressione molto alta per molto tempo. Una volta ridotta la
pressione su livelli più normali, per diverso tempo mi è capitato di
non riuscire quasi a stare in piedi, facevo fatica anche a lavorare.
Poi, dopo qualche mese ancora, la situazione si è assestata anche
da quel punto di vista, e in dialisi il vomito e la pressione bassa,
che mi dava sempre il rischio di collasso, sono passati.
Il fatto di iniziare dialisi in emergenza è stato certamente un dato
negativo. Avevo sentito parlare in televisione della dialisi e dei reni
che non funzionavano, ma non sapevo la cosa più dura da digerire,
quello che chiesi a S. che, alla domanda “Per quanto tempo devo
fare la dialisi?” rispose “Per sempre”. Così ho dovuto fare buon viso
a cattiva sorte. Il fatto positivo è stato invece che non ho avuto il
tempo di piagnucolarmi addosso o di fare delle diete spossanti.
Posso dire che, relativamente alla situazione, è andata bene.
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Davide e Patrizia C.
Davide: Mi chiamo Davide C., ho quasi quarantatré
anni e sono un medico.
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Sono arrivato a Torino quasi quindici anni fa, praticamente in
concomitanza con l’inizio della dialisi. In realtà è stato anche un
po’ a causa della dialisi che mi sono trasferito qui.
Nel frattempo, da quando sono arrivato a Torino, mi sono laureato e ho cominciato a lavorare, prima a gettone, in modo saltuario, poi stabilmente. Finita l’università mi sono specializzato in
Patologia Clinica, una specializzazione che fa un po’ da tramite
tra clinica e laboratorio, e adesso mi interesso in particolar modo
di medicina trasfusionale: dirigo un centro trasfusionale
dell’AVIS.
La storia è lunga, ho iniziato la dialisi l’undici novembre 1981,
tre anni dalla scoperta di un’insufficienza renale cronica.
All’inizio, l’impatto con la dialisi è stato relativamente tranquillo, ho iniziato subito il corso per fare la dialisi a casa.
In un primo tempo ho continuato a farla in un Centro ad Assistenza Limitata, poi, quando ho avuto un alloggio adeguato, ho
incominciato a farla a casa.
All’epoca la dialisi domiciliare l’ho fatta con l’aiuto della mia
fidanzata; ho dializzato a casa per circa tre anni, dopodiché, per
una serie di motivi contingenti, sono tornato in un Centro ad
Assistenza Limitata.
Nel luglio dell’85, dopo una serie di chiamate per il trapianto,
che poi, per un motivo o per l’altro, non ho ricevuto, sono stato
finalmente trapiantato qui a Torino. All’inizio, il trapianto non
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è andato molto bene; nel primo periodo, dopo una primissima
fase buona, non funzionava affatto: si è parlato di una necrosi
tubulare. Solo dopo un mesetto il rene ha cominciato a funzionare tranquillamente. Così ho sospeso le dialisi, anche se i
valori ematochimici non erano soddisfacenti: non sono mai
andato sotto i tre e mezzo di creatinina.
Nell’insieme, mi sono barcamenato abbastanza bene in tutto
questo periodo, con dialisi e trapianto; c’è da dire che col trapianto ho fatto ben tre mesi e mezzo in ospedale, da luglio
sono andato a casa ad ottobre, però ancora da ottobre a gennaio non è stato un periodo molto bello perché in pratica ero più
in ospedale che a casa, tra controlli e visite.
Poi, dal gennaio dell’86, le cose effettivamente sono migliorate,
sennonché poi ho avuto dei problemi coi farmaci antirigetto. Ad
un certo punto mi hanno cambiato la terapia immunodepressiva.
Nel primo mese di probabile necrosi tubulare ero stato trattato
con molto cortisone, e io credo che questo mi abbia sballato un
po’ il sistema immunitario, cosicché ho purtroppo sviluppato un
tumore di Kaposi.
Per fortuna, la malattia è stata essenzialmente cutanea con una
sola localizzazione viscerale, a livello faringeo, che mi ha dato
qualche problema di respirazione; però per fermare la malattia
ho dovuto chiaramente sospendere i farmaci immunodepressori,
e in un anno il trapianto si è come esaurito. Così, ad agosto
dell’87 sono tornato in dialisi, prima monosettimanale, poi
bisettimanale, trisettimanale e poi la routine normale.
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In seguito le cose sono andate abbastanza bene, l’unico problema che ho avuto in questo secondo periodo di dialisi è stato quello di un’ipotensione (pressione bassa) che è comparsa
piano piano, e poi ad un certo punto si è aggravata parecchio,
per motivi attualmente non spiegabili, perché non era
un’ipotensione legata a farmaci, non era legata a quel certo
grado di anemia che molti di noi emodializzati abbiamo. E’
rimasta quindi inspiegabile. Per fortuna, da qualche mese a
questa parte, modificando la metodica della dialisi e qualcosa
nel comportamento di vita, dieta, ecc., il quadro un po’ è migliorato e, anche se la pressione non è salita molto, sto sicuramente meglio. Prima, fino al luglio scorso, la mattina dopo la
dialisi ero in condizioni di prostrazione estrema, non riuscivo
nemmeno a vedere bene, adesso è tutta un’altra cosa.
Per quanto riguarda il trapianto, già quando mi hanno detto
che da un momento all’altro sarei dovuto tornare in dialisi, ero
abbastanza pronto a chiedere nuovamente un’iscrizione in lista, anche se all’inizio mi avevano detto che, per il rischio di
ricomparsa di malattia di Kaposi, il trapianto avrei dovuto togliermelo dalla testa. Poi si era parlato di aspettare quattro o
cinque anni, poi si è arrivati all’ultima conclusione di riparlarne
quando arriverò intorno ai cinquant’anni.
La voglia del trapianto c’è comunque. Però è anche vero che,
a parte il problema dell’ipotensione, in dialisi l’unico vero problema che mi dà fastidio è il tempo che si perde.
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Pur essendo prontissimo a rientrare in lista, guardando a quello che ho conosciuto riguardo al trapianto, entrando a contatto
anche con altra gente trapiantata, è chiaro che ho un po’ di
timore. Però io non sono uno che si tira indietro di fronte ad una
situazione del genere, perché in fondo in quei due anni di trapianto, nel bene e nel male, la vita è completamente cambiata
rispetto ai quattro precedenti di dialisi. Un nuovo trapianto significherebbe tornare in una situazione di maggiore libertà di
movimento; è chiaro che non vedo il trapianto come una prospettiva negativa ma come un traguardo.
So che non può durare tutta la vita, bisogna essere molto fortunati oltre ad un’altra serie di cose, però avere qualche anno di
riposo da tutto quello che riguarda la dialisi sarebbe sempre un
vantaggio.
Ci sono altri problemi, più di natura socio-psicologica, che magari possono essere un po’ presenti in tutti quanti. Forse, in
situazioni come la mia si evidenziano un po’ di più e, poi, dipende tutto dal carattere di ognuno.
Ci sono state nella mia vita cose che mi hanno più turbato, la
difficoltà per avere figli, ad esempio.
Patrizia: Diciamo che è una vita che si modifica e che bisogna
imparare ad accettare nel tempo.
Davide: E’ giusto che nel cambiamento della vita che si ha con
la dialisi si inseriscano altre cose della vita normale: trovare la
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fidanzata, sposarsi, crearsi una casa, trovare un lavoro finalmente
effettivo, che per certi versi ti tranquillizza ma per certi altri, se
hai un po’ di testa, ti impegna ancora di più, perché tenti di migliorare le tue prestazioni. Quindi è un insieme di cose che modifica la vita, non soltanto la dialisi e il trapianto.
Patrizia: Ci sono delle persone che fanno dialisi con Davide
che hanno rinunciato completamente ad una vita privata, proprio perché, comunque, è più difficile mettersi in gioco.
Davide: C’è anche chi in un primo momento si lascia tutto
dietro le spalle e poi per un qualcosa, magari proprio il trapianto, ha ricominciato una vita nuova.
Un nostro collega, che aveva fatto il trapianto qualche mese
prima di me, era stato espiantato tre giorni dopo. Lui era malato
già da quando aveva sette-otto anni, era stato curato in Svizzera
molto male, tanto è vero che ad un certo punto, proprio in Svizzera, gli avevano detto: “Perché viene qua da noi, quando ha P.
a Torino?”.
E allora era andato da P.
Mi ricordo che lui aveva dato la tesi, l’esame di stato, ed era
venuto a trovarmi quando io avevo appena iniziato a fare dialisi
a casa; era in una condizione talmente disperata che dieci giorni dopo è stato ricoverato, ha fatto per una-due settimane di
seguito dialisi tutti i giorni. Era proprio ridotto a pezzi, poi ha
fatto quel trapianto andato male ed è caduto in disperazione
assoluta, non voleva più reiscriversi in lista-trapianto.
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Alla fine si è convinto, l’hanno trapiantato a Grenoble e, grazie
a Dio, adesso sta proprio bene, ormai sono cinque anni.
Si è sposato, ha avuto un figlio: la sua vita è totalmente cambiata
dall’oggi al domani. In quel caso, il trapianto ha sicuramente
portato ad una variazione in positivo. Non c’è però sempre bisogno del trapianto.
Io sono stato sempre considerato dagli altri un tipo taciturno,
ombroso. Devo dire che dopo il trapianto ho avuto la sensazione
di tranquillizzarmi molto, prima ero molto più irruente. Lo sono
ancora, non dico sempre lunatico, ma ho dei momenti così. Ormai
so di esserlo molto meno e quindi posso dire che in tutta la mia
vicenda dei lati positivi ci sono stati.
Contemporaneamente, forse legati a questa mia ombrosità di
base, ci sono stati anche dei periodi brutti, anche nei rapporti
con Patrizia. L’ho conosciuta nel dicembre dell’85, appena dopo
essermi lasciato con l’altra ragazza. Come in tutte le coppie, ci
sono dei momenti di alti e bassi: dei bassi che possono arrivare
anche a livelli molto critici, e dei livelli alti che ti fanno stare
veramente bene.
Mi ricordo che, quando ero ricoverato, nei primi giorni dopo il
trapianto di questo rene, prima partito sparato, che poi si è fermato, gli altri mi venivano a trovare e mi dicevano di star tranquillo, di non preoccuparmi.
Io mi sentivo tranquillo, d’altra parte avevo messo in conto che
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il trapianto potesse andare male. Non ero sicuro di poter dire:
“Adesso ho il rene, la vita cambia, non c’è problema, questo
me lo tengo per tutta la vita”. Avevo messo tutto in conto, ma
esserci è ben diverso. Anche se gli altri pensavano che io non
fossi tranquillo, io credevo d’esserlo, ma a volte forse gli altri
vedono meglio...
Comunque c’è tutta una serie di cose che ti può modificare e
che ti fa apprezzare la vita che cambia, in diversa maniera a
seconda di quello in cui credi.
La mia esperienza di dialisi è stata piuttosto complessa e, anche su questo, ho cambiato idea su alcune cose.
Ad esempio, io oggi la domiciliare la rifiuterei categoricamente; Patrizia qualche volta me l’ha accennata, ma io non voglio.
Infatti, in origine io ero venuto su a Torino anche perché la
mia ex fidanzata mi diceva: “Stai tranquillo, vieni su, quando
finisci di studiare, poi la dialisi la fai a casa”, cosa che nella
mia città all’epoca non si faceva affatto.
Non è che questo sia stato un male, anche se ora in dialisi
domiciliare non ritornerei, per diverse ragioni, ma ne parleremo dopo. In effetti, non si può mai sapere nella vita; sono
anche sicuro che comunque, essendo venuto su, ho avuto più
fortuna come metodo di dialisi.
Trovare un posto dove stare bene in dialisi è importante; ad
esempio, quando andavo a dializzare d’estate a P., sistematicamente dopo una settimana stavo male, ero da buttare via:
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nausea, vomito, giramenti di testa, non riuscivo a stare più in
piedi. Fin quando sono andato in quel centro dialisi avevo
quasi rinunciato ad andare a casa, dai miei, perché poi stavo
male e pensavo: “Tanto vale che stia qua”, anche perché, quando tornavo, per recuperare impiegavo almeno dieci giorni.
Poi ho cambiato il centro giù, sono andato da dei miei ex colleghi di università che lavorano in un centro di dialisi di O., un
paese vicino a P.; lì le cose sono andate molto meglio ed allora
ho ripreso ad andare a casa in vacanza, ma altrimenti non tornavo più per niente, preferivo addirittura andare all’estero.
La domiciliare oggi la escluderei.
Avevo fatto il corso con la mia ex fidanzata, lei era al di fuori
del mondo medico, allora era una studentessa di architettura.
Siamo andati avanti così, ho trovato casa nel suo stesso palazzo, ci siamo organizzati, però dopo due anni e mezzo la situazione si è talmente lacerata che io sono tornato a dializzare in
un Centro ad Assistenza Limitata, perché lei non ce la faceva
più, era sempre in massima tensione e, tra una cosa e l’altra,
sono un po’ io che ho preferito cambiare.
Ora, in questa nuova casa, sarebbe possibile farla, per esempio in camera da letto, però sono io che assolutamente rifiuto
di impegnare qualcun altro.
Un bel po’ di gente mi sconsigliava a suo tempo la domiciliare,
non è che sia stato un periodo tutto negativo, ma io immagino
che forse avessero ragione, perché c’è troppo impegno per
qualcun altro e non sempre si sa come ti risponde.
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Ognuno ha il suo particolare equilibrio psicofisico, ma quando
il trattamento influenza l’equilibrio di chi ti deve star dietro,
allora è probabilmente preferibile scegliere diversamente.
Io adesso vado in ospedale solo per problemi di lavoro, perché
posso dializzare solo il pomeriggio tardi. Siccome lavoro normalmente sette ore al giorno in ospedale, riesco in questo modo
ad attrezzarmi anche con le guardie notturne e tutto il resto. E
mi pare che in questo modo finisco col dare meno fastidio alle
persone che mi stanno a contatto diretto; in sala dialisi chi ti
aiuta fa parte del personale e loro sono lì per quello.
Patrizia è un’ex studentessa di medicina, quindi è abbastanza
dell’ambiente e poi è molto brava a mettere gli aghi. Lei non
avrebbe i problemi della mia ex ragazza, però quella della
domiciliare può finire di essere una condizione psicologica di
costrizione, secondo me il rischio è di bloccare delle attività,
delle possibilità a chi ti deve seguire.
Io lavoro a Rivoli (dirigo il centro trasfusionale) dalle otto e mezza
alle quattro e mezza in condizioni normali. Alle Molinette non
devo mai iniziare prima delle cinque e mezza. E’ comunque un
sacrificio, perché ci sono delle volte che incominci tardi, arrivi
tardi a casa, io poi ceno al ritorno, vai a letto all’una, ti alzi alle
sei e mezza. Però preferisco tenermi il lavoro piuttosto che perderlo, o ridurlo, anche dal punto di vista professionale.
Se nell’insieme la mia vita è andata avanti, dialisi o no, e ci
sono state molte cose belle, ci sono stati anche periodi molto
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spiacevoli. Due mi sono pesati in particolare. Il primo quando
ho scelto di tornare di nuovo in ospedale a dializzare: non voglio
assolutamente colpevolizzare chi mi ha aiutato, ma un po’ dispiaciuto lo sono stato, anche se alla fine la decisione è stata
mia. Ho voluto impormi io di tornare lì, mi è dispiaciuto soprattutto perché ho visto che certi pensieri che avevo, riguardo alle
difficoltà che si sarebbero create, si erano avverati.
Peggio ancora è stato quando, durante il trapianto, nel ricovero, si è creata la rottura definitiva con la mia ragazza.
In un momento in cui pensi che stai risolvendo i tuoi problemi,
perché il trapianto ti riapre nuove strade, troncare una relazione di colpo, drasticamente e duramente non è certo stata una
soddisfazione.
Ma i fatti positivi sono stati tanti: ad esempio la chiamata per
il trapianto, anche perché venivo da quattro chiamate che alla
fine non sono esitate in nulla (tre a Grenoble e una alle
Molinette) per più motivi.
Alle Molinette mi avevano chiamato nel febbraio del ’95, ma
siccome avevo dei problemi di mal di gola mi hanno fatto togliere le tonsille e poi mi hanno rimesso in lista. L’ultima volta, a
Grenoble, andava tutto bene, ma mi hanno detto che avevano
un solo rene e c’eravamo un ragazzino di nove anni ed io. E io ho
detto di darlo al ragazzino. E’chiaro che dopo quattro approcci
negativi con il trapianto, quando mi è capitata definitivamente
la situazione positiva a tutti gli effetti, forse avevo un po’ paura,
ma sono andato abbastanza caricato, ero contento.
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Poi, quando Patrizia è venuta a vivere con me, quando ci siamo sposati, sono stati tutti momenti positivi: pur essendo in
condizioni particolari di salute, vedi che ci sono delle porte
che ti si aprono comunque.
Patrizia: Apprezzi più di chiunque altro le cose che sono di
tutti i giorni, impari a cogliere l’essenza delle cose, senti il peso
della vita, sia in senso positivo che negativo. Impari a vivere la
vita giorno per giorno, ad apprezzare tutto quello che puoi fare.
Davide: Quando ero a P. vivevo con i miei. Poi quando sono
venuto su nell’81 ho abitato sempre da solo. In realtà non sono
mai stato da solo perché c’era con me lo “sgorbio nero”, Briciola, il mio cane. Avere qualcun altro in casa ti dà sicuramente una nota positiva di felicità.
Poi con Patrizia si è creata veramente una famiglia.
Cosa direi a qualcuno che inizia la dialisi, giovane o vecchio
che sia? Io direi ad entrambi la stessa cosa, chiaramente per
motivi diversi, perché una persona giovane ha altre mire nella
vita rispetto ad una persona anziana.
La cosa fondamentale, secondo me, è quella di cercare di crearsi il meno possibile il problema della dialisi e, pur essendoci,
non farne un problema di vita. Io la vedo così: c’è questa cosa,
ti porta via del tempo, e questo è l’aspetto più fastidioso.
Questo vale soprattutto per i giovani, gli anziani bene o male,
specialmente se sono in pensione, di tempo ne hanno; non dico
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che la dialisi serva per impegnare il tempo, ma comunque in
genere pesa meno.
Però non devi crearti il problema della dialisi, devi prenderla
il più possibile in maniera positiva, devi cercare comunque,
pur essendo in una situazione seria, di fare quello che puoi, di
mantenere delle attività.
Io, ad esempio, sono fiero del fatto che, pur facendo dialisi,
continuo a lavorare e voglio lavorare, mentre ho visto molta
gente che, con lo spettro della dialisi, si lascia andare sia fisicamente che mentalmente, abbandona tutto quanto.
“Ormai sono condannato”: non è vero niente.
Anzi, probabilmente il fatto di essere più attivi e impegnarsi di
più, chiaramente senza esagerare, comunque aiuta lo spirito ad
andare avanti, a crearsi un’ulteriore aspettativa di vita. Se uno
parte con il presupposto che con la dialisi è finito tutto, è un
conto, se uno parte con l’idea che intanto va avanti per quello
che può, e poi mira per quanto possibile al trapianto, è un altro
conto.
Patrizia: Tutti, almeno in qualche momento, si lasciano andare. Io penso che comunque la vita è tua, non devi lasciartela
rubare da niente. Non puoi arrenderti e smettere di vivere, se
anche non hai più interessi, la vita deve continuare.
In fondo, ogni famiglia ha i suoi guai, più grandi, più piccoli, di
natura diversa. Bene o male tutti imparano a conviverci. Allora
anche questo della dialisi diventa un problema della famiglia,
perché tutta la famiglia ci ruota intorno. E’ chiaro che io, per
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esempio, non posso avere orari troppo diversi dai suoi, devo
sempre tenerne conto, ma comunque ognuno impara a gestire
la sua vita, come farebbe in qualunque altro caso.
Invece, io ho notato che sono tanti a rinunciare a cercare un
equilibrio e quindi, alla fine, rinunciano alla vita.
Davide: Ma non solo rinunciano a quello che potrebbero fare.
Chi è inserito in un ambiente familiare, coinvolge automaticamente tutta la famiglia. E allora il problema è molto più grosso, perché se uno è da solo, non ha legami, si deve svegliare da
solo; in famiglia se non ti dai una spinta personale, è automatico che tutto l’ambiente familiare ti venga dietro. Dipende
anche dalle varie situazioni. Puoi essere inserito in una famiglia che già è una tragedia per conto suo, o in una famiglia
attiva e vitale. Io spesso sono molto abbattuto e non riesco a
fare a meno di trasferire i miei problemi in famiglia. Mi dispiace, so che non è una cosa giusta, penso che potrei evitarlo.
Ma comunque credo che sia fondamentale rendersi attivi per
quello che si può, giovani o anziani, sia nel lavoro, sia nei
contatti sociali, sia per se stessi che per la famiglia.
Cosa ne penso del trapianto renale?
Quando mi hanno detto che il mio trapianto probabilmente
sarebbe andato male, sarei stato pronto, se era necessario, a
mettere una firma immediatamente per rifarlo. Ed è sempre
stato così più o meno, anche in questo periodo dopo il trapianto, o almeno all’inizio.
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Oggi, che è passato un po’ più di tempo, ragionandoci su e
vedendo meglio, sapendo la storia di altra gente come me che
è stata trapiantata, io dico ancora che il trapianto è sicuramente un fine cui aspirare. Bisogna farlo però con tutte le
dovute cautele, che dipendono sia da noi sia da quelli con cui
stiamo a contatto, quando ci mettiamo in lista trapianto.
Io non sconsiglio assolutamente di iscriversi alle liste trapianto, credo che sia la cosa più giusta da fare. Mi piacerebbe però
che ci fosse maggiore attenzione a questi problemi: bisogna
avere la chiara coscienza di quello che può succedere.
E’ vero anche che troppa gente che arriva al trapianto può non
essere in grado culturalmente di arrivare a certe cose…
Patrizia: E poi comunque, secondo me, i medici non ti spiegano mai del tutto quello che sarà veramente e tutto quello
che capiterà. Abbiamo sentito tante persone che hanno detto:
“Io sono arrivato, ho detto sì, credevo sarebbe stato in un certo
modo, nessuno mi ha detto quello che mi aspettava”.
Questo è gravissimo.
Se non sai quello che ti aspetta, se non sei preparato, è comunque uno shock, non solo per quelli a cui qualcosa va male, ma
per tutti. Mentre se tu sai che il tuo iter sarà in un certo modo
per alcuni mesi, che ci possono essere problemi di un certo
tipo, anche la famiglia si organizza, tu sai che per quel tempo
devi resistere a quelle condizioni e ce la farai più facilmente.
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Quando tu invece non hai idea, e credi che in quindici giorni tutto
si risolva, e poi magari devi stare sei mesi fermo, con tutta la famiglia, ovviamente ti crolla il mondo addosso. E se ogni volta ti
dicono “Solo più quindici giorni, solo più un mese”, questo diventa un tempo infinito che non sai più controllare. Tanto è vero
che poi trovi delle persone con delle reazioni nei confronti del
trapianto veramente esagerate. Tanti che dicono “Io mai più!”.
Magari poi cambiano idea, ma vivono male, nel frattempo.
Davide: Il collega di cui parlavo prima era andato timoroso al
primo trapianto, gli è capitato un fallimento e ha detto “Mai
più”; e dire che è un urologo e quindi molto addentro a tutti i
problemi.
Patrizia: Non era uno sprovveduto, ma lui per primo non
aveva la più pallida idea di quello che sarebbe capitato. E
comunque nessuno si è degnato di dirgli come sarebbe stato.
C’è da dire che, dopo la prima delusione, dopo una fase di
vera disperazione, ha poi trovato il coraggio per riprovare e, la
seconda volta, è andato tutto bene.
Per il trapianto, ma vale anche per altre cose della vita, ci sono
spesso aspettative esagerate o anche solo diverse dalla realtà.
Questo significa che quello che ti capita, anche se ha un aspetto
buono, siccome tu ti aspettavi una cosa diversa, non sei più in
grado di valutarlo come positivo.
Ed è errato, perché quando non ti rendi conto che quello che
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hai di fronte è una cosa positiva, contrapponi un atteggiamento negativo, che a sua volta fa sì che le cose vadano male,
anche perché sappiamo bene che per le terapie, se non c’è un
minimo di collaborazione del paziente, non funzionano.
Allora, se il paziente si aspetta una cosa e ne riceve un’altra,
non si rende più conto di quello che riceve comunque è buono.
Davide: Più che buono o cattivo, che era prevedibile: è importante sapere meglio cosa capiterà per poterlo affrontare.
Per questo diciamo che una preparazione psicologica di un
paziente in previsione del trapianto è sempre importante.
Già per chi fa dialisi è ottimale, ma soprattutto lo diventa per
chi viene messo in lista trapianto. Un trattamento di psicoterapia non può far male a nessuno, perché rende soltanto capaci di ampliare un po’ la visuale; contemporaneamente bisogna
però aver affianco qualcuno che indichi quali sono le possibilità, nel bene e nel male. E’ importante non essere soli.
Patrizia: Ci sono molte cose di cui tenere conto in un trapianto: non si tratta solo di sapere ciò che ti aspetterà fisicamente, ma devi innanzitutto accettare anche psicologicamente un organo non tuo, e questa può essere una cosa molto difficile. Pensare che quel “pezzo lì” non è tuo, che è di un altro
che è morto per lasciartelo, è qualcosa di cui si parla tanto, ma
poi quando ti capita non è così facile da accettare.
Io credo che ci sia chi ha dei rigetti perché comunque non
sopporta l’idea di aver un organo di un’altra persona.
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A casa nostra succede sovente che telefoni qualcuno chiedendo di parlare con Davide perché è appena entrato in dialisi, o deve affrontare un trapianto. Ed è tutta gente che magari
non ha nemmeno un amico comune. Addirittura una volta non
sapevamo come una persona fosse arrivata a noi, talmente era
per sentito dire (un’amica di un conoscente di un cugino, sembra una barzelletta ma è vero). Questa persona telefonò dicendo: “So che lei è in dialisi, che sta bene, può venire a parlare
con mio marito perché non riesce a superare la dialisi, sappiamo che lei è uno dei pochi che stanno bene”. Ciò vuol dire non
avere un minimo d’appoggio, se ci si stupisce di stare bene in
dialisi. Significa che nessuno ti ha detto che, comunque, in
dialisi puoi condurre una vita più o meno normale.
Non è stata l’unica volta. Mi ricordo di un ragazzo di P. che non
voleva più andare a far dialisi e i genitori hanno chiesto a Davide di parlargli per convincerlo che si può andare in dialisi e star
bene…Ciò vuol dire che nessuno spreca mai tante parole per
questo, e invece forse è la cosa più importante, perché una volta
che entri in dialisi non ne uscirai, non dura solo un paio di mesi.
Quella diventerà la tua vita. Ma per sapere che diventerà una
vita normale c’è bisogno che qualcuno ti insegni, non si può fare
tutto da soli. Vale per i malati, ma vale anche per i medici.
Noi, bene o male, riusciamo a fare una vita abbastanza normale, nei suoi limiti.
Ognuno ha i suoi: ti abitui, ti adegui, impari a convivere.
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Però mi rendo conto che non è così per tutti, ad esempio nel
reparto dove dializza Davide sono molto pochi quelli che lavorano, proprio perché gli altri ritengono di non farcela, di non
poter fare niente altro. Ma questo significa che non vivi più, che
vivi per la malattia, che diventi solo più un malato e invece,
anche se può sembrare anacronistico, secondo me, non ti devi
sentire un malato, devi sentirti una persona che ha dei problemi.
Problemi di salute ne hanno tutti, ognuno ha i suoi e si può
imparare che con un po’ di attenzione, dedicando un tot di ore
alla settimana, comunque si può vivere benissimo.
Anzi, secondo me, impari che la vita è breve, va vissuta intensamente, il più possibile.
“Cogli l’attimo” è per me la frase più giusta che esista.
Davide l’ha imparato da solo, per fortuna, però non è così per
tutti.
Quando Davide mi diceva che si sarebbe rimesso in lista trapianto, io ogni volta avevo un coccolone, anche se cercavo di
non farlo vedere, perché non sono io che posso fare questa
scelta, non è della mia vita che dispongo. Perché, ovviamente,
è molto più comodo gestire una situazione che più o meno
conosci, mentre il trapianto è una novità assoluta.
E’ vero che è una vita quasi normale, non stai più tre giorni
alla settimana in dialisi, ma devi imparare a condurre una vita
diversa, regolata diversamente.
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Anche in questo, c’entra la questione della preparazione, perché se non riesci a comprendere che devi avere molta cura di
questo organo, comunque finisci col perderlo.
Davide: Il rene è un aspetto particolare, c’è anche la dialisi,
si può scegliere, invece un organo principale come il cuore o
i polmoni allora…
Patrizia: All’inizio però dicevano che c’era gente col trapianto di cuore che si suicidava e non accettava il fatto di avere il
cuore di un altro.
Questo vuol dire non avere fatto un minimo di psicoterapia di
supporto, perché sfido chiunque ad accettare una cosa del
genere senza essere aiutato, sono cose così più grandi di noi.
Non sempre possiamo farcela da soli, è un limite umano che
bisogna considerare.
Per il futuro, io credo che questo sia importante: avere un
aiuto per essere meno soli.
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Claudia L.
Mi chiamo Claudia L.. Ho trentasei anni.
Mi sono ammalata all’età di tredici anni,
dopo tre anni di varie cure sono entrata in dialisi.
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E’ stata una storia pesante perché ero proprio giovane. La dialisi è
una cosa che non ho mai accettato dal primo giorno, e fino alla fine
è stata molto critica. Ho fatto dieci anni di dialisi, sono andata a Lione per mettermi in lista trapianto perché a quell’epoca a Torino non
c’era ancora. Là mi hanno tolto la milza, cosa che allora era necessaria per mettermi in lista, poi ho fatto degli esami per vedere se mio
fratello poteva donarmi un rene, era l’unico della famiglia a potere,
però anche lui aveva dei problemi di salute e quindi non è stato possibile neanche con lui. Poi hanno iniziato a fare il trapianto anche
a Torino, mi sono iscritta qui e per fortuna mi hanno chiamata abbastanza in fretta. Io la dialisi proprio non l’ho mai accettata.
Ho fatto il trapianto nell’aprile del 1986. Adesso sono dieci anni. E’
andato bene. Praticamente da dieci anni non ho mai avuto problemi, per fortuna: ancora oggi sto bene. Ho avuto una bambina nel
1993, adesso ha cinque anni.
Cosa consiglierei a chi deve iniziare la dialisi?
Io consiglio senz’altro il trapianto a tutti; è chiaro, lo consiglio perché a me è andato bene. La dialisi non è una bella vita. Il trapianto, per la mia esperienza, lo consiglio senz’altro.
Il fatto di avere la bambina è stato una scelta che ho valutato con i
medici, perché anche loro ti consigliano se si può o non si può fare:
se ci sono altri problemi di salute o se il rene trapiantato non va bene,
loro non consigliano di sicuro di avere un figlio.
Mi hanno seguita praticamente per tutto il periodo della gravidanza,
anche quando ho fatto il taglio cesareo è venuta la dottoressa a vedermi, proprio in sala operatoria. Anche in gravidanza non ho avuto grossi
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problemi, se non verso la fine per la pressione che si era alzata, ma
basta, solo quello. Anche questa di avere un figlio, per chi ne ha la
possibilità, senz’altro è una bella esperienza.
Ho avuto dei periodi brutti in dialisi, perché non stavo mai bene e
poi ho avuto quel problema andando a Lione, facendo dialisi e tutti gli esami per mettermi in lista. Per l’operazione di togliere la milza
sono stata proprio male, sono finita anche in rianimazione.
Durante il trapianto, invece, è andato tutto bene.
Le più brutte esperienze sono state durante la dialisi, è stato tutto
quel periodo. Poi, comunque, io non accettavo la dialisi, e tutti i giorni di dialisi per me erano una tragedia. Ho fatto dieci anni così.
Mio padre ha iniziato a far dialisi quando io ero già stata trapiantata. Ha avuto dei grossi problemi vascolari e poi è mancato, ma ho conosciuto persone che hanno iniziato la dialisi anche ad una certa età
e che stanno bene. E se, poi, possono mettersi in lista trapianto, perché dipende poi dai medici, che dicono come stanno, quali rischi
corrono, io lo consiglio anche a loro, perché secondo me non è una
vita quella della dialisi. E ai giovani lo consiglio ancora di più.
Finché bisogna far dialisi per arrivare al trapianto, quello senz’altro
è da fare e bisogna cercare di prenderla in un modo migliore rispetto
a quello che ho fatto io; comunque, bisogna aspettare ed arrivare al
trapianto in una certa forma, senza essere debilitati. Se uno prende
la dialisi male e si lascia andare, arriva al punto che il trapianto non
glielo possono neanche più fare, perché non sta bene, ha dei problemi; in questo senso, almeno, la dialisi bisogna prenderla bene come
una cura per arrivare poi al trapianto.
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Nadia M.
Ho ventisette anni, lavoro al San Luigi: mi occupo di lavori
socialmente utili. Ho studiato come segretaria.
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Sono entrata in dialisi a diciotto anni e l’ho fatta per un anno e
nove mesi, dopodiché mia madre mi ha donato un rene e ho
fatto il trapianto.
Il primo anno dopo il trapianto sono uscite tutte le magagne:
una stenosi dell’arteria renale e vari altri problemi. Per fortuna si sono risolti tutti nel giro di un anno. Adesso sono sette
anni e mezzo e, con la mia terapia, tutto prosegue bene.
Ho iniziato la dialisi, per fortuna, al Regina Margherita: lì c’era
un rapporto molto stretto di amicizia sia con i medici che con
il personale. Infatti, per me il giorno di dialisi non era un trauma, andavo lì, mi facevo le mie quattro ore di dialisi…
Io sono anche diabetica e forse è stato più un trauma il diabete
che entrare in dialisi.
L’insufficienza renale ce l’ho dalla nascita, avevo quindici giorni
di vita quando ho cominciato ad avere delle infezioni urinarie
e poi tutta una serie di altri problemi: a cinque anni mi hanno
fatto la plastica anti-reflusso, a sette anni mi hanno tolto il
rene destro e poi sono andata avanti fino a diciotto anni con la
dieta aproteica, niente pasta, niente pane normali…
E poi la dialisi a diciotto anni.
Per fortuna io continuavo ad urinare, allora non dovevo limitarmi nel bere, anzi mi dicevano di bere perché io, per il terrore di stare male come alcuni degli altri, non bevevo assolutamente niente e arrivavo alla dialisi sottopeso.
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Il bello del trapianto è non essere attaccati alla macchina.
La vita è sempre quella, poi all’inizio sei sempre sotto controllo, praticamente sei più in ospedale che a casa, hai sempre
l’angoscia quando suona il telefono il giorno degli esami.
Però sono cose che si superano, non puoi vivere col terrore
che telefonino dalle Molinette.
Sono sette anni che vivo veramente, perché io prima non avevo una compagnia, uscivo pochissimo. Da quando ho fatto il
trapianto ho conosciuto una compagnia, adesso esco, ho amicizie, ho ricominciato a vivere.
Consiglierei a chi inizia la dialisi di accettarla, di cercare di
non sentirsi diversi, anche se è dura, soprattutto per chi sta
male dall’inizio alla fine. Se non si fa così, diventa davvero un
trauma. E’ importante anche l’ambiente dove si fa dialisi.
Io al Regina Margherita mi sono trovata bene; il mese prima
del trapianto la dialisi invece l’ho fatta alle Molinette. Il personale è bravissimo, i medici pure, però è proprio una catena
di montaggio, può essere un trauma anche quello.
Chi viene dai piccoli centri di dialisi, penso la accetti meglio.
Per un giovane è comunque difficile.
Un anziano ha già vissuto, gli dici che per fortuna c’è una macchina che può aiutarlo a vivere, forse così l’accetta meglio.
Il giovane dice: “Sì, ma io sono sempre qua, sono vincolato a
questa cosa”. Io l’accettavo, in fondo è da quando sono nata che
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sono malata e giro per gli ospedali, adesso ho ventisette anni.
Però ogni tanto viene da dire: “Non è una vita!”.
Mio nonno ha avuto un’insufficienza renale, poi faceva la dialisi peritoneale. Un anziano la prende come una terapia qualunque, ad un giovane non saprei cosa dire.
Sicuramente, a chi inizia la dialisi, se è giovane direi di iscriversi in lista trapianto, penso sia l’unica speranza duratura..
Qualcuno non vuole, ha subito dei traumi, ha paura.
Quando ero al Regina Margherita c’era un ragazzo che aveva
avuto un incidente con la moto e di conseguenza a questo è
andato in dialisi. L’hanno chiamato per un trapianto, non si sentiva pronto e l’ha rifiutato; dopo sei mesi l’hanno richiamato e
lui ha accettato subito. Io, vedendo questo ragazzo, ho accettato
di farlo da mia madre. Prima dicevo: “Aspettiamo, vediamo,
magari arriva un rene da cadavere…”. Poi ho pensato che in
quel momento stavo bene, grandi problemi in dialisi non ne
avevo, perché non tentare? Mia madre era pronta, lo ero anch’io
e così abbiamo tentato.
Ero un po’ titubante e invece è poi andato tutto bene.
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Giorgio C.
La mia storia di dialisi e trapianto ha quasi
trent’anni. La mia malattia è stata una nefrite.
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Col professor V. siamo passati per tutti i preliminari, le varie
cure, la dieta aproteica, poi alla fine sono entrato in dialisi.
L’ultima fase è stata rapidissima. Sono stato ricoverato alle Molinette la notte del ventitré dicembre del ’68 per una crisi ipertensiva tremenda. Dopo due o tre giorni che ero lì, il discorso è
diventato, quasi di colpo, quello di fare la dialisi. A quell’epoca la
seduta di dialisi durava dodici ore. Io le vedevo, quando ero ricoverato in ospedale, le persone che uscivano dopo dodici ore: sembravano disastrate, mi facevano venire in mente degli animaletti.
Io, col mio carattere e la libertà che avevo, una cosa così non volevo farla. Infatti, sono andato avanti quindici giorni a resistere, a
dire che non volevo parlare di dialisi. Mia madre e le sorelle insistevano e piangevano, io però non accettavo una situazione in cui
sarei stato legato in quella maniera drastica ad una macchina.
Dopo un po’ di giorni vomitavo in continuazione, l’azotemia era
alle stelle, ero quasi cieco, tutti piangevano e allora ho deciso di
provare. La paura, l’istinto di sopravvivenza mi hanno portato a
quel punto a provare, anche perché se rinunciavo ancora, posto in
dialisi non ci sarebbe più stato. In quei giorni si era all’inizio della
dialisi in Piemonte, e c’erano molti meno reni artificiali che malati; in quei giorni si doveva viaggiare per andare a fare dialisi,
c’era gente che da Torino andava a Novara, o anche più lontano.
Così ho deciso di fare la dialisi, e di farla nel migliore dei modi,
cioè cercando di non aumentare di peso (anche se in quei giorni
non lo sapevo ancora, però poi con l’esperienza…), di non aumentare di potassio e così via.
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Ho fatto dialisi per vent’anni, ho vissuto tutti i vari passaggi della
storia della dialisi, da dodici ore siamo passati a otto ore, con tipi
di filtri diversi, da otto a sei e poi a quattro ore per tre volte alla
settimana. Io, per parecchi anni l’ho fatta due volte alla settimana
la dialisi, però avevo scelto quella più lunga che durava per sei ore.
È vero che era un giorno in meno da passare là dentro, e questo in
sé mi sembrava meglio. Però fare dialisi solo due volte alla settimana alla lunga mi danneggiava, perché era troppo lo scompenso
per il cuore, con tutti i liquidi che si accumulavano in quei tre giorni di intervallo, e allora i medici mi hanno detto che sarebbe stato
meglio fare dialisi tre volte alla settimana.
Mi sono iscritto alla lista-trapianto nell’81, proprio quando hanno
iniziato il trapianto alle Molinette, ma, ormai, era passato tanto tempo
che non ci speravo più. La notte di Pasqua dell’88 il dottor S., alle
due di notte mi telefona: io sono rimasto un po’ lì, scioccato perché
prima di tutto non me l’aspettavo più, e poi alle due della notte di
Pasqua uno ha sempre paura che sia successo qualcosa, avevo una
sorella ad Ivrea. E sono rimasto un momentino lì, lui mi ha detto:
“Ma lo vuoi fare o no?”. Io gli ho detto di richiamare dopo dieci
minuti, nel frattempo ho svegliato mia mamma, mia sorella a Torino, l’altra sorella ad Ivrea. Mi dicevano: “Ma cosa aspetti? Ormai
hai aspettato tanto!”. Infatti, neanche dieci minuti dopo S. mi ha
ritelefonato e io ho detto “Va bene”. Mi ha detto di andare la mattina dopo presto, la mattina di Pasqua. Sono andato, tutti i preliminari: la doccia, la sterilizzazione, le rasature, un principio di anestesia
e la mattina di Pasquetta mi hanno trapiantato.
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E’ stata una cosa lunga e difficoltosa, ci sono state delle emorragie,
due collassi cardiaci, perché sono stato dalle nove fino alle cinque
del pomeriggio in camera operatoria. Poi, siccome il rene non voleva partire, ci sono voluti due giorni e tre notti facendo dialisi in
continuazione, anche sotto anestesia.
Poi finalmente il rene è partito bene, ha cominciato a funzionare
bene, man mano la creatinina si è abbassata. Era l’otto aprile, il
diciotto sono stato dimesso. Sono stato in ospedale pochissimi giorni,
poi ho iniziato le solite terapie, sono otto anni e mezzo che la
creatinina non mi è mai salita sopra l’uno.
Anche l’ultimo esame dell’altro ieri dava meno di uno.
Con il trapianto adesso sta andando bene, non mi ha dato grosse
conseguenze, mi è solo venuto un pochino di glaucoma e cataratta,
infatti devo essere operato ad un occhio; sarà stato il cortisone, ma
sono problemi che succedono, ci penserò l’anno prossimo però.
La dialisi è stata lunga, vent’anni legati alla macchina sono stati
lunghi, con il problema di non potermi muovere, come per tutti però.
Sono problemi duri, però sono comuni a tutti, in dialisi. Quelli che
iniziano adesso li compiango, però rispetto a quando ho iniziato io,
c’è una differenza enorme, sia come dialisi, sia come cure in generale. Noi, quando avevamo un ematocrito sui venti stavamo bene…
Adesso quattro ore sembrano tante.
Mi ricordo che quando le ore di dialisi sono passate da dodici a sei
ci sentivamo molto fortunati.
La dialisi non è assolutamente una bella cosa, però non bisogna drammatizzarla. Sei legato ad una macchina, sei condizionato dagli orari,
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però, come dico io sempre a tutti (sono stato delegato dell’ANED,
l’Associazione Nazionale Emodializzati, partecipavo alle riunioni),
bisogna prenderla con uno spirito buono. Se uno la prende bene e ci
si applica in maniera giusta, non solo come sacrificio ma come vita,
diventa una routine, brutta finché si vuole, ma la vita non finisce lì e
si può vivere discretamente lo stesso. Sei legato alla macchina e devi
sapere che, se fai attenzione alle regole e se ti adegui alle cure, vai
avanti meglio e più a lungo, se ti lasci andare allo sconforto, tutto diventa più triste. Infatti, mio fratello, che ha iniziato la dialisi più anziano di me, già con molti più problemi di salute, non l’ha mai accettata fino in fondo e ne sta patendo molto di più le conseguenze.
Da una parte non gli dò troppo torto. Fare dialisi non è tanto facile.
Il trapianto è una bella cosa. Lì riacquisti la libertà di tutto, della
vita normale, della vita con amicizie, della vita in casa. Ritorni ad
essere a posto. Si vive bene con un rene solo, senza problemi.
Anche lì bisogna tenere un tenore di vita abbastanza retto, però
non dà conseguenze.
Io, da quando sono stato trapiantato, sono sempre migliorato. Infatti
il dottor S. ha due mie fotografie: avevo fatto la carta d’identità quattro-cinque mesi prima del trapianto, quando non riuscivo più a legarmi le scarpe, a chiudere le mani, avevo artrosi, dolori, se stavo
seduto dieci minuti, prima di riprendere a camminare diritto dovevo fare ottocento metri. Adesso ho riacquistato le forze normali. Poi
gli ho dato una fotografia di due-tre mesi dopo il trapianto. In quella
dopo, sembravo il figlio della prima. Erano ricresciuti i capelli, il colorito non era più giallo-olivastro, tipico della dialisi, sembrava che
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avessi riacquistato quattro-cinque anni, e infatti li ho riacquistati
anche come morale. Infatti, io adesso, se potessi, donerei tutti gli
organi, trovo sia una cosa giusta ed umana. Il resto è solo egoismo.
Ci vorrebbe una preparazione già nelle scuole. È egoismo, potendo aiutare una persona, non farlo.
Quando mi ha telefonato S., io sono stato titubante non perché non
volessi, ma perché non me l’aspettavo più. Sono rimasto un po’ meravigliato e lui mi ha detto: “Non voleva neanche farlo”. No, non è
così. E non ho neanche pensato alle conseguenze psicologiche, ho
pensato solo alla paura dell’operazione. E poi, in quei tre giorni in
cui il rene non è partito, ho avuto paura. Poi, quando è partito bene
ed ho cominciato ad urinare, bruciava maledettamente, ma anche
se avesse bruciato cento volte di più andava benissimo.
Penso che dovrebbero aumentare anche le strutture.
Il mio rene è partito bene, dura bene, speriamo che prosegua bene.
Il trapianto dà un sacco di problemi, non tanto l’operazione in sé, quanto
la terapia di mantenimento, la Ciclosporina, il cortisone. Sono farmaci deleteri, che non fanno bene né al fegato né a niente; in effetti ci
sono persone a cui le ossa fanno male, a cui cede il tendine di Achille
e poi che magari hanno anche principi di rigetto. Io non ho mai avuto
problemi, me lo auguro anche per il futuro, perché oltre tutto, stando
bene come sto, conducendo una vita normalissima, non so come la
prenderei se mi andasse male. Credo che sarebbe proprio difficile,
non so se mi riadatterei alla dialisi. Come già non volevo fare all’inizio; ricaderci sarebbe triste, parecchio.
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Un episodio particolare è quello di una persona con cui ho iniziato
a far dialisi lo stesso giorno dello stesso anno, a metà gennaio del
’69. Lui era sposato, aveva un negozio nel Veneto, due figli piccoli:
ha dovuto mollare tutto e venire a Torino perché c’era posto solo
qui. La moglie ha dovuto adattarsi a lavorare, lui ha dovuto lasciare il negozio. Abbiamo sempre fatto lo stesso turno insieme, eravamo abbastanza amici, compagni “di sventura”. Lui non si era iscritto
in lista, non era favorevole, non si fidava. Quando io sono stato trapiantato, ci siamo visti dopo una quindicina di giorni e ha visto che
stavo bene. E’ rimasto un po’ lì e ha detto: “Quasi quasi mi iscrivo
anch’io”. Si è iscritto, ha fatto la tipizzazione, sei mesi dopo l’hanno trapiantato e adesso sta bene anche lui. Quindi abbiamo avuto
un po’ una vita parallela, anche se non siamo gemelli di rene.
Abbiamo vissuto insieme momenti brutti e belli.
Sono stati anni molto duri, non è andato sempre tutto bene nella
dialisi. E poi, ultimamente, in dialisi il fisico non ce la faceva più.
Non ce la facevo più come cuore, avevo l’artrosi, avevo dolori dappertutto. Ho avuto due operazioni al tunnel carpale, le dita erano
bloccate, avevo dolori enormi, non riuscivo più a vestirmi, dovevo
farmi aiutare a mettermi la giacca. Sei mesi dopo il trapianto sembrava mi avessero dato olio da tutte le parti, le giunture si erano
rimesse tutte a funzionare senza cigolare.
Avevo quarantotto anni, ero ancora abbastanza giovane, anche per
questo il corpo ha reagito bene. Gli unici problemi seri che ho avuto
sono stati al cuore: ho avuto due volte il cuore in fibrillazione, coi
battiti a centoventi al minuto, sono stato due volte nel reparto di
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cardiologia e mi hanno fatto due cardioversioni. Adesso ho sessanta
battiti al minuto, come un orologio.
Ad una persona giovane che deve iniziare la dialisi direi di prenderla bene, perché così riacquista il cinquanta per cento. Lui deve
farla, d’accordo. E adesso, con le terapie attuali, direi di iscriversi
subito in lista trapianto. Perché se uno fa bene la dialisi e arriva al
trapianto non debilitato, come ero io e tanti altri dopo quindici-venti
anni di dialisi, tutto il fisico recupera.
Ad una persona anziana è più difficile dare un consiglio, perché accetta
in genere meno bene le cose. Comincia a dire: “Perché mi è capitato
questo? Perché alla mia età mi succede questo?”. Tutte frasi che si usano. Però, anche se uno non ha più la speranza del trapianto, secondo me
deve prenderla nel migliore dei modi, non saprei cosa dire d’altro. Perché ogni testa ha il suo modo di ragionare. Però, ad una persona di una
certa età direi: “Siccome sei arrivato fino a qui bene, bisogna prenderla
con filosofia, ti è capitato da anziano”. Non dico che bisogna guardarsi
indietro, perché c’è sempre gente che sta peggio. Io guardo semmai in
avanti, con un po’ di invidia, a quelli che stanno meglio.
Infatti, io la batosta l’ho presa a ventotto anni, ero fidanzato.
La ragazza l’ho lasciata io, perché non volevo legare una persona ad
un carro traballante. Il prof. V., a quei tempi, aveva detto a mia madre che non si andava avanti tanto con quella dialisi: cinque-sei anni,
non di più.
Io volevo bene a quella persona, di conseguenza non me la sentivo
di legarla. Poi, tra l’altro, non serviva. Poi, nell’insieme, è andata
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bene, comunque sarebbero stati vent’anni non proprio dei migliori. Attualmente, anche a un giovane direi di tenersi stretta la sua
vita, probabilmente c’è sempre speranza per tutto. Oggi è molto
meglio: in quei giorni le dialisi erano di dodici ore, era uno stress
continuo, non riuscivi a recuperare il giorno dopo. Perciò io non
me l’ero sentita di fare quel passo con lei. Ci siamo lasciati da buoni
amici, però adesso me ne pento, l’ho fatto per essere onesto.
Era una situazione da pionieri.
Erano troppe le ore là dentro: mio fratello mi accompagnava alle
sette, prima di aprire il negozio e veniva a prendermi alle sette di
sera, quando chiudeva il negozio. Ne ha risentito anche lui moralmente, in quei giorni, perché siamo abbastanza attaccati. Io però,
nei limiti, nei giorni liberi, ho sempre continuato a lavorare nel
negozio, ho avuto un’attività quasi normale.
Dico a tutti di continuare. Chi ha un posto di lavoro, lo tenga stretto perché poi gli servirà un domani, con la pensione, eccetera.
Molte cose sono migliorate dai tempi pionieristici in cui io ho iniziato la dialisi; non tutte però sono cambiate in meglio. A quei tempi il
personale era sempre quello, noi malati sempre gli stessi, quindi c’era
un certo rapporto anche di amicizia. C’era sempre l’ospedale, la dialisi, la noia della macchina, però si era instaurato quasi un circolo.
Adesso fanno girare il personale, forse c’è più professionalità, però
c’è meno contatto umano. Io raccontavo i miei problemi, magari nell’intervallo di mezz’ora qualcuna delle infermiere si sedeva lì, loro
raccontavano i loro problemi, io i miei. Era un modo più umano di
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passare il tempo. Adesso, lo dice anche mio fratello che fa dialisi,
c’è più distacco.
Negli ultimi tempi, mi andava anche meglio perché non facevo neanche quattro ore, facevo un tipo di dialisi ultrabreve, quindi era meno
duro. Tempo a parte, resta il fatto che la macchina è sempre pesante,
è sempre un po’ un trauma. Mi avevano proposto la dialisi peritoneale,
ma io non ho accettato perché sono contrario già solo al fatto di sapere di avere un corpo estraneo nella pancia. E’ vero che anche il rene
è un corpo estraneo, ma è una cosa diversa. Se lo dici lo sanno, se
non lo dici non lo sa nessuno.
Chi fa il trapianto deve affrontare, se proprio non è senza coscienza, un po’ uno shock nei primi mesi dopo il trapianto.
Perché tu continui a vivere, che tu lo voglia o meno, con un pezzo di
una persona che è mancata. Non che questa sia mancata per dartelo
o che gliel’hanno tolto a forza, come delle volte dei furbi giornalisti
scrivono: “Non è ancora morto per far vivere un altro”. Queste sono
tutte balle. Non bisognerebbe far giornalismo su queste cose.
A me è successo per parecchi mesi di faticare a adattarmi a convivere con un corpo estraneo, che non dava nessuna noia, a parte i dolorini
delle medicazioni. Poi, dopo un po’, diventa un’abitudine e non ci
fai più caso. Ogni tanto ci pensi, e ti dispiace per questa persona che
non c’è più; però poi pensi che tanto a lei non serviva più: bisogna
che sia questo il concetto.
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Marco e Elena R.
Marco: Sono sempre stato bene fino a ventun’anni,
ho sempre fatto molto sport
e durante il servizio militare ero preparatore atletico.
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Poco dopo il congedo ho iniziato ad avere dolori articolari al
mattino, febbricola alla sera, poco più di trentasette gradi, finché sono stato ricoverato in ospedale il giorno dopo ferragosto
per degli accertamenti.
Purtroppo i medici hanno impiegato ben venti giorni per incominciare a parlare di lupus, che è la malattia che mi ha cambiato la vita. In questo periodo, il medico della mutua consigliò la somministrazione di boli di cortisone, in quanto un trattamento di penicillina aveva peggiorato le cose.
Questa proposta venne messa in atto solo molti giorni dopo
per evitare che il cortisone interferisse sui risultati degli esami di laboratorio. In questa ventina di giorni ho avuto sempre
la febbre alta, trentanove-quaranta, sintomo che mi hanno poi
detto essere quello del danno in corso, che non veniva curato.
E così mi sono probabilmente giocato i reni.
Mi sono spesso chiesto se con una diagnosi tempestiva io oggi
sarei comunque in dialisi.
Quando finalmente hanno iniziato a curarmi adeguatamente col
cortisone, per constatare le condizioni dei reni mi hanno consigliato di fare una biopsia a cielo aperto, cioè una vera e propria
operazione invasiva con anestesia totale, sconsigliandomi quella a cielo coperto, che si esegue in anestesia locale, con un ago
speciale.
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Non potrò dimenticare quella biopsia, a causa del mese necessario al recupero, perché la ferita continuava a sanguinare,
e per l’evidente cicatrice che ho tuttora.
In seguito ho dovuto fare altre biopsie del tipo a cielo coperto,
per le quali è stato necessario un periodo di ricupero di tre
giorni, senza la minima cicatrice.
I miei complimenti a chi mi consigliò la biopsia a cielo aperto.
Il risultato della prima biopsia attestava una situazione renale
già grave, ed i medici erano stupiti che i miei reni funzionassero ancora bene. Inizialmente i medici mi hanno rassicurato,
mi hanno detto che non avevo nulla di grave: io penso che
anche ad un ragazzo i medici debbano spiegare chiaramente
la malattia e le sue possibili conseguenze; ritengo che minimizzare la malattia ti impedisca di prenderne coscienza.
Era un mio diritto sapere contro cosa avrei dovuto combattere.
A questo punto sono iniziati gli esami, le diete, i periodici
pellegrinaggi presso diversi medici, che davano pareri e terapie discordanti e che non mi hanno mai parlato di dialisi come
possibile conseguenza del lupus.
Nel 1990 mi sono anche recato da un noto luminare ligure, il
quale per trecentomila lire mi auscultava cuore e polmoni, mentre mi rivestivo controllava gli esami e dopo quindici minuti di
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visita mi dava il suo prezioso consiglio, sempre uguale: “Va
bene, continua così” e, senza spiegarmi il perché, mi aumentava il dosaggio dei farmaci.
Nessun tipo di rapporto, quando avresti bisogno che ti parlassero, ti spiegassero ... Se ripenso a quel periodo, ricordo il mio
senso di impotenza, di incertezza, di “cosa devo fare”, la mia
rabbia di fronte alla necessità di dover ingurgitare tutti quei
farmaci, sebbene io mi sentissi bene.
Non sapevo cosa stavo rischiando.
E’ ovvio che se si hanno dei problemi renali, questi possono
peggiorare fino a portarti in dialisi: sarà anche ovvio, però le
persone esorcizzano la paura non pensandoci, anzi io non sapevo nemmeno di preciso cosa fosse la dialisi.
Mi rendo conto che questo è uno sfogo, e che forse non è
neanche corretto dire a un ragazzo che è ai suoi primi problemi renali: “Potresti finire in dialisi”.
Nella mia carriera di paziente, ho incontrato anche ottimi medici, ma, come si dice, “un albero che cade, fa più rumore di
una foresta che cresce”.
Quindici marzo 1996: prima dialisi d’urgenza alle Molinette,
con nove di potassio: uno sballo.
Questa prima dialisi è stata resa meno drammatica dal fatto
che mi avevano somministrato Valium e Dintoina… purtroppo non mi sono più stati dati.
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Elena: La cosa che ho molto ammirato in Marco è stata che
quando ha saputo che la dialisi era per sempre, per qualche
ora è rimasto scioccato, ma poi ha pensato subito a come riorganizzare la sua vita.
Marco: Mi sarei messo in lista per il trapianto anche il giorno
stesso, purtroppo ciò è stato possibile solo due anni dopo.
Elena: Mi spaventava non la dialisi, ma l’idea di stare vicino
a una persona triste e rassegnata, lui non lo è mai stato, non
l’ho mai sentito lamentarsi della sua malattia.
Temevamo tutti che si sarebbe abbattuto, che avrebbe rallentato gli studi invece, uscito dall’ospedale, ha messo tutte le sue
energia nello studio, ha dato i cinque esami che gli mancavano
superandoli tutti con trenta o trenta e lode (che secchione), laureandosi in Informatica un anno dopo. Se fosse stato bene non
avrebbe probabilmente avuto gli stessi risultati.
Inoltre, ogni volta che ho avuto bisogno di lui, mi ha sempre
aiutata.
Marco: Se io ho reagito positivamente, il merito è anche di
chi mi è stato vicino, i momenti di abbattimento capitano a
tutti, ma se si è in due è più facile superarli.
Elena: All’inizio anch’io ho avuto bisogno di aiuto, e ringrazio i miei genitori che mi sono sempre stati molto vicini.
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Marco: Nel mese di giugno del 1996 ho iniziato a pensare di
essere un po’ sfortunato, in quanto ho dovuto tornare in ospedale per una polmonite; tornato a casa dopo qualche giorno,
mi si è chiusa la fistola.
Piccolo sfogo: credo che i medici anche con molta esperienza
a volte si sentano troppo sicuri, non mettendosi più in discussione e così, quando la fistola si è chiusa, sembrava che solo
un intervento chirurgico potesse risolvere la situazione, essendo io allergico ad un farmaco “stura –vene” che si usa in
questi casi. Mentre parlavano di sottopormi ad un’operazione
per farmi una seconda fistola, un giovane medico non si è
rassegnato: ha preso a cazzotti la fistola chiusa, che ha ripreso
a funzionare. Lo ringrazio per avermi evitato un’operazione.
Passa un anno in cui dializzo in corso Regina dove ho trovato
delle infermiere disponibili e competenti che mi hanno aiutato a convivere bene con la dialisi.
Elena: In questo centro Marco si è trovato molto bene: mentre
faceva dialisi era sostenuto dalle infermiere con caffè, the,
latte, panini e, con la complicità di altri pazienti, facevano
festini a base di brioches, pizze, salatini, aperitivi.
Ci credo che conviveva bene con la dialisi.
Marco: Questo centro per me è stato fondamentale: oltre alle
infermiere anche i “colleghi” erano positivi, allegri e simpatici.
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Credo che questi centri distaccati dovrebbero essere più valorizzati: lì è iniziata la mia ripresa.
Vi sembrerò matto, ma io ritengo di essere una persona fortunata: primo perché mi hanno spiegato com’era la dialisi dieci anni
fa, e poi perché entrare in dialisi è come nascere una seconda
volta. Quando sono entrato in dialisi ero debilitato, stanco e
depresso ed è stato fantastico poter tornare in breve tempo ad
amare la vita e sentire il proprio fisico riprendersi. In poche
parole, tornare a sentirsi bene. Il prezzo di questo benessere è la
dialisi e sinceramente non penso che sia un caro prezzo.
Io ho avuto anche la fortuna di poter fare la dialisi a casa, in
un ambiente familiare e con il grosso vantaggio di poter gestire al meglio il tempo.
Le persone che mi hanno aiutato a fare la dialisi a casa, mia
mamma inizialmente e la mia fidanzata in seguito, sono state
eccezionali: è fondamentale avere accanto persone che sanno
accettare con serenità la dialisi.
Penso si debba riflettere se fare questa scelta: nel mio caso il
rapporto con Elena non si è logorato, anzi ha continuato a crescere come e più di prima, però ho saputo di casi in cui le
difficoltà hanno rovinato il rapporto tra dializzato e partner.
Non pensate che sia pazzo, a me non piace certo essere in dialisi, però è necessario, soprattutto è possibile ricominciare a
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costruire, il mondo non ha colpa se i reni hanno smesso di
funzionare, quindi è assurdo prendersela con esso.
Oggi sono una persona serena, felice ed ho imparato a godere
di ogni minuto della vita.
Certo, il primo periodo del “dopo dialisi” è stato duro da affrontare: ero arrabbiato, spaventato. E’ stato terribile accorgersi di non poter tornare indietro, di non poter rimediare.
Le persone che mi sono state vicine sono state fondamentali per
costruire una serenità, una voglia di vivere, una forza interiore
e una sicurezza che prima di entrare in dialisi non avevo.
Elena: Quando la vita è scossa da fatti gravi ti accorgi di essere assolutamente impotente, l’unica cosa che puoi fare è mettere ogni tua energia per affrontarli, per minimizzarli.
Ho ammirato molto Marco: con tutto quel che gli è successo,
non l’ho mai sentito lamentarsi, anzi lui ha sempre cercato di
rincuorare tutti, di sdrammatizzare.
Marco: Elena è in gamba, ha affrontato la dialisi in modo
positivo, è una ragazza con un carattere deciso e positivo, la
sua allegria mi ha contagiato e così riusciamo a scherzare sulla dialisi, trasformandola quasi in un gioco. Non mi ha mai
fatto pesare nulla e viviamo molto bene insieme.
Ad esempio Elena ha battezzato il rene artificiale con il nome
“Celestina”, come se fosse una nostra amica.
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La dialisi non mi ha impedito di trovare un ottimo lavoro, se
una sera di dialisi ho un impegno importante, la sposto il giorno dopo: mi sono riappropriato del mio tempo e riesco a organizzarlo al meglio.
Oggi io e Elena riusciamo a lavorare una decina di ore al giorno,
andare in palestra, uscire con gli amici, viaggiare nei weekend,
sciare in inverno….e nei “ritagli di tempo” fare dialisi.
La dialisi è solo uno dei nostri impegni, l’unico improrogabile,
ed ora che si cominci, si ceni, si guardi un film, la dialisi è finita.
Elena: Vorrei precisare! Mentre Marco fa la dialisi, “ cena,
guarda un film e la dialisi è finita” ha la scusa per non pulire,
per non lavare i piatti per non cucinare…arriva a casa, si corica in poltrona e aspetta di essere servito.
Poverino: gli resta l’onere del telecomando, così, mentre stiro,
pulisco, riordino devo anche subire le sue scelte televisive.
Devo ammettere però che, a parte stirare che reputa un lavoro
da donna, mi aiuta in tutte le altre attività domestiche.
Marco: Tutte illazioni, piuttosto Elena mi sfrutta, mentre faccio dialisi mi fa sempre alzare e abbassare il volume della TV,
rispondere al telefono e, approfittando della mia impossibilità
a cambiare stanza, mi sottopone a terribili esibizioni canore.
Attualmente ho bisogno di Celestina per “far pipì”, però ho
molta fiducia nel trapianto e quando riuscirò ad avere un rene
nuovo…. sarà un’altra storia.
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Dimenticavo una cosa fondamentale: iscrivetevi all’AIDO (Associazione Italiana Donatori di Organi).
Grazie
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Roberto C.
Sono Roberto e ho quarantasei anni. Sono entrato in dialisi
nel gennaio ’92 e sono stato trapiantato il dieci luglio del
’94.
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La mia malattia aveva avuto probabilmente inizio anni prima,
ma ce ne siamo accorti solo nel ’90, quando gli esami del sangue hanno rivelato una creatinina molto alta e, quindi, ho iniziato subito una dieta aproteica; dopo circa un anno sono entrato in
dialisi perché la creatinina ormai era salita fino a dieci.
Il trapianto è arrivato nel ’94, è andato tutto bene, dopo diciotto giorni ero a casa, un trapianto sprint. Poco dopo, però, sono
iniziati i problemi relativi al cortisone, che non sopportavo e
non sopporto tuttora. Le dosi post trapianto sono più potenti e
anche per questo ho avuto prima il citomegalovirus e poi una
necrosi bilaterale delle due anche.
Verso Natale ho cominciato ad avvertire dei dolori, prima alla
gamba destra; subito c’è stata una certa difficoltà di diagnosi,
poi, verso Febbraio, hanno confermato che si trattava di una
necrosi e così sono stato operato due volte. Mi hanno inserito
due protesi. C’è stato anche un piccolo rigettino, un po’ sui
generis, perché mi avevano scalato il cortisone fino a sospenderlo; passando poi a dosi basse, si è risolto tutto ed ora proseguo con delle dosi quasi placebo.
La mia malattia mi è costata anche un pezzo di lavoro.
Per me la dialisi è stata un trauma, io amavo viaggiare, ma la
dialisi è un po’ come stare agli arresti domiciliari, ogni due giorni
devi andare a firmare. Io la dialisi la facevo a casa da subito, a
maggio ero già a casa, abbiamo adibito una cameretta per questo. Da una parte farla a casa mi ha aiutato, anche se non so se,
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globalmente, sia stata un’esperienza positiva, perché in questo
modo anche la tua famiglia è partecipe forse eccessivamente
dei tuoi problemi. Ho due figli che probabilmente, almeno il
più grande, sono rimasti traumatizzati nel vedermi attaccato a
questa macchina infernale. Non so se rifarei la domiciliare. Certo
è valida, hai una certa libertà, però ha i suoi svantaggi.
Non l’ho accettata bene, ero nervoso, tanto che ad un certo
punto il lavoro mi è diventato di troppo peso, davo al lavoro la
colpa del mio stress.
Avevo una concessionaria di auto che ho ceduto, poi sono stato amministratore delegato di una ditta meccanica e lo sono
tuttora, però non esercito, sono a casa, dopo l’ultima operazione ho voluto prendermi un po’ di tempo per ragionare, ho pensato: “La salute prima di tutto”.
Ho una casa a Superga dove mi diverto a fare il giardiniere,
faccio un po’ di viaggi, recentemente sono stato ad Amburgo,
cose che prima non potevo fare in quegli anni. A Natale vorrei
andare in America.
Nonostante i problemi, due operazioni eccetera, sono contento del trapianto.
Dopo entrambe le operazioni ho avuto qualche problema, non
legato direttamente al rene, però è per quello che sei sempre
in tensione; ho avuto un blocco renale di qualche ora, dovuto
ad un eccesso di Ciclosporina.
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Un altro magari sta tranquillo, ma la vita di un trapiantato è
volta a salvare il rene, non il cuore ma il rene.
Ho conosciuto anche la famiglia del donatore, penso sia una
cosa piuttosto rara. Non per mia scelta, ma perché la mia gemella di rene ed il paziente che aveva avuto il trapianto di
fegato hanno voluto andare alla messa che ogni anno fanno
per questo ragazzo venticinquenne, morto in un incidente.
Mi dispiace non potere più giocare a tennis e a pallone.
Cammino bene, ho giocato a tennis con mio figlio da fermo,
ma mi hanno proibito di correre. Ho avuto questa sfortuna.
In pratica non solo ho un rene nuovo, ma anche due pezzi di
femore nuovi.
Dopo la malattia il morale era proprio sotto terra.
A fine ‘90 la dottoressa P. mi aveva detto che l’unica cosa da
fare era la dialisi, per lo meno l’obiettivo era di arrivarci il più
tardi possibile, compatibilmente con delle condizioni di vita
discrete, dignitose. In realtà è stato molto duro, vivere con una
dieta aproteica è quasi peggio della dialisi.
Quando sono entrato in dialisi certamente ero traumatizzato,
ma ero anche liberato da quell’inferno.
Quando mi sono ammalato, al primo esame la mia creatinina
era già a sette, per tenerla fino a nove ho dovuto mangiare solo
pastiglie, le forze erano a zero.
Inizialmente, quando si comincia la dialisi, uno pensa di poter
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tenere una volta alla settimana, ma poi si passa subito a due e
velocemente a tre volte, perché il rene si ferma quasi immediatamente.
Nel periodo in cui ero in dialisi, nel ‘93, mi è nata una bambina, improvvisamente, inattesa. Infatti, col primogenito ci sono
dodici anni di differenza. Certamente è cambiata la vita. Da
quel momento, tutto quello che andava male prima si è messo
per incanto a funzionare, è stato di buon auspicio.
Già il trapianto è andato bene ed arrivato presto.
Mia figlia è nata il tre febbraio, al trapianto ero nella camera
tre, le due volte in ospedale per i femori sono capitato sempre
nella camera numero tre.
Mia figlia è stata davvero l’evento positivo, è una bambina cui
sono molto attaccato. Quando è nato mio figlio, il lavoro mi
sovrastava, avevo poco tempo da dedicargli.
Per mia figlia il tempo è stato tantissimo, perché sono stato
con lei sei mesi, poi anche gli interventi alle gambe mi hanno
fatto nuovamente stare molto a casa. Infatti, mia figlia è molto
affezionata a me.
L’evento più negativo della dialisi è stato il lavoro, che ho dovuto lasciar perdere, era un lavoro che mi piaceva, ma non potevo
continuare così. Io ero molto accentratore, uno non pensa che
domani si può ammalare, perciò era impossibile da gestire da
casa. E’ stato negativo per certi versi ma positivo per altri: gli
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ultimi vent’anni li avevo passati sotto stress, adesso sono tutto
meno che stressato, sono tornato a vivere normalmente.
La dialisi prima e poi il trapianto mi hanno portato a vivere
normalmente, a capire il senso della vita.
A chi inizia adesso la dialisi consiglierei di farla meglio possibile.
Io, quando mi attaccavo alla macchina, contavo persino i secondi, addirittura facevo staccare la macchina mezz’ora prima, compensando con la velocità di rotazione della macchina. Questo ha
portato, secondo qualcuno, all’indebolimento delle ossa.
Poi direi di non vederla come un castigo di Dio, bisogna prenderla come un’infermità e vedere nel trapianto lo sbocco.
Una persona anziana non può che conviverci. Penso che conviva meglio con la malattia un anziano, per un giovane è pazzesco. A me scocciava terribilmente l’obbligatorietà, neanche un
malato di cancro ce l’ha, deve fare la chemioterapia, ma noi
siamo obbligati ogni due giorni a sederci alla macchina, se non
lo facciamo ci vengono a prendere i carabinieri. Quando facevo
dialisi al G. c’era uno zingaro che non si presentava mai ed
andavano i carabinieri a prenderlo, come un delinquente.
Questa obbligatorietà ti uccide, non puoi viaggiare, ho provato a
fare qualche viaggio ma sommi stress a stress. Poi, avevo trovato una clinica a S., abbastanza efficiente, ma questi centri per le
vacanze in genere sono molto approssimativi. Non puoi neanche divertirti, stressi la famiglia, se hai una famiglia è una tensione continua.
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Ad una persona che fa il trapianto direi di non avere fretta di
tornare alla vita normale, di seguire con calma tutte le indicazioni. Quando uno esce dall’ospedale a volte è persino troppo
terrorizzato.
Il gemello di fegato ha avuto qualche problema perché credeva di essere tornato meglio di prima e poi si è tranquillizzato.
Direi di fare una vita normale ed attenta.
A me il trapianto ha obbligato a seguire una dieta corretta e
sotto questo punto di vista non sono mai stato meglio, non ho
più problemi digestivi, ad esempio.
Soprattutto se sopporti male la dialisi, hai paura per qualsiasi
problema che viene dopo il trapianto, al solo pensiero che il
rene possa cessare di funzionare ti viene il panico, ma perché
arrivi da un’esperienza di dialisi.
Ritornare in dialisi è la cosa peggiore che possa capitare ad
un trapiantato, la paura non è eliminabile.
Non penso che serva molta informazione, il rene funziona grazie alle terapie immunosoppressive, capisci da te che è un po’
precario. A meno che tu non sia un incosciente, la paura c’è,
almeno nei primi mesi.
L’informazione sul trapianto è molto scarsa. Non viene spiegato com’è veramente, già solo la preparazione è traumatica.
Si va in ospedale per la chiamata e dopo due minuti sei rasato,
hai fatto controlli su controlli, ti hanno immerso in un liquido
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nero disinfettante, capelli compresi, ti hanno sballottato avanti e indietro per ore.
Quando esci dall’intervento hai tubi dappertutto, non puoi
muoverti, sei nella camera sterile, poi a qualcuno il rene non
parte subito ed è uno stress tremendo.
Io ho avuto un’emorragia, che si è risolta, ma il rene è partito
subito. Quando sono stato trapiantato io, mancava l’informazione su cos’è davvero l’intervento. E’chiaro però che tornassi
indietro lo rifarei. Quando fai la dialisi, se la fai come me, vivi
al cinquanta per cento, perché per metà del tempo stai male.
Ricordo che nei primi mesi telefonavo sempre per sapere i
valori degli esami, poi senza neanche accorgermene non l’ho
più fatto, perché mi stressava fare le analisi e nel pomeriggio
telefonare per sapere come andava.
Al punto che mi impauriva l’avvicinarsi del prelievo.
Non penso possa esserci invece la paura del trapianto in sé,
non so chi possa preferire la dialisi.
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Giuseppe L.
Mi chiamo Giuseppe L. detto Leo (lo sfigato) e ho trentaquattro anni.
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Faccio l’impiegato, almeno lo facevo fino a due anni fa, poi sono
due anni più o meno che sono in mutua. Ho avuto un trapianto
nel 1991, finito nel ’95. Prima avevo fatto quasi tre anni di dialisi e adesso sono di nuovo in dialisi da quasi due anni.
Nel tempo libero non faccio sport, perché non ce la faccio più,
ma mi piace molto la musica. Suono in un gruppo.
Non mi sono ancora reiscritto in lista trapianto, ho pensato di
riposarmi un paio d’anni in dialisi. Con l’anno nuovo rifarò
tutte le visite, mi reiscriverò, acquisterò un paio di cornetti
sugli ottanta centimetri perché vada meglio del primo.
Spero di avere poi una vita positiva.
Ho due figli.
Si sono accorti della mia malattia nell’82, quando ho prestato
il servizio di leva. Dovevano operarmi ad un ginocchio, mi ricoverarono e mi fecero degli esami del sangue: mi dissero che
non potevano operarmi perché avevo l’azotemia troppo alta.
Siccome non sapevano il motivo, mi mandarono a fare degli
accertamenti, al G.
Ho fatto esami del sangue, lastre, ecc. e hanno detto che probabilmente avevo avuto una nefrite e che per puntiglio avrebbero
ancora eseguito un’urografia. L’ho fatta il giorno dopo, ed è stata una sorpresa. Dall’esame è saltato fuori che non avevo una
nefrite ma che un rene non funzionava e l’altro non funzionava
quasi più.
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La causa si è vista bene per il rene sinistro, che ancora un po’
funzionava e si vedeva all’urografia, ed era una stenosi ed un
inginocchiamento del giunto pielo-ureterale. Per l’altro rene si
supponeva la stessa causa, ma non si è mai saputo con certezza perché ormai non si vedeva più, era muto.
La mia disfunzione quindi è stata scoperta per caso.
Io, addirittura, ero donatore AVIS e, quindi, facevo esami del
sangue regolarmente, ed erano sempre a posto. Per fortuna,
durante il servizio di leva, dovendo fare quell’operazione, hanno visto il tutto. Dopo l’urografia mi hanno operato, hanno allargato e drizzato il giunto, però ormai il rene era andato.
Ho vissuto ancora qualche anno facendo una pseudo-dieta e voilà,
sono arrivato in dialisi e, dopo aver cambiato residenza, sono
passato direttamente alle Molinette, al centro di corso Regina.
Per me il trapianto è stato tutto un evento un po’ particolare, nel
senso che mi hanno messo questo rene il dieci febbraio del ‘91 e
mi sono fatto tre mesi di ricovero, già quello non è il caso più
comune. La creatinina non si è mai assestata, non si abbassava
mai, continuava a salire, poi si fermava, poi oscillava un po’.
Ne ho avute di tutti i colori: due rigetti, curati la prima volta
con dei boli di cortisone, all’inizio sembrava che fossero rientrati. La seconda volta, il trattamento è stato fatto con i
monoclonali, e anche lì il rigetto era più o meno rientrato, anche se la creatinina non è mai stata brillante.
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Mi ricordo questo episodio: per il trattamento con i monoclonali
mi hanno detto: “Non fa niente, è per il rigetto, però firma qui”,
perché all’epoca se non firmavi non te li facevano.
Poi finalmente sono uscito dall’ospedale, sono andato a casa e
lì ho avuto diversi altri problemi. Alla fine ho avuto un terzo
rigetto, che hanno pensato bene di curare con cortisone a “gogo”, in una stanza sterile, dovevi entrare tutto bardato con
mascherina, camice, calzari….
Passata la fase acuta, la creatinina continuava ad aumentare.
Alla fine, come c’era da aspettarsi, ho perso il rene. Insomma
non è stato un trapianto fortunato.
Il trapianto di per sé è una liberazione perché ti toglie dalla
dialisi. Per tanti altri sarà stato anche motivo di una soddisfazione maggiore: fare pipì di nuovo. Io, invece, avevo conservato la diuresi, quindi da quel punto di vista non è successo nulla
di nuovo. Però togliersi per un po’ dall’ingombro della dialisi è
stata una gran cosa. Ed è quello che in fondo spinge le persone
a fare il trapianto.
Solo che il trapianto, non so se per sfiga, per costituzione o che
cosa, mi ha creato tantissimi problemi: vuoi questi tre rigetti,
vuoi una tromboflebite, per la chiusura della fistola, che è arrivata fino alla spalla. Poi ho avuto una tromboflebite abbastanza
sostenuta alla gamba sinistra, poi la cataratta ad entrambi gli
occhi, dopo il glaucoma ad entrambi gli occhi, poi mi hanno tolto
un testicolo per un tumore, poi mi è venuta anche una flebite sul
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dorso del pene: una bella avventura! Poi, le gengive si gonfiavano e si ritiravano, per colpa sempre della Ciclosporina. Poi,
dimenticavo che per colpa del Lasix mi è sceso l’udito, rimane
il naso che è sano.
Insomma un bel macello, non entriamo nel dettaglio tra colpa
della Sanità o delle medicine, ma è stata una bella avventura.
Comunque non per questo non rifarei un trapianto, anzi lo rifarei ben volentieri, però voglio prendermi un po’ di riposo.
Me ne sono capitate così tante che ho detto: “Finalmente entro
in dialisi, mi riposo un po’”. Ho optato per la peritoneale perché
l’emodialisi l’avevo già provata, ed è stata una bestia feroce.
Finché hai venticinque-ventisei anni va bene, ma adesso, dopo
il trapianto, ho riprovato a fare emodialisi e non ce la facevo
più. Avevo gli stessi sintomi di prima (sette-otto anni fa) però
una volta avevo il fisico più resistente.
Così ho pensato di fare la peritoneale.
Aspetto di riposarmi, perché fino ad adesso non ho potuto, ho
avuto vicende su vicende. Magari per l’anno prossimo penserò
ad iscrivermi in lista trapianto, sperando che vada meglio del
precedente, anche se da quello che mi sembra, nonostante molti
medici lo smentiscano, il secondo trapianto normalmente dura
meno del primo.
Ma la speranza è l’ultima a morire e, se anche fossero solo due
o tre anni splendidi, potrei dire che ne è valsa la pena.
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E’ una scelta molto sofferta, tutti i problemi che ho avuto sicuramente non regrediscono, al massimo si possono accentuare,
ed, inoltre, in un trapianto ci sono anche altri problemi, chissà
dove andrò a sbattere la testa. Comunque chi vivrà vedrà, se
non mi ammazza prima il gelo, come si dice.
Ho un po’ di pancetta, anzi è la sacca peritoneale che spinge e i
muscoli si rilassano. Dovrei fare ginnastica, ma non ce la faccio.
La stanchezza di base è la cosa fondamentale, anche proprio
per la voglia di fare una cosa, poi ho questi dolori…
E’ come se i muscoli non fossero più irrorati, non mi reggono.
Io, da quando ero bambino, cammino tanto, chilometri e chilometri. Addirittura quando facevo emodialisi al G., uscivo di lì
a pezzi, stremato, sudavo a goccioloni ma facevo tre-quattro
chilometri a piedi per andare a casa. Li facevo patendo, ma li
facevo, adesso non riesco. Non è quindi che non cammino più
perché mi manca l’allenamento.
Non c’è nulla di tanto facile nella mia vita; se dovessi dare un
consiglio a chi inizia la dialisi, direi, ad un giovane come ad un
anziano, di fare la peritoneale perché secondo me è meglio, al
di là di ogni stress, anche se comunque crea più problemi di
ciò che dice il medico.
Soprattutto per un anziano, ma anche per un giovane, penso
che la peritoneale conservi sicuramente più a lungo la diuresi
che non l’emodialisi. E poi, comunque, secondo me si può stare
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meglio, io non sono più stremato come con l’emodialisi, e sono
più libero come dieta, come liquidi.
A chi invece vuole fare un trapianto, consiglierei non dico di
sviscerare l’argomento, ma di informarsi il più possibile in modo
preciso, non solo sul trapianto, ma anche sulle conseguenze
del rene, delle medicine, della vita che devi fare.
Avere dei dubbi non è essere negativi: non è che cambi la volontà
di fare il trapianto, perché se uno sta male in dialisi vuole sempre
fare il trapianto. Però, sapere tutte queste cose ti fa vivere in modo
migliore il trapianto e ti fa vivere diversamente la morte di un
trapianto. E’ capitato a me, e anche a molta gente che ho conosciuto e conoscerò, che la cosa peggiore è stata andare incontro
ad una cosa senza sapere cosa ti poteva capitare.
Questo non vuol dire cercare di sapere tutto maniacalmente, e
poi magari vivere dieci anni di trapianto con l’angoscia di perderlo, ma vuol dire fare il trapianto essendo cosciente di farlo e
di quello a cui si andrà incontro.
Così si vive meglio anche l’evenienza negativa perché, in fondo in fondo, si sapeva che poteva accadere, pur senza vivere
male il trapianto, altrimenti è meglio rimanere in dialisi, ha
anche parecchi meno rischi, se vogliamo.
Per il trapianto mi hanno fatto un corso di informazione breve
breve e mi hanno detto di non andare per un po’ al cinema,
perché nei posti pieni di gente c’è qualche rischio di polmoniti,
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bronchiti, poi mi hanno consigliato di usare il preservativo con
mia moglie. E non mi hanno detto tutte quelle cose che rischiano di venire dopo, dal rigetto istantaneo al rischio di morire di
infezione o cose simili. E’ giusto sapere anche questo, magari
l’un per cento deciderà di non fare più il trapianto, però vivrà
meglio in dialisi. E il restante novantanove per cento farà il trapianto con una scelta più cosciente.
Poi direi di seguire i consigli del medico, e di ricordarsi di prendere la Ciclosporina o altre terapie (l’ho saltata solo una volta
ma non è successo nulla, ma di solito però con la terapia sono
preciso).
Per me, il problema di accettare un pezzo non mio non c’è
stato, e non consiglio di pensare a quello. Perché se uno comincia a pensare che ha dentro un pezzo di carne sanguinolento
di un altro che magari è malato, per carità…Bisogna pensare
di avere un pezzo che è quasi un pezzo di ricambio.
Se incominci a pensare che non è tuo, hai finito di vivere.
Già inconsciamente magari non lo accetti mai, anche se non ci
pensi, se ancora aiuti col conscio….
Sembra una cretinata, ma penso che si dovrebbe, non dico coccolare il rene nuovo, ma almeno pensarne bene, è quasi come
volergli bene.
E volere bene a qualcosa aiuta sempre.
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Maria D.
Sono Maria D., ho trentotto anni.
Ho anche un fratello che fa dialisi da quando aveva dodici anni.
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Noi abbiamo sempre seguito la sua malattia da quando siamo
piccoli, io e l’altro mio fratello, insieme a mia madre.
Io sono stata sempre bene, ad un tratto a ventisette anni, dopo
la gravidanza, ho cominciato ad accusare dei segni di stanchezza, ad avere i battiti cardiaci accelerati.
Mai più pensavo ad una cosa del genere.
Sono andata a fare degli esami dal medico di famiglia. Io lavoravo al mercato, era un lavoro pesante, poco sedentario. Al
mattino ero a lavorare, al pomeriggio ho fatto questi esami in
privato e mi risulta la creatinina altissima, l’azotemia pure.
Però subito i miei mi hanno nascosto tutto sapendo del mio
carattere emotivo. Certo che quando mi sono ritrovata ricoverata alle Molinette e ho visto tutti i medici che seguivano mio
fratello, mi sono resa conto di cosa mi stava accadendo.
Infatti chiedevo: “Cosa ho? Ho la stessa malattia di mio fratello?”.
Mio fratello aveva fatto il trapianto a Bologna tanti anni fa. All’epoca tutto era complicato, siamo stati lì un anno, quando aveva sedici anni. Ora lui è tornato in dialisi. Ha ricevuto il rene da mia
madre e anche lei adesso è in dialisi perché il rene rimasto si è
affaticato. Mia madre ha solo cinquantacinque anni. Mio fratello
non si è più reiscritto in lista, anche perché è stato trapiantato
negli anni dei primi trapianti, quando a Torino non si facevano
ancora ed ha avuto veramente delle complicazioni gravi.
Ha vissuto quasi un anno in camera sterile a Bologna, ha patito
moltissimo.
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Gli dico sempre di reiscriversi, ma lui ha paura.
Lui ha avuto molti problemi, perché ha iniziato la dialisi che
aveva solo dodici anni, era quasi bambino.
Tornando alla mia storia, quando sono stata ricoverata, un po’
per volta è risultata questa insufficienza renale gravissima, e
dopo quindici giorni ero già in dialisi. Tutto è successo nel giro
di un mese, senza quasi rendermene conto, poi un po’ per volta
ho accettato la dialisi, sono riuscita ad accettarla.
La dialisi è durata cinque anni, in quel periodo avevo anche il
bambino piccolo, che aveva solo due anni e mezzo, ma anche
con la dialisi l’ho tenuto sempre benissimo.
Problemi gravissimi in dialisi non ne ho avuti, però ero sempre
molto stanca, non riuscivo a fare quasi niente, facevo fatica a
fare tutto, a salire le scale e a fare dei movimenti come adesso.
Adesso, da trapiantata, è tutta un’altra cosa, è come se fossi
nata due volte. Ho fatto il trapianto nel 1990. Nel primo periodo ho avuto un rigetto, che è stato curato, così ho passato un
po’ di mesi in ospedale. Poi sono stata, da allora, quasi sempre
bene, ma veramente bene.
Quando mi sono iscritta subito in lista trapianto, non vedevo
l’ora che mi chiamassero, anche se all’inizio, appena ricevuta la
telefonata per recarmi in ospedale per fare la tipizzazione, avevo
una paura tremenda, poi mi è passata subito.
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Mi hanno chiamata all’una, ero da sola in casa, mi ha telefonato il dottor M. e sono andata in ospedale per fare tutti gli esami.
E’ un po’ scioccante la fase di preparazione all’ultimo momento, ma i medici ti danno la certezza che tutto vada bene e,
allora, anche per me è stato diverso, se la strada riesci a percorrerla così, non ci pensi neanche.
Per il trapianto sono molto felice di avere avuto vicino i medici
delle Molinette. Ti danno sicurezza e, infatti, quando mi avevano dimessa non volevo più andare a casa, ma rimanere qui
nel reparto. C’era anche la dottoressa P. che mi seguiva e, per
convincermi a ritornare a casa, diceva che Nico, mio figlio, mi
aspettava a casa… Mi sentivo così sicura in ospedale che non
volevo andare a casa, i medici erano tutti un po’ perplessi, mi
dicevano che ero l’unica a comportarmi così.
Il gruppo dei medici del trapianto è ottimo, sono tutti affiatati;
in qualsiasi momento del giorno o della notte noi trapiantati,
se abbiamo qualche cosa che non va, rimaniamo tranquilli,
con una telefonata si può risolvere quasi qualsiasi problema.
Anch’io a volte ho avuto dei problemi, per esempio una volta di
pressione alta, fino a duecento. E anche se è successo di notte,
basta una telefonata e trovi sempre un medico a tua disposizione, e questa è una bella sicurezza, anche se siamo per esempio
al mare, fuori Torino. Bisogna avere fiducia nei medici. Io mi
sono sempre trovata bene, quando ne ho avuto bisogno.
Loro sono sempre nei miei ricordi.
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Quando ho avuto il rigetto ho avuto molta paura.
All’inizio, subito dopo il trapianto, sono stata benissimo, infatti
a dieci giorni dal trapianto sono stata dimessa. Dopo una settimana sono ritornata in ospedale per un rigetto acuto. Ricordo
che allora è stata la fase più critica del trapianto, sono stata
malissimo, ho avuto delle crisi depressive, perché mi sono resa
conto che il trapianto era appena cominciato e che poteva anche finire male. Dopodiché il rigetto è rientrato e il rene è
andato sempre bene, con una creatinina di poco più di uno.
Il rigetto è stato curato.
Allora avevo perso la fiducia nel futuro, adesso è rimasto solo
un ricordo di quel periodo.
Ora faccio attività sportiva, vado in bicicletta, cosa che in dialisi
non riuscivo proprio a fare perché mi mancavano le forze.
Però, tutto sommato, in dialisi non ho avuto grossi problemi;
certamente è un’altra cosa: è tutto l’organismo che non funziona.
Col trapianto ritorni una persona normalissima, ti sembra quasi un sogno, non ti sembra neanche più vero quello che è la
dialisi. Ormai è un ricordo lontano.
Ad una persona giovane che fa dialisi consiglio di fare il trapianto, perché non è il caso di soffrire.
Non ci devono essere troppe paure per il trapianto, perché oggi
non ci sono dei medicinali così terribili come mi avevano detto
altri trapiantati.
Io ho trovato tutto normale.
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Una persona anziana ha altre prospettive, e di solito ha sempre
dei problemi collegati con la dialisi, magari al cuore. Ci sono
delle alternative diverse.
In questo caso, direi di vivere bene la dialisi, perché avendo dei
problemi di salute gravi in dialisi penso non valga la pena rischiare di complicarli ancora di più col trapianto, perché subisci sempre un’operazione, senza parlare della terapia immunodepressiva,
dopo.
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Davide G.
La mia storia è iniziata da giovanissimo,
perchè mi sono ammalato a sette anni.
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Prima di ammalarmi avevo molta paura del momento in cui dovevo andare a dormire: come molti bambini, penso, avevo paura
di addormentarmi. E questa è una costante che c’è sempre stata
nella mia vita e che c’è ancora adesso. I cinesi dicono che la
paura è localizzata nei reni; questo è un accostamento che ho
fatto vent’anni dopo. Dopo aver avuto queste grandi paure, queste grandi angosce, mi sono ammalato; non so se ci può essere
un collegamento scientifico, però a me è successo così.
Quando mi sono ammalato, i primi medici hanno impiegato
molto tempo per capire quale malattia fosse, fin quando ho
incontrato un medico che ha diagnosticato una nefrite. Da quel
momento ho passato alcune esperienze bruttissime che mi hanno segnato: sono stato ricoverato a R. in una Medicina dove
moriva un sacco di gente, perché in Pediatria non c’era posto.
Moriva tanta gente e io rimanevo scioccato da questo. La morte non sapevo assolutamente che cosa fosse.
E così che è nato un interesse, quello verso la morte, che mi
accompagnava sempre, fino ad adesso.
Ho evoluto questo concetto della morte fin quasi ad essere un
esperto; può sembrare strano, quasi psicotico… Però ho fatto
una vita normale, anche perché io crescevo in un paesino piccolo, quindi una realtà che mi stava vicino, non come quella
della città. Non ero isolato, ero sempre in mezzo alla gente.
Il periodo più difficile è stato dai quindici ai diciotto anni, quando
si è acutizzata la malattia e io capivo che cos’era e dove portava.
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Quindi grandi depressioni, turbamenti dentro di me e grandi lotte
per fare quello che facevo: se un ragazzo ci metteva un’energia di
cinque per fare una cosa, io per la stessa dovevo mettercene quindici. Ciò ha significato una fatica pazzesca per fare qualsiasi cosa,
e poi questa stanchezza enorme.
Finché, a sedici anni, è arrivata la dialisi. La dialisi mi ha sconvolto. La prima cosa che ho pensato quando sono entrato in sala
dialisi era che mi sembrava un mattatoio, con queste bilance
sotto ai letti. La cosa che mi aveva colpito era che sulla bilancia
c’era scritto: “bilance, bilici, affettatrici e tritacarne”. Poi mi aveva
colpito il sangue sul soffitto…Mi avevano preparato alla dialisi,
ma poi tutto è diverso da quello che uno pensa.
Succede allora che mi rivolgo a varie cose fuori: a diciotto anni
inizio il liceo artistico, esco dalla famiglia per la prima volta, non
nel senso che mi opprimesse, ma la elimino quasi, elimino i
vecchi amici, entro in un ambiente in cui tutto era nuovo: l’ambiente e gli insegnanti del liceo artistico, un certo tipo di arte qui
a Torino, personaggi strani, la droga, il fumo, di cui ho fatto uso
senza che incidesse sui fatti della malattia, e senza seguire quasi
niente di quello che dicevano i medici.
Facevo la terapia perché facendola raggiungevo quello che mi
interessava, quindi era per me conveniente; in alcuni momenti
la terapia non era conveniente e non la facevo. E poi un problema costante di tutta la vita è stata la pressione alta, che ha segnato un po’ tutto.
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Facevo la terapia quasi esclusivamente per la pressione alta che
non si risolveva, rimaneva poco controllata. Io, a volte, non me ne
facevo una ragione, me ne fregavo e allora stavo ancora peggio.
Iniziare il liceo artistico è stata una fortuna perché mi ha dato
molte cose, un’idea diversa di vedere, con la vista e col dentro.
Prima di quel periodo non mi ero preoccupato di che mestiere fare,
del futuro, non ci avevo mai pensato. Anche questa esigenza è nata
durante il liceo artistico: vedevo questi artisti che facevano delle
cose che a me piacevano, davano dei messaggi che io avevo dentro
e che avrei potuto eventualmente sviluppare. Quindi ho pensato
“faccio l’artista”, e infatti faccio lo scultore. Cosa molto presuntuosa
detta così, perché quando ho capito di cosa si trattava veramente,
era tutta un’altra cosa rispetto alla facilità che avevo pensato.
Però ancora di più ho detto: “Beh, nella mia posizione clinica
questa è una cosa da sviluppare perché mi interessa, ci buttiamo a capofitto in questa esperienza in campo artistico”. Conosci tanta gente… Però, dopo, mi sono accorto che era una cosa
falsa, fuorviante. Doveva esserci dell’altro. Far l’artista non era
solo quello che si diceva in giro, che poteva apparire, era qualcosa di legato alla spiritualità. Il messaggio che uno vuole dare
è molto legato a cose che non si dicono e di cui non si parla.
Uno dei fatti più importanti della mia vita, uno dei punti che
l’hanno cambiata è stata la decisione di togliere i reni, dato
che avevo sempre la pressione alta.
Questa cosa per me era completamente fuori dal mondo.
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Secondo me, non se ne doveva neanche parlare, era una cosa
sbagliatissima. Era diverso dalle altre volte, era una consapevolezza diversa. Infatti, sono scappato dal primo intervento, fuggo in
seminario da dei miei amici, tutti si preoccupano. Invece, al secondo intervento programmato vado e mi faccio togliere questi
reni. Questa storia mi ha segnato, nel senso che sono stato sempre
convinto che sia stato un errore perché, ad esempio, subito dopo
l’intervento la pressione non si è abbassata. E sono andato avanti
ancora con una terapia molto pesante per la pressione. Questo mi
ha portato ad avere del rancore verso i medici, anche del vero e
proprio rancore fisico verso il chirurgo che ha operato. E son passati tanti anni, ma io a volte mi chiudo e risento questa cosa. E’
qualcosa che non ho mai risolto. Razionalmente lo capisco che
non ci sono colpe, però irrazionalmente no.
Dopo questa cosa ho perso totalmente la fiducia nei medici allopatici
ed ho cominciato a fare delle cose alternative. Prima di tutto ho
fatto quattrocentocinquanta ore di una specie di ipnosi regressiva,
che mi dato dei benefici e livello della pressione, ma soprattutto a
livello della consapevolezza. Mi sono fatto le mie idee, ad esempio
sul fatto che ci siano altre vite.
Io adesso credo nella reincarnazione.
Con l’ipnosi ho visto i grossi traumi delle vite passate. Perché
abbiamo milioni di anni, siamo quasi eterni.
Ho visto dei traumi molto grossi, che probabilmente mi hanno
fatto vivere questa vita in questo modo.
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Faccio dialisi in corso Vittorio. Sono sempre stato seguito dallo stesso
gruppo di medici ed è difficile, per chi fa dialisi, staccarsi dai medici
conosciuti; c’è un odio-amore. Ho così continuato a far dialisi qui,
anche se potevo farla più vicina a casa. Tranne una parentesi di dieci
anni fa, in cui ho fatto per due-tre anni la dialisi a casa con mio padre,
esperienza che non consiglierei a nessuno, perché con la dialisi
domiciliare ospedalizzi la casa, tieni occupata un’altra persona e, anche se lo fa volentieri, non è giusto. Per me era un grosso ostacolo
mettere gli aghi, era proprio una fatica psicologica, dovevo prepararmi, convincermi. Quindi ad un certo punto ho detto “Basta”: vengo
qua, faccio le mie ore di dialisi, me ne vado, a casa non c’è niente.
A Rivoli potrei fare la stessa cosa, però qui ho conosciuto un’infermiera, sette anni fa, ci siamo piaciuti ed innamorati e siamo andati a
vivere insieme dopo un anno. All’inizio tenevamo nascosta questa
cosa, pensavamo fosse un po’ particolare, spiacevole per gli altri.
Poi, piano piano, tutti sono venuti a saperlo, per esempio quando
sono stato male lei veniva a trovarmi in ospedale. Qualcuno ha detto
la sua, che per lei era una cosa molto sconveniente, ma io già lo
pensavo che per lei era sconveniente, così non ci siamo stupiti. Per
anni ho fatto la dialisi con lei qui. C’erano sempre dei problemi. Lei
aveva molta paura di trattarmi meglio degli altri, quindi mi maltrattava un pochino. Ma io lo sapevo, e non c’era nessun problema. Però
poi ha chiesto il trasferimento a Rivoli e io sinceramente non volevo
ricreare quell’atmosfera di fare la dialisi dove lei lavora. Mentre una
volta pensavo: “Che bello avere una compagna che fa l’infermiera!”,
adesso penso l’esatto opposto, mi piacerebbe che lei facesse un altro
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lavoro; è negativo per il nostro rapporto di coppia. Superabile,
però…
E poi, anche per la dialisi a casa, molti dicono: “Hai una compagna infermiera, fai dialisi, e non vai a farla a casa?”. Mi sembra
proprio assurdo, si porta il lavoro a casa?
All’inizio è stato un vantaggio: io viaggiavo poco e con una cerchia
di amici ristretta.
Invece con lei, che ama molto viaggiare, anch’io ho trovato il piacere di viaggiare, anche in posti che non conoscevo assolutamente. All’inizio l’ho fatto perché ero appoggiato da lei, dopo comunque ho capito che non succede niente di grave: anche se la dialisi
te la fanno male per qualche volta, pazienza, tanto sei in vacanza.
Mi sono detto: “Si viaggia lo stesso”. Adesso preferisco che lei non
venga nemmeno lì dove faccio dialisi. A volte egoisticamente mi
piacerebbe, ma non ha senso, è in vacanza anche lei.
Ho anche avuto delle bruttissime esperienze in vacanza, ad esempio, la prima volta che sono andato in Francia a Nantes ho avuto
l’edema di Quincke, una terribile reazione allergica, che è la cosa
più tremenda che possa accadere in dialisi, come incidente. Ti
terrorizza proprio.
Adesso siamo andati alle Canarie, in Sicilia, la Francia l’abbiamo
girata tutta, Amsterdam, non c’è mai più stato problema.
Viaggiare è una cosa che in dialisi ci si preclude, ma non è giusto.
Bisogna affrontare le cose in modo un po’ elastico, andare avanti e
lasciar perdere.
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Un incontro importante è stato quello con G.
Era un periodo piuttosto brutto delle mia vita e lei mi ha fatto
scoprire ancora di più il mondo dell’arte, nel quale ero però già
inserito. Conoscere un medico che si occupava anche di altre cose
è stata una rivelazione.
Infatti, la prima volta che l’ho vista non credevo fosse un medico.
Si è creato un rapporto speciale, mi ha fatto conoscere i suoi amici,
è stato un periodo molto positivo. Con G. non si parlava quasi mai
di problemi di dialisi, era proprio un medico anomalo. Mi ha aiutato molto, è stata una figura molto forte che, non parlando della
dialisi, mi ha fatto capire molte cose della dialisi che mi hanno
portato a vivere meglio.
Ho incontrato due o tre medici su cui mi sono potuto appoggiare,
che erano un po’ illuminati, anche medici che normalmente sono
considerati “Medici”, come ad esempio la dottoressa C. che per
me è stata una figura importantissima. Nei momenti più brutti
della malattia c’era lei, io lo ricorderò sempre.
Il prof. P. è stato anche molto importante, a volte a distanza, a volte
più ravvicinato, è stato presente nei momenti brutti della malattia.
Persone come P. e S. sono stati veramente grandi, mi hanno dato
una mano, allora non me ne accorgevo, ma sono state persone
importanti nella mia vita. Io ho avuto un mioma tra un lobo e l’altro
del polmone, che mi è stato asportato, quindi un’operazione grossa, anche se era un tumore benigno, e queste persone mi sono
state vicine e le ringrazio.
Dopo le ore di ipnosi un altro fatto importante è stato incontrare un
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grande medico omeopata, molto bravo, il dottor C. Anche lui ha
cercato di aiutarmi. A livello medico non è servito molto, la pressione aveva i suoi alti e bassi, ma è servito molto a livello psicologico: mi ha fatto scoprire parecchie cose di me attraverso l’omeopatia e tramite lui.
Secondo me, in dialisi l’aspetto psicologico viene sempre trascurato dai medici o, se viene affrontato, non lo è mai veramente in
profondità. Invece, l’aspetto di come può vivere una persona è
fondamentale in dialisi. Perché altrimenti uno rischia di pensare
che la malattia sia la vita, e invece la malattia ti cambia la vita, ma
non è solo quello: la vita è un’altra cosa, che merita di essere
vissuta comunque, in tutte le tragedie.
Molto importante è stata per me anche l’amicizia con un esoterico
e, parlando con lui, ho ancora più sviluppato certi aspetti di quello
che io pensavo sulla reincarnazione, sulle vite passate. Questo
può aiutare a prendere consapevolezza di come uno è, poi si può
essere molto scettici, l’importante è usare tutte le cose come se
fossero un mezzo per attraversare quel momento e vivere meglio.
Anche se una cosa è improbabile o non vera, ma tu pensi che in
quel momento ti possa dare qualcosa, allora bisogna seguirla, bisogna fidarsi ed ascoltarsi.
L’ultimo mezzo che ho trovato è aver incontrato un infermiere che
praticava il buddismo. Parlando con lui ho capito che tutto quello
che pensavo era immerso nella filosofia buddista, che consiste
nello studio e nella pratica.
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Così ho cominciato a praticare il buddismo. Praticando il buddismo
ritengo di aver alzato la qualità della mia vita tantissimo, tanto da
non pormi più limiti, il limite si sposta sempre. Ho iniziato a provare
a praticarlo. La pratica consiste nel recitare un “Mantra”, una frase
che significa: “Mi lego tramite vibrazione alla legge mistica di causa
ed effetto”. Ci si può chiedere come può una frase incidere così
tanto nella vita, lo pensavo anch’io. A me questo è servito, ad esempio, a regolarizzare la pressione, in un mese di pratica ho radicalmente risolto questo problema. Prima avevo duecento su cento, adesso
con una terapia minima ho al massimo centosessanta su novanta.
Questa religione mi ha permesso di vivere bene, di avere una forza
vitale molto alta, di capire dove sbaglio, gli errori che ripeto: vedi
proprio con altri occhi. A volte può sembrare fanatismo,
autoconvinzione, io non so. Anche se lo fosse, se mi permette di
vivere meglio, senza far male a nessuno né a me stesso, io penso che
vada bene. Per adesso io continuo a praticare il buddismo, finchè mi
darà benessere. Mi ha cambiato anche nel rapporto con gli altri,
prima ero in un mondo di collera, ero arrabbiato con tutti, invece
non c’è motivo: la vita è andare d’accordo con tutti. E’ importante
avere gente intorno che pensa bene di te e tu pensi bene di loro.
Perché siamo noi che possiamo modificare l’ambiente. Non ci sono
dogmi, divieti, tu preghi te stesso, di trovare dentro di te l’energia.
Un altro fatto importante è stato aver incontrato Tiziana. Sei anni di
vita con lei sono stati un grande passo verso il futuro, un rapporto
così ti fa pensare che non stai vivendo solo per te, ma che devi star
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bene, che devi essere d’appoggio, per avere un futuro insieme.
Quindi io non penso più di morire giovane o di cercare di morire
quando qualcosa va male. Penso che devo farlo per me, per lei, il
mio cane, gli amici: bisogna lavorare per sé e un po’ per gli altri.
Io non penso che adesso il trapianto per me possa risolvere delle
cose, primo perché ne ho paura, magari potrò superarla più avanti, ma penso che per tutta la vita dovrò fare la dialisi.
Io ho il terrore del cortisone. L’ho usato molto da piccolo e mi dava
delle depressioni tremende. Questo è l’ostacolo più grosso. Finchè
ci sarà il cortisone per il trapianto cercherò di non farlo. Poi magari riuscirò a superare questa cosa.
Anche le persone che spingono molto per il trapianto o i pazienti
che vedono la soluzione di tutto nel trapianto, sbagliano. Può essere una delusione enorme. Il trapianto dev’essere un mezzo, non è
la soluzione. La soluzione è cercare di vivere bene ogni momento.
Il buddismo dice di vivere bene il presente per fare un buon futuro. Questo lo puoi fare aldilà del trapianto, della dialisi, di tutto
quello che ti può capitare. Spero che i trapianti vadano sempre
meglio, spero un giorno di cambiare idea e anche che sia la cosa
giusta da fare. Non sono un fanatico del trapianto.
Ad un giovane consiglio di non fossilizzarsi e di non fare entrare
tanto profondamente questa malattia dentro a se stesso. E’ difficile
da fare perché la malattia ti occupa tanto, stai male e, soprattutto
all’inizio, non capisci più niente. Vorresti metterti nelle mani di
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qualcuno e delegare, invece bisogna guardarsi dentro e vedere
cosa sta succedendo.
Non sono molti i consigli da dare.
Quelli medici li danno i medici e sono da seguire.
Dopo una giornata di dialisi, a casa, di notte, uno sente una certa
stanchezza, ma quello è solo un aspetto, bisogna fare delle cose e
mantenere una buona energia. Io, ad esempio, a trent’anni ho cominciato a fare sci di fondo, che è molto faticoso, ma lo faccio
perché mi diverto. Non vietarsi niente quindi. Tutto ciò che è movimento fa bene. Io cercherei di camminare tanto, serve molto
dopo. Se fai tanti anni di dialisi muovendoti, incontrando tante
persone, senza chiuderti né nascondere questa cosa, tutto diventa
più facile, o almeno meno difficile.… Quando entri in relazione
con una persona è meglio raccontare la malattia, altrimenti, a tenerla nascosta, vivi peggio tu dell’altra persona.
Ad una persona anziana consiglierei di diventare buddista, nel
senso che non bisogna mai perdere lo spirito di ricerca, mai pensare: “Faccio la dialisi e sono così”. No. “Io faccio la dialisi per
vivere”. Non pensare mai che non può cambiare niente. Quello
che tiene viva la personalità di un uomo è proprio il cambiamento.
Anche se ci si trova bene in quello che si fa, perché si è incanalati,
bisogna saper cambiare le abitudini. Si può sempre dare qualcosa
agli altri, anche facendo dialisi.
Anche una persona anziana non è una storia finita.
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Gianni D.
Mi chiamo Gianni D., ho quarantanove
anni, sono medico nonché oste.
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Anamnesi patologica remota: nefropatia verso i diciotto-diciannove
anni, dialisi a trentuno, primo trapianto nell’87, secondo trapianto
nel ’91. Età dialitica diciotto anni.
Ho affrontato bene la malattia, dal momento che avevo già un’esperienza diretta sui sacri testi. Anche se la nefropatia nei testi di patologia medica finiva con l’exitus, allora.
I primi anni sono stati difficili, prima per via della dieta ipoproteica
e poi, in dialisi, per l’astinenza dall’acqua.
Problemi particolari in dialisi non ne ho avuti, anche perché ho
frequentato persone che erano direttamente abbordabili, che mi
hanno esposto tutte le difficoltà con chiarezza.
Il trapianto anche l’ho affrontato bene, anzi con entusiasmo, specialmente il primo, perché mi dava libertà di viaggiare, cosa che ho
sempre desiderato. Li ho fatti ambedue a Grenoble e sono stati disastrosi, specialmente il secondo, soprattutto dopo l’espianto. Conseguentemente, ho avuto anche un infarto apicale che ho superato
bene, che non mi ha lasciato tracce.
E’ giusto che il paziente sia correttamente informato su cosa comporta il trapianto. Dev’essere adeguato l’entusiasmo, un cinquanta
per cento è saggio riservarlo per il dopo.
Non bisogna subito pensare d’essere liberi, anzi tutt’altro; i primi sei
mesi sono abbastanza costrittivi, sia per gli esami, sia per la patologia di pathos, perché c’è una caghetta blu: ogni settimana i controlli
e questo è un fastidio mortale perché, anche affrontandolo con
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mente serena, uno ha sempre paura del dopo. Quello che dico è
talmente soggettivo che forse serve poco per gli altri.
Non vorrei essere scocciante, ma potessi fare dieci trapianti li farei tutti, non mi seccherebbe minimamente, in quanto il dolore
non esiste, ci sono cose molto più dolorose da affrontare, fisicamente. E a livello psicologico non ho mai avuto difficoltà, perciò il
mio rapporto col trapianto è stato molto soggettivo e particolare.
Adesso che mi sono iscritto per la terza volta so anche meglio a
che cosa vado incontro: il che mi fa paura da una parte però, dall’altra, mingere è più necessario della paura.
Non saprei cosa dire ad un paziente per incoraggiarlo, perché
nessuno può dire qualcosa in assoluto, poi è talmente soggettivo
per chi legge che una singola risposta non basta.
Uno dei problemi nel nostro campo è che l’accostamento dei medici al malato spesso non è soggettivo, è troppo schematizzato.
Invece quello che ho notato è che la dialisi andando avanti dovrà
essere sempre più soggettiva, perché non c’è una dialisi uguale
all’altra e meno male che c’è soggettività. La ripetitività penso sia
la cosa peggiore. Non si può essere così schematici e noiosi, anche
con se stessi. Perché se sei noioso con te stesso, lo sei anche con
gli altri, e purtroppo tanta gente non se ne accorge.
Uno ad una persona noiosa non dà retta, è la naturale ribellione che
c’è dentro di noi. La dialisi non dico che sia bella però, sapendo che
non ne puoi fare a meno, è logico farla bene.
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Il trapianto è la stessa cosa: prima di tutto bisogna togliere un po’ la
paura, sfrondarla da tanti eccessi, perché se ne parla tanto e male,
mentre bisognerebbe parlarne poco e bene, dandogli l’importanza
che ha: il trapianto è soltanto un passaggio. A parte casi eccezionali,
tu sei sempre un uremico cronico, e si passa troppo facilmente da
entusiasmi eccessivi a depressioni eccessive.
La dialisi è un po’ una mestruazione ogni quarantotto ore. E’ una
mestruazione renale a livello di temperamento, penso che sia uno
sbalzo caratteriale che si nota.
In quei primi anni di dialisi facevo delle cose troppo sfrontate, ho
fatto dialisi in tutto il mondo. Il primo anno, facevo dialisi da sei mesi
e sono subito andato in Sicilia, nel ’79. La chiamavano la “dialisi
mafiosa”, c’era un medico che era venuto qua ad imparare, è stato
molto bello.
Tutti cercano di aggrapparsi anche agli specchi, l’uomo ha una capacità di adattamento incredibile.
Anche se a volte l’eroe in assoluto è patologico, non è una persona
normale, è un incosciente, maniacale.
A volte uno si fa la domanda “Proprio a me?”. E’ bruttissimo.
Poi uno si dice “Proprio a me, va bene, adesso rimbocchiamoci le
maniche”. L’importante è quello, continuare sempre, andare avanti,
sopravvivere.
Non bisogna farsi fermare, ognuno è eroe nel suo piccolo, non esiste
l’eroe per antonomasia, ognuno è eroe di se stesso.
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Alfredo M.
Mi chiamo Alfredo, ho trentatrè anni, attualmente faccio il
commerciante. Gestisco una tabaccheria con mio fratello.
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Ho contratto la malattia quando avevo solo quattordici anni.
Una bella mattina mi alzo dal letto e, guardandomi allo specchio,
vedo i miei occhi più gonfi del solito, allora mi dico “dovrei dormire
un po’ meno”.
Poi ho capito che il motivo era di natura diversa.
Dopo avere girato diversi ospedali, italiani e non, entro in dialisi a
diciotto anni, malgrado alcuni medici volessero che lo facessi molto
prima.
Ho fatto dialisi per tre lunghi anni, dopo di che mi trapiantano per la
prima volta. Non è stato un trapianto molto fortunato, in quanto è
durato solo un anno e mezzo, periodo nel quale ho avuto una serie di
problemi che mi hanno riportato in sala operatoria per fare un bypass all’arteria renale.
Rientro in dialisi col morale a pezzi.
Non riesco ad accettare tutte quelle regole che la dialisi ti impone,
così faccio delle dialisi bruttissime, che mi riducono ad uno stato
alquanto sofferente. Dopo due anni e mezzo cedo alle estenuanti
insistente di mio padre e accetto quel dono che da sempre ha cercato di persuadermi a ricevere.
Il rene trapiantato da mio padre, questa volta dura quattro anni.
Quattro anni passati benissimo, che hanno contribuito a rimettermi
in forma sia fisicamente che psicologicamente; ma allo scadere del
quarto anno una recidiva della malattia di base mi riporta in dialisi.
Ci rientro con più razionalità, affrontando il problema in maniera
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obbiettiva “se devo farla cercherò di farla nel miglior modo possibile”, anche se in un primo momento, preso dalla disperazione, ho
insistito per rifare subito un altro trapianto, ma, la fretta, si sa, è
amica degli errori.
E’ stato il dottor M., al quale sono tuttora molto riconoscente, a consigliarmi di aspettare. Un trapianto non è cosa di tutti i giorni. Soprattutto il terzo.
Così riprendo la mia vita da dializzato, mi attengo il più possibile
alla giusta dieta, riuscendo a fare delle dialisi accettabili, che mi
permettono di fare addirittura molto sport, al quale tengo molto.
Tutto questo, ovviamente, in vista di un eventuale prossimo trapianto, a cui ho cominciato a pensare dopo circa quattro anni, valutando
i pro ed i contro, ma soprattutto facendomi consigliare dal dottor S,
persona in cui io nutro molta fiducia.
A quel punto il dottor S. mi dice che i tempi sono maturi, bisogna
aspettare solo qualche mese per poter usufruire di una nuova terapia immunodepressiva.
Così, dopo esattamente cinque anni, mi trapiantano il rene con cui
ora convivo. Sta andando tutto bene ed è superfluo dire che sono
contentissimo. Ma chi, come me, ha vissuto certe esperienze sa che
in questo campo le certezze sono bandite.
E’ per questo che la vita di un trapiantato, almeno per quanto mi
riguarda, è fatta di momenti di gioia alternati a momenti di apprensione, di paure e preoccupazioni, ad altri di serenità, e tutti dipendenti da questa impietosa creatinina, che agli occhi di molti può non
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avere nessun significato ma che è in grado di scaraventare un trapiantato da una dimensione in qui prova felicità nel senso più completo della parola, in cui vive la vita riuscendo a percepirne tutte le
sue meraviglie, ad un’altra in cui predomina la disperazione ed il
senso di svuotamento, dove ogni cosa non ha più molto senso e che
difficilmente si riesce a sopperire.
Spero che questo trapianto mi duri tutta la vita, ma se non dovesse
accadere farò di tutto per poterci ritentare.
La dialisi fine a se stessa è un concetto che, ancora, non riesco ad
accettare.
Il primo approccio che ho avuto con la dialisi è stato al mio primo
ricovero. Avevo circa quindici anni e il mio compagno di stanza era
un ragazzo di dieci anni più grande. Era sempre molto sofferente e
di tanto in tanto una infermiera lo veniva a prendere per portarlo via
con sé. Non so dove lo portasse, ma di certo non in un bel posto, visto
che quando lo riportava dopo circa nove-dieci ore, era smagrito,
pallido e sofferente come o più di prima.
Non so cosa avesse, d’altro canto non sapevo neppure cosa avessi io
ma un bel giorno mi decido a chiederglielo e lui con voce fievole mi
risponde: “I miei reni purtroppo non funzionano più, ed io, per vivere, sono costretto a fare la dialisi”. Dopo di che, parte con una
spiegazione alquanto cruenta, parlandomi di aghi enormi di tubi
pieni di sangue, di filtri e quant’altro.
Da allora sentire la parola dialisi bastava già ad incutermi terrore. E’
per via di questa esperienza, forse, che la mia prima dialisi è stata
traumatizzante. L’ho vissuta come un incubo.
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Mi ricordo di un dottore che mi disse: “Non preoccuparti, tanto ne
farai solamente qualcuna”; così ogni volta che facevo dialisi il trauma si ripeteva, nell’attimo in cui mi dicevano che avrei dovuto fame
un’altra.
Su questo atteggiamento non sono d’accordo, esigo mi sia detta la
verità, per quanto drammatica possa essere. Sempre.
Mi piacerebbe farvi capire cosa si prova a ricevere una chiamata per
trapianto o a passare i primi giorni senza fare dialisi, ma non credo
esistano parole per poterlo fare, quindi mi limito a dirvi che è semplicemente meraviglioso.
La mia storia non penso sia diversa da molte altre e, malgrado possa
sembrare strano, anche da storie come questa si conservano ricordi
piacevoli e simpatici.
Ricordo che si passavano ore, la sera in corsia, a ridere dei nostri
guai e, malgrado non si fosse veri amici, ci si sosteneva gli uni con gli
altri, in maniera sincera, col cuore, come si suol dire.
Il dolore ti insegna a dare il giusto valore alle cose della vita.
Probabilmente qualcuno, a questo punto, si aspetta che io dia dei
consigli. No, non penso di poterlo fare. Penso invece che siano le
proprie esperienze a dare i migliori insegnamenti.
Una cosa però voglio dirla, o meglio scriverla.
Bisognerebbe imparare a non autocommiserarsi: io sto cercando di
farlo, anche se ancora non ci sono del tutto riuscito. So che in certi
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momenti non è facile, ma farlo servirebbe solamente a deprimersi
ancora di più di quanto non lo porti a fare la malattia.
Ricordo che in principio continuavo a ripetermi: “Perché è successo a me? Perché sono così sfortunato? Che cosa ho fatto di male?” e
via discorrendo.
Ma in fondo chi può dire chi è sfortunato?
La fortuna è un concetto vago, indefinibile.
Non esiste un campione con cui confrontarla, al di sotto del quale si
può dire: “Sì, sono fortunato” o viceversa.
Io posso essere sfortunato, confrontando la mia vita con quella di
una persona che ha sempre goduto di ottima salute e vive serenamente, ma come posso definirmi di fronte ad un ragazzino a cui
quasi scoppia lo stomaco dalla fame o ad un altro che probabilmente perderà una gamba per aver calpestato una mina antiuomo?
Bisogna pensare di più.
Forse lo si fa sempre meno.
La vita va vissuta, e per poterlo fare bisogna accettarne le regole.
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Severino F.
Mi chiamo Severino, abito vicino ad
Alba, ho trentacinque anni.
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Ho una famiglia molto numerosa e questo è stato un bene.
Lavoro saltuariamente.
Sono nato con una malformazione degli ureteri, di cui si sono accorti
in ritardo: a quattro anni mi hanno fatto il primo intervento, oramai
saranno una quarantina gli interventi che ho subito.
A diciotto anni mi sono rotto entrambi i femori e nello stesso anno
sono entrato in dialisi. Non è stato molto facile.
Ho subito accettato la dialisi anche perché stavo meglio.
Non avevo seguito nessuna dieta né ho preso alcuna terapia fino al
giorno del trapianto.
Ero sparito dall’ospedale per quattro anni fino al giorno della dialisi,
ero stufo, avevo già fatto la bellezza di quattro interventi, avevo
un’ureterostomia bilaterale e questo aveva inciso molto in quella età
critica (dai quindici ai venticinque anni) dell’adolescenza.
Poi sono stato obbligato, perché ero distrutto, a farmi vedere, ed ho
dovuto iniziare la dialisi; l’ho subito accettata, in realtà non mi ha
dato un grosso trauma perché in dialisi stavo meglio e poi c’era il
sogno del trapianto, pensavo: “Un giorno lo farò”.
Ci sono molti problemi in dialisi ma si riesce a superarli, più che con
l’aiuto del medico, che è soprattutto un tecnico, con gli amici, la
famiglia.
La famiglia non dovrebbe trattarti da persona malata ma da sano, da
persona che ha dei problemi, senza assillarti continuamente.
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Severino F.
Mi chiamo Severino, abito a vicino ad Alba,
ho trentacinque anni.
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Chi è in dialisi è in genere abbastanza maturo per sapere cosa fare.
La mia famiglia mi controllava molto quando ero piccolo, poi sono
riuscito a staccarmi, non parlavo mai della mia malattia in casa.
Quando uscivo dalla dialisi non ci pensavo più fino alla volta successiva, era proprio una cosa che avevo cancellato.
Ritornavo però tranquillo, perché con la macchina c’è una sorta di
amore-odio, comunque ti salva la vita e sai che fa parte della tua
vita ma, d’altra parte, a che prezzo!
Mi sono iscritto in lista trapianto dopo cinque anni, perché prima
dovevo fare l’intervento per togliere i reni. C’erano molti problemi:
ero positivo per l’epatite B e C, avevo fatto diverse polmoniti, la
mia non era una bella situazione.
Sono stato in dialisi per quindici anni, in lista per cinque anni ma
in lista attiva per meno tempo, forse quattro anni, perché avevo
tutti questi problemi.
Non ho mai pensato: “Cavolo, questo trapianto non arriva”, vivevo
tranquillo e dicevo: “Se arriva bene, altrimenti va bene lo stesso”.
Non puoi vivere con questo pensiero fisso, ti fai del male, è molto
difficile arrivare a pensare questo.
Addirittura, io il trapianto non volevo nemmeno farlo, quando mi
hanno chiamato volevo andare a casa, invece T. mi ha convinto,
ma io sapevo di rischiare molto.
Avevo anche poca fiducia nel trapianto e paura delle complicanze,
pensavo di farmi la dialisi e di morire in dialisi.
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Alla fine, il dottor T. mi ha detto che, magari, nel giro di due
anni sarei arrivato in ospedale per fare un trapianto d’urgenza
e sarebbe stato molto peggio.
Ho pensato: “Proviamo”.
L’esperienza del trapianto è stata molto positiva, anche per la possibilità di conoscere altre persone che hanno passato le stesse
cose prima, o che magari stanno peggio di te, ma vogliono vivere.
E’ stata un’esperienza bella, anche se io sono stato tre mesi in
ospedale, non è andato tutto bene, e che è stata una storia positiva
nel complesso non lo dico solo perché adesso sto bene.
Il trapianto è una carta che chi è in dialisi deve giocarsi, se ne
ha la possibilità.
Sono passati due anni e mezzo dal trapianto ormai, ma sto
bene soltanto da un anno e mezzo: ho avuto una polmonite,
un’arteria si è chiusa, ho avuto un rigettino lieve, ma ne sono
uscito, non so se per la volontà o per cos’altro.
Esattamente un anno dopo il trapianto, quando mi stavo riprendendo un po’, mi sono preso la varicella, il fuoco di Sant’Antonio, poi si è capovolto il rene e mi hanno operato, però
non mi sono mai rassegnato. Sapevo che dovevo uscire dall’ospedale perché non volevo deludere le persone che contavano su di me ed avevano fatto tanto per me.
Questo è successo inconsciamente.
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Non mi sono mai sentito solo.
Trovo che tutti gli episodi che mi sono capitati siano stati belli.
Una cosa nuova, una scoperta è bella.
Conoscere le persone che lavorano in ospedale è positivo perché sono valide non solo sul lavoro ma anche come umanità.
Cerco sempre di trovare il lato buono anche nelle cose brutte:
se il trapianto fosse andato male sarebbe stato comunque un
fatto positivo perché mi aveva consentito di conoscere altri
pazienti, medici, infermieri…
Quando vengo a Torino, passo di lì a salutarli, questo perché
mi sono trovato bene e ci sono persone che mi piacciono, che
sono in gamba ed hanno fatto sempre tutto il possibile.
Faccio la stessa cosa ad A., altri invece non fanno neanche
più le visite di controllo perché hanno il terrore di entrare lì.
Io faccio amicizia facilmente, per cui non riesco a limitarmi
ad un rapporto medico-paziente, nasce subito un rapporto
d’amicizia. Forse è sbagliato, ma io mi trovo bene così, sto
meglio e probabilmente creo anche meno problemi a loro.
Le esperienze belle durante la dialisi sono capitate fuori dall’ambiente: da dializzato sono stato fidanzato per quattro anni
e mezzo con un’infermiera che era venuta al centro a fare il
corso. Non ho mai considerato questa persona in un rapporto
paziente-infermiera, ho cercato subito di fare amicizia.
Lei non mi considerava un malato né io consideravo lei come
la persona che doveva farmi dialisi.
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Quando avevo dodici anni sono stato operato e sono andato in
coma per quindici giorni. Secondo me, in quel momento ho
preso una decisione: vivere o morire.
Vivere vuol dire accettare tutto, se muori non accetti niente,
ma non c’è più nulla. Ho scelto di vivere e di accettare tutto, il
bello, il brutto, momenti felici e angoscianti.
Ero in un tunnel dove c’era una tranquillità pazzesca, era un
altro mondo, ed al fondo c’era una luce che più cercavo di
raggiungere, più si allontanava.
Quando sono arrivato al fondo volevo passarla, mi sono fermato un attimo e mi sono svegliato. Forse sono tutte fantasie che
mi creo per tirare avanti.
Per quanto riguarda il trapianto sono entrato tranquillissimo
in sala, sapendo di rischiare molto, non per l’intervento in sé
ma per il dopo. Però non ci pensavo nemmeno, sono fatto così,
non ho mai pensato di morire. Quando mi sono svegliato ho
chiesto se mi avevano già trapiantato, non mi rendevo conto.
Poi c’è l’attesa di urinare, io ho aspettato venti giorni.
E’ una situazione brutta: hai fatto il trapianto, il rene non parte, continui a dializzare e ti lasci un po’ andare allo sconforto.
Per fortuna ci sono persone che ti parlano e ti danno un minimo di speranza per superare questi momenti.
Quando cominci a fare un po’ di pipì ti sembra di toccare il
cielo con un dito; poi però ti fai ancora del male e guardi nel
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sacchettino. Quando la quantità di urina aumenta ti senti veramente bene, è bellissimo anche se può sembrare una sciocchezza. E’ anche stressante però. La prima volta che vai a fare
pipì da solo, senza catetere, è fantastico.
Poi ci sono state delle ricadute: ho fatto una polmonite da
Legionella. Sono cose che ti ammazzano perché passi dal bene
al male e dal male al bene in pochissimo.
Un’altra botta me l’ha data la varicella. Il primo anno è stato
molto duro proprio di testa, se non avessi avuto il mio carattere
non so come avrei fatto.
Mi hanno anche amputato due dita dei piedi per un problema
di arterie, mi hanno chiuso la fistola e poi me l’hanno tolta.
Ne avevo sempre una, tanto che mi sono chiesto chi me l’avesse fatto fare, stavo così bene in dialisi.
Poi tutte le cose si risolvono, nel bene o nel male.
Il fatto è che subito dopo aver risolto una cosa mi arrivava
un’altra botta. Non avevo un attimo di respiro.
Nell’insieme, comunque, quella del trapianto è stata un’esperienza molto bella, anche se sicuramente dopo ci sono stati dei
problemi, pochissimi non ne hanno. Sono però problemi che si
risolvono.
Una cosa che dico sempre è di affrontare il trapianto pensando
che può non andare bene, altrimenti è molto duro da accettare un insuccesso. Poi dico di non pensare che non ci saranno
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problemi: una polmonite, un’infezione sono frequenti, ma si
risolvono.
Sicuramente il trapianto ti cambia la vita, stai meglio, sei indipendente dalla dialisi, ma non puoi pensare che andrà bene
da subito.
Le complicanze ci sono, anche se in genere si risolvono.
Io mi sono informato tantissimo, più che altro per il mio problema alla vescica. Io ero stato quindici anni senza fare pipì, la mia
più grossa paura era che la vescica non funzionasse, e dovessi
di nuovo fare un’ureterostomia, con cui avevo già passato gran
parte della mia giovinezza. Poi questo problema è stato l’unico
che non si è presentato, la vescica ha funzionato benissimo.
Non ero convinto delle rassicurazioni dei medici, non è che
mi fidassi ma pensavo che la vescica non avrebbe funzionato.
Ero davvero traumatizzato poi l’ho fatto lo stesso.
A volte ci si convince di cose che poi non si avverano.
Quando ho deciso ho messo tutto da parte, ho cancellato tutto
dalla mia mente.
Ci sono stati altri momenti brutti: per esempio, dopo il trapianto, il fegato ha cominciato a fare le bizze e mi sono arrabbiato perché, parlando con un medico del trapianto, questo mi
ha detto di non preoccuparmi, che il problema si sarebbe risolto; ma se la soluzione era un trapianto di fegato, a me questo non stava tanto bene.
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Questo non mi era stato detto da nessuno, mi ha fatto molto
male perché non mi hanno considerato, poi per fortuna si è
risolto tutto. Era bene saperlo prima.
Parlando con la dottoressa C., le ho detto che quando si fa un
trapianto si dovrebbe parlare di tutto, invece molte cose vengono un po’ nascoste. Per esempio ci sono moltissime persone
che col sesso hanno dei gravissimi problemi, non hanno più
erezioni. Quasi tutti hanno questo problema, ed è importante.
Tutti sono convinti che col trapianto si ritorni alla normalità.
E’ vero che è difficile parlare di queste questioni.
Io ho avuto grossi problemi ma io lo dico, parlo molto.
Addirittura uno con cui ho parlato non sapeva neanche dell’esistenza dell’andrologo e non aveva pensato a cosa fare per
migliorare, perché si vergognava.
Io ne avevo parlato con la dottoressa M., che mi aveva consigliato un medico che mi ha visitato, mi ha prescritto delle punturine
ed adesso non ne ho più bisogno. Anche questo si risolve, ma ci
vuole del tempo ed una persona non tanto più giovane magari
non osa andare dal medico a dire queste cose.
Quella persona di cui parlavo pensava di essere l’unico, invece
il novanta per cento ha di questi problemi e bisogna parlarne.
Non so se ha poi parlato con qualcuno.
Arrivi a casa e ti ritrovi così; prima pensi siano le medicine,
poi non riesci a capire cosa c’è che non va. E’ un discorso che
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andrebbe anticipato perché non tutti hanno il coraggio di parlarne. Penso che se i medici dicessero proprio tutto quello che
può succedere il numero di trapianti calerebbe un po’.
Comunque, poi, per ogni problema mi rivolgo al nefrologo, è
lui che mi deve dare delle spiegazioni, tanto valeva in fondo
darle prima, per tempo. Quando ho fatto il corso di preparazione al trapianto eravamo in dieci, sarebbe meglio farlo individuale perché le domande di chiarimento verrebbero fuori
più liberamente. Certo sarebbe una cosa molto più lunga.
Una cosa che non capisco, e che non farei mai, è quello che
fanno alcuni dopo il trapianto: accendere il cero in chiesa o
ringraziare la famiglia, perché non l’ha fatto per quello.
Io considero il rene come una cosa mia, non saprei neanche
cosa dire. Infatti lo tratto come una cosa mia…
Ad una persona che inizia dialisi direi di non abbattersi, di
combattere, di porsi degli obiettivi e provare a raggiungerli.
Bisogna cercarsi assolutamente degli obiettivi e non abbattersi se non vengono raggiunti.
Per quanto mi riguarda, ho sempre pensato che più una cosa è
difficile da raggiungere più mi impegno, ed una volta ottenuta
la soddisfazione è maggiore.
Conoscevo un ragazzo, in dialisi ad A., che aveva la fidanzata,
era uno che si divertiva ed adesso non esce più da due anni a
questa parte, è demoralizzato, ora pensa che il trapianto non
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arriverà più. Tante persone entrate in dialisi dopo di lui hanno
già fatto il trapianto e questo lo distrugge.
Si sta lasciando andare, non riesce più a vivere.
Direi di vivere tranquilli perché si riesce a vivere bene anche
in dialisi.
Io non mi lamento della mia vita, e l’ho sempre detto, perché
la malattia mi ha dato molte soddisfazioni, mi ha dato modo di
conoscere delle persone che meritano stima. Sono cose che
magari un altro non nota nemmeno.
Spesso dico, per assurdo, che sono contento di essere così.
E’ importante il lato positivo delle cose; la vita è fatta di momenti belli e brutti.
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Mauro B.
Io sono Mauro,
ho trentanove anni.
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Attualmente non faccio niente, ma ho fatto diversi mestieri.
Ho frequentato una scuola professionale dove mi hanno rilasciato un attestato di elettricista-elettromeccanico.
In realtà non pensavo di fare quel mestiere, ma non avevo voglia
di studiare e quindi poca attitudine per fare un liceo o cose del
genere. Non mi è servito a granché l’attestato, quanto piuttosto
l’andare a lavorare ed imparare per conto mio.
Ho fatto l’elettricista per un sacco di tempo, poi ho smesso perché era più il tempo che perdevo di quello che guadagnavo. Ho
fatto tanti altri lavori: uno che è durato tanto, e che mi ha dato
tanto, è stato un lavoro presso una società per azioni che fa import
ed export nel campo delle calzature. Sono entrato facendo un po’
di tutto, dal commerciale alla contabilità, alla pubblicità, ho fatto anche il segretario di direzione. Dovevo partire per l’estremo
Oriente per controllare delle fabbriche ed i prodotti, fare campioni, eccetera, e sono entrato in dialisi.
Questa per me è stata una botta, non tanto sotto il profilo lavorativo, per fare carriera, perché a me piace il lavoro quando c’è da
imparare, quando l’ho imparato mi stufo e ne cerco un altro.
Ormai so che è così e non provo a cambiarmi.
Io soffrivo già da piccolo di una malattia genetica, il morbo di
Gaucher, che non c’entra niente con la dialisi, oppure sì, perché
ci sono tesi e diagnosi contrastanti. Infatti, la mia entrata in dialisi non è stata molto chiara ed è stata molto fulminea.
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E’ successo nell’86: ho avuto un fortissimo mal di testa che non
passava con nulla, sono andato al pronto soccorso, la pressione
era altissima, ero molto anemico, mi hanno trasfuso e mi hanno
trattenuto in Nefrologia. Non sono più uscito, e dopo una ventina
di giorni mi hanno fatto la fistola; nel giro di tre mesi sono entrato
in dialisi trisettimanale.
Sembra che la causa di tutto questo sia una stenosi bilaterale
delle arterie renali, che hanno provato a dilatare con
l’angioplastica, ma poi si richiudevano. Da qui il diagnostico ha
pensato fosse una cosa molto vecchia, irreversibile. Tuttavia uno
dei due reni aveva una seconda arteria integra, e così non si
spiega una insufficienza renale così repentina.
Poiché ho una malattia ereditaria, io faccio riferimento anche ai
pediatri, che hanno detto che non c’è casistica nel mondo su una
relazione tra morbo di Gaucher e l’entrata in dialisi.
C’è soltanto un americano che ha il morbo di Gaucher ed è entrato in dialisi, è una notizia che risale a tre-quattro anni fa.
Il Gaucher è una deficienza di un enzima, il betaglucocerebrosidasi, ed ha una terapia sostitutiva: io faccio una flebo
ogni quindici giorni con questo enzima, che una volta era ricavato dalla placenta umana, adesso sarà ricombinante.
Ora mi arriva direttamente in farmacia vicino a casa, me lo porto
a casa e me lo faccio io, anche se dovrei farlo in ospedale. Inizialmente la facevo dopo la dialisi, poi ho cambiato turno ed
avrei dovuto far fermare un’infermiera appositamente per me,
ed anch’io non avrei avuto voglia.
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La malattia di Gaucher mi ha dato dei problemi nell’infanzia,
dei problemi articolari, tipo reumatismi, che sono spariti dopo la
pubertà. Secondo i pediatri non avrei dovuto superare la pubertà, poi nel tempo si è scoperto che esiste più di un Gaucher, il
mio è il tipo uno ed è il meno mortale.
Volevano togliermi la milza e poi me l’hanno tolta molto tempo
dopo, alle Molinette, due anni prima della dialisi, perché era
enorme, pesava più di cinque chili.
La dialisi mi ha dato una bella botta, perché ho perso l’occasione di un lavoro interessante che coniugava la mia voglia di viaggiare con un attività nuova, tutta da scoprire, penso sarebbe stato molto divertente. Sono entrato in dialisi e sono rimasto in quella
azienda, ma facendo altri lavori: sono andato pian piano
regredendo; prima lavoravo nel commerciale, avevo contatti con
i clienti, preparavo le fiere.
Nei primi tempi avevo tutta una serie di scompensi, fisici e non,
mi sono collassato per strada, dappertutto, perché compare una
sorta di orgoglio per cui insisti nel fare delle cose anche se sono
subentrati dei limiti.
Perciò, pian piano ho ridimensionato quello che facevo in quella
azienda, avevo un bel rapporto col mio datore di lavoro, eravamo
amici e non mi avrebbe mai cacciato via, ma c’erano dei giorni
in cui lavoravo come gli americani, con i piedi sulla scrivania,
perché avevo la pressione sotto le scarpe, oppure mi assentavo
per alcuni giorni.
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Quindi, alla fine potevo fare solo dei lavori routinari, tenevo gli
archivi o i contatti telefonici con i clienti, ma non potevo più
dare disponibilità piena, perché ad una certa ora dovevo mollare, qualsiasi lavoro stessi facendo.
Inizialmente è stata molto dura, non capivo i miei limiti. Ad un
certo punto me ne sono andato via da quella ditta ed “amici
come prima”. Io li vedo ancora, mi hanno aiutato anche sotto il
profilo sanitario, ad esempio, si sono interessati per mettermi in
contatto con un medico di Boston.
Quando mi hanno tolto la milza ho mandato un po’ di pezzi in
giro per il mondo, in Israele, in un industria farmaceutica italiana e mi sono fatto fare delle medicine particolari. Io uso costantemente medicine diverse e le metto a confronto, preferisco provare delle cose che non mi danno effetti collaterali.
Esattamente dieci anni dopo l’entrata in dialisi ho fatto il trapianto, il diciassette febbraio del ‘96. Dopo quindici giorni mi
avevano già cacciato fuori, sono andato avanti a fare gli esami un
giorno sì e uno no al centro di C. per due settimane.
Mi ero iscritto in lista già un anno dopo l’inizio della dialisi, qui
a Torino perché a me piace litigare, e con le lingue straniere
litigare sarebbe un po’ difficile.
Io ho bisogno di capire, forse è un modo mio di superare le cose,
ma per me ha funzionato. Non esiste che ad un malato di cancro
non dici niente, poi tanto lui lo sa. Io so che nei sei mesi di
ricovero ho rischiato di morire, anche se nessuno me l’ha detto.
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Sapevo che non ci scommetteva nessuno, ma io nel profondo
sentivo che ce l’avrei fatta, sono sempre intervenuto su di me,
anche solo bisticciando con i medici quando non mi convinceva
qualcosa, o mantenendomi in contatto con un altro medico che
mi vedeva dall’esterno e che aggiungeva le sue diagnosi anche
senza vedere le lastre o le biopsie.
Continuo ad usare tipi di medicine diversi perché secondo me la
verità non sta mai da una parte sola, è meglio essere possibilista
per tutte le proposte che ti vengono fatte.
Questo mi ha sempre dato dei risultati; io sono stato costretto a
crescere in fretta, sono stato ricoverato per il Gaucher a sei anni
al Regina Margherita, dove l’hanno diagnosticato dopo tre mesi.
Io giro per gli ospedali fin da bambino, giro, mi muovo, ogni
tanto mando a stendere qualcuno. Con alcuni medici, poi, lo
scontro diventa costruttivo, nessuno ha la verità in mano.
Mi sono rapportato alla medicina, all’ospedale, come ad un’azienda: contratti per avere un prodotto migliore, un prezzo migliore.
Con P. che mi ha tolto la milza, prima dell’intervento ho contrattato, perché lui mi ha chiesto delle cose. Ha voluto che io
andassi nell’aula magna a fare il paziente per gli studenti, ed io
gli ho chiesto che cosa ci guadagnavo.
Perciò gli ho chiesto una bella cicatrice, mia sorella in sala, e ho
avuto la cassetta dell’intervento.
Fa parte di un gioco; se vuoi fare delle cose allora devi spiegarmi
e convincermi. Ho rischiato di non fare il trapianto perché ho
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mandato a quel paese il professor A., uno dei baroni, che adesso è sostituito da un suo clone. Questo mi parlava dall’alto, se
chiedevo qualcosa non rispondeva.
R. voleva assolutamente farmi la biopsia epatica, perché ogni
tanto le transaminasi andavano per i fatti loro. Io ho un’epatite C,
presa da una trasfusione fatta all’Amedeo di Savoia perché la
milza si era lacerata ed ero molto anemico. Volevano a tutti costi
che io andassi da R., che voleva facessi come ulteriore controllo
una biopsia epatica, anche se in quel periodo le mie transaminasi
erano a posto. Io già non volevo farla, figurarsi farla senza
motivo…magari per le sue ricerche.
Quando sono tornato dalla visita mi hanno chiesto che cosa avevo combinato; R. aveva telefonato ed aveva detto: “Non mandatemi più pazienti di quel tipo”.
Invece, C. non voleva mettermi in lista trapianto per l’epatite,
per questo fegato enorme, ma se la funzionalità è buona non
capisco il problema, così gli ho dato dell’imbecille davanti ad un
suo assistente, che quando mi ha accompagnato fuori era tutto
goduto. Era proprio cattedratico: tu sei carne da macello ed io
decido della tua vita. Poi alla fine ha dato il suo consenso all’inserimento in lista trapianto.
R. voleva anche darmi l’interferone ed io ho detto di no; credo di
aver fatto bene perché molti di quelli che l’hanno preso e poi
hanno fatto il trapianto hanno una miriade di problemi.
Sembra che non faccia niente, se non dare effetti collaterali: lo fa
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mia sorella, le sue transaminasi scendono e salgono in continuazione, poi le viene la febbre, ha dolori alle ossa.
Bisogna tener conto anche di altri dati, non solo di quelli chimici
e diagnostici, e lavorare con altre medicine.
Un medico non può tener conto di tutto il panorama che gli si
presenta davanti. Come è entrata l’ipnosi in alcuni interventi,
così dovrebbe entrare ad esempio la medicina omeopatica. Ad
esempio, esiste il cortisone omeopatico, che ha un effetto ripulitore
sugli effetti collaterali del cortisone stesso.
Perché non darlo quando ci sono ad esempio quei problemi alle
ossa dopo il trapianto.
Per quanto riguarda le ossa, il trapianto è un disastro: se mi
avessero detto che non avrei potuto più camminare normalmente sarei rimasto in dialisi, per fare un esempio estremizzato.
Poi ci sono comunque dei benefici, che mi fanno dire che avrei
fatto il trapianto comunque, però ti accorgi di quanto sono importanti i piedi solo quando ti fanno male. Ormai è un anno che
ho questo problema, a volte rimando delle cose perché solo l’idea
di mettermi in macchina, in marcia mi fa star male.
Magari questo si potrebbe evitare.
Io, per il mio fegato, ho preso molte cose naturali, oligoelementi,
medicine omeopatiche, tutta una serie di coccole di cui il mio
fegato è molto grato. Secondo la medicina omeopatica, il fegato è
il centro delle emozioni: mia sorella, quando fa gli esami ed è
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arrabbiata ha le transaminasi alle stelle, quando sta bene o è
spensierata, come quest’anno in vacanza con me, le ha basse.
C’è un riscontro con le analisi, sempre. Anche nei detti popolari
ritrovi questo: si dice “non ti rodere il fegato” o il “travaso di
bile” quando uno si arrabbia ed è teso, c’è una contrazione muscolare e nervosa. Se anche lui (il fegato) è teso, si ingolfa e non
digerisce.
Questo è un lavoro che dovrebbero fare gli psicologi. Il medico
condotto un tempo lo faceva. Anche il medico omeopata, che
quasi mai ti visita, vuole sapere della tua vita, come sei, cosa fai,
se dormi, se sei arrabbiato. Questo era il patrimonio del medico
condotto, che ti vedeva da piccolo ed aveva una grande arma: ti
vedeva crescere, e ti conosceva perciò molto bene, ti vedeva e
considerava globalmente.
Adesso c’è la specializzazione…
Ho impiegato un anno, forse un anno e mezzo per abituarmi alla
dialisi. Comunque, c’è una scarsa informazione, per cui solo dopo
un po’ di tempo ti interessi dell’ANED (Associazione Nazionale
Emodializzati), vai a parlare agli altri pazienti.
La maggior parte delle persone all’inizio è passiva, così come lo
sono stato io, non reagisce.
Anch’io ho fatto così, poi ad un certo punto mi sono stufato, ed
ho cominciato ad interessarmi di più.
Ho capito che questa è una parte della mia vita e l’ho ottimizzata,
ed ho instaurato dei bei rapporti coi medici, con gli infermieri,
con altri pazienti.
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Se passi un terzo della giornata con gli altri, come ad esempio
sul lavoro, instauri dei rapporti belli e brutti e così succede per
la dialisi: trascorri quattro-cinque ore, conosci tutto il personale
a rotazione, vivi malumori, chiacchiere superflue e non, a volte
riesci anche a parlare di cose tue con gli altri pazienti.
Comunque, anche dalla malattia, ho tratto delle cose molto buone, perché nel frattempo tu vivi. Io mi sforzo sempre di vivere
davvero quel momento appieno e cerco di correggermi tutte le
volte che vivo di ricordi o di progetti, perché se pensi “Ah come
stavo bene prima di entrare in dialisi” da una parte lenisci la
sofferenza che stai vivendo, però d’altra parte stai vivendo degli
attimi che poi non vivrai più.
Noi siamo un prodotto a scadere, ogni istante è giusto viverlo in
pieno e per me questa è una delle cose più difficili da fare, ma
ogni volta che ci riesco è una delle cose che mi appaga di più.
Voglio vivere di più al presente perché ogni minuto è prezioso.
Certamente mi ha segnato avere a che fare sin da piccolo con la
mia salute, con la mia stessa vita. A me i fattori esterni hanno
costretto velocemente a fare i conti con questo.
Non è detto che la gente lo faccia.
E’ più leggero, non avendo una malattia, pensare al futuro.
Se si è malati bisogna essere consapevoli che si sta sognando.
Io non ho patito per la carriera, se io avessi investito tanto in
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aspettative, in sogni, sarebbe stato un tracollo tremendo. Mi sarei perso delle cose belle, dei rapporti nuovi, perché sarei stato
distratto da quello. Questo ho cercato di farlo il meno possibile.
Certo, bisogna avere delle aspirazioni, ma non perdere gli istanti
che si vivono cercando di raggiungere questo o quell’obiettivo.
Ad una persona anziana che inizia adesso la dialisi mi viene
difficile consigliare qualcosa, perché è in ostaggio, non è libera,
deve per forza dar fiducia e delegare ai medici.
Chi invece ha la forza di poter non delegare è importante che
non lo faccia, deve interessarsi per sapere, conoscere il più possibile quello che sta passando, parlandone con gli altri, anche a
rischio di essere un po’ invadenti, perché ciò allevia la paura, la
tensione.
Se conosci non hai paura, o almeno la paura è circoscritta, non
puoi essere preso in contropiede, così passi da una parte passiva
ad una attiva.
Non si parla più di dignità, soprattutto nel mondo occidentale,
ma io penso che sia dignitoso sapere ed essere partecipe. Se
accetti di essere un numero, è anche un sistema comodo, perché
in questo modo c’è sempre qualcuno con cui prendersela; ma
questa non è una soluzione. Deleghi: ti fai bucare e collegare ad
una macchina e ti fai togliere cinque chili, magari perché hai
bevuto come un matto, magari ti collassi e ti arrabbi col monitor.
Questo vuol dire non crescere, è demenziale e vale per qualsiasi
cosa. Fa parte di un processo di crescita individuale.
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Io arrivavo in dialisi e facevo il buffone, il cretino, facevo ridere
tutti. Era un muro che alzavo, perché altrimenti la richiesta di
energia è talmente alta che poi quando ne hai bisogno non ne
hai più. Non puoi fare come il gagno che fa i capricci.
Devi costringerlo a crescere.
Lo stesso va fatto con il paziente. Bisogna dare, per chi ce la fa,
il massimo della conoscenza. Poi, ognuno deve riappropriarsi di
se stesso, di tutte le sue parti; dalla situazione iniziale, passiva,
bisogna uscire con la conoscenza.
A C. ai pazienti si insegnava a montare il monitor, ed era importante perché così il paziente sapeva che cos’erano gli allarmi…
Questo aveva anche un risvolto psicologico importante, perché
si è molto meno succubi della macchina, diventa quasi un rapporto paritario.
Io, in dieci anni di dialisi, ho avuto tutti i guai possibili:
un’embolia, si sono spaccati i filtri, le linee, le sacche, ho avuto
emorragie: tutto è andato bene, ma solo per fortuna, perché io
non ho mai imparato a montare la macchina. Invece, anche se
questo, per il timoroso che inizia, può sembrare una forzatura, è
utile, più lo istruisci meglio è.
A C. mi chiedevano spesso di parlare con una persona che stesse iniziando dialisi: io non ho mai parlato seriamente, la buttavo
sul ridere, perché erano tutti terrorizzati dalla sala dialisi.
Se patisci le ore che sei in sala dialisi, subisci quattro ore di nulla.
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Eraldo B.
Ho quarantaquattro anni,
lavoro, ho una figlia.
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Sono andato in dialisi sapendo già tutto, nel ‘92. Avevo trentotto
anni. Ho fatto le prime due dialisi al G., poi ho fatto il corso per la
dialisi domiciliare ed ho fatto dialisi a casa nei due anni successivi. Nel ‘94 mi hanno finalmente chiamato per il trapianto, cosa in
cui speravo molto, e invece è andato malissimo.
Adesso la mia salvezza è fare dialisi in ospedale, perché la
domiciliare è stata per me una cosa contro ogni senso della vita.
Oltretutto, mia moglie è biologa di laboratorio, quindi ha già un
orario particolare, arriva tardi, c’è già poco tempo da passare insieme e così, invece, si finisce col fare solo più dialisi. Poi io non
ero un caso facile, per esempio avevo due fistole, la prima non
andava bene, la seconda anche non era facilissima da bucare.
Insomma, davo dei problemi alla famiglia. Adesso dializzo in ospedale e mi sono messo a posto anche come testa. Perché dopo il
trapianto ho avuto anche dei problemi psicologici.
Che dire e che cosa consigliare sul trapianto?
La mia esperienza non è bella nell’insieme.
Prima di tutto, per il trapianto c’è una scarsa informazione, molta
gente crede che il trapianto duri tutta la vita e che sia un intervento
da poco, come fare un’ernia, un’appendicite.
C’è una mala informazione, perché ti dicono che il trapianto può
anche andar male ma non ti dicono che un sacco di trapianti non
vanno. A mio parere c’è un dieci per cento dei trapianti che va
bene, ma per “va bene” io intendo che stanno proprio bene, perché poi ci sono quei casi che hanno un rene che funziona ma poi
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hanno le anche che sono mangiate dal cortisone, oppure hanno
altri millecinquecento problemi in parte legati alla terapia.
Siccome io avevo un’attività commerciale per conto mio, sono
macellaio, dovevano dirmi prima che avrei rischiato di non potere fare più il mio lavoro. Io avevo quarant’anni, stavo bene in
dialisi e non avevo problemi di salute, a parte il fare la dialisi a
casa (difficoltà di testa e di rapporti familiari, non di salute). Se
mi avessero detto com’era il trapianto e che avrei rischiato di
non potere più fare il macellaio, non lo avrei fatto.
Al momento di fare il trapianto stavo bene, quando mi hanno
chiamato al sabato sera non mi hanno neanche più dializzato, ed
avevo dializzato il venerdì sera, perché avevo il potassio ai limiti
inferiori della norma. Stavo benissimo, è chiaro, bene da
dializzato. Poi, dopo il trapianto ho fatto tre rigetti vascolari. Anche
se S. per me è uno dei più grossi nefrologi d’Europa e del Mondo, con me è stato molto bravo ma anche troppo ottimista: mi ha
smenato fino alla fine che il rene lo portavo a casa.
La creatinina più bassa che ho avuto è stata tre, poi è sempre
andata a salire. Sono stato trapiantato il ventisette novembre,
dopo quindici giorni mi sarei già fatto togliere quel rene. Il rene
poi me l’hanno tolto a maggio dell’anno dopo. Quindi mi sono
beccato un bel periodo di immunodepressione. Il periodo dopo
il trapianto è stato molto duro: c’è voluto un bel po’ per rimettermi in sesto; adesso faccio quattro dialisi alla settimana e sto
benissimo, lavoro.
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Bisogna pensare anche al lavoro; a quarant’anni non potevo cambiare lavoro dal giorno alla notte: anche se il rene fosse andato
bene, cosa avrei fatto a quarantadue anni con la crisi che c’è
adesso? Quello del lavoro è stato il problema peggiore.
Se ci avessimo pensato prima mi sarei dato una regolata, invece
che sperare nel trapianto, e avrei scelto con più testa se farlo o
no. Dopo il trapianto l’unico che è stato onesto con me è stato T.
(è bravissimo, pazzo ma bravissimo). Mi ha detto che avrei dovuto smettere di fare il macellaio, perché con l’immunodepressione se vai nel frigorifero ti prendi una polmonite ogni cinque
minuti. Quello mi ha segato le gambe: come l’ho capito, volevo
che mi togliessero il rene.
Alla fine sono stato un anno chiuso col negozio. Per me è stato
un grosso shock. Dopo il fallimento del trapianto sono andato tre
o quattro volte da un neuropsichiatra. Lui ha capito che non ero
più fuori di testa, ma che ero solo mal dializzato: ho passato
quasi sei mesi senza dormire, finchè non si è capito dalle analisi
che dovevo fare quattro dialisi alla settimana. All’inizio si era
detto che era per qualche mese, adesso è un anno e mezzo che
dializzo quattro volte alla settimana e sto molto meglio.
Prima facevo proprio il giro dell’orologio: lavoravo, andavo a casa,
non riuscivo a stare nel letto, avevo la “sindrome della gambe
che fuggono”. Adesso, dopo un’ora e mezza di dialisi mi addormento in sala e dormo fino a mezzanotte. Vuol dire che sto bene,
gli esami sono buoni, però lo sono facendo quattro dialisi: io
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sono per dializzare, tutti i giorni no, perché ho una famiglia,
ma c’è gente che ruba i cinque minuti. Io no, io tiro quattro ore.
E la domenica tre ore, tre ore e mezza a seconda di come mi
sento: se non mi sento bene anche cinque ore. Credo di essere
l’unico in Torino a fare sempre quattro dialisi alla settimana.
E’ ovvio che non sono contro la dialisi, ma questo perché ho
passato un periodo di otto mesi che non auguro neanche ad un
cane, e allora l’unica salvezza è stata la dialisi.
Ho visto gente alla quale il trapianto è andato bene quattro-cinque
anni e adesso hanno tutti i “bu-bu” del mondo. Io prima del trapianto stavo benissimo, adesso sto bene, ma ogni tanto escono dei
dolori, l’ultimo è stata una nevralgia ai denti; non appena ho qualcosa mi faccio vedere, non sono di quelli che tirano la corda. I
medici dicono di no, ma io penso che tutto sia portato dai postumi
del trapianto. Perché in un anno senza trapianto non puoi fare un
cambiamento così. Per me è stato disastroso.
Poi ogni medico vedeva le cose alla sua maniera; V. aveva in
mente solo il trapianto, con P. è un’altra cosa, se parli con S. per
lui c’è solo il trapianto che funziona; P. ti porta al trapianto ma
con calma. Uno specialista di un altro ospedale mi ha detto che
adesso in America stanno ritornando alla grande sulla dialisi.
Comunque sono convinto che non arriveremo mai a fare dialisi
brevissime, tipo un’ora e mezzo, al massimo ne faremo di più,
però magari se il filtro cambierà sarai molto più purificato, ma
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sotto le quattro ore penso che non arriveremo mai. Invece c’è
gente che è convinta che fra dieci anni si faranno due ore.
Conosco uno che ha il trapianto da diciannove anni, ma è molto
basso, è proprio piccolino, pesa trentotto chili. Io, invece, sono
grande e grosso: pesavo ottantasei chili prima del trapianto, ora
ne peso settantotto. Magari questo c’entra con quello che è successo: è più difficile depurare un corpo come il mio...
Se dovessi dare un consiglio a qualcuno direi che credo che il
trapianto non sia la salvezza, ma che credo che un trapianto
che duri cinque-sei anni sia una gran bella cosa, almeno per
ricostruire la muscolatura.
Poi ognuno ha la sua storia. Per esempio, il prof. P. è la realtà del
trapianto, non diresti mai che è un trapiantato, non è gonfio, sta
bene, lavora come un matto. E’ chiaro che se dovesse rispondere
a questa domanda lui direbbe qualcosa di ben diverso.
Poi ci sono altre storie, ad esempio uno che conosco che è stato
cinque anni trapiantato, due anni sono andati super bene, un
anno e mezzo ha un po’ tribolato e poi un anno e mezzo è andato male e, alla fine, anche a lui hanno tolto il rene.
Il trapianto renale è un terno al lotto e siccome io non sono
fortunato nel gioco…
Anche i medici la pensano in tanti modi: i nefrologi dicono che
il trapianto può durare a lungo; due vascolari mi hanno detto che
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se dura cinque anni ci si può leccare le dita. Ma un sacco di
gente la pensa in altro modo. Io sono diverso dagli altri, se
devo fare una cosa la faccio fino in fondo.
Guardiamo ad esempio che cosa succede in dialisi: c’è gente
che mi guarda male perché faccio quattro ore di dialisi, ma io ne
faccio di più perché penso: “Perché devo star male?”. C’è gente
che dializza al venerdì sera poi arriva al lunedì sera che è cotta.
Non beve. Io bevo, io porto chili, urino pochissimo, ma siccome
questa dialisi alla domenica mi purifica, mi scarica, sto bene.
Alcuni guardano l’acqua, scappano, perché non vogliono
dializzare una volta in più.
Io penso che più dializzi più stai bene. E’ tutto lì.
Ho impiegato quattro anni per arrivare a questo, e all’inizio
anch’io cercavo di fregare cinque minuti poi, quando ho passato quel periodo in cui prendevo dei tranquillanti per dormire, ho capito che dializzavo troppo poco e quindi avevo quei
problemi di nervoso. E’ tutto rapportato ai chili: io sono pesante e perciò più dializzo meglio è.
Nel mondo non è tutto uguale: dicono tanto l’America, ma in
America c’è una mortalità molto più alta: là se non hai sessantasettantamila dollari all’anno non sei nessuno, per la salute ti devi
pagare l’assicurazione. Io stasera vado, ho il parcheggio nell’ospedale, vado su, ci sono le infermiere valide, i medici validi, mi
guardano. In America vai in ospedale, ti danno un biglietto del
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bus o del treno e ti sbattono come se fosse a Bologna, Milano. Se
sei di New York e non hai la grana, non dializzi lì, ti sbattono a trequattrocento chilometri, se non c’è posto. Se fai un giorno sì e uno
no, sei dedicato solo alla dialisi. Se hai almeno sessantamila dollari all’anno ti vengono a prendere persino a casa.
Qua in confronto è un lusso.
Quello che mi piace del prof. P. è che quando ti saluta ti dice:
“Lei sa che tutte le volte che ha bisogno di qualcosa sa dove
trovarmi”. Questo vuol dire tanto, a me serve più quello della
metà delle medicine.
Quando hai il primario presente vuol dire: perché io non mi
faccio toccare per niente senza il suo consenso. Io faccio le
paratiroidi se lo decide P., infatti ci sono due o tre dottori che
non mi possono vedere tanto. Sono ventun anni che vado da lui
e per me vale più la sua parola di qualunque altra cosa, anche
se ha degli aiuti e degli assistenti bravi.
Il fatto che lui sia sempre presente mi dà carica: c’è gente che
può parlarne male, ma mi ha tenuto vent’anni fuori dalla dialisi. Perché io avevo quasi tre di creatinina a vent’anni. Ogni sei
mesi andavo da lui, prima una volta all’anno poi, a scalare,
ogni otto mesi, sei mesi e così via. Ogni anno, prima delle ferie
gli chiedevo se potevo andare; l’ultima volta mi ha detto di no
e di andare invece in ospedale a fare la fistola.
Io sono stato un paziente a sé, non sono mai andato prima in
ospedale né ho avuto la cartella clinica.
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Mia moglie mi faceva le analisi e poi io andavo da lui. Non sono
mai stato a contatto con l’ospedale.
Non ho mai fatto una dieta drastica. Ho avuto fortuna ad andare
avanti così a lungo: un mio amico a vent’anni è andato in dialisi,
io ci sono andato diciannove anni dopo, anche questo vuol dire.
Lui ha fatto quelle dialisi da dodici ore, ha la mia stessa età,
adesso dializza con me. Ha fatto anche un trapianto durato sette
mesi, in Francia.
Al trapianto ripenso spesso. A me è funzionato così male, solo
un mese. E pensare che il mio rene era di un ragazzo di diciotto
anni, ho saputo anche per caso di chi era, era di C. Per me è stato
tutto sfortunato, l’intervento è stato lungo, ma non è solo quello,
è tutto un insieme di cose.
Forse il problema è che io stavo troppo bene: sono convinto che
uno che fa il trapianto dev’essere un po’ debilitato, non nel cuore
o nei polmoni, perché se sei davvero malato non ti trapiantano,
ma un po’ depresso fisicamente, il rene deve avere il sopravvento
sugli anticorpi. Invece, si vede che io ho degli anticorpi che sono
dei leoni, l’hanno massacrato il rene.
Io stavo troppo bene: pressione giusta, fosforo giusto.
Poi dopo il trapianto è andato tutto a ramengo.
Io, come me l’hanno messo, quando ho visto che non partiva, ho
subito capito che il rene non andava. Loro dicevano di no. Io
dicevo: “Se mi fate un favore tra quindici giorni me lo togliete”.
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Nei primi quattro giorni avevo la creatinina a venti-ventidue; il
problema è che io urinavo ancora molto coi miei reni vecchi,
così era difficile capire come andava. Poi la creatinina è arrivata a sette e poi un bel giorno a tre e mezzo: sembrava che
allora il rene fosse partito alla grande, ma il giorno dopo c’è
stata la grande delusione: il rigetto vascolare.
Poi ho avuto anche il citomegalovirus.
Ma io non sono contro il trapianto, se non altro in linea di
principio, almeno adesso. Adesso, neanche se mi dessero due
miliardi mi farei trapiantare domani. Se vado bene così, spero
di arrivare a cinquant’anni con la dialisi, poi ritenterò il trapianto. Sono sicuro che allora ci saranno dei metodi nuovi.
Anch’io in realtà vorrei il trapianto. Voglio tornare di nuovo a
urinare contro una pianta. A me manca quello. Anche psicologicamente, a furia di fare dialisi, vai un po’ fuori. Io adesso faccio
solo più due gocce di urina, ho smesso di prendere il Lasix, perché alla lunga dà problemi di sordità. Ero arrivato a prenderne
cinquecento milligrammi al giorno ma non ne valeva più la pena.
Mi piacerebbe tornare a non dializzare, non sono innamorato
della dialisi, ma adesso credo che sia la cosa migliore: il giorno
che farò il trapianto, non voglio neanche più vedere la macchina per dialisi.
Io, per il prossimo trapianto, voglio quel vascolare lì e
quell’urologo lì. Perché ce ne sono di più o meno bravi.
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Io vorrei essere di prima scelta e avere i chirurghi che voglio io:
poi se va male quella volta lì, ti lavi le mani, metti il cappellino
e fai dialisi tutta la vita. Ci sarà un po’ di casino, lo garantisco, il
giorno che mi trapianteranno, ma io voglio i numeri uno.
Ci sono tante storie. Uno che era con me, uno di Boves, quando è arrivato al trapianto, con altri cinque o sei abbiamo fatto il
toto-trapianto: “Muore o andrà bene?”.
Io ho detto: “Va malissimo” perché era arrivato in ambulanza,
l’hanno messo in tre nel letto, era cadaverico. E’ uscito dal
trapianto, è stato male ma è andato avanti, l’ho rivisto due mesi
dopo. Era passato da quarantacinque a sessanta chili, si era
tutto riempito muscolarmente. Il rene l’ha fatto rinascere. Non
lo riconoscevo più, stava benissimo, era elegantissimo. Aveva
meno di uno di creatinina quando andava male.
Però ne ho visti troppi andar male. Perché a livello vascolare
sarà anche vero che il novantanove per cento va bene e solo l’un
per cento muore; però a quel punto sei solo all’inizio: per i chirurghi il trapianto è riuscito, ma è poi il nefrologo che dice se è
riuscito o no.
Il calvario è dopo.
Al momento di togliere il rene avevo la febbre a quaranta.
Dopo l’ultimo rigetto, anche mia figlia che ha tredici anni capiva che il rene era ciucco.
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E poi c’è un grosso problema nel trapianto, quello della
malinformazione: devono dire che una certa percentuale dei trapianti va male ma che altri vanno bene, ma ti danno dei problemi. Un mio amico ha la creatinina a uno e mezzo ma gli hanno
già rifatto le due anche. Come fai a lavorare? Io parlo per me,
che sono commerciante. Se mi avessero detto tutto, non avrei
fatto il trapianto quel sabato: gli avrei detto “Buongiorno, ci vediamo tra qualche anno, se trovo un altro lavoro”.
Intanto le cose cambiano: gli studi sono orientati verso il migliorare le medicine per fare partire il rene.
A chi inizia la dialisi, ad una persona giovane, consiglierei di
fare più dialisi.
Anch’io all’inizio non l’accettavo, adesso me ne sono fatto una
ragione perché vedo che ci sono parecchie persone nelle stesse condizioni, parli, scherzi tra di noi e con le infermiere e le
quattro ore passano. A casa le ore non passano mai, impegni la
moglie, invece di passare il poco tempo tranquilli insieme.
Secondo me, per uno giovane farla a casa è disastroso, anche
se in ospedale a volte vedi il vecchio senza la gamba, o la
persona che sta male; ma a quello ci fai l’abitudine.
Ad un anziano direi sempre la stessa cosa: di far tanta dialisi.
La gente quando parlo io ride, ma è proprio vero che più fai
dialisi meglio stai.
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Patrizia R.
Mi chiamo Patrizia, ho quarantaquattro anni
e ho un trapianto di rene da due anni.
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Ho fatto dialisi per venti anni.
Casualmente, sono entrata in dialisi il dieci luglio ’74 e sono
stata trapiantata il dieci luglio ’94, vent’anni esatti dopo.
Quando mi sono ammalata avevo diciannove anni.
La prima volta che mi sono sentita male ero con mio padre in
montagna e andavamo per funghi; di colpo io sono caduta per
terra, non ho visto più niente, sono piombata in una sorta di
coma. Mi hanno ricoverata allora all’ospedale Oftalmico, perché
non vedevo più, e lì hanno scoperto la mia malattia. Hanno detto
che gli occhi erano sanissimi, che erano i reni a non funzionare
e che questo mi dava un’ipertensione terribile.
E di lì è iniziato tutto il mio contatto con la malattia.
La mia malattia ha avuto un seguito normale, cioè una fase di
dieta aproteica, durante la quale ho sostenuto l’esame di maturità cibandomi solo di miele, marmellata, pane e pasta aproteica e
un uovo alla settimana o, a scelta, una fetta di prosciutto.
Era molto duro studiare con questo tipo di alimentazione.
Comunque ce l’ho fatta e ho preso la mia maturità e poi mi sono
trovata con la mia maturità, senza lavoro e questo era difficile,
perché avevo una situazione economica che non mi consentiva
di farmi mantenere. E così ho trovato un lavoro, fingendomi sana
perché altrimenti, se si fossero accorti che ero ammalata, non mi
avrebbero assunta. Io ho lavorato fingendomi sana con me stessa, nel senso che non davo retta assolutamente ai conati di vomito, alla stanchezza, al fatto che di colpo precipitavo in una massa
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di luce bianca, perché stavo svenendo tanto ero debole, e ho
sempre lavorato.
Poi sono finita in dialisi, l’azienda in cui lavoravo mi voleva
sbattere fuori ma non ha potuto farlo.
Sono entrata in dialisi in un’epoca in cui i centri dialisi erano
pochissimi, quindi ho dovuto andare fuori Torino a fare la dialisi: due volte alla settimana, partivo alle cinque del mattino
da sola su una corriera, facevo la dialisi bisettimanale, perché
in quel centro non la facevano trisettimanale. Sei ore di dialisi,
poi tornavo a Torino in corriera, sempre in piedi perché scendevo giù con quelli che avevano fatto il turno. Quasi sempre
avevo la fistola che sanguinava, di conseguenza dovevo tornare, farmi medicare, strizzavo la manica del cappotto dal sangue, andavo a dormire e poi il giorno dopo andavo a lavorare.
Sono andata avanti così, finchè si è liberato un posto in corso
Vittorio. Lì ho dializzato per un po’, poi non so come è successo, è risultato che ero portatrice dell’epatite B, senza mai aver
trasfuso una volta, e sono andata a dializzare a M. Qui è stato
bello, perché ho instaurato un rapporto con delle persone e mi
sono creata la mia esistenza, che era un’esistenza parallela, di
malata da una parte e di persona sana dall’altra, perché ho
cercato di scindere le due cose.
Quando ero fuori ero sana, e quando andavo lì facevo la dialisi.
Lì ho cominciato a capire, a ventidue anni, che cosa significa la
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malattia cronica, l’essere malati, avere i propri problemi e non
farli gravare sugli altri perché tanto non serve, gli altri non
capiscono, perché ognuno ha la sua vita.
Di conseguenza, ho capito che i miei problemi dovevo risolverli da sola, portarmeli dentro, continuare a considerarmi una
persona assolutamente normale e vivere dicendomi :“Io non
sono una persona malata ma sana, con un filtro che non funziona, questa è una sorta di lavatrice, vado in ospedale, lavo il
sangue e poi esco e mi faccio la mia vita”.
E così ho fatto; mi sono poi licenziata io da quella ditta e ho
trovato un altro lavoro in una casa editrice. Lì sono entrata in
un centro elettronico, poi, nonostante la malattia, hanno visto
in me delle capacità e sono stata messa nell’ufficio stampa.
Lavoravo, dializzavo e intanto avevo la mia vita sentimentale:
mi sono innamorata più volte, finchè mi sono innamorata
definitivamente di mio marito e adesso sono diciassette anni
che stiamo insieme.
Ad un certo punto, ho deciso di interrompere il mio lavoro, con
dispiacere perché mi piaceva, e ho cercato di considerare la
dialisi un intoppo che assolutamente non doveva condizionare
la mia vita perché io la mia vita me la volevo fare.
Un giorno mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: “Deciditi, vuoi vivere o no? Se vuoi vivere, non sei schiava di una
macchina ma è la macchina che ti serve. Altrimenti, se vuoi
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considerarti schiava di una macchina lascia perdere, buttati
giù dal sesto piano e chiudiamola qui”.
Ho deciso che volevo lottare, che volevo farcela e così ho fatto.
Quando facevo dialisi, il momento più buio è stato quando ho
scoperto di avere un tumore alla tiroide. Ho subito una serie di
operazioni perché la cosa non è stata capita subito, per cui
sono stata operata quattro volte. Il collo, dato che non aveva la
cerniera, doveva essere sempre tagliato e ricucito; alla fine ho
dovuto subire una radicalizzazione, che significa starsene chiusa
in una stanza di cemento armato, dove ti fanno prendere una
pillola radioattiva. Tutti ti seguono con una telecamera, sei chiusa lì perché sei radioattiva, a momenti non puoi andare troppo
in bagno perché anche i tuoi bisogni sono radioattivi.
Questa storia mi ha fatto molto effetto.
Quando mi hanno dato questa pilloletta sono arrivati con un
vassoio di piombo e delle capsule in piombo, e dentro c’era la
piccola medicina.
Tutti i medici avevano degli enormi scafandri di piombo per difendersi dalle radiazioni, mi è stato dato un bicchierino di plastica di bianco, sono state estratte le capsule dagli scrigni di piombo
e io ero lì col mio pigiamino a fiori, il bicchierino d’acqua, la
pilloletta e tutti erano schermati per difendersi; io addirittura la
dovevo ingurgitare questa bomba di radioattività.
L’ho ingurgitata, quella notte dentro di me è esploso il mondo,
perché avevo ancora evidentemente qualche cellula tumorale e
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questo iodio radioattivo è stato captato da queste cellule tumorali,
ho sentito delle fiammate tremende dentro di me ed ero chiusa
in questa stanza da sola.
E’ stata una cosa molto dura, sono stata quattro giorni lì dentro,
mi portavano da mangiare in una prestanza e poi scappavano,
chiudendo un enorme porta d’acciaio, spessissima. Avevo una
scopa e uno straccio per pulirmi la camera, ed un telefono.
C’era una finestra che dava sul corridoio e un piccolo spicchio
non era murato, e allora mio marito andava nel corridoio e parlavamo attraverso questo piccolo spicchio, in cui mettevo un
impermeabile, che ho appeso poi per sei mesi in campagna
perché era radioattivo. Mi sporgevo e ci salutavamo. Era l’unico
contatto che avevo con il mondo esterno. Questo episodio mi ha
molto colpita.
Un aspetto positivo invece è stato capire che qualunque cosa
succedesse io ero sempre io, che la dialisi non mi ha cambiato
più di tanto, anzi mi ha arricchita, perché attraverso la dialisi
ho capito di dover sfrondare, andare verso gli altri, essere tollerante, avere un senso di solidarietà e amicizia verso tutti, e questo è stato un grosso insegnamento. Forse l’avrei capito lo stesso, ma non all’età in cui l’ho capito, magari più tardi.
Capirlo prima permette di attraversare gli anni con questa ricchezza interna, che è stata appresa con sofferenza dalla vita, e
che adesso cerco di applicare perché ci credo. Perché ho capito
cosa vuol dire, quando si soffre e si sta male, avere una persona
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che ti viene vicino senza nessun obbligo d’essere gentile e disponibile con te, magari un’infermiera o un medico, che ha una
parola o un gesto gentile e ti fa sentire un essere umano, non un
pezzo di carne steso su un letto.
Ho imparato la solidarietà e l’amicizia, cerco di comportarmi
come mi sarebbe piaciuto che gli altri si comportassero con me.
La cosa bella del trapianto è stata che casualmente ho incontrato i genitori di A., il ragazzo di cui ho il rene, che mi ha permesso di essere più autonoma e libera, anche se la libertà non è
dipendente dall’essere o no legati ad una macchina. Siamo tutti
legati a qualcosa. Diciamo che materialmente sono più libera;
lo spirito non dipende dal trapianto.
Ho avuto, del tutto per caso, la possibilità di conoscere questa
donna così generosa che, dopo aver perso dieci anni fa la figlia
di leucemia fulminante, ha perso A. a causa di un incidente.
Nonostante ciò, ha donato tutti gli organi del figlio.
L’otto luglio del ’95 ci siamo trovati da lei, insieme ad altre
persone che hanno ricevuto un organo di A., alla messa di anniversario; eravamo tutti stretti intorno a questa madre, con tutti
gli amici di A. e il paese. Erano tutti stretti intorno a noi, tutti
che mi abbracciavano la pancia e salutavano il figlio. La mamma, in un momento così, piangeva di gioia e diceva che non
avrebbe mai pensato di essere felice in un giorno come quello.
Questa è stata la cosa più bella del trapianto, aver potuto dare
questo alla mamma di A.
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Non mi piace dare consigli, io posso dare la mia esperienza.
Ad una persona giovane direi di essere sempre ben desti in dialisi, di controllarsi sempre, di imparare il funzionamento della
macchina, di sapere come si monta un filtro, per guardare che
tutto sia messo nel modo giusto, di imparare il più possibile a
gestirsi la dialisi, non solo dentro all’ospedale ma anche fuori,
con un’alimentazione corretta, senza bere troppo perché troppi
liquidi da togliere sono un problema, e negli anni si accumulano, il cuore soffre, l’organismo si deteriora.
Questo è un consiglio pratico per una buona dialisi: una buona
autogestione dentro e fuori la sala dialisi.
Poi, direi di avere sempre molti interessi e di non considerarsi
mai delle vittime, ma di utilizzare la macchina come si utilizzano gli occhiali, come uno strumento in più per vivere.
Ad una persona anziana in dialisi direi le stesse cose; di cercare
sempre degli stimoli per non considerare la dialisi una tristezza
in più, ma una possibilità in più per continuare a vivere e a fare
quello che più si ama.
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Aldo B.
Mi chiamo Aldo B., ho cinquantacinque anni,
sono sposato ed ho tre figlie e quattro nipoti.
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Lavoro moltissimo: alle sei di mattina, tutti i giorni dal lunedì
al venerdì, sono già in cantiere. Ma devo dire che a me lavorare piace tantissimo, è la mia vita.
Mi sono ammalato a trentatré anni: una sera, tornato dal lavoro
e dopo la doccia, sono svenuto ai piedi del letto. Mia moglie mi
ha misurato la pressione, che era salita alle stelle ed il medico
di famiglia, pensando fosse un problema renale, mi ha inviato
dal dottor S.
Innanzitutto dovevano abbassarmi la pressione, prendevo tantissime pastiglie. Mi capitava di addormentarmi mentre mangiavo,
non potevo più guidare. In quel periodo, mia moglie ha preso la
patente e mi portava in giro, perché avevo paura di addormentarmi al volante. Ero un cadavere ambulante, non avevo più forze.
Poi mi sono ripreso, la pressione è scesa su livelli accettabili.
E’ stato subito chiaro che era necessario iniziare al più presto la
dialisi, fare solo una dieta mi avrebbe troppo debilitato. Mi è caduto il mondo addosso, mia moglie ed io cercavamo di farci coraggio a vicenda, ma in realtà eravamo preoccupati ed impauriti, piangevamo di nascosto. Avevo trentatré anni e tre figlie piccole, non mi ero mai accorto di nulla, ma probabilmente la causa
doveva essere stata un’infezione alle tonsille. Dopo due settimane abbiamo deciso che bisognava andare avanti e farci forza.
Sono così passati dieci anni in cui facevo dialisi domiciliare dopo
cena, si finiva alle due di notte e alle sei eravamo già in piedi.
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Il lavoro mi ha aiutato a non pensare alla dialisi, a volte me ne
dimenticavo persino. Spesso sul lavoro mi collassavo, tiravo su
le gambe cinque minuti e riprendevo.
Finalmente, nell’84 è arrivata la chiamata per il trapianto: è stato fantastico, tutto è andato bene ed ho trascorso dodici bellissimi anni, mi sembrava di essere nato per la seconda volta.
Nel ‘91 ho avuto un infarto, che per fortuna mia moglie ha riconosciuto, mi ha portato al pronto soccorso, dove mi hanno salvato la vita. Poi, nel ‘96, dopo un intervento per by-pass, la funzione renale è velocemente peggiorata. Nell’epoca di Pasqua del
‘96 sono rientrato in dialisi, questa volta nel centro di B.
La vita col trapianto è troppo bella, per me la dialisi, alla fine,
era una morte: dovevo smettere di lavorare alle cinque, correre a
far dialisi. Per fortuna potevo fare l’ultimo turno, sono stati molto
disponibili. Io non resistevo più, battevo mani e piedi chiedendo
ai dottori di farmi gli esami e di mettermi in lista trapianto.
Per fortuna, esattamente un anno dopo, mi hanno chiamato per
il secondo trapianto, che è andato veramente bene. Dopo undici
giorni ero già a casa.
Quei dottori vorrei mangiarmeli, tanto voglio loro bene, mi hanno ridato la vita.
Se posso dare un consiglio a chi entra in dialisi, dico di iscriversi
subito in lista trapianto perché è la cosa più bella del mondo;
direi anche, a chi non può, di buttarsi nel lavoro o in qualcosa
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d’altro per tenere la testa impegnata e non pensare alla dialisi.
Secondo me, la dialisi deve essere una cosa come andare a far
cena, e bisogna cercare di pensarci il meno possibile.
Io dovevo essere morto già vent’anni fa, devo solo ringraziare
quei dottori. Quando li vedo mi commuovo. Danno veramente
tutto quello che possono.
Abbiamo comprato una baita ed abbiamo lavorato tantissimo,
alla sera, alla domenica. Ora sembra la casetta delle bambole,
è stupenda, è proprio così come l’avevamo pensata.
E’ stata costruita con amore.
Ci consideriamo fortunati, ci vogliamo bene e questo ci basta.
Anche le nostre figlie ci adorano, vengono sempre a trovarci.
Ed adesso, con questo trapianto, sono l’uomo più felice del
mondo. Ultimamente però avevo dei dolori alla schiena da urlare, ho provato anche con l’agopuntura, eppure sono passati
da soli. Avevo fatto anche un busto che ho messo tre volte…
Mi sento una vitalità addosso, una voglia di fare, vorrei ricominciare un’altra casa. Adesso io sto bene. A volte ci sentiamo
un po’ ragazzini. Io sono felice.
Di questo devo solo ringraziare quei dottori, sono stupendi, S.,
la dottoressa M.: le sono svenuto un po’ di volte tra le braccia
quando mi faceva il prelievo, non sopportavo la vista del sangue. Dovevano farmi i prelievi sulla barella…
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Poi, per non perdere tempo, abbiamo sempre fatto i prelievi a
casa (sono ventitré anni). Me li fa mia moglie, che poi porta le
provette in ospedale.
Alle visite però devo andarci…
Nonostante tutte queste avventure e prove la nostra vita è felice,
non bisogna mai arrendersi.
Ed abbiamo ancora un sacco di cose da fare.
La mia fortuna è stata che il medico di base mi ha subito mandato da S., ed ho iniziato immediatamente la dialisi. La malattia
renale è subdola. Conoscevo una ragazza che non ha avuto la
stessa mia fortuna, hanno diagnosticato la malattia troppo tardi e
così ha iniziato la dialisi in pessime condizioni.
Il giorno dopo il trapianto io ero già in piedi, con tutti i miei tubi,
avevo il terrore dei problemi polmonari. Il secondo trapianto l’ho
vissuto con meno paura ed è andato ancora meglio: adesso la
creatinina non supera mai l’uno.
E così, adesso sono rimasto con quattro reni.
Il primo trapianto l’ho tenuto buono, con mezza pastiglia di
cortisone. E l’altro l’hanno messo dall’altra parte: sono pieno di
cicatrici, sono un po’ naïf.
Ho rischiato di non farlo, il secondo trapianto: alla sera, tornando a casa, c’era la cometa, ed abbiamo pensato che potesse portare qualcosa di buono. A casa ci ha telefonato il dottor M. ed ha
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detto di tenerci pronti, se alle tre di notte non ci fossero state
ulteriori notizie, allora niente. Non abbiamo più dormito, alle tre
ci hanno chiamato ed allora giù in ospedale.
Ho fatto ancora dialisi per mandare giù il potassio. Alle Molinette,
ero già in preanestesia e mi hanno mandato fuori dalla sala operatoria. La persona che aveva ricevuto l’altro rene aveva avuto
un’emorragia ed hanno dovuto rioperarla.
Avevo paura che fosse il mio cuore, il problema.
Invece la mattina dopo sono andato in sala.
Sono proprio felice, è bello vivere.
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Intervista ai curatori
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Francesca Bechis
Giorgina B. Piccoli
Parlare di malattia e di malati non è mai facile.
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Tanto più il racconto si sposta dalla descrizione dei sintomi alla
storia di una vita, e si entra in una sfera personale, quanto più è
difficile commentare, sbagliato giudicare.
Ci sembrava però giusto concludere le storie con qualche osservazione, rivolta non tanto ai pazienti, già addentro a molti dei
problemi della malattia, quanto a chi, più lontano dalla realtà
della dialisi e del trapianto, volesse a questa avvicinarsi, tramite
la lettura delle storie.
Ci siamo così interrogati tra di noi, intervistatore e curatore del
libro. Questa è la nostra intervista.
Ogni volta che ci troviamo a leggere o ad ascoltare le storie di
persone con una lunga vicenda di malattia renale, ci colpisce la
capacità di cogliere una serie di aspetti positivi della vita, senza
per questo proporsi in una maniera acritica nei confronti della
malattia e di chi se ne cura.
Infatti, non sono stati risparmiati i giudizi salati sui medici, né le
descrizioni più tristi di malattia.
Questa capacità di adattamento, che qualcuno è riuscito a sviluppare in maniera straordinaria, credo che sia la stessa che
permette ai bambini di città in guerra di ritornare a giocare, o ai
soldati di sopravvivere, senza impazzire, ad un anno di trincea.
Il paragone con la guerra è quello che ha suggerito Alfredo, che
conclude la sua intevista notando come si pensi sempre troppo
poco: anche questa capacità di meditare sulle cose, senza chiedere compassione, ma cercando comprensione, prima dentro se
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stessi e poi da parte del resto del mondo, è stato uno dei motivi
conduttori delle storie che abbiamo raccolto.
Davide o Patrizia, più critici, lo hanno osservato apertamene;
per altri, come Marco o Roberto, il suggerimento è indiretto e
deriva dal bilancio positivo di una vita, attraverso e grazie, se
così si può dire, alle difficoltà. Questo suggerimento a pensare di
più ed a valutare il senso delle cose, a cogliere l’attimo, come
dice Patrizia, è talmente semplice e, nella sua semplicità, talmente universale, da non essere più rivolto solo ai pazienti o a
chi li cura, ma da applicarsi, senza tante etichette, a tutti noi.
Anche per questo, questo libro è dedicato a tutti, sani o malati,
vicini o estranei al mondo della dialisi e del trapianto di rene.
Tutti i pazienti, o meglio, tutte le persone con cui Francesca ha
parlato, sono riusciti a dare un messaggio di speranza.
Qualcuno, come Patrizia, lo ha fatto con dolcezza, qualcuno,
come Claudia, con autocritica, altri, come Eraldo, con un po’ di
rabbia, condita di aneddoti in maniera alquanto colorita; qualcuno si è vigorosamente lamentato, come Leo, altri, come il giovane Davide, hanno trovato vie insolite nella propria mente. Se
non tutti sono in grado o hanno la fortuna di poter dire, come
Aldo, “Sono proprio felice, è bello vivere”, come dice Gianni,
“Sono tutti un po’ eroi”.
E a noi, gente comune, non toccata dalla necessità di vivere una
vita artificiale, cosa resta?
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Deve restare il rispetto: per chi si lamenta, come per chi prega o
si dispera, per chi lavora e per chi, come Davide, dice sempre
che, in fondo, “è andato tutto abbastanza bene”.
Proprio per rispetto di tutte le opinioni, abbiamo scelto di lasciare anche i pareri un po’ estremi; chiediamo a chi legge di avvicinarsi anche a questi con un minimo di relatività. Come dice
Patrizia, nessuno ha la ricetta perfetta da proporre, né chi è in
pigiama, né chi ha il camice bianco.
Dalle storie, però, emerge come sia ricca la vita, oltre alla malattia o anche, secondo Severino o Mauro, attraverso la malattia, e
come qualunque etichetta di “malato di” sia riduttiva.
Vedere la dialisi come un paio di occhiali o come una cena,
d’altronde, non è facile, ma il consiglio di farlo è due volte prezioso. In assoluto, infatti, credo che sia giusto, senza minimizzare, arrivare a prendere questa grave limitazione come una condizione, per non rischiare di identificare anche quello che c’è di
buono nella vita solo con la malattia.
Questo consiglio, però (ed è per questo che è due volte prezioso),
non è un consiglio che può facilmente dare un medico, uno che
sta bene, che non conosce sulla propria pelle la dialisi.
Tante volte, quando abbiamo cercato di spiegare che la dialisi
può anche essere presa bene, o che il trapianto non è sempre la
soluzione di tutti mali, abbiamo visto nell’interlocutore lo scetticismo di chi pensa “Tu però non sai cosa vuol dire”.
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E’ giusto, credo che reagiremmo anche noi così.
Visto però che, tra i doveri di un medico, c’è anche quello di
dare dei consigli, abbiamo cercato questa via di mediazione in
cui trasmettere semplicemente delle esperienze, che assumono un valore speciale proprio perché non costruite a tavolino
ma faticosamente apprese dalla vita.
Per questo motivo, noi che abbiamo ideato e curato questo
libro siamo stati i primi ad imparare moltissimo dalle storie
che abbiamo raccolto; la disponibilità all’ascolto, sebbene non
compaia sui testi universitari, né sia oggetto di esame, è sicuramente una delle chiavi per imparare a fare il medico o, a
qualunque età, per migliorarsi.
Gioire dei complimenti e rimproverarsi per le critiche (specie
quando, come in questi casi, sono più che motivate) è una medicina utile per il medico, ma leggere queste storie porta sicuramente anche a ridimensionare un po’ i nostri problemi, seguendo la ricetta di entusiasmo e decisione che molti, come
Patrizia, Davide, Severino, hanno saputo applicare.
Francesca dice che, quando aveva messo piede la prima volta
in sala dialisi, aveva pensato quanto quelle quattro ore dovessero essere lunghe e focalizzato la sua attenzione su di esse.
Dopo le interviste, se parla di un paziente, le viene da pensare
soprattutto alle quarantaquattro ore fuori dalla dialisi.
Se la malattia ha tratti comuni in molte storie, è il riconoscere
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l’importanza del resto, della connotazione individuale di ognuno, che i nostri pazienti chiedono a noi medici, come alle persone che hanno intorno.
Per chi, distante da un’esperienza di malattia, infine, si avvicina
a queste storie, credo che valgano sostanzialmente gli stessi suggerimenti: alcuni intervistati hanno detto che tutti nella vita hanno
dei problemi, prima o poi; è una considerazione semplice, al
limite della banalità, come molte considerazioni vere.
Può essere lo spunto per riflettere su come l’accento non vada
posto né sulla diversità né sulla malattia, ma sul conservare una
vita piena che, tenendo conto delle limitazioni obbligate, riesca
a superarle.
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Appendice
Glossario
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Appendice
CHE COS’E’ IL TRAPIANTO DI RENE
Trapiantare significa, anche nel linguaggio comune, trasferire qualcosa di
vivo da un terreno ad un altro. Nel caso del rene il significato diventa quello
di trasferire un organo, vitale, da un donatore ad uno ricevente.
Questo può avvenire in due maniere:
* asportando uno dei due reni da un individuo sano (il donatore), che continuerà a vivere con un rene solo, ad un individuo malato (il ricevente, che
non ha più la funzione renale sufficiente a permettere di vivere senza dialisi
o trapianto), oppure
* prelevando entrambi i reni da un individuo di cui sia stata accertata la
morte cerebrale; in questo caso i reni saranno trapiantati in due pazienti
diversi.
QUANDO SI FA IL TRAPIANTO DI RENE ?
Salvo casi molto particolari (come alcune malattie ereditarie nei bambini
piccoli), in cui il trapianto di rene viene eseguito prima dell’inizio del trattamento dialitico, il trapianto di rene viene eseguito dopo l’inizio della dialisi.
Prima di addentrarci in alcuni dettagli sul trapianto accenniamo brevemente a:
CHE COS’E’ LA DIALISI ?
La dialisi è un trattamento che viene eseguito quando la funzione dei reni è
del tutto assente oppure così scarsa da non permettere di continuare a vivere senza depurare il sangue in un’altra maniera. Quest’altra maniera è la
dialisi. Il nome dialisi deriva dal greco e vuol dire “passare attraverso”:
significa semplicemente trasferire delle sostanze “dentro” e “fuori” dal paziente. Il paziente viene depurato delle scorie (cioè delle sostanze tossiche
che si accumulano nel suo corpo quando i reni non funzionano più) e riceve
delle sostanze fondamentali per la vita (“buone”) che i reni non produ-
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cono più: tra queste sostanze c’è, per esempio, il bicarbonato o il calcio.
Il meccanismo di base è quindi semplice. Il modo di metterlo in pratica
è più complicato.
Ci sono due “famiglie” di tipi di dialisi: intracorporea, o dialisi
peritoneale, in cui lo scambio tra le sostanze “buone e cattive” avviene
all’interno dell’addome (nella pancia del paziente viene messo un liquido
“pulito” che sottrae sostanze tossiche e fornisce sostanze necessarie), ed
extracorporea (o emodialisi), in cui lo scambio tra le sostanze avviene
al di fuori del paziente. In questo caso, una macchina per dialisi aspira
una certa quantità di sangue “sporco” del paziente e lo mette a contatto
con un liquido “pulito”; le sostanze tossiche passano nel liquido e quelle
“buone” entrano nel sangue. In genere, per depurare un organismo in cui
i reni non funzionano per nulla, c’è bisogno: in dialisi peritoneale, che di
solito si fa a casa, di scambiare tre o quattro volte al giorno il liquido nella
pancia (e ci si mette un paio d’ore al giorno in media); in emodialisi di fare
tre dialisi alla settimana di circa quattro ore l’una.
CHI PUÒ FARE IL TRAPIANTO DI RENE ?
Il trapianto di rene è il modo più “naturale” di sostituire la funzione dei
reni malati: non si tratta di qualcosa di esterno, come il liquido di dialisi
peritoneale, né di una macchina, come nell’emodialisi, ma di un vero e
proprio rene vivo che funziona all’interno del corpo.
Questo miracolo, tuttavia, non è così semplice: il trapianto renale è un
grosso intervento chirurgico (che ha quindi qualche rischio, come tutti gli
interventi chirurgici) e, soprattutto, c’è bisogno di una terapia continuativa
per non “farlo riconoscere” come un qualche cosa di estraneo dal paziente
e non farlo danneggiare o distruggere. Questo riconoscimento del rene
come qualche cosa di estraneo è uno dei meccanismi di difesa del nostro
corpo, per esempio contro le infezioni; se i meccanismi di difesa sono
troppo deboli il rischio è quindi quello di prendersi delle malattie infettive. Se i meccanismi di difesa sono troppo forti, il rischio è quello di “rigettare” il rene trapiantato. La terapia del trapianto deve permettere un
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equilibrio tra questi due estremi, è molto delicata e richiede di prendere
dei farmaci importanti, come il cortisone e gli immunodepressori.
Questi farmaci sono in genere ottimamente tollerati da pazienti che stanno
bene (dialisi a parte) ma possono avere una serie di effetti negativi in
pazienti molto fragili. Per questo motivo, i candidati al trapianto renale
vengono studiati attentamente ed il trapianto viene consigliato solo a chi
non presenta dei rischi troppo alti.
Poiché sappiamo che si vive altrettanto a lungo con la dialisi o col trapianto, e quindi, scegliamo il trapianto quando questo significa VIVERE MEGLIO, non dobbiamo correre il rischio di ottenere l’effetto opposto. E poi, non disperiamo: migliorando ancora le terapie del trapianto,
probabilmente in futuro sarà possibile fare ancora di più....
COSA SI PUÒ FARE PER MIGLIORARE QUESTI RISULTATI ?
La ricerca, nel campo della dialisi e del trapianto ha fatto passi da gigante: basta pensare che fino al 1960 tutti i pazienti con insufficienza renale
cronica terminale morivano. Quando il primo paziente ha iniziato la dialisi, nel marzo 1960, nessuno avrebbe pensato che la dialisi avrebbe
oggi tenuto in vita decine di migliaia di persone...Ed alcuni dei primi
pazienti, che hanno iniziato la dialisi nel 1960, sono vivi ancora oggi.
Gli stessi progressi rapidissimi si sono verificati anche per il trapianto
renale ed oggi un paziente che riceve un rene ha molte più probabilità di
averlo ancora funzionante, dopo cinque anni, rispetto a quindici-venti
anni fa. Ed i risultati migliorano anno dopo anno....
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Glossario
ANEMIA: basso livello di globuli rossi nel sangue. Emoglobina (molecola che trasporta l’ossigeno nel sangue; valori normali: 14-18 g/dl
negli uomini e 12-16 g/dl nelle donne) ed ematocrito (percentuale di
globuli rossi nel sangue; valori normali: 41-53% negli uomini e 36-48%
nelle donne), sono gli indici del livello di globuli rossi nel sangue.
ANGIOPLASTICA: si chiama angioplastica una manovra radiologica
che serve a dilatare un’arteria stretta (stenosata).
AZOTEMIA: sostanza che, insieme alla creatinina, aumenta nel sangue in condizioni di insufficienza renale. Poiché il loro livello è proporzionale al grado di funzione renale, vengono impiegate praticamente per
valutare qual è il grado di danno renale.
L’azotemia è normale da 20 a 45 mg/dl. Livelli elevati indicano una
ridotta funzione renale.
BOLI (di cortisone): cortisone ad alte dosi, somministrato per endovena.
BUCARE: indica il procedimento per cui, prima di ogni dialisi extracorporea, bisogna collegare il paziente alla macchina, tramite due aghi,
che assomigliano a dei grossi aghi per fare i prelievi: attraverso il primo
il sangue viene preso dal paziente e passa attraverso la macchina; attraverso il secondo il sangue ritorna al paziente.
CICLOSPORINA: è un farmaco usato nella terapia anti-rigetto dopo
il trapianto: vale a dire che è in grado di impedire la reazione del nostro
organismo che, riconoscendo il rene trapiantato come “diverso da sé”,
tenderebbe ad attaccarlo e a distruggerlo.
CITOMEGALOVIRUS: è virus che può essere causa di problemi
polmonari, di fatti di tipo simil-influenzale, e anche di danno al rene
trapiantato.
COLLASSO: grave ipotensione, cioè grave calo di pressione, con dei
sintomi importanti fino allo svenimento.
CORSO REGINA e CORSO VITTORIO: centri dialisi distaccati
al di fuori della struttura ospedaliera per pazienti in buone condizioni
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cliniche. Esempio di centro detto “ad assistenza limitata” in quanto il
paziente è seguito per la dialisi dal personale infermieristico e il medico
non è sempre presente.
CORTISONE: è tuttora uno dei più potenti farmaci anti-infiammatori
e anti-rigetto, vale a dire in grado di impedire la reazione, peraltro normale, dell’organismo che riconosce il rene trapiantato come “diverso da
sé” e che quindi tenderebbe ad attaccarlo e distruggerlo.
CREATININA: sostanza che, insieme all’azotemia, aumenta nel sangue
in condizioni di insufficienza renale. Poiché il loro livello è proporzionale al grado di funzione renale, vengono impiegate praticamente per valutare qual è il grado di danno renale. La creatinina è normale in media da
0.6 a 1.2 mg/dl. Piccole variazioni ci possono essere a seconda dei laboratori. Un livello alto di creatinina significa una funzione renale ridotta.
DIETA APROTEICA: dieta con scarsissimo contenuto proteico utilizzata dai pazienti con danno renale molto avanzato.
EPATITE B, EPATITE C: sono due tipi di epatite virale, generalmente trasmessi con le trasfusioni.
FIBRILLAZIONE, FIBRILLAZIONE ATRIALE: è un’aritmia del
cuore, vale a dire una situazione in cui il cuore batte secondo un ritmo
irregolare.
FILTRO o FILTRO DI DIALISI: è il vero e proprio rene artificiale;
è il pezzo della macchina attraverso cui avvengono gli scambi tra il sangue del paziente “sporco” e il liquido di dialisi “pulito”.
FISTOLA o FISTOLA ARTERO-VENOSA: è un collegamento tra
un’arteria e una vena di un braccio, che permette di creare artificialmente una vena molto grossa, tale da poter essere impiegata per il “lavaggio del sangue”, cioè per la dialisi extra-corporea.
GIUNTO PIELO-URETERALE: è un tratto di collegamento tra il
rene e le vie escretrici che portano l’urina fino alla vescica.
IMMUNODEPRESSIONE: terapia (ad esempio cortisone,
Ciclosporina, eccetera) che riduce le reazioni “di difesa” dell’organismo
ed aiuta la tolleranza al rene trapiantato.
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IPERTENSIONE: pressione alta.
IPOTENSIONE: pressione bassa.
KAPOSI: è un tipo particolare di tumore che talora si verifica in soggetti
immunodepressi. E’ possibile, sebbene rara, la sua insorgenza dopo il trapianto renale. In genere regredisce con la sospensione della terapia.
LASIX: è un diuretico, un farmaco che aumenta la produzione di urina.
LEGIONELLA: è un batterio causa di polmoniti.
LUPUS: malattia autoimmunitaria (in cui l’organismo reagisce contro alcune sue parti) coinvolgente diversi organi, caratterizzata da una
sintomatologia estremamente varia. Frequente è l’interessamento renale
(nefropatia lupica).
MONITOR: si chiama monitor la macchina che serve per fare la dialisi.
MONOCLONALI: farmaci usati nella terapia del rigetto del trapianto.
NEFROPATIA: malattia renale.
PARATIROIDI: le paratiroidi sono quattro piccole ghiandole presenti nel collo il cui ormone, paratormone, regola i livelli di calcio e di
fosforo nel nostro organismo: questi a loro volta sono indispensabili per
mantenere delle ossa in buone condizioni. Togliere le paratiroidi
(paratiroidectomia) è un intervento che può essere necessario in alcuni
casi dopo molti anni di dialisi.
PIELONEFRITE: infezione ai reni.
POTASSIO: piccola sostanza (sale minerale) che si accumula nel sangue quando i reni non funzionano e di cui alti livelli possono causare dei
danni al cuore.
PROTEINURIA: presenza anomala di proteine nelle urine.
Caratterizza diverse nefropatie.
SINDROME DELLE GAMBE CHE FUGGONO: è una situazione
che si verifica in alcuni pazienti in dialisi o prima del trattamento dialitico, che indica una scarsa depurazione dell’organismo o la necessità di
dialisi.
STENOSI, STENOSI DELL’ARTERIA RENALE: la stenosi è una
“strettoia” dell’arteria renale, che in genere è legata ad una cicatrizzazione
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particolare dell’arteria del rene trapiantato, ma che si può verificare anche
sui reni propri.
TRAINING: corso d’istruzione alla dialisi domiciliare (il termine è inglese, perché le prime dialisi a domicilio erano state “inventate” negli
Stati Uniti).
TROMBOFLEBITE: è l’infezione, infiammazione e chiusura di una vena.
TUNNEL CARPALE: sindrome da intrappolamento del nervo mediano
che fornisce sensibilità e movimento alle dita della mano. L’intrappolamento si verifica a livello del polso e provoca dolore e difficoltà di movimento.
UREMIA: insufficienza renale grave “terminale”, cioè con poca o nulla
funzione renale residua.
URETEROSTOMIA: è un collegamento, all’esterno, delle vie escretrici.
Gli ureteri sono i tratti che collegano i reni alla vescica. L’ureterostomia è
un intervento per cui l’urina, invece di finire dentro la vescica, finisce
dentro a dei sacchettini posti all’esterno del corpo.
UROGRAFIA: è un esame che serve a valutare l’aspetto ed, entro un
certo limite, la funzione dei reni.
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Provini
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Ringraziamenti
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Il primo, grandissimo grazie va a tutte le persone che hanno raccontato
le loro storie.
Grazie quindi a:
Maria C., Luciano S., Davide e Patrizia C., Claudia L., Nadia M., Giorgio C., Marco e Elena R., Roberto C., Giuseppe L., Maria D., Davide G.,
Gianni D., Alfredo M., Severino F., Mauro B., Eraldo B., Patrizia R., Aldo
B.
Il secondo grandissimo grazie va a tutti coloro che ci hanno aiutato in
vario modo in questo lavoro e, soprattutto, che hanno creduto in quello
che stavamo facendo:
al professor Segoloni che si è lasciato lui stesso intervistare;
alla dottoressa Giraudo, che non ha voluto raccontare la sua storia, ma ci
ha aiutato ad impaginare e correggere il libro;
a Maria Teresa Paltro, la caposala della nostra sala dialisi, punto di
riferimento per tutti i nostri pazienti che vogliono conoscere qualcosa
della dialisi, che ci ha costruttivamente aiutato a diffondere i programmi, a raccogliere le critiche, a fare nuovi progetti;
ai colleghi del Centro Trapianti e, in particolare, alla dottoressa Messina
e al dottor Malfi, che ci hanno aiutato ad identificare ed a prendere
contatto con alcuni pazienti;
ai colleghi dell’ospedale Valletta, dottor Triolo, dottor Salomone e dottoressa Torazza, che ci hanno aiutato, criticato e sopportato in varie fasi
di questa faticosa elaborazione;
a Saverio Colella, fotografo, che si è impegnato con noi nell’avventura di
illustrare anche con delle immagini le “Storie”;
a Elena Brach del Prever, che ci ha trasmesso il suo entusiasmo contagioso in un momento di dubbio e che ci ha presentato;
a Ugo Rosenberg, che ha passato un pomeriggio a spiegarci che cos’è un
libro;
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a Carlo Nebbia, tipografo, che non solo ha sopportato i nostri ritardi e
ripensamenti, ma ci ha anche elargito molti preziosi consigli;
a Stefano Bombara, grafico, che ha letto, ordinato, impaginato i testi con
certosina pazienza, per trasformare queste “Storie” in un vero libro;
a tutti coloro che ci aiuteranno ancora, e, soprattutto
a tutti coloro che, leggendo queste storie, ne coglieranno la ricchezza
umana e ne apprezzeranno il grande amore per la vita.
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Indice
259
260
Introduzione
Prologo:
Giuseppe Segoloni
Storie:
Maria C.
Luciano S.
Davide e Patrizia C.
Claudia L.
Nadia M.
Giorgio C.
Marco e Elena R.
Roberto C.
Giuseppe L.
Maria D.
Davide G.
Gianni D.
Alfredo M.
Severino F.
Mauro B.
Eraldo B.
Patrizia R.
Aldo B.
Intervista ai curatori
Appendice - Glossario
Provini
Ringraziamenti
Indice
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36
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80
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Materiale didattico fuori commercio,
progettato e realizzato a cura dell’Associazione Culturale Graphos,
con la collaborazione del Centro Trapianti Renali
dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista di Torino
e della Cattedra di Nefrologia dell’Università di Torino.
Di comune accordo con gli intervistati, eventuali proventi ricavati
da questo libro saranno impiegati per sviluppare
ulteriore materiale didattico
per i pazienti uremici e per i loro familiari.
Realizzazione a cura dell’Associazione Culturale Graphos
Piazza Conte Rosso 3, Avigliana (To)
Progettazione grafica a cura di IPSA s.r.l.
Via San Marco 9, Chivasso (To)
Stampa a cura della Tipografia TECA S.r.l.
Via Spotorno 29, Torino
nel mese di settembre 1998
in 2.000 copie
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Storie Giorgina B. Piccoli