IRAN: SEGNALI DI PERICOLO PER AHMADINEJAD
Venerdì 25 Gennaio 2008 14:30
di Eugenio Roscini Vitali
Il National intelligence estimate (Nie), il rapporto pubblicato il 3 dicembre scorso dalle 16
maggiori agenzie americane di spionaggio, ha stabilito in modo inequivocabile l’avvenuta
sospensione del programma atomico iraniano, un progetto che le autorità di Teheran non
dovrebbero riprendere prima di tre-cinque anni. Il giudizio del Nie contrasta con le dichiarazioni
del presidente Bush che, comunque, non riduce la portata del pericolo sul nucleare e spinge
affinché la comunità internazionale aumenti le pressioni sul regime di Mahmoud Ahmadinejad.
Pur allontanando la minaccia di un conflitto, il rapporto compromette soprattutto i delicati
equilibri politici iraniani, ed in particolar modo danneggia l’attuale leadership che, a pochi mesi
dalle elezioni legislative, deve confrontarsi con i problemi del Paese. Anche se sembra assurdo,
il Nie potrebbe riuscire là dove intimidazioni e sanzioni hanno fallito: mettere in crisi l’ex sindaco
di Teheran; dimostrando allo stesso tempo che il cambiamento c’è, esiste e non sempre è
necessaria una guerra. E così, l’Iran che si prospetta è un Paese spaccato tra simbolismo e
modernizzazione, tra rivoluzione e controrivoluzione, tra principi khomeinisti e riformismo, tra
religione e Stato. Nei prossimi mesi Ahmadinejad dovrà affrontare le contraddittorie promesse
elettorali fatte nel 2005; rendere conto delle difficili condizioni in cui versa l’economia nazionale;
scontrarsi con la contestazione studentesca cresciuta nelle università, luogo da sempre critico e
avverso al partito dei militari; ricucire i rapporti con l’Ayatollah Ali Khamenei, la Guida suprema
che lo ha sempre sostenuto e difeso dall’attacco e dalle critiche dell’opposizione.
L’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad ha iniziato la sua scalata ai massimi vertici della
Repubblica Islamica con l’elezione del 2004 a sindaco di Teheran. L’anno successivo, puntando
sul clero radicale, sui basij, le forze di mobilitazione della resistenza e sui mostazafin, i
diseredati, viene eletto presidente della Repubblica. Una vittoria clamorosa che sorprende
l’opinione pubblica soprattutto per le dimensioni: più del 60% delle preferenze. Un trionfo che si
basa sul richiamo ai valori dell’ideologia rivoluzionaria, sulla guerra alla corruzione e su un patto
sociale che prevede la redistribuzione ai ceti più poveri dei proventi derivanti dalla vendita delle
risorse energetiche. Ma la vittoria dipende soprattutto dall’astensionismo dell’elettorato
riformista, che di fatto nega il proprio appoggio ai conservatori pragmatici dell'ex presidente
Akbar Hashemi Rafsanjani.
Pragmatici e riformisti, il cui massimo esponente è sicuramente Seyyed Mohammad Kh?tami,
quinto presidente iraniano eletto per due mandati consecutivi, condividono una stessa visione
della politica economica, mirante ad una macro-economia liberista e ad una maggior
industrializzazione del Paese. Lontani dall’immobilismo religioso e dall’oltranzismo
rivoluzionario puntano alla modernizzazione istituzionale e si dichiarano ostili verso una
radicalizzazione dello scontro con l’occidente. Quello che li divide è la posizione che assumono
i riformisti sull’esperienza rivoluzionaria che non rinnegano ma che non pongono come freno ad
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una revisione completa della struttura politica di un regime ancora agganciato agli ideologismi
khomeinisti.
Anche se agli occhi di molti l’Iran sembra un granitico monolite sciita avulso da qualsiasi
contestazione interna, i contrasti sono molti e spesso aspri. Durante i due anni e mezzo di
presidenza, Ahmadinejad ha subito numerosi attacchi, portatigli dell’elite intellettuale, dai
moderati, da una parte del clero e dall’opposizione, sempre critica e mai doma; attacchi elusi
grazie ad un sapiente utilizzo della minaccia americana e dall’interventi dell’Ayatollah Khamenei
che non si è mai risparmiato nel difendere pubblicamente il programma politico dell’attuale
regime. Ora che il pericolo del “Grande Satana” sembra essersi dileguato e che non è più
necessario inneggiare all’unità nazionale, la Guida suprema potrebbe però voltare pagina.
Profondamente deluso per la situazione economica del Paese e preoccupato per l’eccessivo
potere raggiunto da pasdaran e basij, Khamenei potrebbe appoggiare la modernizzazione e
favorire nuove alleanze di potere.
Recentemente sono accaduti due fatti di rilievo che danno l’esatta misura della crisi interna:
Khamenei è intervenuto in prima persona nominando Mohammad Zolghadr, vice ministro
dell’Interno licenziato lo scorso dicembre dallo stesso Ahmadinejad, al vertice del Corpo dei
basij; ultimamente l’ex capo negoziatore iraniano sul nucleare, Ali Larijani, personaggio politico
vicino alla Guida suprema, si è recato al Cairo per incontrare il ministro degli Esteri egiziano,
Ahmed Aboul Gheit. L’incontro, volto a riallacciare i legami con l’Egitto interrotti dopo la firma
degli accordi di pace israelo-egiziani del 1979, non sarebbe stato molto apprezzato dal
presidente che, da quanto pubblicato sul New York Times, non ha perso l’occasione per
ricordare al Paese che il governo ha un suo ministro degli Esteri.
Negli ultimi due anni Ahmadinejad ha subito una serie di sconfitte elettorali che denotano
l’attuale crisi del dogmatismo ideologico radicale: il rinnovo dei consigli municipali, l’Assemblea
degli Esperti e l’elezione del suo stesso Capo sono un campanello d’allarme che non può
essere ignorato, soprattutto in previsione delle legislative il 14 marzo 2008. La crisi politica che
potrebbe scaturire da una nuova debacle riaprirebbe una questione fondamentale: mantenere
in vita il culto della rivoluzione e dei suoi miti fondativi o riprendere la via tracciata da Khatami,
che punta a uno Stato islamico fondato sul pluralismo politico e religioso e sul confronto
culturale e di pensiero con l’Occidente come risposta allo scontro di civiltà.
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