Stabile organizzazione e credito per le imposte estere Relazione al Convegno “La stabile organizzazione”, Milano, 11 e 12 ottobre 2013 Prof. ANGELO CONTRINO Associato di diritto tributario nell’Università “L. Bocconi”, Milano 1. La stabile organizzazione nel contesto della disciplina sul credito per le imposte estere, come disegnata dal legislatore della riforma fiscale del 2003: osservazioni introduttive. – Il credito per le imposte estere – introdotto nel nostro sistema tributario con la riforma del 1973 in ragione del rivoluzionario passaggio dalla realità alla personalità dell’imposizione – è stato profondamente rivisitato dal legislatore della riforma fiscale del 2003, sia per eliminare le criticità e le problematiche, interpretative e applicative, rimaste nell’art. 15 del vecchio T.U., dopo i due interventi “manutentivi” effettuati dal momento dell’introduzione dello stesso nel nostro ordinamento1; sia per adeguare il credito per le imposte estere alle nuove esigenze poste dal sistema fiscale riformato, che ha visto l’introduzione di molteplici, nuovi istituti (consolidato nazionale, consolidato mondiale, trasparenza fiscale, ecc.)2. Fra le altre innovazioni introdotte con l’art. 165 del nuovo T.U. – che, come recita la sua rubrica, accoglie il “Credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero” e reca la disciplina generale dell’istituto3 – ve ne sono alcune che specificamente coinvolgono la stabile organizzazione. La prima è quella concernente la nozione di “reddito prodotto all’estero”, che è rilevante per il riconoscimento del diritto di detrazione dei tributi esteri pagati sui 1 Interventi modificativi riguardanti, per lo più, l’articolazione della condizione di reciprocità, introdotta, ab origine, in attuazione della Legge delega 9 ottobre 1971, n. 825. Per una compiuta ricostruzione dell’evoluzione dell’istituto e dei profili problematici che residuavano dopo i predetti interventi, v. M. INGROSSO, Il credito d’imposta, Milano, 1984, 232 ss. e A. MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, Milano, 1990, 108 ss., nonché, in modo specifico per quelli ancora esistenti dopo il secondo, attuato con il Testo Unico del 1986, fra gli altri, A. MANZITTI, Il foreign tax credit, in Operazioni internazionali e fiscalità, Milano, 1987, 19 ss.; C. GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, 443 ss.; B. GANGEMI, Credito d’imposta e redditi esteri, in Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi scritti (Studi in memoria di A.E. Granelli), Roma-Milano, 1990, 51 ss.; A. URICCHIO, Commento sub. Art. 15), in N. D’AMATI, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Torino, 1992, 122 ss. F. CROVATO, Il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero (art. 15 t.u.i.r.), in V. UCKMAR e F. TUNDO (a cura di), L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Vol. II, Milano, 2003, 83 ss., e, infine, R. LUPI, Rapporti internazionali e imposte sui redditi: regole interne e convenzionali sull’individuazione degli imponibili e sui criteri di tassazione, in L. CARPENTIERI, R. LUPI e D. STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 142 ss. 2 Come risulta, peraltro, dalla Relazione di accompagnamento al D. Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, che si può leggere in Riv. dir. fin., 2004, I, 584 ss. (spec. 625), che fa riferimento, oltre alle esigenze di adeguamento indicate nel testo e risultanti expressis verbis dall’art. 4, 1° co., lett. l) della Legge delega n. 80/2003, alla necessità di soddisfare “una più generale esigenza di aggiornamento” dell’istituto. Sulle problematiche di costituzionalità delle diverse innovazioni e, più in generale, per la disamina del nuovo credito per le imposte assolte all’estero, come delineato da quest’ultima riforma, sia consentito il rinvio ad A. CONTRINO, Contributo allo studio del credito per le imposte estere, Torino, 2012, 5 ss., ma si vedano, altresì, gli Autori citati alle pagg. 7-8, nota 11. 3 La disciplina generale è integrata da disposizioni particolari collocate all’interno di vari istituti, vecchi e nuovi, che richiamano espressamente l’art. 165 o ne contemplano comunque l’applicazione, come il consolidato mondiale (art. 136), la cd. “CFC rule” (art. 167) e – a seguito delle modifiche apportate dal d. lgs. 18 novembre 2005, n. 247, correttivo dell’Ires – il consolidato nazionale (art. 118). -1- redditi ivi prodotti e – innestandosi sulla struttura di base, rimasta intonsa, dell’istituto – anche per il calcolo del quantum di imposte estere accreditabili in dichiarazione. Il 2° co. dell’art. 165 eleva, infatti, a redditi esteri che legittimano l’accreditamento e che vanno conteggiati, in sede di determinazione delle imposte estere detraibili, i redditi localizzabili all’estero mediante l’utilizzo di “criteri reciproci” a quelli previsti dall’art. 23 del T.U. per la localizzazione in Italia dei redditi prodotti dai soggetti non residenti. Donde la rilevanza della stabile organizzazione all’estero, per i soggetti residenti, ai fini del riconoscimento e della determinazione del credito per le imposte assolte all’estero su: (i) redditi d’impresa derivanti da attività ivi esercitate da soggetti residenti [lettura simmetrica della lett. e) del 1° co.]; e (ii) redditi di capitale e altre fattispecie reddituali (pensioni, assegni, taluni redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, royalties, ecc.) corrisposti dalla stessa a soggetti residenti [lettura simmetrica delle lett. da a) a d) del 2° co.]. La seconda è l’innovazione riguardante il “momento” di accreditamento delle imposte assolte all’estero, che è stato individuato, come regola generale, nella dichiarazione relativa al periodo di imposta in cui il reddito di fonte estera concorre a formare l’imponibile italiano, purché la “definitività” sopraggiunga prima della data di presentazione della dichiarazione Il 5° co. dell’art. 165 prevede, tuttavia, che “per i redditi prodotti all’estero mediante stabile organizzazione” (oltre che dalle società estere in regime di consolidato mondiale) la detrazione possa essere effettuata nel periodo d’imposta di competenza, ossia quello di concorso del reddito estere alla formazione del reddito complessivo, “anche se il pagamento a titolo definitivo avviene entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al primo periodo di imposta successivo”. In altre parole, in caso di produzione del reddito d’impresa mediante una stabile organizzazione all’estero è consentito, ferma restando la rilevanza del periodo di competenza, l’allungamento di un anno del termine entro cui deve avverarsi la “definitività” del pagamento, che continua a essere, come in passato, condizione fondamentale e non obliterabile di accesso al credito per le imposte estere. In ragione delle due disposizioni sinteticamente illustrate – che sono le uniche a richiamare indirettamente, la prima, e direttamente, a seconda, la stabile organizzazione – è diffusa l’idea che nel contesto della disciplina di cui all’art. 165 del T.U. essa assuma rilevanza soltanto in funzione localizzatrice dei redditi di fonte estera, doppiando l’analoga funzione dell’art. 23 per i redditi di fonte italiana, e quale mezzo per l’accreditamento delle imposte assolte all’estero su taluni redditi ivi prodotti, in primis quelli d’impresa. Donde la susseguente idea di una rilevanza della stabile organizzazione, nel contesto della disciplina del credito per le imposte estere, nella declinazione della stabile organizzazione “estera” di soggetti residenti. Non è, infatti, infrequente imbattersi in affermazioni – corrette, ma, come vedremo, parziali – secondo cui la stabile organizzazione consente la concessione del credito d’imposta in Italia sul reddito estero derivante dalla sua autonoma gestione e la definizione del parametro del reddito tassabile all’estero cui commisurare il predetto credito d’imposta. Ma anche in affermazioni – errate, come vedremo, in tutto o in parte – secondo cui “qualora non sia ravvisabile una stabile organizzazione nel territorio del contraente estero, le imposte pagate dall’impresa italiana allo Stato estero non formano credito -2- d’imposta e va richiesto il rimborso allo stesso Stato estero”; o secondo cui l’art. 165 “riguarda le società residenti in Italia e le loro stabili organizzazioni all’estero relativamente ai redditi ivi prodotti”4. Limitare, all’interno dell’art. 165, la rilevanza della stabile organizzazione nella sola ipotesi “estera” è, invero, riduttivo. Ma è, addirittura, sbagliato escludere la stabile organizzazione nella declinazione “italiana” dalla sfera di applicazione del credito per le imposte estere. Ai fini della disciplina sul credito d’imposta la stabile organizzazione svolge, infatti, un ruolo che va ben oltre la mera localizzazione all’estero dei redditi d’impresa ivi tassati per i quali si chiede la detrazione: essa si configura, nella sua declinazione “italiana”, quale fattispecie che determina il sorgere, in capo al soggetto non residente cui appartiene, di quella particolare situazione giuridica soggettiva che è il diritto di detrarre in Italia i tributi assolti al fuori dal territorio italiano sui redditi che sono ivi prodotti, imputabili alla stabile organizzazione e tassati in Italia come reddito impresa. 2. La stabile organizzazione “italiana” quale fattispecie che fa sorgere, per il non residente, il diritto di detrarre i tributi assolti all’estero sui redditi ivi prodotti e in essa confluiti e tassati. – Può dirsi oramai pacifico, essendo rimasta isolata la tesi contraria5, che la stabile organizzazione non è dotata di soggettività passiva ai fini delle imposte sui redditi, non essendo “padrona di sé stessa”6 e, per l’effetto, risultando gli obblighi strumentali e/o sostanziali riferibili al soggetto residente o non residente cui essa appartiene, nelle ipotesi di stabile organizzazione, rispettivamente, “estera” ed “italiana”7. La stabile organizzazione definisce, in via generale, “una parte dell’attività d’impresa di un soggetto appartenente ad un’altra giurisdizione, priva di soggettività distinta ancorché dotata di autonomia gestionale e contabile e di forte e duraturo radicamento sul territorio”8. L’apporzionamento del reddito d’impresa tra le diverse giurisdizioni è accompagnato dall’allocazione territoriale dello stesso, che è funzionale, nell’ipotesi di stabile organizzazione “estera”, all’accesso al credito per le imposte pagate sul reddito d’impresa prodotto all’estero (art. 165, 2° co.) e, nell’ipotesi di stabile organizzazione “italiana”, a fissare il reddito d’impresa prodotto e tassabile in Italia quale indice di capacità contributiva individuato dal presupposto dell’imposta. 4 Le affermazioni sono, rispettivamente, di L. CACCIAPAGLIA, Art. 165 del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, in L. ABRITTA, L. CACCIAPAGLIA, V. CARBONE e M. R. GHEIDO, (a cura di), Codice TUIR. Commentato, Milano, 2011, 2298, e di A. DE LUCA e A. BAMPO, La stabile organizzazione in Italia, Milano, 2009, 220. 5 V. E. NUZZO, Questioni in tema di tassazione di enti non economici, , in Rass. trib., 1985, I, 129. 6 L’espressione è di G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, 375, e ivi nota 137. 7 Cfr., per tutti, nella manualistica, F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2012, 184; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 312; e, tra le opere e i saggi monografici, E. DELLA VALLE, Contributo allo studio della stabile organizzazione nel sistema di imposizione sul reddito (profili di diritto interno), Roma, 2004, 19 ss.; A. GIOVANNINI, Soggettività tributaria e fattispecie impositive, 1996, 201 ss. 8 Così, A. FANTOZZI, La stabile organizzazione, in Riv. dir. trib., 2013, I, 105. -3- Quest’ultima affermazione s’inquadra nell’ambito di quell’autorevole ricostruzione, ancora oggi valida, che vede nella stabile organizzazione un fenomeno di organizzazione nell’ambito dell’impresa che acquista rilievo come elemento del presupposto dell’imposizione9, senza comunque assurgere a centro “autonomo” di imputazione di situazioni giuridiche, le quali, seppur originate dalla fattispecie stabile organizzazione, fanno sempre capo – come detto – al soggetto non residente cui appartiene. Orbene, se è vero che la stabile organizzazione “italiana” non è centro “autonomo” di imputazione di situazioni giuridiche, essa è fattispecie che fa comunque sorgere situazioni giuridiche riferibili al soggetto non residente e, fra queste, vi è senz’altro il diritto di ottenere l’accreditamento dei tributi pagati in un Paese diverso dall’Italia (compreso, come vedremo, lo Stato estero di residenza del soggetto cui essa appartiene) per i redditi che sono stati ivi prodotti dalla stabile organizzazione “italiana” e che, in quanto a essa imputabili, concorrono alla formazione del reddito d’impresa tassabile in Italia. Questa soluzione discende direttamente dalla collocazione dell’art. 165 all’interno del T.U. e dal coordinamento sistematico delle disposizioni relative ai non residenti (individui, società ed enti) che disciplinano la misurazione del reddito complessivo tassabile in Italia. L’art. 165 – che reca la disciplina generale del credito per le imposte estere – è stato collocato nel Titolo III, relativo alle “Disposizioni comuni”, Capo II (che costituisce una novità assoluta del nuovo Testo Unico), dedicato specificamente alle “Disposizioni relative ai redditi prodotti all’estero ed ai rapporti internazionali”10: questa collocazione rende la disciplina sul credito per le imposte estere accessibile indistintamente ai soggetti passivi dell’Irpef e dell’Ires11. Non è il caso di indugiare sulle persone e gli enti che si qualificano come tali nel sistema dell’imposizione sui redditi, in quanto, se si fa eccezione per l’inserimento del trust all’interno dell’art. 73 del T.U., le norme di riferimento sono rimaste pressoché immutate dopo la riforma fiscale del 2003 e i relativi ambiti risultano oramai compiutamente circoscritti. E’, invece, opportuno sottolineare che, per effetto di tale collocazione, fra i soggetti passivi dell’Irpef e dell’Ires ammessi a beneficiare dell’istituto in esame vi sono anche le persone fisiche non residenti, le società e gli enti commerciali non residenti 9 In questi termini, G. A. MICHELI, Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Opere minori di diritto tributario, vol. II, Milano, 1982, 330. Osserva G. FRANSONI, La nozione di stabile organizzazione personale nel diritto interno e la rilevanza della “stabilità” dell’organizzazione, in Riv. dir. trib., 2002, I, 363 ss. (e spec. 370), che la stabile organizzazione si colloca all’interno “degli indici rivelatori del particolare legame fra un soggetto e la collettività che giustifica l’affermazione dell’esistenza in capo al medesimo del dovere di partecipazione alle spese proprie della collettività medesima, nonché la graduazione del dovere medesimo”. 10 Condivide nel merito tale scelta, pur evidenziando – giustamente – che essa non comporta alcun particolare stravolgimento strutturale, M. BASILAVECCHIA, Verso il codice, passi indietro; spunti critici sulla tecnica legislativa nel decreto delegato sull’Ires, in Riv. dir.trib., 2004, I, 90. 11 Il credito per le imposte estere spetta anche per i redditi derivanti dalla partecipazione in un GEIE non residente nel territorio dello Stato, che concorrono a formare il reddito imponibile del soggetto passivo residente: il riferimento agli artt. 15 e 92 del vecchio T.U. contenuto nell’art. 11, 6° co., del d. lgs. n. 240/91, deve intendersi, adesso, all’art. 165 del T.U. -4- e, infine, gli enti non commerciali non residenti, ossia soggetti la cui tassazione è assisa sul principio dell’imposizione su base territoriale. La ragione di tale presenza è presto spiegata. Per tali soggetti l’accesso al credito per le imposte estere è legato all’esercizio di un’attività commerciale in Italia a mezzo di una stabile organizzazione, la quale, lungi dal determinare una tassazione strettamente reale, è passibile di accogliere nel reddito d’impresa imponibile anche redditi prodotti dalla stessa al di fuori del territorio dello Stato italiano, con riguardo ai quali è possibile chiedere – appunto – il credito per le imposte assolte estero. Ed infatti, le disposizioni sulla misurazione del reddito complessivo tassabile dei non residenti (individui, società ed enti) richiamano, in presenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato, le disposizioni della sezione I, capo II del titolo II (artt. 81 e seg.), e cioè le regole valevoli per la determinazione della base imponibile di società ed enti commerciali residenti, il cui reddito complessivo – com’è noto – va computato in base al paradigma dell’utile mondiale12: in altre parole, seppur appartenente a un soggetto non residente, la stabile organizzazione è considerata alla stregua di un “quasi residente”. E non a caso – com’è stato efficacemente sintetizzato – “la stabile organizzazione determina il reddito d’impresa avvalendosi di un proprio bilancio e di una propria contabilità, come se si trattasse non già di una situazione fattuale, bensì di un vero e proprio ente” 13. Si perviene, così, allo stesso assetto della disciplina previgente, ove il riconoscimento del credito per le imposte estere ai non residenti con stabile organizzazione in Italia scaturiva dalla sistemazione degli artt. 15 e 92 del vecchio T.U. fra le “Disposizioni generali”, rispettivamente, dell’Irpef e dell’Irpeg. Non solo i residenti, tassati sui redditi ovunque prodotti nel mondo, hanno dunque il diritto di detrarre in Italia le imposte assolte all’estero, ma anche i non residenti, benché tassati su base territoriale, allorquando i redditi prodotti al di fuori del territorio dello Stato italiano siano imputabili a una stabile organizzazione sita in Italia e aggregati al reddito d’impresa quivi tassabile: per il non residente, dunque, la stabile organizzazione “italiana” ha un effetto costitutivo di quella particolare situazione giuridica, normalmente propria dei residenti, che è il diritto di detrarre le imposte assolte all’estero sui suddetti redditi. Tanto chiarito, occorre chiedersi se il credito d’imposta spetti anche per i redditi prodotti dalla stabile organizzazione “italiana” al di fuori del territorio dello Stato ma 12 Per le persone fisiche non residenti la conclusione indicata nel testo scaturisce dal combinato disposto degli artt. 3, 23, 1° co., lett. e), e 56 del T.U., disposizione, quest’ultima, che richiama – per l’appunto – le regole di cui all’art. 81 e seguenti. Per le società e gli enti commerciali non residenti la soluzione può essere enucleata dall’art. 151 in combinato disposto con il successivo art. 152, 1° co., secondo cui “per le società e gli enti commerciali con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, eccettuate le società semplici, il reddito complessivo è determinato secondo le disposizioni della sezione I del capo II del titolo II”, che, come evidenziato, sono quelle che disciplinano la determinazione della base imponibile delle società e degli enti commerciali residenti. Per quanto concerne gli enti non commerciali non residenti il riferimento è costituito dall’art. 153 in combinato disposto con l’art. 154, 1° co., il quale sancisce che “il reddito complessivo degli enti non commerciali è determinato secondo le disposizioni del titolo I”, il quale – come evidenziato trattando delle persone fisiche non residenti – ai fini della determinazione del reddito d’impresa (art. 56) richiama le disposizioni dettate per le società e gli enti commerciali residenti. 13 Così, M. BEGHIN, Diritto tributario. Principi, istituti e strumenti per la tassazione della ricchezza, Torino, 2011, 239, e ivi nota 21. -5- all’interno del Paese estero di residenza del soggetto cui appartiene, che è titolare di tale situazione giuridica. Detto in altre parole, cosa accade, in termini di riconoscimento del credito per le imposte estere, quando il reddito estero della stabile organizzazione “italiana” proviene dallo Stato ove il soggetto non residente (la “casa madre”) paga le imposte secondo il paradigma della tassazione mondiale? Per l’unico, altro Autore che si è posto il problema14, nel silenzio dell’art. 165 “la logica vorrebbe che in questo caso l’Italia non conceda il credito d’imposta perché dovrebbe spettare allo Stato di residenza eliminare la doppia imposizione internazionale”. Questa soluzione non convince. Ed infatti, proprio perché il reddito di pertinenza della stabile organizzazione in Italia affonda le sue radici nello Stato estero di residenza della “casa madre”, non si verifica – dalla prospettiva di quello Stato – nessuna doppia imposizione internazionale da eliminare e, dunque, il presupposto stesso del credito per le imposte estere, le quali, sempre da quella prospettiva, non esistono affatto (si tratta di tributi del medesimo Stato di residenza). In tale caso, considerato che il predetto reddito estero concorre comunque a formare il reddito d’impresa della stabile organizzazione imponibile in Italia, non si vede perché il foreign tax credit italiano non debba essere riconosciuto in sede di dichiarazione dei redditi, essendo la ratio dell’istituto l’eliminazione della doppia imposizione internazionale. Lo Stato estero di residenza della “casa madre” dovrà poi concedere, salvo che non sia internamente o convenzionalmente previsto il criterio dell’esenzione, un credito per le imposte assolte in Italia dalla stessa casa madre sull’utile d’impresa aggregato nei suoi conti e riassoggettato, per tale via, a imposizione in capo alla stessa nello Stato di residenza. 3. La stabile organizzazione “estera” quale elemento di “localizzazione” di taluni redditi prodotti al di fuori del territorio per i quali si chiede il credito d’imposta e i problemi per i contribuenti “imprenditori”. – La detrazione delle imposte assolte all’estero è subordinata – secondo l’articolazione tradizionale, ma anche comune, dell’istituto – al concorso alla formazione della base imponibile del contribuente residente di un reddito che possa essere qualificato come “reddito prodotto all’estero”. Come si è già anticipato all’inizio, tale nozione è definita dal 2° co. dell’art. 165, il quale – colmando una lacuna che, in vigenza delle precedenti discipline, aveva provocato notevoli incertezze e reso alquanto difficoltoso l’accesso all’istituto – sancisce che “i redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’articolo 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato”. In base a questa definizione, un reddito si qualifica come “reddito prodotto all’estero” quand’è soddisfatto almeno uno dei criteri di collegamento enumerati dal citato art. 23 per le diverse species di reddito: i vari criteri di collegamento, i quali esprimono differenti tipi di legame reddito-territorio che sono comunque connotati da elementi di comunanza, sono chiamati a operare in modo simmetrico e contrario, 14 Il riferimento è a S. MAYR, La disciplina del credito d’imposta per i redditi esteri (I), in Boll. trib. 2005, 744-745. -6- configurandosi alla stregua di presunzioni iuris et de iure di produzione del reddito estero nel territorio dello Stato di origine15. Per l’individuazione del criterio di collegamento specularmente applicabile è rilevante la qualificazione del reddito estero in base alla normativa tributaria nazionale, e non quella che discende dalla legislazione estera. Laddove, pertanto, il reddito estero non sia inquadrabile all’interno di alcuna delle categorie reddituali italiane o delle fattispecie menzionate nell’art. 23, l’imposta assolta all’estero dal contribuente residente non potrà essere portata in detrazione dal tributo dovuto in Italia, non configurandosi il predetto reddito come reddito di fonte estera (i.e. prodotto all’estero) ai sensi del 2° co. dell’art. 165. Quanto alla stabile organizzazione, nell’ambito dell’art. 23 essa assolve la funzione di allocazione del reddito nel territorio dello Stato, ancorché con un diverso grado di consistenza, per un folto numero di redditi, che possono essere aggregati su due poli in ragione – appunto – della diversa consistenza del collegamento rappresentato dalla stabile organizzazione. Il primo assomma i redditi di capitale [lett. b) del 1° co.] e le altre fattispecie reddituali indicate nel 2° co. [lett. da a) a d)] del citato articolo, ossia le pensioni, gli assegni, taluni redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, le royalties, ecc., per i quali la stabile organizzazione (insieme ad altri enti e soggetti) rileva, in funzione localizzatrice, quale “erogatore” di tali redditi. Il secondo polo è costituto dai redditi d’impresa [lett. e) del 1° co.], per i quali la stabile organizzazione è elemento costitutivo della fattispecie di collegamento insieme all’esercizio, per il suo tramite, di un’attività commerciale fiscalmente rilevante16, Orbene, in base al criterio di reciprocità di cui al 2° co dell’art. 165 i redditi di capitale e gli altri redditi inseriti nel primo gruppo potranno essere considerati “prodotti all’estero”, consentendo così l’accesso al credito d’imposta, se il pagamento al percettore residente è stato effettuato, fra gli altri, da una stabile organizzazione “estera”; dall’altro lato, i redditi d’impresa derivanti da attività svolte fuori dal territorio dello Stato potranno essere considerati “prodotti all’estero”, ottenendo il diritto di detrarre le relative imposte estere, se derivano da un’attività d’impresa ivi esercitata mediante una stabile organizzazione “estera”. Per i redditi appartenenti al primo gruppo è necessario precisare che, essendo il nesso di collegamento costituito dal cd. “criterio del pagatore”, il legame rilevante è la mera 15 Secondo la Ris. Ag. Entr., 28 giugno 2007, n. 147, è irrilevante che lo Stato della fonte sia un Paese “a regime fiscale privilegiato” e privo di una Convenzione contro le doppie imposizioni con l’Italia, perché – argomenta l’Agenzia – l’art 165 del T.U. non contempla limitazioni di accesso al credito d’imposta correlate a tali evenienze, tanto che l’art. 167, 6° co., riconosce ai residenti il credito d’imposta indiretto per i tributi assolti dalle controlled foreign companies. 16 Come chiosa C. GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, 198, “nei riguardi dei non residenti, affinché esistano redditi d’impresa, deve esistere la stabile organizzazione; se essa non esiste, non vi sono redditi d’impresa. Inoltre se detta stabile organizzazione esiste, i redditi non sono d’impresa se essi non derivano da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante la stabile organizzazione stessa”. L’esistenza è dunque condizione necessaria ma non sufficiente, dovendo altresì sussistere un nesso funzionale tra le attività produttive del reddito e la stabile organizzazione: in mancanza, il reddito è suscettibile di trattamento isolato. Deve potersi ravvisare, in sostanza, “una precisa funzione attiva svolta dalla stabile organizzazione nella produzione del reddito (…), e cioè quella che definirei la strumentalità «attiva» della struttura decentrata ai fini della produzione del reddito”: così, F. GALLO, La stabile organizzazione, in Il diritto tributario nei rapporti internazionali, in Quad. di Rass. trib., 1986, n. 2, 154-155. -7- localizzazione sul territorio dello Stato estero della stabile organizzazione, e non anche la residenza della “casa madre”. Agli effetti del 2° co. dell’art. 165, ciò comporta che un reddito di capitale o un compenso per l’utilizzazione di un brevetto corrisposto a un contribuente residente da una stabile organizzazione localizzata in un Paese estero si considera reddito prodotto all’estero anche quando la “casa madre” dovesse essere residente in Italia, e comporta, altresì, che non possa essere qualificato come tale il reddito di capitale o il canone di licenza corrisposto al contribuente residente da una stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente (in quest’ultima ipotesi, fra l’altro, mancherebbe anche l’imposta estera da accreditare). Il criterio di reciprocità, in base al quale si deve accertare la fonte estera di un determinato reddito, desta particolari problemi quando il contribuente che chiede il credito per le imposte estere svolga in Italia un’attività d’impresa, assumendo la veste di “imprenditore” (e, dunque, anche in caso di stabile organizzazione “italiana” di un soggetto non residente). E’ noto che, a prescindere dalla fonte da cui provengono e dalla loro origine nazionale o estera, i redditi conseguiti in regime d’impresa perdono la loro individualità e sono considerati redditi d’impresa: si realizza, in buona sostanza, una riduzione a unità di redditi ontologicamente diversi. Questa valutazione unitaria e assorbente dei redditi conseguiti dall’imprenditore deve fare i conti, nel caso di redditi provenienti dall’estero, con il criterio di collegamento dettato dall’art. 23 per i redditi d’impresa, in ragione del quale – come detto – è possibile considerare di fonte estera, ai fini dell’accreditamento delle imposte ivi assolte, i soli redditi d’impresa che derivano da attività esercitate mediante una stabile organizzazione “estera” Orbene, se si vuole dare un senso a questo criterio di localizzazione, evitandone la sterilizzazione per le fattispecie reddituali provenienti dall’estero che possono anche configurarsi in Italia quali componenti positive del reddito d’impresa, non si può non ritenere che, ai fini dell’applicazione del 2° co. dell’art. 165, e solo a questi fini 17, l’unitario reddito d’impresa debba essere scomposto e le singole componenti positive di origine estera debbano essere inquadrate nella categoria corrispondente alla propria essenza, così da localizzarle secondo il criterio di collegamento di oggettiva pertinenza18. 17 E’ il caso di precisare, fin da subito, che la soluzione interpretativa prospettata nel testo non vale né per la quantificazione del reddito d’impresa prodotto all’estero dalla stabile organizzazione, né ai fini della compensazione delle eccedenze d’imposta di cui al 6 co. dell’art. 165: per i motivi di tale conclusione si rinvia nuovamente all’opera monografica Contributo allo studio del credito per le imposte estere, cit., 78 ss. e 190 ss. 18 Aderisce alla tesi esposta, già anticipata nel saggio Il credito per le imposte assolte all’estero, in F. TESAURO (opera diretta da), Imposta sul reddito delle società (IRES), Bologna, 2007, 1042, anche G. MELIS., Art. 165 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, in, Commentario breve alle leggi tributarie. Tomo III. TUIR e leggi complementari (a cura di A. FANTOZZI), Padova, 2011, 809. Contra Gianl. MARINI, La riforma del credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero, in R. ESPOSITO e F. PAPARELLA (a cura di), La nuova imposta sul reddito delle società. Atti del Convegno, Napoli, 2006, 260-262, secondo cui “la norma dovrebbe essere interpretata nel senso più comune e conforme alla sua lettera, e cioè che il credito d’imposta spetti esclusivamente per i redditi derivanti da attività effettuate medianti stabili organizzazioni all’estero”. In tale senso anche A. M. GAFFURI, La tassazione dei redditi di impresa prodotti all’estero, Milano, 2008, 107 ss., il quale non manca, tuttavia, di sottolinearne gli effetti distorsivi rispetto ai principi costituzionali e generali interni, ma anche sul piano europeo e dei rapporti giuridici internazionali. -8- E’ in altri termini necessario procedere – ai fini della localizzazione, e, lo si ripete, solo a questi fini – al cd. trattamento isolato delle fattispecie reddituali provenienti dall’estero e confluite nel reddito d’impresa del soggetto, ente o stabilimento fisso localizzato in Italia (i.e. dell’individuo o dell’ente non commerciale residente, della società o ente commerciale residente ovvero della stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente). Così, la natura di reddito prodotto all’estero di dividendi, interessi e royalties oggetto di tassazione isolata nello Stato della fonte, e costituenti componenti positivi del reddito d’impresa nel nostro Paese, deve essere verificata sulla scorta dei criteri di collegamento di cui al 1° co., lett. b) e 2° co., lett. c) dell’art. 23. Egualmente, un reddito oggettivamente d’impresa realizzato in un altro Paese, e ivi assoggettato a prelievo, si configura quale reddito di fonte estera, agli effetti dell’art. 165, se, e solo se, è stato prodotto mediante una stabile organizzazione “estera”19, con conseguente impossibilità, in mancanza, di recuperare in Italia il tributo assolto all’estero. In quest’ultimo senso si è espressa di recente anche la prassi, che ha negato la possibilità di accreditare in Italia una ritenuta d’imposta prelevata in Kazakistan sul volume d’affari, e correlata allo svolgimento in loco di un’attività d’impresa, sul presupposto che non fosse configurabile l’esistenza di una stabile organizzazione per difetto del requisito temporale specificamente previsto dalla Convenzione fiscale ItaliaKazakistan20. E’ appena il caso di precisare che siffatta conclusione – vale a dire la necessaria presenza nello Stato della fonte di una stabile organizzazione per considerare localizzato e, dunque, prodotto all’estero un reddito oggettivamente d’impresa – non è inficiata dal fatto che il 6 co° dell’art. 165 non richieda il medesimo requisito ai fini del riporto delle eccedenze d’imposta. Le due cose sono distinte. Ed infatti, per i redditi oggettivamente d’impresa non realizzati all’estero mediante una stabile organizzazione non si pone alcun problema di riporto delle eccedenze, essendo i tributi assolti all’estero indetraibili per difetto di uno dei presupposti di accesso all’art. 165. Per altro verso, la mancata previsione di tale condizione ai fini del riporto delle eccedenze fa sì che pure le imposte assolte nello Stato della fonte su redditi isolati, e costituenti in Italia componenti positivi del reddito d’impresa, possano generare eccedenze recuperabili mediante il meccanismo di riporto delle eccedenze d’imposta Del resto, com’è stato osservato21, “ove si acceda alla tesi della irrilevanza in funzione localizzatrice, in via di principio, della stabile organizzazione estera, il primo comma dell’art. 23, in parte qua (ossia per i redditi d’impresa prodotti all’estero), costituirebbe una norma inutiliter data”. 19 Sembra accogliere la tesi della localizzazione dei redditi esteri in base al criterio di collegamento di oggettiva pertinenza, ma ne nega, poi, l’applicabilità alla categoria del reddito d’impresa, per le iniquità e incongruenze che si verrebbero a determinare, G. PIZZITOLA, Per il credito d’imposta contro le doppie imposizioni i redditi sono “prodotti all’estero” secondo i criteri italiani?, in Dial. trib., 2011, 696 ss. Si osserva, tuttavia, che il rinvio operato dall’art. 165, 2 ° co., è generalizzato e non lascia margini per ritagliare soluzioni interpretative ad hoc per la sola categoria del reddito d’impresa. 20 Cfr. Ris. Ag. Entr. 3 luglio 2008, n. 277/E, ove, considerata l’assenza di potestà impositiva da parte del Kazakistan con riguardo ai redditi d’impresa ivi prodotti, si è correttamente concluso che “la ritenuta fiscale subita dal contribuente è stata effettuata in assenza dei presupposti richiesti dalla convenzione e, di conseguenza, la società deve chiedere il rimborso alle Autorità estere di quanto indebitamente pagato” 21 Cfr. E. DELLA VALLE, Contributo allo studio, op. cit., 29. -9- 4. (Segue). Le problematiche interpretative di taluni nessi di collegamento per le stabili organizzazioni “italiane”, le distorsioni applicative del nesso della stabile organizzazione “estera” per i residenti e il possibile ausilio delle Convenzioni contro le doppie imposizioni. – La scelta di utilizzare il “criterio di reciprocità”, ai fini della localizzazione all’estero del reddito per il quale il contribuente chiede il credito per le imposte estere, è fonte di problematiche interpretative ma anche di distorsioni applicative se la si guarda, e valuta, con la lente della ratio dell’art. 165, che – come già evidenziato – è la neutralizzazione della doppia imposizione internazionale (nella sua duplice veste giuridica ed economica)22. E non potrebbe essere diversamente, posto che la soluzione di “piegare” i criteri di collegamento di cui all’art. 23 del T.U. all’assolvimento di una funzione di mera localizzazione dei redditi esteri, nella prospettiva dell’accreditamento dei tributi assolti all’estero (e, in via mediata, dell’eliminazione della doppia imposizione internazionale), mal si concilia col fatto che la selezione di tali criteri avviene in vista dell’individuazione di un ragionevole legame della ricchezza col territorio dello Stato che giustifichi, ex art. 53 Cost., l’assoggettamento a prelievo del non residente 23; ma anche in ragione di precise scelte di politica fiscale, quali, ad esempio, la promozione degli investimenti esteri, la concreta possibilità di controllo, la tutela dell’interesse erariale, ecc., che portano sovente a mitigare o accentuare l’intensità dei legami espressi dai criteri di collegamento, se non addirittura a sterilizzare il legame e, dunque, il criterio stesso. Le problematiche interpretative, dianzi accennate, si pongono in particolare per le esclusioni contemplate dal 1° co., lett. f) dell’art. 23, che si traducono in una presunzione assoluta di extraterritorialità dei redditi interessati24, che ben possono essere conseguiti all’estero – per quanto di nostro interesse – anche da stabili organizzazioni “italiane” di soggetti non residenti. Ed infatti, in conseguenza di tale connotazione l’applicazione sic et simpliciter della reciprocità, postulata dal 2° co. dell’art. 165, comporta che gli interessi e gli altri proventi derivanti da depositi e conti correnti bancari e postali detenuti presso istituti esteri non possano essere considerati prodotti nel territorio dello Stato ove risiedono gli stessi istituti, valendo – per l’appunto – in senso inverso la presunzione di 22 Le ragioni di questa conclusione, contraria alla comune opinione secondo cui il credito per le imposte estere sarebbe deputato a contrastare solo la doppia imposizione giuridica internazionale anche nel nuovo contesto dell’art. 165, sono illustrate nell’opera monografica, Contributo allo studio del credito per le imposte estere, cit., 15 ss. 23 Cfr. F. MAFFEZZONI, Il principio di capacità contributiva nel diritto finanziario, Torino, 1970, 23; F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 21; G.C. CROXATTO, L’imposizione, op. cit., 33, e, più di recente, L. PERRONE, Enti non residenti ed imposizione fiscale in Italia, in Riv. dir. trib. int., 2001, 107 ss. Pur nell’ambito della teoria del tributo come emanazione della sovranità o della supremazia dello Stato, la stessa esigenza era stata sottolineata da E. VANONI, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, in Opere giuridiche, t. I, Milano, 1961, 83-85; ma v. anche B. GRIZIOTTI, Divergenti casi di interessi passivi, pagati a banche estere tassabili oppure deducibili dall’imposta di R.M., in Riv. dir. fin., 1937, I, 73 ss., il quale attribuiva ai criteri di collegamento il significato di indici espressivi dell’appartenenza allo Stato e distingueva fra le diverse forme di appartenenza, economica, sociale e politica. Per una completa indagine sui ragionevoli nessi di collegamento in grado di limitare l’universalità della potestà impositiva, da ultimo, R. CORDEIRO GUERRA, I limiti alla potestà impositiva ultraterritoriale, in Riv. trim. dir. trib., 2012, n. 1, 31 ss. 24 Le esclusioni sono state introdotte con l’art. 2, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 21 luglio 1999, n. 259. - 10 - extraterritorialità [1° co., lett. b)]. Lo stesso dicasi per le plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni non qualificate in società non residenti quotate e per quelle derivanti dalla cessione o rimborso di attività finanziarie, titoli obbligazionari, e similari, nonché per i redditi derivanti da contratti derivati conclusi in mercati regolamentati [1° co., lett. f), nn. 1, 2 e 3]. In tutti questi casi, l’accreditamento in Italia delle imposte assolte su tali redditi nel Paese estero (di norma, sotto forma di ritenuta alla fonte o di imposta sostitutiva) è automaticamente negato e la stabile organizzazione “italiana”, al pari dei contribuenti residenti in Italia, è costretta a subire un’altrettanta automatica duplicazione del prelievo. Un simile effetto risulta inaccettabile. Le esclusioni sono ispirate a ragioni di politica fiscale che prescindono dall’assenza di effettivi legami reddito-territorio delle fattispecie interessate25. Ora, se ciò vale a giustificare la prevista extraterritorialità dei redditi astrattamente tassabili in Italia, appare alquanto irrazionale che la scelta compiuta dal legislatore fiscale finisca col riverberarsi negativamente su stabili organizzazioni “italiane” e, più in generale, contribuenti residenti che ottengono i medesimi redditi all’estero, impedendo la localizzazione nello Stato della fonte di redditi che sarebbero ivi localizzati in applicazione degli ordinari criteri di collegamento previsti dalle medesime lettere b) e f) dell’art. 23, con l’effetto di generare una doppia imposizione internazionale che rappresenta la negazione della ratio della disciplina del credito d’imposta. Sulla scorta di questi rilievi – e tenuto conto dell’orientamento oramai diffuso anche in ambito tributario, che riconosce come legittimo il disvelamento dell’effettiva portata di una disposizione mediante il necessario e concorrente ricorso ai criteri letterali e logico-funzionale26 – pare sostenibile l’ipotesi interpretativa secondo cui la reciprocità dei nessi di collegamento di cui all’art. 23 debba intendersi riferita ai soli criteri ordinari ivi enumerati, ma non anche alle esclusioni, tanto più che solo i criteri di collegamento – per così dire – “positivi” esprimono effettivamente quel legame reddito-territorio (in termini oggettivi o in via presuntiva) che permette al 2° co. dell’art. 165 di assolvere ai propri compiti di localizzazione (o meno) di un reddito estero nello Stato di origine. Le distorsioni applicative si ricollegano, invece, all’intensità del legame contemplato da taluni criteri di territorialità, che, ove maggiore rispetto a quella del criterio di collegamento adottato nello Stato della fonte del reddito, produce inesorabili effetti di doppia tassazione internazionale. Il problema è di nostro interesse, ponendosi soprattutto per i redditi di impresa che – come si è visto – si considerano prodotti al di fuori del territorio dello Stato, in base al criterio di reciprocità, se l’attività è ivi svolta per il tramite di una stabile organizzazione “estera”. Come già osservato, per l’individuazione del nesso di collegamento specularmente applicabile è rilevante la qualificazione del reddito estero in base alla normativa italiana, e non quella che discende dalla legislazione estera: ciò comporta, quanto ai 25 E’ sufficiente, in merito, rinviare alla Circ. Min., 26 dicembre 1999, n. 207/E, par. 1. 26 Per approfondimenti, G. MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 27 ss. - 11 - redditi d’impresa, che la sussistenza della stabile organizzazione “estera” debba essere accertata in base alla normativa interna e/o convenzionale27. Da ciò deriva che ogniqualvolta il criterio di collegamento dello Stato della fonte richieda, per localizzare il reddito sul territorio, un legame meno intenso della presenza di una stabile organizzazione (ad esempio, il semplice svolgimento in loco di un’attività commerciale o, ancora meno, la mera corresponsione da parte di un soggetto residente del compenso per la prestazione resa dall’imprenditore italiano), risultando così più rigoroso di quello interno, il criterio di reciprocità contemplato dal 2° co. dell’art. 165 non consente di qualificare il reddito oggettivamente d’impresa come prodotto all’estero. Lo stesso accade quando il criterio di territorialità del Paese estero è incentrato sulla stabile organizzazione, ma la relativa nozione risulta meno stringente di quella delineata dalla normativa italiana e, dunque, più facile da integrare (ad esempio, l’elemento temporale per i cantieri di montaggio o di installazione è inferiore ai tre mesi), senza che possa essere di ausilio, quanto ai requisiti necessari per configurarne l’esistenza, l’eventuale Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa col Paese estero. Due considerazioni a margine. La prima è che, sulla scorta della ricostruzione effettuata, deve ritenersi superato il vecchio orientamento della prassi che riconosceva, vigenti le pregresse discipline, il credito per le imposte pagate in Paesi esteri sui ricavi ivi prodotti con attività svolte in assenza di una stabile organizzazione (il pronunciamento riguardava la vecchia taxe forfetaire applicabile in Algeria sui redditi derivanti da attività commerciali svolte temporaneamente in loco da soggetti non residenti)28; orientamento, questo, legittimante l’accreditamento anche delle ritenute alla fonte subite all’estero dalle imprese residenti sui corrispettivi per prestazioni di servizio rese al soggetto estero 27 Sulla nozione interna di stabile organizzazione di cui all’art. 162 del T.U., e per i rapporti tra questa e le singole nozioni convenzionali, L. PERRONE, La stabile organizzazione, in Rass. trib., 2004, 796 ss.; A. M. GAFFURI, Il concetto di stabile organizzazione nella riforma delle imposte sui redditi, in TributImpresa, 2004, 5 ss.; E. DELLA VALLE, Contributo allo studio, op. cit., 64 ss. e ID., La stabile organizzazione, in TESAURO (opera diretta da), op.cit., 912 ss. 28 Trattasi della Ris. Min., 21 aprile 1983, n. 9/2540, che ha avuto grande eco per il fatto di aver riconosciuto la sussumibilità nei tributi esteri accreditabili di un prelievo sostitutivo delle ordinarie imposte sui redditi, rettificando le conclusioni raggiunte nella precedente Ris. Min., 12 marzo 1979, n. 9/146, ove, negata la riconducibilità all’interno delle imposte estere accreditabili, il tributo era stato assimilato a un costo di produzione del reddito estero deducibile ai fini fiscali nel nostro Paese. Questa conclusione non dovrebbe essere più possibile per l’attuale taxe forfetaire algerina, anche a prescindere dal fatto che il 2° co. dell’art. 165 richieda per i redditi d’impresa l’esistenza all’estero di una stabile organizzazione (il vincolo, infatti, potrebbe essere superato mediante il ricorso all’art. 24 della Convenzione italo-algerina), in quanto, per il corrispondente tributo esistente oggi, l’art. 156, 2° co. del “Codice delle imposte dirette e dei tributi assimilati” sancisce che il prelievo forfetario, oltre a essere sostitutivo dell’Impot sur le Bénéfices des Sociétés (IBS), “couvre la taxe sur l'activité professionnelle et la taxe sur la valeur ajoutée”, tributo, quest’ultimo, che non è certo assimilabile alle imposte sui redditi. Più permissiva è, tuttavia, la posizione della prassi, che in un altro caso di prelievo estero forfetario di carattere “misto”, e cioè sostitutivo anche di tributi diversi da quelli sui redditi (si trattava, in ispecie, del Prélèvement fiscal global forfaitaire, applicato in Tunisia, sostitutivo non solo le imposte dirette, ma anche quelle indirette, presenti e future, e i diritti doganali), ha ammesso la possibilità di una “assimilabilità” parziale o pro-quota, con possibilità di accreditare la parte dell’imposta forfetaria proporzionalmente riferibile ai soli tributi sostituiti aventi carattere reddituale (nella specie si trattava dell’Impòt sur les sociétés: cfr. Ris. Ag. Entr. 7 marzo 2008, n. 83/E). - 12 - direttamente dall’Italia. Tanto sembra trovare conferma nel recente pronunciamento di prassi riguardante il Kazakistan – già richiamato – con cui l’Agenzia delle Entrate ha negato l’accreditamento in Italia di un’imposta sul volume d’affari ivi pagata a fronte dello svolgimento di un’attività di impresa in loco senza l’esistenza di una stabile organizzazione, neanche in base ai requisiti previsti dal relativo Trattato fiscale29. La seconda considerazione, strettamente collegata alla prima, attiene al fatto che il criterio di reciprocità di cui al 2° co. finisce per vincolare gli imprenditori residenti – che esercitano attività commerciali all’estero – a operare in loco mediante una stabile organizzazione, essendo precluso in caso contrario l’accesso al foreign tax credit, e ciò anche nelle ipotesi in cui l’imposizione ordinaria dovesse essere maggiore del prelievo alla fonte o sostitutivo previsto sui redditi oggettivamente d’impresa conseguiti senza stabile organizzazione. Le illustrate problematiche interpretative e le distorsioni applicative sono in principio superabili, unitamente all’effetto di duplicazione del prelievo di cui sono latrici, in presenza di una Convenzione internazionale. Se si legge l’art. 23B del Modello Ocse sul credito d’imposta, ma anche se si consultano i corrispondenti articoli della maggior parte delle Convenzioni fiscali concluse dall’Italia (la cui formulazione è parzialmente diversa), è immediato notare, infatti, che la clausola pattizia non reca – in entrambi i casi – alcuna definizione del concetto di reddito prodotto all’estero, né subordina l’accesso al foreign tax credit all’accertamento di tale qualità per la ricchezza tassabile proveniente dall’altro Stato contraente, ma si limita a richiedere che il reddito risulti imponibile e sia stato effettivamente tassato in tale Stato in conformità alle disposizioni convenzionali30. Donde la conclusione che la norma pattizia sul credito d’imposta, ove conforme alla “clausola modello” dell’art. 23B o al “modello di clausola” enucleabile dai Trattati fiscali conclusi dall’Italia, consente in principio l’accreditamento nel nostro Paese anche delle imposte straniere assolte su redditi che, pur avendo un’origine estera, non possono essere qualificati come redditi prodotti all’estero ai sensi del 2° co. dell’art. 165. La rassegnata soluzione poggia sul presupposto che il coordinamento delle norme interna e convenzionale in materia di foreign tax credit sia configurabile non in termini di mera prevalenza della seconda sulla prima, bensì come rapporto di complementarietà di tipo integrativo con esclusione delle c.d. “integrazioni negative”, intendendo per tali tutte le regole di dettaglio previste dalla disciplina interna che comportano, da un lato, la negazione del diritto di detrazione spettante al contribuente residente nello Stato contraente (con violazione dell’obbligo convenzionale di concedere il credito d’imposta e del correlato impegno assunto nei confronti dell’altro 29 Cfr. Ris. Ag. Entr. 3 luglio 2008, n. 277/E, cit. 30 In via generale, la formula dell’art. 23B del Modello Ocse sul credito per le imposte estere si connota per una spiccata semplicità, che comporta una maggiore flessibilità applicativa dell’istituto, limitandosi a fissare il solo limite generale di detrazione dei tributi esteri con un principio che – sebbene enunciato letteralmente in modo differente – è in buona sostanza analogo a quello scolpito nel 1° co. dell’art. 165 del T.U. (la quota di imposta italiana proporzionalmente corrispondente al “peso” del reddito di fonte estera sul reddito imponibile). Le corrispondenti disposizioni delle Convenzioni fiscali concluse dall’Italia – quand’anche in via di principio conformi alla struttura generale della “clausola modello” – risultano più aderenti alla formulazione letterale dell’art. 165 e, in ispecie, rimarcano la necessità del concorso del reddito estero alla formazione del reddito complessivo, condizione, questa, che non è palesata – almeno nei termini considerati – nella “clausola modello”.. - 13 - Stato contraente) e il manifestarsi di una duplicazione del prelievo contraria allo scopo primario delle Convenzioni fiscali (con violazione dell’essenza stessa dell’Accordo concluso con lo Stato della fonte)31. 5. Le regole applicabili, ai fini del credito d’imposta, per il computo del reddito d’impresa derivante da una stabile organizzazione “estera” di un residente (reddito prodotto all’estero) e da una stabile organizzazione “italiana” di un non residente (reddito complessivo). – Pur attribuendo alla stabile organizzazione “estera” la funzione di localizzazione dei redditi derivanti da un’attività commerciale svolta all’estero, il legislatore fiscale della riforma non ha chiarito se i redditi d’impresa “prodotti all’estero” (ma lo stesso dicasi per gli altri redditi che si qualificano come tali ai sensi del già citato 2° co. dell’art. 165) debbano essere conteggiati in base alla normativa fiscale dello Stato della fonte ovvero in base alla regole del T.U. Nel silenzio, quest’ultima soluzione va prediletta. Il 10° co. dell’art. 165 prende in considerazione l’ipotesi che “il reddito prodotto all’estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo”, per sancire una corrispondente limitazione del tributo estero detraibile, ma evidenziando, altresì, che, ai fini della determinazione del reddito imponibile costituente denominatore del rapporto frazionario, il reddito estero va quantificato secondo i criteri previsti dalle norme tributarie italiane. E la medesima soluzione vale anche per il numeratore del rapporto, che ospita il solo reddito di fonte estera32, essendo determinante, in questo caso, l’esigenza di un’omogeneità dei termini del rapporto frazionario. Ed infatti, se quest’ultimo comporta un raffronto tra il reddito prodotto all’estero (numeratore) e il reddito complessivo (denominatore), il reddito estero non può che essere inteso, in un accezione tecnica, come fattispecie reddituale che confluisce, in base alle regole prevista dalla normativa fiscale italiana, nella base imponibile. Peraltro, se si sposa la diversa soluzione del recepimento dei valori di origine, il risultato del rapporto non esprime più il “peso” effettivo del reddito estero sul reddito complessivo, e conseguentemente la porzione di imposta italiana lorda, che costituisce il limite generale di credito d’imposta, non rappresenta più la quota attribuibile al medesimo reddito estero (perché l’imposta italiana lorda è calcolata sul reddito complessivo, che comprende anche il reddito estero, determinato secondo le regole interne)33. 31 Per l’analitica illustrazione degli argomenti a sostegno della tesi di cui nel testo è stata riportata la conclusione si rinvia all’opera monografica Contributo allo studio del credito per le imposte estere, cit., 35 ss. 32 Se il reddito estero rideterminato secondo la normativa fiscale italiana è pari a zero o negativo, le imposte pagate nello Stato della fonte non saranno accreditabili. Questa conclusione, che discende dal rapporto di cui al 1° co. dell’art. 165, ha una sua giustificazione logico-sistematica: se il reddito estero è pari a zero, o negativo, vuol dire che su tale reddito non sono state pagate imposte in Italia e che, dunque, non vi è alcuna doppia imposizione internazionale da sterilizzare. Nel nuovo assetto le predette imposte costituiscono, comunque, eccedenza d’imposta estera recuperabile se, e nella misura in cui, trovino copertura in eccedenze di segno opposto negli otto periodi d’imposta precedenti o successivi, ma soltanto per i contribuenti imprenditori. 33 Ciò è particolarmente evidente in caso di imposizione ordinaria con aliquota proporzionale, com’è nell’Ires, ove il risultato che discende dall’applicazione della formula di cui al 1° co. dell’art. 165 coincide con quello derivante dall’applicazione dell’aliquota d’imposta al reddito estero latore del diritto di detrazione delle imposte estere. - 14 - Una conferma in tale senso sembra potersi ricavare da un pronunciamento di prassi in materia di credito d’imposta riguardante proprio il reddito d’impresa prodotto mediante una stabile organizzazione “estera”, ove è stato affermato che “le modalità di determinazione degli imponibili da sottoporre a tassazione nei due Paesi sono autonome, in quanto dipendono dai rispettivi regimi nazionali (…). Tenuto conto che può essere diversa nei due Stati la determinazione della base imponibile di una medesima stabile organizzazione e, dunque, possono essere disarmoniche le imposte di periodo di volta in volta applicate, il comma 6 dell’art. 165 consente alle imprese di riportare le eccedenze di imposta in avanti e all’indietro per otto periodi di imposta”34. Da questa affermazione si evince che in sede di determinazione del foreign tax credit il reddito prodotto all’estero mediante stabile organizzazione debba essere quantificato seguendo la via della misurazione separata (o, se si vuole, della determinazione aggregata)35: del resto, com’è stato osservato, “se (…), per quanto riguarda la stabile organizzazione italiana di soggetto non residente la determinazione separata del relativo reddito si ricava (anche) dall’art. 23, comma 1, lett. e), del Tuir, non vi sono ragioni per ritenere diversamente con riferimento alla stabile organizzazione estera di soggetto residente considerato che la disciplina del credito d’imposta (…) si basa su criteri di localizzazione delle fattispecie reddituali che sono assolutamente speculari rispetto a quelli di cui al predetto art. 23, comma 1, lett. e)”36. In ragione del 2° co. dell’art. 165, che prevede tale criterio di reciprocità, la nozione di reddito prodotto all’estero muove sempre dall’ordinamento italiano e le relative regole di determinazione non possono non essere quelli propri del sistema fiscale nazionale, come non ha mancato di chiarire di recente anche la prassi con riguardo ai redditi di lavoro dipendente prestato all’estero nel rispetto delle condizioni previste dall’art. 51, co. 8-bis, del T.U, ossia quelli che sono tassati in Italia su base convenzionale37. Da quanto detto fino ad adesso a proposito delle regole applicabili per la determinazione del reddito d’impresa “estero”, e il suo concorso alla formazione del reddito complessivo del soggetto residente, è già chiaro che il reddito d’impresa prodotto da una stabile organizzazione “italiana” di un soggetto non residente debba essere determinato, anche ai fini del computo delle imposte estere da accreditare, in base alla normativa del T.U. Il reddito complessivo è una nozione codificata, seppur mutevole in ragione della natura del soggetto passivo. E nel caso di soggetti non residenti che operano mediante 34 Si esprime in questi termini la Ris. Ag. Entr., 1 giugno 2005, n. 69/E. 35 Sullo spinoso problema della quantificazione su base aggregata o disaggregata in capo alla casa madre residente del reddito prodotto dalla stabile organizzazione estera, v. G. FRANSONI, La determinazione del reddito delle stabili organizzazioni, in Rass. trib., 2005, 84 ss.; e A. M. GAFFURI, La determinazione del reddito della stabile organizzazione, in Rass. trib., 2002, 87 ss., cui si rinvia anche per la ulteriore bibliografia. 36 Così, E. DELLA VALLE, Contributo allo studio, cit., 142. Vigente l’art. 15 del vecchio T.U., a favore della quantificazione separata del reddito della stabile organizzazione estera, ai fini dell’individuazione del reddito estero rilevante per il calcolo del credito d’imposta, si era già espresso G. ZIZZO, Regole generali sulla determinazione del reddito d’impresa, in F. TESAURO (a cura di), Giuri. sist. dir. trib.. L’imposta sul reddito delle persone fisiche, t. II., Torino, 1994, 576. 37 Il riferimento è alla Ris. Ag. Entr., 8 luglio 2013, n. 48/E. - 15 - stabile organizzazione “italiana” (al pari di quanto accade per le società e gli enti commerciali residenti in Italia) esso è costituito dal reddito d’impresa, quale contrapposizione dei componenti reddituali positivi e negativi rilevanti secondo le regole fiscali (in base al meccanismo di cui all’art. 83): si tratta di una grandezza di sintesi che è determinata secondo le norme tributarie italiane e che accoglie, in via mediata o immediata, le spese sostenute per la produzione dei vari elementi di reddito (salve poche eccezioni), tanto se di origine interna quanto se di fonte estera, e assorbe i risultati negativi in qualsiasi modo e ovunque prodottisi. Per essere “rilevante”, ai fini della determinazione del credito per le imposte estere, il reddito complessivo, così determinato, va considerato – come precisa il 1° co. dell’art. 165 – “al netto delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione”, donde l’obbligo, nel caso della stabile organizzazione “italiana”, di ridurne l’ammontare nella misura corrispondente38. Questa precisazione costituisce una novità assoluta dell’art. 165, essendo la soluzione adottata dalla precedente disciplina (addirittura) di segno contrario, ed è legata alla previsione, nel nuovo contesto normativo, del meccanismo di riporto delle eccedenze d’imposta estere di cui al 6° co. dell’art. 165, il quale, ancorché il dato testuale sia di segno contrario, non può che trovare applicazione – per i motivi infra spiegati – anche alle stabili organizzazioni “italiane” di soggetti non residenti. La ragione del collegamento è subito spiegata. Anche se il reddito complessivo deve essere depurato delle perdite pregresse, l’incapienza della quota di imposta italiana – che si manifesta per effetto di perdite pregresse che riducono o azzerano il reddito complessivo39 – non determina più la definitiva irrecuperabilità delle imposte estere eccedentarie. Ed infatti, il riporto consente l’utilizzo, quale credito d’imposta immediato (riporto all’indietro) o futuro (riporto in avanti), dei tributi assolti all’estero che risultano, in un dato periodo, superiori alla quota di imposta italiana relativa al reddito estero di riferimento. Nel nuovo sistema l’effettiva misura del credito per le imposte estere è legata, dunque, all’ammontare delle imposte italiane che sono dovute per il medesimo reddito estero nell’arco di più periodi di imposta (quello di riferimento, gli otto precedenti e gli otto successivi), potendosi determinare, in uno o più periodi, eccedenze d’imposta italiana che determinano la trasformazione delle eccedenze d’imposta estera in un nuovo credito che va ad aggiungersi a quello ordinario già detratto nel periodo di imposta di competenza. 6. Le imposte assolte all’estero sul reddito d’impresa della stabile organizzazione “estera” accreditabili dal contribuente residente e la regola speciale in ordine al periodo d’imposta di accreditamento. – L’art. 165 non reca, al pari del suo predecessore, una definizione di “imposta estera” accreditabile, limitandosi a sancire nel 1° co. che, in caso di concorso dei redditi prodotti all’estero alla formazione del 38 L’obbligo di riduzione riguarda anche il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali residenti, ma non quello delle persone fisiche, residenti e non residenti, nonché – a seguito dell’applicazione per rinvio delle disposizioni del Titolo I – quello degli enti non commerciali, residenti e non residenti, perché, in forza dell’art. 8 del T.U., il reddito complessivo di questi utili soggetti passivi è già al netto delle perdite riportate da precedenti periodi di imposta. 39 Come precisato nella Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 344/2003, cit., 625, “per effetto delle perdite pregresse che influenza il denominatore del rapporto, ne può derivare che il rapporto in questione può anche assumere valore superiore a 1, nel qual caso, ovviamente, dovrà intendersi acquisito al 100 per cento”. - 16 - reddito complessivo, “le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione”. Premesso che – pur nel silenzio della disposizione circa le caratteristiche del prelievo estero – l’orientamento prevalente e consolidato è nel senso che le imposte assolte all’estero debbano essere “assimilabili” alle imposte italiane sul reddito40, le condizioni che devono sussistere per detrarre le imposte estere in sede di dichiarazione sono sostanzialmente due. La prima è che le imposte devono state “pagate a titolo definitivo”, condizione, questa, che è rilevante – come vedremo – per l’individuazione del periodo d’imposta di detrazione. La seconda è che deve trattarsi, per ciascun reddito prodotto all’estero ai sensi del 2° co. dell’art. 165, di “imposte ivi pagate (…) su tali redditi”, espressione, questa, che, pur essendo criptica, circoscrive l’area di origine delle imposte estere rilevanti. Per quanto riguarda i tributi assolti sui redditi delle stabili organizzazioni “estere”, è di particolare interesse, in quanto fonte di alcuni problemi, soffermarsi sulla seconda condizione. Del resto, con riguardo alla prima condizione è oramai pacificamente riconosciuto – superata la prima interpretazione restrittiva che, confondendo due piani nettamente distinti, la riconduceva all’immodificabilità del reddito nello Stato della fonte41 – che la definitività va identificata con la “irripetibilità” del tributo versato, a nulla rilevando che il reddito estero sia ancora rettificabile o che la rettifica, ove effettuata, non si sia ancora cristallizzata42. 40 Cfr., per la prassi, Ris. Min., 12 marzo 1979, n. 9/146, e Ris. Min., 21 aprile 1983, n. 9/2540, cit., riguardanti entrambe la c.d. taxe forfetaire algerina, nonché, di recente, Ris. Ag. Entr., 7 marzo 2008, n. 83/E, concernente l’imposta sostitutiva dell’Impòt sur les sociétés tunisina; per la dottrina, fra gli altri, M. INGROSSO, op.cit.., 233; A. MANZITTI, op.cit., 21; C. GARBARINO, op.cit., 453; B. GANGEMI, op.cit., 66, e, in adesione al relativo orientamento, ma commentando l’attuale art. 165 del T.U., S. MAYR, op.cit., 748; Gianl. MARINI, op.cit., 263-264, A. M. GAFFURI, , La tassazione dei redditi di impresa, op. cit., , 419-420; R. BAGGIO, Il principio di territorialità, op. cit. 389. La necessità di acclarare la natura del tributo pagato all’estero non si pone in sede di applicazione del foreign tax credit di fonte pattizia, ove il problema è risolto in radice con una soluzione che meriterebbe d’essere innestata in quello di fonte interna. In particolare, conformemente alla “clausola modello”, in tutte le Convenzioni fiscali vi è la specificazione delle imposte sui redditi – ed eventualmente di quelle sul patrimonio – che sono “coperte” dalle disposizioni convenzionali, con clausola di chiusura che amplia programmaticamente la sfera di applicazione alle imposte di natura identica o sostanzialmente analoga istituite in aggiunta o in sostituzione di quelle indicate. E’ ben evidente che la lista convenzionale può essere di ausilio per comprendere, ai fini interni, se un determinato tributo sia o meno assimilabile alle imposte sui redditi italiane, così come può suggerire il ricorso al credito d’imposta convenzionale nell’ipotesi – invero, di difficile verificazione – di un tributo estero ivi previsto che non sia assimilabile alle imposte italiane sui redditi, ma null’altro. 41 L’interpretazione restrittiva era stata fornita nella Circ. Min., 30 aprile 1977, n. 7/1496. La confusione di due piani distinti è evidente. Un conto è, infatti, la definitività del reddito perché non più suscettibile di rettifica, che implica la definitività delle imposte assolte; altro conto è il pagamento definitivo delle imposte dovute in base al reddito prodotto in un certo periodo d’imposta, ossia la condizione posta dalle normative sul foreign tax credit, che non implica l’immodificabilità del reddito sottoposto a prelievo. L’errore è stato compreso e l’interpretazione rettificata nella successiva Circ. Min., 8 febbraio 1980, n. 3/7/360. 42 In dottrina v., fra i molti, A. URICCHIO, op. cit., 123; M. INGROSSO, op.cit., 223; B. GANGEMI, op.cit., 61 e F. CROVATO, op.cit., 84; nonché, con specifico riferimento all’art. 165 in esame, R. CORDEIRO GUERRA, Il credito d’imposta per i redditi esteri e l’estensione del regime delle CFC ai soggetti “collegati”, in Atti del Convegno “La nuova imposta sulle società”, Milano, 12-13 Ottobre, 2004, 3-4 del dattiloscritto; S. MAYR, op.cit., 749; Gianl. MARINI, op.cit., 265 ss.. Il criterio enunciato nel testo - 17 - La prima condizione circoscrive – come detto – l’area di origine delle imposte estere rilevanti: nel caso di stabile organizzazione “estera” (ma la questione è di valenza più generale) si tratta di capire se, in base a tale condizione, sia possibile l’accreditamento, da parte del contribuente residente, delle imposte pagate su redditi aggregati nella stabile organizzazione ma prelevate in uno Stato diverso da quello di localizzazione della stessa. Facendo la disposizione riferimento – per ciascun reddito prodotto all’estero – alle “imposte ivi pagate (…) su tali redditi”, si ritiene che non qualsivoglia imposta pagata all’estero sia passibile di detrazione in sede di dichiarazione, ma che lo siano soltanto le “imposte ivi pagate”, dove l’“ivi” deve intendersi riferito allo Stato estero di produzione del reddito tassabile anche in Italia. A questa soluzione, già in altra sede anticipata, è stato obiettato che “la norma (…), quando parla di <<imposte ivi pagate>>, riferisce l’avverbio <<ivi>> al termine estero, cioè intendendo, genericamente, i tributi corrisposti al di fuori del territorio italiano” 43. Invero, se la connessione valorizzata è incontestabile nel limitato contesto letterale del 1° co., non si può dire altrettanto della soluzione interpretativa che ne discende, la quale non tiene conto del carattere “generale” della formula di accreditamento dettata dal citato 1° co. e risulta dissonante nel contesto sistematico della disciplina, che palesa – appunto – la correlazione “reddito prodotto in uno Stato - imposte pagate nel medesimo Stato”. Tanto emerge, ad esempio, dal criterio generale per country di determinazione della detrazione dell’imposta estera, di cui al 3° co., ove si sancisce che “Se concorrono redditi prodotti in più Stati esteri, la detrazione si applica separatamente per ciascuno Stato”. E, soprattutto, dal meccanismo di riporto in avanti e all’indietro dell’eccedenza dell’imposta estera, di cui al 6° co., ove si utilizza la stessa espressione del 1° co., qui in esame, ma con esplicitazione della suddetta correlazione: “Nel caso di reddito di reddito d’impresa prodotto (…) nello stesso Paese estero, l’imposta estera ivi pagata a titolo definitivo su tale reddito eccedente (…) costituisce un credito d’imposta fino a concorrenza dell’eccedenza [di segno opposto pregressa]” o, in mancanza, “può essere riportata a nuovo”. E’ evidente l’incompatibilità di tale regola con una soluzione che includa tra le imposte estere pagate sul reddito prodotto in uno Stato anche i tributi eventualmente assolti in uno Paese terzo. La detraibilità va riconosciuta, pertanto, alle sole imposte estere pagate nello Stato della fonte del reddito estero, che va naturalmente individuato secondo la regola prevista dal 2° co. dell’art. 16544, e non genericamente a tutti i tributi assolti al di fuori del territorio italiano e, dunque, anche a quelli pagati in uno Stato terzo: il problema del riconoscimento dei tributi eventualmente assolti in un Paese diverso non è naturalmente applicabile alle imposte estere che si considerano prelevate in base alle clausole sul matching credit o tax sparing contenute nelle Convenzioni fiscali, con riguardo alle quali la definitività deve ritenersi automaticamente maturata, e per la parte corrispondente, al verificarsi delle condizioni che comportano il sorgere del diritto a beneficiarne. 43 La soluzione interpretativa era stata anticipata nel saggio, Il credito per le imposte assolte all’estero, in F. TESAURO (opera diretta da), op.cit., 1074 ed è condivisa da G. MELIS., Art. 165 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, op. cit., 809. L’obiezione riportata è di R. BAGGIO, Il principio di territorialità, cit., 390, e ivi nota 279. 44 Conclude in questo senso anche S. MAYR, op.cit., 749. - 18 - dallo Stato della fonte del reddito, come potrebbe accadere in esame, va risolto da e in quest’ultimo Stato. Il credito d’imposta non può essere riconosciuto, dunque, per i tributi pagati dalla stabile organizzazione “estera” in Stati diversi da quello di localizzazione, quali potrebbero essere, ad esempio, le ritenute alla fonte prelevate dallo Stato terzo su dividendi, interessi o royalties provenienti da tale Stato e incassati dalla stabile organizzazione “estera” del contribuente residente. Lo stesso vale, altresì, per le ritenute alla fonte, le imposte sui redditi o le imposte sostitutive assolte in Italia dalla medesima stabile organizzazione “estera” per i redditi prodotti nel nostro Paese; e ciò a maggiore ragione se si considera che i tributi pagati in Italia non sono certamente “imposte estere”: ciò comporta il manifestarsi di una doppia imposizione sulla medesima ricchezza, che, ove non sterilizzata nel Paese estero di localizzazione della stabile organizzazione, non può essere eliminata con il credito d’imposta, ma soltanto per altra via45. Per quanto concerne il periodo di imposta di accreditamento delle imposte estere rilevanti, come sopra delimitate, il legislatore fiscale della riforma ha introdotto un nuovo criterio a “elasticità progressiva”, che consta di una regola generale, valevole per tutti i redditi, e una speciale, dedicata espressamente – come si è evidenziato all’inizio – ai redditi d’impresa prodotti mediante stabile organizzazione “estera” (oltre a quelli prodotti dal società estere consolidate)46. Questo nuovo criterio, scolpito nel 4° e 5° co. dell’art. 165, segna un radicale cambiamento di rotta, sostituendo la vecchia e iniqua disposizione dell’art. 15, 3° co. del vecchio T.U. – che imponeva l’effettuazione della detrazione, a “pena di decadenza”, nel periodo d’imposta di definitività del pagamento, a prescindere dal momento di denuncia dei redditi esteri – e determinando il passaggio dal criterio di cassa a quello di competenza, con una tolleranza maggiore, ma non ingiustificata, per i redditi delle stabili organizzazioni “estere”. La detrazione va effettuata, adesso, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui il reddito estero concorre alla formazione dell’imponibile, in base al criterio di imputazione temporale previsto per la relativa categoria di appartenenza. E ciò a prescindere dal momento di definitività del pagamento, purché tale condizione sussista, pena l’indetraibilità dell’imposta estera, entro la data di presentazione della medesima dichiarazione (con possibilità, dunque, di spingersi in avanti fino al termine di presentazione) ovvero, per i soli redditi d’impresa prodotti da stabili organizzazioni “estere” (o da società estere consolidate), entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo a quello di imputazione del reddito estero. L’esistenza soltanto di un “termine massimo” per la 45 Il problema potrebbe essere risolto mediante l’applicazione del divieto di doppia imposizione, esplicitato per le imposte sui redditi nell’art. 163 del T.U., quale principio generale dell’ordinamento tributario che trova copertura nell’art. 53 Cost.: cfr. M.C. FREGNI, Appunti in tema di doppia imposizione interna, in Riv. dir. fin., 1993, II, 19-20; MARELLO, Il divieto di doppia imposizione come principio generale del sistema tributario, in Giur. cost., 1997, 4131-4132 e D. STEVANATO, Divieto di doppia imposizione e capacità contributiva, in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 79-80. 46 La regola speciale che si va ad illustrare non vale per i redditi d’impresa prodotti dalle società estere controllate o collegate soggette alla “CFC rule”, sebbene, trattandosi di fattispecie similare, non sussistano apparenti ragioni che giustifichino la mancata inclusione e il conseguente diverso trattamento. - 19 - definitività del pagamento e la mancata riproduzione della sanzione della “decadenza” non precludono più l’accreditamento delle imposte estere pagate in via definitiva prima che il reddito estero concorra a formare l’imponibile, valorizzando e attuando in pieno la finalità dell’istituto perché evita l’ingiustificata – almeno sul piano logico – duplicazione internazionale della tassazione che il precedente criterio di cassa determinava. In base al nuovo sistema, sussistendo la definitività del pagamento, il periodo di competenza di computo delle imposte estere non può essere derogato; mancando la definitività del pagamento, il periodo di competenza di detrazione dei tributi esteri è giocoforza derogato, dovendosi spostare la detrazione alla dichiarazione del primo periodo di imposta successivo di avveramento di tale condizione47, a meno che non si tratti di redditi d’impresa prodotti mediante stabile organizzazione “estera” ( società estere consolidate). In via generale, infatti, le imposte estere aggregabili sono tutte (e solo) quelle che diventano irripetibili prima della data di presentazione della dichiarazione che accoglie i correlati redditi prodotti all’estero, con possibilità di attendere, quindi, fino al termine finale di presentazione della dichiarazione (4° co). In via eccezionale, per i redditi d’impresa prodotti da stabili organizzazioni “estere” (e società estere consolidate) assumono rilevanza i tributi assolti all’estero che non soddisfano la condizione della definitività del pagamento nel termine indicato ma che, in base a un giudizio prognostico, la soddisferanno entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta successivo (5° co): è riconosciuta, in altre parole, la facoltà di detrarre comunque le imposte nel periodo di competenza mediante annotazione nella dichiarazione del redditi48, se il contribuente prevede l’avveramento di tale condizione entro un anno dalla scadenza dell’ordinario termine massimo. Nel caso di redditi d’impresa prodotti mediante stabile organizzazione “estera” (o da società estere consolidate) la mancanza della definitività del pagamento pone, in altre parole, il contribuente residente di fronte alla scelta se esercitare la facoltà concessagli, nel quale caso scatta la fictio per cui i pagamenti non definitivi sono considerati definitivi e le imposte estere diventano immediatamente detraibili nel periodo di competenza, o attendere l’avveramento della condizione, nel quale caso vale quanto sopra detto. Questa maggiore tolleranza è stata verosimilmente accordata in considerazione del fatto che, spesso, nelle ipotesi considerate non vi è un’uniformità della durata del periodo d’imposta, con gli effetti conseguenti per gli adempimenti formali e sostanziali, e ciò, nella prospettiva dianzi esplicitata, rende “stretto” il termine previsto in via generale, ancora di più se il contribuente residente rientra fra i soggetti passivi dell’Ires per i quali – com’è noto – il periodo d’imposta è altrettanto flessibile. Occorre chiedersi, a questo punto, che cosa succede se, esercitata la facoltà prevista dal 5° co., per le imposte assolte sui redditi prodotti mediante stabile organizzazione “estera”, e accreditate nel periodo di competenza, la definitività del pagamento non sopraggiunga alla scadenza del più lungo termine previsto dalla citata disposizione, che in merito tace. 47 La detrazione avviene, in forza del rinvio operato dal 4° co., mediante la procedura di riliquidazione di cui al 7° co. 48 Condizione, questa, prevista nell’ultimo periodo del 5° co. - 20 - Contrariamente a quanto sostenuto da una parte della dottrina – e premessa la mancanza di un richiamo espresso al 7° co., relativo alla riliquidazione, da parte del 5° co. in esame – non si reputa che l’imposta possa essere pagata anche molto più tardi senza dovere recuperare la detrazione già operata49, né che sia possibile la restituzione delle somme corrispondenti alla detrazione rivelatasi ex post indebita50: nel silenzio del 5° co., la soluzione sistematicamente più corretta e coerente appare, infatti, il ricorso alla riliquidazione ai sensi del successivo 7° co. dell’art. 165, così da ripristinare la situazione che si sarebbe prodotta in assenza della detrazione rivelatasi indebita e da evitare, nel contempo, di falsare le eccedenze d’imposta riportabili e, per tale via, l’ammontare dei futuri crediti d’imposta che originano dalla loro compensazione51. 7. Le ragioni dell’applicabilità della disciplina sul riporto delle eccedenze ai non residenti con stabile organizzazione “italiana” (ancorché in apparenza esclusi) e la sorte delle imposte estere non recuperabili con tale meccanismo o, se ritenuto inapplicabile, in eccesso rispetto al credito d’imposta riconosciuto. – L’innovazione più significativa dell’art. 165, che è stata richiamata nel quinto paragrafo è senza dubbio il meccanismo previsto dal 6° co., che attribuisce rilevanza alle imposte estere in eccesso rispetto a quelle ammesse in detrazione, introdotto in attuazione del criterio direttivo di cui all’art. 4, 1° co., lett. l), della legge delega. Esso – come già anticipato – consente di porre rimedio, anche se non in modo assoluto, al principale limite dell’istituto nella sua vecchia conformazione, e cioè la definitiva perdita della totalità o di una porzione delle imposte assolte all’estero ogniqualvolta l’imposta italiana risulti in tutto o in parte incapiente, con una duplicazione internazionale del prelievo fiscale contraria alla finalità stessa del credito per le imposte estere. Il meccanismo disegnato dal legislatore fiscale della riforma è concettualmente semplice, sebbene la sua gestione si complichi non poco per effetto dell’interazione con i criteri di determinazione del rapporto frazionario di cui ai commi 1° e 3° dell’art. 165. In ispecie, le eccedenze d’imposta estera che emergono rispetto all’ammontare del tributo portato in detrazione costituiscono, nel contesto del meccanismo in esame, una sorta di credito d’imposta in pectore, che può diventare attuale o immediatamente o in un futuro prossimo in ragione dei “saldi d’imposizione” rinvenibili, in relazione al medesimo reddito estero, nell’arco dei sedici periodi di imposta a cavallo di quello di competenza52. 49 L’opinione riportata è di S. MAYR, op.cit., 751. 50 V., in tale senso, Gianl. MARINI, op.cit, 270, il quale osserva che “l’assenza sul punto di una specifica sanzione dovrebbe far ritiene dovuta la sola imposta indebitamente detratta, oltre agli interessi”. 51 Per la compiuta illustrazione degli argomenti a sostegno di tale conclusione, nonché per le varie soluzioni prospettabili in presenza di scenari ibridi relativamente alla definitività dei pagamenti, sia consentito rinviare, ancora una volta, all’opera monografica Contributo allo studio del credito per le imposte estere, cit., 160-162. 52 Per “saldo d’imposizione” s’intende la differenza fra le imposte assolte all’estero e la quota di imposta italiana relativamente a uno stesso reddito di fonte estera, che può dare luogo a un’eccedenza d’imposta estera, quando le prime superano la seconda, o a un’eccedenza d’imposta italiana, quando le prime sono inferiori alla seconda. - 21 - Con il riporto all’indietro, che va effettuato per primo, si rapporta l’eccedenza di imposta estera ai “saldi d’imposizione” relativi allo stesso reddito estero che si sono prodotti negli otto periodi di imposta anteriori a quello di competenza. Laddove, così procedendo, si riscontrino delle eccedenze d’imposta italiana, e cioè di segno opposto, l’eccedenza d’imposta estera oggetto di carry back si tramuta in un credito d’imposta “attuale” – con ciò intendendo un credito d’imposta immediatamente detraibile nel periodo di imposta di competenza – fino a concorrenza dell’ammontare delle eccedenze d’imposta italiana che sono state individuate. Con il riporto in avanti, che opera soltanto quando le eccedenze d’imposta italiana pregresse non esistono o sono inferiori all’ammontare dell’eccedenza d’imposta estera riportata all’indietro, si rinvia la compensazione dell’eccedenza d’imposta estera residua agli otto periodi di imposta successivi a quello di competenza. Se, in quest’arco di tempo, si formano dei “saldi d’imposizione” di segno opposto, l’eccedenza d’imposta estera si trasformerà in un credito d’imposta detraibile in misura pari alle eccedenze d’imposta italiana che emergono in ciascuno degli otto periodi d’imposta, fino a esaurimento. Il riporto all’indietro e in avanti delle eccedenze d’imposta estera si applica “nel caso di reddito d’impresa prodotto, da imprese residenti, nello stesso Paese estero”, nonché – ma questa parte non interessa la tematica oggetto di disamina – di “redditi d’impresa prodotti all’estero dalle singole società partecipanti al consolidato nazionale e mondiale, anche se residenti nello stesso paese, salvo quanto previsto dall’art. 136, comma 6”. Così definito, l’ambito operativo del meccanismo di riporto delle eccedenze risulta, se posto al cospetto della sfera generale di applicazione dell’istituto, più ristretto sul versante soggettivo e, all’interno di questi nuovi confini, sostanzialmente coincidente su quello oggettivo, per il quale, dunque, si rinvia alle osservazioni espresse nel paragrafo terzo. Quanto al profilo soggettivo, si nota immediatamente che il riporto delle eccedenze d’imposta estera è riservato ai soggetti passivi Irpef o Ires che si qualificano come imprenditori residenti, nonché alle società residenti che assumono la veste di consolidante in entrambi i regimi speciali di tassazione del gruppo. Sono esclusi, pertanto, tutti gli altri contribuenti, ancorché ammessi a beneficiare del credito per le imposte estere in quanto rientranti nel novero dei destinatari della disciplina di cui all’art. 165. Fra i contribuenti esclusi vi sono anche i soggetti passivi dell’Irpef o dell’Ires non residenti che esercitano un’attività commerciale mediante una stabile organizzazione “italiana”, per i quali – come si è dimostrato nel secondo paragrafo – la stabile organizzazione “italiana” ha un effetto costitutivo di quella particolare situazione giuridica, normalmente propria dei residenti, che è il diritto di detrarre le imposte assolte all’estero sui suddetti redditi. La ragione di tale esclusione è da ricercare nella formulazione 6° co.: i contribuenti in questione rivestono sì la qualifica di imprenditori, costituendo la stabile organizzazione “l’elemento esternamente rilevante dell’esistenza della impresa nel territorio dello Stato”53, ma non sono residenti, essendo impossibile configurare una residenza fiscale della stabile organizzazione autonoma e diversa da quella del soggetto estero cui appartiene. 53 In questi termini sintetici ma efficaci, D. STEVANATO, Inizio e cessazione dell’impresa nel diritto tributario, Padova 1994, 103-104. - 22 - Invero, per le ragioni che si vanno subito a illustrare, l’esistenza della qualità di imprenditore in capo ai soggetti passivi non residenti si reputa sufficiente per l’accesso anche al meccanismo di riporto delle eccedenze d’imposta, configurandosi nella specie la residenza italiana alla stregua di un requisito sostanziale e non formale54. Tanto si ricava dalla stessa lettera della disposizione, che pone al centro della condizione di accesso non tanto la residenza fiscale in Italia dell’impresa che produce il reddito di fonte estera, quanto l’esistenza di un “reddito d’impresa prodotto, da imprese residenti, nello stesso paese estero”, ossia la produzione all’estero di un reddito che si qualifichi come reddito d’impresa secondo la normativa fiscale italiana: ebbene, in base a quest’ultima il reddito prodotto da una stabile organizzazione “italiana” di un soggetto non residente è reddito d’impresa e va determinato – come si è visto nel paragrafo quinto – secondo le regole previste per le società e gli enti commerciali residenti. Nel contesto normativo in esame la locuzione “residente”, accanto a quella di “impresa”, non va ricondotta all’interno della nozione formale di residenza fiscale, ma va interpretata, almeno in via residuale, come esercizio effettivo nel territorio dello Stato di un’attività imprenditoriale. Diversamente opinando, peraltro, la condizione si porrebbe in contrasto con il divieto di discriminazione previsto dall’art. 24 delle Convenzioni concluse dall’Italia e conformi al “Modello Ocse” (determinando un trattamento fiscale della stabile organizzazione “italiana” meno favorevole rispetto a quello riservato alle imprese residenti)55, e risulterebbe altresì incompatibile con il diritto europeo primario, configurando, a seconda dei casi, una restrizione alla libertà di stabilimento (a parità di condizioni sostanziali, non permette il riconoscimento alla stabile organizzazione di un trattamento fiscale analogo a quello previsto per le società residenti) o una restrizione alla libera circolazione dei capitali (effetto di dissuasione per i non residenti dall’investire i propri capitali, sotto forma di conferimento, in società 54 In tale senso, richiamando precedenti di prassi recanti un’identica conclusione in casi diversi, R. MICHELUTTI, Aspetti problematici in tema di riporto delle eccedenze di crediti per imposte estere, in Corr. trib., 2005, 2135, per il quale “considerando che l’Amministrazione finanziaria, con la C.M. 19 dicembre 1997, n. 320/E, ai fini dell’affrancamento gratuito del disavanzo da annullamento, ha già mostrato di equiparare la stabile organizzazione alla società residente in presenza dell’identica locuzione normativa (<<impresa residente>>) contenuta nell’art. 6, comma 2, del D. Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, il regime del riporto delle eccedenze dovrebbe ritenersi spettante anche alle stabili organizzazioni di soggetti non residenti, superando il mero dato letterale”. In senso contrario, Gianl. MARINI, op.cit., 289, secondo cui il riporto delle eccedenze “viene limitato alle sole imprese residenti, con preclusione quindi per le stabili organizzazioni in Italia di imprese non residenti (…). Sembra invece più corretto ritenere che il riferimento alle imprese residenti nella norma sia superfluo in quanto la stabile organizzazione in Italia di una soggetto non residente non potrebbe beneficiare del credito d’imposta che spetta solo per i redditi prodotti all’estero”: per la confutazione di questo argomento v. retro par. 3. 55 Cfr. COMMENTARIO, sub art. 24, par. 49, ove, proprio con riferimento al credito per le imposte estere, si afferma che “when a permanent establishment receives foreign income which is included in its taxable profits, it is right by virtue of the same principle to grant to the permanent establishment credit for foreign tax borne by such income when such credit is granted to resident enterprises under domestic laws”. Su questa clausola del “Modello Ocse”, e con specifico riferimento al divieto di discriminazione nei confronti delle stabili organizzazioni, v. F. AMATUCCI, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 2003, 77 ss. e K. VAN RAAD, Non discrimination in International Tax Law, Kluwer, Deventer, 1986, 140 ss. - 23 - residenti che sono o possono essere trasparenti ai fini fiscali) contraria, in ogni caso, al Trattati europei56. Rimane da affrontare un ultimo problema, che è quello della sorte delle eventuali imposte estere non recuperabili con il meccanismo del riporto delle eccedenze, il quale è di particolare interesse per la stabile organizzazione “italiana” di soggetto non residente, per la seguente ragione. Siccome la stabile organizzazione “italiana” fa sorgere, in capo al soggetto non residente cui appartiene, il diritto di detrarre le imposte assolte sui redditi prodotti all’estero e confluiti nel reddito imponibile della stessa, se dovesse affermarsi – in luogo di quella sostenuta in questa sede – l’interpretazione formalistica e restrittiva dell’inapplicabilità a tali soggetti del riporto delle eccedenze, il problema della sorte delle imposte estere irrecuperabili si porrebbe, con riguardo alla stabile organizzazione “italiana” di soggetto non residenti, per tutte quelle in eccesso rispetto al credito d’imposta riconosciuto, che sono – com’è evidente – quantitativamente ben più ampie di quelle in eccesso dopo l’applicazione del riporto delle eccedenze. Tanto chiarito, si tratta di capire se, in assenza di una disciplina specifica, le imposte estere eccedentarie siano, nell’una e nell’altra ipotesi interpretativa, irrecuperabili in maniera definitiva. Una conclusione in tale senso non pare necessitata. E ciò perché, se le eccedenze d’imposta estera non compensate si configurano alla stregua di un costo imputabile a conto economico, in ossequio al principio di dipendenza parziale – il quale governa la determinazione del reddito d’impresa che è, come detto, il reddito proprio della stabile organizzazione “italiana” – tale costo è destinato a trasmigrare e a essere accolto immutato in ambito tributario. In particolare, l’assenza di una regolamentazione fiscale della fattispecie fa sì che in questa ipotesi non vi sia alcun aggiustamento da apportare al risultato emergente dal bilancio e, dunque, che l’onere appostato nel conto economico concorra nella sua configurazione civilistica alla formazione del reddito d’impresa. Tanto più che, soddisfatto il principio della previa imputazione a conto economico, nessun dubbio 56 Sulla neutralità dell’ordinamento tributario nazionale rispetto alle forme giuridiche di insediamento in un determinato “Paese UE”, quale condizione imposta dalla libertà di stabilimento, la giurisprudenza della Corte di giustizia è copiosa: cfr., tra le altre, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Avoir Fiscal, in Racc., 1986, punto 18; sentenza 13 luglio 1993, causa 330/91, Commerzbank, in Racc., 1993, I-4017, punto 13; sentenza 15 maggio 1997, causa 250/95, Futura and Singer, in Racc., 1997, I-2471; punti 18-22; sentenza 29 aprile 1999, causa 311/97, Royal Bank of Scotland, in Racc., 1999, I-2651, punti 22-23; sentenza 21 settembre 1999, causa 307/97, Saint-Gobain, in Racc., 1999, I-6163, punto 34; sentenza 14 dicembre 2000, causa 141/99, AMID, in Racc., 2000, I-11619, punto 23. Sulla censurabilità delle norme tributarie interne che producono l’effetto di dissuadere i residenti di uno Stato membro dall’investire i loro capitali in società aventi sede in un altro Stato membro, è particolarmente significativa, fra le molte, la sentenza 6 giugno 2000, causa 35/98, Verkooijen, in Racc., 2000, I-4073. Nella dottrina italiana, per la disamina della giurisprudenza europea sulle predette libertà e l’affermazione del principio di non restrizione, nonché per la ricostruzione delle libertà europee in rapporto al principio di non restrizione fiscale e l’incidenza sulle politiche tributarie, si vedano P. BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2010, 133 ss. e M. BASILAVECCHIA, L’evoluzione della politica fiscale dell’Unione europea, in Riv. dir. trib., 2009, I, 361 ss. (spec. 379); L. DEL FEDERICO, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010 53 ss. e 96 ss. e, da ultimo, P. LAROMA JEZZI, Integrazione negativa e fiscalità diretta. L’impatto delle libertà fondamentali sui sistemi tributari dell’Unione europea, Pisa, 212, 24 ss. - 24 - sussiste in ordine alla certezza e obiettiva determinabilità del componente negativo in esame e alla sua inerenza all’attività imprenditoriale. Ma se tutto ciò è vero, si può anche generalizzare e sostenere che, “per i redditi d’impresa, basati sul principio di globalità e di determinazione differenziale, l’imposta estera non accreditabile attraverso il credito d’imposta ha concettualmente natura di elemento negativo di reddito”57, riconoscendo la deducibilità fiscale dei tributi esteri indetraibili per difetto di una qualsiasi delle condizioni, previste dall’art. 165, che ne consentono l’accredito58. L’unico ostacolo a questa soluzione, più che sostenibile in chiave logico-sistematica, potrebbe essere costituito – come taluni sostengono59 – dall’art. 99 del T.U., in forza del quale “le imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento”. In tale senso un vecchio pronunciamento della prassi, in cui si asserisce che l’eventuale imposta estera in eccesso “non può essere detratta dal reddito d’impresa della beneficiaria nazionale (…) perché a ciò osta il preciso disposto legislativo”60, facendo implicito riferimento alla corrispondente norma del D.P.R. 597, che si esprimeva negli stessi termini61. 57 Così, R. LUPI, Rapporti internazionali, cit., 150, 58 Questa conclusione è in sintonia con la ricostruzione dogmatica di G. FRANSONI, Il sistema dell’imposta sul reddito, in P. RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2009, 93, il quale, muovendo dalla premessa che il vero significato del credito d’imposta sarebbe quello di concedere un incentivo alle imprese che operano all’estero da parte dei Paesi esportatori di capitali, sostiene che “l’imposta applicata da un altro Stato dovrebbe rilevare tutt’al più per lo Stato impositore come un <<costo>> della produzione, cosicché la concessione di un abbattimento dell’imposta svolge una funzione premiale o incentivante”. 59 Cfr. S. MAYR, op.cit., 746 e 748, e Gianl. MARINI, op.cit., 285. 60 Cfr. Ris. Min., 31 luglio 1982, n. 12/1548, in cui l’affermazione riportata è accompagnata da due ulteriori argomentazioni: la deduzione fiscale va negata altresì “perché detta eccedenza costituisce in ogni caso costo indeducibile per l’impresa secondo la legislazione nazionale, sia perché infine essa andrebbe in effetti ad essere sopportata non già dal contribuente bensì dall’Erario”. Qualche osservazione in merito. La prima delle due argomentazioni è destituita di ogni fondamento, ma lo era anche nel contesto normativo dell’epoca che permetteva una ricostruzione analoga a quella effettuata e in grado di legittimare sul piano sistematico la deducibilità delle imposte estere non accreditate. La seconda è fuori bersaglio: ove la deducibilità fiscale dovesse essere ritenuta non incompatibile con il sistema, il fatto che essa determini una riduzione delle imposte dovute in Italia – e che dunque lo Stato rimanga inciso, in modo indiretto e in misura corrispondente, dalle predette imposte estere – non può portare alla sua negazione, poiché, altrimenti, si dovrebbe negare la deducibilità di tutti i componenti negativi di reddito fiscalmente riconosciuti, senza considerare la violazione del principio di capacità contributiva che ne discenderebbe. E’ il caso di segnalare che, prima della sua classificazione come imposta sui redditi accreditabile, la c.d. taxe forfetaire algerina era stata assimilata dalla prassi a un costo di produzione del reddito estero e come tale ammessa in deduzione ai fini fiscali nel nostro Paese: cfr. Ris. Min., 12 marzo 1979, n. 9/146. 61 Si tratta dell’art. 61, il cui contenuto, per la parte di nostro interesse, è stato trasfuso nel 1° co. dell’art. 64 del vecchio T.U., e coincide con l’odierna formulazione dell’art. 99, 1° co., riportato nel testo. Sono ancora attuali, pertanto, le disamine compiute da S. SAMMARTINO, La deducibilità delle spese e la nozione di <<costo dei beni>>, in V. UCKMAR, C. MAGNANI e G. MARONGIU, (coordinato da), Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 603 ss. e L. DEL FEDERICO, Oneri fiscali e contributivi ed accantonamenti per imposte e tasse, in F. TESAURO (diretta da), Giur. sist. dir. trib. L’imposta sul reddito delle persone fisiche, t. II, cit., 721 ss., cui si rinvia. Dopo la riforma fiscale, V. - 25 - Questa ipotesi interpretativa è tuttavia da rigettare in quanto poggia su un presupposto che si reputa errato, e cioè che le “imposte sui redditi” rilevanti agli effetti della regola in esame siano le imposte tanto italiane quanto estere. La ratio della disposizione è, invero, quella di evitare che l’imposta applicata su un determinato reddito imponibile possa essere allo stesso tempo configurata come un onere di produzione senza ontologicamente esserlo, determinando un’indebita riduzione dell’indice di capacita contributiva soggetto a prelievo e la conseguente violazione dell’art. 53 della Cost.: in sostanza, un’imposta sui redditi non può mai essere in contemporanea mezzo di prelievo ed elemento della base da cui si preleva. Tutto ciò, se può verificarsi in astratto per le imposte italiane, non può accadere per le imposte estere prelevate nello Stato di produzione dei redditi imponibili, le quali, per la parte non ammessa in detrazione in Italia, riducono effettivamente il reddito imponibile prodotto e, dunque, si configurano alla stregua di un costo di produzione che, per quanto peculiare, incide sulla capacità contributiva del contribuente. In definitiva, e in modo esplicito, l’art. 99, 1° co., del T.U. si rivolge alle sole imposte italiane sui redditi: “nell’ottica dello stato italiano, infatti, il proprio tributo sui redditi non costituisce un costo di produzione del reddito stesso, ma una sua forma di erogazione, cioè di ripartizione del reddito tra contribuente e stato. Il prelievo tributario estero si colloca invece a monte della produzione del reddito in Italia, e pertanto dovrebbe concettualmente essere ammesso in deduzione nella parte in cui non riesce ad essere accreditato”62. Questa conclusione, una volta condivisa la premessa, trova anche conforto nello stesso 1° co. dell’art. 99: se le imposte sui redditi menzionate nel primo periodo sono soltanto quelle italiane, le imposte estere sui redditi non accreditate in Italia ricadono giocoforza tra le “altre imposte” del secondo periodo, le quali “sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento”63. MASTROIACOVO, Art. 99 - Oneri fiscali e contributivi, in G. TINELLI, (a cura di), Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, Padova, 2009, 841 ss. 62 Così, ancora, R. LUPI, Rapporti internazionali, cit., 150. 63 Ammette la deducibilità dei tributi esteri che dovessero risultare indetraibili, in applicazione della disciplina di cui art. 165, anche G. MAISTO, Deducibilità dei tributi esteri e qualificazione dei rapporti giuridici redditi dal diritto straniero, in Riv. dir. trib., 2013, I, 41 ss., ma facendola discendere dall’effetto combinato del “principio di omologazione” (si sostiene che il riferimento della normativa fiscale nazionale ad “imposte sui redditi” o “altre imposte” non ricomprenda anche i tributi prelevati in altri Stati), che comporterebbe l’inapplicabilità dell’art. 99, e dall’inerenza conseguente alla connessione alle attività d’impresa esercitate dal soggetto passivo. - 26 -