RELAZIONE SULLE DISTANZE TRA COSTRUZIONI
Ringrazio il Consiglio dell’Ordine degli ingeneri di Roma ed il suo Presidente per
l’invito che mi è stato rivolto, che mi dà l’occasione di essere con voi ingegneri (con
alcuni dei quali ho avuto già avuto modo di lavorare, avendomi aiutato quali
consulenti tecnici di ufficio a risolvere controversie pendenti dinanzi al tribunale di
Roma, necessitanti di ausilio tecnico) e di affrontare il tema delle distanze tra
costruzioni, che è di notevole interesse perché si impone spesso all’attenzione
nell’ambito dei rapporti di vicinato nonché delle relazioni tra il privato e la Pubblica
Amministrazione.
Esaminerò il tema dal punto di vista civilistico, cercando di offrire una panoramica
generale, senza ovviamente avere la pretesa di esaurire l’argomento, che è davvero
ampio.
Le norme cardini da cui occorre partire sono quelle dettate dal codice civile, tese a
regolamentare i rapporti di vicinato, sottoponendo il diritto di proprietà a dei limiti,
in linea con l’idea della proprietà come diritto costituzionalmente “regolato”, che
può essere assoggettato a limiti, vuoi di natura privatistica, vuoi di natura pubblica
(ad es. nell’interesse pubblico può essere disposta l’espropriazione del terreno).
Le norme fondamentali sono dunque gli artt. 873, 874, 875 e 877 del codice civile.
L’art. 873 c.c. stabilisce che “le costruzioni, se non costruite in aderenza o in
appoggio, devono avere una distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali
può essere stabilita una distanza maggiore”.
Tale articolo stabilisce dunque una distanza minima tra costruzioni e dispone che
detta distanza può essere derogata solo in peius dai regolamenti locali, ossia dai piani
regolatori generali e dai regolamenti edilizi comunali. Al fine della deroga in
questione occorre che i regolamenti locali siano stati approvati ed anche portati a
1
conoscenza dei destinatari nei modi di legge, ossia mediante pubblicazione da
eseguirsi con affissione all’albo pretorio 1.
La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la ratio dell’art. 873 c.c. è quella di
impedire che tra costruzioni vicine si creino intercapedini che, per la loro esiguità,
risultino pericolose sotto il profilo della salubrità nonché dell’ordine pubblico.
Pertanto, stante la finalità di perseguire un interesse pubblico, accertata
l’inosservanza delle distanze legali, è irrilevante qualsiasi ulteriore accertamento
sull’edificabilità o meno del fondo o sulla concreta pericolosità o dannosità delle
intercapedini, essendo tale situazione presupposta dalla norma.
Conformemente alla sua ratio, l’art. 873 c.c. trova applicazione solo nel caso in cui
due fabbricati si fronteggino, anche se in minima parte, nel senso che, supponendo di
farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un segmento. La
distanza di cui all’articolo in esame non è applicabile ove i fabbricati sono disposti
ad angolo senza avere pareti contrapposte 2 e ove abbiano in comune solo uno spigolo
o i cui spigoli si fronteggino, pur rimanendo distanti.
Tale principio trova una deroga nel caso di normativa antisismica. Nel caso di
costruzioni in località sismica, infatti, l’art. 6 n. 4 della legge 25 novembre 1962, n.
1684 (secondo cui la larghezza degli intervalli di isolamento fra due edifici, misurata
tra i muri frontali, non deve essere inferiore a sei metri, ove l’area frapposta sia
sottratta al pubblico transito mediante chiusura) comprende tutte le ipotesi in cui i
muri di costruzioni finitime si trovino in posizioni antagonistica, idonea cioè a
provocare, in caso di crollo di uno degli edifici, danni a quello confinante. Pertanto,
la presenza nei detti muri perimetrali di spigoli e angoli non esclude l’applicazione
della norma citata, in quanto ogni angolo o spigolo è formato da due linee che, sul
piano costruttivo, costituiscono vere e proprie “fronti”, le quali realizzano, rispetto
1
2
Così Cass., sent. n. 17692 del 2009.
V. Cass., sent. 26 giugno 1995, n. 5892; Cass., sent. 12 dicembre 1986, n. 7384
2
all’opposta costruzione, quella posizione antagonistica la cui potenziale pericolosità
viene eliminata o attenuata dalla distanza minima.
I fondi devono essere finitimi. Di conseguenza, se i due fondi sono separati da una
strada pubblica l’art. 873 c.c. non si applica.
La distanza deve sussistere da ogni punto della costruzione e deve essere computata
dai punti di massima sporgenza3.
NOZIONE DI COSTRUZIONE
Nell’art. 873 c.c. si parla di costruzione. Occorre chiarire, però, cosa si intende per
costruzione e tale chiarimento vale di norma in tutti i casi in cui il termine è
adoperato, ossia anche laddove sono gli strumenti urbanistici o altre norme del
codice civile o di altre leggi a menzionarlo.
La giurisprudenza sia civile che amministrativa è concorde nel ritenere che la
nozione di costruzione non si esaurisce in quella di “edificio” ma comprende
qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed
immobilizzazione rispetto al suolo. E’ anche qualificabile come costruzione qualsiasi
manufatto, non completamente interrato, che abbia i caratteri della solidità, stabilità,
ed immobilizzazione al suolo anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell’opera, dai caratteri del suo
sviluppo volumetrico esterno, dall’uniformità e continuità della massa, dal materiale
impiegato per la sua realizzazione, purché determini un mutamento del volume, della
superficie e della funzionalità dell’immobile e non abbia una funzione meramente
decorativa4.
3
V. Cass., sent. 16 novembre 1996, n. 10064. Cfr. altresì Cass. , sent. 20 febbraio 2003 n. 2570 , secondo cui la scelta
del preveniente in ordine alla distanza della sua costruzione rispetto al confine, che condiziona il prevenuto, va
individuata con riferimento alla base dell’edificio realizzato, essendo irrilevanti eventuali arretramenti dei piani
superiori. Pertanto, rispettata alla base la distanza legale dall’edificio del preveniente, il prevenuto non può avanzare i
piani superiori a distanza inferiore solo perché per essi viene rispettata la distanza medesima dalla corrispondente
porzione dell’edificio costruito in precedenza.
4
V. Cass., sent. 5 gennaio 2000, n. 45
3
A tal riguardo è interessante ricordare che la Suprema Corte 5 ha ritenuto
“costruzione” un corpo avanzato, privo di aperture, incorporato in uno degli edifici
antistanti.
Inoltre, sono da qualificare costruzione (e vanno dunque considerate nel calcolo
della distanza minima fra costruzioni posta dall’art. 873 c.c. o da norme
regolamentari integrative) anche le strutture accessorie di un fabbricato (ad es. una
scala esterna in muratura, anche se non è un volume abitativo coperto), qualora
queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera
edilizia. Sono invece sottratti al calcolo gli elementi che hanno una funzione
puramente ornamentale.
Quando si realizzi un edificio dotato di sporti od aggetti, occorre distinguere a
seconda che presentino una funzione meramente decorativa o se, invece, abbiano
dimensioni consistenti tali da ampliare la superficie o la funzionalità del fabbricato.
Solo in quest’ultimo caso, gli sporti assumono il carattere di costruzione, mentre
quelli di limitata consistenza non devono essere inclusi nel computo delle distanze in
quanto configurano entità trascurabili rispetto all’interesse tutelato dalla norma nel
suo triplice aspetto della tutela della sicurezza, della salubrità e dell’igiene 6.
Ciò è stato costantemente sottolineato dalla Corte di cassazione e di recente anche
nella sent. n. 72 del 3 gennaio 2013, i giudici supremi, chiamati a risolvere il
problema del se un vano pertinenziale potesse rientrare nella definizione di
costruzione e quindi fosse sottoposto ai limiti di distanza previsti dal regolamento
comunale, hanno richiamato una giurisprudenza granitica sul punto, secondo la quale
bisogna guardare ai caratteri di solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al
suolo, indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa, dai suoi
caratteri e dalla sua destinazione; conseguentemente gli accessori e le pertinenze che
5
V. Cass., sent. 28 settembre 2007, n. 20574
Cass., sent. 5 novembre 1990, n. 10615. Rientrano nella categoria degli sporti le mensole, le lesene, i risalti verticali
delle pareti con funzione decorativa, gli elementi in aggetto di ridotte dimensioni con funzioni di sostegno, le
canalizzazioni di gronda ed i loro sostegni e simili (Consiglio di Stato, sent. 19 marzo 1996 n. 268). Costituisce
costruzione la soletta del balcone in cemento armato: Cass., sent. 22 dicembre 1986, n. 7844 .
6
4
abbiano
dimensioni
consistenti
e
siano
stabilmente
incorporati
al
resto
dell’immobile, così da ampliarne la superficie o la funzionalità economica sono
soggette al rispetto della normativa sulle distanze7.
Volendo fare alcuni esempi va ricordato che la Cassazione ha qualificato
costruzione: la tettoia che avanzi rispetto all’edificio già esistente 8, i balconi9, una
pensilina costruita su un terrazzo con materiali metallici 10; una scala esterna in
muratura11; un chiosco annesso all’impianto di distribuzione di carburante 12; un
manufatto con finestra, coperto da tettoia formata da travi con sovrastante lamiere,
destinata a fienile e pollaio13; un barbacane quale elemento costruttivo di
completamento dell’edificio14.
Non sono stati invece qualificati costruzione: le condutture elettriche e i pali che le
sostengono15, un campo da tennis ad uso privato, dato che la rete metallica che di
solito circonda simili campi non può formare un’intercapedine 16; i manufatti interrati,
i muri di contenimento di una scarpata o di un terrapieno 17; il muro di cinta con
altezza non superiore a tre metri.
IL CRITERIO DELLA PREVENZIONE
In materia di distanza tra costruzioni, il codice civile si ispira al principio della
prevenzione temporale, desumibile dal combinato disposto degli artt. 873, 874, 875 e
7
Così anche tra le altre Cass. , sent. 15 febbraio 2001, n. 2228.
Cass., sent. 30 ottobre 2003 n. 16358
9
Cass., 25 marzo 2004, n. 5963; Cass., sent. 29 marzo 1999, n. 2986; Cass., sent. 10 giugno 1998, n. 5719
10
Cass., sent. 21 giugno 1985, n. 3727
11
Cass., sent. 30 agosto 2004, n. 17390; Cass., sent. 26 maggio 1998, n. 5222
12
Cass., sent. 9 giugno 1992, n. 7069
13
Cass., sent. 24 maggio 1997, n. 4639
14
Cass., sent. 29 agosto 1997, n. 8240
15
Cass., sent. 21 settembre 1970, n. 1647
16
Cass., sent. 1° luglio 1996, n. 5956
17
Cass., sent. 19 agosto 2002, n. 12239; Cass., sent. 15 giugno 2001, n. 8144. Nel caso di dislivelli di origine artificiale,
è stata considerata una costruzione in senso tecnico giuridico il muro che assolve in modo permanente e definitivo alla
funzione di contenimento di un terrapieno creato dall’opera dell’uomo: così Cass., sent. 15 giugno 2001, n. 8144. Anche
il Consiglio di Stato ha ritenuto che, ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno ed il
muro di contenimento, che producono un dislivello o aumentano quello già esistente per la natura dei luoghi,
costituiscono nuove costruzioni idonee a incidere sull’osservanza delle norme in tema di distanze dal confine. V.
Consiglio Stato 24 aprile 2009, n. 2579; Consiglio Stato, 28 giugno 2000, n. 3637; Consiglio Stato 2 novembre 2010, n.
7731.
8
5
877 c.c., secondo il quale il proprietario, che costruisce per primo, determina in
concreto la distanza da osservare per le altre costruzioni da erigersi sui fondi vicini.
Chi edifica per primo su di un fondo contiguo ad un altro ha una triplice facoltà
alternativa:
1) costruire sul confine: di conseguenza il vicino potrà costruire in aderenza o in
appoggio (pagando in tale ultima ipotesi, ai sensi dell’art. 874 c.c., la metà del valore
del muro);
2) costruire con distacco dal confine, ossia alla distanza di un metro e mezzo dallo
stesso o a quella maggiore stabilita dai regolamenti locali; in tal caso il vicino sarà
costretto a costruire alla distanza stabilita dal codice civile o dagli strumenti
urbanistici locali;
3) costruire con distacco dal confine ad una distanza inferiore alla metà di quella
totale prescritta per le costruzioni su fondi finitimi. Il vicino, che costruisca
successivamente, potrà avanzare la propria fabbrica fino a quella preesistente,
pagando il valore del suolo e costruire in aderenza. Può inoltre avanzare la propria
fabbrica e costruire in appoggio pagando la metà del valore del muro, oltre che il
valore del suolo. Ciò salvo che il proprietario preferisca estendere il suo muro sino al
confine. Il secondo comma dell’art. 875 c.c. stabilisce, infatti, che “il vicino che
intende domandare la comunione del muro deve interpellare preventivamente il
proprietario se preferisca estendere il muro al confine o procedere alla sua
demolizione. Questi deve manifestare la propria volontà entro il termine di quindici
giorni e deve procedere alla costruzione o alla demolizione entro sei mesi dal giorno
in cui ha comunicato la risposta”. L’art. 875 c.c. subordina, dunque, l’acquisto della
comunione al mancato esercizio da parte del proprietario del diritto di estendere il
muro sino al confine. A tal fine, il proprietario del fondo contiguo dovrà
preventivamente interpellare il proprietario del muro per sapere se intende estendere
il muro al confine, procedere alla sua demolizione o arretrarlo alla distanza legale. La
mancata risposta dell’interpellato e, quindi, il suo silenzio equivarrà al mancato
6
esercizio del potere di impedire la comunione forzosa e se, trascorso il termine, il
proprietario iniziasse a demolire il muro, tale attività sarebbe illegittima e comunque
inidonea ad impedire l’acquisto della comunione.
Va ricordato che, nel caso di costruzioni sottoposte alla normativa antisismica, il
prevenuto non può costruire in appoggio perché è necessario che ogni costruzione
costituisca un organismo a sé stante.
Va altresì precisato che, laddove sulla parete che si vuole rendere comune o in
aderenza alla quale si vuole costruire c’è una luce, non sorge problema. La luce può
essere chiusa, costruendo in aderenza o in appoggio.
Se c’è una veduta ma il proprietario della costruzione non ha il diritto di mantenerla
(diritto che si ha se lo si è acquistato per usucapione o in base a convenzione con il
vicino), detta veduta può essere chiusa.
Se vi è il diritto di mantenere la veduta, non può costruirsi in appoggio o in aderenza
ma deve rispettarsi la distanza di cui all’art. 907 c.c. (tre metri).
Il diritto di prevenzione si esaurisce con il completamento, dal punto di vista
strutturale e funzionale, della costruzione. Esso, pertanto, non può giovare
automaticamente per un successivo manufatto, ancorché accessorio ad una
preesistente costruzione18.
Nel caso della sopraelevazione – che secondo la pacifica giurisprudenza costituisce
una nuova costruzione – il criterio della prevenzione non esclude che il preveniente
sia tenuto al rispetto della sopravvenuta disciplina regolamentare integrativa di
quella dettata dal codice civile e debba, pertanto, effettuare la sopraelevazione del
proprio fabbricato rispettando la distanza legale stabilita da tale disciplina, con la
conseguenza che, ove lo strumento urbanistico locale, successivamente intervenuto,
abbia sancito l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal
18
Cass., sent. 21 maggio 2001, n. 6926
7
confine, è da escludere il diritto a sopraelevare in allineamento con l’originaria
costruzione.
Il principio della prevenzione opera anche nel caso in cui la prima costruzione sia
stata realizzata senza la prescritta concessione e, quindi, sia illegittima dal punto di
vista urbanistico. La concessione, infatti, attiene solo alla regolamentazione dei
rapporti tra i privati e la P.A. e non riguarda i rapporti tra i privati stessi in ordine alle
distanze, che restano regolati esclusivamente dal c.c. e dagli strumenti urbanistici
locali19.
L’onere della prova di aver eseguito per primo grava su colui che chiede
l’arretramento del fabbricato altrui, sul presupposto della preesistenza della propria
costruzione20.
La prevenzione non opera quando gli strumenti urbanistici locali prevedono una
distanza minima dal confine21.
La giurisprudenza ha chiarito che, solo se i regolamenti edilizi stabiliscono
espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine, vietando la
costruzione sullo stesso, non può trovare applicazione il principio della prevenzione;
di contro, quando tali regolamenti consentano la predetta facoltà di costruire sul
confine, come alternativa all’obbligo di rispettare una determinata distanza da esso,
si versa in ipotesi del tutto analoga sul piano normativo a quella prevista e
disciplinata dagli artt. 873 e ss. c.c., con la conseguente operatività del principio di
prevenzione.
19
In particolare, la Suprema Corte di cassazione ha chiarito che “in tema di distanze legali, il principio della
prevenzione opera nei rapporti tra i privati anche nel caso in cui la prima costruzione sia stata realizzata senza la
prescritta concessione o licenza edilizia e sia, quindi, illegittima sotto il profilo urbanistico, giacché non è ipotizzabile
alcuna lesione soggettiva del proprietario prevenuto, il quale non ha alcun diritto all’osservanza da parte del preveniente
delle norme edilizie non integrative del codice civile in materia di distanze, come quelle delle leggi urbanistiche
concernenti l’obbligo della licenza o della concessione, che attengono esclusivamente all’aspetto formale dell’attività
costruttiva”. In tal senso cfr. Cass., sent. 24 maggio 2004, n. 991
20
Cass., sent. 7 agosto 2002, n. 11899; Cass., sent. 25 giugno 2001, n. 8661; Cass., sent. 16 maggio 1991, n. 5472.
8
Quando le norme mirano non solo a regolare i rapporti di vicinato, evitando
intercapedini, ma sono anche dirette a soddisfare esigenze più generali, quali, ad es,.
l’assetto urbanistico di una certa zona, assicurando comunque uno spazio libero tra
costruzioni, in considerazione delle finalità pubbliche perseguite dalle anzidette
norme regolamentari, la distanza dal confine è assoluta e va osservata in ogni caso,
con esclusione della prevenzione22.
Si ritiene, invece, che il criterio della prevenzione non è incompatibile con la legge
c.d. Ponte, ossia con la legge n. 765 del 1967. In tal senso è l’orientamento ultimo
della Corte di cassazione, che ha anche chiarito che tale legge (che all’art. 17, lettera
c, stabilisce che la distanza tra gli edifici vicini non può essere inferiore all’altezza di
ciascun fronte dell’edificio da costruire), si applica laddove non vi siano strumenti
urbanistici locali o detti strumenti non prevedano limiti di distanza e si verta in
ipotesi di edilizia residenziale23.
CENNI AL D.M. 2 APRILE 1968 n. 1444
Il D.M. n. 1444 del 1968 è norma non di diretta applicazione ma ha efficacia di legge
dello Stato, essendo stato emanato su delega dell’art. 41 quinquies della legge c.d.
urbanistica, ossia la L. n. 1150 del 1967, aggiunto dall’art. 17 della legge Ponte.
Tale decreto, tuttora vigente in forza dell’art. 136 del testo unico dell’edilizia (che ha
fatto salvi i commi 6, 8 e 9 dell’art. 41 quinquies della l. 17 agosto 1942, n. 1150)
stabilisce le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee.
Per i nuovi edifici è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di 10 metri
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. Nelle zone C (parti del territorio
21
Cass., sent. 5 aprile 2002, n. 4895; Cass., sent. 5 ottobre 2001, n. 1229; Cass., sent. 13 dicembre 1999, n. 13963.
Cass., sent. 26 marzo 2001, n. 4366; Cass., sent. 12 settembre 2000, n. 12045
23
Le sezioni unite della Corte di Cass.- con la sent. n. 11489 del 2002 – risolvendo un contrasto insorto, hanno ritenuto
che il criterio della prevenzione non è incompatibile con l’applicazione della legge Ponte. Di recente nello stesso senso
Cass., sent. n. 27522 del 2011
22
9
destinate a nuovi complessi insediativi) è prescritta tra pareti finestrate di edifici
antistanti la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto.
Le distanze minime tra fabbricati tra i quali siano inserite strade destinate al traffico
dei veicoli devono essere pari all’altezza della strada aumentata per ciascun lato di: 5.00 m per strade di larghezza inferiore a 7 metri; 7.50 m per lato, per strade di
larghezza compresa tra i 7 e 15 metri; 10,00 per lato, per strade di larghezza
superiore a 15 metri.
Sono ammesse distanze inferiori: 1) in zona A (centri storici) per le operazioni di
risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni; 2) nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate
con previsioni planovolumetriche.
L’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 è norma primaria imperativa, con la
conseguenza che eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di
attuazione
vengono
caducate
e
automaticamente
sostituite
dall’anzidetta
disposizione. Il Consiglio di Stato24 ha osservato che la norma è volta ad impedire la
formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico sanitario ed è pertanto
non eludibile. Testualmente ha affermato che “Le distanze tra le costruzioni sono
predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione
delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al
giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della
disciplina in materia di equo contemperamento degli opposti interessi”. Ne deriva
che il giudice è tenuto ad applicare le disposizioni concernenti la distanza minima tra
gli edifici “anche in presenza di norme contrastanti incluse negli strumenti
urbanistici locali”, dovendosi le prime ritenere automaticamente inserite nel p.r.g. al
posto della norma illegittima. In tal senso anche la giurisprudenza della Corte di
cassazione25.
24
25
CdS. 2.11.2010, n. 7731; 5 dicembre 2005, n. 6909
Cass., sent. 29 maggio 2006, n. 12741
10
La misura minima della distanza è derogabile in due ipotesi tassative, contemplate
dal comma 2 dell’art. 9. E’ consentito edificare a distanze inferiori a quelle previste
dal comma 1 soltanto per i piani particolareggiati e per le lottizzazioni convenzionate
e non anche per gli interventi edilizi diretti, consentiti dallo strumento urbanistico,
interventi tra i quali ricomprendere il permesso di costruire.
La distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall’art. 9
del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 “va calcolata con riferimento ad ogni punto del
fabbricato e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e
non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano in
posizione parallela”26.
Secondo Cass. 7 marzo 2002 n. 3340, in caso di realizzazione di pareti finestrate “la
disciplina in tema di distanze va trovata integrando le previsioni di cui all’art. 9 D.M.
2 aprile 1968 con il principio della prevenzione, nei limiti in cui lo stesso può trovare
applicazione. Se il preveniente costruisce una parete finestrata ad una distanza pari o
superiore a 5 metri dal confine, non vi sono problemi. Il prevenuto potrà a sua volta
realizzare un edificio con una parete, finestrata o non, ad una distanza pari ad almeno
mt 10, anche se inferiore a mt 5 dal confine. Ove il preveniente dovesse invece
realizzare una parte finestrata ad una distanza dal confine inferiore a mt 5, il vicino
non sarà tenuto ad arretrare la propria costruzione fino a rispettare la distanza di mt.
10 da tale parete, ma potrà imporre al preveniente di chiudere le aperture e costruire
(evidentemente con parete non finestrata).
LUCI E VEDUTE
E’ nota la differenza tra le luci e le vedute. Le prime servono solo a dare aria e luce;
le seconde consentono l’affaccio e la veduta. Con altri termini, più aulici, si è soliti
26
Consiglio Stato, 2 novembre 2010, n. 7731.
11
affermare che sono vedute le aperture che consentono l’inspectio (ossia di guardare)
e la prospectio (ossia di affacciarsi) sul fondo del vicino.
Laddove sia preclusa una delle due possibilità, non si è di fronte ad una veduta ma ad
una luce irregolare, che è pur sempre una luce e non una veduta. La Cassazione
afferma che non esiste un terzo genere. Tutto ciò che non è veduta è luce.
Anche in caso di balconi, lastrici, ecc.occorre porsi il problema del se è consentito
l’affaccio e, in caso di risposta negativa, si è di fronte ad una luce irregolare.
Normalmente la porta di accesso è una luce e non una veduta: la funzione normale è
quella di consentire l’accesso o l’uscita, non rilevando la circostanza che quando si
apre la porta, per consentire l’accesso o l’uscita, è possibile guardare sul fondo del
vicino.
Anche la scala normalmente è una luce ma va valutato caso per caso.
LUCI
La luce, che serve al passaggio di luce ed aria, deve osservare le prescrizioni dell’art.
901 c.c., ossia deve:
1) essere munita di un’inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino e di una
grata fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori di tre centimetri quadrati;
2) avere il lato inferiore a un’altezza non minore di due metri e mezzo dal pavimento
o dal suolo del luogo al quale si vuole dare aria e luce, se esse sono al piano terreno,
e non minore di due metri, se sono ai piani superiori;
3) avere il lato inferiore a un’altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del
fondo vicino, a meno che si tratti di un locale che sia in tutto o in parte a livello
inferiore al suolo del vicino e la condizione dei luoghi non consenta di osservare
l’altezza stessa.
A tal proposito è importante sottolineare che, laddove l’art. 901 c.c. prescrive la
distanza della luce di due metri e mezzo se la luce è al piano terreno e di due metri se
la luce è al piano superiore, fa riferimento al piano terreno e al piano superiore del
12
fondo del vicino e non dell’edificio ove è stata aperta la luce 27. Ciò si comprende se
si pensa alla ratio della norma che è quella di garantire la riservatezza del fondo del
vicino e se si pensa che l’inspectio è più agevole se i fondi sono allo stesso livello.
Immaginate allora che l’edificio ove è la luce sia ad un livello inferiore rispetto al
fondo del vicino. La luce rispetto all’edificio in cui è stata aperta potrebbe essere al
piano superiore ma rispetto al fondo vicino è al piano terreno. In tal caso è evidente
che occorre garantire la distanza di due metri e mezzo, al pari delle luci di due edifici
posti allo stesso livello. In caso diverso si creerebbe anche diversità di trattamento
non giustificata.
Il vicino ha però sempre la facoltà di chiedere la regolarizzazione delle luci irregolari
e solo laddove non sia possibile detta regolarizzazione può ottenerne la chiusura. Si
afferma che l’ordine del giudice può essere alternativo, lasciando al proprietario la
scelta tra regolarizzare la luce o chiuderla.
La regolarizzazione può essere chiesta non solo dal proprietario del fondo su cui si
apre la luce ma anche da quello contiguo, posto ossia a fianco.
Nel caso di luci non si pone un problema di rispetto di distanze. La chiusura è
consentita quando il vicino costruisca in appoggio o in aderenza sul suo fondo. Non
può ossia ad es. chiudersi la
luce con delle tavole ma deve trattarsi di una
costruzione, ovviamente non effettuata al solo scopo di chiudere la luce, altrimenti si
verterebbe in ipotesi di atto emulativo, vietata dall’art. 833 c.c.
VEDUTE
Occorre precisare che le vedute possono essere dirette, oblique o laterali e in
appiombo.
Costituisce veduta diretta quella che si esercita guardando di fronte a se stesso e cioè
in direzione perpendicolare rispetto al piano del muro in cui si apre la finestra da cui
si guarda.
27
V. Cass., sent. n. 2127 del 1997
13
Sono vedute oblique quelle che consentono di vedere, senza sporgersi dall’apertura,
un fondo che si trova alla sinistra o alla destra rispetto al fondo visibile con veduta
diretta; la veduta è laterale se per vedere l’altro fondo occorre sporgersi dall’apertura
e guardare lateralmente.
Se il piano del muro in cui si apre la finestra è perpendicolare alla linea di confine
ovvero forma con essa un angolo ottuso, non può aversi veduta diretta sul fondo al di
là del confine, bensì solo vedute oblique o laterali. Quando il muro nel quale
vengono aperte le vedute forma un angolo acuto con la linea di confine o con il muro
dell’edificio esistente sul suolo contiguo, possono esercitarsi sia la veduta diretta che
quella obliqua.
La veduta laterale può essere esercitata, oltre che di lato, anche in basso,
verticalmente, assumendo così le caratteristiche della veduta in appiombo.
Mentre per le luci non si pone il problema delle distanze, diverso discorso è da farsi
per le vedute, in relazione alle quali occorre fare riferimento agli artt. 905, 906 e 907
c.c. : i primi due articoli tutelano il diritto del vicino a non essere visto, l’art. 907 c.c.
garantisce il diritto di ricevere aria e luce e di vedere.
Art. 905 c.c.
L’art. 905 c.c. dispone che non si possono aprire vedute dirette sul fondo del vicino a
distanza inferiore a un metro e mezzo, calcolata dalla faccia esteriore del muro dove
si aprono le vedute.
Non si possono parimenti costruire balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e
simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi sul fondo del vicino, se non vi
è la distanza di un metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di dette opere.
Va chiarito che, in tanto può configurarsi una veduta ai sensi dell’art. 905 c.c., in
quanto il terrazzo, l’apertura, ecc. risultino atti a consentire di guardare e mostrarsi
senza esporsi al pericolo di caduta. Ne consegue che non si applica l’art. 905 c.c.
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laddove il parapetto di un terrazzo non consente in concreto neanche una inspectio
comoda e non pericolosa e ha solo la funzione di delimitazione della platea 28.
La destinazione all’affaccio può anche non essere esclusiva o prevalente.
La distanza si calcola dalla linea esterna del muro ove è aperta la veduta. Nel caso di
balconi, lastrici, ecc si calcola dalla ringhiera, dal parapetto e simili da cui è
effettivamente possibile esercitare la veduta e non già dalla linea di massima
sporgenza. La misurazione non tiene conto di fregi, cornicioni, ecc., che, per non
essere desinati all’esercizio della veduta, hanno funzione meramente ornamentale ed
accessoria.
Nel caso in cui il confine sia rappresentato da un muro comune, la distanza si calcola
rispetto al lato del muro che è nel fondo di colui che apre la veduta perché la
comproprietà del muro in favore del vicino si estende in ogni parte del muro stesso.
Nell’ipotesi in cui il fondo su cui insiste il fabbricato sul quale si vuole aprire una
veduta e quello confinante, edificato o non, sul quale la stessa è destinata ad essere
esercitata, siano su livelli o piani diversi, la distanza di 1,5 metri va misurata tra la
soglia della finestra e il piano ideale elevato perpendicolarmente sulla linea di
confine tra i due fondi29.
L’obbligo di rispettare la distanza di cui all’art. 905 c.c. non si pone laddove vi sia
una strada pubblica destinata al pubblico transito o dove vi è una strada privata
destinata comunque al pubblico uso. La mera previsione nel piano regolatore di una
strada pubblica non basta per escludere il rispetto dell’art. 905 c.c. Laddove infatti
tra i due fondi vi è un fondo soggetto a pubblico uso non vi è più ragione di applicare
la norma di cui all’art. 905 c.c., che tutela esigenze di riservatezza del vicino.
Art. 906 c.c.
L’art. 906 c.c. dispone che non si possono aprire vedute laterali od oblique sul fondo
del vicino se non si osserva la distanza di 75 cm., la quale deve misurarsi dal più
vicino lato della finestra o dal più vicino sporto.
28
29
V. Cass., sent. n. 9446 del 1994
v. Cass., sent. n. 5683 del 1988
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La distanza va dunque calcolata dal più vicino lato della finestra o dal più vicino
sporto, per tale intendendo non già qualunque parte dell’opera destinata a consentire
la veduta, anche se avente, per es., una semplice funzione decorativa o portante, ma a
quella da cui in concreto sia possibile esercitare la veduta. Si fa dunque riferimento
alla ringhiera, al parapetto.
Art. 907 c.c.
L’art. 907 c.c. dispone che, quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette sul
fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre
metri, misurata a norma dell’art. 905 c.c.. Se la veduta diretta forma anche veduta
obliqua, la distanza di tre metri deve pure osservarsi dai lati della finestra da cui la
veduta obliqua si esercita. Se si vuole appoggiare la costruzione al muro in cui sono
le dette vedute dirette od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri sotto la loro
soglia.
Va osservato che per costruzione si intende ogni opera stabile, a prescindere dalla
foggia e dal materiale, che ostacoli la veduta, e che per il calcolo della distanza l’art.
907 c.c. rinvia all’art. 905 c.c.
Anche l’art. 907 non si applica laddove vi è una strada pubblica.
ART. 907 C.C. E CONDOMINIO. CONTEMPERAMENTO DI INTERESSI.
E’ principio consolidato quello secondo cui, rispetto a singole unità immobiliari in
proprietà individuale nell’ambito di un unico edificio condominiale, le norme che
regolano i rapporti di vicinato trovano applicazione solo in quanto compatibili con la
struttura stessa dell’edificio comune e con lo stato dei luoghi. Qualora dette norme
vengano invocate in un giudizio tra condomini, occorre considerare che la
coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il
contemperamento dei vari interessi, al fine dell’ordinato svolgersi di quella
convivenza che è propria dei rapporti condominiali (cfr. ex multis Cass. civ., sez. II,
30.3.2000 n. 3891).
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Un’applicazione di detto principio si rinviene in un’ordinanza resa dal tribunale di
Roma in formazione collegiale.
Nel caso di specie, la reclamante aveva posto nel terrazzo del proprio appartamento
una tenda, appoggiata su pilastri, che, in caso di tenda spiegata, limitava la veduta in
appiombo esercitata dai reclamati dall’apertura del proprio sovrastante appartamento
ma non ledeva le altre vedute (diretta, obliqua e laterale) né arrecava altri pregiudizi
apprezzabili ai medesimi reclamati.
Si è osservato che, a fronte dell’interesse dei reclamati a non vedere diminuita la
possibilità di esercitare dalla propria apertura la veduta in appiombo, si poneva
l’interesse della reclamante a tutelare la propria riservatezza, proteggersi da agenti
atmosferici e, dunque, godere del proprio bene secondo le moderne concezioni
abitative. Si è giunti alla conclusione che, nel contemperamento di tali interessi,
andava data prevalenza a quello della reclamante, considerato che la veduta in
appiombo, limitata solo in caso di tenda aperta, appariva, secondo un principio di
cedevolezza tra contrapposte posizioni soggettive, di minor rilievo rispetto
all’interesse della reclamante di utilizzare il proprio appartamento in modo adeguato
all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo.
DEROGA PER BARRIERE ARCHITETTONICHE
In deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi possono
realizzarsi “le opere che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici
privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche”. Ciò ai sensi dell’art. 79 del
DPR n. 380/2001. Il secondo comma di detto DPR fa salvo l’obbligo del rispetto
delle distanze di cui agli art. 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le
opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area
di proprietà o di uso comune.
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Il TAR Abruzzo e il TAR Campania30 hanno precisato che le opere funzionali
all’eliminazione delle barriere architettoniche sono solo quelle tecnicamente
necessarie a garantire l’accessibilità, la visitabilità e l’adattabilità degli edifici privati
e non già le opere dirette alla migliore fruibilità .”Nel conflitto tra gli interessi dei
soggetti portatori di handicap e quelli dei soggetti terzi il legislatore ha ritenuto di
dare prevalenza al diritto di questi ultimi al rispetto delle distanze tra le costruzioni,
che quindi non può essere mai minore di tre metri in base alla previsione codicistica,
all’evidente fine di garantire la salubrità delle costruzioni”.
TUTELA
In tema di tutela, l’art. 872 comma 2 c.c. prevede che il mancato rispetto delle norme
del codice civile nella sez. VI del titolo II del libro III e delle norme regolamentari da
esse richiamate comportano come conseguenza la facoltà di chiedere la riduzione in
pristino mentre per le norme non richiamate è previsto solo il risarcimento del danno.
Occorre allora stabilire quali norme regolamentari possano dirsi richiamate dal
codice civile in mancanza di un’espressa previsione di legge.
La Corte di cassazione, intervenuta più volte sul punto 31, ha richiamato a tal fine la
ratio delle norme: se una norma è tesa a salvaguardare l’igiene e la salubrità
dell’ambiente nonché l’ordine pubblico, impedendo la creazione di intercapedini
dannose o pericolose, è preordinata alla tutela di un interesse generale, è una norma
integrativa del codice e la tutela prevista è la riduzione in pristino. Se una norma è
tesa a salvaguardare l’ornato e il decoro, non è integrativa ed è previsto solo il
risarcimento del danno.
La Cassazione ha specificato che sono norme integrative quelle che: regolano le
distanze tra fabbricati; regolano il distacco tra fabbricato e confine; regolano il
rapporto tra altezza e distanza dal fabbricato fronte stante.
30
TAR Abruzzo sent. n. 526/2011 e TAR Campania sent. n. 1536/2013
Cass., sent. 30 dicembre 1999, n. 14714 ; Cass., sent. 16 febbraio 1995, n.1673; Cass., sent. 15 dicembre 1994, n.
10775).
31
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Di particolare interesse una pronuncia della Cassazione 32 che si pone il problema di
stabilire quando una norma regolamentare in tema di altezza di edifici possa ritenersi
o meno integrativa. A tal proposito la Cassazione ha affermato che “sono norme
integrative del codice civile solo le disposizioni relative alla determinazione della
distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolano ..la misura dello spazio
che deve essere osservato tra le costruzioni; viceversa le norme che -.. disciplinano
solo l’altezza in sé degli edifici …tutelano, oltre che l’interesse pubblico di ordine
igienico ed estetico esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini, per
il che comportano in caso di loro violazione solo il risarcimento dei danni”. Quindi,
quando la questione verte sulla distanza tra fabbricati in relazione all’altezza, le
norme regolamentari integrano quelle del codice civile; quando il problema è relativo
all’altezza del fabbricato in se e per se considerato (senza che venga in gioco la
distanza tra edifici) potrebbe essere compromesso solo il valore economico della
proprietà privata e l’eventuale violazione comporterà solo il risarcimento del danno.
Va ricordato che la Cassazione ha affermato che anche in caso di ordine di ripristino
è possibile ottenere il risarcimento del danno. Ciò per il periodo in cui si è protratta
la violazione delle distanze. Discusso è se tale danno sia in re ipsa o meno: ossia se
va dimostrata la sussistenza di un danno o se detto danno deve ritenersi esistente a
prescindere da una prova sul punto. La Cassazione non è univoca (v. Cass. civ., sez.
II, sent. n. 2998 del 2001, ove si parla di danno in re ipsa, mentre Cass. civ., sez. II,
sent. n. 20608 del 2009 ha affermato che “la violazione delle norme codicistiche
sulle distanze legali (ovvero delle norme richiamate dal codice), mentre legittima
sempre la condanna alla riduzione in pristino, non costituisce di per sé fonte di danno
risarcibile, essendo al riguardo necessario che chi agisca per la sua liquidazione
deduca e dimostri l’esistenza e la misura del pregiudizio effettivamente
realizzatosi”).
32
Cass., sent. 16 gennaio 2009, n. 1073
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Personalmente ho aderito alla seconda impostazione e non ho accolto una domanda
in cui la parte attrice non aveva provato la sussistenza in concreto dei danni. Peraltro
neppure veniva specificato quale uso effettivo fosse fatto dei beni in questione,
costituiti da un lastrico solare e da una terrazza, e quale effettiva limitazione fosse
conseguita dall’illecito denunciato ad un tal uso.
In tema di tutela va poi ricordato che i regolamenti locali assumono il rango di norma
integrativa del codice, sicché il giudice deve di ufficio verificare se sussistono
regolamenti amministrativi integrativi del codice civile e deve trovare di ufficio i
predetti regolamenti. Trattandosi di provvedimenti amministrativi, può capitare che
detti atti siano impugnati dinanzi al giudice amministrativo e che su essi si abbatta la
scure della giustizia amministrativa. In questa ipotesi, se è intervenuta una sentenza
passata in giudicato che ha annullato i predetti atti, il giudice civile non solo non può
più tenerne conto del piano regolatore o del regolamento edilizio dichiarato
illegittimo, ma dovrà di ufficio trovare la sentenza che ha dichiarato illegittimo il
predetto provvedimento integrativo del codice civile 33.
Roma, 16 settembre 2013
Dott.ssa Giuseppina Anna Rosaria Pacilli
33
In questi termini Cass., sent. 14 dicembre 2012, n. 23018
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Atti del seminario - Ordine degli Ingegneri della provincia di Roma