ISTITUTO STUDI RICERCHE
INFORMAZIONI DIFESA
DANIELE CELLAMARE, ROBERTO ANGIUONI
L'IMPATTO DEI SOCIAL
NETWORK SULLA COMUNITA'
GIOVANILE ISLAMICA
A CURA DI DANIELE CELLAMARE
2012
INDICE
1. Introduzione alla comunicazione di massa
2. La stampa e la televisione nel panorama arabo-islamico
3. La diffusione di internet, tra potenzialità e censure
4. Media e Sicurezza
5. Comunicazione e social network nel Nord Africa e nel Grande
Medio Oriente
6. Media e social network un anno dopo la Primavera Araba
7. Il caso siriano
8. L’ascesa di Ahmadinejad e l’onda verde iraniana
Appendice. Innocence of Muslim: i giovani arabi s’infiammano
Schede
Bibliografia
Gli autori
Capitolo Primo
Introduzione alla comunicazione di massa
L’insieme dei mezzi per diffondere e divulgare messaggi di diverso valore a un pubblico
anonimo, indifferenziato e disperso (Enciclopedia Italiana Treccani), noti come mass
media1, sono oggetto di studio, polemiche e dibattiti da diversi decenni.
Cartelloni pubblicitari, manifesti murali, stampe popolari, giornali e, avvicinandoci ai
nostri giorni, radio, televisione ed internet, hanno segnato la quotidianità e la vita di intere
generazioni di uomini.
L’esigenza di comunicare con la moltitudine degli individui (recettori), con l’obiettivo di
coinvolgerli, informarli, plasmarli, ha radici antiche, ma è con l’Illuminismo e la
Rivoluzione Industriale che il bisogno di diffondere il sapere e di scuotere le masse si fa
più concreto e incisivo.
Il Professor Paolo Vidali propone una periodizzazione dello sviluppo della media che tenga
conto di quattro fasi:
Primo periodo (1880-1925): sviluppo delle tecnologie moderne, prima formazione
del pubblico di massa, prima definizione di generi e linguaggi (cinema, rotocalco,
radio, generi musicali);
 Secondo periodo (1925-1975): maggior presenza dello stato, affermazione
dell’industria radiotelevisiva, televisiva, delle grandi imprese editoriali,
cinematografiche, musicali;
 Terzo periodo (da 1975 ad oggi): nascita di imprese multimediali, uso massiccio di
tecniche informatiche, integrazione con le imprese di telecomunicazione;
 Quarto periodo (in previsione): intensificazione dei self-media, personalizzazione
della domanda e dell’offerta comunicativa, stretta integrazione multimediale, unico
mercato dei prodotti di massa.

Oggi il giornale e la libertà di stampa sono i capisaldi delle democrazie più avanzate.
Giornali e giornalisti costituiscono quello che è comunemente indicato come "il quarto
potere". L'importanza del giornale nella nostra società è tale che un importantissimo
filosofo, uno dei pilastri del pensiero occidentale, il tedesco Hegel, scrisse nell'Ottocento:
"la lettura del quotidiano è la preghiera del mattino dell'uomo moderno".
Oggi l'offerta di giornali, in tutto il mondo è più che ricca ed è in grado di soddisfare
qualsiasi tipo di bisogno informativo e culturale. Tra le poche realtà che limitano
l’informazione cartacea figurano però i regimi islamici, che avversano la libera stampa,
scorgendo in essa un grave pericolo per la loro sopravvivenza e per la perpetuazione del
potere.
La stampa nazionale e internazionale vive oggi un periodo di profonda crisi, iniziato con
l'avvento di nuovi media come la radio e la televisione e acuitosi con la grande rivoluzione
1
"Mass medium" e il suo plurale "mass media" sono locuzioni mutuate dalla lingua inglese dove sono nate
come unione della parola inglese "mass" (in italiano "massa") con le parola latine "medium" e "media"
(Wikipedia)
digitale degli ultimi decenni e l'affermarsi di internet. Molte testate faticano a
riorganizzarsi e temono di ritrovarsi al più presto con i conti in rosso.
È per questo motivo che l’informazione cartacea si è spostata progressivamente sulla rete.
I siti internet dei giornali sono tra i più vivaci e cliccati e le giovani generazioni sembrano
prediligere questo modo di informarsi rapido, aggiornato e spesso gratuito.
L'affermarsi di blog e di siti giornalistici indipendenti sul web indicano che stiamo
andando verso un'ulteriore diffusione delle conoscenze e delle informazioni, persino verso
un interessante sviluppo dell'informazione locale.
Tramite i forum aperti dalle testate digitali, i cittadini possono portare testimonianze e
dibattere sui più importanti problemi internazionali, nazionali e locali, come mai era
avvenuto in passato. Nondimeno, la facilità con cui si può comunicare in rete, la possibilità
di inserire su internet (quando non interviene la censura dall’alto) qualunque tipo di notizia
omettendo fonti e riscontri oggettivi apre pericolosi scenari d’incertezza sugli effetti che
una tale informazione “libera” può generare.
Il web non produce solo democrazia e piena fruibilità del diritto di opinione, ma comporta
parimenti l’apertura di nuovi spazi di propaganda e reclutamento a vantaggio di chi la
democrazia la combatte e la ignora.
I nuovi media, nel garantire l’informazione grazie alla possibilità di sfruttare le nuove
tecnologie di trasmissione satellitare e digitale, sono in grado di raggiungere ogni angolo
del pianeta veicolando immagini e messaggi di terrore, spettacolarizzando i contenuti e
conferendo quindi una visibilità inedita. Così, proprio gli strumenti d’informazione e
comunicazione, dai più considerati le nostre bandiere di libertà e democrazia, diventano la
principale arma nelle mani dei terroristi per destabilizzare le società occidentali.
Internet si trova, in tal senso, al centro di uno scontro geopolitico i cui sviluppi sono tutti
ancora da scrivere. Secondo Reportes sans frontières, la libertà dei cibernauti oggi è
minacciata in paesi come Cina, Corea del Nord, Cuba, Iran, Arabia Saudita, Bahrein,
Vietnam e Siria. Sarebbero invece sotto osservazione Egitto, India, Tunisia, Thailandia,
Turchia, Russia, Malaysia, Sri Lanka, Corea del Sud, Australia e Francia.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, usano il web per promuovere i diritti universali o più
concretamente per sostenere cause amiche in territori ostili, come è accaduto in Libia – per
sostenere i ribelli nella lotta contro il raìs – o in Siria, contro Bashar al-Assad.
Tra gli strumenti più utilizzati nel conflitto geopolitico rientrano quelli propri del web 2.0,
come Twitter, Facebook e gli altri social network. La rivoluzione verde in Iran2 e la Twitter
revolution in Moldova nel 2009, le primavere arabe del 2011 hanno dimostrato quale
impatto possano avere i social network sui giovani e sulla lettura dell’opinione pubblica
2
Secondo alcuni analisti, la “Rivoluzione Verde” del 2009 in Iran o la "Rivoluzione di Twitter" (come
l’hanno descritta il «Washington Times» e la «Bbc World Service») sarebbe in realtà un enorme bluff. A
differenza del famoso scrittore Clay Shirky che ha dichiarato “È questa. La più grande. Questa è la prima
rivoluzione ad essere catapultata su un palcoscenico globale e trasformata dai social media", Eugeny
Morozov, nel suo libro “The Net Delusion” dimostra che, in base all’analisi effettuata da Sysomos (una
società di analisi dei social media), solo 19.235 contatti Twitter erano registrati in Iran (cioè lo 0,027% della
popolazione) alla vigilia delle elezioni del 2009" In altre parole, così come Hamid Tehrani, il direttore
iraniano di «Global Voices», disse un anno dopo: "L'Occidente si è focalizzato non sul popolo iraniano, ma
sul ruolo della tecnologia occidentale. Twitter è stato importante nel pubblicizzare ciò che accadeva, ma il
suo ruolo è stato sovrastimato".
internazionale circa gli sconvolgimenti in aree geograficamente lontane e politicamente
ermetiche.
Il Dipartimento americano, impegnato da anni in una laboriosa ricerca su Twitter
diplomacy ha riconosciuto di aver stanziato, tra il 2008 e il 2011 e insieme all’agenzia
Usaid3, circa settantasei milioni di dollari per promuovere l’Internet freedom in Medio
Oriente. Nel 2012 i finanziamenti americani per la democratizzazione tecnologica in Siria
e nelle aree critiche ha raggiunto i venticinque milioni di dollari. In Iran, l’amministrazione
Obama ha esentato dall’embargo economico e commerciale imposto da Washington a
Teheran alcune tecnologie e servizi informatici che possono favorire il “libero flusso di
informazioni ai cittadini dell’Iran”.
Secondo Luca Mainoldi4,
il web 2.0 è stato integrato nelle strategie di intelligence, psicologiche e militari
americane. Esso è allo stesso tempo fonte di informazioni, anche militari, e un luogo
dove esercitare sofisticate operazioni informative-disinformative e psicologiche.
Anche sul piano interno, come proposto da un consulente di Obama, Cass Sunstein,
che parla di “infiltrazione cognitiva” dei gruppi estremisti. Tra questi, secondo
Sunstein, vi sono quelli che professano teorie cospirative sul web (…).
Il controcanto alla promozione dell’Internet Freedom da parte del Dipartimento di
Stato è pertanto la costituzione da parte del Pentagono del CyberCommand, incaricato
di condurre azioni difensive ed offensive nello spazio cibernetico, centrate su un
imponente apparato di sorveglianza delle comunicazioni interne e internazionali
basato sulla Nsa.
Chi si sorprende per quest’uso politico, o se vogliamo bellicistico, della rete forse ignora
che internet nasce nel corso della guerra fredda, e per la guerra fredda.
Il 4 ottobre 1957 i sovietici lanciavano lo Sputnik, il primo satellite artificiale messo in
orbita intorno alla terra. In risposta a questa notizia, che colse di sorpresa gli Usa,
Eisenhower istituì l’Agenzia per i progetti di ricerca avanzata della Difesa (Arpa) con
l’obiettivo di surclassare l’avanzamento tecnologico dei russi.
Leonard Kleinrock5 ha spiegato che una delle sezioni che componevano l’Arpa era
l’Information Processing Techniques Office (Ipto) che finanziava la ricerca in campo
informatico e che, fin dalla sua formazione, conseguì enormi passi avanti nell’area del
time-sharing, l’uso interattivo del processore, del computer networking, della trasmissione
a pacchetto dei dati via satellite e via radio; dell’intelligenza artificiale; dell’elaborazione
digitale dei segnali; del calcolo a elevate prestazioni; dell’ipertesto.
Licklider – che ebbe per primo l’idea di collegare tra loro alcuni computer per moltiplicare
la ricezione delle informazioni, così come lo stesso Kleinrock – che mise a punto la teoria
3
L’agenzia «Usaid», che opera in Russia dalla caduta dell'Urss con dieci diplomatici americani e sessanta
impiegati russi, e che ha speso fino ai nostri giorni circa 2,6 miliardi di dollari in programmi per combattere il
disagio, proteggere l'ambiente, rafforzare la società civile, modernizzare l'economia, è stata espulsa nel
settembre 2012 dal territorio russo. L'espulsione di Usaid rientra in un piano del Cremlino per tagliare i fondi
a quelle organizzazioni che il presidente Putin percepisce come una minaccia. Il ministro degli Esteri russo
ha affermato che quelle come Usaid “sono organizzazioni che, attraverso la distribuzione di fondi, cercano di
influenzare i processi politici a vari livelli, comprese le elezioni e la società civile”.
4
Luca Mainoldi, I Padroni di Internet, in Limes, anno 4, n.1, aprile 2012.
5
Leonard Kleinrock, Ho inventato la Rete (e vi spiego come cambierà), in Limes, anno 4, n.1, aprile 2012.
matematica dei pacchetti delle reti – posero le basi per la creazione di internet, all’inizio
degli anni Sessanta.
Nel 1963. l’ingegnere Ivan Sutherland propose la creazione di un network a tre nodi che
avrebbe dovuto collegare tre identici Ibm situati in altrettanti dipartimenti del campus
dell’Università di California di Los Angeles (Ucla) e nel 1966 lo scienziato texano Robert
Taylor riconobbe immediatamente la necessità di realizzare un intranet che connettesse
diversi computer, per consentire la condivisione tra di loro di hardware, software ed
applicazioni. Nel 1967, Larry Roberts lanciò una gara d’appalto sulla progettazione
dell’Arpanet e il contratto fu assegnato nel dicembre 1968 alla società di Cambridge Bolt,
Beranek e Newman (Bbn). La società elaborò il primo router – il dispositivo elettronico
che si occupa di estradare i dati in una rete informatica a commutazione di pacchetto – in
tempi record.
Un importante passo in avanti (Leonard Kleirock parla della pietra miliare nella storia del
web) venne compiuto il 2 settembre 1969, quando il router Imp fu collegato al computer
host dell’Ucla stabilendo il primo nodo della neonata Rete.
Alle 22 e 30 del 29 ottobre 1969 Internet pronunciò le sue prime parole.
Questo il racconto di Kleirock:
seduti al terminale Ucla nella Boelter Hall 3420, io e lo studente programmatore
Charley Kline dovevamo autenticarci dal nostro host a quello di Standford, dove il
ricercatore Bill Duval aspettava di ricevere il messaggio. La procedura prevedeva che
noi avremmo digitato la parola log e il sistema di Stanford, intelligente abbastanza da
completare il resto della frase, avrebbe aggiunto la preposizione in, creando così il
comando login. Charley e Bill avevano entrambi una cuffia telefonica per comunicare
via voce mentre il messaggio veniva trasmesso. Dall’Ucla Kline digitò la lettera “l” e
chiese a Stanford conferma della sua ricezione. “È arrivata”, gli rispose Duvall.
Quindi digitammo la lettera “o” e chiedemmo di nuovo se era stata ricevuta. “Arrivata
anche la o”, ci assicurò. Poi prememmo la “g”, ma a quel punto il sistema andò in tilt.
Non male come inizio! In ogni caso, al secondo tentativo tutto funzionò alla
perfezione. E dopo un’ora riuscimmo a scrivere “login”. Possiamo dunque dire che il
primo messaggio inviato via Internet provocò un crash informatico. O più
accuratamente, che la prima parola lanciata nella Rete fu “lo”, come nell’espressione
idiomatica inglese “lo and behold”. Con il collegamento stabilito con l’Università
della California di Santa Barbara e con quello di Utah, il 5 dicembre 1969 furono
completati i quattro nodi annunciati. Nel marzo 1970 Arpanet raggiunse la costa
orientale degli Stati Uniti, quando un router Imp posto nella sede della Bbn, nei pressi
di Boston, fu allacciato al network. Alla fine del 1981 c’erano già in rete 213 host
computer6.
Così è nato quel fenomeno che oggi conosciamo come internet. Un sistema che man
mano si è evoluto con i social network del nuovo millennio, le rete di sensori, gli
smart spaces (luoghi pubblici forniti dei dispositivi più avanzati) e tantissimi altri
servizi e applicazioni. Un sistema che ha introdotto nelle nostre esistenze una
dipendenza quasi assoluta da attuatori, sensori, videocamere, microfoni e display.
6
Si definisce host o end system (terminali) ogni terminale collegato ad internet. Gli host possono essere di
diverso tipo, ad esempio computer, palmari, dispositivi mobili e così via, fino a includere web Tv, dispositivi
domestici e thin client. L'host è definito in questo modo perché ospita programmi di livello applicativo che
sono sia client (ad esempio browser web, reader di posta elettronica), sia server (ad esempio, i web server).
Un fenomeno che ha completamente cambiato il nostro modo di agire, di vivere la
giornata ,e che sembra promettere ancora strabilianti rivoluzioni.
Perfino le realtà più chiuse al progresso, nemiche da sempre dell’innovazione e del
cambiamento, dovranno fare i conti, in un modo o nell’altro, con un’infrastruttura
invisibile che fungerà da sistema nervoso globale per le persone e i computer di
questo pianeta.
Capitolo Secondo
La stampa e la televisione nel panorama arabo-islamico
È sull’onda della cosiddetta penny press statunitense 7 che si diffondono i giornali in tutto
il mondo, come accade in Italia durante il Risorgimento e nei primi anni dell’Unità8.
Nel mondo arabo, la prima pubblicazione periodica compare a Baghdad nel 1816, sotto il
nome di «Jurnal al-Iraq», scritta in arabo e turco.
Al Cairo compaiono due giornali nel 1820, seguiti dai periodici algerini nel 1847, da
bollettini stampati a Beirut nel 1858, a Tunisi, Damasco e Tripoli nel 1860, a San’a nel
1879 e alla Mecca nel 19089.
Allo scoccare del Ventunesimo secolo, si registra un’ampia distribuzione di quotidiani solo
in Egitto, unico paese africano e mussulmano con tirature oltre il mezzo milione di copie.
«Al-Ahram» o «al-Akhbar» è acquistato da circa 700.000 persone, mentre «alJumhuriyya» vende intorno a 400.000 copie. I paesi del Golfo Persico hanno sfruttato negli
anni giovani talenti provenienti da Libano, Egitto, Giordania e Palestina, tuttavia paesi
come il Qatar, il Bahrain e Oman hanno goduto di una discreta distribuzione sono nel 1970
e le loro tirature non hanno mai superato poche decine di migliaia di copie.
Indubbiamente, a primeggiare tra gli stati del Golfo Persico è l’Arabia Saudita, che
possiede una lunga tradizione pubblicistica e la più antica tradizione di giornali.
Giornali come «al-Bilad» e «Almadina» erano fiorenti già nel 1930, mentre il giornale
«Ukaz e al-Nadwa» compare nella parte occidentale del paese nel 1960.
Nei primi anni Sessanta a Riad vengono distribuite le prime copie di «Al-Jazira» e «alRiyadh», e a Damman vede la luce il giornale «al Yawm».
Stando ad alcune statistiche dell’Unesco, ad oggi solo cinque paesi arabi hanno più di
centomila copie quotidiane in circolazione e sono solo trenta milioni gli arabi che leggono
costantemente un giornale.
La distribuzione limitata dei giornali nei paesi arabi e africani ha una spiegazione alquanto
elementare: la povertà diffusa in questi paesi, unitamente alla scarsa alfabetizzazione delle
7
Alla metà dell’Ottocento nascevano negli Usa giornali come il Sun e il New York Transcript, venduti in
piazza dagli strilloni al prezzo di un penny e dedicati agli immigrati newyorkesi.
8
Nel 1859 nasce «la Nazione», nel 1876 Eugenio Torelli fonda il «Corriere della Sera» e nel 1865 esce il
«Sole». Nel 1896 il Partito Socialista Italiano crea il primo giornale di partito, «Avanti». Ma in Italia forme
embrionali di giornalismo moderno risalgono addirittura al 1664, con la stampa del primo numero della
«Gazzetta di Mantova» (al tempo «Aviso»), giornale ufficiale della corte di Carlo II di Gonzaga Nevers. La
«Gazzetta di Mantova» ha cambiato spesso nome e ha interrotto le sue uscite durante il fascismo, a differenza
della «Gazzetta di Parma» che, sebbene sia nata dopo il quotidiano mantovano, è uscita costantemente negli
anni e ha un solo cambio di nome nella testata.
9
Gale Encyclopedia of the Mideast and Nord Africa, Newspapers and Print Media, Arab Countries.
popolazioni e il ripiego degli imprenditori locali su settori più redditizi (o su media
stranieri) condizionano in maniera decisiva la diffusione dell’informazione nell’area.
Va da sé che un quotidiano senza pubblicità, senza sponsor e con pochi lettori istruiti non è
destinato a superare un lustro di vita. Tanto più se la linea editoriale scelta dal giornale non
corrisponde ai desiderata del regime o della monarchia dominante nel paese in cui è
diffuso.
Un giornalista iraniano, saudita o yemenita, ad esempio, potrebbe mai pronunciarsi
criticamente sulla sharia senza rischi per la sua professione o per la sua incolumità fisica?
Una testata araba potrebbe mai parlare di diritti femminili o di multiculturalismo con la
stessa libertà di un suo collega europeo o americano?
Non a caso, i primi giornali arabi hanno avuto una natura strettamente filo-governativa e
burocratica, come è accaduto per i giornali egiziani «Jurnal al-Khadyu» e «al-Waqa i alMisriyya», con il «Jurnal al-Iraq» in Iraq e con «Suriya» a Damasco. Con qualche
eccezione circoscritta nel tempo e nello spazio geografico, lo stesso fenomeno si è
registrato per i giornali fondati ai tempi del nazionalismo arabo e dell’anti-colonialismo.
La Gale Enciclopedia del Medio Oriente e del Nord Africa suggerisce una distinzione tra
stampa militante, stampa lealista, stampa alternativa e stampa transitoria.
La mobilization press è sotto il più stretto controllo del governo. Questo tipo di stampa,
sovente tenuta in piedi per contenere e sondare i malumori popolari, raramente si concentra
sugli alti funzionari di stato e sul governo, preferendo denunciare l’azione dei funzionari
locali e di figure di rango inferiore. Prima della guerra del 2003, la mobilization press
(controllata dal governo) era molto diffusa in Iraq.
Diversa è la stampa squisitamente lealista, che pur essendo di proprietà privata si rivolge
ad un pubblico fedele al governo e sostiene la burocrazia in carica. Modelli esemplari sono
i quotidiani diffusi nella monarchie conservatrici di Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Oman,
Emirati Arabi Uniti, e anche in Palestina.
Il giornalismo palestinese e filo palestinese ha trovato sbocchi interessanti in diversi paesi
arabi, fuorché nel territorio di Palestina, almeno fino alla metà degli anni Novanta, quando
il clima di distensione con Israele ha consentito all’Autorità palestinese e a piccoli
imprenditori di sponsorizzarlo in loco.
Nel mondo arabo esistono anche quotidiani più o meno liberi o alternativi, laddove sono
poteri forti significativi, se non cordate vicine ai partiti d’opposizione più radicati, a farsi
carico dei finanziamenti e della pubblicizzazione della testata. Esempi più evidenti di
questo tipo di stampa si trovano in Libano10, ma anche in Marocco, Kuwait e Yemen.
Un quarto tipo di stampa può essere definita "transitoria”, perché la sua struttura ha subito
diversi cambiamenti negli ultimi anni, è oggetto di dibattito nel paese e potrebbe cambiare
ulteriormente. Questa è la situazione che vivono diverse pubblicazioni in Egitto,
Giordania, Tunisia e Algeria.
Infine, vi è una categoria separata di giornali arabi che hanno sede in Europa, ma sono
precipuamente destinati ai lettori di tutto il mondo arabo. Questo fenomeno è iniziato
approssimativamente negli anni Settanta, quando la guerra civile libanese ha costretto
alcuni editori e giornalisti libanesi ad abbandonare il paese e a trasferirsi a Londra, Parigi e
Roma. Alcuni hanno chiuso la loro attività dopo pochi anni, altri sono sopravvissuti e
tornati a Beirut, come il settimanale «al-Hawadith», altri ancora hanno mantenuto la loro
10
Nondimeno, l’ascesa di Hezbollah sta mettendo a dura prova la libertà d’informazione nel Paese dei Cedri.
sede in Europa. L’ausilio di internet e il rafforzamento del collegamento postale hanno reso
possibile una migliore distribuzione di queste pubblicazione off-shore.
A Londra hanno sede tre importanti case editrici arabe – di proprietà di facoltosi cittadini
sauditi – che distribuiscono il loro materiale in tutto il mondo.
Il «Saudi Research and Marketing Group» dal 1977 pubblica il quotidiano «al-Sharq
Alawsat» e ha lanciato più di una dozzina di altre riviste, tra cui il noto settimanale «alMajalla». Un’altra casa editrice, originariamente libanese ed oggi di proprietà di un
principe saudita, ha curato l’uscita di un settimanale e di un quotidiano, «al-Hayat» e
possiede una joint venture con una società di televisione satellitare.
Un terzo quotidiano arabo che si pubblica a Londra e si rivolge ad un pubblico panarabo è
«al-Quds al-Arabi», redatto a cura di palestinesi e rivolto a questioni strettamente
palestinesi.
Ma aldilà delle distinzioni formali, è notorio il problema che affligge la maggior parte delle
testate arabe, ovvero un quadro normativo generale che impone limiti su ciò che si può
scrivere e raccontare sulla carta stampata. La legge sulla stampa e le pubblicazioni
approvata in Yemen nel 1990, ad esempio, vieta la diffusione di notizie che pregiudichino
la fede islamica o i principi che ne derivano, che riconducano a questioni tribali, razziali o
settarie, che creino sospetti di apostasia, che mettano in discussione la storia e i fondamenti
della rivoluzione yemenita11, che possano ledere l’unita nazionale e danneggiare
l’immagine dello stato, che minino la morale pubblica o che critichino il capo dello stato.
La riforma kuwaitiana sulla stampa, datata 2006, criminalizza la pubblicazione di materiale
critico sulla costituzione, sul ruolo dell’emiro e sulla fede islamica, ovvero su scritti lesivi
della pubblica morale.
Per quanto concerne la comunicazione televisiva, nei paesi arabi, fino al 1990, non è
esistita altra forma di controllo del mezzo al di fuori di quello pubblico e governativo.
La diffusione della televisione satellitare ha in parte rovesciato questo quadro, premettendo
ai privati – anche con l’ausilio della pubblicità e di laute sponsorizzazioni – di mandare in
onda programma d’intrattenimento leggero, promozioni commerciali e propaganda
panaraba.
La parabola si rivela uno strumento estremamente potente per arrivare a migliaia di
spettatori e per aggirare la censura dei governi arabi, che dapprima sottovalutano il
fenomeno e successivamente si acconciano a limitare e monopolizzare questo nuovo
strumento di comunicazione. La proprietà del primo satellite di comunicazione conosciuto
come «ArabSat» viene condiviso dai principali governi arabi. L’Arabia Saudita è la più
attiva nella gestione del satellite, sfruttando tutte le potenzialità di ArabSat, ma chiudendo
al contempo decine di canali.
L’archetipo di riferimento per questa rivoluzione è stata la nascita a Doha di «al-Jazeera»,
l’emittente araba per eccellenza, formalmente indipendente ma sponsorizzata e sostenuta
dal governo del Qatar.
11
Per rivoluzione yemenita s’intende il colpo di stato o rivoluzione repubblicana del 1962, figlia del
nazionalismo arabo e del modello nasseriano, e genericamente tutto il percorso storico-politico che ha portato
alla formazione dello Yemen del Nord e alla successiva riunificazione con il Sud.
Al-Jazeera12 nasce nel novembre del 1996, pochi mesi dopo la chiusura 13 della Bbc in
lingua araba, entrata in conflitto con il governo saudita per un documentario che mostrava
le barbare uccisioni perpetrate in nome della sharia.
Al-Jazeera ha ereditato uno slot su «ArabSa»t grazie alla chiusura di un altro canale, di
capitale francese, che aveva mandato in onda (ufficialmente per errore) un film
pornografico al posto di un programma didattico rivolto ai bambini arabi.
Con il supporto della «Qatar Corporation» e della monarchia locale, l’emittente manda in
onda i primi notiziari in arabo e i programmi d’attualità. Al-Jazeera mirava ad offrire un
focus sulla politica del Golfo Persico, in tutte le sue molteplicità, ma nel giro di pochi anni
il canale è diventato il megafono mondiale delle rivendicazioni e delle agitazioni più
accese della penisola, pur presentandosi come una piattaforma neutrale.
I primi finanziamenti ad Al-Jazeera arrivano nel 1996 dall’emiro Hamad bin Hhalifa Al
Thani14 che destina alla nuova emittente centotrentasette milioni di dollari come prestito
per i primi cinque anni di attività. Hamar bin Thamer Al-Thani, allora vice ministro
dell’Informazione, diventa il presidente del network.
I primi duecentocinquanta giornalisti che prendono parte al progetto di Al-Jazeera sono gli
esuberi della Bbc Arabic.
Nel giro di pochi anni, Al Jazeera produce animate discussioni, trasmettendo prima delle
interviste a cittadini israeliani – in nessuna tv araba era mai accaduto di ascoltare un
commento in lingua ebraica – e suscitando subito dopo serie preoccupazioni dei governi
saudita e algerino, sia per format controversi sui temi della religione sia per la presenza di
volti femminili in video.
Al-Jazeera cresce notevolmente e nell’arco di un lustro riesce a filmare e pubblicizzare
l’operazione militare Desert Fox contro l’Iraq (1998), la Seconda Guerra cecena (1999) e
la Seconda Intifada (2000), scelte editoriali che rafforzano il suo marchio nel mondo, ma
che al contempo attirano sul canale le accuse d’intelligenza con il terrorismo anti-ebraico
(meglio, con Hamas) e anti-russo.
Il 1° gennaio 1999 la rete, per la prima volta, lancia un palinsesto di 24 ore di trasmissione,
i dipendenti superano le 500 unità e il network apre uffici e agenzie in Europa e in Russia.
Ma l’apogeo del canale si raggiunge con la guerra in Afghanistan scatenata dagli attacchi
alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Al Jazeera non solo mostra la guerra in diretta,
ma diventa – suscitando scandalo e polemiche – il diffusore esclusivo dei video di binLaden inneggianti alla lotta contro gli Usa e l’Occidente intero. Diversi stati si adeguano e
rispondono allo sceicco del terrore attraverso lo stesso network, come è accaduto nel caso
di Tony Blair.
Nel 2003 è la volta della guerra in Iraq e anche qui arriva al Jazeera, trasmettendo
immagini (selezionate) del conflitto e vendendo i suoi servizi ai più importanti media
stranieri.
12
Il nome Al-Jazeera sta indicare "l'isola" o "la penisola (araba)", ovvero il nome attraverso il quale
i geografi mussulmani identificavano i territori della Mesopotamia settentrionale siti fra il Tigri e l'Eufrate e
che attualmente fanno parte della Siria settentrionale, dell'Iraq settentrionale e dell'Anatolia meridionale.
13
Nel gennaio 1996, un misterioso blackout fermò la trasmissione di un programma di servizio di BBC
Arabic TV mentre parlava il dissidente saudita Mohamed al-Mas’ari.
14
L’emiro contemplava già da due anni l’ipotesi di lanciare un proprio canale satellitare per migliorare
l’immagine del Qatar come centro democratico di sviluppo commerciale e di progresso.
Oggi Al Jazeera copre uno spazio che va dall’Africa araba ai paesi sauditi, fino
all’Indonesia. Il 15 novembre 2006 è nata inoltre «al Jazeera English» che trasmette solo in
lingua inglese e ha sedi a Doha, Washington, Kuala Lumpur e a Londra. Contestualmente,
è nato un sito web in inglese collegato all’attività del nuovo canale.
L’occidentalizzazione del canale è stata interpretata non solo come un’efficace strategia
commerciale, ma anche come un tentativo di sdoganamento politico del network.
L’obiettivo, non celato, dell’impresa qatariana è quello di arrivare alla nutrita categoria di
arabi che è cresciuta lontano dalla penisola e che spesso ignora la lingua araba.
Recentemente, l’emittente è approdata anche in Turchia e nei Balcani e non esclude di
creare un canale in lingua urdu. Un’espansione interessante quanto problematica, stante
negli anni le tensioni registratesi tra al Jazeera e i governi di:
Israele, che lamenta il presunto antisemitismo del canale;
Egitto, che rimproverava la cronaca partigiana della primavera araba;
Bahrain, che denuncia un’informazione schiacciata sulla difesa del “sionismo”;
Somalia, che ha manifestato le sue rimostranze in seguito alla messa in onda di un
documentario sui rifiuti tossici, ritenuto falso, e al rifiuto della rete di concedere il
diritto di replica all’ex presidente Ali Mahdi Muhammad, accusato di svendere il
proprio territorio all’Italia per la costruzione di discariche;
 Iraq, dove la morte del giornalista Tareq Ayoub ha aperto un dibattito sulla
presenza dei giornalisti qatariani nel paese;
 Kuwait, dove l’ufficio locale di al Jazeera è stato chiuso;
 Libia, dove i sostenitori di Gheddafi hanno denunciato un accordo tra Al-Jazeera e
il Consiglio di Cooperazione del Golfo per promuovere politiche anti-regime.




Analoghe tensioni si sono registrate tra Al Jazeera e i governi di Spagna, Siria, Regno
Unito e Stati Uniti.
Di stampo apparentemente più moderato, è invece il canale «Al Arabiya» 15, nato il 3 marzo
2003 sotto l’egida della monarchia saudita e che si è proposto al pubblico come
concorrente diretto di Al-Jazeera16.
L’emittente è stata finanziata da privati del Kuwait e del Libano – come l’«Hariri Group» –
e ha goduto nel 2003 di un finanziamento di circa trecento milioni di dollari provenienti
dalla «Mbc» (Middle East Broadcasting Center).
L’emittente, interamente dedicata a notiziari e a programmi d’approfondimento
giornalistico, ha sede a Dubai Media City, negli Emirati Arabi Uniti, e il suo direttore
generale (2012) è Abdulrahman al Rashed. Nel 2009 Al Arabiya è riuscita a trasmettere la
prima intervista ufficiale al presidente americano Barack Obama.
Il format di punta del canale è «Saudi Special Mission», un programma d’inchiesta
giornalistica e di attualità, che si ripropone di documentare drammi e scandali dei paesi
asiatici, africani e del Golfo, partendo dalla cronaca di episodi di criminalità, corruzione,
illeciti e arrivando alla denuncia dei misfatti della politica regionale.
15
16
In lingua inglese, The Arabic One.
Nelle parole del suo direttore generale, sarebbe nata
propensione per la politica radicale e la violenza”.
“per curare la televisione araba dalla sua
Pur godendo del sostegno dei Saud, Al Arabiya è tuttora vista come un’agenzia
dell’imperialismo occidentale, tanto da subire attentati come accaduto più volte in Iraq (il
22 febbraio 2006, ad esempio, l’inviato Atwar Bahjat veniva drogato ed ucciso dagli
oppositori del nuovo governo locale) e in terra di Palestina (il 22 gennaio 2007 la sede di
Gaza City è saltata in aria dopo che, alcuni giorni prima, l'emittente aveva mandato in onda
un servizio critico su Hamas).
Molto più marcata politicamente e meno apprezzata in Occidente è l’emittente «Al
Manar», una stazione televisiva nata a Beirut il 3 giugno 1991 come braccio mediatico del
Partito di Dio, Hezbollah. La stazione, divenuta satellitare nel 2000 con un investimento di
due milioni di dollari, è situata nel quartiere sciita di Harat Hurayk nella periferia sud di
Beirut, roccaforte della stessa Hezbollah.
Partita con l’obiettivo d’informare per poche al giorno i cittadini libanesi, dalle elezioni del
1992 in poi ha iniziato a trasmettere con maggiore regolarità, fino a sette-otto ore
giornaliere, con il proposito di ampliare il bacino elettorale dei miliziani sciiti.
Per cinque anni Al Manar trasmette senza licenza, fino a quando le pressioni del presidente
Hafiz al-Asad, interessato alla diffusione dello sciismo in Siria per il tramite della
televisione, non costringono il governo libanese a cedere e a riconoscere il canale.
Nel 1996 la televisione si espande e nuove antenne dell’emittente vengono eretta al nord
del Libano e su tutto il Monte Libano per arrivare a coprire non solo tutto il paese, ma
anche la parte occidentale della Siria e il nord di Israele.
La gamma di notizie trasmesse dalla rete nel corso degli anni si è sempre più ampliata,
riprendendo notizie della stampa estera sulle questioni arabe e sul conflitto israelopalestinese, garantendo otto telegiornali quotidiani in lingua araba, uno in inglese e un altro
in francese.
Emblematico il talk show «Beit al-Ankabut», la Casa del Ragno, una metafora che Hassan
Nasrallah utilizza spesso per descrivere Israele. Il programma tende a ridicolizzare i vicini
sionisti, mettendone in luce le debolezze e provando a smontare l’immagine di uno stato
imbattibile, guadagnatasi in Libano e dintorni. A parlare sono quasi esclusivamente
dirigenti di Hezbollah, giornalisti, scrittori e studiosi islamici. Questo, come altri formati,
puntano glorificare il martirio, a rafforzare la propaganda anti-israeliana, a diffondere
l’anti-americanismo e, più in generale, a fornire un’etica e un salvacondotto per le azioni
terroristiche. Non sono mancate, in particolare nei periodi di Ramadan, perfino sit-com
dietrologiche sui protocolli dei Savi di Sion, sul ruolo degli ebrei nella storia dell’Europa e
mondiale e persino sulla Diaspora, supportate da contributi di tecnici egiziani e palestinesi.
È chiaro che, pur evitando di osannare le azioni di al-Qaeda e di giustificare attentati come
quello alle Torri Gemelle, Al Manar non sia minimamente paragonabile ad Al Jazeera o ad
Al Arabiya, e che faccia della lotta politica contro gli avversari del mondo arabo la sua
bandiera. Pochi anni fa, il direttore del telegiornale di Al Manar, Hassan Fadlallah, ha
sostenuto:
copriamo solo la vittima, non l’aggressore. La Cnn è il notiziario dei sionisti. Al
Jazeera è neutrale. Al Manar si schiera dalla parte dei palestinesi.
Nel mentre, Al Manar prova ad espandersi utilizzando la tecnologia di Google ed Apple
per arrivare sui cellulari dei più giovani con i comunicati di Nasrallah, ma le maggiori
potenze straniere lo hanno messo al bando nel proprio paese (gli Stati Uniti – che parlano
apertamente di canale terroristico – la Spagna, la Francia, l’Italia, la Germania e, con
qualche difficoltà, il Canada hanno bloccato la visione di Al Manar) e Israele dichiara
guerra aperta. Già nel 2006, in occasione del conflitto israelo-libanese, le forze dell’Idf
avevano bombardato le strutture di Al Manar e ucciso diversi collaboratori della rete.
In questo quadro, nel 2008, in una riunione convocata da Egitto e Arabia Saudita, i ministri
di informazione arabi hanno approvato uno statuto per regolare la diffusione
dell’informazione via satellite Un tentativo patente e prepotente per affermare il controllo
del mezzo nei paesi islamici.
Venti dei ventidue paesi membri della Lega Araba hanno approvato il nuove codice
sull’emittenza televisiva, che invita le emittenti arabe a “non danneggiare l’armonia
sociale, l’unità nazionale, l’ordine pubblico ed i valori tradizionali” dei paesi in cui
trasmettono o hanno sede. Il documento permette ai governi arabi di prendere “le
necessarie misure legislative per sanzionare le violazioni”, comprese la confisca delle
attrezzature televisive e la revoca dell’autorizzazione a trasmettere”.
Importante notare come tra questi paesi il Qatar si sia astenuto e il Libano, pioniere dei
mass-media nel mondo arabo, abbia votato contro.
Capitolo Terzo
La diffusione di internet, tra potenzialità e censure
Così come ha cambiato il nostro modo di rapportarci alla vita, di comunicare e perfino di
leggere e scrivere, internet ha rivoluzionato il sistema delle comunicazioni, del commercio
e dell’azione politica.
Internet oggi è il più potente diffusore di informazioni planetario, uno strumento eccellente
di relazioni tra differenti reti geografiche, un veicolo di cultura, sentimenti e paure che ha
contagiato una parte rilevante (quasi la metà) del pianeta.
La rete ci permette di comunicare in tempo reale, di condividere tecnologia, dati e
informazioni con persone normalmente irraggiungibili. I media, che hanno spadroneggiato
per una buona parte del secolo scorso, hanno ceduto il passo a questo nuovo comunicatore
di massa, che pare aver assorbito tutti gli altri strumenti di comunicazione, dal telefono (a
vantaggio di Skype) al giornale (con blog e siti di notizie on-line), passando per la
televisione (Youtube del gruppo Google potrebbe essere considerata la prima televisione
mondiale).
A differenza della radio o della Tv, media che come ha affermato Richard Sennett
“hanno la capacità di accrescere in maniera esponenziale la conoscenza della gente
su quanto accade nella società, ma inibiscono direttamente la capacità di tradurre
questo sapere in azione politica”, la Rete si alimenta infatti per definizione della
capacità attiva di produrre interazione, di stimolare dibattito, di organizzare e
mobilitare rapidamente gli individui ed i gruppi17.
Quando alludiamo ad internet e alla comunicazione in rete, facciamo riferimento
soprattutto a:
 Siti Internet, ovvero un insieme organizzato di pagine web collegate tra loro per
mezzo di collegamenti ipertestuali. È considerato come un punto d’incontro tra
domanda e offerta, tra un fornitore e un potenziale cliente. È il veicolo ideale per
diffondere informazioni (politiche e commerciali).
La pubblicazione del primo sito internet risale al 6 agosto 1991, quando il
ricercatore Tim Berners-Lee, presso il Cern di Ginevra, definisce il protocollo
“http” e inaugura il primo indirizzo con le fatidiche “www” (Word Wide Web) che
permette la lettura intertestuale dei documenti.
Per il professor Morcellini, docente presso l’Università Sapienza di Roma,
Il world wide web ha creato tre rivoluzioni principali: ha innanzitutto cambiato il concetto
di cambiamento scientifico. Le scoperte non sono più epocali e quindi si relativizzano gli
anniversari perché un’invenzione diventa progressiva. Tutto ciò è conseguenza anche del
moltiplicarsi di comunicazione e ricerca scientifica e della facilità con cui circolano in rete
[…] Allo stesso tempo il web ha allargato la base delle discussioni: non ci sono più
solamente piccole cerchie di studiosi un po’ snob e autoreferenziali ma è la base sociale
della rete a diventare il soggetto capace di provocare cambiamento. Le
17
S.Epifani, A.Jacona, R.Lippi, M.Paolillo, Manuale di comunicazione politica in rete, Editrice Apes, Roma
2011.
informazioni circolano e si allargano a tutti quelli che vogliono riceverle, ampliando a
dismisura il possibile uditorio, facendo quindi circolare cultura […] La scoperta ha inoltre
cambiato il linguaggio contaminandolo e rendendolo fluido. La forza del progetto di
Barners-Lee è stata quella di rendere pubblico e gratuito il linguaggio di programmazione,
in questo modo ampliando la possibilità di interagire e comunicare. E’ stata la gratuità la
chiave di volta del successo dell’invenzione e allo stesso tempo della circolazione della
conoscenza online.
L’agenzia di ricerche e statistiche internazionali Netcraft ha individuato l’esistenza
in rete di circa 550 milioni di siti internet, ma il numero è sempre in forte crescita.
 Blog, contrazione di web-log (diario in rete), sito web in cui i contenuti pubblicati
da uno o più blogger compaiono generalmente in forma cronologica. È
precipuamente utilizzato dai più giovani e da giornalisti free lance (da qualche anno
anche da giornalisti professionisti e politici 18) per rivolgersi ai propri amici e per
diffondere articoli, notizie di varia natura e contenuti multimediali tra un pubblico
più o meno vasto.
Il fenomeno nasce negli Stati Uniti nel 1997. Il primo blog è stato pubblicato il 23
dicembre dello stesso anno ad opera di un appassionato di caccia, Jom Barger, ma
fino al 1999 il blog resta una semplice lista di link.
Il boom del diario in rete si registra tra il 2002 e il 2007: i bassi costi di gestione (in
molti casi, nulli), la possibilità eccezionali di personalizzare uno spazio web in
piena libertà, la possibilità di commentare una notizia con un livello di censura
quasi sempre inesistente ne hanno favorito la diffusione, fino all’esplosione del
fenomeno dei social network, che hanno distrutto la visibilità del diario e
demotivato i più giovani, spesso riluttanti ad elaborare concetti e contenuti di una
certa lunghezza e consistenza. Ciò nonostante, il blog resta la piattaforma preferita
dei cittadini di paesi dipendenti e a rischio democratico, ove televisione e giornali
non danno spazio a proteste e denunce contro i governi.
 Social Network, ovvero siti di aggregazione sociale che permettono agli utenti che
vi accedono di far parte e di creare reti (network) di individui (social).
Secondo la definizione data da Boyd-Ellison, i social network sono quei servizi
web che permettono: la creazione di un profilo pubblico o semi-pubblico all’interno
di un sistema vincolato, l’articolazione di una lista di contatti, la possibilità di
scorrere la lista di amici tra i propri contatti.
I social network si configurano parimenti come delle piazze virtuali che espandono
la nostra possibilità di comunicare, trasformandoci in agenti attivi di campagne
politiche e sociali in cui crediamo.
I social network sites nascono ufficialmente nel 2003, grazie a siti web come
«Friendster», «abcTribe» e «LinkedIn». In Italia il primo portale paragonabile ad
un social network è stato «superEva».
I social network più utilizzati al mondo sono, in estrema sintesi, «Facebook»,
«Twitter» e «Youtube».
18
In America, Obama ha utilizzato tutte le risorse tecnologiche e telematiche a sua disposizione (tra cui i
blog) per rafforzare la campagna per le presidenziali del 2008. Particolarmente importante è stato l’uso della
blogosfera in Iran al tempo dell’onda verde. In Italia, il comico Beppe Grillo usa il suo blog come mezzo di
reclutamento dei più giovani al Movimento 5 stelle , ma anche per vendere i suoi dvd.
Facebook è stato fondato il 4 febbraio 2004 da Mark Zuckerberg, all’epoca
studente diciannovenne di Harvard. Il nome si riferisce agli annuari utilizzati dai
college americani per raffigurare gli studenti delle università e per mettere in
contatto le persone appartenenti allo stesso campus.
Da Harvard, Facebook si è allargato agli studenti di Boston, della Ivy League e
della Stanford University. Da allora Facebook ha raggiunto un enorme successo: è
diventato il secondo sito più visitato al mondo, preceduto solo da Google19; è
disponibile in oltre settanta lingue e nel giugno 2012 conta più di 955 milioni di
utenti attivi che effettuano l'accesso almeno una volta al mese, classificandosi come
primo servizio di rete sociale per numero di utenti attivi.
Twitter è un servizio gratuito di social network e microblogging che fornisce agli
utenti una pagina personale aggiornabile tramite messaggi di testo con una
lunghezza massima di 140 caratteri. Il nome “twitter” deriva dal verbo inglese to
tweet che significa “cinguettare”.
Twitter non prevede rapporti di mutua amicizia, ma offre la possibilità di seguire
passivamente altri utenti.
Questo social network è popolare quasi quanto Facebook e ha raggiunto nel 2012
quasi 600 milioni di utenti attivi.
YouTube è un sito web che consente la condivisione e visualizzazione di video. È
la piattaforma di videosharing più usata al mondo e funziona ormai alla maniera di
una televisione gestita direttamente dagli utenti.
Youtube è stato fondato nel febbraio 2005 da Chad Hurtley, Steven Chen e Jawed
Karim, tutti dipendenti di PayPal. Il primo video caricato, alle 20:27 del 23 aprile
del 2005, è stato “Me at the zoo” da Jawed Karim. Il video ha una durata di 19
secondi ed è stato girato di fronte alla gabbia degli elefanti dello zoo di San Diego.
Questi mezzi sono diventati sempre più importanti nella vita delle persone, e in particolare
dei giovanissimi, che percepiscono tali servizi come sempre più indispensabili nella
propria quotidianità.
La conoscenza di Facebook e YouTube registra picchi altissimi tra i giovani di 14-29 anni
(il 90,3% e l’89,2% rispettivamente), risulta elevata tra gli adulti (il 64,2% e il 64%) e
scende notevolmente tra gli anziani. Più della metà dei giovani utilizza Facebook (56,8%)
e più di due terzi YouTube (67,8%), e non è trascurabile l’impiego di YouTube anche tra
gli adulti (23,5%).
Facebook è il più comune e popolare fra i social network utilizzati nel mondo arabo. Il
numero complessivo di utenti nella regione si attesta intorno ai 27,7 milioni di persone (ad
aprile 2011), circa il doppio rispetto all’anno precedente e il 30% in più rispetto all’inizio
dell’anno.
Uno studio recente di «GlobalWebIndex» rivela che il 90% della totalità degli utenti di
internet nel mondo ha oggi almeno un profilo social. Numeri decisamente impressionanti,
sebbene trainati maggiormente dai paesi “emergenti”. I primi cinque paesi più “social” del
mondo sono infatti Cina, Sud Korea, Filippine, Russia e l’impressionante Indonesia, nella
quale il 99% degli utenti Internet possiede un profilo Facebook.
19
Alcune società sostengono che nel 2011 Facebook ha superato Google per quantità di visite
Quasi tutti hanno sottolineato ed evidenziato le grosse potenzialità dei social network
quanto alla capacità di ridurre le distanze a favorire i rapporti interpersonali. E, ancora, è
stata esaltata l’enorme rivoluzione garantita dalla possibilità di pubblicare notizie in tempo
reale e farle girare, in pochi minuti, in tutto il pianeta. Nondimeno, i social network hanno
ridotto le capacità di discernimento dei più giovani e le iniziative di ricerca individuali,
hanno prodotto un annullamento della privacy, impensabile sino a pochi anni fa, hanno
favorito la socializzazione dell’ignoranza e la semplificazione estrema e asettica del
linguaggio comunicativo.
Nel mondo arabo il fenomeno internet si è affermato con una difficoltà superiore rispetto al
resto del mondo. Sostanzialmente, sono mancati la tecnologia adeguata, la strumentazione
di base – come le tastiere in arabo – i mezzi economici per supportare gli oneri di
connessione e l’apertura dei governi nei confronti di una rete che appariva (ed appare)
come un pericoloso diffusore di deviazioni politico-religiose.
La situazione è cambiata per la maggior parte dei paesi verso la fine degli anni Novanta e,
per Arabia Saudita ed Iraq, tra la fine e l’inizio del secolo.
La tendenza è mutata negli ultimi cinque anni: nel 2008 più di trentotto milioni di arabi si
connettevano almeno una volta al mese e più dell’11% della popolazione ha iniziato ad
usare internet con costanza. I paesi che presentano il maggior numero di internauti sono
Egitto, Marocco e Arabia Saudita, mentre i paesi in cui lo scarto, tra chi non fa uso della
rete e chi si connette abitualmente, è più ridotto sono Emirati Arabi Uniti (metà
popolazione usa internet20), Qatar (38 percento circa), Bahrain (34,8%) e Kuwait (34,7
percento), tutti ben al di sopra della media mondiale 21. Libano, Arabia Saudita e Marocco
seguono subito dopo.
Dopo un periodo di crisi e rigetto del fenomeno, durante il quale si è temuta l’esaltazione
delle opposizioni e contestazioni di tipo religioso (o semplicemente il superamento di
alcuni dogmi, in specie in materia di diritti femminili), i regimi arabi hanno deciso di
accettare internet e di plasmarlo a propria immagine e somiglianza.
Nell’Iraq di Saddam, causa embargo economico, sanzioni Onu e alti costi dei personali
computer, l’uso delle rete è stata di fatto inibito a tutti fino al 1999.
Negli anni successivi l’accesso ad Internet è stato veicolato dalla Società Generale di
Internet e dai Servizi d’Informazione monopolizzati dal governo. I messaggi di posta
elettronica in entrata ed uscita venivano filtrati dal Dipartimento della Censura, ritardando
così di alcuni giorni la ricezione delle mail.
Fino a pochi anni fa, un abbonamento internet in Iraq costava 750 dollari annui (costo
proibitivo per la maggioranza degli iracheni) e coloro che potevano permetterselo
dovevano firmare una richiesta particolarmente severa che imponeva all’utente di non
visitare siti ostili (a meno che non seguisse un’immediata segnalazione), di non copiare o
stampare materiale che potesse compromettere la politica o la sicurezza dello stato, di
dichiararsi disponibile a ricevere “visite” periodiche di ispettori che avrebbero ispezionato
computer, files e abitazione del richiedente.
20
Per fare un raffronto, basti pensare che in Italia gli internauti sono circa 25 milioni (molto meno della metà
della popolazione). Una buona parte di questi si connette sporadicamente e con l’aiuto di parenti ed amici.
21
Fonte: www.al-bab.com.
Gli internet caffè (o centri di internet) prevedevano un controllo ancor più rigoroso: gli
internauti dovevano presentare una domanda scritta, sottoporsi ad un interrogatorio,
presegnalare i siti web che avrebbero visitato, utilizzare un computer col monitor rivolto
verso la porta del centro internet e mantenere intatta la cronologia dei siti visitati.
Accettate queste condizioni, gli internauti avrebbero potuto cliccare su pagine web
raffiguranti Saddam e inneggianti alla politica del governo, con rare eccezioni riguardanti
siti web di pubblicità locale.
Nello stesso periodo, in Arabia Saudita, il Consiglio dei ministri vietava agli utenti di
visualizzare tutto ciò che potesse violare i principi fondamentali e le leggi dello stato,
qualunque sito che criticasse l’islam o sfidare la sharia, tutto quello che andasse contro la
pubblica morale, tutto ciò che potesse danneggiare la dignità dei capi di stato e dei capi di
missioni diplomatiche accreditate nel regno, come i loro paesi di provenienza, la
propagazione delle idee sovversive e di materiale diffamatorio e calunnioso nei confronti
dei singoli o il disturbo dell’ordine pubblico.
Le regole comprendevano anche vari altri divieti contro l'attività commerciale e
pubblicitaria su internet, se non con "le licenze necessarie". I fornitori di servizi internet
(Isp) erano tenuti a registrare dettagliatamente gli utenti e le loro attività, come la
"destinazione d'uso", il tempo impiegato per la connessione, gli indirizzi delle pagine
visitate o alle quali si è stato tentato l’accesso, le dimensioni e il tipo di file copiati.
I fornitori di servizi internet erano tenuti vieppiù ad indirizzare tutto il traffico attraverso la
«Unità di Servizi Internet» (Isu) a King Abdulaziz.
L'Isu ospita il più grande e più sofisticato sistema di censura su internet in Medio Oriente ,
basato su una tecnologia addirittura invidiata dalle società occidentali.
È una tecnologia molto simile ai sistemi di filtraggio che i genitori e le scuole possono
acquistare per evitare che i bambini accedano a siti inadatti.
L'Isu giustifica il blocco della pornografia per motivi religiosi, ma non fa alcun tentativo di
giustificare la censura di siti web non pornografici, operata "su richiesta diretta degli
organi di sicurezza all'interno del governo”.
Il sistema Isu sfrutta un elenco di siti “indesiderabili” forniti da «SmartFilter» e dallo
stesso governo saudita.
Il sistema è particolarmente subdolo perché non blocca tutti i siti indesiderati, ma spesso
chiede all’utente una conferma circa l’accesso alla pagina web ostile e lo sblocco della
stessa, tanto per avere conferma delle reali intenzioni dell’utente, che di fatto si
autodenuncia. Dal 2001 al 2004 l’Isu ha bloccato 200 pagine al giorno.
La «OpenNet Initiative» (Oni), dopo aver testato 60.000 indirizzi web, ha riferito che il
regno saudita concentra la sua censura su: pornografia (98%), gioco d’azzardo (93%),
farmaci (86%), siti per aggirare i filtri (41%).
C’è un controllo minore sui siti internet riguardanti l’omosessualità (11%), la politica
generalista (3%), lo Stato di Israele (2%), la religione (meno dell’1%) e l'alcol.
L’Oni ha scoperto che la maggior parte dei siti religiosi bloccati sono quelli delle sette sufi,
sciite o collegate alla fede bahai. Provvedimenti di censura sono stati adottati anche nei
confronti della tv al-Manar e della brigate palestinesi al-Quds.
Nonostante la continua chiusura di siti, i sauditi più coraggiosi ed esperti d’informatica
riescono facilmente a superare i filtri e ad accedere alle pagine bloccate. I provvedimenti
del governo hanno avuto successo esclusivamente sui bambini (in questo caso realmente
salvaguardati dal mercato della pornografia) e su fette della popolazione passive e poco
inclini ad informarsi, o ad abbracciare qualsivoglia causa di lotta sociale.
L’uso di connessione dial-up22 dei paesi vicini e l’utilizzo di tecnologia a pagamento (si è
creato un business notevole intorno ad hacker e società straniere che offrono tutto ciò che è
necessario per aggirare i divieti) ha reso nulla l’azione della monarchia, costringendola a
studiare ogni giorno forme di censura più aggiornate.
Secondo l’Icann, nel 2011-2012, sotto la lente d’ingrandimento del governo saudita sono
finiti alcuni domini come .sex, .casino, .baby, .vodka, .gay, che possono in qualche modo
offendere alcuni valori morali e invogliare gli utenti a ricercare materiale “immorale”.
A finire sotto accusa nella “lista nera” saudita c’è anche il dominio .baby, richiesto dalla
«Johnson&Johnson» per pubblicizzare i suoi prodotti dedicati alle giovani fasce d’età.
Secondo l’Arabia Saudita dietro questo tipo di domini (come anche .virgin, richiesto dalla
società «Virgin») si potrebbero facilmente celare siti pedopornografici o comunque inclini
al mondo della trasgressione e dell'illegalità. Tra i domini contestati rientra anche .islam,
sostenendo come una singola azienda non possa farsi portavoce di un’intera comunità, o di
gran parte della cultura mussulmana mondiale.
I siti che richiamano all’omosessualità restano sotto l’occhio vigile dei Saud 23, tuttavia le
proteste delle comunità internazionale hanno attenuato questo genere di controllo
(l’omosessualità è un tema che spaventa, ma è considerato fondamentalmente meno
pericoloso della denuncia politico-religiosa tout court).
Attualmente l’Oni tiene sotto osservazione paesi ad alto tasso di censura come Oman,
Sudan, Siria, Tunisia, Emirati Arabi Uniti e Yemen. Subito dopo vengono Bahrain,
Giordania, Libia e Marocco.
22
Con il termine dial-up si fa riferimento alle connessioni tra computer realizzate con l'utilizzo di modem
tramite la composizione di una normale numerazione telefonica, utilizzando quindi l'usuale banda fonica a
bassa frequenza.
23
Il governo ha ricevuto numerosi reclami quando ha cercato di chiudere Gme, un portale dedicato alle
persone gay e lesbiche della regione, nel giugno 2011. Dopo i reclami, il governo ha eliminato i blocchi.
Capitolo Quarto
Media e sicurezza
Si è già detto che lo sviluppo dei mass media ha permesso la diffusione a livello globale di
cultura e informazione, e sovente ha infranto le barriere che separavano alcune realtà
geopolitica da altre. Poco si è detto, tuttavia, circa la funzione rivestita dai mezzi di
comunicazione di massa nella propagazione della minaccia e dei messaggi terroristici.
Secondo alcuni studiosi, lo sviluppo dei mass-media moderni sarebbe addirittura la causa
principale del terrorismo. Umberto Eco, ad esempio, intervenendo sulle strategie
perseguite da al Qaeda e sulle inevitabili implicazioni per i mezzi di comunicazione di
massa, afferma che
questi ultimi, proponendo giorno dopo giorno, con una certa insistenza, l’immagine di
bin Laden hanno fornito allo sceicco del terrore miliardi e miliardi di pubblicità
gratuita. Gli hanno dato esattamente quello che lui voleva raggiungere […] i media,
senza volerlo, si sono presentati come il più grande alleato di bin Laden.
I terroristi si servono dei mezzi di comunicazione per ampliare la diffusione del loro
messaggio e per raggiungere orecchie altrimenti sorde alla loro causa.
I media vengono utilizzati dai messaggeri del terrore per una varietà di scopi: possono
offrire una piattaforma per la diffusione e l’amplificazione della propaganda armata, ma
possono essere d’aiuto per raccogliere informazioni e segreti sul mondo esterno per
un’organizzazione sotterranea.
Il sociologo canadese Marshall McLuhan ha affermato che “il terrorismo è un modo di
comunicare. Senza comunicazione non ci sarebbe il terrorismo”.
I terroristi, fin dall’inizio, si prefiggono di ottenere la massima risonanza possibile delle
loro gesta; l’atto è compiuto non tanto per quello che realizza in sé, ovvero per gli effetti
che provoca, quanto perché i media ne parlino ed esso si trasformi in un detonatore
propagandistico dell’ideologia.
È quindi chiaro che la maggioranza dei cosiddetti terroristi moderni e di determinati settori
della comunicazione di massa vivono in un simbiotico rapporto di beneficio reciproco. Ma
la cesura, tra vecchio e nuovo terrorismo internazionale, è particolarmente evidente in
relazione allo sviluppo dei media e alla gestione delle notizie. Per quanto riguarda
specificatamente il news management nelle emergenze da terrorismo (attentati,
dirottamenti e presa di ostaggi, etc.), già nel 1976 una Commissione appositamente
nominata dal governo degli Stati Uniti aveva pubblicato il suo Rapporto su Disordini e
Terrorismo, presto divenuto la base di riferimento per i media, ed in particolare per i
network televisivi circa la messa a punto dei propri codici di condotta.
Rileggere oggi il Rapporto del 1976 fornisce la misura di quanto lontano sulla via della
ingovernabilità si sia spinto il fenomeno del terrorismo internazionale, che muoveva allora
i primi passi. Certamente, alcune raccomandazioni mantengono tuttora una loro validità:
evitare la divulgazione di informazioni tattiche, basarsi sui portavoce ufficiali, bilanciare la
propaganda terroristica con le dichiarazioni del governo. Tre comportamenti raccomandati
ai giornalisti sono particolarmente significativi in questo senso: 1) l’impegno a non
intervistare i terroristi; 2) la disponibilità dei corrispondenti delle varie testate a operare
riuniti in pool organizzati e supportati dalle autorità; 3) l’impegno a procrastinare la
diffusione delle notizie di particolare rilevanza. Un’analisi puntuale di queste tre
raccomandazioni mostra la loro parziale o integrale attuazione nell’era del nuovo
terrorismo.
Passando dal protagonista che domina la scena allo show che lo ospita, il medium più
efficace nella trasmissione della notizia dell’attività terroristica è sicuramente la
televisione. A partire dal primo dirottamento aereo, operato nel 1968 da un commando del
Fronte Popolare di Liberazione della Palestina ai danni di un aereo di linea israeliana,
passando per la presa in ostaggio dei passeggeri del velivolo della Twa nel 1985, fino ad
arrivare ai proclami di Osama bin Laden mandati in onda dall’emittente del Qatar Al
Jazeera, il medium al centro delle attenzioni dei terroristi, delle polemiche e delle misure
restrittive dei governi è appunto la televisione. Le caratteristiche strutturali del sistema
televisivo costituiscono un tramite ideale per la diffusione istantanea, capillare, facilmente
fruibile e partecipabile di eventi ad elevatissimo contenuto emotivo come quelli creati dal
terrorismo.
Sulla base di analisi, più o meno consapevolmente riconducibili alla teoria della simbiosi,
da circa trent’anni a questa parte i governi dell’Occidente tentano di recidere o almeno
interporre dei filtri al legame che esisterebbe oggettivamente tra terrorismo e media, in
particolare la televisione, accusata di rendere affascinante e quindi contestualmente di
normalizzare ciò che presenta e, dunque, anche i crimini terroristici. D’altro canto, le
policy dei governi non sono tutte uguali: in esse è possibile riconoscere da un lato il
modello americano, basato sulla preferenza per una “autoregolazione” dei media quando
l’oggetto della loro attività è il terrorismo, dall’altro il modello europeo, più “dirigista”.
Per quanto riguarda il modello “dirigista”, a partire dagli anni Settanta alcuni governi
europei si sono trovati alle prese con il terrorismo interno e di matrice nazionalista.
Nel 1985, Margaret Thatcher, impegnata a fronteggiare una lunga ondata di attentati ad
opera dell’Ira (Irish Repubblican Army), aveva definito la pubblicità “l’ossigeno del
terrorismo”, emanando tre anni più tardi il Broadcasting Ban che vietava interviste
radiofoniche e televisive ad esponenti repubblicani irlandesi.
Per quanto riguarda invece il modello americano, presidenti e ministri americani hanno
preferito ricorrere, piuttosto che alle legislazioni speciali, alle raccomandazioni e ai codici
di condotta auto-prodotti dai media. Infatti, all’indomani dell’11 settembre 2001,
l’amministrazione Bush ha esercitato una pressione affinché i network limitassero
l’esposizione mediatica dei terroristi. All’uscita del primo video-proclama di Osama bin
Laden, ad esempio, il Consigliere per la sicurezza nazionale americana, Condoleeza Rice,
ha contattato personalmente i presidenti delle maggiori compagnie televisive del paese
(Abc, Cbs, Nbc, Cnn, Fox) per chiederne l’oscuramento, mentre nel caso della radio
pubblica «Voice of America», la preziosa intervista che quest’ultima era riuscita ad
ottenere dal mullah Mohammed Omar è stata semplicemente cancellata per ordine del
Dipartimento di stato.
La spiegazione avanzata da Washington ha richiamato l’esistenza di ragioni di sicurezza: ci
sarebbe stato, cioè, il timore che quei messaggi contenessero segnali in codice per le altre
cellule terroristiche. Pertanto, la Cnn ha accettato immediatamente la richiesta
dell’esecutivo.
Ma l’intero sistema, dopo l’11 settembre, sul territorio americano e nello stesso
Afghanistan, è stato caratterizzato da una situazione caotica sul piano comunicazionale,
scandita dall’aspra competizione fra le maggiori testate e dal difficile rapporto tra media e
governo riguardo alle policy informative da seguire. La questione sostanziale è quella che
per le autorità è l’intempestività, nel senso di precocità inopportuna, nella divulgazione
delle notizie che hanno per oggetto il terrorismo e che per i giornalisti, al contrario, è la
tempestività nel senso della prontezza informativa. Qui, la divergenza tra le due parti su ciò
che sia giusto fare è strutturale: per i media, a differenza delle autorità governative, è
imperativo pubblicare la notizia di cui si entra in possesso nel più breve tempo possibile,
sia come servizio nei confronti del pubblico, sia come tutela nei confronti della
concorrenza.
Su temi molto coinvolgenti ed emotivi come appunto il terrorismo, per le autorità la
pubblicazione della notizia dovrebbe essere sottoposta ad un processo dilazionatorio dei
tempi di divulgazione della notizia e quindi, indirettamente, d’attenuazione del suo
impatto. A livello soggettivo, anche se animati dalle migliori intenzioni di comportarsi in
modo patriottico e di cooperare con le autorità, i media non accettano mai volentieri di
limitare la tempestività della divulgazione della notizia, tendenzialmente coincidente per
loro con il momento dell’apprendimento della stessa: solo in alcune situazioni particolari si
registrano casi di “flemmatizzazione”, attuati però spontaneamente dagli operatori
dell’informazione.
Per le modalità con cui si è realizzato, un evento come il duplice attacco alle Torri Gemelle
e al Pentagono è oggettivamente tale, da spazzare via qualunque pretesa di dilazionare,
attenuare o in qualsiasi altro modo filtrare un evento la cui tragicità è eguagliata soltanto
dalla spettacolarità. Rispetto ad azioni coperte di commando isolati, ad uccisioni senza
testimoni di singoli ostaggi, all’esplosione di edifici che non sono stati fissati dalle
telecamere, con il colossale e inaudito colpo inflitto al cuore di Manhattan il nuovo
terrorismo si è installato al centro del proscenio mediatico, scacciandone gli altri attori,
monopolizzandolo per mesi e, infine, minacciando di tornarvi in qualsiasi momento.
Il successo più grande di Osama bin Laden è stato quello di essere riuscito a scatenare una
vera e propria guerra tra le televisioni del mondo per accaparrarsi i suoi proclami. La prova
lampante della vittoria della strategia mediatica di al Qaeda sono a tutt’oggi le centinaia di
giovani mussulmani che vengono reclutati online e vanno nei teatri per immolarsi come
martiri.
Le rivendicazioni delle stragi dei militari italiani a Nassiriya e degli attentati alle sinagoghe
d’Istanbul24 sono arrivate tramite alcuni siti islamici. Le principali televisioni arabe, «Al
Jazeera», «Al Arabiya» e «Abu Dhabi», si sono astenute dal definire “terrorismo” le stragi
ad Istanbul. I grandi giornali, «Asharq al Awsat», «Al Hayat» e «Al Ahram», hanno
parlato di resistenza irachena anche quando sono stati massacrati funzionari Onu e civili
innocenti.
Il terrorismo di al Qaeda e dei jihadisti ha puntato attraverso i media per condizionare la
psiche umana e per conquistare l’anima degli aspiranti combattenti islamici, ma anche per
terrorizzare la mente dei nemici.
24
Si allude ai 27 morti e ai 450 feriti, causati da un attentato di kamikaze legati ad al Qaeda e al gruppo turco
Ibda-C contro due sinagoghe di Istanbul (15 novembre 2003).
Se si analizza la diffusione di internet tra i militanti delle varie religioni, è di tutta evidenza
che oggi gli islamici sono i principali fruitori e navigatori online.
Internet, oggi, è la nuova frontiera del terrorismo islamico: prima grazie all’ingente fortuna
del miliardario saudita bin Laden, che ha deciso di investire sull’arma del terrore per
conquistare il potere politico ed economico in Arabia Saudita e nel resto del mondo
islamico; poi globalizzando e sponsorizzando in una sorta di franchising del terrore. O
meglio una miriade di cellule attive e dormienti nei quattro angoli della terra; ed ora
scatenando l’assalto frontale e generale al nemico, per portare a termine la strategia
d’annientamento inaugurata l’11 settembre 2001.
Una strategia in cui la guerra dell’informazione assume un ruolo sempre più centrale.
Basti pensare solo al fatto che gran parte dei giovani mussulmani che affluivano alle
frontiere con l’Iraq, dal 2003 in poi, in attesa di potervi entrare sotto le sembianze di
contadini, artigiani, o turisti, avevano un’età tra i 20 e i 22 anni. Nessuno di loro era mai
stato in Afghanistan ai tempi dei mujaheddin, né aveva frequentato un campo
d’addestramento jihadista. Ebbene, sono stati indottrinati e arruolati tra le fila di al Qaeda
soltanto tramite internet. L’islam politico sta guadagnano punti in Nord Africa e in Asia
anche grazie ad internet. Tutto ciò sembra inverosimile, soprattutto se si riflette sul fatto
che i feroci burattinai del terrore e i sanguinari kamikaze possano essere operatori della più
sofisticata tecnologia informatica.
Si tratta purtroppo di un dato di fatto, che smentisce il luogo comune secondo cui il
fanatismo religioso e la modernità sarebbero incompatibili. Inoltre, internet consente ai
militanti islamici di infrangere le barriere che ostacolerebbero il loro movimento fisico
qualora dovessero spostarsi da un paese all’altro. Da ciò scaturisce che, nel mondo
globalizzato, anche il terrorismo islamico si è emancipato, appropriandosi degli strumenti
propri della globalizzazione.
Il fatto che i terroristi utilizzino i mezzi di comunicazione per i propri fini ha dato luogo a
polemiche di vario genere, soprattutto in quei paesi democratici dove si è posto il dilemma
se fosse più conveniente ad una democrazia ignorare gli appelli dei terroristi (e di
conseguenza mettere a repentaglio la vita di innocenti) o continuare ad applicare le regole
giornalistiche e il diritto di cronaca, rischiando, all’inverso, di essere strumentalizzati e
diventare addirittura degli involontari fiancheggiatori dei terroristi.
In questo ambito i terroristi hanno dimostrato sul campo di conoscere alla perfezione le
potenzialità del mezzo mediatico e le sue capacità di convincimento. Hanno agito sempre
come comunicatori, hanno cioè sempre portato avanti un’azione comunicativa. E quindi
non risulta azzardato considerare che, presumibilmente, dietro a questa massiccia
utilizzazione dello strumento mediatico si nasconda la conoscenza approfondita di
dettagliate strategie comunicative, orientate all’ottima riuscita degli intenti.
L’Occidente, dal canto suo, non è rimasto certamente a guardare e diverse iniziative sono
state avviate allo scopo di limitare il terrorismo in internet.
La Task Force Onu per l’Attuazione delle strategie contro il terrorismo (Ctitif), in
occasione di uno workshop tenutosi dei giorni 25-26 gennaio 2012, si è fatta promotrice
della revisione delle misure legali esistenti e possibili per vietare o limitare l’utilizzo di
internet a scopi terroristici.
I rappresentanti dei paesi membri dell’Organizzazione si sono scambiati esperienze
sull’efficacia delle misure legali esistenti relative all’utilizzo di internet a scopi terroristici,
in aree quali la propaganda e l’incitamento, il reclutamento, l’organizzazione di atti
terroristici, il finanziamento del terrorismo e gli attacchi diretti ai network e ai sistemi
informatici.
Il Centro di Informazione Regionali delle Nazioni Unite ha comunicato che:
Gli stati membri si impegnano a lavorare con le Nazioni Unite per esplorare modi e
mezzi di coordinamento degli sforzi a livello internazionale e regionale per contrastare
il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni su internet, e utilizzare internet
come strumento per contrastare la diffusione del terrorismo, riconoscendo che gli stati
potrebbero necessitare di assistenza in proposito.
La risposta censoria attraverso la chiusura dei siti e la denuncia dei gestori fino all’arresto,
non ha dato oggi i frutti sperati. La disponibilità di svariate piattaforme informative rende
infatti la risposta censoria limitata. Siti web cancellati si materializzano, immediatamente
dopo, in un altro stato e in un’altra forma, ma con i medesimi contenuti.
Pertanto, non si ritiene che l’oscuramento dei siti possa costituire la soluzione al problema
dell’utilizzo di internet da parte del neo-terrorismo, che invece necessita di una attenta e
continua azione di monitoraggio della rete, ed in particolare dei forum di discussione e
delle riviste online25.
Altro problema allo studio delle forze armate e dell’intelligence dei paesi più avanzati è
rappresentato dagli attacchi informatici, o cyber war.
Come sottolinea Scott Borg, direttore e amministratore delegato della società no-profit
«Us Cyber Consequences Unit» (uno dei maggiori esperti sull’impatto economico degli
attacchi informatici), quegli attacchi saranno un fattore determinante nelle relazioni
internazionali, prossime e future, perché non investono la semplice sfera delle
telecomunicazioni, ma l’intero processo produttivo e la sicurezza complessiva dei paesi.
Per Scott Borg:
Quasi tutti i processi industriali su larga scala o ad alta tecnologia si basano sui
computer, ma non per risparmiare lavoro. I paesi con manodopera a basso costo
utilizzano i computer in tali processi in misura altrettanto intensa di quelli dove il
lavoro costa caro. Applichiamo controlli computerizzati in tutte le nostre industrie
perché ci consentono un gran numero di aggiustamenti estremamente precisi e
strettamente coordinati che favoriscono lo sviluppo di processi produttivi e il
raggiungimento di livelli di efficienza altrimenti impensabili […] quasi tutti i processi
produttivi che utilizzano le moderne tecnologie si basano sui computer. La guerra
cibernetica potrebbe trarre vantaggio da queste condizioni per provocare distruzioni.
Ovunque esista un computer che esegue istruzioni vi è la possibilità di fargli eseguire
istruzioni indesiderate attraverso un attacco informatico.
Quasi tutto ciò che un essere umano potrebbe fare manipolando sistemi di controllo
computerizzati sarebbe realizzabile mediante un attacco del genere […] col risultato
«Inspire», ad esempio, è il nome di una nuova rivista online, in lingua inglese, di al Qaeda e all’interno di
essa spiccano servizi dal titolo “costruisci una bomba”, “informazioni di servizio per inviare e ricevere
messaggi terroristici criptati” e “reportage sulla guerra tra le montagne”.
25
che un grande attacco informatico a tutto campo potrebbe consentire ad agenti nemici
di assumere il controllo in larga parte dei sistemi computerizzati di un’intera nazione.
Provate ad immaginare quali danni si potrebbero infliggere a un paese se agenti ostili
riuscissero a controllare le sue centrali elettriche, le sue raffinerie, i suoi oleodotti, gli
scambi ferroviari, i centri di controllo dei voli, gli impianti chimici, le strutture
ospedaliere, i sistemi idrici e le fognature. Supponiamo che questi agenti siano stati
istruiti a provocare il massimo del danno possibile. L’economia di quel paese
continuerebbe a funzionare, solamente due o tre ore dopo 26?
Fino ai nostri giorni non vi è stata alcuna guerra cibernetica mondiale, se escludiamo
gli attacchi informatici periodici a sostegno della guerra tradizionale.
Solo l’attacco sferrato da Usa e Israele contro l’Iran (per distruggere le centrifughe
iraniane attraverso il virus Stuxnet) può essere considerato un esempio della potenza
di questa nuova tipologia di conflitto.
Ma siamo solo agli inizi di una originale quanto spaventosa sfida mondiale, e non è
detto che ad imporsi sugli altri siano sempre i paesi democratici.
In questa direzione, spaventano anche i possibili rischi legati agli attacchi anonymous.
L’anonimato, per Borg, può rimanere inviolabile a lungo e ottenerlo non richiede metodi
particolarmente sofisticati. Quando si vuol lanciare un attacco, si può usare un computer
portatile poco costoso, rubato o acquistato anonimamente in contanti. È possibile accedere
ad internet sfruttando la connessione di un caffè, di un albergo, ma anche dal parcheggio
vicino ad un palazzo di uffici, inoltrando i programmi attraverso i computer di paesi che
rifiutano di collaborare all’individuazione delle fonti. Dopo l’attacco, si può distruggere
fisicamente il disco rigido del computer portatile e buttar via tutto il resto.
Se un attacco informatico è concepito da persone esperte, non vi sarà alcuna possibilità di
rintracciarne i responsabili.
Aggiunge Borg:
il fatto che gli attacchi informatici possono essere anonimi ed estremamente difficili
da rintracciare dopo aver prodotto i danni previsti, rende in gran parte irrilevanti le
vecchie strategie militari. La dissuasione basata sulla minaccia di ritorsioni non
funziona molto bene se non si riesce a scoprire chi ha sferrato l’attacco.
La cosiddetta Mutual assured destruction (Mad27) non è più molto credibile in
un’epoca in cui ben difficilmente si può garantire che qualsiasi dispositivo svolga la
funzione cui è preposto. La sorveglianza dei confini nazionali per contrastare l’arrivo
di missili, aeroplani, carri armati o truppe non serve a molto se l’attacco nemico
spunta all’improvviso dall’interno dei computer che controllano le industrie
strategiche di un paese. I sistemi di rapida allerta possono servire a ben poco se non si
può stabilire quale forma assumerà l’attacco fino a quando non abbia prodotto i suoi
danni. L’individuazione di regole di ingaggio diventa molto problematica quando gli
26
27
Scott Borg, Logica della Guerra cibernetica, in Quaderni Speciali di Limes, anno 4° n.1
Nella strategia militare, la distruzione mutua assicurata è una teoria (enucleatasi ai tempi della guerra
fredda) che in concreto si sviluppa intorno all'ipotesi di una situazione di attacco o aggressione militare con
uso di armi nucleari; in questo caso, ogni utilizzo di simili ordigni da parte di uno dei due opposti
schieramenti finirebbe nella distruzione sia dell'attaccante che dell'attaccato. Questo avrebbe la conseguenza
di creare una situazione di stallo in cui nessuno può permettersi di far scoppiare una guerra globale, poiché
non ci sarebbero né vincitori né armistizi, ma solo l'inevitabile distruzione.
attacchi informatici possono provocare un’ampia varietà di conseguenze con molti
livelli d’intensità.
A fronte di tutto ciò, conclude Borg, da parte occidentale l’impegno nella sicurezza e nella
prevenzione del terrorismo va completamente ripensato, partendo dal presupposto che il
principale terreno di scontro del futuro potrebbe non essere più quello tra eserciti, flotte
navali e forze aeree.
Capitolo Quinto
Comunicazione e social network nel Nord Africa e nel Grande
Medio Oriente
Sono trascorsi circa due anni da quando Mohamed Bouazizi si è dato fuoco (2011) per
protestare contro il governo e la polizia tunisina. Le fiamme di quel rogo si sono estese in
pochi mesi in tutto il mondo arabo, dando inizio alla cosiddetta primavera araba.
La primavera araba ha prodotto profondi cambiamenti in Tunisia e in Egitto, ha suscitato
speranze e attese in tutto il mondo, e ha posto nel contempo nuovi interrogativi circa il
futuro dell’area. L’estremismo islamico, represso duramente da Ben Ali in Tunisia, dagli
Assad in Siria e da Gheddafi in Libia, sta pericolosamente rialzando la testa, mettendo in
discussione tutti i sogni, veri o presunti, dei giovani rivoluzionari arabi.
In Tunisia, i tumulti di piazza – e la rottura di un settore consistente dell’esercito col
presidente – hanno costretto Zine el-Abidine Ben Alì, ventitré anni dopo il colpo di stato
medico che lo aveva condotto al potere, alle dimissioni e alla fuga dal paese.
Le elezioni per l’Assemblea Costituente, tenutesi il 23 ottobre 2011, hanno consegnato la
Tunisia nelle mani del partito islamico Ennahda, un’organizzazione bandita sia da
Bourguiba sia da Ben Alì, che è nata più di trent’anni fa nel solco del pensiero
dell’egiziano Sayyd Qutb, del pakistano Abu Ala Maududi e della rivoluzione iraniana.
In Algeria, il rincaro dei beni di prima necessità ha provocato tra la fine del 2010 e l’inizio
del 2011 una serie di proteste che hanno indotto il presidente Abdelaziz Bouteflika a
proclamare lo stato d’emergenza.
In Egitto, la collera è esplosa il 25 gennaio 2011 e già l’11 febbraio i manifestanti di piazza
Tahrir, dopo diciotto giorni di serrate, hanno ottenuto le dimissioni di Hosni Mubarak.
Dopo trent’anni di regime del presidente, nel mese di giugno del 2012 l’Egitto ha eletto
come nuovo presidente un esponente di rilievo dei Fratelli Mussulmani: Mohamed Morsi.
In Libia, l’operazione Nato “Unified Protector” (cui hanno partecipato anche paesi esterni
alla coalizione) ha portato al rovesciamento e alla morte del colonnello Gheddafi, dopo
quarantuno anni di potere. Ma il quadro politico interno rimane precario e l’islam radicale
sembra oggi aver riconquistato il paese.
In Marocco, rimasto ai margini delle rivolte, si è registrata l’ascesa al potere del partito di
lotta e di , il Pjd (Partito di Giustizia e Sviluppo) di ispirazione islamica.
Il Marocco è stato interessato solo marginalmente da episodi di rivolta di piazza; tuttavia,
le elezioni tenutesi a novembre confermano le tendenze in atto nella regione, con l'ascesa
del Parti de la justice et du développement (Pjd), partito moderato di ispirazione islamica
presente dal 1998 sullo scenario politico marocchino.
Le grandi proteste scoppiate il 20 febbraio 2011, in un momento in cui il processo di
riforma veniva annunciato ma non attuato, hanno sorpreso il regime, ma la polizia non è
intervenuta. Malgrado cinque persone siano rimaste uccise in una sommossa, le proteste
sono state sempre contenute. Il 19 marzo 2011 si è avuto un improvviso cambio di
direzione da parte del re e sono state annunciate forme di revisione della costituzione;
annuncio che è stato salutato in Occidente come un passo avanti importante verso una
monarchia costituzionale.
Il Pjd ha acquisito centosette dei trecentonovantacinque seggi, come il più grande partito, e
anche se non ha ottenuto la maggioranza, il re ha scelto il suo leader Abdelilah Benkirane
come primo ministro. Dopo le elezioni, il Pjd ha aumentato i suoi consensi reali e il
movimento “20 febbraio” sembra aver perso rilievo nel dibattito politico.
La primavera araba ha scatenato un dibattito planetario non solo sul ruolo dei regimi,
sull’islam radicale o sul rapporto tra paesi dipendenti ed Occidente, ma ha costretto buona
parte degli analisti a studiare la funzione dei media e dei social network nello scatenamento
delle rivolte e nel risveglio giovanile. Le rivolte nel Maghreb hanno generato una florida
letteratura anche sul tema del rapporto tra internet e dittature: il web 2.0 è uno strumento
per abbattere i regimi o un mezzo per controllare le ribellioni?
Sul primo punto, si può sostenere che il mondo arabo ha vissuto, con l’utilizzo diffuso dei
social network, un risveglio formale della libertà di espressione, che è divenuto vivido con
le rivolte in Tunisia e in Egitto, e ha contribuito a rompere il monopolio nell’ informazione
di questi paesi. Dal 2009 al 2011, l'ascesa dei media indipendenti è stata così forte da
indurre gli analisti a prevedere che nel 2015 vi saranno circa 100 milioni di utenti nel
complesso dei paesi arabi28.
La nuova comunicazione messa in rete da Facebook e Twitter è stata esaltata fino
all’eccesso per la sua capacità di superare censure e paure e di collegare un numero
indefinito di persone senza costringerle a riunione riservate o ad incontri vis-a-vis. Ma
attribuire ai nuovi mezzi tecnologici una funzione rivoluzionaria, o semplicemente
considerarli determinanti nello scoppio delle rivolte, è sicuramente eccessivo quanto
superficiale. La convinzione che i social network riescano a creare una coscienza più alta e
forte rispetto a quella già dettata da eserciti, religioni, partiti leaderistici e radicali è
senz’altro una forzatura impressionistica.
Andrea Matiz ha sostenuto, in un articolo su Limes on line, che:
L’efficacia dei cambiamenti portati dai social media è legata a una combinazione
positiva di fattori che renda possibile la messa in moto della loro capacità di
28
L’enorme potenziale di questa realtà è stato esaltato da Google che ha tenuto il suo primo «G-Days» in
Egitto e Giordania. Yahoo! ha creato recentemente la sua versione in arabo, «Maktoob». Poi sono seguiti
Google+, Facebook e Twitter: l'arabizzazione dei contenuti dei motori di ricerca e dei social worker cresce a
passo serrato in tutto il mondo arabo. Il tasso di crescita degli utenti della versione araba di Facebook non è
da meno: circa 175% all'anno, il doppio del tasso globale, con punte in Egitto e nei paesi del Levante che
toccano il 200%. Anche Google, che offre già contenuti in arabo ed e' usato dal 44% degli utenti internet del
Medio Oriente, sta puntando a prodotti più mirati per la clientela araba.
Tuttavia, secondo vari studi incrociati, i contenuti in lingua araba in internet non raggiungono l'uno
per cento a fronte degli ottantotto milioni di utenti arabi che rappresentano circa il 7% della popolazione
globale internet. Eppure, la penetrazione è altissima. Negli Eau e' del 74%, la più alta in assoluto nella
regione. In Arabia Saudita e' del 56%, del 44% in Libano e del 30% in Giordania. Numeri impressionanti che
svelano un alto desiderio di informazione e azione da parte dei settori più istruiti e giovani (19-24 anni) della
popolazione araba. Un interesse che non poteva non colpire i colossi della tecnologia mondiale e quelle
potenze che sono da sempre interessate a capire -e controllare- quel che succede a sud del Mediterraneo e nei
paesi del Golfo.
mobilitazione, all'interno di un contesto geopolitico ed economico favorevole e in una
realtà dove tali strumenti siano da tempo riconosciuti come liberi rispetto al controllo
statale e/o non sottoposti a controlli di censura da parte del governo.
I social media non si possono considerarsi portatori di cambiamento istituzionale, ma
semplicemente canali attraverso i quali far convogliare le idee di cambiamento, come
la stampa, la radio e la televisione in passato. Come i tradizionali mezzi di
comunicazione, sono un’opportunità di aggregazione e di condivisione di idee; così
come i loro “fratelli maggiori” possono solo influenzare l'opinione pubblica, allo
stesso modo internet non è portatore per definizione di finalità democratiche o di
cambiamento istituzionale.
Come afferma Lerry Diamond, “chiaramente, le tecnologie sono meramente degli
strumenti, aperti allo stesso modo a fini nobili e non. Come la radio e la televisione
possono essere veicoli di informazioni plurali e di dibattito razionale, così possono
essere guidati da regimi totalitari al fine di promuovere mobilitazioni fanatiche o
garantire il controllo statale”.
I social media non sono portatori di cambiamento istituzionale per tre ragioni: la prima
riferita alla loro stessa natura, ovvero al fatto che essi nascono come strumenti neutri,
dove l’utente viene chiamato a svolgere come compito primario quello di inserire dei
contenuti, di qualunque genere esso siano. In secondo luogo perché non sono beni
accessibili a tutti, visto che sono richieste capacità e possibilità che portano ad
escludere ampie fasce della popolazione. In terzo luogo perché non sono realmente
parte del territorio o del vissuto quotidiano: hanno sempre bisogno di un ulteriore
passaggio, di un’entità fisica (gruppi, partiti, associazioni) che tramuti in fatti le
aspirazioni virtuali29.
Nondimeno, è innegabile che i nuovi media abbiano accompagnato le proteste in Iran,
Egitto, Tunisia e, un anno più tardi, in Siria, fungendo da megafono delle nuove
generazioni e delle rivolte stesse.
Un anonimo tunisino, noto virtualmente come Foetus, ha paragonato Facebook al Gps per
il ruolo avuto nella rivoluzione che ha travolto il regime del suo paese:
Senza la strada non ci sarebbe stata la rivoluzione, ma l’aggiunta di Facebook ha
fornito il reale potenziale30
Passando al ruolo dei regimi, si può oggettivamente evidenziare che i governi non hanno
assistito passivamente al fenomeno: sono stati centinaia gli attivisti arabi, gli scrittori e i
giornalisti che hanno dovuto affrontare ripercussioni a causa della loro attività on-line.
In Egitto, il blogger Abdel Kareem Nabil Soliman, noto come Kareem Amer, è stato
rilasciato nel mese di novembre del 2010, dopo più di quattro anni di carcere e torture,
causati dai suoi presunti attacchi all’islam e a Mubarak.
In Siria, il diciannovenne Tal al-Mallouhi ha trascorso un anno in galera (2009-2010) per
aver pubblicato delle poesie sulla libertà d’espressione sul suo blog.
In Bahrain, il blogger Ali Abduleman è stato imprigionato con l’accusa di pubblicazione di
notizie false sul suo popolare sito BahrainOnline.org.
29
Andrea Matiz, Tra social media e democrazia non c’è nessun legame,
http://temi.repubblica.it/limes/tra-social-media-e-democrazia-non-ce-nessun-legame/34786.
30
09/05/2012
«Streetbook: How Egyptian and Tunisian Youth Hacked the Arab Springs», Technology Review,
settembre-ottobre 2011, www.technologyreview.com/web/38379/?mod=ArabSpring_feature.
Le tensioni sono aumentate in diretta correlazione con la diffusione della connessione a
banda larga, che vede primeggiare gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Qatar.
Attualmente, si stimano circa 40.000 blog aperti in tutto il mondo arabo.
Il governo egiziano, fino alla caduta di Mubarak, ha mantenuto in piedi uno staff di circa
quarantacinque persone per monitorare l’attivismo su Facebook, particolarmente
importante nelle comunicazioni al tempo della caduta del presidente, animato da circa
cinque milioni di egiziani.
Youtube ha un seguito consistente e si sta affermando lentamente come la vera televisione
alternativa del mondo arabo. Secondo un dirigente di Google, in tutta la regione i giovani
caricherebbero circa 24 ore di video ogni minuto.
Localmente stanno spuntando piattaforme di social media come NowLebanon.com con
sede a Beirut, Aramram.com, 7iber.com, Ammannet.net e AmmonNews.net, tutti con sede
ad Amman, con una varietà di video e notizie non sponsorizzate dai media di governo.
Giornali e media di regimi sono stati letteralmente eclissati dall'avvento e dall'adozione dei
social media, in particolare in paesi come l'Egitto, leader nel settore dei social media,
seguito da Giordania, che ha una fiorente attività d’informazione e comunicazione, Emirati
Arabi Uniti e Libano, modello regionale quanto a liberalismo mediatico.
Nei detti paesi, i social network sono considerati addirittura più attendibili di Al-Jazeera,
specie in materia di sessualità, diritti delle minoranze, politica estera.
Nel settembre 2010 il blogger Wael Khalil, ad esempio, ha smascherato una foto ritoccata,
pubblicata sul giornale statale Al-Ahram, di una riunione che si era tenuta a Washington
pochi giorni prima sul problema palestinese. La foto ritraeva tutti i presenti – Obama,
Mubarak, Mahmud Abbas, Netanyahu e re Abdullah II di Giordania – con Mubarak al
centro della foto, come ad indicare la particolare importanza dell’Egitto nella risoluzione
del conflitto israelo-palestinese. Wael Khalil ha mostrato che Mubarak era in realtà
leggermente dietro i quattro capi di stato.
Se dunque la tecnologia di comunicazione digitale ha ampliato gli strumenti a disposizione
degli arabi per esprimere la propria libertà di espressione, l’impatto dei nuovi media sulla
società reale è ancora lungi dall’essere dimostrata.
Stando a Freedom House, la stessa libertà di espressione on line è in declino in tutto il
Medio Oriente e in Nord Africa, perfino nei paesi che non usano bloccare i siti web.
Le dure leggi in materia di diffamazione e calunnia, con il relativo richiamo allo stato
d’emergenza, fanno sì che in Egitto, Libia, Siria e Arabia Saudita, blogger e giovani
internauti fatichino a comunicare liberamente.
Una parziale risposta in questo senso è stata avviata da «Global Voices», «Reporter Senza
Frontiere», «Human Rights Watch» e «Amnesty International», da tempo attive in
campagne di sensibilizzazione sulle libertà individuali.
In Bahrain, siti di controinformazione e organizzazioni per la libertà del web si sono
generosamente impegnati quando le autorità locali hanno arrestato ventitré uomini sciiti
accusati di terrorismo e cospirazione contro il governo.
Tra questi, il blogger Abdulemam Ali, torturato in galera e privato del diritto di mettersi in
contatto con la famiglia e con l'avvocato. In sua difesa si sono attivati centinaia di giovani
sui social network arabi – in particolare su Twitter – e il ministro degli Esteri del Bahrain,
Khalid bin Ahmed al-Khalifa.
BahrainOnline nasce nel 1999, creando da subito un vivace dibattito sulla politica interna e
sulla discriminazione contro gli sciiti, che costituiscono la maggioranza del paese
nonostante la dinastia al potere sia sunnita
BahrainOnline ha attirato più di 100.000 visite al giorno e ha raccolto migliaia di
sostenitori attivi, pur subendo ripetuti blocchi dalle autorità.
Dal momento dell’arresto di Adulumam, buona parte dell’attività di BahrainOnline si è
spostata su altri siti, come Facebook.
Ma va annotato che il Bahrain, pur presentando all'inizio del 2011 un'altissima percentuale
di penetrazione tecnologica e un indice di stabilità molto alto, non ha vissuto una stagione
da primavera araba.
Come ha spiegato Andrea Matiz su Limes on line, la ragione è da ricercarsi nella decisione
dell’Arabia Saudita di non tollerare cambiamenti nello status quo ai suoi confini.
Anche in Egitto, Siria, Tunisia, Libano, Marocco, Giordania, Iraq, Kuwait, Bahrein, Arabia
Saudita, Emirati Arabi Uniti e nei Territori palestinesi, le autorità hanno incarcerato
blogger e giovani internauti che hanno espresso le loro opinioni,
Nell’ottobre 2010, in Cisgiordania, i servizi di sicurezza palestinesi hanno arrestato il
ventiseienne Hasayin Waleed Khalid, colpevole di aver scritto delle strofe poetiche sulla
fallacia delle religioni, ispirandosi ai versetti coranici.
Ma il centro più interessante di attivismo nei social media e di impegno sulla piattaforma
virtuale resta Amman, dove esistono molteplici forme di comunicazione fisico-virtuale, ed
esperimenti interessanti di promozione delle arti locali e regionali, come il canale
comunitario Alhoush su Youtube.
Aramram.com è un sito creato da un piccolo gruppo di giovani imprenditori dei media
giordani con l'aiuto dell'«Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale» (Usaid).
Il sito produce video e contenuti su tematiche quali l'ambiente, le minoranze etniche
giordane, la responsabilità civile, la musica, la danza, oltre ad offrire il punto di vista di un
professore progressista presso l'Università di Giordania su argomenti di tipo religioso.
“L'idea era quella di creare uno sbocco in cui le persone possono interagire. In Giordania,
le persone non interagiscono, sono in piccoli gruppi e non si aprono facilmente", ha detto
Hams Rabah, ventotto anni, uno dei partner in Aramram.
In Libano, una interessante attività di controinformazione è svolta da «NowLebanon», un
sito che si occupa di “informazione, risorse e attività”. NowLebanon mira a rafforzare la
consapevolezza politica e sociale e a favorire la democrazia partecipativa attraverso un
dibattito costruttivo sulla questione libanese. Il sito ha anche una versione in inglese.
Il sito è stato lanciato nel 2007 nell’ambito del «Workshop Now», un programma nato per
promuovere le rivendicazioni della Rivoluzione dei Cedri (2005) che portò al ritiro siriano.
Le posizioni del sito l’hanno posto spesso in contratto con Hezbollah e con il presidente
siriano Bashar Al-Assad. Il canale è di proprietà di «Quantum Communications», una
società di comunicazione strategica con sede a Beirut, il cui amministratore delegato – Eli
Khouri – è anche a capo della «Fondazione Rinascimento del Libano», un’organizzazione
internazionale che si propone di sostenere la democrazia e le riforme in Libano.
NowLebanon è finanziato interamente dal settore privato e dalle donazioni individuali.
Il sito, già nel 2007, contava circa 30.000 visitatori quotidiani dal Libano, dagli Stati Uniti,
dall’Egitto, dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Europa e da Israele.
La rivoluzione tunisina è nota come la Twitter Revolution, tuttavia son ben pochi i tunisini
che si riconoscono in questa formula. Un cyber attivista tunisino, intervistato da «Radio
France International», ha sostenuto:
A mio parere, se i nuovi media sono stati in grado di favorire questa rivoluzione (da
soli), credo che sarebbe successo molto prima.
Le autorità tunisine hanno bloccato Twitter durante le quattro settimane di protesta che
hanno portato al rovesciamento del governo, ma i proxy sono stati regolarmente utilizzati
in Tunisia, e Ben Ali non ha mai chiuso internet.
Un blogger tunisino e attivista di «Global Voices», Sami Ben Gharbia, che gestisce il sito
«Nawaat» (un blog collettivo indipendente che dà voce al dissenso tunisino), ha dichiarato
che gran parte delle immagini e dei contenuti della protesta apparsi sui media tradizionali
provenivano da Facebook.
Un gruppo di attivisti informatici avrebbe raccolto i contenuti da Facebook, li avrebbe
tradotto e poi ripostati su Nawaat e Twitter per i giornalisti e per mostrarli agli altri paesi.
Sami Ben Gharbia ha sottolineato che se il contenuto della rivolta fosse rimasto solo sulla
piattaforma di Facebook non avrebbe ottenuto l’eco mediatica di cui tanto si è discusso nei
mesi successivi alla caduta del presidente.
Twitter avrebbe funto, in sostanza, da emittente televisiva e agenda quotidiana per i media
stranieri e gli utenti esterni al paese.
Nei mesi della protesta, Ben Gharbia ha detto ad un intervistatore:
Ci affidiamo a una rete di attivisti provenienti, in primo luogo, da tutto il mondo arabo
e quegli attivisti, dalla Mauritania all'Iraq, si conoscono tutti. Si allenano a vicenda su
come scaricare video e come utilizzare le mappe di Google. Questi rapporti possono
essere tradotti in più lingue e riutilizzati per i media di tutto il mondo. Questa è stata la
cassa di risonanza della lotta per la strada .
Lina Bin Mhanni, una delle prime attiviste della blogosfera tunisina, è stata un’altra figura
importante nella lotta contro il governo di Ben Alì,
Sul suo blog, «A Tunisian Girl»31, ha raccontato l’esperienza vissuta nel corso della
primavera araba:
Personalmente, ho subito abusi sessuali da parte di tre poliziotti. Mi hanno picchiato
sulla testa, sono stata palpeggiata e maltrattata sessualmente. Tre poliziotti mi hanno
toccato dappertutto, nel cuore di Tunisi, davanti a tanta gente. Non avrei mai
immaginato di dover vivere queste cose.
Nell’aprile del 2010, la polizia ha fatto irruzione nella sua abitazione sequestrando diversi
apparecchi multimediali. Sebbene l’opinione pubblica ritenga lei e il blogger Astrubal, del
già citato blog Nawaat, coloro che hanno rotto il blackout dei media imposto dal regime,
Lina Mhanni ha dichiarato sul «New York Times» del 12 ottobre 2011:
Il ruolo dei media nella primavera tunisina è stato secondario: il moto rivoluzionario è
nato sul terreno. In Egitto sì, gli appelli sono partiti dal web. In Tunisia, Muhammad
31
http://atunisiangirl.blogspot.it/
al-Buazizi si è dato fuoco e tutti hanno iniziato a manifestare e a protestare. Non è
stato un movimento politico né mediatico, ma uno spontaneo movimento sociale. I
social media non hanno dato l’avvio alla rivoluzione. Sono stati solo un utile
strumento che ne ha aiutato la diffusione.
Un anno dopo la caduta di Ben Ali, quando al potere è arrivato il partito islamico
Ennahda, la ragazza tunisina ha scritto:
Manca il lavoro, come mancava prima, c’è corruzione a tutti i livelli, come c’era
prima, ma il dissenso è sempre represso con l’uso della violenza da parte della polizia
e dell’esercito con aggressioni, uso di lacrimogeni, violenze, bastoni. Nel governo c’è
corruzione a tutti i livelli e nonostante le nostre denunce sono tornati gli stessi
picchiatori dei tempi di Ben Alì. Abbiamo le prove. Foto, video, registrazioni, ma
nessuno fa niente per bloccare definitivamente questa oppressione. Io sono stata
aggredita e picchiata presso la piazza dell’Orologio il 9 aprile (2012, ndr) da tre
poliziotti. Mi hanno ferita, hanno tentato di violentarmi sessualmente per indurmi al
silenzio, ma i colpevoli vivono indisturbati, pur essendo stati denunciati. Vogliono
ridurmi al silenzio con la violenza e con ripetute minacce di morte, ma io non mi
fermo.
Questo è quello che ha dichiarato, invece, a Metro World News:
Dopo la rivolta e le elezioni ci sono stati cambiamenti?
No, perché la gente che ha dato vita alla rivolta non aveva possibilità di vincere.
L’unico vero cambiamento è stato l’aver abbattuto le barriere della paura. Ma i
problemi economici, la corruzione, il nepotismo e la mancanza di indipendenza del
sistema giudiziario sono gli stessi.
Ha raccontato la rivolta senza nascondere la sua identità. Non aveva paura?
Sì che ce l’avevo. Sono stata seguita e minacciata. Ma per essere creduti bisogna
metterci la faccia.
Gli attivisti egiziani lamentano che i loro media non sono cambiati, perché sempre
pilotati dalla censura. Combattete lo stesso problema?
Qui è peggio. La censura è di nuovo in vigore: i grandi media sono controllati dal
governo e la gente è manipolata. Inoltre, il potere, con la sua propaganda, ha invaso
anche il web.
Il Egitto, il blocco di Twitter e Facebook è iniziato il 25 gennaio 2011, al fine di fermare
gli attivisti che avrebbero utilizzato il sito per coordinare le proteste contro l'aumento dei
prezzi e la disoccupazione, e anche per chiedere le riforme.
Con un’azione senza precedenti, il 28 gennaio 2011 Mubarak ha tagliato quasi tutti gli
accessi a internet nel paese. Il servizio è stato ripristinato solo sotto le pressione di Obama.
I primi passi dei moti di piazza coincidono (simbolicamente) con l’attivismo sul web di
Kamil, uno studente universitario che ha raccontato sul suo blog le percosse subite dai
poliziotti, in seguito alla denuncia di un incidente capitatogli in treno.
La rabbia dei più giovani esplode in Egitto, con maggiore enfasi, quando il 6 giugno 2010
viene ucciso Halid (Kaled) Muhammad Said, dopo l’arresto avvenuto in un internet café.
Il 7 giugno 2010 due poliziotti – Mahmoud Alfallah e Awad ElMokhber – bloccano Kaled
e gli chiedono i documenti. Al rifiuto di Kaled, i due, anche se non autorizzati alla richiesta
dei documenti, lo riempiono di calci al petto e al ventre per fracassargli subito dopo il
cranio, sbattendolo contro un piano di marmo davanti a tutti. Inferociti, lo trascinano su
un’auto e subito dopo in una stazione di polizia, dove viene torturato fino alla morte.
Per simulare un’aggressione di strada da parte di sconosciuti, il corpo viene gettato tra la
spazzatura in una strada secondaria.
In un rapporto dei giorni seguenti, la polizia afferma che Kaled era morto dopo aver
ingoiato una bustina di marijuana. Ma la famiglia di Said riesce ad ottenere delle foto del
cadavere del ragazzo e a mostrare la mascella distorta dallo stivale del poliziotto. Le foto
vengono pubblicato online dai cugini di Saud e scioccano l’intero Egitto.
Le dimostrazioni di fine gennaio 2011 sono sponsorizzate proprio su Facebook, dove
vengono creati gruppi come il Movimento della gioventù 6 aprile, nato nel 2008, e per
l’appunto, “Siamo tutti Halid Said”.
Il primo movimento nasce ad opera del giovane Ahmed Maher, che insieme ad un amico e
alla sua ragazza decide di creare un gruppo facebook per promuovere una manifestazione
antigovernativa il 6 aprile 2009. In pochi settimane, il gruppo supera i 70.000 iscritti e
attira l’attenzione dello staff di Mubarak.
Questo il racconto di David Wolman sulla rivista on line «Mag Wired»32:
Maher fa parte di quella nuova generazione che in Medio Oriente usa internet come
strumento di lotta: blog, YouTube, Flickr, Twitter e ora Facebook. La nascita di questa
tecno ribellione ha innescato una repressione governativa e attirato l'attenzione del
mondo.
Due pale da soffitto non riescono ad attenuare il soffocante caldo estivo. Negli uffici
del partito El- Ghad, uno dei più solidi gruppi di opposizione del paese, sono stipate
quaranta persone. Tre anni fa, il leader di El-Ghad, Ayman Nour, ha ottenuto il 7% dei
voti nelle elezioni presidenziali. Subito dopo è stato colpito da accuse di brogli: in
molti hanno pensato ad una montatura. Ma questo pomeriggio, l'ufficio di El-Ghad è
occupato da un altro gruppo politico nascente, il movimento 6 Aprile. La maggior
parte dei partecipanti si conosceva solo virtualmente sulle pagine di Facebook, ora
nomi e nickname hanno un volto.
Attaccato al muro c'è un cartello scritto in caratteri arabi, che dice: « Benvenuti alla
prima riunione del movimento giovanile 6 Aprile». Le ragazze, alcune con il capo
coperto, altre no, siedono su sedie di plastica verdi; i ragazzi stanno in piedi,
silenziosi. Fuori, due poliziotti in uniforme e un ufficiale in borghese sorvegliano,
appoggiati a una berlina tirata a lucido. Un altro agente è piazzato in un negozio
d'angolo, gli occhi fissi alle finestre della stanza dove si svolge l'incontro.
Nell'Egitto di oggi, un raduno di cinque o più persone è illegale in mancanza di
autorizzazione e può portare all'arresto, a pestaggi o a entrambe le cose. Il presidente
egiziano Hosni Mubarak è al potere da quasi trent'anni e dal 1981 governa con leggi di
emergenza. Il regime di tanto in tanto viene richiamato da Europa e Stati Uniti per il
suo pessimo atteggiamento nei confronti dei diritti umani. Ma Mubarak è anche
considerato un alleato prezioso per le sue posizioni su Israele e sul terrorismo.
Maher, 27 anni, è un ingegnere civile che lavora per un'impresa di costruzioni.
Qualche volta non si è presentato al lavoro e da alcuni giorni quasi dorme in piedi,
dopo aver passato un'altra nottata al cybercafè. Maher è preoccupato solo di una cosa:
se venisse licenziato, come potrebbe mantenere la moglie e il figlio? Durante la
riunione, Maher continua a leggere o scrive sms. Il posto che hanno scelto per l'azione
di protesta brulica già di agenti.
32
David Wolman, Cerco amici per la rivoluzione, 9 febbraio 2009
http://mag.wired.it/rivista/storie/facebook-cerco-amici-per-la-rivoluzione.html#content
Poche ore dopo, un taxi con a bordo Maher e i suoi amici fila veloce verso nord lungo
la costa, puntando sul luogo del raduno: una spiaggia che si chiama Sidi Bishr. Gli
attivisti sperano di attirare l'attenzione dei lavoratori che si godono un pomeriggio
estivo sotto gli ombrelloni presi in affitto. Il piano prevede di cantare e di far volare un
aquilone per attirare gente e cominciare un dialogo. «Non vogliamo un conflitto», dice
un attivista. «Vogliamo pace e libertà».
Facebook è il terzo sito più frequentato in Egitto, dopo Google e Yahoo. Wael
Nawara, cofondatore del partito El-Ghad, ha seguito con attenzione la rapida ascesa
del network. Quando sono andato a casa di Nawara, a Heliopolis, il suo portatile aveva
sei finestre aperte su Facebook. «Il boom c'è stato con la Coppa d'Africa», dice. La
nazionale di calcio egiziana era arrivata in finale e un gruppo Facebook, lanciato dai
tifosi, era cresciuto rapidamente fino a raggiungere i 45.000 membri. Oggi il sito è
frequentato da quasi un milione di egiziani, circa l'11 per cento della popolazione
online complessiva.
Maher ha fondato il movimento 6 Aprile insieme ad una ragazza, Israa Abdel-Fattah.
Erano diventati amici due anni prima, come volontari del partito El-Ghad. Maher era
già un militante politico. Nel 2006 lo avevano arrestato durante un sit-in di protesta a
fianco dei giudici, che lamentavano interferenze governative nel sistema giudiziario.
Abdel-Fattah, 27 anni, non aveva mai preso parte ad una dimostrazione. Lavorava nel
dipartimento risorse umane di un'azienda del Cairo. Naturalmente, erano entrambi
utenti di Facebook. In marzo, Maher era venuto a sapere che gli operai della città
industriale di El-Mahalla el-Kobra avevano indetto uno sciopero per il 6 aprile. Maher
e Abdel-Fattah simpatizzavano con la loro causa e si chiedevano se Facebook potesse
essere un modo per diffondere la notizia dello sciopero. I due lanciarono il gruppo 6
Aprile, il 23 marzo su Facebook. Usarono i loro veri nomi e si registrarono come
amministratori del gruppo. Quella notte spedirono 300 inviti.
La mattina dopo si erano già iscritte 3.000 persone e la reazione a catena era solo
all'inizio. Alla fine di marzo, il gruppo stava per raggiungere i 40.000 membri. I
partecipanti cominciarono a cambiare le foto del loro profilo con il logo di 6 Aprile, in
modo che il logo continuasse a comparire nelle news degli eventi di chiunque fosse
"amico" di qualcuno del gruppo.
I gruppi di opposizione in Egitto sono pieni di contrasti interni. Il gruppo 6 Aprile,
invece, ha beneficiato del fatto di essere composto da giovani - quasi sempre con
nessuna o pochissima esperienza politica - e di avere un messaggio di solidarietà per i
lavoratori ed i poveri, che rendeva facile cliccare: «Sì, ci sono anche io». La facilità di
adesione ha però vantaggi e inconvenienti.
A prima vista questa forma di attivismo online può sembrare una militanza all'acqua di
rose, ma in Egitto questi raduni virtuali non sono una cosa da poco. Non è un'impresa
facile unire 70.000 persone in un paese in cui l'azione collettiva è così rischiosa. Il
social network ha cambiato le cose. Sta cambiando le dinamiche del dissenso politico.
La notte del 5 aprile le strade del Cairo erano piene di polizia. Maher ricevette una
telefonata da Abdel-Fattah. «Era spaventata», spiega Maher, «ma io le ho detto che
non c'era motivo. "Sei una donna. Io sono un uomo. Sarà me che arresteranno"».
All'alba del 6 aprile, mentre la gente di El-Mahalla el-Kobra - una città di circa
400.000 abitanti, 120 chilometri a nord del Cairo - terminava le preghiere del mattino,
Maher, Abdel-Fattah e gli altri frequentatori di Facebook stavano spedendo le mail e
gli sms con i dettagli per la dimostrazione.
In piazza scesero migliaia di operai e le cose si misero male con scontri, decine di
arresti e almeno tre morti. Alcuni riuscirono a fare a pezzi un cartellone con
un'immagine di Mubarak: i censori impedirono che le foto e i video apparissero sui
principali media, ma i blogger e i membri del gruppo Facebook postarono subito le
immagini.
I corpi di sicurezza di stato erano al corrente della dissidenza online, ma furono colti
di sorpresa da Facebook. Negli ultimi anni gli agenti avevano concentrato le
intimidazioni sui singoli individui, specialmente su blogger, con un seguito
significativo. Nel 2006, per esempio, il blogger Mohammed el-Sharqawi fu
imprigionato e sodomizzato per aver partecipato a proteste di piazza. Un altro blogger,
Abdel-Kareem Soliman, è in carcere per vilipendio del presidente e dell'islam. Ma il
social network era una cosa nuova, uno strumento sottovalutato.
Le dimostrazioni del 6 aprile al Cairo non videro una grande partecipazione. I veri
fuochi d'artificio della giornata furono gli scontri a El-Mahalla el-Kobra, che
avrebbero potuto essere un altro episodio isolato e semisconosciuto di inquietudine
sociale. Ma i responsabili della sicurezza commisero un errore. Quando trovarono
Abdel-Fattah in un caffè del Cairo frequentato da intellettuali, pensarono che arrestare
l'amministratrice del gruppo sarebbe stato un valido monito per gli aspiranti
cyberattivisti.
Gameela Ismail, 42 anni, moglie del leader dell'opposizione imprigionato, aveva
lavorato con Abdel- Fattah nel quartier generale del partito El-Ghad mentre il gruppo
Facebook prendeva forma. Quando seppe che Abdel-Fattah e altri erano stati presi,
immaginò che la polizia sarebbe ricorsa all'"intimidazione blanda": avrebbe portato in
giro in auto per un po' gli accusati e li avrebbe liberati nei sobborghi del Cairo.
Ma quel giorno Ismail ricevette un messaggio da Abdel-Fattah: era stata arrestata,
forse avrebbe subito un processo.
In base alla legge sull'emergenza, le autorità egiziane possono trattenere i cittadini
anche senza un formale capo d'accusa, con un semplice decreto detentivo. Secondo
Ismail, era la prima volta che un decreto del genere veniva usato contro una donna. Il
giorno dopo, durante l'udienza, Ismail riuscì ad avere un breve incontro con AbdelFattah: la giovane parlava a stento e sembrava sotto choc.
I mezzi di comunicazione stranieri e i pochi giornali egiziani che hanno osato opporsi
alla censura governativa si attaccarono alla storia di Abdel-Fattah. La combinazione
era irresistibile: tecnologia modaiola, governanti oppressivi, una donna araba che
protesta. Invece di spaventare gli altri iscritti a Facebook, l'arresto trasformò questa
mite impiegata del Cairo in un'eroina. Membri del gruppo 6 Aprile cominciarono a
modificare la foto del profilo per mostrare il volto di Abdel-Fattah e, naturalmente,
fondarono un nuovo gruppo su Facebook che chiedeva la sua liberazione.
Dopo due settimane di prigione, la Facebook Girl fu rilasciata e fece subito un breve
annuncio in cui affermava di rinunciare all'attività di protesta. Intanto, sulla scia delle
repressioni del 6 Aprile, l'azione poliziesca aveva lasciato le piazze reali per trasferirsi
su quella virtuale. Gli agenti cominciarono a impersonare falsi attivisti, cercando di
racimolare informazioni sui membri del gruppo. In alcuni casi avevano perfino creato
degli account utilizzando il nome di Ahmed Maher. «È facile identificarli», racconta
lui. «Quando guardi la lista dei loro amici, trovi praticamente un profilo vuoto».
«Maher è una di quelle persone che sono in grado di far succedere le cose», spiega
Gamal Eid, direttore esecutivo dell'Arabic network for human rights information. «È
un giovanotto normale che si è stancato della corruzione e ha trovato il coraggio per
combatterla». Ancor prima che le acque del 6 Aprile si placassero, Maher stava
organizzando un'altra manifestazione per il 4 maggio, giorno dell'ottantesimo
compleanno di Mubarak. Lui e i suoi amici tentavano di ripetere l'azione di aprile,
invitando la gente a non andare al lavoro, ad appendere alle finestre di casa bandiere
nere e a boicottare i giornali filogovernativi. Ma il 4 maggio fu un fiasco.
Gli egiziani della capitale ignorarono l'invito allo sciopero. Le compagnie telefoniche
dovettero bloccare tutti i servizi destinati agli abbonati anonimi, e la maggior parte
degli attivisti si ritrovò il telefono disabilitato. Proprio a ridosso dell'evento, il
presidente Mubarak annunciò un aumento dei salari agli operai, vanificato solo pochi
giorni dopo da un'impennata dei prezzi decisa dal governo. Le autorità avevano avuto
la meglio, ora rimaneva soltanto da smantellare la rete di Facebook.
Maher sapeva che gli uomini della sicurezza sarebbero venuti a cercarlo, così il 7
maggio si allontanò da casa e non vi tornò per parecchi giorni. In aprile, per sicurezza,
aveva spedito la moglie e il figlioletto a vivere dai suoceri. Da allora, si era rintanato
nei cybercafè e aveva dormito sui divani degli amici. Quella mattina doveva rientrare
al lavoro.
Quando era quasi arrivato, avvistò nel retrovisore una Peugeot che stava accelerando.
Un attimo dopo un minibus gli tagliò la strada: uomini rasati a zero e con gli occhiali
da sole circondarono la sua auto. Lo trascinarono fuori e lo presero a pugni, poi lo
caricarono sul pulmino, gli bendarono gli occhi e gli legarono le mani dietro la
schiena. La notte di detenzione fu molto dura: Maher fu spogliato, picchiato,
minacciato di torture. Volevano la sua password di Facebook. Al mattino, Maher la
rivelò e le autorità lo rilasciarono.
Dopo il 4 maggio e la caccia a Maher, si cominciò a parlare di una nuova legge sulla
censura. Se fosse passata, avrebbe conferito ad un'autorità di controllo suprema il
potere di arrestare chiunque avesse diffuso informazioni anche attraverso un gruppo di
Facebook. La vendetta governativa ha però messo in imbarazzo il regime. Molti
egiziani stanno facendo il tifo per questi ragazzini idealisti e la stampa internazionale
guarda con favore alla loro causa.
24 luglio 2008, Maher è di nuovo in fuga, ad Alessandria, dopo il fallimento della
protesta sulla spiaggia. Credendo di aver finalmente seminato gli agenti, spedisce un
paio di sms dando appuntamento ad amici attivisti presso un carretto che vende succhi.
Nel giro di pochi minuti gli agenti della sicurezza piombano sul gruppo. I ragazzi se la
squagliano. I poliziotti li lasciano andare tutti, tranne Maher. Lo sbattono a faccia in
giù sul marciapiede e cominciano a prenderlo a pugni e calci. Maher ripensa al suo
arresto di maggio. Gli agenti lo hanno lasciato andare dopo che lui ha rivelato la
password, ma era falsa. Stavolta ha un piano migliore: ha dato la sua password a un
amico, che la cambierà immediatamente se lo arrestano, per salvaguardare la rete del 6
Aprile.
Da una stazione di polizia nei paraggi, un agente fa una telefonata al Cairo:
«L'abbiamo preso, signore». Poco dopo Maher incontra i pubblici ministeri, che gli
elencano una lunga lista di accuse: dall'avere usato Facebook per fondare
un'organizzazione clandestina e rovesciare il regime, fino ad aver ostacolato il traffico.
Altri 13 membri del gruppo finiscono in carcere in quei giorni. Uno di loro, Moatasem
Mohammed, racconta via email: «Siamo rimasti in carcere fino al primo di agosto.
Una volta rilasciati, però, abbiamo continuato la nostra attività. Abbiamo anche
organizzato la prima conferenza politica elettronica egiziana. La si può vedere
all'indirizzo Anti-ndp.com. Al nostro raduno virtuale contro il partito El-Watany di
Mubarak ha partecipato tutta l'opposizione».
Il secondo movimento, “Siamo tutti Kaled Said”, nasce grazie a Wail Gunaym, direttore
del marketing della società «Gawab» e poi di Google per il Medio Oriente e per il Nord
Africa, sposato con una donna statunitense di religione mussulmana. È stato proprio lui ad
organizzare le proteste del 25 gennaio 2011.
Gunaym (o Ghonim) creò la pagina utilizzando lo pseudonimo “ElShaheed” (il martire)
per nascondere la propria identità. Nel giro di un mese la pagina raccolse circa 350.000
“mi piace” e – in ultima istanza – avrebbe portato alla caduta di Mubarak. Il 30 gennaio,
per esempio, «Newsweek» ha definito questo abile dirigente di Google come "il
combattente di Facebook per la libertà". Il New York Times, dal canto suo, sosteneva che
Ghonim avrebbe proclamato la nascita di un Egitto liberato".
In realtà, Ghonim ha goduto di una buona copertura televisiva (epico il suo pianto alla
«DreamTv», avvenuto nel febbraio del 2011, dopo dodici giorni di detenzione) e si è
mosso molto bene per promuovere il suo personaggio (raccontato in una sorta di
autobiografia nota come Rivoluzione 2.0) e un utilizzo dei social network squisitamente
legato ad interessi privati.
L’affermazione di Ghonim , secondo cui "se si vuole una società libera, occorre dare alla
gente accesso ad internet", rende proprio l’idea delle ambiguità e delle esagerazioni che
hanno accompagnato il fenomeno della rivoluzione in rete.
Ghonim ha anche partecipato, nel 2011, ad un incontro del Fondo Monetario
Internazionale, affermando che “mi sento come Joe l’idraulico33”. Dopo la caduta di
Mubarak e le varie critiche che hanno colpito il giovane esperto di marketing 34, Ghonim ha
annunciato “un lungo periodo sabbatico” da Google, al fine di avviare una nuova Ong che
si occupi di tecnologia a favore dei più poveri.
Il vuoto creato da Ghonim dopo la caduta di Mubarak e la parziale stasi seguita al periodo
elettorale, hanno lasciato campo libero alla Fratellanza Mussulmana, che oltre a godere del
sostegno di Aljazeera non è affatto distante dal mondo telematico.
La guida generale della Fratellanza in Egitto, Muhammad Badì, ha un suo account su
Twitter e un esponente di punta del movimento, Muhammad Hayrat al-Satir, ha
attivamente incoraggiato lo sbarco dei Fratelli Mussulmani su Twitter.
Gli islamici sono attivi sulla piattaforma del cinguettio già dal 2009 con l’account in lingua
inglese @Ikhwanweb e sono sempre stati attenti alle strategie di comunicazione, per quanto
il grosso dalla base sia ancora reclutato con metodi “tradizionali”.
La piattaforma Twitter è stata sfruttata pienamente dal braccio politico dei Fratelli, ovvero
il partito Libertà e Giustizia. Recentemente, la Fratellanza ha puntato su portali come
«Ikhwanbook», «Ikhwantube», «Ikhwanwiki», «Ikhwanophobia» e «Ikhwanscope».
Il primo è molto simile ai social network più in voga in Occidente, ma è depurato da
richiami religiosamente scorretti e da foto che possono apparire scandalose e permette un
livello d’invasione nella vita altrui molto più basso. È un’operazione simile a quella del
sudafricano MuslimBook (sul quale è possibile ammirare esclusivamente donne velate ed
uomini barbuti), “il social network alternativo all’antislamico facebook”.
I Fratelli Mussulmani affermano che “si tratta di un sito web islamico di social
networking, rispettoso della nostra religione, che si ripropone di collegare le comunità
33
Il riferimento era a Samuel Joseph Wurzelbacher, soprannominato Joe l'idraulico, personaggio assurto ad
una certa notorietà durante le Elezioni presidenziali statunitensi del 2008, come emblema della classe media
americana. È divenuto famoso dopo aver incontrato Barack Obama, di cui ha criticato la politica inerente alle
piccole imprese, e ha appoggiato nella corsa presidenziale il candidato repubblicano John McCain, poi uscito
sconfitto dalla tornata elettorale.
34
Ghonim avrebbe chiesto di riconoscere a Mubarak uno status privilegiato in Egitto, senza costringerlo
all’esilio.
mussulmane del mondo tra di loro.” Non a caso, sul sito è molto forte la presenza degli
indonesiani.
Ikhwantube ha la stessa funzionalità di Youtube, ma limita l’autoupload (il caricamento
personale e deresponsabilizzato dei video) e permette agli utenti di visualizzare e
condividere solo filmati in linea con i tradizionali valori islamici.
Ikhwanwiki è il corrispettivo islamico di Wikipedia.
È importante parimenti aggiungere quanto osserva Bernard E.Selwan el Khoury35:
Gli islamisti hanno compreso da decenni l’importanza strategica della comunicazione
mediatica, usando anche l’inglese. In questo modo, lo strumento mediatico è in grado
di abbattere le barriere e interagire direttamente con l’opinione pubblica occidentale,
per rassicurarla riguardo all’islamismo “moderato” della Fratellanza, avvalendosi di
ogni canale disponibile per fornire informazioni ed eventualmente correggere
l’immagine distorta che si ha dei Fratelli dentro e fuori il mondo arabo-islamico. A tal
proposito, è bene ricordare che i movimenti islamici utilizzano spesso due codici
linguistici differenti, fatti di sfumature e simbologie, a seconda che si esprimano in
arabo o in una lingua non araba, dunque a seconda del target di audience. Nel primo
caso, per ottenere il maggior consenso possibile, si fa leva sui sentimenti più intimi
legati alla tradizione, e quindi al linguaggio del corpus arabo-islamico. Nel secondo
caso, il target audience è sensibile ad altri argomenti, quali i diritti, le libertà e la
democrazia. La maggior parte degli osservatori concorda sul fatto che i messaggi
diffusi online in lingua inglese e quindi rivolti ad un preciso target audience, non
riflettano le reali intenzioni del movimento islamista.
In Algeria è stata creata, alla fine di agosto del 2011, una pagina inneggiante alla
rivoluzione algerina che invitava il popolo in piazza per il 17 settembre successivo.
Subito dopo sono apparse on line pagine come “La rivoluzione algerina sta arrivando”, “La
comunità algerina all’estero. La rivoluzione algerina del 17 settembre”, “La rivolta del 17
settembre 2011. Affinché sia una giornata della rabbia in Algeria”; “La rivoluzione del 17
settembre in Algeria. Il giorno della rabbia contro Bouteflika”.
Queste iniziative partirono dopo un anno, il 2010, in cui i servizi di polizia nazionale
avevano contato 11.500 sommosse e manifestazioni pubbliche e raduni in tutto il paese.
Il 4 gennaio 2011 è nata una protesta contro gli aumenti del 20% dei prodotti alimentari di
largo consumo come zucchero ed olio.
Nei quartieri più poveri di Algeri ci sono state violente manifestazioni tra comuni cittadini
(armati di pietre, spranghe e coltelli) e polizia, che aveva presidiato le principali moschee
della città per evitare l’organizzazione scientifica degli scontri.
La tensione in piazza è stata talmente forte – con saccheggi di negozi, incendi di auto,
assalti ai commissariati di polizia – che il governo ha dovuto arrestare il numero due del
Fronte Islamico di Salvezza, Ali Belhadj.
Il 12 febbraio 2011 c’è stato lo scontro più violento: la polizia ha caricato 2.000
manifestanti, con manganelli di legno, ferendone la maggior parte. Contemporaneamente,
ha bloccato i collegamenti di treni ed autobus.
È in questo clima che prendono l’avvio le pagine di Facebook.
35
Bernard E. Selwan El Khoury, Le rivoluzioni arabe non sono figlie del social network, in «Quaderni
Speciali di Limes», Anno 4 n.1, 2012, p.97
Queste pagine ottengono un discreto successo fuori dai confini (in particolare in Marocco)
e tra gli jihadisti, meno tra la popolazione algerina. Subito si è fatta largo la teoria del
complotto straniero e il pronto intervento del governo, con il lavoro operoso del generale
Abd al-Gani Hamil (direttore della Sicurezza nazionale algerina), è riuscito ad incanalare
la rabbia popolare contro la Francia e, in particolare, contro Bernard Henri-Levy, già
considerato come la mente della crisi libica.
Alla fine del 2011, la rabbia popolare ha infatti come obiettivo non più il governo, ma i
costumi lascivi di una parte del paese.
Le persone scendono in piazza non per chiedere il pane o le riforme, ma per chiedere la
chiusura delle case di tolleranza, dei negozi di alcolici e dei locali notturni.
Ed è cosi che dalla “rivoluzione algerina sta arrivando” si è passati, nel giro di pochi mesi,
a slogan come “via le prostitute dal paese”, “il popolo vuole la chiusura dei locali notturni”
e alla lotta contro il decadimento dei costumi, “tipico degli imperialisti stranieri”.
Le proteste sono partite dagli abitanti di un villaggio della provincia di Bejaja, a est di
Algeri, dove la popolazione ha inscenato una protesta contro le case di tolleranza,
appiccando il fuoco ad alcuni locali notturni e causando varie vittime. Le proteste si sono
poi allargate a macchia d’olio in tutta l’Algeria.
Ma gli effetti della primavera araba in Algeria non si sono visti, né in termini di
cambiamento nella rappresentanza politica, né in termini di attivismo giovanile.
Secondo Nadji Khaoua, ricercatore del «Centre de Recherche en Economie Appliquée au
Développement» (Cread) di Algeri:
La primavera araba è stata guidata e consentita da una strategia promossa a livello
internazionale; l’Algeria, invece, non è stata influenzata da interventi stranieri.
Nonostante le critiche che possono essere mosse al sistema algerino e i problemi che il
paese deve affrontare, come la disoccupazione giovanile, credo che la mancanza di
influenze straniere nel dibattito pubblico sia una cosa positiva. Bisogna considerare
che il fatto di essere un paese esportatore di petrolio rende particolarmente delicata
l’ingerenza straniera. E questa è un’opinione diffusa e condivisa da tutti gli algerini
[…] l’Algeria ha già vissuto un lungo periodo di instabilità e di lotta politica violenta e
molto aspra condotta dagli islamisti del Fis nel periodo tra il 1990 fino all’inizio del
2000; ci sono state più di 200.000 vittime e molti più feriti, e oltre 24 miliardi di
dollari di danni alle infrastrutture del paese e alla proprietà privata. Nonostante una
parte significativa della popolazione, soprattutto i giovani, viva oggi una situazione di
disagio dovuta all’aumento della disoccupazione e della povertà, nessuno nel paese è
disposto a rivivere l’incubo delle lotte violente degli anni Novanta.
In Libia non abbiamo assistito a tentativi significativi di organizzazione delle lotte per il
tramite di social network, blog e tecnologie occidentali.
L’opposizione è stata messa a dura prova nelle sue comunicazioni a distanza, fin dall’inizio
delle proteste, quando Gheddafi ha deciso di bloccare i cellulari della Cirenaica – focolaio
della rivolta – escludendola dalla rete per la telefonia mobile.
Per reagire al blocco, l’ingegnere libico Ousama Abusangher (31 anni, dirigente di una
telco libica e cresciuto in Alaska) ha costruito, con il sostegno di uomini d’affari libici e
della compagnia degli Emirati Arabi Etilasat, una vera e propria centrale artigianale a
Bengasi, attraverso la quale ha potuto riattivare le comunicazioni tra i cellulari, creando
una rete telefonica privata che prenderà il nome di «Free Libyana».
Free Lybiana è stata realizzata a partire da un piano disegnato sul retro di un tovagliolo a
diecimila metri dal suolo, e grazie ad essa il grosso dei ribelli e circa due milioni di libici
hanno potuto comunicare tra di loro, anche al di fuori dei confini libici, in modo del tutto
libero e gratuito.
Già il 17 febbraio 2011, Abusangher, insieme a due amici di infanzia, aveva cominciato a
raccogliere fondi a supporto della protesta nascente in Libia. Quando, il 23 febbraio, la
rivolta è esplosa, il suo team è stato il primo dei tanti convogli umanitari a raggiungere (da
Abu Dhabi United, negli Emirati) la zona orientale del paese. Solo che, una volta in Libia,
Ousama e i suoi compagni si sono accorti che qualcosa non andava: né cellulari e né
telefoni satellitari funzionavano, rendendo estremamente difficile gestire l’operazione di
aiuto. Anche la sicurezza era un problema, le infrastrutture per le telecomunicazioni,
infatti, erano state costruite da Gheddafi in modo che tutto il traffico passasse
attraverso Tripoli, e quindi sotto il controllo dei suoi fedelissimi.
Il 6 marzo, durante il volo di ritorno verso gli Emirati Arabi Uniti, Abusangher mostra ai
suoi amici un disegno sul retro di un tovagliolo: il piano per infiltrarsi nella Lybiana – uno
dei due operatori mobili di cui Muhammad Gheddafi, il figlio maggiore Gheddafi, è il
presidente – “piratare” il segnale e aprire un network libero dal controllo di Tripoli. Già dal
momento dell’atterraggio, i cospiratori hanno ingaggiato una lotta contro il tempo per
superare sfide ingegneristiche, tecniche e legali, in modo da riuscire nell’impresa prima
che l’esercito ribelle venisse completamente schiacciato dalle forze di Gheddafi.
Il 19 marzo, giorno dell’offensiva contro i ribelli di Bengasi, Abusangher guardava
all’avanzata del governo con grande preoccupazione, anche perché la sua operazione
segreta era entrata in una fase di crisi. Innanzitutto, la cinese Huawei, produttore di
dispositivi e apparati di telecomunicazione partner della Lybiana, aveva rifiutato di
vendere le attrezzature ai ribelli. Ousama e i suoi compagni dovevano quindi trovare il
modo di ibridare gli hardware di altre aziende con la rete libica esistente. Senza la Huawei
poi, il supporto delle nazioni del Golfo Persico diventava fondamentale: molto
difficilmente i distributori internazionali avrebbero venduto le sofisticate attrezzature
necessarie a un governo ribelle non ancora riconosciuto, o addirittura ad un imprenditore
privato.
“Per fortuna il governo degli Emirati Arabi Uniti e la sua compagnia di
telecomunicazioni, la Etisalat, ci hanno aiutato fornendoci tutto il necessario” ha
raccontato al «Wall Street Journal», Faisal al-Safi, un ufficiale ribelle di Bengasi che ha
coordinato le operazioni di trasporto e comunicazione (Etisalat ha ovviamente rifiutato di
commentare queste dichiarazioni).
Infatti, già il 21 marzo, la maggior parte dei pezzi necessari era arrivata negli Emirati Arabi
Uniti e Abusangher era pronto per portarli a Bengasi, insieme a tre ingegneri libici, quattro
occidentali e a una squadra di guardie del corpo. L’obiettivo, però, sembrava impossibile
da raggiungere. La città era ancora sotto la minaccia dell’esercito del Colonnello che
cercava disperatamente di bombardarne l’aeroporto. Occorreva quindi una soluzione
alternativa. A fornirla venne in aiuto l ’Egitto, a ulteriore dimostrazione dell’appoggio dei
paesi arabi agli insorti (ma anche il governo militare egiziano ha deciso di non
commentare): cospiratori e attrezzature sono stati quindi dirottati verso una base aerea
egiziana, ai confini con la Libia.
Una volta raggiunto il paese, il team, insieme ad alcuni ingegneri di Bengasi, ha fuso i
nuovi equipaggiamenti con la rete esistente creando un sistema in grado
funzionare evitando il controllo di Tripoli, anche grazie ad un satellite della Etisalat.
È il 2 aprile quando Abushagur realizza la prima telefonata di prova: dall’altra parte del
filo risponde sua moglie, dalla loro casa di Abu Dhabi. Ha impiegato meno di un mese per
realizzare la sua personalissima rivoluzione tecnologica.
Crollato il governo di Muammar Gheddafi, l’International Media Support (Ims) ha
intrapreso due missioni a nord-est della Libia, al fine di interagire con i nuovi media
emergenti. Il team ha intervistato i rappresentanti dei media libici per scoprire la loro
organizzazione, le ambizioni e le necessità e, sulla base di queste interviste, si è ottenuta
una prima mappatura del panorama dei media a Bengasi, e una valutazione degli stessi.
Durante il regno di Muammar Gheddafi, la Libia era considerata una delle ultime nazioni
libere della regione araba, anche in termini di libertà di espressione.
Nel nord-est della Libia tutti i media erano strettamente controllati al regime e non
esistevano notizie di politica interna o estera di cui ci si potesse fidare.
La "rivoluzione" del 17 febbraio e la "liberazione" del nord-est della Libia hanno
catapultato i media di questa regione in una nuova dimensione, impensabile ai tempi delle
restrizioni di regime. Il nuovo quadro politico ha consentito, di fatto, la nascita di nuovi
media indipendenti. Tuttavia, questi network sono ancora allo stato embrionale e
necessitano di maggiori competenze professionali.
Il panorama dei media nel nord-est della Libia resta, per questo motivo, in continua
evoluzione.
Secondo il Media Communication Committee (Mcc), il braccio mediatico del
Consiglio di Transizione Nazionale, dal luglio del 2011 sono nate circa centoventi
pubblicazioni cartacee, cinque stazioni radio e cinque canali televisivi.
Tra i giornali già esistenti sotto il regime sono rimasti in piedi i soli «Akhbar Benghazi» e
«Corinne» (rinominato «Berniq»), rilanciati con un orientamento pro-rivoluzionario,
sebbene siano percepiti ancora come il prodotto di un'epoca passata.
Secondo alcune fonti dell’Ims, questi due giornali restano i più venduti e stanno
sviluppando una linea editoriale abbastanza neutra e trasversale.
Nell’area del vecchio Palazzo di Giustizia e dell’ex Centro Culturale di Bengasi vi è
un’offerta mediatica che ingloba attivisti di Facebook, riviste per bambini, settimanali per
teenager e le tre stazioni radio di «Sawt al Hurra Libia» (voce di Free Libia).
Le nuove testate giornalistiche spaziano da opuscoli a riviste professionali. La loro
distribuzione settimanale o quindicinale si aggira attorno alle 2.000-5.000 copie.
I nuovi media sono perlopiù gestiti da operatori molto giovani, privi di formazione ed
esperienza giornalistica. Si tratta di giovani che non hanno potuto più frequentare la scuola
o l’università con lo scoppio della rivoluzione libica, e che volevano agire in prima persona
per abbattere il regime del raìs.
Un fattore che si aggiunge all'instabilità dello sviluppo dei mezzi di comunicazione è la
mancanza di fondi. La maggior parte dei nuovi giornali ha una debole base finanziaria,
stante l’assenza di sponsorizzazioni e finanziamenti per i salari dei giornalisti.
Giornali e riviste coprono i costi di stampa di tasca propria, o grazie a finanziamenti
occasionali. Una caratteristica comune ai nuovi media è che tutti i soggetti coinvolti hanno
un background in altre professioni (ingegneri, medici, dentisti, studenti). Molti di questi
hanno abbandonato il lavoro e gli studi quando è iniziata la rivoluzione, sperando di
riprendere in seguito la propria attività.
Pochi possiedono un’idea chiara del loro futuro in questo ambiente sperimentale, e quindi
la maggioranza dei nuovi operatori potrebbe non proseguire l'attività dei neonati media.
Sono tre le entità chiave che hanno svolto e svolgono un ruolo importante nel contesto dei
media nel nord-est della Libia:
Il Consiglio Nazionale di Transizione (Ntc);
Il Consiglio locale di Transizione (Ltc);
 Il Centro dei Media Indipendenti (Imc).


Il Consiglio nazionale di transizione (Ntc) è stato istituito come una forma di autorità
provvisoria e ha il compito di gestire le pubbliche relazioni e la comunicazione mediatica
in tutto il paese. L'Ntc ha nominato un ministro dei media e dell'informazione, Mahmoud
Shammam, che controlla anche la «Libia al-Ahrar», la prima tv satellitare libica che
trasmette dal Qatar.
Il Consiglio locale di Transizione, Ltc, con sede a Bengasi (dopo la caduta di Gheddafi, è
stato istituito un Consiglio di transizione locale in ogni città "liberata"), si è occupato del
rilascio delle licenze per i nuovi media.
Mohammed Fannoush è il coordinatore dei mezzi di comunicazione e della cultura per il
Ltc di Bengasi e si occupa della fornitura delle licenze.
Secondo Fannoush, è molto semplice ottenere una licenza: basta scrivere i propri nomi ed
il tipo di newsletter o di giornale previsti e si ottiene il lasciapassare.
The Independent Media Center (Imc) sembra essere una delle più considerevoli entità
organizzate nell’attuale ambiente mediatico in Libia.
È stato costituito durante i primi giorni della rivoluzione, prima della creazione della Ltc e
dell’Ntc. L’Imc esiste in tutte le città liberate della Libia ed è gestito da un gruppo di
volontari istruiti ed accademici, ubicato presso un edificio in prossimità dell’ex Palazzo di
Giustizia.
È stato questo ente a riconoscere fin dal primo cenno di rivoluzione il potere dei mezzi di
comunicazione liberi e ad ospitare la stampa internazionale. Da allora, è molto cresciuto ed
al momento accoglie:
- «Libia 17 febbraio», il primo giornale a Bengasi in seguito alla rivoluzione del 17
febbraio;
- «L'International Press Center» (ospitato presso l’Imc, dall'inizio della rivoluzione fino al
mese di maggio del 2011)
- Uno studio per la registrazione di musica (soprattutto hip hop politico);
- Archivi-documentazione sulla rivoluzione libica;
- Uno studio-video;
- Produzione di cartoni animati/disegni e poster.
L’Imc ha sostenuto i seguenti mezzi di comunicazione:
–
«Libia 17 febbraio», il primo giornale indipendente ad essere pubblicato nelle aree
liberate della Libia. La prima edizione circolava per le strade già il 24 febbraio
2011, una settimana dopo l'inizio della rivolta e prima dell'istituzione dell’Ltc.
Possiede il layout di un giornale tradizionale e una tiratura di circa 7.000 copie, che
è relativamente alta rispetto ad altri giornali. Gli uffici del giornale si trovano all’
Independent Media Center;
– Il «Bernice Post» è una rivista settimanale bilingue collocata insieme con «Asda 'alSuluq», «Sawt» e «Omar al-Mukhtar Magazine» nell’ ex Centro Culturale di
Bengasi, amministrata sotto l’egida di Fannoush Muhammed. Come la maggior
parte dei nuovi giornali, è gestita da giovani ventenni privi di esperienza nel campo.
La rivista sta lavorando proficuamente in termini di grafica e di layout, ma pecca
ancora in termini di qualità giornalistica.
–
«Asda’ al-Suluq» (Echoes of Suluq) è un piccolo giornale di nuova costituzione
con sede a Bengasi e nel villaggio di Suluq, a 25-30 km da Bengasi. Tre dei suoi
giornalisti hanno sede a Bengasi e tre di loro lavorano dai rispettivi villaggi. Il
primo numero è stato pubblicato il 1 ° maggio 2011 ed ha una tiratura di circa
2.000 copie.
– «Sawt» è un settimanale di recente formazione, situato nel Centro Culturale e
diretto da un giovane studente. Il layout di Sawt è più professionale rispetto ad altre
stampe e si rivolge ad un pubblico giovane. I redattori di Sawt hanno sistemato una
scatola, nel vecchio Palazzo di Giustizia, dove i ragazzi possono consegnare articoli
e commenti che vengono poi pubblicati sul giornale.
– «Intefathat Al-Ahrar» è una rivista bilingue collegata ad un ente di beneficenza ed
alla scuola di lingue «Tawasul». L'organizzazione esisteva già prima della
rivoluzione ed è guidata oggi dalla carismatica signora Amina al-Magreihbi. È
affiliato con il «Gar Younis University» (Bengasi), dove la al-Magreihbi è
professoressa associata di lingua inglese. Il settimanale è gestito da un gruppo di
giovani volontari. La direzione del giornale si è rifiutata di pubblicare in prima
pagina le foto del raìs, al tempo in cui Gheddafi era ancora al potere.
– «Berniq» (Cirenaica) è un giornale del vecchio regime che ha modificato il proprio
nome nel corso della rivoluzione. Prima della rivoluzione il suo editore era Seif alIslam, particolarmente vicino al regime, che è fuggito dalla Libia nel febbraio 2011
lasciando il giornale nelle mani dei giornalisti.
– «Akhbar Benghazi» (Notizie da Bengasi) esisteva anche prima della rivoluzione.
Non ha cambiato nome, ma ha modificato il proprio orientamento politico e
secondo le fonti dell’Ims viene ancora ampiamente distribuito.
– «Omar al-Mukhtar Magazine» è una rivista con cadenza mensile.
Il panorama delle emittenti radiofoniche:
–
«Sawt Libya al-Hurra» ha iniziato le sue trasmissioni il 21 febbraio 2011. È
subentrata nelle strutture dell’ex Radio1, controllata dallo stato. La stazione è sotto
l'egida del Consiglio di Transizione locale ed è considerata il megafono della
rivoluzione.
–
«Radio Shabab Libya Fm» è una stazione radio lanciata alla fine di aprile 2011.
Come nel caso della maggior parte degli altri media nel nord-est della Libia, la
stazione radio è gestita da un gruppo inesperto di giovani libici, con un background
derivante dalla scuola tecnica. Ai primi di maggio del 2011, la sede è stata spostata
in una scuola abbandonata, dove questo gruppo di giovani ha costruito un piccolo
studio radiofonico. La stazione trasmette musica folk e musica occidentale, rap
politico libico ed inni nazionalistici. Dopo alcuni mesi di work in progress, la radio
ha stretto accordi con gruppi di beneficenza e organizzazioni giovanili con sede a
Tawasul. I giovani che hanno fondato Shabab Libia si presentano come voce
autentica del popolo libico e il loro obiettivo è quello di rappresentare una nuova
generazione di cittadini, in alternativa agli altri network.
–
«Tribute FM» è una radio in lingua inglese – presente anche sul web – gestita
principalmente dai giovani libici rientrati in patria dopo anni di migrazione forzata
in Gran Bretagna e Stati Uniti. Nelle serate di talk-show si discute sulle sfide
presenti e future della Libia. La loro trasmissione on-line è presente su
www.tributefm.com.
Il panorama delle stazioni televisive:
-
«Libya al-Ahrar» è un canale satellitare che trasmette, dal 30 marzo 2011, da Doha.
È un canale molto professionale ed è in onda diverse ore al giorno. Il direttore del
canale, il già citato Mahmud Shammam, vive nel Qatar ed è un ex-giornalista
statunitense, ma anche un attivista dei diritti umani. Shammam è stato membro
dell’ unità di crisi del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt).
-
«Libya al-Hurra Tv» è una nuova iniziativa considerata come la proiezione
telematica della televisione fondata da Muhammad Nabbous, il giornalista ucciso
dai cecchini a Bengasi il 19 marzo 2011. Si sostiene sia stato ucciso dalle forze
fedeli al dittatore libico Gheddafi mentre raccoglieva prove contro le false
dichiarazioni di un cessate il fuoco da parte del regime, in risposta alla risoluzione
1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Riconosciuto come il volto
della rivoluzione, è stata una delle prime persone ad essere intervistate dai
giornalisti occidentali, subito dopo la liberazione di Bengasi. "Non ho paura di
morire, ho paura di perdere la battaglia!" è stata una delle prime dichiarazioni di
Nabbous dopo aver creato il canale. Muhammad Fannoush, membro dell’Ltc, sta
guidando questa iniziativa con i giovani che già collaboravano con Nabbous
quando ancora era in vita.
Il governo della Repubblica Islamica dell'Iran gestisce, controlla e censura la maggior parte
dei mezzi di informazione del paese.
La televisione ha una buona diffusione (circa 70 ogni 1.000 abitanti), ma i canali televisivi
appartengono tutti all'Irib (Islamic Republic of Iran Broadcasting), la tv di stato iraniana
che ne possiede il monopolio, considerando che le tv private sono vietate dalla stessa
costituzione. Anche la radio, che ha un'ottima diffusione, in particolare tra i giovani
iraniani, soffre le imposizioni della censura che vieta la trasmissione di musica
internazionale o di brani cantati da donne. Solo con l'avvento delle parabole, e quindi del
satellite, è diventanto più facile per gli iraniani ricevere notizie internazionali che
altrimenti non avrebbero mai potuto ascoltare, dato che il governo blocca tutte le
informazioni che non provengono dai "canali ufficiali".
Lo stesso vale per la carta stampata, il mezzo di informazione più diffuso e il vero fulcro
del dibattito politico e culturale che attraversa il paese. I giornali e le riviste che non
rispecchiano il pensiero filo-governativo vengono chiusi, ma molte volte prontamente
riaperti sotto falso nome. Si contano numerose testate giornalistiche con tirature
importanti. Molte di esse vengono stampate all'estero da iraniani emigrati e vengono lette
in patria attraverso siti internet, non senza difficoltà. Ci sono anche riviste che vengono
stampate in Iran e distribuite all'estero, come il caso di alcune riviste femminili, la cui
lettura è assolutamente vietata nella Repubblica Islamica.
Per quel che riguarda internet, la situazione non si discosta molto, anche se gli iraniani che
navigano in rete sono quasi la metà della popolazione (una delle percentuali più alte in
Medio Oriente).
Sin dall'inizio della sua carriera da presidente, Ahmadinejad ha dichiarato guerra al potente
mezzo di comunicazione globale. Dopo la sua elezione del 2005, infatti, vennero mostrati e
descritti al mondo i brogli elettorali attraverso i blog di dissidenti o di avversari politici,
con in testa Karroubii. Questi è l'uomo che ha denunciato la corruzione e che ha spiegato al
mondo come in Iran, quando si è analfabeti (e nel paese non ce ne sono pochi) un pasdaran
nel seggio può aiutare "a votare bene". Internet ha svolto poi un ruolo importante
nell’ondata di proteste anti governative che ha colpito l’Iran dopo la rielezione contestata
del presidente nel 2009, mostrando al mondo quello che stava accadendo.
Dal punto di vista del regime iraniano, ogni informazione libera è una minaccia al potere e
dunque va combattuta. Ma il web è in continua crescita e il suo intrenseco spirito libero lo
rende difficile da contrastare. Facebook e Twitter risultano i pochi canali liberi per gli
avversari politici di Ahmadinejad, se intendono fare propaganda elettorale.
Per proteggersi da tutto questo, il governo, all’inizio del 2011, ha messo in piedi un'unità
speciale della polizia per lottare contro la “cyber criminalità”, in particolare sui social
network. Ahmadinejad ha ordinato la creazione di un'agenzia con il compito di
supervisionare e difendere il paese da eventuali cyber-attacchi, denominata “Consiglio
supremo per internet”, e con un completo monitoraggio di internet a livello nazionale ed
internazionale. A formare il Consiglio supremo saranno 15 persone, fra cui il presidente
stesso e il capo del governo, il presidente del Parlamento, il capo della magistratura, il
comandante delle Guardie rivoluzionarie, i ministri dell'Intelligence, della Cultura e delle
Telecomunicazioni, il presidente della Commissione cultura del Parlamento e il
responsabile della Polizia per internet.
L'11 febbraio 2012 (giorno in cui ricorre l'anniversario della rivoluzione islamica del
1979) il governo ha imposto severe restrizioni per quanto riguarda l'accesso alla rete,
eliminando di fatto la possibilità di navigare su siti come Google, YouTube, Facebook,
Twitter, Yahoo, Skype e tutti gli altri siti che non hanno i propri server nella repubblica
islamica.
Alcune indiscrezioni parlano di un primo test d’avvio di una sorta di “internet nazionale”,
un'enorme rete che limiterebbe l’accesso esclusivamente ai provider nazionali e che di fatto
taglierebbe gli iraniani fuori dal resto del mondo, rimpiazzando il World Wide Web con un
surrogato a livello nazionale controllato dal governo.
Secondo fonti interne, una tale misura restrittiva si renderebbe necessaria per proteggere la
pubblica moralità ed evitare la diffusione di materiale pornografico o sconveniente,
comunque vietato dalla legge islamica. Le preoccupazioni di Tehran, che
giustificherebbero l’oscuramento della rete, non riguardano però solo l’aspetto religioso.
Secondo alcuni alti ufficiali dell'esercito, le compagnie occidentali come Google, Twitter e
Microsoft lavorerebbero segretamente con le autorità degli Stati Uniti per spiare le email
che circolano nel paese, ovvero i comportamenti online degli iraniani nelle ricerche e sui
social network. Teheran accusa i media occidentali di partecipare ad un complotto che
prende di mira la repubblica islamica, condotto dagli Stati Uniti, Israele e l’Europa, con in
testa la Gran Bretagna.
Durante le elezioni di marzo del 2012 c'era stato il tentativo di fermare tutti quei mezzi di
comunicazione che avrebbero mostrato la situazione iraniana all'estero, o che sarebbero
potuti servire per organizzare la protesta. Ahmadinejad ha confermato e giustificato il
blocco parlando di "guerra psicologica" dei media internazionali contro l'Iran, ma in realtà
teme soprattutto gli avversari politici e il potere mediatico di questi strumenti. Tutti i
candidati alle elezioni, infatti, stanno cercando di conquistarsi i favori dei giovani elettori,
che rappresentano una fetta importante della popolazione, e per raggiungerli stanno
ovviamente usando i popolari social network. Le loro pagine Facebook contengono
informazioni biografiche, punti del programma, dichiarazioni e video e le informazioni
essenziali per una leale campagna elettorale.
Mohammed Ali Abtahi, vicepresidente durante il secondo mandato Khatami e primo
politico iraniano ad aver aperto nel 2003 un suo blog, ha denunciato in un articolo
chiamato "Ti annusano le mani per sapere se hai cliccato su Facebook" la mancanza di
libertà di espressione, evidenziando come Facebook sia oggi una delle poche fonti che i
giovani iraniani possono usare per comunicare e informarsi.
Nonostante le limitazioni imposte, alcuni gruppi di hacker riescono a superarle e ad
esprimere le loro opinioni attraverso i blog, anche grazie all'aiuto di "Reporters Sans
Frontières (Rsf)", un'organizzazione che da anni ha rilasciato la "Guida pratica del blogger
e del cyber-dissidente" che insegna i trucchi per aggiornare i blog senza finire nelle maglie
della censura dei cyber-tiranni.
Twitter risulta ormai il canale privilegiato della protesta, in quanto il mezzo più semplice
da utilizzare e facilmente aggiornabile con un sms (si contano centinaia di nuovi messaggi
ogni minuto). Per mettere un freno a questo strumento, il governo iraniano dovrebbe
oscurare completamente le telecomunicazioni, quindi un intervento troppo drastico, che
può essere mantenuto solo per poco tempo.
In Iran si è arrivati dunque ad un punto in cui la preoccupazione politica di perdere le
elezioni ha portato sia a bandire tutte le testate giornalistiche o le trasmissioni televisive e
radiofoniche, sia a limitare la condivisione e la diffusione di materiale e notizie intra e
extra nazionali fornite dal web. In un momento così delicato nella storia iraniana tali divieti
potrebbero però risultare pericolosi, negando agli elettori di documentarsi in maniera
completa sui candidati.
Capitolo Sesto
Media e social network un anno dopo la primavera araba
Il mondo arabo sta vivendo, in questo nuovo decennio, una profonda trasformazione sul
versante dell’utilizzo dei media e del loro impatto sulle giovani generazioni.
La repressione dei governi arabi e le minacce alla libera espressione, compresa quella
espressa per le vie telematiche, stentano a placarsi, anche ad un anno di distanza dalle
rivolte in Tunisia, Egitto, Libia ed dalle sommosse in Siria, Yemen e Bahrain;
Nel corso del 2011-2012 si è assistito ad un’enorme ascesa quanto al numero di giovani
iscritti ai social network e impegnati nell’organizzazione di mobilitazioni via-web.
Le diverse e pluralistiche comunità on-line nel mondo arabo – che crescono di giorno in
giorno – chiamano in causa il futuro dei media statali e dei media auto-censurati, i quali
offrono informazioni e servizi che risultano palesemente più deboli e scadenti dei contenuti
in genere disponibili in rete
Leggere i cinguettii dei profili Twitter “#Egypte” e “ #Jan25”, tra i tanti, causano nel
lettore una sorta di déjà vu: ancora oggi gli aggiornamenti di questi profili richiamano lo
storico inizio delle proteste contro la repressione poliziesca, la leggi d'emergenza, la
corruzione dilagante, la disoccupazione e l’emarginazione dei più giovani.
"Ce l'abbiamo fatta?" si leggeva nel banner del portale on-line «Bikyamasr», il 25 gennaio
2012.
"Un anno fa, gli egiziani sono insorti contro la tortura, la corruzione e la
miseria. Abbiamo pagato un prezzo alto, ma Mubarak è stato cacciato. Il
sistema è cambiato?"
A pochi click di distanza, sulla propria pagina Twitter, il Consiglio Supremo delle Forze
Armate d'Egitto (Scaf) ricorda l'anniversario della rivoluzione con dichiarazioni
estremamente concise, che sono divenute sunito dei veri e proprio tormentoni, sia su
Twitter che su Facebook, insieme a decine di migliaia di risposte, molte delle quali
acutamente critiche.
La primavera araba in Tunisia e in Egitto – e le rivolte ancora in corso in Siria, Bahrain,
Libia e Yemen, entrati nel 2012 nel secondo anno di disordini civili – restano ancora dei
punti di riferimento vividi per chi vuole socializzare, protestare, condividere notizie e
acconciarsi ad un rapido ed infuocato scambio di informazioni. Attività che hanno
modificato irrevocabilmente la natura del coinvolgimento in rete e gli stessi media della
regione.
La primavera araba e le proteste iniziate nel tardo 2010 rappresentano senza dubbio una
rivoluzione (secondo alcuni spontanea, secondo altri telecomandata) anche nella storia di
internet. Gli anniversari sono regolarmente celebrati in folate di tweet, di aggiornamenti
Facebook e di video su Youtube.
Agli occhi degli arabi istruiti e ostili ai regimi soffocanti del Nord Africa – e agli occhi di
chi ha visto nei nuovi strumenti telematici un’occasione invitante per plasmare a propria
immagine gli individui, anche in nome di valori più arretrati di quelli espressi dai vari
Mubarak e Ben Alì – i social network offrivano e offrono una libertà di espressione senza
precedenti.
Attivisti, scrittori, ingegneri, professionisti d’informatica e cittadini laici hanno sviluppato,
lungo un intero ventennio, la tecnologia che ha permesso a tunisini, egiziani, libici,
yemeniti, bahreiniti, siriani ed altri, di mobilitarsi e di esprimere richieste di cambiamento.
In effetti, quelle a cui abbiamo assistito non sono state rivoluzioni di Twitter o di
Facebook, per quanto molti cyberutopisti avrebbero voluto che lo fossero.
Tuttavia, il potenziale di internet in qualità di strumento capace di aiutare il processo di
democratizzazione è incontestabile e, sicuramente, internet è stato utilizzato e sarà ancora
sfruttato come strumento di oppressione da parte dei governi autoritari, sia nel mondo
arabo che altrove.
Al riguardo è difficile fornire cifre precise. Secondo l’«Arab Knowledge Report»
(Rapporto Arabo sulla Conoscenza), pubblicato dal programma di sviluppo delle Nazioni
Unite e dalla fondazione «Mohammed Bin Rashid Al Maktoum», il numero di arabi (o
meglio, di persone che parlano e scrivono in arabo) attivi su internet sono aumentati a circa
sessanta milioni, a partire dalla fine del 2009.
È probabile che entro il 2015 avremo più di cento milioni di arabi sul solo Facebook.
Le stime dell'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni parlano di circa 29 utenti
internet per ogni 100 persone nella regione araba, portando il numero di potenziali
internauti, da qui al 2015, a circa 104 milioni di utenti su una popolazione di 358 milioni di
persone.
Il 70% di coloro che utilizzano Facebook nel mondo arabo sono di età compresa tra i 15 ed
i 29 anni, secondo l' «Arab Social Media Report».
Per i giovani (sotto i 25 anni), si stima costituiscano più del 50% della popolazione
dell'Egitto, Marocco, Arabia Saudita, Giordania, Oman, e tra il 37 ed il 47 %o nel resto
della regione.
Mentre il numero di arabi on-line rappresenta una minoranza, il crescente impatto del
cyberspazio arabo sta servendo da contrappeso contro il potere dei media statali e della
propaganda di regime.
Stanno emergendo comunità con dieci milioni di collaboratori on-line, che condividono
notizie, informazioni ed opinioni su scala mondiale.
Si considerino i feed di Twitter di alcuni micro-blogger arabi, come Ghonim, che ha
362.701 sostenitori e 6.484 tweet a suo nome, e il sultano al Qassemi, che commenta gli
affari arabi, con circa 104.791 seguaci e ben 28.308 tweet nel marzo 2012.
Nabeel Rajab, presidente del «Bahrain Center for Human Rights» (Centro del Bahrain per i
Diritti Umani), possiede circa 124.572 sostenitori su Twitter e ha inviato 17.393 tweet.
Questi micro-bloggers arabi hanno sostenitori che superano i numeri di alcuni tra i più
importanti giornali arabi nazionali, evidenziando così il potenziale impatto e la portata
delle micro-blogosfere arabe.
I media, compresi i giornali e le reti satellitari, stanno adottando strategie di multipiattaforma per promuovere l'interazione con il pubblico e i cittadini giornalisti, attraverso
vari mezzi innovativi, per acquisire e condividere notizie ed informazioni.
La battaglia per il cyber spazio arabo si è rafforzata lungo tutto il 2012 e bloggers, attivisti
di opposizione e giornalisti free-lance, continuano però ad affrontare i rischi di arresto ed
altre gravi ripercussioni.
Secondo Jeffrey Ghannam, studioso del Cima (Center for International Media Assistance),
nonché avvocato, giornalista ed esperto dei media in Medio Oriente e Nord Africa, sono
questi i risultati della primavera araba e delle rivoluzioni telematizzate degli ultimi anni:
 Decine di milioni di attivisti on-line stanno creando e condividendo contenuti ed
influenzando i canali di informazione in tutta la regione;
 I media digitali stanno consentendo la fusione del giornalismo, del giornalismo
cittadino, del media-attivismo e dell'intrattenimento, spesso usufruendo di varie
piattaforme che includono anche i media tradizionali, al fine di raggiungere ed
attirare il pubblico. Il comune denominatore rimane l'utilizzo delle tecnologie
digitali in qualità di piattaforme, sia per le notizie, sia per il coinvolgimento e la
mobilitazione generali;
 Mentre gli strumenti dei social media hanno permesso una maggiore libertà di
espressione, i governi arabi e i gruppi religiosi, come ad esempio in Tunisia, stanno
prendendo di mira i giornalisti ed i bloggers, incluse le recenti minacce di morte
contro un popolare blogger per aver riportato questioni concernenti la religione;
 Seguendo le rivoluzioni, la battaglia per la blogosfera araba si è trasformata da una
semplice richiesta di accesso ad internet, e di lotta contro i controlli governativi, ad
una vera e propria cyber-guerra per il dominio informativo attraverso Facebook,
Twitter ed i media tradizionali. I governi arabi, ed alcuni partiti politici (come i
Fratelli Mussulmani) stanno tentando di influenzare i fatti della regione attraverso
l'utilizzo dei social-media, per mezzo di attacchi informatici e di Twitter-trolls, in
opposizione alle critiche mondiali;
 I social-media stanno rinvigorendo la stampa tradizionale e le trasmissioni dei
media, incluse le reti satellitari, che adottano strategie multi-piattaforma. Mentre le
reti satellitari stanno attirando milioni di visite – ed anche alcune riviste e giornali
stanno attirando centinaia di migliaia di "mi piace" su Facebook – i media
tradizionali riscontrano sempre meno seguito;
 I social media servono sovente come copertura politica: le agenzie di stampa stanno
riconoscendo i vantaggi nell'adoperare i social media per anticipare alcune scelte
strategiche attraverso la divulgazione di storie delicate sui siti dei social media e, in
altri casi, per valutare la possibile reazione futura prima di stampare o di andare in
onda;
 Numerosi osservatori dei media e professionisti del settore hanno lamentato a
giornalisti, cittadini, bloggers, attivisti e collaboratori pro-governativi, nella
regione, una mancanza di etica, una scarsa attenzione al reato di diffamazione, il
rifiuto più o meno patente di rispettate le norme di diritto internazionale;
 Ministeri e media ufficiali sono nella migliore posizione per rivendicare la
sobrietà, la moralità ed il rispetto dell’etica giornalistica, attraverso codici di
condotta, corsi on-line e di controllo, per aiutare a garantire che il flusso di notizie
sia preciso e corretto.
 Il contenuto prodotto dagli utenti è abbondante, ma spesso privo di spessore o
ambiguo dal punto di vista delle fonti. La formazione dei giornalisti cittadini e degli
attivisti on-line potrebbe aiutare il potere costituito ed il pubblico a valutare
l'accuratezza e l'autenticità delle notizie e delle informazioni. I media e le comunità
di attivisti hanno intrapreso questo sforzo, ma con un numero sempre crescente di
utenti on-line si necessita di iniziative più forti e organizzate.
Invero, le piattaforme dei social media e le tecnologie portatili che hanno favorito le
proteste di massa, spingono un'avanguardia di cittadini, di attivisti e di media ad andare
oltre i confini della libera espressione.
I governi arabi di transizione sono di fronte alle critiche degli esponenti dell’opposizione,
dei giornalisti cittadini e di attivisti che emergono dopo decenni di regime autoritario.
Le comunità on-line fissano il proprio programma, creano i propri contenuti, condividono e
ritweetano quei contenuti, originando una gerarchia tra twitterati: coloro i cui tweets sono
ritweetati a ritmi più sostenuti acquistano una maggiore visibilità in rete e sono percepiti
come aventi una maggiore autorevolezza.
Gli internauti più attivi su Facebook e Twitter sono giovani all’ultima moda, che
acquistano un numero di followers sempre più abbondante quando imitano o s’ispirano alle
mode dell’Occidente.
Essi partecipano allo scambio di notizie e di informazioni attraverso le reti satellitari; uno
scambio che determina l'agenda delle notizie televisive per decine di milioni di individui.
Abderrahim Foukara, capo d'ufficio a Washington per «Al-Jazeera Arabic satellite
network» spiega questa interazione come un matrimonio tra i social media e la televisione
via satellite.
Per Foukara,
I social media hanno permesso alla televisione satellitare di raggiungere posti dove
non sarebbe mai stata capace di arrivare" […] In Siria, dove i media sono duramente
controllati all'interno del Paese, la televisione satellitare fa affidamento sulle immagini
inviate loro tramite i social media, dopodiché ritrasmette i messaggi su una scala più
ampia: un’ operazione che altrimenti non sarebbe stata possibile. I social media hanno
creato un livello di comunicazione nuovo all’interno del mondo arabo.
Poiché nella regione il tasso di analfabetismo resta molto alto, la televisione satellitare sarà
fondamentale per la diffusione di notizie e di informazioni.
Ma le produzioni multi-piattaforma sono il business del momento.
Per esempio, il «Bassem Youssef Show», un riff su «The Daily Show» con Jon Stewart,
può essere visto e commentato su Youtube. Lo spettacolo ha debuttato on-line in Egitto,
subito dopo la rivoluzione, ed il suo successo lo ha condotto dalla rete alla televisione, con
uno spazio dedicato sul canale indipendente «Ontv».
Un popolare sito di notizie tunisino, che offre news in arabo, «Attounisia», è passato
recentemente alla versione cartacea, unendosi al fiorente settore della stampa in Tunisia,
che non è più vincolata al controllo del governo sulla pubblicità.
L' Agenzia Tunisina per la Comunicazione Esterna, che usava dirigere la pubblicità
(advertising) sui media di stato ha sospeso invece le proprie operazioni. Il nuovo ed
innovativo canale egiziano «25tv», chiamato in questo modo dopo la simbolica giornata
del 25 gennaio 2011, è un canale populista-polemico che si unisce a tanti altri nuovi media
a conduzione privata e apparentemente indipendenti.
"I social media sono i media della gente: chiunque possieda un telefono diventa
produttore", ha dichiarato Mohammed Gohar, esperto di media e fondatore del canale
«Tv25» (“il canale digitale più giovane al mondo”, per i vertici Sky), che dalla rivoluzione
in poi si è rafforzato di giorno in giorno.
La Tv25 è un mix tra i media classici ed i social media. Non è elaborato, non
abbiamo costruito un set. Riceviamo cantanti e ci sediamo sulle rive del Nilo.
E' vicino alla gente.
"Il modello di business è chiaro", afferma ancora Gohar ad un intervistatore.
Sto scommettendo su un marchio che è diventato uno tra i marchi più famosi ed
apprezzati. Il modo di pensare dei giovani egiziani della rivoluzione. Questo è il
marchio. Ci vorrà del tempo, ma sono sicuro che otterremo degli inserzionisti.
La fusione tra i nuovi ed i tradizionali media probabilmente condurrà a nuove “voci” e ad
offerte multi-piattaforma al pubblico.
"Quello a cui assisteremo nel prossimo anno è molto più di un abbattimento dei confini tra
i social media, il giornalismo cittadino e quello mainstream", ha detto Lawrence Pintak,
decano dell' Edward R. Murrow College of Communication, presso la Washington State
University.
Stiamo già osservando in Egitto, ad esempio, la trasformazione di giovani blogger e
attivisti dei social media in giornalisti semiprofessionisti o presentatori di programmi
autoprodotti.
La stampa sta inoltre permettendo ai cittadini giornalisti di intraprendere una carriera in
qualità di reports presso media importanti, per aiutare lo sviluppo di collaborazioni tra i
giornalisti cittadini ed i nuovi siti di notizie on-line, come ha affermato Courtney Radsch,
Program Manager per la «Freedom House’s Global Freedom of Expression Campaign».
I bloggers della regione che lavorano in condizioni di accesso limitato ad internet o con
una senza banda larga sono riusciti a sviluppare delle ampie reti comunicative insieme ad
altri attivisti on-line, autorevoli a livello mondiale, ha dichiarato la Radsch.
La giornalista ed attivista yemenita Tawakul Karman, 32 anni, acclamata come "madre
della rivoluzione" è la più giovane vincitrice di un Nobel per la Pace36.
L’attivista e blogger yemenita Maria al-Masani presta ora servizio in qualità di consulente
web allo «Yemen’s National Transition Council».
Il loro impegno in rete ha trasformato il senso di appartenenza alla comunità nei territori
più arretrati della regione araba, dove ancora vivide sono le identità familiari, tribali e
religiose.
“Dobbiamo stare attenti a non ripetere l'errore che abbiamo fatto con l'Egitto,
quando pensammo: Oh, la penetrazione in internet è solo del 12%,’" ha detto la
Radsch, la cui tesi di dottorato riguarda il cyberattivismo in Egitto. Queste forme di
36
Nel 2011 ha ricevuto assieme alle liberiane Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee il Premio Nobel per la
pace "per la loro battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena
partecipazione nell'opera di costruzione della pace".
opinione sono dei canali di raccordo tra una determinata classe ben educata (colta) e le
altre. Stanno imparando gli uni dagli altri, si sentono parte di una storia più ampia e la
possibilità di raccontare la loro storia è uno degli aspetti che conferiscono potere ai
social media. Queste sono le persone che vogliono giocare un ruolo di leadership e le
si sta aiutando a partecipare alla sfera pubblica, ove le donne erano praticamente
assenti.
Penetrazione di Facebook e Twitter:
 A partire dal novembre del 2011, il numero totale di utenti di Facebook nel mondo
arabo è pari a 36.016.664, contro i 21.377.282 del gennaio 2011, dopo aver quasi
raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, con 19.945.487 utenti nel
mese di novembre 2010;
 Si è registrato un aumento di utenze del 68% , tra gennaio e novembre 2011.
 All'inizio di novembre 2011, la media nazionale di penetrazione Facebook nel
mondo arabo era approssimativamente al 10%, contro poco meno del 6% alla fine
del 2010.
 I giovani di età compresa tra i 15 ed i 29 anni costituiscono circa il 70% di utenti
Facebook nella regione araba, un numero che si è mantenuto costante da aprile
2011;
 L'Egitto costituisce ancora circa un quarto del numero totale di utenti di Facebook
nel mondo arabo e ha aggiunto, nell'ultimo anno, più utenti rispetto ad ogni altro
paese arabo: più di quattro milioni di nuovi utenti Facebook tra gennaio ed ottobre
2011;
 La percentuale di utenti di sesso femminile è ferma al 33,5%, dal mese di aprile
2011. E' ancora significativamente basso rispetto al trend globale, dove le donne
rappresentano circa la metà degli utenti di Facebook;
 Il numero stimato di utenti attivi di Twitter nel mondo arabo, alla fine del mese di
settembre 2011, era di 652.333. Globalmente, un miliardo di tweet vengono inviati
ogni quattro giorni;
 Il numero stimato di tweet prodotti nella regione araba nel settembre 2011 da questi
"utenti attivi" è stato di 36,889,500. Il numero stimato di tweets giornalieri è di
1.229.650, o di 854 tweet al minuto, ovvero circa 14 tweets al secondo;
 Gli "hashtag37" più popolari nella regione araba, nel settembre 2011, erano
#bahrain (con 510.000 citazioni nei tweet generati durante questo periodo), #Egitto
(con 310.000 citazioni), #Siria (con 220.000 citazioni), #feb14 e #14feb (con una
combinazione di 153.000 citazioni) e #kuwait (con 140.000 citazioni);
 I Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council
Countries) non dominano più la classifica degli utenti arabi presenti su Facebook
come percentuale di popolazione. Mentre gli Emirati Arabi restano in vetta al
mondo arabo, il Kuwait è l'unico altro paese del Gcc tra i primi cinque posti,
insieme al Libano, la Giordania e la Tunisia.
37
Gli “hashtags” sono parole e frasi preceduti dal cancelletto (#)
La giornalista bahrainita Nada Alwadi è fuggita dal suo paese d'origine nel 2011, dopo
aver ricevuto svariate minacce a causa dei suoi articoli sulle proteste iniziate il 14 febbraio
2011.
Nada Alwaki ha messo in luce la guerra in atto in Bahrain tra i bloggers, gli attivisti ed i
giornalisti bahrainiti pro-governativi e gli anti-governativi. I media statali a favore del
governo, ancora oggi, primeggiano sull'isola.
"E’ in corso una gara nei social media, oggi, tra gli attivisti e l'opposizione politica per
ottenere più seguaci su Twitter e per ottenere un maggiore ascolto su Facebook, o per
inviare informazioni sulla propria attività” afferma la Alwadi, ora con sede a Washington
Dc.
I cosiddetti "troll" di Twitter, nelle proteste in corso sui social media, cercano di trovare i
lati deboli e critici delle strategie autoritarie.
Jillian York, blogger e direttrice dell'International Freedom of Expression, presso
l'Electronic Frontier Foundation, consigliò ai bloggers, nel corso della terza Annual Arab
Bloggers Conference tenutosi in Tunisia nell’ottobre del 2011, di evitare di utilizzare nei
tweets i nomi dei paesi criticati o in discussione.
"Arabloggers, una raccomandazione: non digitate hashtag sul nome del Paese di cui
stiamo discutendo - otterrete il più sporco trolling #AB11", tweettò la York.
Il messaggio evidenzia gli aggressivi sforzi dei trolls, che inviano messaggi per molestare
ed intimidire i commentatori ed i giornalisti che scrivono sulle proteste.
"Noi li chiamiamo i troll del Bahrain", dichiara al New York Times Hussain Yousif, un
illustre blogger ed attivista bahreinita che risiede a Londra.
Yousif sostiene di essere stato spesso oggetto di attacchi. "Mi hanno detto 'tu sei come un
animale che potremmo ammazzare e a cui nessuno importerebbe di te.' Hanno pubblicato
la mia foto e il mio numero di cellulare, dicendo: 'Chiama questa persona e fagli sapere
cosa ne pensi di lui.'"
Secondo alcuni accounts, i trolls sembrerebbero mantenere i medesimi orari, spingono un
argomento ed hanno pochi seguaci su Twitter, dice Yousif, e questo porta molti a
sospettare siano più di semplici sostenitori del governo. "Iniziano e terminano tutti nello
stesso momento. Questo significa che è come un lavoro.", continua Yousif. "Parlano di
Iran, utilizzano parole comuni e non discutono mai. Sono arrivati ora a combattere."
La Commissione d'inchiesta indipendente del Bahrain, istituita dal re Hamad bin Isa Al
Khalifa per indagare sugli eventi verificatisi nel febbraio e nel marzo del 2011, ha appreso
che i giornalisti pro-governativi ed anti-governativi sono stati bersagliati attraverso i social
media.
Nella pagina 501 del rapporto si è certificato che i social media, i siti web ed i messaggi su
Twitter hanno contribuito alla diffamazione, alle molestie e, in alcuni casi, anche
all'incitamento alla violenza contro giornalisti indipendenti e semplici attivisti.
La commissione, presieduta dal noto professore di giurisprudenza ed esperto di crimini di
guerra delle Nazioni Unite, Mahmoud Cherif Bassiouni, ha anche riferito:
E’ chiaro che i media in Bahrain sono sbilanciati verso il governo. Sei quotidiani su
sette sono a favore del governo ed e il servizio radiotelevisivo è controllato dallo stato.
Il continuo fallimento dei vari tentativi di rappresentare adeguatamente i gruppi di
opposizione sui media nazionali rischia di polarizzare ulteriormente la divisione
politica ed etnica in Bahrain.
La mancanza di accesso ai media mainstream crea frustrazione all'interno dei gruppi di
opposizione e, di conseguenza, questi gruppi ricorrono ad altri media come i social
network.
Questo fenomeno può avere un effetto destabilizzante, perché i social media non sono
rintracciabili e facilmente censurabili, caratteristiche che presentano dei problemi quando
questi mezzi di comunicazione vengono utilizzati per diffondere discorsi di odio politico e
di incitamento alla violenza.
Senza l'ausilio delle tecnologie digitali, utilizzate da devoti e coraggiosi cronisti durante la
rivolta di massa in Siria, tra cui la possibilità di vivere gli eventi in streaming, la narrazione
sarebbe stata riportata in modo molto diverso. Le autorità in Siria hanno ufficialmente
bandito le organizzazioni giornalistiche internazionali al fine di coprire i violenti scontri
che hanno causato la morte di più di 7.500 civili, secondo le Nazioni Unite, a partire dal
marzo 2012. Da allora, il numero di vittime è notevolmente aumentato.
Alla fine di febbraio, il governo siriano ha bloccato «Bambuser», un sito web live
streaming, il giorno dopo in cui uno dei suoi utenti metteva in onda le immagini di un
bombardamento che riteneva fosse stato effettuato dalle forze del presidente Bashar alAssad.
«Bambuser» – un servizio mobile di streaming in diretta, con sede in Svezia – è stato
largamente utilizzato sul campo in Siria per più di otto mesi. I dissidenti utilizzano il
servizio per trasmettere video in tempo reale.
Ai media esteri viene impedito ufficialmente di entrare in Siria e quindi il giornalismo
cittadino on-line (con le storture che documenteremo nei prossimi capitoli) diventa
decisivo per informarsi sugli eventi all'interno dei confini siriani.
Il presidente esecutivo di «Bambuser», Hans Eriksson, ha detto che tra il 90 ed il 95 % dei
video in diretta dalla Siria era in streaming, nel 2011-2012, attraverso lo stesso Bambuser.
Alcuni video live sono riusciti a fuoriuscire dalla Siria, secondo Bambuser, descrivendo i
metodi utilizzati come "approcci alternativi", ma purtroppo ad intermittenza, a causa del
blocco governativo e delle interruzioni del servizio elettrico.
"Durante la rivolta di Hama [nel 1982], non avevamo niente più che i mormorii dei
viaggiatori", ha detto Pintak, un tempo corrispondente televisivo, oggi con sede a Beirut.
"Non avevamo niente in termini di video televisivi ed ora guarda la Siria. Il mondo è
completamente differente e la condizione dei media nel mondo arabo è adesso
completamente diversa."
La Siria sta sostenendo gli attacchi informatici contro gli oppositori.
Secondo Helmi Noman, dell'iniziativa «OpenNet», la Siria è il primo paese arabo ad avere
assoldato un vero e proprio esercito della rete, per lanciare apertamente attacchi informatici
contro i nemici.
Conosciuto come «Syrian Electronic Army» (esercito elettronico siriano), sembra essere
un aperto ed organizzato gruppo di attacco informatico che prende di mira l'opposizione
politica e i siti web occidentali.
Nonostante i progressi nella libertà di espressione, attivisti, giornalisti e bloggers
continuano ad affrontare gravi rischi per la sicurezza personale a causa degli articoli e
dell’attivismo online.
Joe Stork, vice direttore per il Medio Oriente presso la «Human Rights Watch», ha
affermato che l'Egitto nel 2011:
ha vissuto un assalto inquietante alla libertà di espressione. Le violazioni del diritto
alla libertà di espressione hanno incluso dei processi a carico di manifestanti e
blogger, interrogatori di giornalisti ed attivisti, e di chiunque avesse criticato i militari .
Un blogger di spicco anti-regime egiziano, Alaa Abd El Fattah, è stato arrestato (poi
rilasciato) alla fine del mese di dicembre 2001 con l’accusa di incitamento alla violenza a
causa dei suoi post online.
Un ex prigioniero politico sotto il regime di Mubarak, Abd el Fattah, è stato preso in
custodia militare dopo aver criticato pubblicamente la condotta dell'esercito nella notte del
9 ottobre 2011, quando almeno ventisette persone sono state uccise nel corso di una
protesta copto-cristiana al Cairo.
Come molti altri attivisti, Abd el Fattah ha accusato l'esercito di coinvolgimento diretto
nello spargimento di sangue, una tesi che sembra essere sostenuta anche dalle
testimonianze e dai filmati, secondo «The Guardian».
Un altro blogger egiziano, Maikel Nabil Sanad, 26 anni, un cristiano copto la cui causa è
stata ripresa da attivisti contrari al governo militare post-Mubarak, è stato tra i quasi
duemila detenuti condannati dai tribunali militari nel corso del 2011.
L’allora presidente facente funzione dell’Egitto, Mohamed Hussein Tantawi, ha però
rilasciato Sanad insieme agli altri condannati: l'amnistia è stata annunciata tre giorni prima
delle manifestazioni del primo anniversario della rivoluzione, il 25 gennaio 2012.
I social media hanno sostenuto anche i diritti delle donne e la necessità di un cambiamento
sociale dopo gli attacchi subiti dalle donne giornaliste.
L'attivista e giornalista egiziano-americana Mona Eltahawy ha subito una frattura al
braccio sinistro e alla mano destra dovuta ad un attacco delle forze di sicurezza egiziane, in
piazza Tahrir, il 23 novembre 2011, durante un periodo di battaglie accanite tra
manifestanti e forze di sicurezza, che hanno lasciato sul terreno quasi quaranta morti e
tremila feriti. Dopo l'aggressione e durante la detenzione, ha preso in prestito un telefono
cellulare e ha twittato il suo calvario ai suoi sostenitori. Ha parlato apertamente
dell'aggressione, sia online che attraverso la stampa e la televisione.
In Egitto, il Consiglio Supremo delle Forze Armate (Scaf) è ancora attivissimo sulla
pagina di Facebook, che contava 1.746.000 "mi piace" nel marzo 2012.
Le dichiarazioni dello Scaf, inoltre, ispirano a catena i commenti di decine di migliaia di
persone, inclusi i messaggi di protesta.
La giornalista Leila Fadel, del «Washington Post», ha riferito che il Consiglio militare
d'Egitto, che mantiene un forte sostegno pubblico e controlla politicamente il paese, è
riuscito ad incanalare la rabbia dell'opinione pubblica contro il movimento giovanile del 6
aprile (sempre apprezzato dagli egiziani), tanto da indebolirlo e ridurne i consensi già nei
primi mesi del 2012.
Il gruppo è stato descritto dall'autorità militare come “agenti di un'insurrezione appoggiata
dall’esterno”, ovvero dai paesi occidentali.
Aggiunge la Fedel : "Per contrastare quest’attacco, il movimento 6 aprile sta facendo
ricorso alle tattiche impiegate con successo un anno fa: campagne di social media,
manifestazioni, graffiti pubblici, dichiarazioni online e volantini riportanti gli abusi dei
militari".
La società civile egiziana sta continuando ad organizzarsi in rete, ad esempio attraverso
«Qabila Tv», che informa i cittadini egiziani circa l’azione del governo e le disparità
sociali, attraverso video musicali rap su temi sociali e visibili su Youtube e tramite
Facebook.
Nel mondo arabo, i media mainstream stanno attirando migliaia di seguaci sulle
piattaforme dei social media.
Nei sondaggi effettuati nei mesi di gennaio, febbraio e marzo del 2012, nel periodo degli
anniversari delle rivoluzioni, il numero di “followers” di diversi media è aumentato a
centinaia di migliaia.
«Al Ahram», il più grande tra i monopoli mediatici egiziani sponsorizzati dallo stato, sta
attirando meno sostenitori su Twitter rispetto al giornale di proprietà privata «Al Masry Al
Youm», ma più del privato «Al Youm Al Sabe», che conduce il gioco dei "mi piace" su
Facebook, tra ventuno giornali regionali.
Ad un anno esatto dalla rivoluzione egiziana, nel gennaio e febbraio 2012, il numero di
"mi piace" sulla pagina Facebook di Al Ahram è cresciuto rapidamente da 320.443, a
partire dal 28 gennaio, fino a 443.037, al 26 febbraio 2012, con un aumento di 123.000
utenti.
Al 16 marzo 2002, i "mi piace" di Facebook sono saliti a 479.221, un incremento di 36.184
dal 26 febbraio, suggerendo un rallentamento nella conquista di nuovi seguaci, nonostante
siano sempre cifre ragguardevoli.
Nello stesso periodo, «Al Masry Al Youm» mostrava 713.635 "mi piace" su Facebook, un
salto dai 699.390 a partire dal 26 febbraio e dai 661.633 del 28 gennaio. Il giornale conta
472.327 sostenitori su Twitter, al 16 marzo 2012, in incremento rispetto ai 441.262 del 26
febbraio.
«Al Youm Al Sabe» aveva 1.154.027 “mi piace” su Facebook il 16 marzo, un aumento di
poco meno di 100.000 sostenitori dal 26 febbraio, quando ne aveva 1.056.824 (è cresciuto
di 177.609 seguaci dal 28 gennaio 2012).
Anche Al Youm Al Sabe ha guadagnato un numero crescente di sostenitori Twitter, a
partire dal 16 marzo, con 86.968 seguaci, rispetto ai 79.018 del 26 febbraio ed ai 61.284
del 28 gennaio.
Mentre alcuni media stanno attirando centinaia di migliaia di sostenitori, altri ne
possiedono un numero relativamente irrisorio e lo si attribuisce a vari fattori, tra i quali i
tassi di penetrazione di internet, la larghezza di banda, l'alfabetizzazione, la sofisticatezza
dei media online e le questioni socio-economiche.
Le comunità di esuli possono contribuire in modo significativo al numero di seguaci online dei media tradizionali arabi.
Più di tremila persone sono state intervistate dall’«Arab Advisors Group Research» al fine
di capire il numero indicativo di lettori migrati dalla carta stampata alle notizie online: nel
2009 il numero di lettori di giornali online era al 50 %, contro il 34 % per le fonti non in
linea.
Le piattaforme dei social media attirano probabilmente quei lettori che non hanno mai
comprato le edizioni cartacee, come i giovani tra i 19 e i 25 anni.
"Un gran numero di media tradizionali utilizzano Twitter e Facebook per promuovere il
proprio lavoro e rivolgersi ad un ipotetico pubblico più giovane", ha detto Tarek Atia, un
giornalista egiziano e amministratore delegato dell’Egypt Media Development Program, un
corso di formazione multimediale, di consulenza e società di produzione.
Il giornalista egiziano-americano, Ashraf Khalil, che collabora dal Cairo col «Times» di
Londra e con la la rivista «Foreign Policy», autore del libro “Piazza della Liberazione“
(Liberation Square) ambientato durante i 18 giorni di proteste che culminarono con le
dimissioni di Mubarak, ha affermato che i media di proprietà privata in Egitto sono
maggiormente persuasivi nell’attirare il pubblico più giovane, tra cui «Tahrir», un sito di
notizie online lanciato dopo la rivoluzione, che contava più di 265.000 “mi piace” su
Facebook , 300.108 seguaci su Twitter, a partire dal 16 marzo 2012; così come «al Masry
al Youm» e «Al Shorouk».
"Io non penso che Al Ahram abbia lettori affezionati inferiori ai 50 anni di età, perché
dovrebbe? Prendo in giro io stesso mia zia per la lettura di Al Ahram", ha detto Khalil.
"Lei non ha intenzione di tweetare, ma su!”
Rasha Abdulla, professoressa associata e docente di giornalismo e comunicazione di massa
presso l’«American University» del Cairo, boccia categoricamente l’informazione dei
media di stato, anche dopo la cacciata di Mubarak.
"Sono abituati a coprire i fatti sostenendo il regime", ha detto la Abdullah dal Cairo.
"Sono abituati ad avere un'entità da idolatrare. Quando Mubarak è stato cacciato,
hanno rivolto la loro attenzione alla gente […] il giorno seguente l’estromissione di
Mubarak, i titoli delle prime pagine sollecitavano il successo del popolo durante la
rivoluzione - un voltafaccia, per i portavoce dello stato. Ora sono con lo Scaf.”
In tutto il settore dei media, i social network sono diventati una componente fondamentale
per i cicli di notizie in uscita, anche come fonte di suggerimenti e di idee narrative per
regolare le caratteristiche di ciò che verrà detto nel mondo ogni dato giorno.
Il panorama dei nuovi media comprende i giornalisti tradizionali, i giornalisti cittadini e gli
attivisti dei media. Scrivendo sul proprio blog, Pintak li descrive in questo modo:
i giornalisti cittadini scrivono articoli basati sui fatti, concernenti eventi e problemi,
perciò rinviano ad atti di giornalismo; gli attivisti dei media sono attivisti politici che
utilizzano il giornalismo come strumento politico, infine ci sono i cittadini testimoni a
cui capita di catturare notizie di eventi; costoro potrebbero essere un cittadino, un
giornalista od un attivista dei media, oppure nessuno dei due. Queste distinzioni
esistono in tutto il mondo, ma nel mondo arabo e negli altri luoghi che stanno vivendo
drammatici cambiamenti politici e l'oppressione dei media, la linea è particolarmente
confusa.
I media-attivisti possono realizzare scoop (o false notizie) giornalistiche, così come
riportare storie al di là delle linee rosse di demarcazione dei giornalisti tradizionali. "Ma,
alla fine, la loro motivazione è differente rispetto a quella di un giornalista tradizionale."
Questa miscela di giornalismo, testimonianze di cittadini ed attivismo nei media ha creato
un ecosistema che sta modificando i canali di notizie e di informazione nella regione.
Nabeel Alkhatib, direttore esecutivo di al-Arabiya News Channel ha dichiarato in
un'intervista del mese di ottobre 2011:
Esiste un nuovo modo di fare le cose. È necessario pensare a come creare hashtag,
come modificare la storia attraverso gli aggiornamenti di Facebook e come costruire
reti con i giornalisti cittadini. Lavorare con i cittadini-giornalisti significa anche un
cambiamento nei valori di produzione, come ad esempio l'utilizzo di videocamere flip
e lavorare con immagini che in passato sarebbero state respinte per non aver rispettato
gli standard di qualità della rete televisiva.
Alkhatib riconosce l'impatto dei giornalisti cittadini sulle notizie della rete e la necessità di
sviluppare queste reti e la loro formazione per contribuire a migliorare gli standard di
qualità e di credibilità.
I social media hanno fornito la possibilità di testare le storie online e di calibrare la
reazione ufficiale prima che esse raggiungano un pubblico più vasto.
Le reti satellitari internazionali, tra cui «al-Jazeera» ed «al-Arabiya» stanno inoltre
integrando le piattaforme dei social media nelle decisioni dei programmi e delle notizie.
Foukara, capo ufficio di al-Jazeera di Washington, ha dichiarato che:
L'utilizzo dei social netwoek e la dipendenza dalle immagini inviate attraverso i social
media alla televisione via satellite sono divenuti un dato di fatto. Fanno parte della
scena dei media e sono parte integrante della scena politica in tutto il Medio Oriente.
Un’altra questione è quando si ottengono questi video di paesi arabi come la Siria,
dove la stampa internazionale non può verificare una storia e ci troviamo di fronte al
dilemma: cosa garantisce che ciò possediamo sia vero? Per molto tempo, il materiale è
stato corretto. Ma esiste anche il rischio che si possa ottenere materiale fasullo. Nel
mondo di oggi, l’impulso ad utilizzare i video è troppo grande. La parte maggiore
della responsabilità morale ricade sui governi che impediscono ai media internazionali
di verificare di persona che quello che questi video riportano stia realmente accadendo
o meno.
La radio mostra sui canali di proprietà statale i mormorii dei social media.
Il canale «Tv25» di Mohammed Gohar presenta uno spettacolo chiamato “#hashtag”,
mezz'ora di spettacolo dal vivo cinque giorni alla settimana, con notizie costruite intorno
ad eventi documentati su piattaforme di social media. I destinatari sono i telespettatori
tradizionali ", “creiamo un ponte tra web e schermi tv, che attraversa l'Egitto."
I media tunisini hanno assistito ad un fenomeno simile nella forma dei siti di notizie online,
compresi «TunisiaLive.com» e «Kapitalis.com».
«KalimaTunisie.com», i cui fondatori, gli attivisti Sihem Bensedrine e Omar Mestiri,
hanno combattuto numerose battaglie per la libera espressione e per i diritti umani sotto il
regime di Ben Ali e hanno subito, di conseguenza, molte ripercussioni fisiche e personali,
sono ora in grado di diffondere notizie ed informazioni attraverso un sito web senza
l'ausilio di proxy, per aggirare le restrizioni dalle autorità tunisine.
Kalima dispone anche di trasmissioni radiofoniche, vietate sotto Ben Ali.
Derrick Ashong è conduttore di «The Stream» su al-Jazeera inglese, uno spettacolo
quotidiano che si unisce al numero crescente di programmi costruiti attorno a ciò che viene
detto sul web.
Ashong sostiene che se il modello dei media non è interattivo, allora sta mancando
l’obiettivo. "I social media sono un’avanguardia", ha detto Ashong, da Washington Dc,
dove «The Stream» è stato trasmesso a livello mondiale dal «Newseum38» e dal quartier
generale di al-Jazeera a Doha.
Tanti utilizzano i social media in modo tale da non creare comunità, ma
semplicemente adottano alcuni elementi dei social media. Se non vi è un modello
interattivo, non stanno utilizzando i social media per lo stesso motivo per cui le
comunità li adoperano.
Quello che le trasmissioni dei media hanno fatto è stato di utilizzare la piattaforma dei
social media per unire e raggiungere la propria base di telespettatori, ma non li
utilizzano nello stesso modo in cui li adoperano i social media.
Fino a quando non si dispone di un dialogo bidirezionale, si opera qualcosa di
cosmetico, di superficiale. Costruiranno sì, a volte, una comunità di persone che
vorranno assistere al programma, ma esse non saranno parte attiva dello spettacolo.
Quello che stiamo facendo è letteralmente [...] non l’utilizzo dei social media come
uno spettacolo televisivo, bensì come una comunità. Proveniamo da una posizione
radicalmente differente.
Con un numero sempre crescente di arabi che confluiscono nella rete, la tensione tra la
libertà di espressione online e le transizioni in corso in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen,
potrebbero condizionare la natura ed il futuro dell’impegno online per svariato tempo.
Lo sviluppo di un vivace cyberspazio arabo è in contrasto con le stesse restrizioni che lo
governano.
Lo spettro della censura, della sorveglianza, delle vessazioni e della reclusione getta una
lunga ombra sulla libertà di espressione fornita dai nuovi governi, che sono sfidati tramite
le proteste, sia on-line che per le strade. In tutta la regione, i governi e le autorità ricorrono
a diverse misure per regolare l'accesso a internet e le attività on-line, ed esse comprendono
leggi di stampa e di pubblicazione, codici penali, le leggi di emergenza, le leggi antiterrorismo, le condizioni e i termini di servizio dei provider internet e i decreti sulle
telecomunicazioni.
Facebook e Twitter potrebbero essere bloccati dai governi e i blocchi potrebbero essere
elusi dagli attivisti. Ma se Twitter39, ad esempio, avesse interessi d’affari ed operazioni in
un determinato paese, dovrebbe rispettare le leggi ed i regolamenti locali (per non parlare
delle pressioni politiche).
38
Il «Newseum» è un museo interattivo dell'informazione e del giornalismo, situato a Washington. Nelle
stanze dell'edificio museale sono conservati microfoni, macchine fotografiche, telecamere, macchine da
scrivere, cellulari e tutti gli altri mezzi di cui il giornalismo si è servito nel corso degli anni.
39
Utile ricordare che la famiglia reale saudita nel dicembre 2011 è entrata nel capitale sociale di Twitter. Il
principe bin Talal, nipote del re Abdallah, con un investimento di trecento milioni di dollari ha preso il 4%
del sito di microblogging. Un investimento che segue le partecipazione della famiglia reale saudita in Aol,
Apple, Worldcom, Motorola, News Corp e Fininvest. Nella società di Rupert Murdoch, il principe bin Talal
ha una partecipazione al 7 per cento, in contropartita con una del 9 per cento di Murdoch nel Rotana Group
(al 91 per cento della Kingdom Holding) che è la più grande azienda di media nel mondo arabo. Non è quindi
sorprendente il suo interesse per Twitter, anche vista la crescita esponenziale di questo social network nel
mondo arabo, Arabia Saudita compresa, nonostante le censure e le limitazioni che gli utenti del regno devono
subire. In Arabia, peraltro, il principe possiede due canali televisivi, Rotana Tv e al-Ibrahim, che sono stati
oggetto delle ire di alcuni studiosi di diritto islamico perché trasmettevano programmi considerati poco in
linea con la rigida ortodossia wahhabita, l’ideologia ufficiale del regno.
Twitter, il 26 gennaio 2012, ha annunciato che avrebbe rifiutato i tweets non conformi alle
norme legali delle nazioni da dove fossero originati, anche se adeguati altrove.
Annunciando però che avrebbe reagito trattenendo i tweets non conformi alle leggi,
sembrerebbe che si stiano eliminando alcuni dei margini di tolleranza della libertà di
espressione a cui milioni di persone si erano affidate sotto i regimi autoritari.
Quanto questo influisca sulla libertà di espressione nel mondo arabo resta comunque da
vedere.
Ma gli utenti arabi di Twitter si sono affrettati a commentare la nuova politica e
sembrerebbe, al momento, che spopoli nel mondo virtuale l’hashtag TwitterCensor#. Nel
formulare l’annuncio, Twitter ha dichiarato:
Un anno fa abbiamo pubblicato «The Tweets Must Flow», in cui affermavamo che lo
scambio aperto di informazioni può avere un impatto globale positivo. Quasi tutti i
paesi del mondo sono d'accordo che la libertà di espressione sia un diritto umano.
Molti paesi sono inoltre concordi che la libertà di espressione comporti delle
responsabilità ed abbia dei limiti. Continuando a crescere a livello internazionale,
entreremo in paesi che hanno idee diverse circa le forme della libertà di espressione.
Alcuni differiscono parecchio dalle nostre idee. Altri sono simili a noi, ma, per
ragioni storiche o culturali, restringono determinati contenuti, come per esempio la
Francia o la Germania, che vietano i contenuti filo-nazisti. Finora, l'unico modo per
tener conto dei limiti di questi paesi è stato quello di rimuovere i contenuti a livello
globale. A partire da oggi, diamo a noi stessi la possibilità di trattenere reattivamente i
contenuti da parte degli utenti in uno specifico paese, mentre li continuiamo a
mantenere nel resto del mondo. Abbiamo anche integrato/incorporato verso gli utenti
una comunicazione trasparente spiegando quando il contenuto sarebbe stato trattenuto
e per quali motivazioni. Non abbiamo ancora utilizzato questa capacità, ma se e
quando ci verrà richiesto di trattenere un tweet in una specifica nazione faremo in
modo che l’utente lo sappia e indicheremo chiaramente quando il contenuto è stato
trattenuto. Come parte di questa trasparenza, abbiamo esteso la nostra partnership con
«Chilling
Effects»
per
condividere
questa
nuova
pagina
http://chillingeffects.org/twitter, il che rende più facile trovare le notizie relative a
Twitter.
In una regione intorpidita da proteste e da rivolte, i governi arabi cercano sostegno nei loro
sforzi per ridurre la libera espressione, con il pretesto della sicurezza nazionale.
La discussione avvenuta al parlamento britannico nel mese di agosto 2011 presta il fianco a
quanti vorrebbero vi fosse un maggiore controllo su ciò che viene detto sulle piattaforme
dei social media.
In seguito alle rivolte dell’agosto 201140, il parlamento inglese ha contemplato la
possibilità di vietare ai facinorosi l’utilizzo dei social networks, tra cui Facebook, Twitter e
BlackBerry Messenger.
Il quotidiano «The Guardian» ha raccontato che il giorno dopo gli scontri il primo
ministro David Cameron ha riferito al Parlamento che il governo stava seriamente
progettando di vietare l'utilizzo di Twitter e Facebook alle persone sospette, nel caso vi
fosse un serio rischio di pianificazione telematica di attività criminali, anche se alla fine ha
rimandato tutti i progetti relativi al divieto di accesso ai social newtorks.
Una ricerca de «The Guardian» su una banca dati relativa ai tweets connessi alla rivolta
crea degli enormi dubbi sulle ragioni celate dietro la proposta governativa.
Lo studio ha dimostrato come i social media siano stati utilizzati principalmente per reagire
alle agitazioni ed ai saccheggi, anziché promuovere i disordini.
In questa fase di sviluppo del cyberspazio arabo, la libertà di espressione non è garantita.
Gli ambienti giuridici favorevoli alla libertà di espressione in Tunisia e in Egitto parlano di
"finestre di opportunità" per descrivere i fatti in tempo limitato e per stabilire protezioni
per le libertà personali attraverso riforme costituzionali, giuridiche e regolamentari.
L'urgenza è stata evidenziata durante le elezioni parlamentari che hanno avuto luogo in
Egitto e dalle elezioni dell'Assemblea Costituente Nazionale in Tunisia. Le opportunità di
approvare le riforme potrebbero essere limitate dalle priorità dei nuovi governi o
dall'orientamento delle idee sulla libertà di espressione verso posizioni più conservatrici o a
causa di priorità di sicurezza nazionale, in particolare modo ora che la Fratellanza
Mussulmana, in Egitto, ed il moderato partito islamico Ennahda, in Tunisia, sono al potere.
In Tunisia, è stato abbozzato un nuovo codice di stampa, ma ancora non è stato approvato
(2012).
Ashong, di «The Stream» ritiene che gli obsoleti sistemi dei mezzi di comunicazione
devono essere riformati durante la costituzione di quelli nuovi.
Se ci si concentra sulla costruzione del nuovo spazio e non si riforma quello vecchio,
non cambieremo nulla. Esistono diversi modi in cui il vecchio ordine può interferire
[…] é necessario creare un sistema del tutto nuovo che permetta alle persone di essere
ascoltate e questo garantisce il giornalismo di qualità. Parte di ciò a cui si assisterà,
sarà la convergenza tra le due cose. I social media possiedono sicuramente un forte
impatto e non si potrà tornare indietro. La marcia verso il cambiamento è inesorabile.
Vedrete una lotta, soprattutto perché la posta in gioco è molto alta. Le nuove
40
Dal 6 al 10 agosto 2011 si è verificata una serie di disordini in Inghilterra, che ha inizialmente interessato i
quartieri periferici della capitale britannica con saccheggi, episodi di sciacallaggio e rivolte. I disordini sono
cominciati nel quartiere di Tottenham, per poi espandersi senza controllo intorno alla città in zone
come Chelsea, Brixton e persino Oxford Circus, una delle maggiori attrattive turistiche di tutta Londra. La
causa delle sommosse è stata la morte di un sospetto ventinovenne, Mark Duggan, padre di quattro figli,
ucciso in una sparatoria con la polizia. La rivolta si è propagata velocemente anche nei quartieri di Wood
Green, Enfield Town e Ponders End. Vandalismi e comportamenti violenti sono stati registrati anche in molte
altre aree di Londra. Molti negozi sono stati dati alle fiamme, saccheggiati e distrutti da gruppi di
manifestanti. Almeno trentacinque poliziotti del Metropolitan Police Service sono stati feriti. L'8 agosto gli
incidenti si sono diffusi anche in altre città come Birmingham, Liverpool e Bristol. Il 9 agosto è stata
fortemente interessata anche la città di Manchester. Questi disordini sono considerati come la peggiore
rivolta, nel loro genere, dai disordini di Brixton del 1995.
generazioni e le nuove tecnologie vinceranno. Vi è una presa di consapevolezza
generale rispetto al vecchio potere. Non si possono uccidere persone a sufficienza per
convincer loro di essere impotenti. Ma questo non significa che vi sarà libera
espressione e gentilezza per tutto il tempo.
In Tunisia, la mancanza di un codice di stampa ha dato luogo a tensioni sociali e quindi ad
un problema di eccesso di libertà. "Vi è un vero e proprio vuoto in questo momento", ha
detto Faouzi Chaouche, un analista dei media, scrittore e docente di giornalismo nella
capitale. "E’ la totale assenza di parametri; non vi sono più linee di demarcazione. C’è
libertà di espressione, ma non nel modo corretto".
La crescita dei margini di libertà di espressione ha inoltre condotto ad un incremento degli
attacchi contro i media tradizionali. La mancanza di un codice deontologico e di
professionalità tra i collaboratori dei media sta forgiando un ambiente in cui si rinnova
anche l'istigazione alla violenza, nell’eco dei social media, della stampa e delle
trasmissioni televisive, secondo Chaouche.
Parlando dalla Tunisia, Chaouche racconta che alla fine del mese di gennaio del 2012 un
membro dell'Assemblea Nazionale Costituente è stato chiamato in causa per l'uccisione e
l'aggressione di giovani manifestanti, dichiarazioni che sono state ripetute ovunque nei
media. La questione è stata subito ripresa dai talk-show, con forti rischi in termini di
istigazione alla violenza e attacchi alla pubblica sicurezza. Ha descritto la scena mediatica
come "un dibattito aperto, dove ognuno dice quello che vuole. È davvero il caos. Questo
non sarebbe successo se avessimo avuto un codice della stampa. "
In Tunisia, i salafiti stanno utilizzando vari metodi intimidatori, in aggiunta alla violenza
contro i giornalisti. I gruppi religiosi hanno molestato i rappresentanti dei media, nel
tentativo di intimidirli e di soffocare la critica religiosa
Nel mese di ottobre del 2011 sono state avviate azioni legali contro «Nessma Tv» ed il suo
azionista di riferimento, dopo la messa in onda del film di animazione franco-iraniano
Persepolis41. Chaouche ha riferito che i procedimenti giudiziari contro «Nessma Tv» sono
aumentati, proprio in riferimento alla libertà di espressione.
"Non è più in discussione la sola Nessma TV, è l’intera libertà di espressione la posta in
gioco", ha detto Chaouche. "Il governo ha lavorato caso per caso, ma non vuole mostrare
al mondo che può utilizzare solo soluzioni di sicurezza per risolvere i problemi."
I gruppi salafiti, inoltre, sono stati accusati di tattiche intimidatorie contro un giornalista di
Nessma Tv, Soufiène Ben Hamida, la cui automobile è stata imbrattata con le parole "non
credente".
Una fatwa particolarmente violenta, ovvero una minaccia di morte, è stata emessa anche
nei confronti della popolare blogger Lina Ben Mhenni, che ha scritto in merito alla
minaccia, sul proprio blog:
I salafiti hanno annunciato che faccio parte di una lista della morte. Non ho paura
perché sto difendendo i principi in cui credo fortemente. Non mi paga nessuno per
41
Persepolis è un film d'animazione del 2007, ambientato nel periodo della Rivoluzione iraniana. Nel film
viene mostrato, inizialmente attraverso gli occhi di una bambina di nove anni (Mariane), come le speranze di
cambiamento della gente furono infrante lentamente quando presero il potere i fondamentalisti islamici,
obbligando le donne a coprirsi la testa e imprigionando migliaia di persone. La storia si conclude con
Marjane, ormai ventiduenne, che espatria. Il titolo è un riferimento all'antica città storica di Persepoli.
fare questo. È una mia scelta. Non sono la vittima di un lavaggio del cervello come lo
sono molti di loro. Non smetterò di scrivere e di
denunciare la loro
strumentalizzazione della nostra religione per scopi politici. Tuttavia, se mi succede
qualcosa, come potrebbe accadere ad ogni tunisino, a causa di questi codardi, il
governo ne sarebbe l'unico responsabile. L’anno scorso i tunisini avevano un sogno e
lo stavamo realizzando. Nessuno ruberà le nostre speranze e i nostri desideri.
Oltre alla Tunisia, progetti di codici di stampa e di leggi concernenti i media sono in esame
in diversi paesi, come in Algeria, in Qatar e in Arabia Saudita.
In Algeria, giornalisti e attivisti della società civile chiedono la revisione di una nuova
legge che è stata approvata nel dicembre del 2011 ed è entrata in vigore il 12 gennaio 2012.
Il «Committee to Protect Journalists» (Cpj), ha riferito che l'ambiguità creata della nuova
legge può assoggettare giornalisti e bloggers a restrizioni non necessarie.
La ricerca del CPJ dimostra come per “media”, nella nuova legge, ci si riferisca a qualsiasi
pubblicazione, trasmissione o lettera d’opinione; ad ogni idea espressa per mezzo di
supporti scritti, audiovisivi od elettronici.
La legge afferma anche che il personale dei media può operare liberamente, ma deve
rispettare la "fede islamica e di tutte le religioni", "l’identità nazionale ed i valori culturali
della società", "la sovranità nazionale e l'unità", "le esigenze di sicurezza e di difesa dello
stato", "i requisiti di ordine pubblico "e “ gli interessi di natura economica ".
Secondo la ricerca del Cpj, dei centotrentatré articoli di legge almeno trentadue possono
essere utilizzati per soffocare la libertà di espressione.
Varie disposizioni sono ambigue ed impongono ingiustificate limitazioni di accesso alle
informazioni, oltre a pesanti multe per violazioni della legge. Si sottopongono inoltre i
giornalisti a multe fino a 500.000 dinari algerini (circa $ 6.700), oltre a denunce per
diffamazione ed altre violazioni, tra cui la pubblicazione di informazioni sull'istruttoria
penale, l'offesa ad un capo di stato straniero o ad un diplomatico.
Secondo la legge del 1990, i giornalisti erano punibili fino a dieci anni di reclusione, per
oltraggio o diffamazione allo stato.
I giornalisti algerini hanno riferito al Cpj che nonostante la nuova legge sia ad un passo
dalla giusta direzione, ha proposto cambiamenti esclusivamente estetici, meramente
apparenti.
Il potenziale dei social media rappresenta la più radiosa speranza per una maggiore libertà
di espressione nel mondo arabo, consentendo a decine di milioni di persone, ed
ultimamente a molti di più, di perseguire attivamente l'impegno civile, le elezioni libere ed
eque, la responsabilità politica, lo sradicamento della corruzione, in aggiunta a media
liberi, indipendenti e pluralisti, nel rapido cambiamento delle attuali condizioni.I governi
arabi, con il sostegno della comunità internazionale, dovranno adattarsi al nuovo panorama
dei media arabi, come al numero crescente di arabi confluiti sulla rete. I controlli in
aumento sul potere del governo ed il ruolo dei media nel processo democratico sono tra gli
sviluppi più incoraggianti della storia contemporanea della regione.
Ma questi progressi non sono garantiti.
Mentre le condizioni per la libertà di stampa e per la libertà di espressione sono
leggermente migliorate in alcune aree, l’azione iniziale delle maggioranze conservatrici di
Tunisia e di Egitto mettono in chiaro che le protezioni universalmente riconosciute
probabilmente richiederanno del tempo.
Le condizioni dei media potrebbero diventare più limitate rispetto a quanto lo fossero sotto
i decaduti regimi autocratici, con maggiori verifiche ufficiali e controlli su quanto si
sostiene e si diffonde on-line.
Tuttavia, di fronte alla realtà , ambire all’assoluto controllo di internet sembra ormai
inutile: la massa critica di coloro che chiedono il cambiamento politico, sociale ed
economico, utilizzando i supporti digitali, probabilmente troverà un modo per aggirare gli
ultimi firewalls.
Per ora, sembra che il cyberspazio arabo sia pronto per consentire una guerra cibernetica in
continua evoluzione, una guerra che dividerà ancora gli internauti liberi dagli uomini e dai
poteri al servizio dei nuovi governi islamisti.
Capitolo settimo
Il caso siriano
Fino al 2010, il regime di Assad in Siria è stato tra i più stabili del Medio Oriente, restando
lontano dai fuochi “primaverili” del Maghreb. La situazione economica del paese,
quantunque precaria, non ha raggiunto la drammaticità di paesi come Egitto e Tunisia.
La Siria si trova in uno scacchiere geopolitico tra i più complicati: stretto tra le guerre civili
del Libano, l’occupazione americana dell’Iraq e l’eterna lotta tra Israele e la Palestina, il
regime quarantennale degli Assad ha costituito per molto tempo un faro di stabilità in
mezzo a tante incertezze. La rivolta è iniziata nel marzo del 2011, ma già nel mese di
febbraio vi sono state le prime manifestazioni davanti alle ambasciate di Libia ed Egitto
per esprimere solidarietà ai popoli in lotta. Successivamente, a Damasco decine di persone
sono scese in piazza per protestare contro la violenza di un poliziotto nei confronti del
figlio di un negoziante; è stata dunque proprio la capitale la prima a muoversi.
Pochi giorni dopo i parenti di alcuni prigionieri politici si sono riuniti di fronte al ministero
dell’Interno. In quell’occasione, l’intervento delle forze di sicurezza è stato duro e deciso: i
manifestanti sono stati repressi con forza e i più sono stati arrestati. In quell’occasione
piccoli gruppi di oppositori continuavano a scendere in piazza, ma si trattava di fenomeni
ancora piuttosto episodici. In realtà, all’inizio le proteste sono state sostanzialmente
pacifiche; almeno durante le prime giornate a manifestare è stata soprattutto la classe
medio-alta di intellettuali e giovani impegnati nell’ambito culturale. È inoltre interessante
notare che non si chiedeva la caduta del regime: a differenza di quanto è accaduto nelle
rivolte in altri paesi il popolo siriano non aveva intenzione di liberarsi del suo presidente,
chiedeva invece la fine della corruzione, riforme e più libertà.
È stata la risposta repressiva del regime stesso che ha contribuito ad estremizzare i toni. Ci
è voluto poco perché la situazione sfuggisse di mano: nel giro di alcuni giorni
l’insurrezione si è spostata da Damasco alla provincia, registrando l’intervento del ceto
medio-basso, tradizionale pilastro del regime. Una settimana più tardi, dopo le
manifestazioni di Damasco, a Deraa, nel sud della Siria, alcuni bambini hanno scritto degli
slogan contro il regime copiando quelli contro Mubarak comparsi in Egitto un paio di mesi
prima; alla notizia del loro arresto i genitori sono scesi in piazza per protestare e le forze di
sicurezza sono intervenute sparando sui manifestanti. I funerali di quei primi manifestanti
uccisi sono diventati l’occasione per altre manifestazioni: la rivoluzione era cominciata.
Fino a luglio, il fronte dell’opposizione non violenta è stato di gran lunga maggioritario
rispetto a quelli che invocavano l’uso delle armi per far fronte alla dura repressione del
regime. Nell’agosto del 2011, però, l’attacco governativo su Hama e Dayr Az Zor ha
cambiato le carte in tavola; l’opposizione si è spaccata in due ed una parte di essa ha
imbracciato le armi dando vita all’Esercito Siriano Libero, legato al Consiglio Nazionale
Siriano e formato prevalentemente da disertori dell’esercito regolare. Il Cns si è riunito per
la prima volta a Istanbul il 23 agosto ed è poi nato ufficialmente il 15 del mese successivo;
sostanzialmente è l'espressione di un gruppo di attivisti in esilio che si propone di creare un
fronte unitario anti-Assad. Nella sua piattaforma ha chiesto “le dimissioni di Assad e del
suo staff” ed ha avanzato anche la richiesta della “difesa internazionale dei civili secondo
lo statuto dell’Onu”. Il Cns è però apparso, nel frattempo, sempre più diviso, e anche i
suoi rapporti con i ribelli attivi in Siria si sono attenuati: i combattenti hanno infatti
criticato gli oppositori in esilio perché incapaci di procurare sufficienti fondi e armi. Il Cns
è legato fortemente ai gruppi di opposizione all’estero, come i Fratelli Musulmani 42 oltre ad
avere fortissimi legami con l’Esl.
Sul fronte esterno, agosto è un mese importante: il 18, per la prima volta dall’inizio della
ribellione, le principali potenze occidentali – Stati Uniti, Canada, Francia, Regno Unito e
Germania – hanno chiesto le dimissioni di Assad. Secondo le Nazioni Unite, inoltre, il
presidente siriano si sarebbe reso colpevole di crimini contro l’umanità, quali esecuzioni
sommarie, torture, uso sproporzionato della forza contro i civili e arresti arbitrari. Il 27
agosto 2011, il giorno dopo le manifestazioni tenutesi l’ultimo venerdì del Ramadan,
violenti scontri hanno avuto luogo nel centro di Damasco, mentre nel resto del paese
proseguiva senza sosta quella che ormai era diventata una vera e propria guerra civile. Sia
Ahmadinejad che il ministro degli Esteri iraniano Salehi hanno contestualmente
riconosciuto la legittimità delle richieste dei manifestanti, la Lega Araba ha invitato Assad
42
«I Fratelli musulmani sono generalmente considerati non solo come la componente più influente
dell’opposizione islamista siriana, ma anche come i candidati con maggiori probabilità di successo alla guida
del paese nella fase post-rivoluzionaria. Fin dagli anni Sessanta, sono stati gli avversari più risoluti di un
regime che non sono riusciti a rovesciare durante la sanguinosa insurrezione del 1979-82. La loro importanza
attuale sembra tuttavia sovrastimata, tenuto conto dei problemi intrinseci all’organizzazione come
dell’emergere di nuovi concorrenti. La divisione più nota dei Fratelli musulmani siriani sta nelle divisioni
regionali che attraversano il movimento ed hanno già provocato molte scissioni dopo la sua fondazione, nel
1946. La più grave si è manifestata all’inizio degli anni Settanta e ha portato alla separazione fra le sue basi
nel nord (Aleppo-Hamah) e quella di Damasco, progressivamente emarginata. Nel 1986, un nuovo conflitto è
sorto fra le sezioni di Aleppo e quelle di Hamah: una divisione accentuatasi nel 2010 in seguito all’elezione
della nuova dirigenza, quando un gruppo originario di Hamahm guidato da Riyad Suqfa, ha rimpiazzato
l’aleppino Ali Sadr al-din el-Bayanuni, che controllava il movimento da quattordici anni. I Fratelli
musulmani hanno subito inoltre le scelte politiche a volte poco sagge della loro direzione: ad esempio, la
creazione di un Fronte di Salvezza Nazionale, nel 2006, insieme all’ex vicepresidente Abd al-Halim Haddam.
L’alleanza con un esponente corrotto del regime di Hafiz al-Asad ha scalfito seriamente la loro immagine,
senza ottenere nulla in cambio: emarginato da parecchi anni, Haddam non aveva più alcuna influenza. I
Fratelli finirono così per abbandonare il Fronte ad appena tre anni dalla sua creazione, prendendo a pretesto
le critiche formulate da Haddam contro la loro decisione di sospendere l’attività di opposizione durante la
guerra di Gaza (2008-09). In questo contesto, gli islamisti siriani commisero un nuovo errore, prolungando la
tregua con il regime per creare un clima favorevole a negoziati indiretti, che non ebbero però buon fine. Ciò
nonostante, la tregua è durata fino alla sollevazione del marzo 2011. Si tratterebbe in fondo di errori
trascurabili se i Fratelli siriani non avessero sofferto, soprattutto, del fatto di essere un movimento di esuli
ormai invecchiati, privi di solide basi in patria, e della politica condotta all’inizio degli anni Ottanta dal
regime, che condannava a morte la semplice appartenenza all’organizzazione. Molti indizi dimostrano che il
gruppo è completamente scomparso in Siria: negli ultimi vent’anni le autorità siriane non hanno mai
annunciato lo smantellamento di una sua cellula attiva, mentre denunciavano regolarmente la scoperta di
sezioni clandestine del Partito della liberazione islamica (Hizb al Tahrir) o di organizzazioni salafite-jihadiste
[…] pur non avendo svolto alcun ruolo in patria durante la sollevazione del 2011, i Fratelli musulmani sono
in compenso molto attivi fra i dissidenti in esilio e hanno messo a profitto l’antica esperienza e l’ampiezza di
una rete transnazionale di centinaia di dirigenti espulsi dal Bath nel 1982-1983. Si danno molto da fare in
tutti i congressi organizzati ad Antalya, a Instanbul o Bruxelles per tentare di organizzare l’opposizione.
Anche se in questi forum la loro egemonia è contestata da nuovi attori». Thomas Pierret, In Siria Allah non
fa rima con Fratelli, in Limes, n.1, 2012.
a porre fine alla repressione. I rapporti con gli altri paesi del Golfo sono peggiorati
progressivamente nei mesi successivi: il 4 ottobre la Turchia ha minacciato di approvare
sanzioni unilaterali e ha annunciato esercitazioni militari nei pressi del confine turcosiriano, e pochi giorni dopo anche l’Unione Europa ha imposto un nuovo round di sanzioni
contro il regime siriano. Il 12 del mese seguente, a seguito delle colossali manifestazioni
svoltesi il giorno prima, la Lega Araba ha annunciato la sospensione della Siria
dall’organismo, ha promesso nuove sanzioni economiche e ha invitato gli stati membri a
ritirare i loro ambasciatori a Damasco. A questa notizia, folle inferocite hanno assaltato le
ambasciate del Qatar e dell’Arabia Saudita a Damasco, i consolati della Turchia a Latakia
e ad Aleppo e il consolato francese a Latakia.
Il giorno seguente, centinaia di migliaia di sostenitori di Assad hanno dato vita a numerose
manifestazioni di protesta contro la decisione della Lega Araba di sospendere la Siria. Nel
frattempo, proseguivano sempre più cruenti gli scontri tra l’esercito regolare e
l’opposizione. Protagoniste, sempre le città di Homs, Hama e Daraa. Il 27 novembre,
mentre l’Esercito libero siriano continuava a mettere in atto azioni di guerriglia contro le
Forze di sicurezza fedeli al presidente Assad, la Lega Araba ha approvato un pacchetto di
sanzioni contro la Siria che includeva il congelamento delle relazioni commerciali con la
Banca centrale e il governo siriano, oltre alla sospensione degli investimenti
infrastrutturali nel paese da parte degli stati membri. Il 29 dicembre 2011 è stata attivata
ufficialmente la missione della Lega Araba in Siria, formata da 166 osservatori di tredici
Stati diversi; i primi osservatori della Lega erano arrivati già il 27 dicembre, ed in
quell’occasione il governo siriano aveva ordinato la ritirata dei tank che cingevano
d’assedio Homs. Tuttavia, le manifestazioni tenute nel centro cittadino sono state disperse
con i gas lacrimogeni. Importanti proteste contro Assad si svolgevano intanto anche ad
Hama, Damasco, Latakia, Deir ez-Zor e Idlib. I risultati della missione non sono stati quelli
sperati: benché ne fosse prevista l’operatività fino al 28 del mese successivo, di fatto si è
chiusa già il 15 gennaio 2012. I motivi del fallimento, elencati dal generale Dabi a capo
della missione, sono stati sostanzialmente di carattere tecnico, ma si è registrata anche una
forte tensione tra Turchia e Iran: l’influente deputato iraniano Alaeddin Boroujerdi ha
accusato Ankara di minacciare la stabilità della regione con il suo approccio alla crisi
siriana e ha chiesto al governo Erdogan di modificare la sua politica nei confronti di Assad.
Il 22 gennaio, in occasione della riunione della Lega Araba, l’Arabia Saudita ha annunciato
il ritiro dei suoi osservatori dalla missione incaricata di trovare una soluzione alla crisi
siriana. La Lega aveva anche delineato una road map che prevede il passaggio dei poteri da
Assad al vice presidente Farouk al-Sharaa, la formazione di un governo di unità nazionale,
l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla repressione delle proteste e l’indizione di
libere elezioni entro tre mesi.
Qualche settimana dopo, a Tunisi, si sono riuniti settanta paesi auto-definitisi “amici della
Siria”. Gli “Amici della Siria” riconoscono il Consiglio nazionale siriano come “il
rappresentante legittimo del popolo siriano” e chiedono l’intervento di una forza di
peacekeeping delle Nazione Unite.
La dimensione della rivolta sono intanto cresciute in maniera esponenziale: il 4 febbraio il
regime ha bombardato la città di Homs, provocando la morte di circa 400 persone. Le
milizie filo-governative (Shabiha) hanno assaltato anche gli ospedali uccidendo o
prendendo prigionieri i feriti. Lo stesso giorno, Russia e Cina hanno opposto il veto alla
risoluzione anti-Assad promossa dalla Lega Araba e sostenuta da Stati Uniti, Regno Unito
e Francia. Il 7 febbraio, i paesi del Golfo hanno richiamato i loro ambasciatori dalla Siria
e chiesto al regime di fare altrettanto con i propri. Al richiamo dell’ambasciatore
statunitense, deciso da Washington il giorno prima, hanno inoltre fatto seguito la decisione
francese, spagnola e italiana di richiamare in patria i rispettivi rappresentanti nella capitale
siriana. In controtendenza, lo stesso giorno il ministro degli Esteri russo Lavrov si è recato
a Damasco per discutere con Assad una soluzione alla crisi basata sul piano della Lega. In
effetti, non è l’unico aspetto su cui Mosca si è mostrata in controtendenza con gli altri
paesi: per ben due volte, a ottobre e a febbraio, Russia e Cina hanno bloccato i progetti di
risoluzione del Consiglio di sicurezza contenenti una formale condanna al regime di
Damasco per la repressione messa in atto nel paese, e suscitando la riprovazione degli altri
membri del Consiglio stesso nonché degli stati membri della Lega.
In realtà, l’atteggiamento delle due potenze era prevedibile: Russia e Cina sono contrarie a
qualsiasi risoluzione in grado di aprire le porte ad un cambio di regime e dalla questione
libica hanno imparato che in queste situazioni astenersi non è sufficiente.
In secondo luogo, Assad compra armi russe e ospita l'unica base della Marina russa fuori
da territori ex-sovietici, e quindi Mosca è chiaramente poco propensa ad abbandonare un
alleato tanto importante. L'ambasciatore russo aveva inoltre fatto circolare una bozza di
risoluzione "meno sbilanciata a favore dell'opposizione siriana", che aveva anche
l'appoggio cinese. Le risoluzioni al voto del Consiglio di sicurezza, invece, sostenevano
pienamente il piano della Lega Araba - comprese le dimissioni di Assad - e non
escludevano di prendere "ulteriori misure" in futuro. Dato che le proposte
dell'ambasciatore Vitaly Churkin erano state ignorate, il veto era pressoché inevitabile.
Infine, l'approvazione della risoluzione avrebbe tolto credibilità di fronte ad Assad alla
visita del ministro Lavrov. Con questi presupposti era chiaro che l’ONU si sarebbe
ritrovato paralizzato, in una situazione di impasse che sembrava dimenticata da anni.
Per Margherita Paolini43,
in Siria l’unica guerra combattuta su larga scala è quella dei media. Spesso manipolata
con informazioni distorte e comunque condotta a senso unico, nutrita però con vittime
vere di rappresaglie armate, attentati, pestaggi ed esecuzioni sommarie, le cui
immagini hanno intasato il web.
È stata l’infowar condotta per mesi dai grandi media occidentali e del Golfo ad
anticipare la probabile sconfitta del regime di Damasco, noto per l’impermeabilità alla
circolazione e all’uscita di notizie scomode sul suo territorio.
Paolini lamenta la quantità inopinata di immagini usata arbitrariamente sul web che, a
seconda della convenienza, ha attribuito di volta in volta ai siriani posizioni di consenso o
di condanna al regime.
L’uso distorto dei media e la spettacolarizzazione della guerra hanno offerto un’immagine
della situazione interna al paese spesso unilaterale e deformante. Se è vero che entrambi i
fronti hanno fatto un uso non parco della violenza e che molti siriani hanno deciso fin da
subito da che parte stare, è altrettanto verosimile constatare che una buona fetta del paese è
43
Margherita Paolini, Siria, un caso da manuale di disinformazione strategica, in «Quaderni speciali di
Limes», Anno 4, n.1
semplicemente barricata in casa, passiva verso le proteste e speranzosa in una risoluzione
veloce del conflitto.
Non pochi cittadini siriani aspirano – come è accaduto in Egitto e Tunisia, come accade nei
paesi del Golfo e in tutti i paesi dipendenti – al cambiamento e al varo di riforme che
possano risollevare le loro sorti esistenziali e le loro vite, ma al contempo temono una
balcanizzazione del paese e un intervento esterno che distrugga l’economia interna e
aumento il grado di rappresaglia tra fazioni, già a livelli di allarme da anni per l’agone che
divide la maggioranza sunnita dalla minoranza alawita al potere.
Sulla scacchiera siriana si è andato sperimentando nel giro di pochi mesi un modello
di applicazione tecnologica e organizzativa di guerra mediatica al alto potenziale, sulla
base del primo test avviato durante la campagna di Libia. Tale esperimento, proprio in
ragione della vasta apertura offerta sull’etere “a testimonianze di terreno”, ha
permesso il dilagare di una mala informazione fatta di propaganda di parte, di
esagerazione degli eventi, di manipolazione dei numeri, di un mercato becero delle
immagini, specialmente di quelle horror. Una cattiva informazione che ha affermato la
cultura dell’istante e da cui sono spesso scaturiti articoli contraddittori invece che
analisi complesse e di dettaglio di cui ci sarebbe più che mai bisogno 44.
Secondo Margherita Paolini, la notizie che hanno una maggiore eco nel paese e all’estero
sono quelle provenienti effettivamente dalla Siria, ma che affluiscono su piattaforme
straniere che garantiscono la diffusione delle stesse verso i grandi media internazionali e i
comitati per i diritti umani.
La gestione delle notizie è stata affidata ad una rete di persone, apparentemente sopra le
parti e libera, note come “cittadini giornalisti”. Questo nugolo di internauti è responsabile
del caricamento di video su Youtube delle immagini riprese dai cellulari, immortalanti
soprattutto i pestaggi delle forze di sicurezza del regime e delle milizie sabbiha. Su questi
video, spesso inattendibili anche dal punto di vista della corrispondenza temporale, i media
hanno costruito gran parte delle cronache sulla guerra civile in Siria e sull’opposizione al
regime di Assad.
Caso emblematico della guerra mediatica senza scrupoli che sta vivendo la Siria è quello
che ha interessato una tale Amina Arraf e l’americano Tom MacMaster.
Tom MacMaster ha circa quarant’anni, ha studiato in Scozia e ha deciso di denunciare le
inesistenti torture del governo siriano a danno di una “ragazza lesbica di Damasco”, cui ha
dato il nome di fantasia di Amina Arraf e il volto di un’ignara signora residente a Londra.
MacMaster, da provetto troll, ha lanciato appelli e petizioni pro-Amina sia su facebook
che su un blog, e migliaia di persone (nonché televisioni, giornali, associazioni per i diritti
degli omosessuali) hanno creduto alla sua storia. Nel corso dei giorni, “Amina Arraf” ha
rilasciato interviste scritte su blog di diversi paesi nordafricani e ha coinvolto nel suo
dramma anche il “cugino” e svariati altri personaggi posticci. La notizia è finita anche sulla
Cnn, sulla Bcc, su Al-Jazeera e su Al-Arabiya.
L’Università di Edimburgo ha condannato duramente l’accaduto e si è messa sulle tracce
di MacMaster, quando la bufala è divenuta evidente ai più. I movimenti pro-gay, nel
frattempo, hanno dichiarato tutto il loro sdegno per una goliardata (spacciata come
campagna di sensibilizzazione da MacMaster; “non ho fatto male a nessuno”, ha
sostenuto) che avrebbe “banalizzato e danneggiato la loro causa”.
44
M. Paolini, ibidem.
Altro caso emblematico è quello di «Danny Siria», un serial che ha trovato spazio sui
canali arabi e su quelli occidentali. Il serial è costruito sui report di Danny Dayem, un
giovane siriano dalla faccia pulita, nato a cresciuto in Inghilterra, che ha fatto parte dei
cosiddetti cittadini-giornalisti e ha raccontato la guerra in corso ad Homs.
Nei suoi video postati sulle reti sociali, Danny Abdul-Dayem appare mentre sta preparando
un’intervista alla Cnn. Nella trasmissione si sentono spari e bombardamenti che Danny
descrive come attacchi indiscriminati dell’esercito contro la popolazione di Homs.
Prima della diretta televisiva, Danny, l’operatore della camera e un altro individuo presente
in sala aspettano che inizino i bombardamenti e gli spari per l’avvio dell’intervista.
Le immagini dei bombardamenti dell’aviazione vengono ripetute ad oltranza, dando l’idea
di un bombardamento indiscriminato e senza sosta. Le immagini di un attacco terroristico
alla raffineria di Homs, in un altro video, prendono la forma dell’ennesimo attacco del
governo. E di lì a poco sarebbero arrivate presunte strage di bambini, l’uccisione di neonati
in ospedali, e altre invenzioni. In molti casi, è lo stesso Danny, con l’aiuto degli operatori
della Cnn, a far partire gli esplosivi per simulare una strage di Assad.
Non c’è da meravigliarsi, visto che la Cnn non è nuova alla fabbricazione di patacche
mediatiche, ma il caso di Danny appare particolarmente grave: esso dimostra quanto
poco i media professionali sentano la necessità di verificare le fonti da cui
costruiscono poi la loro visione dei fatti su territori che non frequentano o dove
vengono incapsulati in zone protette da cui non si muovono ma in cui arrivano
“testimoni” a farsi intervistare.
Nel circuito dell’infowar, complici o ingenui, cadono i grandi media occidentali,
lavorano a piene mani le agenzie della penisola arabica, attingono i data base degli
osservatori sui diritti umani, senza verificare l’attendibilità delle informazioni.
Ovviamente, in contropiede, si scatena una guerra di controinformazione del regime
siriano. Al tentativo maldestro di costruire social network di regime su Facebook per
migliorare l’immagine presidenziale, si accoppiano tentativi più riusciti di colpire la
rete virtuale dei cittadini giornalisti che mette in atto la cospirazione della guerra
informatica contro il paese45.
Su Youtube e nei blog in Siria si combatte una guerra senza quartiere che è fatta di numeri
drogati sulle vittime, immagini sempre meno credibili, civili uccisi da un assassino che un
giorno si chiama “terrorismo straniero” e un altro giorno “regime sanguinario di Assad”.
Il materiale diffuso dell’opposizione in rete è quasi sempre propagandistico e
predeterminato.
Il governo non sta certamente a guardare e, come ha svelato Wikileaks, ha assunto il
parziale controllo della rete grazie alla tecnologia dell’azienda americana «Blu Coat».
Componenti delicate, come quelle per il filtraggio di internet, sono state ordinate dalla
società «P-System», con sede a Damasco, alla filiale di Beirut della società «First Video
Communications», uno dei grandi distributori di prodotti tecnologici per il Medio Oriente e
il Nord Africa.
Le nuove tecnologie permettono di entrare in ogni e-mail o conversazione via Skype e di
vigilare sulle reti sociali.
Nel novembre del 2011, l'agenzia di stampa Bloomberg ha rivelato un contratto milionario
tra la compagnia di telecomunicazioni "Syria Telecom" e “Area”, un'azienda che ha sede in
45
Margherita Paolini, Siria, un caso da manuale di disinformazione strategica, in «Quaderni speciali di
Limes», Anno 4 n.1
provincia di Varese, per la fornitura di tecnologie per le intercettazioni. L’azienda italiana
ha negato, a sua volta, qualunque responsabilità nella repressione operata dal regime
alawita.
Ciò detto, il governo non riesce a fermare i filmati caricati su Youtube, né ad impedire che
vengano riprese scene di violenza con determinati tipi di telefoni satellitari. Il supporto
fornitogli da Iran e Russia non permette di colmare il gap tecnologico che separa il clan
Asad-Mahluf dalle forze ribelli. In poche parole, Bashar non è riuscito ad imporre la
censura e la rimozione della memoria, riuscita invece a suo padre Hafiz nel 1982, quando
massacrò nel silenzio generale oltre ventimila mussulmani ad Hamah.
Dal canto suo, è inarrestabile il lavoro all’estero dei ribelli, organizzato perlopiù
dall’Osservatorio siriano per i diritti umani di Londra, “peraltro scisso in due entità che si
sbugiardano a vicenda poiché appartengono a due diversi schieramenti d’opposizione46”.
L’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr) è un ufficio di informazioni coordinato da
Rami Abdulrahman (noto con lo pseudonimo virtuale di Usama Ali Sulayman), che
gestisce il sito www.syriahr.com.
È la fonte di notizie sulla Siria più accreditata in Occidente.
Abdulrahman è un espatriato siriano, di fede mussulmana sunnita e di stanza a Coventry.
Gestisce un negozio d’abbigliamento ed è in Inghilterra dal 2000, dopo tre esperienze di
carcere in Siria.
Il Sohr si è distinto per notizie e foto diramate sull’assassinio di bambini nati prematuri in
ospedali siriani ad opera delle milizie del regime. Si è scoperto, nel tempo, che le foto
erano dell’ospedale di Alessandria d’Egitto e che i bambini non sono mai stati uccisi. Più
in generale, il Sohr fa riferimento a notizie quasi sempre prive di fonti e cambia spesso la
propria versione di fatti. All’inizio del 2012, un gruppo di intellettuali siriani ha
ufficialmente sconfessato Abdulrahman dalla rappresentanza dell’opposizione all’estero,
fino ad accusarlo di sostenere apertamente il regime.
Dall’Osservatorio siriano per i diritti umani si è staccata la Sirian Human Right
Organization, gestita da Musab Azzami, che accusa Abdulrahman di diffondere notizie
false e di non rappresentare alcun tipo di opposizione ad Assad.
A sua volta, Azzami è considerato più vicino ai gruppi armati che alla stessa opposizione
civile.
L’Osservatorio delle Nazioni Unite di Ginevra (Ohchr) raccoglie fonti e notizie provenienti
da entrambi gli osservatori appena citati, accettando acriticamente perfino il materiale più
incerto e palesemente manipolato.
L’Osservatorio di Ginevra ha sposato il criterio della Youtuve evidence come marchio di
autenticità dei video registrati nella sua banca dati. Tra questi rientrerebbero perfino dei
filmati che documentano le torture dei medici ai danni di esponenti dell’opposizione
nell’ospedale militare di Hims: filmati ambigui, che un osservatorio super-partes avrebbe
dovuto ignorare. In molti casi l’Osservatorio ha assecondato il rovesciamento delle
responsabilità per le stragi, come è accaduto quando ha riportato la testimonianza di
un’esplosione avvenuta all’interno di un bus nelle vicinanze di Hims per mano degli
oppositori, ma addossato alle forze di sicurezza del presidente.
Se è vero che la stragrande maggioranza degli abusi e degli omicidi sono stati
commessi dalle milizie nazionali e dalle forze di sicurezza gestite dai fratelli e dai
46
Margherita Paolini, ibidem.
cugini di Bassar al-Asas, va aumentando l’intensità e la gravità di gesti criminali
compiuti contro militari e civili sospettati di simpatizzare con il regime.
Tanto più se sunniti. Il fatto è che sono scese in campo unità combattenti provenienti
da Libano, Libia ed Iraq, con forti connotati riconducibili al jihadismo sunnita, di cui i
media non parlano poiché introducono una dissonanza nel consolidato menu
dell’infowar. Il problema è che questi gruppi, oltre ad essere bene armati ed
equipaggiati dall’Arabia Saudita e dal Qatar, hanno il vezzo di farsi direttamente
propaganda, sicché usano il web immettendo immagini truculente con scene di
violenza, di cecchinaggio e di esecuzioni sommarie 47.
Baluardi di questa informazione deviata e unilaterale sono soprattutto organizzazioni di
propaganda globale come «Avaaz» (in lingua farsi, la “voce” o “suono che rompe il
silenzio”), che hanno avuto un ruolo non marginale perfino nel fenomeno della
mobilitazione giovanile per vie virtuali avvenuta in Nord Africa.
Avaaz.org è un'organizzazione non governativa internazionale istituita nel 2007 a New
York, con il supporto finanziario di Soros, che promuove attivismo su diversi problemi
quali il cambiamento climatico, i diritti umani ed i conflitti religiosi. La sua missione
dichiarata è quella di assicurare che le opinioni e i valori della popolazione mondiale
influiscano sui processi decisionali globali. L'organizzazione opera in trenta lingue diverse
e nel 2012 contava oltre quindici milioni di membri iscritti in più di centonovanta paesi
diversi.
Avaaz, che può vantare esperienze di supporto telematico-militante in nord-america (con
siti come MoveOn, Civic Action Res Publica) e in Australia (con Getup), ha promosso una
petizione per una no-fly zone in Libia (puntando il dito contro lo sterminio di civili operato
da Gheddafi, ma omettendo le violenze dei ribelli jihadisti), una campagna di fund raising
per la Tunisia, con il consenso della Clinton, una mobilitazione a favore dei alcuni gruppi
indigeni della Bolivia che lottano contro il progetto governativo di costruire un’autostrada
nel Tipnis (Territorio indigeno parco nazionale Isidoro Sécure) e perfino delle proposte di
espulsione del governo Berlusconi.
Al comando di Avaaz vi sono: Ricken Patel, canadese, con esperienze di consulente in
istituzioni e fondazioni come Amnesty, Dipartimento di Stato Usa, fondazioni Rockefeller
e Bill Gates; Tom Perriello, ex parlamentare democratico negli Usa; Tom Pravda, ex
diplomatico di carriera britannico e consulente del Dipartimento di Stato americano.
Essendo una comunità on-line, i membri effettivi sono considerati gli iscritti al sito. Tutti i
membri della community possono essere definiti "attivi" dal momento in cui, via web,
partecipano, sottoscrivono e diffondono le attività dell'associazione. L'associazione utilizza
anche l'attività "concreta" di alcuni membri che agiscono nella vita reale (ad esempio, la
consegna di petizioni direttamente ai referenti politici) e si avvale di alcuni membri
stipendiati che sono direttamente assunti dalla Fondazione "Avaaz.org", con sede a New
York.
Avaaz ha partecipato attivamente alla formazione dei giornalisti cittadini, ha funto da hub
di coordinamento per gli internauti siriani e si è occupata di smistare video e immagini per
“bucare” la censura di Assad.
Avaaz invia subito una squadra in Libano per organizzare staff locali di formatori
all’uso di apparecchiature satellitari e a tecniche di giornalismo di base. E recluta gli
47
Margherita Paolini, Siria, un caso da manuale di disinformazione strategica, in «Quaderni speciali di
Limes». Anno 4, n.1
attivisti locali siriani che diventeranno i cittadini giornalisti. Inoltre, stabilisce un
canale proprio di comunicazione lungo il corridoio libanese (super trafficato di armi e
volontari) che conduce a Hims. Attraverso tale corridoio fa transitare verso le
principali città siriane equipaggiamenti per migliaia di dollari. Molto probabilmente
via Avaaz sono arrivati in Siria anche gli aiuti per l’informazione, stanziati nel 2011
dal governo americano. Le apparecchiature consistono in telefoni satellitari e
connessioni internet Bgans, cruciali, in quanto non solo facilitano l’accesso alla rete
via satellite ma perché dispongono di un segnale che può servire più utenti in modalità
wireless. Con il vantaggio che le comunicazioni vanno direttamente al satellite senza
passare per i server controllati dal governo siriano.
Per la stessa via, i team inviati in Libano da Avaaz fanno passare materiale sanitario.
Quando a Hims i gruppi armati dell’opposizione occupano il quartiere di Baba Amr,
viene deciso di facilitate l’entrata clandestina di giornalisti stranieri garantendo loro
supporto logistico. Ma non tutto nell’organizzazione sul terreno di Avaaz è perfetto
così come sembra. Ad esempio, il personaggio Danny, con i suoi appelli appassionati
che gridano online di salvare la gente dalla violenze indiscriminate dei militari siriani,
esce proprio dall’incubatore dei giornalisti apprendisti messi in contatto con i
giornalisti internazionali. Falsità che vanno avanti per mesi finché non scoppia la
grana con la Cnn, che cinicamente decide di salvarsi la faccia facendo confessare in
diretta a Danny di non essere affatto un attivista bensì un impostore.
Le cose si complicano via via che a Baba Amr arrivano gruppi di volontari iper armati
che non hanno niente a che fare con l’Esercito di liberazione siriano, ma combattono
una guerra speciale contro il regime.
Eppure saranno questi gruppi a reggere per molti giorni gli assalti su Baba Amr delle
Forze Armate siriane. La loro ritirata infine lascerà scoperto il Media Center e il
canale di protezione dei giornalisti stranieri. Una responsabilità che Avaaz non ha
saputo gestire48.
È interessante notare che perfino la Lega Araba, in una relazione del capo della missione
degli Osservatori successiva a verifiche sul terreno siriano operate dal 24 dicembre 2011 al
18 gennaio 2012, ha riconosciuto (con la sofferenza di Arabia Saudita e Qatar) le
violazioni dei diritti umani da parte dell’opposizione siriana, la falsificazione mediatica
posta in essere dai ribelli e la volontà del popolo siriano di addivenire alla pace.
Il protocollo prevedeva la creazione e la messa in campo nella Repubblica Araba siriana di
una missione composta da esperti civili e militari provenienti da paesi arabi e da
organizzazioni arabe non governative per i diritti umani.
Al punto 25 evidenzia che “all’assegnazione delle loro zone di lavoro e come punto di
partenza, gli osservatori sono stati testimoni di atti di violenza perpetrati da forze
governative e ad uno scambio di fuoco con elementi armati ad Homs e Hama”
Ma al punto 26 si sottolinea che:
A Dera'a e Homs, la missione ha visto gruppi armati commettere atti di violenza
contro le forze governative, causando morti e feriti nelle loro file. In certe situazioni,
le forze governative hanno risposto agli attacchi condotti con forza contro di loro. Gli
osservatori hanno notato che alcuni dei gruppi armati stavano usando razzi e proiettili
perforanti.
E al punto 27:
48
Margherita Paolini, Siria, un caso da manuale di disinformazione strategica, in «Quaderni speciali di
Limes». Anno 4, n.1
A Homs, Hama e Idlib, le missioni degli osservatori hanno assistito ad atti di violenza
commessi contro Forze governative e civili, che hanno causato diversi morti e feriti.
Esempi di tali atti includono il bombardamento di un autobus di civili, che ha ucciso
otto persone e ferito altri, tra cui donne e bambini, e il bombardamento di un treno che
trasportava gasolio. In un altro incidente, a Homs, un autobus della polizia è stato fatto
saltare in aria, uccidendo due ufficiali di polizia. Sono stati bombardati anche una
conduttura di carburante e alcuni piccoli ponti.
Punti 28 e 29 del protocollo:
La missione ha osservato che molti partiti hanno riferito falsamente di esplosioni o di
violenze che si erano verificate in diverse località. Quando gli osservatori sono andati
in quei luoghi, hanno scoperto che quei rapporti erano infondati.
La missione ha inoltre osservato che, secondo le squadre in campo, i media hanno
esagerato la natura degli incidenti, il numero di persone uccise in incidenti e le
proteste in alcune città.
Il rapporto continua confermando l’autorizzazione del governo alle riprese sul proprio
territorio di centoquarantasette organizzazioni mediatiche arabe e straniere, nonostante
molte abbiano avuto la possibilità di operare per soli quattro giorni, abbiano dovuto
presentare altre richieste di autorizzazioni e non abbiano potuto muoversi liberamente per
tutto il territorio nazionale. Seguono altre segnalazioni circa le restrizioni che Assad
avrebbe imposto ai media vicini all’opposizione.
Al punto 44 si annota che:
A Homs, un giornalista francese che lavorava per il canale 2 francese è stato ucciso e
un giornalista belga è stato ferito. Il governo e l’opposizione si accusano a vicenda
della responsabilità per gli incidenti, e da entrambi i lati vengono pubblicate
dichiarazioni di condanna. Il governo ha istituito una commissione investigativa in
modo da determinare la causa dell’incidente. Si può notare nelle relazioni della
missione da Homs, che il giornalista francese è stato ucciso da una bomba da mortaio
dell’esercito dell’opposizione
E, infine, al punto 74 si afferma che:
In alcune città la missione ha potuto constatare l'estrema tensione, oppressione e
ingiustizia sofferte dalla popolazione siriana. Comunque, i cittadini ritengono che la
crisi debba essere risolta in modo pacifico attraverso la sola mediazione araba, senza
ricorrere all'intervento internazionale.
Questo rapporto è a lungo rimasto segreto e soprattutto non è stato tradotto dall’arabo
all’inglese e né pubblicato sul sito della Lega Araba. Solo per intercessione del Libano e
dell’Iraq e per la manifesta volontà della Russia (l’emittente «Russia Today» ha parlato a
lungo del protocollo) di renderlo pubblico, ha fatto successivamente il giro della rete ed è
divenuto fruibile per tutti.
Al-Jazeera, dal canto suo, non solo non ha reso noto il testo, ma ne ha strenuamente
combattuto la diffusione, tanto che i giornalisti dell’ufficio di Al-Jazeera a Beirut si sono
dimessi in blocco per questo comportamento.
Oltre alla Lega Araba, anche la Russia si è attivata per denunciare quanto in termini di
terrore e violenza sta compiendo l’opposizione iraniana.
Il mistero degli esteri Lavrov ha chiesto più volte alla Clinton di vigilare sulla squadre
della morte e sui tiratori che tengono sotto scacco diverse città della Siria. Der Spiegel ha
intervistato un combattente della brigata Faruq che conferma l’esistenza di movimenti
terroristici anti-Assad provenienti dall’Iraq e di squadre di giustizieri esperti in taglio delle
teste.
Anche Human Right Watch ha citato in un suo rapporto i filmati che mostrano i jihadisti
alle prese con civili e militari siriani in atteggiamenti tutt’altro che pacifici.
Secondo Margherita Paolini,
resta da capire perché nella infowar la presenza jihadista sia l’aspetto meno trattato o
addirittura ignorato. Perfino la Chiesa siriana entra in contraddizione quando l’autorità
di Hims attribuisce ai gruppi integralistici insediatisi a Baba Amr il tentativo (riuscito)
di espellerne col terrore la comunità cristiana […] il Dipartimento di Stato e il
Pentagono organizzano da mesi missioni alla ricerca di informazioni più dirette su ciò
che accade sul terreno. Mentre pensano (forse a torto) di poter controllare i gruppi di
volontari libici e libanesi, gli Usa sano bene quanto possa risultare difficile il
monitoraggio dei movimenti armati e soprattutto degli obiettivi dei gruppi di
ispirazione jihadista formatisi nella guerriglia sunnita irachena. La preoccupazione
dell’amministrazione americana si riflette sulla condotta politica e si manifesta anche
sul piano mediatico, dove assume toni contraddittori. Mentre l’intelligence Usa
annuncia con enfasi al Congresso che “al-Qaeda è arrivata in Siria”, Hillary Clinton
esorta l’opposizione siriana esterna (che continua a reclamare armi e interventi
internazionali) a creare un movimento unito con la componente militare sul terreno,
anche per controllarne gli eccessi, negativi per l’immagine internazionale dei ribelli.
Equilibrio impossibile, visto che gli attentati più letali e alcune esecuzioni sommarie
sono opera di gruppi armati che non si fanno comandare da nessuno. Intanto però i
loro video intasano il web, enfatizzando in uno scenario da horror una crisi ancora
fortunatamente circoscritta.
Questa rappresentazione mediatica di fondo rischia di fungere da magnete per i
jihadisti, per l’attrazione morbosa che suscita nei media. Una raffigurazione in cui la
gran parte dei siriani non si riconosce affatto. Il paradosso è che l’infowar che i media
internazionali giocano sul web, scambiandosi video come figurine, continua a
rappresentare i morti sul terreno come esclusive vittime del regime. Ma quando i
media diventano armi, e non fattori di informazione, la manipolazione è strutturale 49.
49
Margherita Paolini, Siria, un caso da manuale di disinformazione strategica, in «Quaderni speciali di
Limes»,. Anno 4, n.1
Capitolo Ottavo
L’ascesa di Ahmadinejad e l’onda verde iraniana
La trasformazione dell’Iran e la lunga scia di proteste che ha contrassegnato la storia del
paese negli ultimi anni partono da lontano, ovvero dall’ascesa al potere di Mahmoud
Ahmadinejdad.
All’inizio dell’estate del 2005, la situazione all’interno della Repubblica Islamica dell’Iran
è particolarmente complessa. Alì Hussein-Khamenei, la Guida Suprema, ha dato grande
impulso alle ambizioni politiche e militari del paese, sottoscrivendo e divulgando il
Prospetto Strategico che mira a favorire il conseguimento dell’Iran allo status di “Potenza
Regionale” entro il 2020, senza nascondere il più recondito progetto di entrare sul
palcoscenico della politica internazionale esercitando una debita pressione sulle aree
geopolitiche a forte rilevanza strategica come il Medio Oriente e l’Asia Centrale.
Ma anche se la Repubblica Islamica ha realizzato il sogno del padre fondatore – un
“modello di società islamica” fondato sui ritrovati valori dello sciismo duodecimano, un
processo senza precedenti nella storia contemporanea – essa conserva ancora il suo
carattere fortemente teocratico ed apertamente anti-occidentale, e la sua sfera di influenza
sembra al momento limitata ai soli paesi confinanti – circoscritta inoltre al solo aspetto
storico-culturale e non certo a vantaggio di una leadership politica – confermata dalla
stessa Costituzione che indica i paesi di uguale confessione come alleati preferenziali sia in
materia economica che in ambito politico. Ma proprio nel contesto dei paesi confinanti, la
situazione presenta aspetti di notevole criticità. Specialmente ad est (Afghanistan e
Pakistan) le frontiere rappresentano una seria fonte di preoccupazione per il governo di
Teheran, lì dove la popolazione locale e l’intero territorio sono sotto costante controllo di
organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, ed oltretutto anche di chiara ispirazione
sunnita. Nel Caucaso meridionale e nell’Asia centrale, l’ambigua politica estera della
Russia, le aspirazioni della Nato nella regione, il ruolo giocato dalla Turchia e la possibile
ripartizione delle risorse energetiche del Mar Caspio, costituiscono un ulteriore elemento di
oggettiva instabilità regionale, senza contare i complessi rapporti politici ed ideologici con
l’Iraq dopo la lunga e sanguinosa guerra del 1980.
Ma la vera presenza ingombrante nella regione è costituita dal “Grande Satana”. In realtà il
paese è in un certo senso circondato dagli Stati Uniti: anche se il rovesciamento del regime
di Saddam Hussein ha per certi aspetti rafforzato l’Iran, la presenza militare americana
nell’Iraq, così come le basi logistiche lungo le frontiere dell’Afghanistan e l’infiltrazione
dell’intelligence di Washington in Turchia, Azerbaigian, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita e
Kuwait, non lasciano all’Iran ampie possibilità di manovra. Spezzare questo
accerchiamento diventa quindi una necessità primaria – ma potremmo dire il primo
interesse nazionale – per la conservazione e la sopravvivenza del regime iraniano. Ed è
infatti solo sotto questa bandiera che riescono temporaneamente ad unirsi le due correnti
politiche principali presenti nel paese. Sotto un profilo puramente ideologico, entrambi i
rappresentati condividono – pur tra accese polemiche – le posizioni di base del clero sciita
che vede nella conservazione del primo stato teocratico (e quindi della sua sicurezza) un
vero e proprio dovere religioso islamico. Ma sono proprio le differenti modalità sul
raggiungimento dell’obiettivo ad incrinare il pur debole consenso tra i due schieramenti.
Se le preoccupazioni della classe dirigente iraniana moderata sono state parzialmente
fugate dalla vittoria di Mohammed Khatami nel 1997 (crollo dell’Unione Sovietica e
politica estera più conciliante verso l’Europa ed i paesi islamici) con un carattere
decisamente più pragmatico anche verso gli Stati Uniti, la risposta del presidente Bush
dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 (inserimento dell’Iran nel cosiddetto “asse del
male”) ha invece favorito le posizioni degli integralisti, che hanno sempre visto nella
politica riformista del presidente un tentativo di emarginazione degli aspetti islamici
fondamentali, ivi compresa la vocazione all’esportazione della rivoluzione islamica in
quell’ampia arena che si estende dall’Africa del nord all’Asia del sud-est. E possia mo
quindi riportare che molti esponenti del regime iraniano hanno reagito con disappunto
proprio alle prime dichiarazioni di Ahmadinejad rilasciate subito dopo la sua elezione a
presidente:
L’Iran è un paese islamico e i suoi governanti devono seguire l’islam anche nella
politica estera50
In ogni caso, la percezione principale del regime iraniano è basata sulla certezza che
l’accerchiamento americano costituisca il primo passo verso una più ampia strategia che
mira – attraverso intricati complotti politici e minacciose presenze militari – ad esportare in
Iran la corrotta democrazia occidentale degli “infedeli”, o meglio quell’avido materialismo
occidentale pronto ad appropriarsi delle risorse nazionali iraniane senza curarsi della
cultura millenaria del paese e delle sue importanti tradizioni locali. La marcata
conflittualità nei confronti dell’Occidente, anche se sembra trovare la sua giustificazione in
una forte contrapposizione ideologica e culturale, ha in realtà le sue origini nella filosofia
politica del popolo iraniano, lì dove il sentimento per l’indipendenza e la sovranità
nazionale è stato sempre profondamente radicato51. Non essendo storicamente mai riuscito
a produrre un modello politico locale (presenze colonialiste e cessioni territoriali) l’Iran ha
dovuto tenere conto – durante la ricerca dei complicati assetti di natura etnica e tribale,
emersi subito dopo la rivoluzione e prima ancora della nascita della nuova Repubblica
Islamica – dell’esigenza di un equilibrio politico e sociale rappresentato dalla naturale
vocazione islamica all’estensione della rivoluzione (le comunità di confessione sciita
avrebbero dovuto favorire la caduta dei modelli istituzionali presenti in altri paesi
mussulmani) ed al tempo stesso dalla necessità di garantire la libertà politica ed ideologica
del popolo iraniano (naturalmente con la sacrale salvaguardia dei confini nazionali)
conferendo in questo modo al paese una sua particolare originalità, che ancora oggi
50
Di chiara ispirazione khomeinista – rigido ritorno alle norme islamiche dei primi anni della rivoluzione –
Ahmadinejad ha fatto riecheggiare una famosa dichiarazione dell'ayatollah Khomeini riguardo alla difesa
dello Stato intesa come preciso dovere religioso, dove talvolta “questo compito è più importante persino della
preghiera.
51
“Dicono che gli americani ci bombarderanno. Non ci credo, sarebbe troppo stupido, le bombe ci
costringerebbero a difendere la Patria, a schierarci tutti con i Mullah”. Parte di un’intervista rilasciata da
una giovane donna iraniana ad Andrea Nicastro e riportata integralmente nell’articolo Le malcelate dello zoo
di Teheran, pubblicata sul «Magazine» del «Corriere della Sera» in data 14.07.2005.
contrasta – nell’accezione occidentale del termine – con gli schemi ed i riferimenti dei
sistemi istituzionali moderni.
Anche la stessa percezione di isolamento, ampiamente diffusa nella popolazione (ma che
ha oggettivamente favorito il rafforzamento del potere politico e sociale del clero sciita)
deve essere ricondotta a contingenze storiche, anche se di più recente impatto. La guerra
con l’Iraq nel 1980 (con la sua durata quasi decennale e lo spaventoso numero di perdite
umane) ha oggettivamente lasciato l’Iran in una condizione di grave isolamento, dove il
concorso di più elementi – dalla mancata denuncia dell’aggressione irachena da parte degli
altri paesi islamici, preoccupati dai futuri sviluppi della rivoluzione, sino al mancato
sostegno dei paesi occidentali, per la forte diffidenza che la stessa rivoluzione ha suscitato
– non ha potuto che favorire un sentimento di frustrazione che ha maturato una maggiore
consapevolezza – ma più propriamente un radicale processo – di assimilazione e di
integrazione nel tessuto sociale del più alto interesse nazionale.
Il problema con l’Occidente sembra quindi irrisolvibile, se misurato nell’impossibilità
della conciliazione dell’aspetto politico con quello ideologico, ed il dibattito interno (in
definitiva la prerogativa identitaria è stata recuperata solo di recente e la condivisione dei
valori politici rappresenta ancora una minaccia per il patrimonio conquistato) si riconduce
necessariamente alle garanzie di difesa dell’interesse e dell’integrità nazionale, da una
parte con lo sviluppo di un modello isolazionista (dove sono pur evidenti i costi ed i rischi
internazionali) e dall’altra parte con una progressiva stabilizzazione delle pur difficili
relazioni diplomatiche (ma sempre il segno di una profonda trasformazione dell’intera
politica estera iraniana e del suo interesse nazionale).
All’inizio delle elezioni presidenziali del 2005 il dibattito politico è ancora aperto, ma la
tesi riformista sembra essere quella maggiormente accreditata: come può l’Iran diventare
una potenza regionale senza le riforme interne, senza una politica estera basata sul dialogo
con l’Unione Europea e, soprattutto, senza fare i conti con gli Stati Uniti d’America?
I primi nodi della diplomazia iraniana – ma è più corretto parlare di quell’interesse
nazionale subordinato alle regole dell’islam – sono emersi subito dopo la schiacciante
vittoria dei conservatori durante le elezioni parlamentari del febbraio del 2004 52, ovvero
poco più di un anno prima delle elezioni per la nomina del nuovo presidente della
Repubblica Islamica. Ai fondamentalisti, che già controllano i maggiori centri di potere del
paese, la vittoria è apparsa come la consacrazione della missione islamica contro
l’oppressione occidentale dei popoli mussulmani e contro le ambizioni imperialiste degli
Stati Uniti:
Con elezioni libere, corrette e giuste, il popolo iraniano ha sventato il complotto di
quelli che volevano far credere che il fossato tra il popolo ed il regime islamico si
stava allargando. Il popolo è andato in massa ed esce vincitore da queste elezioni e gli
americani, i sionisti e i nemici dell’Iran sono i perdenti.
È indubbio che le dichiarazioni dello ayatollah Khamenei cercano di legittimare il regime
islamico attraverso il libero consenso dei suoi sostenitori, nonostante le forti
preoccupazioni palesemente manifestate dalle democrazie occidentali. In realtà, il potente
“Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione” (sei giuristi e sei dignitari religiosi che
52
L’esito finale del risultato elettorale nella ripartizione dei seggi del parlamento iraniano è stato:
conservatori 190, riformisti 50, indipendenti 43, minoranze religiose 5 e non assegnati 2.
esercitano anche il potere di selezionare i candidati alle elezioni) ha posto il veto su oltre
tremila candidati riformisti – e tra loro anche ottanta deputati in carica – dichiarati non
idonei a causa di una scarsa aderenza ideologica nei confronti dell’slam.
Le Commissioni elettorali, in mano agli ultra-conservatori, hanno in effetti respinto ben
3.600 delle 8.157 candidature presentate. In seguito alle proteste degli esclusi – con sit-in
giornalieri nelle aule del parlamento – l’ayatollah Khamenei ha ordinato al Consiglio di
riesaminare le liste con minore severità, ma l’unico risultato è stato quello di ottenere la
fine delle esclusioni e non certo la sperata riammissione. Ed è interessante qui notare i toni
polemici espressi, per la prima volta, nella lettera aperta indirizzata alla Guida Suprema da
alcune decine di deputati esclusi, dove la presa di posizione assume i connotati di una vera
e propria sfida al prestigioso ed autorevole ruolo esercitato da Khamenei:
Il Consiglio dei Guardiani ha osato resistere anche al suo ordine, oppure, come dicono
le voci, nonostante le idee che lei ha espresso pubblicamente, il Consiglio dei
Guardiani è stato invitato da lei a mantenere le bocciature 53?
In modo particolare sono stati colpiti il gruppo riformista più moderato (Associazione del
Clero Combattente) che fa capo a Mehdi Karrubi, il presidente uscente del Majlis, il
parlamento Iraniano, ed il Fronte di Partecipazione dell’Iran Islamico, lì dove il suo
esponente più importante, Mostafa Tajzadeh, ha sempre sostenuto che il partito dei
riformisti avrebbe potuto contare su un effettivo sostegno popolare – se le elezioni non
fossero state condizionate dal clero islamico ultraconservatore – in grado di conquistare
ben 200 seggi sui 290 previsti dalla Costituzione.
La pesante interferenza del “Consiglio dei Guardiani” sarebbe stata in effetti in grado di
scatenare una sorta di reazione da parte di quelle ampie fasce di popolazione più vicine alle
aspirazioni democratiche, compresi gli studenti universitari che già alla fine del 2002
avevano manifestato contro il governo di Khatami, responsabile di non aver attuato proprio
quelle riforme promesse durante la campagna elettorale. Ma gli ambienti legati alla politica
riformista sono essenzialmente quelli della cittadinanza più colta (reddito medio più alto e
maggiore sensibilità politica) che hanno pur volentieri accettato l’invito alla moderazione
del presidente Khatami, scongiurando il pericolo di gravi disordini prima ancora dell’inizio
delle elezioni politiche.
Ma il timore di disordini sarebbe rimasto in ogni caso confinato dalla capillare presenza sul
territorio non solo della polizia segreta iraniana, ma anche dalla diffusione delle milizie dei
Pasdaran, anche loro “Guardiani della Rivoluzione” e sempre pronti a reprimere qualunque
iniziativa di protesta. Ed inoltre a nulla sembrano essere valsi gli appelli al boicottaggio
elettorale avanzati dai riformisti dopo i drastici tagli effettuati sui loro candidati 54,
53
La lettera aperta è stata pubblicata sul sito internet riformista «Ruidad», dove si critica anche l’ordine della
Guida Suprema di mantenere la data già fissata del 20 febbraio 2004 per le elezioni, nonostante la richiesta di
rinvio formulata dal fronte riformista: “Il rinvio era stato richiesto dal presidente della Repubblica, dal
presidente del Parlamento, da deputati, ministri, vice presidenti e dai governatori delle province, non dagli
Usa e dal nemico.”
54
Tra le voci più autorevoli quella di Shirin Ebadi, Premio Nobel per la Pace nel 2003 ed avvocato
impegnato nel riconoscimento dei diritti umani e del ruolo delle donne in Iran, che ha dichiarato in
un’intervista all’Ansa – riportata con ampio rilievo sulla stampa internazionale – che “l’esclusione di tanti
candidati rientra in una strategia di reazionari che resistono di fronte ad ogni cambiamento”. Pronta la
risposta del quotidiano conservatore di Teheran «Jomhuri Eslami»: “La signora Ebadi è solo una bambola a
molla caricata dagli Stati Uniti, che svolge finalmente il compito che le era stato assegnato […] il milione di
confermata l’affluenza alle urne pari al 60% degli aventi diritto – così come ufficialmente
dichiarato dalla televisione e dalla radio di stato – anche se le fonti dell’opposizione
parlano di un limitato 28%.
Quindi si chiude bruscamente la porta che il presidente Khatami aveva timidamente aperto
con il suo “dialogo tra civiltà” per tentare l’uscita dell’Iran da quel pericoloso isolamento
nel quale era stato costretto sin dall’avvento di Khomeini, lì dove la politica di distensione
verso l’Occidente aveva indotto il Segretario di stato americano (Colin Powell) a dichiarare
di voler “riaprire il dialogo con l’Iran, in considerazione dell’atteggiamento
incoraggiante dimostrato dalla Repubblica Islamica negli ultimi tempi”.
In effetti, l’elezione di Mohammed Khatami alla presidenza nel 1997 (con riconferma nel
2001) ha rappresentato un evento di un certo rilievo storico che avrebbe potuto costituire
una tappa importante per la ricostruzione del profilo politico e culturale del paese. Salutata
con soddisfazione dagli Stati Uniti e dagli stati europei, è stata percepita dall’opinione
pubblica occidentale – anche da quella più attenta agli sviluppi politico-sociali nelle più
importanti aree geo-strategiche – come l’inizio di una democratizzazione interna che
avrebbe maturato (indipendentemente dal tempo necessario) un atteggiamento di maggiore
moderazione, e quindi di soddisfacente apertura, nei rapporti internazionali.
Anche se le aspettative degli stati occidentali si erano quindi aperte ad un cauto ottimismo,
per gli Stati Uniti (“perché ci odiano tanto?”) ulteriori complicazioni dovevano sorgere
durante l’amministrazione Clinton. L’opinione pubblica americana è rimasta sempre
rassegnata ad una sorta di paralisi nella comprensione della difficile e complessa realtà
iraniana, ovvero nella percezione di uno stato che ha identificato negli ultimi venticinque
anni nel governo di Washington la responsabilità di “tutti i mali del mondo”, misurandosi
come il più agguerrito avversario nel golfo Persico e generando in questo modo nella
cittadinanza americana una sorta di confusione e di impotenza al tempo stesso.
Il 17 marzo del 2000, durante un discorso tenuto dal Segretario di stato americano –
Madeleine Albright – nel Omni Shoreham Hotel di Washington55, con un intervento
inaspettato sono state ammesse le colpe degli Stati Uniti circa la caduta nel 1953 del primo
ministro Mohammad Mossadeq (amministrazione Eisenhower), sull’appoggio consistente
offerto al regime Pahlavi (nonostante le “brutali repressioni contro il dissenso politico”) ed
anche riguardo alla politica “poco lungimirante” di aiuti forniti a Saddam Hussein durante
il lungo conflitto contro l’Iran, suscitando perplessità ed inquietudine nella già provata
opinione pubblica americana, improvvisamente edotta sulle forti ingerenze degli Stati Uniti
negli interessi nazionali di uno stato sovrano.
La reazione dell’Iran, dopo aver richiesto ed atteso per anni una simile ammissione, è stata
rabbiosa ed ostile, scavando quel solco di diffidenza e conflittualità che ancora oggi non è
stato più colmato56.
euro in cui consiste il Premio Nobel è denaro pagato all’avvocatessa dai governi occidentali”.
55
Kennet M. Pollack – allora direttore per gli Affari del Golfo Persico nel Consiglio di Sicurezza Nazionale
degli Usa – nel suo libro The Persian Puzzle, The Random House Publishing Group Inc., 2004.
56
Dopo pochi giorni, l’ayatollah Khamenei ha tenuto un discorso nella piazza principale di Mashhad:
“Qualche giorno fa un ministro americano ha pronunciato un discorso. Dopo quasi mezzo secolo, gli
americani hanno confessato di aver organizzato il colpo di stato del 28 del mese di Mordad [il 19 agosto
1953]. Hanno confessato di aver dato il loro appoggio alla scià Pahlavi, personaggio repressivo,
dittatoriale e corrotto, per venticinque anni. Prestate attenzione : noi siamo nell’anno 1379 [sempre secondo
E le provocatorie espressioni usate da Khamenei dopo le elezioni parlamentari non solo
hanno preoccupato il governo di Washington (“Siamo convinti che il popolo iraniano
continuerà ad esprimere la sua volontà in modi diversi”) ma hanno anche favorito il
consenso del Consiglio dei ministri esteri europei riuniti a Bruxelles per una dichiarazione
unanime sul giudizio delle elezioni parlamentari (le espressioni più usate sono state “passo
indietro, delusione e rincrescimento”) senza contare la dura risposta di Israele.
Evitando di commentare direttamente l’esito delle elezioni, il iapo dei Servizi di
Informazione militari israeliani – generale Ahron Zeevi – si è limitato a dichiarare che
Teheran è già in possesso di missili terra-terra con gittata di km.1.500 (quindi in grado di
colpire Israele) e che entro sei mesi potrà produrre uranio arricchito, ovvero essere in grado
di possedere la bomba atomica entro il 2008, sempre che non venga fermata prima. Il
riferimento ai cacciabombardieri di Tel Aviv inviati nel 1981 a distruggere il reattore
nucleare iracheno di Osirak (a Tammuz, vicino Baghdad) è abbastanza evidente, così come
è evidente l’addestramento in corso dei piloti con la Stella di Davide per missioni di
attacco a lunga distanza sui nuovi caccia F-16 (102 esemplari ordinati agli Usa) in grado di
colpire qualunque obiettivo nell’area mediorientale senza la necessità di rifornimento in
volo. Ma anche la questione nucleare rimane ancora drammaticamente sul tappeto, proprio
perché quella porta chiusa in faccia all’Occidente, sbarra anche l’accesso alla Aiea,
l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Il primo grido di allarme sulla stampa internazionale è stato lanciato da “The Economist”
nel giugno del 2003: “Il paese degli ayatollah sta segretamente costruendo una bomba
nucleare? E se così fosse, cosa possiamo fare per evitarlo?” Ma le preoccupazioni di
Muhammad el Baradei (il diplomatico egiziano a capo della Aiea e noto per la sua
moderazione) sono già iniziate da molto tempo prima, ovvero da quando i suoi funzionari
hanno trovato la conferma delle dichiarazioni di un gruppo di opposizione del regime
iraniano in esilio politico negli Stati Uniti: a Natanz si sta realizzando un impianto
particolarmente sofisticato per l’arricchimento dell’uranio e ad Arak viene già preparata
l’acqua pesante; uranio arricchito e plutonio (anche se legittimi per usi civili) sono pur
sempre essenziali per il nucleo di materiale fissile necessario per la costruzione della
bomba atomica.
Ma il vero motivo delle preoccupazioni risiede nella mancata informazione che Teheran
avrebbe dovuto trasmettere all’Agenzia dopo aver importato dalla Cina nel 1991 ben 1,8
tonnellate di uranio naturale, senza preavvisare, così come previsto dall’accordo in vigore
sulla sicurezza nucleare, il suo processo di arricchimento. La difesa di Teheran è
comunque debole: i reattori in fase di progettazione sul territorio iraniano sono in grado di
produrre solo un basso arricchimento del metallo.
il calendario islamico] e sono passati più di quarant’anni dal 1332 e dal colpo di stato del 28 del mese di
Mordad. Soltanto ora gli americani ammettono di aver appoggiato il colpo di stato. Ammettono di aver
sostenuto e avallato il regime dittatoriale, oppressivo, corrotto e servile dello scià per venticinque anni. E
ora dicono che hanno sostenuto Saddam Hussein nella sua guerra contro l’Iran. Cosa pensate che provi la
nazione iraniana di fronte a questa situazione e a queste ammissioni? Nel corso di quei giorni, durante la
guerra, abbiamo ripetutamente affermato che gli americani aiutavano Saddam Hussein e loro l’hanno
negato, sostenendo invece di essere imparziali. Adesso, a dodici anni dalla fine della guerra, questo
Segretario di stato americano ammette ufficialmente che hanno aiutato Saddam Hussein. La domanda è: a
che pro questa ammissione? A cosa serve ora questa ammissione di aver agito in quel modo?
Un’ammissione fatta anni dopo che il crimine è stato commesso non serve a nulla alla nazione iraniana ”.
(Kennet M. Pollack, op.cit., nella traduzione di M. Menga, Oxford Group.)
Ma gli impianti di Natanz e di Arak non lasciano dubbi agli ispettori dell’Aiea e durante
un’ulteriore indagine presso la “Kalaye Electric Company” di Teheran vengono prelevati
componenti considerati di esclusiva pertinenza per la costruzione di centrifughe per
l’arricchimento dell’uranio. Alle accuse dei tecnici dell’Agenzia (il materiale avrebbe
dovuto essere dichiarato) il ministro degli Esteri iraniano, Kamal Kharrazi, si è limitato a
rispondere di non aver tenuto nascosta la produzione di una nuova centrifuga,
semplicemente perché sono state effettuate solo delle ricerche in questo settore e l’Agenzia
ne era stata informata.
Nonostante vengano reiterate le assicurazioni di Teheran circa un più ampio progetto del
nucleare per uso esclusivamente civile, l’annuncio fatto dall’Iran per la costruzione di un
reattore di ricerca di acqua pesante da 40mw non fa altro che gettare una lunga ombra nera
sulle reali intenzioni delle ricerche iraniane. Così come già sbandierato dalla Corea del
Nord, il combustibile impoverito dal reattore tipo Candu (e quello coreano è solo di 5mw)
è idoneo ad estrarre plutonio e questo procedimento potrebbe permettere a Teheran di
avvicinarsi pericolosamente alla costruzione di testate nucleari. All’Agenzia non rimane
che proporre l’intensificazione dei controlli (il solo metodo per appurare che l’uranio
prodotto sia effettivamente a basso arricchimento), controlli che vengono approvati anche
dalla Russia e dall’Unione Sovietica, durante il vertice dei G8, con una dichiarazione
congiunta in tal senso.
Ma il primo campanello di allarme arriva da Gary Samore (“Istituto Internazionale di Studi
Strategici”, Iiss di Londra) che sostiene – vista la debole difesa e la reticenza di Teheran –
che l’inasprimento e la severità di ulteriori controlli potrebbero fare il gioco di Teheran,
ovvero offrire l’occasione per uscire dal “trattato di non proliferazione nucleare” ed avere
mano libera nell’attuazione dei progetti, civili o militari che siano. Ed all’inizio del 2004
(per la precisione nel mese di marzo, subito dopo le elezioni legislative vinte dai
conservatori) l’Iran annuncia la decisione di bloccare a tempo indeterminato le ispezioni
dell’Agenzia Internazionale delle Nazioni Unite per l’Energia Atomica. Il “pretesto” è dato
dalla dura risoluzione adottata a Vienna dalla Aiea: si deplora il rinvenimento di
apparecchiature per l’arricchimento dell’uranio e di altre attività non preventivamente
denunciate dalla Repubblica Islamica e si sottolinea con preoccupazione il coinvolgimento
dell’Iran (insieme alla Libia) nelle indagini in corso sul mercato nero del nucleare.
Ma adesso l’Iran ha alzato il prezzo, cerca di raggiungere un compromesso su posizioni di
forza e la diplomazia degli ayatollah gioca una carta a sorpresa. Nei primi di agosto del
2004, un documento ufficiale viene consegnato dalla delegazione di Teheran ai
rappresentanti di Francia, Germania e Gran Bretagna riuniti a Parigi proprio con l’obiettivo
di risolvere la crisi tra l’Agenzia e l’Iran. Totalmente indifferente alle richieste avanzate
dall’Agenzia ed alle pressioni delle democrazie occidentali, il documento richiede ai tre
paesi di appoggiare il diritto dell’Iran allo sviluppo di tecnologie nucleari con finalità
militari.
Con una sottile ed elaborata formula espressiva, il diritto richiesto prevede l’accesso a
“tecnologie nucleari avanzate a doppio utilizzo” (quindi apparecchiature e conoscenze
tecniche per applicazioni pacifiche e belliche) aggiungendo la richiesta di “rimozione degli
ostacoli che impediscono l’accesso dell’Iran alle tecnologie nucleari”. Ed in buon
sovrapprezzo, anche l’assicurazione sull’appoggio all’Iran “di fronte a limitazioni politiche
e legali” (le presumibili sanzioni dell’Onu) senza trascurare il sostegno alla strategia
iraniana sulle armi convenzionali e l’impegno alla denuclearizzazione del Medio Oriente
per la difesa dell’Iran da eventuali attacchi nucleari (il riferimento ad Israele è abbastanza
palese). Oramai le carte sono sul tavolo. Le incerte assicurazioni sulle finalità pacifiche
sono fugate anche dalle dichiarazioni del ministro Kharrazi: “L’Iran deve avere il diritto,
al pari di altri paesi del mondo, di dotarsi di armi nucleari a scopo deterrente”,
aggiungendo che l’Aiea farebbe bene ad occuparsi del problema della non proliferazione in
altri paesi della regione. Anche se possiamo immaginare le legittime perplessità del
presidente francese, del cancelliere tedesco e del premier inglese, è interessante notare
l’atteggiamento delle grandi potenze.
Le reazioni di Washington sembrano essere abbastanza moderate: pressioni (limitate) sul
Consiglio di sicurezza dell’Onu per sanzioni contro l’Iran, toni diplomatici del presidente
Bush (“L’Iran deve rispondere alle domande della comunità internazionale”) e caute
dichiarazioni del consigliere per la Sicurezza Nazionale (Condoleezza Rice): “La comunità
internazionale è sospettosa e preoccupata”.
Ma il vero imbarazzo lo sta vivendo Mosca. I russi hanno appena concluso con Teheran un
contratto da 800 milioni di dollari per la costruzione di una centrale a Busheir (un reattore)
con la relativa fornitura di combustibile. Nelle more di una situazione internazionale così
delicata, Mosca si è affrettata a dichiarare che la fornitura di combustibile sarà
condizionata alla restituzione del reattore una volta esaurito, al fine di evitare la possibilità
di utilizzo delle sue scorie, utili per ottenere il famigerato uranio arricchito.
Nel giugno del 2004 (ancora i G8, riuniti a Sea Island in Georgia) le dichiarazioni delle
democrazie occidentali si fanno ancora più dure. Persino il presidente Jacques Chirac
condivide che il mondo non può permettersi di annoverare tra le sue fila una teocrazia
fondamentalista come quella di Teheran armata di armi nucleari, realizzate inoltre con un
programma clandestino portato avanti per anni.
Un nuovo grido di allarme è stato lanciato ancora una volta dal direttore generale
dell’Aiea: entro due anni al massimo l’Iran sarà in grado di produrre la sua bomba atomica.
Dopo tre giorni di riunioni a Vienna tra i 35 membri dell’Agenzia è emerso che i tentativi
iraniani “continuano imperterriti” e che alcuni investigatori della Aiea (coadiuvati da
agenzie di intelligence occidentali) hanno appurato che alcuni agenti segreti iraniani hanno
contattato recentemente un trafficante di armi (europeo) al fine di ottenere decine di
migliaia di componenti per centrifughe avanzate del tipo P-2, proprio quelle utilizzate per
arricchire l’uranio. Le conclusioni sembrano ovvie: la fase della ricerca è finita ed ora si
entra in quella della produzione, “tempo 18, massimo 24 mesi, e l’Iran coronerà il suo
sogno proibito”.
E nonostante tutto, è ancora l’Iran a fare la voce grossa. Anche se le carte erano già state
scoperte, il solito ministro Kharrazi alza il tiro: “La comunità internazionale deve
finalmente ammettere l’Iran nel club nucleare” aggiungendo che il suo paese non accetterà
più alcuna restrizione al riguardo. Ma questa volta non è solo, anche il presidente Khatami
(il riformista con le mani legate?) arriva a scrivere una lettera ai tre paesi europei che
hanno “tradito” l’Iran, minacciando misure di ritorsione e di rappresaglia. Davanti a tale
sfrontatezza, la Casa Bianca preme sempre di più sul Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Uniti (sanzioni esemplari) e l’Unione Europea (adesso a 25 stati) si dichiara pronta a
rinunciare ai rapporti commerciali con l’Iran. Ma è possibile che l’Iran non si renda conto
che le armi nucleari non costituiscono oggi uno strumento di misura della forza di un
paese, ma piuttosto una sicura garanzia di isolamento internazionale, con tutte le
conseguenze sulla situazione politica ed economica? Una domanda sicuramente complessa
a cui non è facile dare, ancora oggi, una risposta esauriente.
Le radici di tale ambizione politica e militare vanno a nostro avviso ricercate nel ruolo che
l’Iran ha cercato di interpretare agli inizi degli anni Ottanta sotto la guida di Ruhollah
Khomeini. La sua rivoluzione sembra in effetti riecheggiare i più tradizionali sistemi
rivoluzionari del Novecento (decisa impronta ideologica e grande forza di mobilitazione)
anziché richiamarsi ai fondamenti mistici della religione sciita. Con i forti accenti delle
dottrine rivoluzionarie di tipo marxista-leninista, l’islam della rivoluzione teocratica è in
realtà un chiaro progetto politico per la sovversione di un ordine mondiale occidentale
precostituito, attraverso un sistema forte di potere sulla società civile, prima nazionale, poi
regionale, ed infine mondiale. Ponendosi alla guida dei popoli diseredati ed oppressi della
terra, l’Iran di Khomeini non è soltanto il paladino della lotta ai mali causati
dall’Occidente, ma diventa l’erede legittimo del comunismo ateo, non più in grado di
liberare l’umanità dal “Grande Satana”. Sulla scena internazionale l’unica potenza
spirituale in grado di assolvere questo compito – insieme ad un esercito ben equipaggiato,
con servizi segreti ben organizzati e, perché no, con un forte deterrente nucleare – è l’islam
di Teheran, clericale e marxista, ma pur sempre con la benedizione di Allah.
Nell’ottobre del 2004, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica chiede all’Iran di
rispondere con chiarezza all’accusa di aver violato il “trattato” e di presentare una
relazione esaustiva entro il 25 novembre, pena la discussione della “questione iraniana”
davanti al Consiglio di sicurezza dell’ONU per le sanzioni del caso. Anche se messa alle
strette (l’Iran può sospendere le attività e riprendere i negoziati, ovvero andare avanti con il
nucleare e correre il rischio di sanzioni) la diplomazia degli ayatollah decide di giocare
d’astuzia. Il Ccpo dell’Agenzia Atomica Iraniana – Reza Aghzadeh – annuncia la
conversione di 37 tonnellate di uranio (che generano gas esafluoruro, buono sia per la
produzione di energia civile che per l’arricchimento dell’uranio) ed al tempo stesso il
presidente Khatami si affretta a dichiarare che “abbiamo fatto la nostra scelta, sì al
nucleare per scopi pacifici, no alle armi”, e tenta un riavvicinamento con la Francia, la
Germania e la Gran Bretagna, senza tralasciare i contatti diplomatici con i paesi membri
della Aiea dotati di tecnologie nucleari simili, come il Brasile ed il Sud Africa.
L’intento sembra proprio quello di “scavalcare” gli Stati Uniti, pur sempre nella speranza
che le prossime elezioni americane vedano vincitore John Kerry, il democratico che ha
presentato nel suo programma la possibilità di far cadere tutte le accuse di proliferazione
delle armi atomiche, con il semplice rispetto di alcune garanzie sull’uso delle centrifughe.
Ma George W. Bush ha in ogni caso già reso noto al Congresso le relazioni
dell’intelligence che prevedono la messa in funzione di una centrifuga a cascata nella
centrale di Natane e la conversione dell’uranio in gas esafluoruro nell’impianto di Esfahan,
senza contare la costruzione dei missili Shahab 3 (di tecnologia nord-coreana) già testati in
Iran con un raggio di azione di km.1.500.
Ma le mosse sulla scacchiera non sono ancora terminate: ad arte vengono fatte circolare
voci sulla possibilità che il parlamento nazionale stia studiando l’opportunità di votare il
ritiro dell’Iran dal Trattato di non proliferazione (la Corea del Nord lo ha già fatto nel
2003) e liberarsi quindi dei fastidiosi ispettori dell’Aiea: il prezzo sale ancora.
Tra le 12 donne elette nelle elezioni politiche vinte dai conservatori, la voce più accesa è
quella di Rafat Bayat: “Perché dovremmo ratificare un Trattato di non proliferazione
mentre Israele può continuare a produrre bombe atomiche?” e l’orgoglio nazionale
iraniano trova il suo trionfo nelle parole di Ali Akbar Salesi, consigliere del governo sul
nucleare ed ex ambasciatore presso la Aiea:
Siamo l’unico paese del Medio Oriente il cui suolo non è calcato dagli scarponi dei
soldati americani […] non abbiamo interesse a produrre armi atomiche, ma siamo in
grado di fabbricarle […] l’Iran deve essere rispettato per ciò che rappresenta: una
potenza dotata di una tecnologia nucleare avanzata .
Ed anche il “grande vecchio”, l’hojatoleslam Ali Akbar Rasemi Rafsanjian, che torna alla
ribalta politica all’età di settanta anni per concorrere alle elezioni presidenziali dopo essere
stato per quasi un decennio lontano dai riflettori, non ha alcun dubbio sulla scelta del suo
paese, e la ribadisce con forza, aggiungendo alcune minacciose venature:
Non vedo alcuna ragione per la quale la comunità internazionale debba portarci
davanti al Consiglio di sicurezza, solo perché stiamo cercando di far valere i nostri
diritti. Se questo è ciò che pensate, allora ritenete il mondo un posto davvero brutale.
Se ci saranno azioni così drastiche nei nostri confronti, non sarà soltanto l’Iran a
perdere, ma anche altri.
Nel mese di maggio del 2005, nonostante le raccomandazioni della Aiea e le mediazioni
dell’Unione Europea, il Consiglio dei Guardiani convalida la legge che prevede la
realizzazione in Iran di un programma nucleare completo, compreso il ciclo di
arricchimento dell’uranio.
Mancano solo pochi giorni all’elezione di Mahmoud Ahmadinejad.
Anche se l’Occidente – e l’Europa in particolare – tende a ricondurre gli irrisolti conflitti
sociali ed istituzionali dell’Iran in una schematica e semplicistica suddivisione tra una
corrente politica di “conservatori” ed una di “riformatori”, in realtà il paese vive
problematiche e contraddizioni di difficile interpretazione. Sotto il profilo istituzionale, la
presidenza ed il parlamento, anche se democraticamente eletti, sono in effetti privi di reali
poteri, rimanendo il controllo dello stato saldamente nelle mani della “Guida Suprema”,
del “Consiglio dei Guardiani” e del “Consiglio per il Discernimento”, conosciuto anche
come il “Consiglio per la determinazione delle scelte”, incaricato di dirimere le
controversie tra il Parlamento ed il Consiglio dei Guardiani, in pratica l’ultima parola in
materia legislativa.
Questo particolare sistema, che limita quindi gli organi elettivi a prerogative solo formali,
garantisce al clero sciita, espresso nella sua massima autorità religiosa, l’inflessibile
custodia del verbo khomeinista, ovvero il controllo dell’economia, dei tribunali,
dell’esercito e dei mezzi di informazione e comunicazione. In pratica, l’attuazione statale
di un dogma che interpreta il “Governo del Dottore della Legge” (Velayat-e-Faqih, per
assicurare all’intera legislazione la totale aderenza al Corano, ed in particolare alla dottrina
sciita) conferendo alla Guida Suprema l’autorità assoluta in campo religioso, politico e
sociale.
Anche se storicamente già presenti, le divisioni tra le classi sociali del paese si sono
effettivamente accentuate negli ultimi anni. Le vaste zone interne, così come le sterminate
periferie della capitale, rimangono sotto lo stretto controllo dei mullah, che impongono un
rigoroso rispetto della legge coranica sia sui contadini e sui manovali in cerca di lavoro che
sulle donne che indossano lo chador nero della tradizione sciita, alimentando in questo
modo un disagio sociale non più dissimulabile.
Lo scenario cambia rapidamente nella principale piazza Vanak, animata da Internet Caffè e
negozi alla moda, luogo di ritrovo preferito della gioventù universitaria iraniana. I ragazzi
indossano i blue jeans, usano il walkman e fanno la fila per acquistare il telefono cellulare
di ultima generazione, e le ragazze sfidano le imposizioni religiose sfoggiando scarpe da
tennis ed indossando un foulard colorato (“russarì”) al posto dello chador, senza trascurare
l’uso del rossetto ed il vezzo di una ciocca di capelli scoperti. Sono in realtà i figli
dell’antica borghesia cittadina, che ha le sue lussuose ville sulle pendici dei monti Elburz, a
nord di Teheran, e ben lontane dai poveri e popolosi quartieri meridionali.
Ma qual è la loro percezione della “via iraniana”?
Il sogno delle libertà e della democrazia sembra essere svanito nella fiducia mal riposta nel
presidente Khatami (eletto per ben due volte proprio con i voti dei giovani) per lasciare il
posto ad un’apatica rassegnazione nei confronti di un potente e corrotto, quindi imbattibile,
regime teocratico. Allora una sorta di sfiducia e di disincanto nei confronti della classe
dirigente – il prossimo voto non cambierà un presente fatto di restrizioni – ma potrà
soltanto registrare una redistribuzione dei poteri politici. Tutti gli analisti, iraniani ed
occidentali, prevedono un forte astensionismo nelle prossime elezioni e sono altrettanto
concordi nel confermare un comune senso di indifferenza verso le istituzioni politiche ed i
loro rappresentanti, a favore di un’improvvisa e diffusa passione per internet e per il gioco
del calcio, lì dove i due terzi dell’elettorato attivo ha meno di trenta anni – su oltre 65
milioni di abitanti e circa 47 milioni di aventi diritto al voto – e non era ancora nato quando
l’ayatollah Khomeini ha cacciato lo shah per promuovere il nuovo corso della Repubblica
dell’Iran57.
Anche se il presidente Khatami è riuscito a raccogliere all’estero solo effimeri consensi, in
patria è doveroso riconoscergli alcuni importanti risultati, sia sul piano delle libertà di
informazione che sul miglioramento della condizione femminile (le donne occupano oltre
il 50% degli impieghi nella pubblica amministrazione, il 40% nell’insegnamento e
superano il 60% delle iscrizioni universitarie) pur essendo stato costretto a muoversi in
angusti spazi di manovra circoscritti dalla rigorosa osservanza della sharia (nei tribunali la
testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo, il codice civile autorizza la
poligamia e la giurisprudenza sciita consente il “sigheh”, ovvero il matrimonio a tempo
determinato, utile espediente per rapporti sessuali senza il rischio dell’accusa di
prostituzione) senza considerare che dopo appena sei mesi dalla vittoria dei conservatori
nel settimo parlamento dell’Iran, la polizia ha distribuito un manuale – reso noto anche
57
Secondo uno studio effettuato dalla Stanford University («Usa Today», maggio 2005) gli utenti iraniani
che si collegano in rete erano al tempo circa cinque milioni. L’età compresa era tra i 21 ed i 32 anni, ed il
collegamento medio era stimato in 38 ore settimanali. I blog (diari in internet) presenti in lingua farsi erano
circa 70.000, anche se l’argomento preferito dopo la poesia restava il calcio. Bandite le discussioni politiche
(dalle elezioni parlamentari del febbraio 2004 è stato incrementato l’uso della censura e dei filtri per limitare
l’accesso ad internet) che potrebbero far scattare le accuse di “attività contro-rivoluzionarie” o di
“comportamenti contrari alla religione”. Secondo l’associazione «Reporters San Frontières», nel 2004 sono
stati bloccati 10.000 siti (e relative chat) ed arrestati venti utenti.
dall’agenzia di stampa studentesca iraniana, l’Isna – dove vengono esposte le nuove regole
per il commercio al dettaglio, tutte rigorosamente ispirate al nuovo indirizzo politico58
Ma il segnale politico – percepito anche dalle alte gerarchie del clero – travalica
l’invadenza dell’evento: la spinta, o meglio la necessità, al cambiamento è oramai un
processo attivo, al di là delle battute di arresto che talvolta la politica può determinare a
seconda delle contingenze temporali. Una tigre che l’abile e potente hojatoleslam, Ali
Akbar Hashemi Rafsanjani, è pronto a cavalcare.
Dopo aver ricoperto per due volte la carica di presidente della repubblica islamica (1989 e
1993) e dopo essere rimasto a lungo dietro le quinte, è l’uomo che è riuscito ad erodere il
sostegno popolare al governo di Khatami attraverso l’occulta costruzione di un edificio su
misura per un nuovo gruppo di conservatori pragmatici, affascinati dal “modello cinese”,
caratterizzato dall’apertura ai flussi economici provenienti dall’estero ed al tempo stesso da
una certa rigidità istituzionale all’interno, e quindi un contributo politico significativo, in
grado di conciliare la necessità dell’uscita dall’isolamento (apertura ai mercati
internazionali) senza irritare l’ala clericale più oltranzista che vuole approfittare della
contingenza politica per attuare un inasprimento del rigore islamico.
Dopo aver esercitato con pugno di ferro la sua strategica qualifica di direttore del
“Consiglio per la determinazione delle scelte” (carcere per gli oppositori, bavaglio per la
stampa e sistematico blocco delle proposte di legge approvate dal parlamento) Rafsanjani
può finalmente contare sul fallimento dei riformatori, o meglio sulla mancata soddisfazione
delle aspettative generate, per proporre una politica più pragmatica, lì dove una leadership
più concreta potrebbe indurre gli americani ad un alleggerimento dell’embargo (obiettivo
primario dei neo-conservatori) e sfruttare di conseguenza il previsto aumento del 20% della
produzione petrolifera per rilanciare la disastrata economia iraniana 59 con i suoi benefici
ritorni sull’occupazione – unico strumento efficace per vincere il diffuso e generale
malessere sociale – anche a costo di effettuare concessioni nella sfera delle libertà
individuali.
In venticinque anni di “regime rivoluzionario”, gli ayatollah non sono stati in effetti capaci
di adeguare il paese al processo di globalizzazione, e perché non potrebbe essere proprio il
consolidamento della teocrazia islamica ad inaugurare questa nuova fase di
modernizzazione, pilotata da un politico abile ed esperto?60
58
La biancheria intima femminile non può essere esposta nelle vetrine dei negozi, così come i manichini
femminili “nudi o con le forme troppo evidenti”. Pena della chiusura dell’attività commerciale, anche se è un
uomo a vendere la lingerie femminile. Tra le altre regole, il divieto di esporre e vendere animali considerati
impuri per le regole coraniche (cani, maiali e scimmie) oltre all’obbligo per un istruttore uomo di scuola
guida di tenere lezioni ad una donna se non è accompagnata all’interno dell’autovettura da un parente stretto.
(Iran : le regole contenute nel nuovo manuale distribuito dalla Polizia, vetrine vietate per lingerie ed
animali impuri, «Corriere della Sera», 28 Agosto 2004)
59
Anche se ufficialmente la disoccupazione è indicata al 16%, sembra che il tetto raggiunto abbia superato il
30%, con un’inflazione pari al 15%. Pur con una rendita petrolifera che garantisce l’80% dei proventi, il
reddito medio pro capite oscilla intorno ai 2.000 dollari, contro i circa 20.000 registrati in Italia.
60
Nella sua complessità interna, l’Iran continua ad esprimere violente contraddizioni. La benzina viene
razionata perché a fronte di una domanda giornaliera di 56 milioni di litri, la capacità di raffinazione non
supera i 40 milioni, obbligando l’importazione di carburante dall’estero per 2,2 miliardi di dollari (Hossein
Kashefi, direttore della «Società Nazionale per la distribuzione dei prodotti petroliferi», settembre 2004). La
stima dei consumatori di oppiacei si aggira sui 9 milioni, senza contare le migliaia di senzatetto che invadono
Le premesse per la vittoria nella competizione elettorale per la presidenza ci sono tutte.
Ma venerdì 17 giugno 2005, il 63% dell’elettorato iraniano – circa 32 milioni dei 47 aventi
diritto al voto – ha tradito le aspettative del favorito Rafsanjani, impedendogli di
raggiungere il quorum richiesto del 50% per l’elezione diretta, prima volta nella storia
della Repubblica Islamica, che ha sempre visto il candidato favorito ottenere la
maggioranza assoluta nella prima votazione61. Rafsanjani ottiene soltanto il 20,8% dei
consensi e dietro di lui, con uno scarto di soli 600.000 voti (19,5%), un giovane di 49 anni,
un integralista islamico già sindaco di Teheran, a cui i sondaggi pre-elettorali avevano
ottimisticamente attribuito un 10% dei consensi: Mahmoud Ahmadinejad. Venerdì 24
giugno si deve tornare alle urne per il ballottaggio62.
Con una forza inaspettata, un vero e proprio terremoto politico di abbatte sull’Iran. Ma
dove risiede la vera natura dello scontro, che sembra assumere i caratteri di un contenzioso
ideologico? Le complesse e variegate opzioni politiche della recente storia della
Repubblica Islamica non hanno mai fatto registrare mutamenti eccezionali nell’assetto
sociale del paese (presidenze Rafsanjani e Khatami) nel convincimento di una completa
realizzazione del processo di integrazione politica di tutte le forze rappresentative, anche se
– naturalmente – sotto il ruolo sovrano dell’islam.
Rafsanjani – sino a quel momento leader carismatico ed imperscrutabile – sembra
percepire subito la lacerazione profonda che un ritorno all’alba “scura” della rivoluzione
potrebbe generare nell’intero tessuto sociale (la religione è pur piegata al servizio della
politica o dove piuttosto costituire un carattere strumentale per la gestione dello stato?) ed
il suo innato pragmatismo – ha soltanto settantadue ore di campagna elettorale per
scongiurare la vittoria dell’avversario estremista – lo porta ad accettare la sfida, anche a
costo di rivolgersi alla parte più irrequieta ed eterogenea dell’elettorato, la gioventù
iraniana.
i parchi di Teheran (dicembre 2004). Il moderno International Airport “Ruhollah Khomeini”, costato 475
milioni di dollari, è stato occupato dai Pasdaran – con la minaccia di abbattimento degli aerei in
avvicinamento – perché l’appalto per la gestione dell’aeroporto è stato aggiudicato alla società «TAV»,
turco-austriaca, sospettata di intrattenere rapporti di affari con lo stato di Israele (gennaio 2005). L’Iran è uno
dei 58 paesi che nel mondo applicano la pena di morte. In genere, la pena capitale viene emessa per reati
come l’omicidio, lo stupro e la rapina a mano armata ed i giudici possono applicarla se l’imputato ha
raggiunto “legalmente” la pubertà, ovvero i nove anni per le bambine ed i quindici anni per i maschi. Nel
2004, Amnesty International ha denunciato in Iran 159 condanne a morte, un numero superato nello stesso
anno solo dalla Cina.
61
Nell’elezione del 1997, Mohammad Khatami riscosse al primo turno il 69% dei consensi, con un’affluenza
pari all’83% degli aventi diritto al voto.
62
Il lizza solo 8 candidati, dopo che il “Consiglio dei Guardiani” ha respinto il 99% delle domande presentate
– tra cui alcune donne – perché non ritenute “qualificate”. Tra le personalità di maggiore rilievo che hanno
ottenuto minori consensi, Mehdi Karroubi (riformista moderato, religioso, ex presidente del parlamento,
17,30%), Mohammad Bager Qalibaf (conservatore, ex capo della polizia, firmatario di una lettera di protesta
nei confronti del presidente Khatami, colpevole di aver impedito ai suoi agenti di controllare se le coppie
sorprese in strada avessero il diritto di passeggiare insieme, ovvero se fossero sposati o consanguinei,
14,20%) e Mustafa Moin (riformista, ex ministro dell’Educazione, candidato dell’Iipf, Islamic Iran
Partecipation Front, considerato un buon rivale di Rafsanjani, con lo slogan elettorale “Ti ricostruisco,
Patria mia!”, 14,20%)
Anche se alcuni membri del maggiore partito riformista – il Mosharekat, a cui Rafsanjani
si è rivolto con un accorato appello per un “voto utile” – hanno smentito il loro sostegno
nel secondo turno (“le elezioni hanno in ogni caso posto una pietra sulle aspirazioni
riformiste dell’Iran”, ed in definitiva Rafsanjani costituisce un loro vecchio nemico) si è
effettivamente compattato un fronte anti-Ahmadinejad, che spazia dal consenso di
numerosi ayatollah della città santa di Qom – a due ore di macchina da Teheran ed in
perenne competizione con l’altra città santa sciita in territorio iracheno, Najaf – sino allo
sfrenato corteggiamento (anche dei candidati più conservatori) dell’elettorato giovanile63.
Ma nessuna spinta alla democrazia – pur nell’accezione iraniana del termine – risulterà più
forte dell’alleanza tra religiosi ortodossi e classi sociali meno abbienti, mettendo in
evidenza una nuova componente nel pur complesso mosaico che cesella il rapporto tra lo
stato, la religione e la funzione del potere politico.
Quindi Rafsanjani ha intuito un pericolo che travalica lo scontro tra lui e l’ayatollah
Khamenei (così come la stampa occidentale ha interpretato inizialmente la sfida tra i due
giganti, relegando la figura di Ahmadinejad ad uno strumento nelle mani del secondo) per
ricondurlo alla vittoria delle basi religiose integraliste – non sono forse queste un grande
motivo di orgoglio nazionale? – per affermare la grandezza e la forza dell’Iran, pur
sacrificando su questo altare uno stato più laico, secolare, efficiente e moderno. Non si
tratta quindi della temuta lotta per una redistribuzione dei poteri – Khamenei controlla le
istituzioni pubbliche e le organizzazioni armate, mentre Rafsanjani è accreditato di un
enorme potere economico – ma della nascita di un processo in grado di superare quel
generale sentimento di disaffezione, se non di avversione, verso il potere centrale dello
stato, per una sua stessa ridefinizione, lì dove i termini sono quelli di un’applicazione
ancora più rigorosa dei principi islamici, o meglio di quelle norme imposte da Khomeini
nei primi anni della rivoluzione, che riuscirono a rispecchiare l’ordine e la morigeratezza
della Guida Suprema, insieme alla lotta alla corruzione, combattuta con una virtuosa
povertà.
Quale maggiore pericolo per un uomo che ha incarnato in tutta la sua vita politica, agli
occhi dell’opinione pubblica iraniana, l’essenza stessa dell’ambizione, della ricchezza e
della corruzione ?
Ed al di là delle frettolose considerazioni riportate dalla stampa occidentale – voto di
protesta, disaffezione alla politica e vittoria dell’astensionismo 64 – sembrano avere
63
Oltre all’uso massiccio di internet (fotografie, slogan e messaggi per influenzare l’elettorato giovanile)
discorsi pubblici improntati alla tolleranza ed alla difesa dei diritti femminili, insieme all’impegnativa
promessa di 9.000 euro a famiglia, sotto forma di azioni di società pubbliche da privatizzare. Ad Elahiyeh, il
quartiere alla moda di Teheran, Rafsanjani ha opportunamente collocato ben quattro uffici elettorali – lo
scopo è quello di distribuire materiale elettorale tra la gioventù agiata che popola i numerosi caffè della zona
– convincendo così anche i progressisti ad appoggiare la sua causa contro lo spettro di un estremismo
religioso, percepito come “contro-corrente” in una società in cerca di aperture e modernismo.
64
In ogni caso è degna di attenzione la tesi sostenuta da Magdi Allam : “Conti alla mano, In Iran ha vinto il
partito degli astensionisti. Sui circa 47 milioni di aventi diritto al voto, circa il 43% ha boicottato le urne,
circa il 36% ha scelto l’ultra conservatore Ahmadinejad e circa il 21% ha votato per Rafsanjani […] il voto
rappresenta in effetti la spaccatura formale tra la società civile, uomini e donne che patrocinano il sogno
della libertà e della democrazia, e il regime teocratico che s’impone come una cappa asfissiante dal 1979 ”.
M.Allam, “I giovani non credono più nel voto per riformare la teocrazia”, «Corriere della Sera», 26 giugno
2005.
maggiore spessore politico le amare riflessioni dell’ayatollah Yusef Saneei, riferimento
religioso per centinaia di migliaia di sciiti sparsi anche tra Iraq e Libano : “Pregate per noi,
siamo al bivio tra democrazia e dittatura religiosa […] contro lo scià potevamo protestare,
ma contro chi si fa scudo della parola di Dio, si rimane impotenti”. Ed ancora, che fine
hanno fatto le università iraniane, vero e proprio laboratorio di possibili riforme politiche e
sociali, le uniche roccaforti delle spinte progressiste presenti nel paese?
Qualcosa di importante sta quindi maturando nel serbatoio politico e culturale dell’Iran,
qualcosa di rivoluzionario, anche all’interno della rivoluzione stessa, qualcosa in grado di
ridefinire gli ordinamenti etico-politici maturati dalla rivoluzione (non quindi un semplice
ritorno ai riferimenti originari) ma una elaborazione più sofisticata della funzione
dell’islam – e non del potere statale – per riassumere in un nuovo largo consenso, inteso
come espressione avanzata di un eterogeneo ambito ideologico, le istanze che sino ad oggi
non avevano trovato un’adeguata collocazione politica e culturale.
La Repubblica Islamica dell’Iran sta maturando la sua evoluzione, quella storicamente più
compatibile con le sue origini e con le aspettative generate nel contesto di una
emarginazione popolare che non è riuscita a raggiungere il benessere – politico, sociale ed
islamico – che le sue premesse avevano tentato, senza riuscirci, di realizzare.
Lo slogan politico di Ahmadinejad, pur nella sua banalità, è semplice e diretto: “Sono
povero tra i poveri” e quando il Consiglio dei Guardiani ed il ministero dell’Interno
renderanno noti i risultati del ballottaggio65 la reazione di Rafsanjani sarà violenta e
furiosa66.
Mahmoud Ahmadinejad si è rivolto ai “Mostazafeen” (“I Diseredati della Rivoluzione”),
alle famiglie dei caduti della guerra contro l’Iraq, ai membri delle milizie legate al regime
ed ai seguaci della ortodossia sciita, ovvero al nerbo dei fedelissimi della Guida Suprema,
una sorta di “voto tradizionalista” che gli ha assicurato le preferenze dei piccoli ed
emarginati centri urbani (talvolta con misure eclatanti, sino al 70% dei consensi) sotto l’ala
protettiva dello ayatollah Khamenei – è amico di vecchia data del figlio – presentandosi
all’elettorato iraniano senza turbante (è un laico, e le figure dei clerici vanno effettivamente
perdendo parte del consenso popolare) ma con le stimmate della rivoluzione, che gli
conferiscono il fervore religioso del “puro e duro”.
Anche se le nuove generazioni iraniane non riescono a comprendere i valori originari della
rivoluzione (il fondamento ideologico della Repubblica Islamica), così come ignorano il
lungo e sanguinoso periodo di scontri tra le forze politiche di ispirazione etnica
(democratiche e socialiste, che pur avevano contribuito alla vittoria della rivoluzione) che
65
L’affluenza al secondo turno è stata pari al 59% degli aventi diritto al voto (circa 27,9 milioni di voti) ed il
61,69% delle preferenze (circa 17,21 milioni di voti) è andato ad Ahmadinejad, contro il 35,87% (circa 10
milioni di voti) a Rafsanjani. Le schede bianche o nulle registrate sono state 700.000.
66
Sul «Corriere della Sera» del 26 giugno 2006, viene riportato il testo di una lettera scritta da Rafsanjani al
popolo iraniano – ma censurata sia dalla televisione di stato che dall’Agenzia di Stampa Nazionale – con le
accuse rivolte al regime islamico, colpevole di aver truccato le elezioni . “Sono stati utilizzati milioni di
dollari delle finanze statali per demonizzare me e la mia famiglia. Per indebolire un concorrente c’è chi non
ha esitato ad indebolire la stessa Rivoluzione islamica […] ho scelto di non appellarmi ad alcuna
magistratura perché i giudici hanno dimostrato di non potere o non volere intervenire. Sarà Dio onnipotente
a punirli nella vita terrena e in quella dopo la morte”. Andrea Nicastro, L’Iran sceglie un radicale. Stato
islamico modello.
vennero progressivamente piegate al clero sciita attraverso la dura repressione delle Forze
di Sicurezza (la nuova “Sovama” al posto della vecchia “Savak”), lo spirito dei
“Mujahedin del Popolo” sembra essere rimasto nella percezione del popolo iraniano come
il simbolico retaggio di un silenzioso passaggio “all’opposizione” durante il lungo
consolidamento del potere religioso. E furono proprio questi “Mujahedin” a risorgere –
insieme ad alcuni gruppi estremistici ed a formazioni minori – durante la guerra contro
l’Iraq (negli ultimi del conflitto si deve a loro l’accresciuta capacità offensiva iraniana, in
grado di penetrare le linee nemiche anche in presenza di effetti bellici devastanti) per
rimanere ancora una volta emarginati da quell’ondata di benessere (consumismo) che ha
seguito la fine delle ostilità, pur avendo contribuito in maniera decisiva alla coesione
nazionale ed alla concezione unitaria dello stato.
Nel deporre la scheda nell’urna, Ahmadinejad ha reso omaggio “a Khomeini e ai suoi
fedeli che hanno instaurato la Repubblica Islamica, ai martiri dell’islam e della libertà” e
nel suo primo messaggio radiofonico al paese ha dichiarato che “il nostro obiettivo è creare
una nazione islamica potente e moderna che sia da esempio nel mondo. Abbiamo dato
scacco matto ai nemici”; è lui il leader della nuova generazione della “destra ideologica”?
La sua incerta biografia lo vede miliziano rivoluzionario della prima ora, ufficiale dei
Pasdaran, capo dei Basiji (“Volontari della Rivoluzione”) e tra i fondatori di Ansar
Hezbollah (“Servi del Partito di Dio”), ma anche tra i responsabili dell’incursione nel
dormitorio degli studenti dell’università di Teheran (1999), volontario per eseguire la
“fatwa” di condanna a morte dello scrittore Salman Rushdie e comandante dei plotoni di
esecuzione dei dissidenti durante la guerra contro l’Iraq.67
In ogni caso, è l’uomo che ha fatto risorgere ancora una volta i “Mujahedin del Popolo”
usando lo stesso armamento ideologico della rivoluzione: giustizia sociale, lotta alla
corruzione, morigeratezza nei costumi, e stretta osservanza dell’islam, ovvero puntando su
quei valori tradizionali da sempre coltivati e condivisi dalla comunità sciita.
Ali Akbar Hashemi Rafsanjani è nato nel 1934 a Karman (nel sud dell’Iran) da una ricca
famiglia di possidenti terrieri coltivatori di pistacchi. Pur avendo studiato teologia si è
fermato al grado di hojatoleslam, senza raggiungere quello di ayatollah. A causa della sua
opposizione al regime dello scià è stato incarcerato prima della rivoluzione (tra il 1975 ed
il 1978), per diventare in seguito non solo un fedele discepolo, ma anche uno tra i più
ascoltati consiglieri personali di Khomeini. Membro del “Consiglio della Rivoluzione
Islamica”, ha ricoperto più volte la carica di ministro dell’Interno. Presidente del
parlamento dal 1980 al 1989, è stato eletto presidente della Repubblica Islamica nel 1989,
dopo la morte di Khomeini, con riconferma del mandato nel 1993. Durante la guerra contro
l’Iraq è stato Comandante in capo delle operazioni militari.
Politicamente è favorevole alla privatizzazione delle imprese iraniane ed è considerato un
moderato nell’applicazione delle norme islamiche (gli viene riconosciuta una certa apertura
verso le discriminazioni nei confronti delle donne) ed in politica estera è propenso a
relazioni amichevoli “con tutti i paesi tranne Israele”, lasciando indirettamente intendere la
possibilità di contatti diplomatici con gli Stati Uniti.
67
Il colonnello americano a riposo, Charles Scott, insieme ad altri ex-ostaggi dell’ambasciata Usa a Teheran,
ha riconosciuto in Ahmadinejad uno dei “capi / carcerieri” durante l’occupazione dell’ambasciata durata 444
giorni (1979-80) : “L’ho riconosciuto subito, non posso sbagliarmi”.
Mahmoud Ahmadinejad è nato nel 1956 a Garmsar (non lontano da Teheran) da una
famiglia molto modesta – il padre era fabbro – ed è riuscito a laurearsi in ingegneria civile.
Dopo una carriera di governatore provinciale, nel 2003 è stato eletto sindaco di Teheran
con un ristretto 14% degli elettori del Consiglio comunale. Tra i provvedimenti adottati
subito dopo la nomina, spiccano l’obbligo della barba per i dipendenti comunali, così come
l’obbligo dello chador per le donne e la divisione degli ascensori municipali in base al
sesso di appartenenza. E’ anche responsabile della chiusura di molte “Case della Cultura”
(in quelle rimaste aperte, letture coraniche al posto di dibattiti letterari) e della messa al
bando dei tabelloni pubblicitari di un olio per autovetture (responsabili di riprodurre
l’immagine di David Beckman, considerata troppo “occidentale” per gli occhi delle
giovani iraniane) così come della chiusura dei “fast food” in stile americano. Al tempo
stesso, ha cercato di fermare l’impennata dei costi degli affitti delle case, così come la
costruzione delle case di lusso (ha continuato ad abitare in una modesta palazzina,
rifiutando la residenza con parco e piscina prevista per il sindaco), ha fondato mercati
rionali con prezzi calmierati, ha favorito i “prestiti ai giovani sposi” (circa € 1.000) ed ha
cercato di porre ordine nel caotico traffico stradale di Teheran68.
Ponendo al primo posto la lotta alla corruzione, ha tentato di riattivare quelle norme
islamiche (più che altro consuetudini) che Khomeini aveva imposto nei primi anni della
rivoluzione ed ha sempre difeso l’inalienabile diritto iraniano di produrre armi atomiche
(un “militare” che può definire “deboli e codardi” i diplomatici ed i politici che stentano a
difendere le legittime aspirazioni nucleari del paese).
Presentata, ma poi fatta cadere, la proposta di trasformare Teheran in un “cimitero per
martiri” seppellendo un eroe in ogni piazza della capitale, così come la proposta di
sgombrare uno dei principali viali della città da palazzi e parcheggi per favorire l’ingresso
del dodicesimo imam nella capitale69.
68
“Ricordo quando l’ex presidente Mohamed Khatami è venuto a parlare qui all’università: democrazia,
democrazia ripeteva, ma quando se n’è andatosi si è lamentato del traffico insopportabile. Ecco, noi non
vogliamo quella sua democrazia. Un leader deve vivere in mezzo al popolo, risolvere i suoi problemi, non
lasciar soffocare la gente negli ingorghi stradali. Come sindaco, Ahmadinejad è sempre stato disponibile con
tutti, ed è rimasto povero tra i poveri […] Siamo felici, si. Ha vinto Ahmadinejad, un uomo pulito, puro di
cuore, onesto. Uno di noi, un basiji”. Intervista rilasciata da alcuni leader del movimento basiji ad Andrea
Nicastro e riportata sul «Corriere della Sera» (Barba e Corano, è un puro di cuore)in data 26 giugno 2005.
69
Lo sciismo è il secondo grande ramo dell’islam ortodosso, e pur essendo originario dell’Iraq, la sua
maggiore diffusione si è realizzata in Iran (da circa quattro secoli) oltre che in misura minore in Libano, Siria,
Pakistan ed Afghanistan. Condividendo con il sunnismo, il principale ramo islamico, il credo fondamentale
tripartito (unicità divina, autenticità del Libro Sacro ed essenza profetica di Maometto), gli sciiti – da shi’à
(partito) e Alì, ovvero coloro che seguirono Alì, quarto Califfo dell’islam e i suoi due figli Hassan e Hussain
– attendono il ritorno dell’imam nascosto, il dodicesimo imam salvatore del mondo. Anche se divisi in molti
gruppi, Ahmadinejad appartiene a quello più diffuso dei “duodecimani”, che rifiutano i califfati delle prime
due dinastie dell’islam (l’Omayyade e l’Abbaside) e che in nome di un islam autentico cercano di assumere
una leadership mondiale a discapito degli wahhabiti, presenti nella vicina Arabia Saudita. “L’imam nascosto”
– una fortissima convinzione teologica e spirituale dello sciismo iraniano – è in “ritiro dal mondo”
(scomparso) dall’anno 874 e riapparirà per giudicare le colpe degli uomini e guidare i suoi seguaci verso la
vittoria finale dell’islam sugli “infedeli”. Ahmadinejad è convinto che la data del suo arrivo sia prossima
(pochi anni) e durante il suo intervento all’Assemblea generale dell’ONU nel 2005 ha espresso
pubblicamente le sue convinzioni : “Oh Dio onnipotente, io ti prego perché tu affretti la venuta del tuo ultimo
depositario, colui che ci hai promesso, quell’uomo perfetto e puro che colmerà il mondo di pace e di
In politica estera, almeno nelle esternazioni pubbliche, una linea piuttosto definita: lotta
agli Stati Uniti, ad Israele ed all’Occidente intero.
Alla schiacciante vittoria di Ahmadinejad nel ballottaggio per le elezioni presidenziali
della Repubblica Islamica dell’Iran, la Guida Suprema Ali Khamenei ha vietato qualunque
forma di festeggiamento nelle piazze e nelle strade del paese, per evitare provocazioni e
disordini, pur senza dimenticare di aggiungere che gli Stati Uniti sono stati
“profondamente umiliati”.
Il trionfo del regime teocratico – ovvero quel sistema di governo in cui l’autorità politica,
vista come un’emanazione divina, è esercitata dal potere religioso – ricompatta saldamente
il controllo totale delle istituzioni (dopo il parlamento anche la presidenza della repubblica)
sotto la “Guida Spirituale” che incarna i massimi poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
Una tale situazione non può che preoccupare, anche se con diverse interpretazioni, l’intero
Occidente.
Secondo Joanne Moore, portavoce del Dipartimento di stato americano, il voto “non è
stato equo e non ha permesso agli iraniani di esprimere la loro volontà”, mentre per
Donald Rumsfeld, ministro della Difesa statunitense, Ahmadinejad non è un nemico, “ma
neppure un amico […] è giovane, ho letto qualcosa sul suo passato ed è molto vicino agli
Ayatollah, gente che dice ai propri connazionali come devono vivere la propria vita […]
secondo me, presto o tardi, i giovani e le donne si accorgeranno che Ahmadinejad ed i
suoi padroni sono inaccettabili”. Pur condividendo il timore che Ahmadinejad possa
esportare la rivoluzione islamica (ed il terrorismo), perseguire il riarmo atomico e
provocare gravi crisi petrolifere, anche gli analisti americani sembrano sottovalutare il
problema costituito dal “nuovo attore”.
Secondo Robert Hunter, ex consigliere della Casa Bianca per il Medio Oriente, il rischio
che le elezioni presidenziali in Iran possano aprire un solco tra gli Stati Uniti e l’Europa
rimane ridotto al minimo, e per Anthony Zinni, ex capo del “Cen-tcom”, il Comando
centrale americano per il Medio Oriente ed il Golfo Persico, “l’ultima parola spetta al
Consiglio Supremo Islamico, il margine di manovra di Ahmadinejad è limitato”.
In definitiva, analisti e politici americani rimangono convinti che non sia realizzabile
all’interno del paese una spietata repressione contro giovani e donne, così come non sia
politicamente praticabile una diplomazia ferocemente anti-occidentale, “neanche i poveri
vogliono un maggiore isolamento, esploderebbero le tensioni”.
Ma non sono forse proprio i “poveri” i più interessati alla redistribuzione dei profitti
petroliferi piuttosto che ai diritti umani? Ed ancora, non è forse il nucleare – nella sua
percezione di difesa territoriale in chiave anti-occidentale – uno dei principali temi di
aggregazione dell’opinione pubblica iraniana?
Le preoccupazioni dell’Unione Europea – pur nella loro opzione possibilistica – sono
oggettivamente condensate nelle dichiarazioni di Javier Solana (Alto rappresentante Ue per
la politica estera: “lavoreremo con qualsiasi governo aperto ai progressi sulle questioni
che ci dividono”), di Jack Straw (ministro degli Esteri inglese: “invitiamo l’Iran a
sollecitare misure per dissipare le paure internazionali sui suoi programmi nucleari, sulla
sua politica sul terrorismo, sui diritti umani e sul Medio Oriente”), di Joschka Fischer
giustizia”, riportata da Adriano Sofri nel suo articolo “E dopo 11 secoli l’imam riapparirà” pubblicato su
«Panorama» il giorno 8 giugno 2006.
(ministro degli Esteri tedesco : “la collaborazione con l’Iran dipenderà dal recupero della
fiducia degli altri paesi”) e di Philippe Douste Blazy (ministro degli Esteri francese:
“ricordiamo l’impegno di Teheran ad adoperare il nucleare esclusivamente a scopi
pacifici”). Contro corrente soltanto Serge Enderlin, editorialista del quotidiano svizzero
«Le Temps»:
Il risultato può essere spiegato alla luce della politica estera degli Stati Uniti. Nei paesi
che hanno avuto l’onore di essere inseriti dalla Casa Bianca nell’asse del male o tra gli
avamposti della tirannia, assistiamo infatti ad un rafforzamento delle posizioni più
radicali. E’ come se i popoli di questi paesi cercassero, nell’offerta pubblica di cui
dispongono (indubbiamente ridotta), il leader che gli consentirà di opporsi agli Usa
con più forza.
Piuttosto lapidaria, invece, la prima dichiarazione di Vladimir Putin:
Siamo pronti a continuare la cooperazione con l’Iran nel settore atomico, nel rispetto
dei nostri obblighi sulla non proliferazione.
In ogni caso, un nuovo leader del mondo islamico appare sullo scenario geopolitico
internazionale, una variabile in grado di condizionare gli sviluppi futuri e le prospettive
strategiche dell’Occidente.
Dopo quattro anni di tensioni interne al paese e di scontri con la comunità internazionale,
l’Iran torna al voto il 12 giugno 200970.
Il presidente in carica, Mahmoud Ahmadinejad sfida Mohsen Rezae (ex comandante della
Guardia Rivoluzionaria iraniana), Mehdi Karroubi (ex presidente del Majlis) e Mir Hossein
Mousavi e vince le elezioni, nell’accusa di forti brogli e di repressione contro i giovani e le
opposizioni.
Alle elezioni non hanno potuto partecipare – per cavilli burocratici costruiti ad hoc o per
manifesta opposizione di Ahmadinejad e Khamenei – la femminista Rafat Bayat, i leader
indipendenti Akbar Alami e Ghesem Sholeh-Saadi (già rappresentanti del Majilis),
Khatami (che in realtà si è ritirato per sostenere la candidatura di Mousavi), personalità
importanti come Mohammad Bagher Ghalibaf, Gholamali Haddad-Adel, Ali Larijani, Ali
Akbar Nategh Nour, Mostafa Pour Mohammad, Ali Akbar Velayati, Mohammad Reza
Aref, Masoumeh Ebtekar, Mohammad Ali Najafi, Abdollah Nouri, Hassan Rowhan e
soprattutto Akbar Hashemi Rafsanjani, la cui età avanzata gli è stata opposta come
elemento inficiante la sua candidatura.
70
Sul piano interno, per fare alcuni esempi, il presidente si era scontrato nel 2008 con il capo del parlamento
Gholam Ali Haddad Adel per l’approvazione delle leggi sulla cooperazione giudiziaria col Kirghizistan, sugli
investimenti reciproci tra Iran e Kuwait, sulla registrazione di modelli e marchi industriali. Nello stesso anno,
il presidente nomina Ali Kordan come ministro degli Interni: questa decisione viene aspramente criticata dai
parlamentari iraniani, perché su Kordan gravava l’accusa di essersi auto-fabbricato un diploma di dottorato
fasullo. Quando viene votato l’impeachment contro Kordan, Ahmadinejad non partecipa al voto e poco dopo
sostituisce nove membri del suo gabinetto. Nel febbraio 2009 la Suprema Corte dei Conti dell’Iran ha
lamentato l’ammanco di 1.058 milioni di dollari dalle entrate dalla vendita del petrolio, mentre la
Commissione energia del parlamento ha denunciato una spesa di due miliardi di dollari in più sul previsto
acquisto di carburante.
A differenza delle elezioni di quattro anni prima, contrassegnate da una scarsa
mobilitazione dei cittadini iraniani e da un atteggiamento sostanzialmente passivo, prima e
dopo l’elezione del vecchio sindaco di Teheran tutta la società civile e i giovani, tanto nelle
piazze quanto in rete, iniziano ad organizzarsi e a protestare. È l’inizio dell’onda verde, o
Twitter Revolution, tanto esaltata quanto snobbata in Occidente.
Alle proteste si sono uniti registi come Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof (condannati a 6
anni di prigione), attori e attrici come Pegah Ahangarani e Ramin Parchami (imprigionati
entrambi) e diversi calciatori della squadra nazionale di calcio che hanno indossato a Seul
– nel corso di una partita contro la Corea valevole per la qualificazione al mondiale in Sud
Africa – dei braccialetti col colore della protesta (il verde71).
La gestione delle elezioni e i risultati sono stati duramente contestati da Usa e Regno Unito
e hanno destato preoccupazione nell’Unione Europea.
Mousavi ha rilasciato una dichiarazione accusando il ministero dell'Interno, che è stato
responsabile per lo svolgimento delle elezioni, di brogli diffusi e ha esortato i suoi
sostenitori a impegnarsi in proteste pacifiche. Ha anche presentato un ricorso ufficiale al
Consiglio dei Guardiani per la ripetizione delle elezioni.
Dal canto suo, il leader supremo ayatollah Ali Khamenei ha invitato la nazione a riunirsi
attorno ad Ahmadinejad ed ha etichettato la sua vittoria come frutto della "volontà divina".
Khamenei ha poi annunciato che ci sarebbe stata un’indagine per verificare l’esistenza di
brogli nei risultati elettorali; un’indagine puramente simbolica, visto che il Consiglio dei
Guardiani il 16 giugno 2009 certifica la regolarità del voto, nelle proteste di Mousavi e
delle altre opposizioni.
«Il Telegraph» ha definito la campagna elettorale del 2009 come "insolitamente aperta per
gli standard iraniani, ma anche molto aspra". I continui riferimenti al nazismo
(Ahmadinejad definisce seguaci di Hitler i suoi avversari) e alla cospirazione contro l’Iran
hanno accompagnato tutto il periodo che ha preceduto e seguito le elezioni.
Mousavi imposta tutta la sua campagna su rivendicazioni di democrazia nel paese, sulle
accuse circa la crisi economica del paese (nel 2009 un cittadino iraniano su cinque viveva
sotto la soglia di povertà e l’inflazione era a circa il 25%) e il calo di ricavi sul petrolio.
Mousavi – che vedeva tra i suoi sostenitori le classi medio-alte del paese e i settori
democratico-progressisti delle potenze occidentali – caldeggiava al contempo l’apertura
del paese ad una economia di mercato e alle privatizzazioni, il superamento
dell’isolamento dovuto alle dichiarazioni anti-ebraiche dell’ex sindaco di Teheran e la
costituzione di un consorzio internazionale per la supervisione degli studi
sull’arricchimento dell’uranio.
Non a caso, Mohamad Bazzi – giornalista libanese e americano, docente nella New York
University e giornalista presso il Council on Foreign Relations – ha dichiarato:
Se Mousavi vince potrebbe creare una nuova apertura di dialogo con gli Stati
Uniti. La continua presenza di Ahmadinejad sarebbe un grosso ostacolo.
Mentre la Bbc manifestava un sostegno più cauto e ponderato a Mousavi – senza alcuna
illusione sulla possibile riappacificazione tra Iran e comunità internazionale – il giornalista
Robert Fisk (corrispondente dal Medio Oriente per il quotidiano britannico «The
71
Il verde è il colore per eccellenza dell’islam, ma è anche uno dei tre colori della bandiera nazionale
iraniana.
Independent») azzardava che la vittoria di Mousavi avrebbe più che appagato gli Stati
Uniti.
Argomenti facili da controbattere per Ahmadjnejad che godeva del sostegno delle classi
urbani e rurali più povere del paese, sui pensionati, sui meno istruiti (oltre che sui
funzionari di stato) e che ha avuto vita facile nel denunciare l’intelligenza di Mousavi con
il nemico, l’apertura dell’avversario all’ideologia occidentale, un complotto dei poteri forti
per colpire le classi disagiate.
Nella campagna si è stabilito anche il record dei costi per la sponsorizzazione dei due
leader, quantificabile in decine di milioni di dollari. La propaganda ha viaggiato sul web,
su cd, dvd e sui telefoni cellulari: sono partiti circa sessanta milioni di sms al giorno con
una spesa di circa 110 milioni di euro.
I sondaggi indipendenti che hanno preceduto le elezioni davano Ahmadinejad in forte calo,
nonostante fosse sconsigliato pronunciarsi contro il presidente sia dal lato degli intervistati
sia dal lato degli intervistatori, in specie dopo la chiusura della società di sondaggi più
attendibile del paese, la «Ayandeh72».
Un sondaggio indipendente, condotto da Terror Free Tomorrow: The Center for Public
Opinion, un istituto che valuta l’impatto degli estremismi sulle popolazioni, ha rivelato
invece che Ahmadinejad godeva del doppio dei consensi rispetto al primo avversario.
Il 34% ha detto che avrebbe votato per Ahmadinejad, il 14% si è pronunciato a favore di
Mousavi, il 2% sosteneva Karroubi, l’1% è Rezaee. Circa il 27% dei sondati ha espresso
indecisione. Il sondaggio, però, è durato solo 7 giorni ed è stato effettuato un mese prima
delle elezioni.
Con l’inizio della campagna elettorale e dopo le prime apparizioni televisive dei candidati,
il clima si accende. Il 1° giugno viene incendiato l’ufficio di Mousavi nella città di Qum.
Anche l’ex presidente Khatami, sostenitore di Mousavi, subisce gravi intimidazioni, fino al
tentato omicidio per mezzo di una bomba collocato su un aereo sul quale viaggiava.
Dal 23 maggio 2009 al 26 maggio 2009, il governo iraniano blocca temporaneamente
l’accesso a Facebook in tutto il paese, stante la crescita dei gruppi contro la rielezione di
Ahmadinejad e l’aumento dei sostenitori alla pagina Facebook di Mousavi.
Per circa un mese si alternano voci su un possibile colpo di stato (per difendere
Ahmadinejad, secondo alcuni; per eliminare il presidente, prima ancora delle elezioni,
secondo altri) e annunci di brogli. I giornali di tutto il mondo (come il New York Times,
The Guardian e Il New Yorker) citano fonti interne al ministero dell’Interno per dimostrare
l’esistenza di brogli invalidanti i voti per Mousavi e per incrementare i risultati a favore del
presidente uscente.
Effettivamente, vi sono stati almeno trenta seggi elettorali con affluenza oltre il 100% e
tanti altri con affluenza al 95%. In circa cinquanta città – stando alla dichiarazione del
portavoce del Consiglio dei Guardiani – il numero dei voti espressi ha superato il numero
degli aventi diritti al voto, anche se il governo ha subito chiarito che le persone non hanno
l’obbligo di votare dove sono registrate.
72
Abbas Abdi, amministratrice del sito, è stata arrestata a casa sua il 4 novembre 2002, sotto l’accusa di
complottare con società straniere e di ricevere fondi dagli Usa.
Il 12 giugno 2009 si va al voto e i risultati ufficiali decretano la vittoria dell’alleanza dei
costruttori di Ahmadinejad con il 62,63% dei consensi. Il Movimento Verde raccoglie il
33,75% dei voti e il movimento di Moderazione e Sviluppo di Rezaee si ferma.
L’affluenza è stata dell’85% degli aventi diritto, una cifra record per l’Iran. Giovani e
meno giovani, che negli ultimi appuntamenti elettorali avevano disertato le urne, si
mettono in fila per votare.
Sul mio voto non ho scritto solo un nome, sulla mia scheda ho tracciato i miei sogni,
ha scritto su Facebook, il giorno delle elezioni, un giovane d’Ishafan. Una frase
diventata un ritornello e ripetuta dai giovani durante le recenti manifestazioni di
protesta, che si sono svolte in Iran come nel resto del mondo. Nelle settimane
precedenti al voto, Facebook si è trasformato in una vera e propria bacheca elettorale,
dove centinaia di migliaia di iraniani, che in pochi giorni sono entrati a far parte di
questo network sociale, facevano campagna pro e contro le elezioni, molto pro e pochi
contro, e chiedevano il voto per i due candidati dell’area riformista-pragmatica. Chi
voleva capire cosa stava succedendo in Iran durante la campagna elettorale, era
costretto a sfogliare le pagine degli iraniani iscritti su Facebook. Minuto per minuto,
tutto quello che succedeva nelle varie città iraniane, durante i dibattiti televisivi, nei
meeting dei candidati, approdava su internet. Tutti i candidati si sono sentiti costretti
ad aprire una loro pagina su Facebook73.
Il risultato – scontato già da diverse settimane – viene contestato dal grosso degli
oppositori, che nonostante tutto non riescono a dimostrare alcun imbroglio o operazione
atta ad alterare il voto.
Sadeq Saba, analista iraniano della Bbc, ha riscontrato anomalie solo nella comunicazione
ufficiale dei risultati, annunciati per blocchi di voti anziché per province. Dal punto di vista
politico, ha sorpreso la vittoria di Ahmadinejad non sono nelle zone rurali e nei quartieri
popolari – da sempre suo bacino elettorale – ma anche e soprattutto nelle grandi città e
nelle regioni e province dei candidati d’opposizione.
Secondo Karimi Davood, presidente dell’associazione rifugiati politici iraniani in Italia,
il dato sull’alta affluenza alle urne per le elezioni presidenziali in Iran fa parte della
fiction del regime dittatoriale per far credere alla comunità internazionale che le
elezioni siano libere74
Davood ha anche sostenuto che l’ayatollah Ali Khamenei avrebbe favorito il presidente,
ordinando il noleggio di migliaia di bus e pulmini sotto il controllo dei basiji per spostare
uomini e donne da una parte all’altra della capitale per far apparire masse di votanti nelle
inquadrature televisive.
Davood ha infine aggiunto che in Iran, durante le elezioni, viene apposto un timbro sulla
carta d’identità di ogni votante: un timbro che garantisce l’accesso a qualsiasi tipo di
servizio, spingendo le fasce più povere verso le urne elettorali.
Pochi giorni dopo l’elezione si scopre l’esistenza di un video clandestino – pubblicato da
Bernard-Henry Levy su Facebook, poi finito su Youtube – che mostra il presidente
iraniano ringraziare i suoi alludendo ai brogli riusciti. Il documento, nello specifico,
73
Ahmad Rafat, Iran La rivoluzione Onlie (L’onda verde che travolge il paese degli ayatollah), Firenze, Cult
Editore, 2009.
74
http://www.ilgiornale.it/news/iran-affluenza-all80-prorogata-chiusura-urne-mousavi-rischio.html
riprende il presidente mentre arringa una quindicina di religiosi iraniani in turbante bianco
e nero, alla presenza del suo mentore, l’ayatollah Mesbah Yazdi.
Levy ha spiegato al Corriere della Sera, che
Ho deciso di mettere quel filmato sulla mia pagina di Facebook perché la gente deve
sapere. E perché i giovani e l'opposizione in Iran non vanno lasciati soli in questo
momento. È un atto di solidarietà come cittadino, anche se non so chi l'abbia ripreso,
né chi l'abbia inviato75.
Nel video, racconta il Corsera, oltre dieci minuti di audio e immagini scadenti e
probabilmente filmato di nascosto con il telefonino da un partecipante, Ahmadinejad
sussurra con voce e occhi bassi rivolgendosi ai “cari” invitati, seduti a un tavolo ingombro
di fiori e microfoni. Dice di essere a Qom, la città santa sciita dove risiede e predica
Mesbah Yazdi (e molti altri ayatollah anche dell'opposizione, come Ali Montazeri o
Yousef Sanei). Ringrazia i presenti per i “servigi” offerti, dice che questi serviranno a
preparare finalmente una “grande vittoria, perché i tempi sono propizi”.
Quel ringraziamento riguarderebbe i brogli che hanno consentito al presidente di vincere,
anche se molti sostengono sia precedente al voto e che il grazie sia invece per la
preparazione delle elezioni truccate.
Il giorno dopo iniziano le proteste di piazza. Inizialmente pacifiche, diventano con il
passare del tempo sempre più violente. A Teheran si bruciano pneumatici fuori dal palazzo
del ministero dell’Interno, si formano catene umane attorno ai palazzi del potere, si
rompono finestre e vetrine dei negozi.
«Al Jazeera Inglese» descrive la situazione del 13 giugno come la più grande agitazione
dopo le proteste studentesche del 1999.
Nel giro di poche ore, con una serie di raid a Teheran, il governo arresta “ufficialmente“
circa centosettanta persone, tra cui Behzad Nabavi e Mohsen Mirdamadi – fondatore del
Mojahedin of the Islamic Revolution Organization (Miro) – Mohsen Mirdamadi –
fondatore dell’Islamic Iran Participation Front (Iipf), la cui sede viene distrutta della
polizia – e il fratello dell’ex presidente Khatami. Vengono arrestati, secondo fonti non
ufficiali, anche duecento studenti dell’università di Teheran.
Le accuse sono sempre le stesse: collusione con i media stranieri, sovversione contro
risultati elettorali e democrazia iraniana, odio antireligioso, terrorismo. Le forze dell’ordine
esibiscono anche degli ordini e degli esplosivi che, a loro giudizio, i ribelli avrebbero
utilizzato di lì a breve nelle piazze. Nell’arco di tre giorni, il numero di arrestati sale
ufficialmente a cinquecento.
A detta degli analisti occidentali, questa è la grande occasione per far piazza pulita degli
oppositori e mettere in atto l’islamizzazione forzata del paese, a detrimento delle
aspirazioni democratiche e dei richiami laici di un settore (minoritario) di giovani studenti.
«Al Jazeera Inglese» parla di censura mediatica e denuncia che i principali giornali del
paese sono stati costretti a cambiare notizie e titoli degli editoriali nei giorni della protesta.
Il corrispondente della «Bbc», John Simpson, viene arrestato e il suo materiale confiscato.
75
Cecilia Zacchinelli, Il video clandestino di Ahmadinejad “La nostra rivoluzione è planetaria”, Corriere
della Sera, 26 giugno 2009.
http://www.corriere.it/esteri/09_giugno_26/video_clandestino_ahmadinejad_2339058a-6218-11de8ba1-00144f02aabc.shtml
Gli uffici della «Nbc notizie» vengono perquisiti e molte telecamere vengono sequestrate.
Stessa cosa accade al giornalista Jim Sciutto della «Abc News». I corrispondenti delle
emittenti tedesche «Zdf» e «Ard» subiscono molestie e colpi di manganello.
Il 13 giugno 2009, il primo giorno di protesta post-elettorale, il governo decide di ri-filtrare
Facebook e di bloccare alcuni siti d’informazione, tra cui quelli collegati alla «Bbc».
Diventa quasi impossibile inviare sms in tutto il paese, il che costringe i manifestanti ad
organizzarsi via mail, per telefono e con il semplice passaparola.
Alle dichiarazioni di Ahmadinejd che sostiene:
Non preoccupatevi per la libertà in Iran. I quotidiani vanno, vengono e riappaiono,
la «Cnn», in accordo con il Dipartimento di stato degli Stati Uniti, lavora con Twitter per
ampliare l’accesso del sito in Iran.
Nel frattempo, tra i più giovani continua a montare la rabbia.
“Sono andato a letto sognando l’America, mi sono svegliato trovandomi in Iraq”, ha
scritto su Twitter, il giorno dopo le elezioni, uno studente di Shiraz. Twitter diventa
popolare in Iran con l’inizio delle manifestazioni e delle contestazioni. La frase where
is my vote (dov’è il mio voto?) è diventata simbolo dell’onda verde iraniana, è stata
scritta per la prima volta da uno sconosciuto militante riformista iraniano proprio su
twitter. I giovani iraniani sono abituati ad andare a letto con un bellissimo sogno e
svegliarsi la mattina successiva prigionieri di un incubo. Non è nemmeno la prima
volta che i giovani scendono per le strade e occupano le piazze, contestando il regime
e chiedendo libertà. Avevano sognato 12 anni fa, quando andando a votare in modo
massiccio regalarono la vittoria a Mohammad Khatami. Si sono risvegliati da questo
sogno due anni dopo, quando le promesse di apertura di Khatami si sono sbriciolate.
Fu la chiusura del quotidiano riformista «Salam» a scatenare la famosa rivolta
studentesca del 9 luglio 1999, ma anche in quell’occasione le vere ragioni delle
contestazioni erano le stesse di oggi 76.
Facebook e Twitter sembrano rappresentare da questo preciso momento il fulcro sul quale
si reggeranno le comunicazioni dei giovani contestatori.
Ma, come ricorda Ahmad Rafat, i cambiamenti politici in Iran sono sempre stati
accompagnati dalle moderne tecnologie di comunicazione. Già la rivoluzione del 1979 era
stata definita, tanto per fare un esempio, la rivoluzione della audiocassette, perché al
tempo un gruppo di giovani islamici guidati da Mohsen Sazegara aveva divulgato, su
cassetta e in tutto il paese, i discorsi che Khomeini registrava nella cittadina francese di
Neauphle-le-Chateau. Un metodo efficace, tanto da spaventare il regime monarchico e
indurre il generale Gholamreza Azhari a screditare gli avversari definendoli “solo una
cassetta”.
Nel 1999 e nel 2003 le notizie delle rivolte passarono sui telefonini e sui blog, grazie ai
quali i giovani riuscirono a costruire una rete fortissima di contatti che attraversava tutte le
città del paese e diversi quartieri di Teheran.
Gli iraniani hanno una lunga tradizione in fatto di blog. Il numero di blog generati
dagli iraniani in lingua farsi, inglese, francese, tedesco e italiano e tante altre, non è
conosciuto, ma per avere la dimensione della diffusione del fenomeno tra gli internauti
iraniani, basti pensare che il farsi è la terza lingua utilizzata dai blogger nel mondo. Un
76
Ahmad Rafat, Iran La rivoluzione Online (L’onda verde che travolge il paese degli ayatollah), Firenze,
Cult Editore, 2009.
altro dato interessante è il numero degli iscritti a blogfa, la prima e la più importante
piattaforma per i blogger iraniani, sono oltre due milioni le persone che utilizzano i
servizi di questa piattaforma. Il fenomeno è talmente diffuso nella Repubblica
Islamica, che l’anno scorso (2010, ndr) il governo presieduto da Mahmoud
Ahmadinejad ha presentato un progetto per il finanziamento e la realizzazione di
10.000 blog da mettere a disposizione dei miliziani del basij e dei militari dei
Pasdaran. Il fenomeno, sostengono gli esperti, è destinato a diffondersi anche alla luce
del fatto che la popolazione urbana nella Repubblica Islamica è in forte crescita.
Ormai il 70% dei cittadini iraniani vive nelle città ed ha accesso ad internet. Secondo
alcuni dati, ogni giorno circa 7 milioni di iraniani sfogliano i blog in lingua farsi. Un
dato, che, se confermato, fa dei blog il giornale più letto e diffuso nel paese. Nella
Repubblica Islamica, già nel periodo precedente all’inizio della campagna elettorale
per le presidenziali, il 32,3% dei blog trattavano temi di attualità politica o di dibattito
politico. Negli altri paesi, soprattutto quelli occidentali, è lo sport a dominare il mondo
dei blogger77.
Non va sottovalutato il fatto che il web può essere percepito da cittadini scontenti del
proprio regime come uno spazio di resistenza, lo stesso immaginario viene evocato in un
contesto religioso dalla comunità sciita, e tutte le dinamiche e variabili dello sciismo
trovano spazio sul web, a partire dal motore di ricerca Shiaserarc.com. Interpretazione di
precetti e pratiche religiose, chat e forum nei quali si parla di fede, diffusione di fatwa on
line, fino alla possibilità di partecipare in maniera virtuale ai rituali religiosi.
Tramite la ete è così possibile partecipare a incontri e cerimonie appartenenti a tutto
l’universo rituale della dottrina, compresi anniversari e momenti importanti dell’anno
religioso; alcuni servizi permettono di recapitare messaggi in particolari siti di
pellegrinaggio, mentre dal sito www.imamreza.net è possibile scaricare un software che
permette la navigazione interattiva e tridimensionale del complesso di Mashhad, dove è
ospitato il sacrario dell’imam Rida.
La possibilità di incontro tra le comunità che vivono in paesi a maggioranza e dominio
sciita con quelle in diaspora o quelle che vivono in paesi a maggioranza e dominio sunnita,
sono altri valori aggiunti. Lo sciismo sul web si rivolge per natura a tutti i fedeli del
mondo, ma si ripropone anche in rete il carattere iranocentrico del mondo sciita. Le lingue
più usate in questi siti sono il persiano, l’inglese e l’arabo.
L’universo del web sciita presenta almeno quattro produttori di siti e contenuti: le
istituzioni educative, le istituzioni religiose governative, le istituzioni private e una marea
di individui e piccoli gruppi di volontari. Tutti i seminari e i centri religiosi in Iran hanno
una propria connessione e un proprio sito di propaganda.
Una delle massime espressioni di leader religioso online è quella dell’ayatollah Sayyd Ali
Husaini Sistani, promotore e punto di riferimento dell’Aalubayt Global Information Center
di Qom, rintracciabile al sito www.al-shia.com, disponibile in una trentina di lingue e
promotore, tra l’altro, di un servizio che permette di andare online anche ad altri siti di
religione sciita tramite un server presente in California. L’ayatollah Sistani è inoltre la
guida del Centro tecnologico di Najaf che, a detta di molti, è la più influente autorità
religiosa sciita del mondo; ha anche un suo sito personale: www.sistani.org.
La rete creata da Sistani coinvolge in pratica tutti i paesi nei quali è presente una comunità
sciita. La maggior parte di questi siti offre un’ampia serie di immagini, una struttura e uno
77
Ahmad Rafat, Iran. La rivoluzione Onlie (L’onda verde che travolge il paese degli ayatollah), Ivi, pp. 2526
sfondo ben curati nei dettagli e un discreto grado di interattività; in essi, testi sacri e
descrizioni storiche dei principali personaggi che hanno fatto la storia della dottrina e della
fede. E poi ancora servizi tarati sulle comunità in diaspora: indirizzi di moschee,
commercianti e ristoranti che servono cibo trattato secondo la tradizione mussulmana,
indirizzi e contatti di medici, avvocati e professionisti sciiti. Esistono siti che combinano
incontri matrimoniali su base religiosa. Infine, molti siti promuovono un vero e proprio
merchandising online di oggetti religiosi e materiale religiosamente corretto78.
Twitter entra in scena subito dopo l’annuncio dei risultati elettorali e in poche ore diventa
uno strumento indispensabile per i manifestanti. Dopo una settimana, scendono in pista
direttamente i vertici di Google e Facebook per aiutare le proteste.
Google introduce subito un programma che traduce blog, articoli di stampa e messaggi di
testo dall’inglese al farsi e viceversa, una delle prime versione in farsi di Google Translate.
Facebook presenta una sua versione sperimentale in lingua persiana, con l’aiuto di
quattrocento giovani volontari.
Il governo prova subito a bloccare alcune attività come quella di caricare foto in alta
qualità su siti come Flickr o filmati su Youtube, riducendo la velocità di connessione.
Blocca Facebook per svariate ore e si mette sulle tracce dei blogger più attivi.
D’altronde, il blocco di potere sciita che controlla il paese in questo lavoro ha sempre
avuto vita facile. Il sistema di controllo, sorveglianza, censura e filtraggio del web iraniano
è secondo solo a quello cinese.
L’Iran ha sempre curato gli aspetti giuridici, tecnici e amministrativi legati ad internet ed è
l’unico paese “non democratico” (Cina a parte) ad aver sviluppato una tecnologia propria
per il filtraggio della rete. Questo filtraggio è stato implementato nell’ordinamento
giuridico grazie a svariati decreti passati al vaglio del Consiglio Supremo della
Rivoluzione Culturale (Scrc) e la Commissione incaricata di determinate i siti non
autorizzati (Ccdus), che ha istituito i criteri con i quali devono essere riconosciuti i siti e i
contenuti da inserire nelle liste. Tutti questi enti e questi organismi, insieme con il
ministero della Comunicazione e della Tecnologia dell’Informazione (Mict), formano una
rete di supervisori che collabora direttamente con l’intelligence e i servizi segreti79.
Ahmad Rafat ricorda che l’ultimo blogger che aveva pagato con la vita la sua indipendenza
si chiamava Omid Reza Mir Sayyaf. Arrestato per una lettera aperta indirizzata alla Guida
Suprema, nella quale denunciava alcuni scandali riguardanti il mondo dell’arte, è morto nel
carcere Evin di Teheran il 18 marzo 2009. Soffriva di asma e di una forma acuta di
depressione. In preda ad una crisi, è stato trasferito nell’infermeria del carcere, ma secondo
la testimonianza del dottor Hesam Firouzi, il giovane blogger che aveva solo 29 anni non
fu soccorso in tempo e non ha ricevuto nemmeno l’attenzione necessaria che potesse
evitarne la morte.
Il primo blogger iraniano è stato arrestato nell’aprile del 2003. Si chiamava Sina Motallabi
ed ora lavora per la «Bbc». Dopo di lui sono finiti in carcere circa settanta blogger.
In questo lavoro di controllo e censura, il governo iraniano non agisce da solo. Negli ultimi
anni, Ahmadinejad ha goduto del supporto tecnologico dell'azienda tedesca «Siemens» e
della finlandese «Nokia», che nel 2008 hanno messo a punto un sistema di monitoraggio
per la società statale di telecomunicazioni della Repubblica Islamica.
78
Marco Ciaffone, Paesi Modello, lareteingabbia.net
79
Marco Ciaffone, Paesi Modello, op.cit.
Ben Roome, portavoce della «Nokia-Siemens», in un’intervista rilasciata a Repubblica il 2
luglio 2009, ha dichiarato che: “se tu vendi la rete cedi anche la capacità di intercettare
qualsiasi comunicazione”.
Secondo Marco Ciaffone (lareteingabbia.net) le radici del controllo web iraniano sono da
rintracciare nel 2001, quando fu imposto a tutti i provider operanti in Iran di
interconnettersi e di fornire il servizio solo tramite la compagnia controllata dal regime, la
Tci. Nel 2006, inoltre, il ministero delle Comunicazioni, delle Tecnologie e
dell’Informazione inviava agli Isp (Internet Service Provider) del paese l’ordine di fornire
solo una connessione lenta, per fermare i collegamenti ai siti del web 2.0 e per filtrare con
maggiore facilità gli accessi. Nel 2008, con il Bill of Cyber Crimes Sanction si sono
introdotte ulteriori strette su licenze e responsabilizzazioni dei provider, obbligati anche a
conservare nel dettaglio i dati di navigazione e a fornirli alle autorità
Nondimeno, Ahmadinejad non ha rinunciato alla sua personalissima battaglia “attiva” in
rete. I sostenitori del governo hanno una presenza più che costante nel mondo virtuale. Nei
giorni successivi alle elezioni gli uomini del presidente hanno aperto siti per denunciare
Mousavi e per boicottare le manifestazioni. Subito dopo la cerimonia del giuramento e
l’inizio del secondo mandato presidenziale, Mahmoud Ahamdinejdad ha fatto indire un
concorso, rigorosamente riservato a chi ha accesso ad internet, che consisteva nello
scrivere una lettera indirizzata al Mahdi.
Ma nel 2009 i provvedimenti del governo per fermare la rete risultano inefficaci. La
comunità iraniana residente all’estero riesce a diffondere in tutta tranquillità buona parte
delle notizie provenienti da Teheran. Ad una giovane manifestante, Sara, particolarmente
attiva nelle piazze, disattivano la connessione domestica, ma la giovane riesce prontamente
ad eludere la limitazione spostandosi in un internet caffè.
Intervistata da «Politica e Società», rilascia queste dichiarazioni:
Sara, i sostenitori di Mousavi sono scesi in strada per contestare il risultato
elettorale che vedrebbe Ahmadinejad vincitore. Eppure ieri erano in molti anche a
favore del nuovo presidente scesi in corteo.
Mousavi ha più sostenitori di Ahmadinejad nelle grandi città come Teheran,
Shiraz, Esfahan, Ahvaz, Rasht e Karaj. Tuttavia, i fan del regime sono più
organizzati e dispongono dei mezzi di comunicazione, ovvero tv di stato, radio
e giornali. Per rispondere alle proteste dei giorni scorsi il governo ha mandato
alcuni bus nelle città limitrofe per raccogliere i sostenitori del regime che la
polizia, ovviamente, lascia liberi di sfilare per le strade.
A Teheran protestano, ma nessuno parla del resto del paese. Che cosa succede
oltre la capitale?
Le proteste non sono solo a Teheran. Su YouTube ci sono video di rally
organizzati in altre città iraniane. L'esercito e Basij hanno attaccato le
università di Esfahan, Shiraz, Mashhad e Tabriz. Ieri, il rettore di Shiraz ha
rassegnato le dimissioni dopo le violenze contro gli studenti.
Khamenei ha proposto il riconteggio dei voti solo in alcuni seggi ma ha ribadito
che, in ogni caso, non si andrà a nuove elezioni. Quindi, con ogni probabilità,
Ahmadinejad è il nuovo presidente. Credi che si spegnerà il fuoco delle proteste?
No. Credo che proseguiranno fino a che Mousavi e Karoubbi non otterranno il
rinvio a nuove elezioni.
La rete ha avuto un ruolo importante in questi giorni e tra Facebook, Twitter e
YouTube il dissenso contro Ahmadinejad è arrivato in tutto il mondo. Qual'è la
situazione al momento?
Peggiora di giorno in giorno. Il governo ha bloccato l'invio e la ricezione di
sms, i cellulari non funzionano la notte e alcuni sono fuori uso anche di giorno.
Hanno oscurato molti siti, incluso quello di Mousavi e dei suoi sostenitori. La
scorsa notte hanno bloccato anche Yahoo! Messenger e-mail, Skype e Gmail.
Vogliono isolarci, è evidente. Sanno che sul web riceviamo aggiornamenti e
notizie dai nostri amici.
Ieri Mousavi ha invitato i suoi sostenitori a non scendere in piazza. Perché?
Il ministro degli Interni non ha riconosciuto le proteste che, dunque, sono
illegali. La polizia e i basij sono a favore di Ahmadinejad e si arrogano il diritto
di scagliarsi contro i manifestanti.
Credi che si siano verificati brogli elettorali in queste elezioni?
Si, ci sono molte ragioni.
Ci sono state avvisaglie?
Si. Prima delle elezioni un membro del ministero degli Interni aveva
indirizzato una lettera anonima a politici e leader religiosi, avvisando dei brogli
che ci sarebbero stati. Alla lettera, il governo ha replicato con una purga al
ministero degli Interni.
E Ahmadinejad come ha contribuito?
A due mesi dal voto è andato a fare campagna elettorale nelle regioni più
povere che ha finanziato con un apposito piano governativo.
Ed ai seggi?
Le urne non sono state sigillate di fronte agli scrutatori dei 45.000-50.000 seggi
che hanno subito anche il blocco degli sms durante il voto. Per loro era uno
strumento indispensabile che consentiva di comunicare con i candidati. Inoltre,
il ministero degli Interni non ha accettato il 20% degli scrutatori di Mosavi.
E sulle schede?
Hanno detto di avere stampato circa 56 milioni di schede elettorali, anche se
solo 44 milioni di persone hanno diritto di voto. Poi i sondaggi.
Ovvero?
Prima delle elezioni erano a favore di Mousavi80.
Chris Kelly, tra i massimi dirigenti di Facebook, ha definito sorprendente l’uso dei social
network e di Facebook da parte dei giovani iraniani nei giorni della proteste post-elettorale.
Gli iraniani non solo hanno utilizzato Facebook per raccontare eventi e fatti, per
comunicare tra di loro e per trasmettere notizie ed immagini, ma cambiando i loro
profili e colorando di verde le pagine, hanno portato alla luce un’altra funzione che un
sito come il nostro potrebbe avere, cioè quella di diventare un punto d’incontro tra
persone che, all’interno di un paese o dall’esilio, lavorano per un cambiamento
politico sostanziale.
80
Eleonora Bianchini, Teheran contro Ahmadinejad, parla Sara: sms bloccati, brogli elettorali e gli
scrutatori di Mousavi, http://politicaesocieta.blogosfere.it/2009/06/teheran-contro-ahmadinejad-parla-sarasms-bloccati-brogli-elettorali-e-gli-scrutatori-di-mousavi.html
La rivoluzione dei giovani iraniani non si è fermata solo ai social network, ma si è mossa
in modo diffuso anche per le vie telematiche più classiche, come gli indirizzi e-mail.
Ahmad Rafat, autore di Iran: la rivoluzione online, ha dichiarato di ricevere oltre 500
messaggi di posta elettronica sulla sua casella personale provenienti proprio da giovani
iraniani e confidenze – drammatiche ma emblematiche delle esperienze vissute in quei
giorni da chi aspirava ad un cambiamento – come queste:
Caro Ahmad, scusami se non ti do del lei. Non ti conosco, ma ti considero un fratello
maggiore. Mia sorella maggiore, che è fuggita dall’Iran qualche anno fa e vive in Italia, ti
conosce e più volte mi ha parlato di te come una persona per bene, uno che aiuta chi ha
bisogno. Ed io ho tanto bisogno di parlare con qualcuno. La storia che ti voglio
raccontare non l’ho raccontata nemmeno a mia sorella. Non l’ho mai raccontata a
nessuno della mia famiglia e nemmeno ai miei amici. Non ne ho avuto il coraggio. Da
quando, qualche giorno prima delle elezioni, sono uscito dal carcere vivo in una nuova
cella: la mia stanza a casa di mia madre. Non vedo nessuno e soprattutto non parlo con
nessuno. Sono stato arrestato l’ultimo martedì dell’anno […] non avevo fatto nulla di
male, se non festeggiare la fine dell’anno e saltare sui falò. Forse ci hanno arrestato
perché all’attivo dei poliziotti abbiamo gridato: “Noi esistiamo!”. Arrestarono me ed altri
tre miei amici. Ci hanno “consegnati” qualche ora dopo, insieme ad una ventina di altri
ragazzi, a quelli dell’ufficio di Monkerat che ci hanno rinchiusi in una stanza piccola e
umida. Eravamo in ventotto, tutti giovani. Avevamo paura, ma non tanta. Pensavamo che
la mattina dopo tutto sarebbe finito con un sermone. Abbiamo passato la notte scherzando
e ridendo. Fu l’ultima volta che ho riso. La mattina successiva ci hanno portato in un
corridoio lungo e stretto. Ci hanno costretto a passare attraverso due file di uomini armati
di spranghe e manganelli. Lo chiamavano “il tunnel”. Ci hanno riempito di botte. Poco
dopo mi hanno separato dagli altri. Mi hanno legato le mani dietro la schiena e trasferito
in un altro edificio, mi hanno gettato in una stanza buia. Due giorni dopo sono rimasto in
questa stanza, con le mani legate, senza acqua e cibo. Il terzo giorno mi si presentò un
tipo. Era grosso e con un sorriso sulle labbra che non prometteva nulla di buono. Mi
disse: “vieni, vieni bel ragazzo che ora tocca a te”. Ho pensato subito che mi avrebbero
interrogato. In fin dei conti era quello che volevo. Avrei potuto chiarire ogni equivoco e
tornare libero. Non avevo fatto nulla. Mi aspettavo una stanza luminosa, un tavolo e
alcune sedie, un registratore, il poliziotto buono e quello cattivo, come avevo viste tante
volte in televisione e nei film. Non fu così. Il tizio che mi aveva prelevato dalla cella mi
chiese di spogliarmi. Mi disse di togliermi anche le mutande. A questo punto entrarono
altre due persone in stanza. Mi legarono le mani con una corda ad una sedia e mi
violentarono uno dopo l’altro. Volevo morire, non per il dolore che era forte, ma per la
vergogna. Non avevo nemmeno la forza di gridare. Ero ammutolito. Mi riportarono in
cella. Ho vomitato tutto il giorno. Non sapevo se quello quello che mi era successo era un
brutto sogno, un incubo, o una verità ancora più brutta. Il giorno dopo, si presentò in
cella nuovamente lo stesso energumeno. Questa volta, accompagnato da un certo Hasan,
oltre che agli altri due del giorno prima. Mi chiese se mi era piaciuto. Sputai per terra
come risposta. Mi legarono nuovamente, mi riempirono di calci e nuovamente mi
stuprarono. Questa volta in tre. Sono svenuto. Mi risvegliai in un’altra cella, con i
pantaloni bagnati di sangue. In questa cella c’erano altre persone. Uno cercò di farmi
mangiare pezzi di pane ammuffiti bagnati in una brodaglia. Nessuno mi chiese nulla e io
non dissi niente. Le parole non servivano. Dopo un paio di settimane, mi portarono dal
giudice, o almeno così si presentò l’uomo che mi trovai davanti. Mi chiese di mia sorella,
quella che oggi vive in Italia. Chiese come era fuggita, chi l’aveva aiutata a passare il
confine illegalmente e quanto avevamo pagato. Disse che mia sorella era una puttana, che
era fuggita dall’Iran perché voleva andare a letto con gli stranieri. Solo allora capii
perché non ero stato rilasciato insieme ai miei amici. Al giudice parlai degli stupri. Non
mi rispose. Finito l’interrogatorio, sulla via di ritorno nella cella, mi portarono in uno
sgabuzzino e mi violentarono di nuovo, questa volta con una spranga di metallo. Non una
volta, ma più volte. Poi nessuno si interessò più di me per tre settimane, fino a quando un
giorno mi prelevarono dalla cella, mi portarono in infermeria, mi iniettarono qualcosa,
credo un antidolorifico, mi diedero dei vestiti puliti, mi permisero di lavarmi, mi
caricarono su una macchina e mi lasciarono sull’autostrada che da Teheran porta a
Karaj. Ero perso, stordito. Mi ricordo che si fermò un camion. L’autista mi chiese chi mi
aveva ridotto in quello stato. Gli raccontati che avevo litigato con alcuni amici, che mi
avevano riempito di botte e abbandonato sull’autostrada. Mi diede il suo telefonino.
Chiamai mio cognato che venne a prendermi. È la prima volta che lo racconto. E non so
nemmeno perché lo faccio. Forse perché se non parlo esplodo. Forse, oggi che tutti
parlano di stupri in carcere, non mi vergogno più. Forse perché sono convinto che non
sono io a dovermi vergognare, ma chi mi ha ridotto così81.
Questa invece è una mail inviata a Rafat da un ragazzo di 24 anni:
Caro Signor Rafat, mi chiamo Javad, vivo a Yazd e studio Scienze Ambientali
all’università della mia città. Sono stato appena liberato. Non mi hanno arrestato durante
una manifestazione. Mi hanno arrestato nottetempo, mentre ero sul tetto del palazzo di
casa a gridare come facevo ogni notte: “Allah Akbar” (Allah è Grande). Era venerdì 19
giugno. A un certo punto le nostre grida di “Allah Akbar” furono interrotte dal rombo di
una decina di moto. Erano arrivati i basij. Con spranghe di ferro rompevano i vetri delle
auto parcheggiate. Abbiamo iniziato a gridare anche “Marg bar diktator” (morte al
dittatore). Sono scesi dalle loro moto. Hanno sfondato qualche porta, tra queste anche
quella del mio palazzo. Sono saliti fino alla terrazza ed hanno iniziato a picchiarci con le
spranghe. “Ora vediamo quanto è grande il vostro Allah”, gridava uno di loro. Una
sprangata mi ha rotto due dita. Gridavo dal dolore. Mi hanno preso per i capelli e
trascinato giù per le scale. Mentre rotolavo giù hanno iniziato anche ad insultarmi. Sono
arrivato al piano terra quasi sfinito. Nel frattempo erano arrivate alcune auto. Ci hanno
caricati e portati via. Esattamente una settimana dopo è toccato a me andare dal giudice.
Mi hanno accusato di “attentato alla sicurezza dello Stato”. Mi hanno detto che la pena
prevista era l’impiccagione. Hanno aggiunto che avrei potuto avere la vita salva se
firmavo una confessione e invocavo il perdono. Era spaventato a morte. Mi vedevo già sul
patibolo penzolando da una corda. Firmai il foglio in bianco delle mie confessioni.
Dissero che avrebbero pensato loro a riempirlo. Mi diedero un altro figlio bianco. Dovetti
scrivere che mi impegnavo a non gridare mai più “Allah Akbar”. Ero libero. Mio padre
aveva pagato una cauzione di 50 milioni di tomani (circa 35.000 euro). Una settimana
dopo il rilascio fui convocato nuovamente dal giudice. Mi disse che invocare Allah notte
tempo e sulla terrazza di casa era una chiara violazione delle leggi della Repubblica
81
Ahmad Rafat, Iran La rivoluzione Onlie (L’onda verde che travolge il paese degli ayatollah), Ivi, pp. 4042
Islamica. Lei è laico, signor Rafat, ma io sono credente. E devo dire che questa esperienza
ha rafforzato la mia fede in Allah. Ho scoperto che nella Repubblica Islamica anche Allah
è fuorilegge, come lo siamo noi che abbiamo votato per Mir Hossein Mussawi82.
Infine, questi i contenuti di una conversazione via chat tra Rafat e una giovane studentessa
di 20 anni:
Fereshteh: Ciao, sono Fereshteh
Ahmad: Salve, come stai?
F: Bene, sono appena tornata da una manifestazione in Piazza Azadi
A: Tutto bene?
F: Ho corso moltissimo, c’erano tantissimi poliziotti e moltissimi basij
A: C’era tanta gente?
F: Circa 10.000 persone
A: Gli slogan di oggi?
F: Morte al dittatore
A: E poi?
F: Basta con il governo criminale
A: Perché criminale?
F: Gli stupri in carcere, ormai non si parla d’altro
A: La gente ha paura?
F: Si, ma soprattutto si sente indifesa
A: Chi dovrebbe difenderla?
F: Gli europei, gli americani, le Nazioni Unite
A: Tu non hai paura?
F: No, ho escogitato uno stratagemma per non essere stuprata nel caso che mi prendano
A: Quale?
F: Questa mattina mi sono fatta accompagnare da mio cugino da un medico legale.
A: Perché?
F: Mi sono fatta visitare, rilasciare un certificato di verginità.
A: A cosa ti serve?
F: Ho lasciato una copia a mia cugino, che si era presentato come mio fidanzato, e ho la
fotocopia sempre con me.
A: Per farci cosa?
F: Se mi arrestano, dirò loro che l’originale del documento è in mano al mio fidanzato, ed
io essendo entrata vergine in carcere, devo uscire intatta83.
È la dimostrazione che internet, in Iran, non ha solo facilitato la comunicazione di notizie
ed informazioni, ma ha permesso ai giovani di dibattere e discutere di diritti umani, di
denunciare le violenze subite, di raccontare e raccontarsi come non poteva accadere per le
strade o in famiglia.
82
Ahmad Rafat, Iran La rivoluzione Online (L’onda verde che travolge il paese degli ayatollah), Ivi, pp. 4344
83
Ahmad Rafat, Iran La rivoluzione Online (L’onda verde che travolge il paese degli ayatollah), Ivi, pp. 4445
La proteste contro Ahmadinejad si trasformano, anche dal punto di vista simbolico, il 20
giugno 2009, quando il regime si macchia dell’omicidio di una giovane ragazza di 27 anni,
Neda Agha Soltan, simbolo dell’onda verde.
Il video della morte – che finisce su Youtube in poche ore – fa il giro del mondo, tanto che
il caso di Neda diventerà “la morte più documentata della storia umana”. Neda in
persiano significa voce ed effettivamente Neda diventa la voce e l’immagine della rivolta
degli iraniani contro il regime teocratico.
Agha Soltan è nata in una famiglia di tre figli e di estrazione media; suo padre è un
funzionario pubblico, sua madre una casalinga. Nada aveva frequentato l’Università
Islamica di Azad, dove aveva studiato teologia islamica come la teologia secolarista,
ritirandosi a causa di alcuni contrasti con il marito ed i suoceri, che lamentavano la sua
presunta leggerezza di costumi (motivo di vergogna e di rischio per la futura occupazione
della ragazza, a detta loro) e la sua relazione pregressa con un altro uomo.
Neda sognava di suonare e, tenendolo nascosto ai più, aveva iniziano a prendere lezioni di
musica (violino) e di canto. Aveva ordinato un pianoforte che le sarebbe dovuto arrivare a
casa il giorno successivo alla sua morte. Ed era stata un Turchia, dove voleva trasferirsi per
lavorare in un’agenzia di viaggi.
Neda non era particolarmente politicizzata: alle elezioni del 2009 non aveva sostenuto
alcun candidato, ma la rabbia per i risultati – e i presunti brogli – la convincono a scendere
in piazza. Il suo insegnante di musica, che ha assistito alla scena della morte, ha dichiarato
ai media:“Non riusciva a sopportare le ingiustizie. Voleva che si contassero correttamente
i voti delle persone”.
Neda non stava partecipando attivamente alle proteste il giorno della sua morte. Aveva
posteggiato la sua Peugeot 206 ad una certa distanza dalle proteste principali (sul viale
Kargar, a Teheran), per sfuggire al caldo, quando è stata colpita al petto da un proiettile. Il
colpo non è stato accidentale: un basiji ha sparato al cuore della ragazza dal tetto di una
casa. Le ultime parole della ragazza, stando al suo insegnante di musica, sono state: “Io sto
bruciano, sto bruciando”.
Il sito internet «Tehran Bureau» ha pubblicato84 una lettera del fidanzato di Neda, Caspian
Makan, dissidente iraniano fuggito all’estero (si divide tra Canada ed Europa) e divenuto
presto un rappresentante delle proteste iraniane85.
Caspian scrive nella lettera che:
Neda era una ragazza molto felice, era, come posso dire, una persona semplice,
innocente, dolce. Era il tipo di ragazza che quando andavamo da qualche parte
insieme, tutti la apprezzavano, le persone erano attratte da lei. Era molto gentile con le
persone, aveva una personalità davvero dolce, molto dolce, innocente e aperta. Le
persone erano attratte da lei. Non le interessava affatto la politica, né era una
contestatrice o un membro di questo movimento della “rivoluzione verde”. Non
appoggiava nessuno dei candidati. Voleva solo la democrazia ed un po’ di libertà, un
po’ di libertà in modo logico e ragionevole, ecco cosa voleva: solo i diritti primari del
popolo iraniano che questo regime vuole portare via.
Ci conoscevamo solo da tre mesi. Non è stato abbastanza a lungo.
84
85
http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/tehranbureau/2009/07/remembering-neda.html
L’azione di Caspian Makan, in realtà, è duramente criticata da diversi settori del movimento giovanile
iraniano. Molti lo accusano di essersi auto-eletto come rappresentante dell'opposizione e di aver sfruttato
l’immagine di Neda per promuovere la propria persona e l'attività di documentarista.
Non è vero che dovevamo sposarci. Ne parlavamo ma volevamo conoscerci meglio.
Non ci eravamo incontrati in Iran, ci siamo incontrati in Turchia tre mesi fa, eravamo
entrambi in vacanza.
La Turchia è uno di quei pochi posti in cui gli iraniani possono andare senza
passaporto e avevamo prenotato tutti e due per una gita. Lei era con un’amica, voleva
vedere il mondo per quanto possibile, ed io avevo deciso di fare una pausa, di andare
in un posto dove poter respirare un po’ di aria libera. Ci siamo incontrati all’aeroporto
di Izmir. Per caso eravamo seduti accanto, lei con la sua amica ed abbiamo iniziato a
parlare. Ero attratto dal suo sorriso e dal suo modo delizioso di parlare e di essere. La
vacanza sarebbe durata 8 giorni e li abbiamo passati insieme per tutto il tempo.
Quando siamo tornati in Iran, abbiamo continuato a vederci. Vivevamo entrambi a
Teheran, lei viveva con la sua famiglia nella parte occidentale della città ed io ho un
appartamento non molto distante. Il nostro rapporto è diventato più profondo e
abbiamo visto che ci piaceva stare l’uno con l’altra; avevamo gusti molto simili,
eravamo d’accordo su molte cose della vita, eravamo d’accordo sulle cose veramente
importanti. Avevamo gli stessi valori e la stessa visione della vita. Eravamo sempre
insieme e siamo diventati molto, molto vicini.
Io sono uno sceneggiatore e un regista; realizzo documentari di storia naturale ed
anche lei aveva una passione per la natura. Aveva una personalità artistica e sensibile
e le piaceva anche la filosofia. Abbiamo avuto alcune conversazioni così interessanti
sulla filosofia, sulla religione. Cantava e suonava il violino e voleva imparare il
pianoforte; amava davvero la musica ed aveva cominciato ad imparare la fotografia,
avevamo comprato da poco una bella macchina fotografica, lei voleva fare fotografie
naturalistiche, mi voleva aiutare con i miei libri e i miei film, ed io le stavo insegnando
come fare. Aveva molto talento.
Ma non avevamo deciso di sposarci perché ci volevamo conoscere meglio ed erano
passati solo pochi mesi. Lei era una ragazza che non desiderava solo avere un
fidanzato ed io ho passato l’età in cui si gioca con le storie d’amore. Volevo una cosa
stabile. Eravamo seri e siccome volevamo vedere se davvero dovevamo stare insieme,
avevamo deciso di passare un po’ di tempo separati per decidere cosa volevamo fare.
Per 10, 12 giorni non c’eravamo visti e non eravamo rimasti in contatto perché
volevamo vedere come ci sentivamo davvero l’uno per l’altra. Avevamo scelto un
giorno per incontrarci e ci eravamo messi d’accordo che quel giorno avremmo deciso
se volevamo davvero stare insieme, passare la vita l’uno con l’altro. Sapevo di volere
stare con lei e quando è arrivata all’appuntamento sapevo che anche lei sentiva lo
stesso ed ero molto felice. Avevamo deciso entrambi di stare insieme e quindi
andavamo avanti verso questa situazione. Non eravamo ancora fidanzati ufficialmente
ma eravamo su quella strada.
Cinque, sei giorni prima che fosse martirizzata, abbiamo litigato, perché ero molto
preoccupato per il suo gironzolare da sola per la città col rischio di essere catturata
dalle proteste. Non sentivo che fosse sicura e abbiamo litigato per questo. Lei voleva
vedere cosa stava succedendo, non era una parte della “rivoluzione verde” ma credeva
nella libertà dell’Iran e voleva dimostrare il suo sostegno. Ma non era mai andata alle
manifestazioni; era solo curiosa ed io non volevo che lo facesse. Era dispiaciuta che io
non la appoggiassi in questo, così mi ha detto: “Tu mi appoggi in tutto il resto, perché
non adesso?”
Non sosteneva nessuno degli attuali candidati ma sperava che con un po’ di aiuto forse
questa poteva essere una strada che un giorno avrebbe condotto alla democrazia. Non
credeva nella violenza né nell’aggressività, per questo non voleva unirsi alle
manifestazioni.
Mi sentivo troppo protettivo per volere che fosse coinvolta in questo. Come posso
spiegare, lei era un tesoro per me ed io volevo proteggerla, assicurarmi che niente di
male potesse succederle.
A volte, ho una sensazione sulle cose prima che accadano, una sorta di sesto senso ed
avevo una cattiva sensazione che non riuscivo a scuotermi di dosso, per questo non
volevo che lasciasse casa, che andasse in giro per la città come faceva sempre, che
andasse vicino alle proteste, pensavo che non fosse sicuro ma lei insisteva ad andare a
vedere cosa stava succedendo.
Avevamo un appuntamento per il giorno dopo. Dovevo vederla il giorno dopo quando
è stata martirizzata.
Non stava andando alla protesta, ma era rimasta in macchina per più di un’ora, sai
com’è guidare a Teheran, i tragitti possono essere così lunghi e c’è caldo adesso,
estate piena, e siccome c’erano le manifestazioni c’era più traffico che mai. Aveva
caldo, l’aria condizionata nella sua macchina era rotta. Avrei dovuto riparare l’aria
condizionata della sua macchina ma non c’ero arrivato.
Così è uscita dalla macchina per sgranchirsi le gambe. Era col suo maestro di musica e
stavano facendo un giro nei dintorni, erano abbastanza lontani dalle manifestazioni, in
nessun modo vicino ai guai, solo ai confini, quando all’improvviso le hanno sparato.
Avete visto quello che è successo, non ne posso parlare.
Penso che la morte sia una cosa naturale, è un altro stato dell’essere come il dormire,
un’altra fase che tutti dobbiamo affrontare nella vita. Ma questo vale per la morte
naturale; essere uccisi, essere uccisi non è naturale.
Le persone non hanno il diritto di prendere la vita di un altro essere umano. Mai.
Solo chi ha dato la vita può portarla via. Dio, non le persone. Nessuno ha il diritto di
prendere la vita di un altro essere umano, è sbagliato.
Come può qualcuno permettersi di uccidere un’altra persona, una persona indifesa e
innocente, una dolce e bella ragazza che non ha mai neppure raccolto una pietra,
perché deve morire, perché devono morire sempre quelle come Neda? Non hanno
diritti? Hanno preso tutti i nostri diritti, stanno per privarci anche del diritto alla vita?
Non hanno diritto di vivere? Non abbiamo il diritto di respirare, di vivere, di
camminare, di amare e di cantare?
Lei voleva libertà per la nazione in modo logico, libertà di pensiero e di vita. Non era
molto colpita da nessuno dei candidati ma comunque sperava che queste proteste
potessero portare a una maggiore libertà per il paese.
Invece, le hanno preso la sua libertà, la sua libertà di vivere, di respirare.
Non ho aspettative per questo regime, sono contro di loro e non mi aspetto da loro
niente di meglio, per questo non sono deluso dalle loro azioni. Ma penso che se questo
regime sarà così palese nel suo maltrattamento del popolo, nel non ascoltare ciò che
vogliono e ciò che il loro cuore desidera, se questo regime si metterà contro il popolo
in modo così netto, allora perché non ne possiamo parlare? Perché non possiamo
discutere i nostri problemi? Perché dobbiamo essere picchiati e uccisi? Perché usano i
lacrimogeni e i tubi dell’acqua e i proiettili e i proiettili a salve e le sirene per colpirci?
Perché uccidono le Neda di questo mondo per i loro stupidi giochi di potere e fingono
che non ci sia niente di sbagliato?
In questi giorni che sono passati dal suo martirio sono stato fuori di me ma sono
impegnato con le persone che sono venute a trovarmi e si sono unite al mio dolore.
Avevamo molti amici, tutti sono qui, nessuno mi lascia solo, sono appoggiato da tutti i
nostri amici e dalla famiglia.
Non riesco a fare niente, Neda era tutta la mia vita e quindi non so come potrò andare
avanti. Non riesco ancora a crederci. Non mi interessa se mi faranno qualcosa adesso,
hanno portato via la mia ragione di vita.
Anche la sua famiglia è sotto shock, siamo molto uniti. Non ci credono, non è
credibile. Come può succedere una cosa del genere? Siamo in contatto e ci
appoggiamo l’uno all’altro come possiamo ma davvero, come possiamo? Siamo
increduli. Lei aveva una sorella maggiore e un fratello minore.
E’ stato difficile avere il suo corpo dalle autorità. Era in un obitorio fuori da Teheran.
Gli ufficiali dell’obitorio hanno chiesto se potevano usare alcune parti del suo corpo
per trapianti per altri pazienti. La sua famiglia ha accettato perché la volevano
seppellire il prima possibile, ma non sapevamo per cosa volevano usarla.
Non hanno permesso che tenessimo un funerale per lei, secondo la nostra tradizione,
tre giorni dopo la morte. E’ stata seppellita a Behesht Zahra nel sud di Teheran, la
domenica. Ci hanno chiesto di metterla in una zona in cui hanno già tombe aperte per i
ribelli che hanno ucciso o che programmano di uccidere. Le autorità sanno che lei è
diventata un simbolo dell’ingiustizia di questo regime per il resto del mondo e per
questo hanno paura di lasciarci fare il funerale. Ma come possiamo piangerla in questo
modo, come possiamo celebrare la sua vita se non ce lo lasciano fare?
Il video della morte di Neda ha catturato l’attenzione di tutti gli internauti e rappresenta un
punto di svolta nella storia di internet. Un hastag di Twitter (#Neda) che richiama alla
morte della ragazza è stato tra i più seguiti e popolari della rete per due anni.
I video postati su Youtube in realtà sono tre: il primo raffigura la sua morte, con Neda che
crolla al suolo, apparentemente ancora cosciente; il secondo mostra la ragazza che perde
coscienza e inizia a sanguinare copiosamente; il terzo mostra gli ultimi sospiri della
ragazza e i momenti più crudi che precedono la sua morte. I video hanno ricevuto il premio
George Polk per la videografia nel 2009.
Su Twitter la morte della ragazza viene richiamata in modo sempre più frequente e diffuso.
“Oggi sono stato sulla tomba di Neda”, “Neda per sempre”, “Neda oggi e domani”, “Neda
sei la nostra voce”, sono i cinguettii più frequenti. In tutto il mondo i giovani utilizzano
l’avatar di Neda come immagine del proprio profilo.
Mentre il governo si affretta a fornire versione alternative circa la morte della ragazza
(parlando di suicidio, di una morte organizzata dai manifestanti o di semplice incidente),
come fa l’hojatolislam Ahmad Khatami – la guida della preghiera del venerdì – che parla
di “una messa in scena” e definisce la ragazza “un’attrice che ha simulato la morte in
diretta”, o come sostiene il direttore della radio e della televisione di stato della Repubblica
Islamica, Ezzatollah Zarhami86, il movimento verde sostituisce lo slogan “dove sta il mio
voto” con “a morte il dittatore”, “vogliamo nuove elezioni”, “Libertà, indipendenza,
Repubblica iraniana”.
I giovani mandano di fatto in pensione tutti gli slogan riformisti, dichiarando conclusa la
fase che prevedeva la possibilità di riformare il regime dal suo interno, aprendo un nuovo
capitolo che prevede il cambio del regime.
86
Per Zarghami, l’assassinio di Neda è opera dei monafeghin (“gli ipocriti”) termine utilizzato dalla
nomenclatura islamica per indicare i membri dell’Organizzazione Mujahedin del Popolo Iraniano, un gruppo
di opposizione che fino al 2003 combatteva con le armi il regime ed era sostenuto dal regime iracheno e da
Saddam Hussein.
Il 29 giugno accade un altro evento che renderà ancora più drammatiche le proteste,
metterà in crisi il governo e darà un altro simbolo all’Onda Verde.
Un’altra ragazza muore in circostanze alquanto misteriose, si chiama Tanareh Mussawi,
anche lei aveva 27 anni e anche lei ha pagato il fatto di stare al posto sbagliato nel
momento sbagliato.
Tanareh si trovava nei pressi della moschea Ghoba, quando si celebrava l’anniversario
della morte di uno dei fondatori della Repubblica Islamica morto tanti anni prima in un
attentano. Dentro la moschea pregavano i leader dell’opposizione, fuori manifestavano i
sostenitori di Mousavi. Tanareh aveva dovuto lasciare la sua auto per proseguire a piedi
fino alla scuola dove frequentava il corso di estetista, avvicinandosi pericolosamente alla
moschea. Le forze dell’ordine, vedendola truccata e vestita di verde, l’arrestano
immediatamente.
Secondo Ahmad Rafat, quello che è successo dopo l’arresto non è chiaro.
Rafat racconta che alcuni che quello stesso giorno furono arrestati si ricordano con
precisione che quella ragazza alta, bella e con le treccine africane e gli occhi verdi, non fu
rilasciata con loro. Una testimone ha raccontato che Tanareh piangeva tutto il tempo,
ripetendo che non era lì per protestare. Tanareh viene separata dagli altri. Di lei non si è
saputo niente per diversi giorni e solo un mese dopo il suo cadavere, bruciato, fu trovato
lungo la strada che da Teheran porta a Karaj. Uno sconosciuto chiama la famiglia ed
avverte che Tanareh era stata portata in coma, qualche giorno prima, all’ospedale Imam
Khomeini di Karaj. Alla famiglia disperata che si reca all’ospedale alla ricerca della verità,
un medico racconta una storia terribile. Sono alcuni uomini vestiti come i basiji a portare
una ragazza in fin di vita all’ospedale.
I medici visitano la ragazza che è già in coma. Tanareh ha lacerazioni anali e vaginali. Il
suo corpo è pieno di lividi. I medici non hanno dubbi. Tanareh è stata ripetutamente
violentata e brutalizzata. I medici vogliono mettere tutto a verbale, come prevede la legge.
Gli uomini misteriosi che accompagnano Tanareh, si rifiutano di identificarsi e portano via
il corpo martoriato della ragazza dagli occhi verdi.
La storia di Tanareh scuote molte coscienze, ma imbarazza anche i leader riformisti, che in
un primo momento si associano a chi nega questa triste e orribile storia di violenza. Molti
giorni dopo, quando si diffondono le voci che non solo Tanareh, ma anche molti giovani
arrestati durante le manifestazioni, sono stati violentati e brutalizzati, la storia della ragazza
dagli occhi verdi diventa tutto ad un tratto credibile. Il governo non solo nega l’uso della
violenza sessuale contro i detenuti, ma nega addirittura l’esistenza di Tanareh. La
televisione di stato manda in onda un reportage nel quale un ufficiale dell’anagrafe
nazionale dichiara che dai registri centralizzati risultano solo tre persone con il nome di
Tanareh Mussawi. La prima è nata e vive in Francia, la seconda ha 40 anni e da tempo si è
trasferita in Canada, e la terza ha solo due anni.
Alcuni giovani giornalisti iraniani, rimasti disoccupati dopo la chiusura dei giornali
riformisti, si mettono al lavoro. In poche ore trovano nella sola città di Teheran altre dieci
Taraneh Mussawi. Una di loro è una musicista citata in più servizi, anche da alcune
agenzia di stampa vicine al governo.
Tanareh diventa un altro simbolo di questo movimento. Il suo nome si trasforma in
sinonimo di violenza sessuale contro le donne e gli uomini arrestati per ragioni politiche.
La vicenda di Taraneh incoraggia molti giovani a denunciare le violenze subite nel centro
di detenzione di Kaharizak, dove sono trasferiti gli arrestati non eccellenti delle
manifestazioni di protesta post elettorale. I più famosi finiscono nel carcere di Evin. Il
candidato riformista, l’hojatolislam Mehdi Karroubi, attiva un numero telefonico e apre un
ufficio per raccogliere le denunce. In pochi giorni decine di ragazzi e ragazze uscite da
Kahrizak raccontano le violenze subite durante la detenzione. Ragazze stuprate durante gli
interrogatori, ragazzi penetrati con bottiglie, nelle ultime due elezioni di presidente della
Repubblica.
Le parole della giustizia trovano conferma nelle dichiarazioni rilasciate a metà luglio da
un miliziano basiji al quotidiano israeliano Jerusalem Post. Questo miliziano, che sostiene
di essere stato punito nei giorni successivi alle elezioni presidenziali del 12 giugno per
aver permesso a due giovani arrestati durante una manifestazione di fuggire, racconta
degli anni in cui lavorava come guardia carceraria nella prigione di Evin. “All’età di
diciotto anni mi sono meritato l’onore di sposare con matrimonio a tempo una giovane, la
notte prima dell’esecuzione, per avere con lei un rapporto sessuale, ovvero stuprarla,
perché non andasse da morta in paradiso”. “Di ciò mi rammarico, anche se tutto era
legale”, ha aggiunto il basij. Tutto era legale, in quanto una fatwa a firma dell’ayatollah
Khomeini autorizzava lo stupro delle detenute. La stessa fatwa che probabilmente ha
autorizzato gli aguzzini di Tanareh a violentarla fino a provocarne la morte.
Le proteste sono continuate, a fasi alterne, per tutto il 2009.
In occasione degli anniversari delle manifestazioni dell’Onda Verde, nuove rivolte hanno
infiammato le strade iraniane. Nel 2011, le forze di sicurezza hanno attaccato la folla con
bastoni elettrici e altri strumenti di tortura. Nello stesso periodo è morto in carcere il
dissidente e giornalista Reaza Hoda Saber, deceduto in carcere per arresto cardiaco nel
corso di uno sciopero della fame.
Nel settembre 2012, invece, le autorità iraniane hanno arrestato Faezeh Hashemi, figlia
dell’ex presidente Akbar Hasmemi Rafsanjani, costretta a scontare una condanna a sei
mesi di carcere per aver fatto propaganda contro il sistema di governo. La donna è stata
inoltre esclusa dall’attività politica per cinque anni.
La figlia dell’ex presidente è stata già arrestata nel 2009, per la sua partecipazione alle
proteste contro Ahmadinejad e a favore di Mousavi.
La difesa di Akbar Hashemi, già membro del parlamento, ha riferito che le accuse sono
legate alle interviste che Faezeh Hashemi ha rilasciato ad alcuni siti web di informazione,
nelle quali criticava le violazioni dei diritti umani e la politica economica in Iran.
Appendice
Innocence of Muslim: i giovani arabi si infiammano
L’11 settembre 2012, mentre il popolo americano si riunisce attorno al suo presidente per
commemorare le vittime dell’attentato alle Torri Gemelle, la missione diplomatica
statunitense al Cairo viene assalita da un gruppo di manifestanti, in risposta alla presunta
blasfemia anti-islamica espressa dal film “Innocence of Muslims” - l’Innocenza dei
Musulmani - un’oscura pellicola sulla vita di Maometto, prodotta negli Stati Uniti, di cui
possediamo esclusivamente alcuni spezzoni diffusi sul web.
Il gruppo di insorti, dopo avere scavalcato il muro dell’ambasciata, ha sostituito la bandiera
americana con quella nera islamica, gridando “Non vi è altro Dio all’infuori di Allah e
Muhammad è il suo Profeta", in segno di accesa protesta.
Contemporaneamente, in Libia, l’ambasciatore statunitense Christopher J. Stevens, un
funzionario e due marine, vengono uccisi durante il sanguinoso assalto alla sede consolare
americana di Bengasi, manifestazione a cui parteciparono numerosi salafiti.
Questi due incidenti, apparentemente correlati al controverso film (definito dai
fondamentalisti islamici come “il ritratto di un Maometto pedofilo, omosessuale e
donnaiolo, che riunisce attorno a sé una setta di sicari e un crimine razzista''), hanno
innescato una serie di reazioni violente in tutto il mondo, sia contro le sedi diplomatiche
statunitensi, sia contro quelle di altri paesi occidentali, causando decine di morti e centinaia
di feriti.
Scritto e prodotto dall’egiziano copto-cristiano Nakoula Basselev Nakoula, inizialmente
coperto dallo pseudonimo di “Sam Bacile” (il medesimo nome con cui è stato caricato il
video), l’Innocenza dei Musulmani è un film il cui trailer compare per la prima volta su
YouTube già nel mese di luglio 2012, con i titoli “The Real Life of Muhammad” e
“Muhammad Movie Trailer”, senza suscitare alcuna reazione da parte del mondo islamico.
I due video, amatoriali e di pessima qualità cinematografica, sono stati doppiati in lingua
araba solo all’inizio del mese di settembre 2012 e pare siano stati in seguito diffusi da
Morris Sadek , un avvocato egiziano copto-cristiano, tramite l’utilizzo di e-mail del sito
della Naca (National American Coptic Assembly-Usa), un’associazione copta con sede a
Washington Dc.
Tra i promotori del cortometraggi è stato individuato, inoltre, anche l’estremista religioso
Terry Jones, che già in passato diede fuoco ad alcune copie del Corano, scatenando
proteste in tutto il mondo arabo. Morris Sadek, infatti, sul proprio blog ha pubblicizzato in
arabo e in inglese l’ennesima iniziativa dello stesso Jones, annunciando “il giorno del
giudizio di Maometto”, indetto appunto per l’11 settembre a Gainesville, in Florida.
Il trailer si apre con la scena di una folla di musulmani fanatici (vestiti da salafiti, con
tuniche bianche e lunghe barbe visibilmente finte) prende d'assalto e brucia la farmacia
gestita da una famiglia cristiano-copta, assassinano una giovane donna e devastano il
locale.
Scena successiva: le visioni del giovane Muhammad sono curate da una fanciulla. "Lo
vedi?" "Sì". "Metti la testa fra le mie cosce. Lo vedi ancora?" "No". Segue una scena di
investitura di un asino parlante come primo animale mussulmano. Maometto appare quindi
in sembianze umane – un tabù per l’islam – ed è dipinto in maniera grossolanamente
caricaturale, partecipa a scene di sesso e viene descritto come un capo banda esaltato che
inneggia alle violenze87.
Il 9 settembre 2012, un estratto del video postato su YouTube viene trasmesso su «Al-Nas
Tv», un canale televisivo egiziano di proprietà di un saudita salafita, scatenando le
sanguinose rivolte dell’11 settembre 2012. Quattordici minuti di trailer in grado di
infiammare i mussulmani di tutto il pianeta, riportando in primo piano i dibattiti sulla
libertà di espressione e sulla censura dei contenuti internet; quegli stessi contenuti virtuali
condivisi dagli utenti in maniera virale, spesso senza controllo alcuno, scatenando le rivolte
di quelle stesse masse artefici dei processi rivoluzionari del 2011 ed ora in balia dei nuovi
regimi islamisti, ispirati alla Fratellanza Mussulmana.
Poche ore prima delle rivolte, in risposta alla promozione del film e in previsione di
proteste, l'ambasciata americana al Cairo ha rilasciato questa dichiarazione:
L'ambasciata degli Stati Uniti al Cairo condanna i continui sforzi da parte di individui
di ferire i sentimenti religiosi dei mussulmani. Come condanniamo gli sforzi per
offendere i credenti di tutte le religioni. Oggi, undicesimo anniversario degli attacchi
terroristici agli Stati Uniti, gli americani stanno onorando i propri patrioti e coloro che
perseguono la nostra nazione come risposta adeguata ai nemici della democrazia. Il
rispetto del credo religioso è una pietra miliare della democrazia americana.
Rifiutiamo fermamente le azioni di coloro che abusano del diritto universale alla
libertà di parola, offendendo le credenze religiose degli altri 88"
“Il Profeta Maometto è una linea rossa che nessuno deve toccare'' afferma il presidente
egiziano, Mohamed Morsi, che ha chiesto al presidente Barack Obama di fare opera di
dissuasione contro le ''provocazioni'' anti-islam. Nel contempo, parlando a Bruxelles, ha
assicurato che l'Egitto farà di tutto per proteggere gli stranieri da reazioni violente (fonte
Ansa).
Sono state emesse delle fatwe religiose verso gli attori del filmato ed il ministro pakistano
delle Ferrovie, Ghulam Ahmed Bilou, ha offerto una taglia di 100.000 dollari per la morte
di Nakoula, lo stesso regista che ha affermato pubblicamente, in un’intervista al «Wall
Street Journal», come “l’islam sia un cancro”.
Episodi simili si erano già verificati in passato con l’opera di Salman Rushdie, le vignette
danesi, la maglietta di Calderoli e la satira francese di “Charlie Hebdo”, aggravando una
situazione già sul filo del rasoio. Il rapido accesso a questi contenuti, garantito oggi dalla
tecnologia e dai media sociali quali «Facebook» e «Twitter», lascia presupporre che
episodi simili continueranno a ripetersi, minando quella libertà di espressione virtuale che,
se male utilizzata, può innescare, proprio come abbiamo visto, tutta una serie di feroci
reazioni a catena, a livello globale.
87
Adriano Sofri, Quella irresponsabile parodia del profeta, «Repubblica», 13 settembre 2012
http://www.repubblica.it/esteri/2012/09/13/news/quella_irresponsabile_parodia_del_profeta42443670/.
88
Dal 13 settembre 2012 la dichiarazione non è più disponibile on-line.
Secondo Laterza, dottore di ricerca in Antropologia Sociale all’università di Cambridge e
Research Fellow alla University of the West of England,
Per dirla con termini più crudi, Facebook rappresenta la realtà “vera”, mentre
quella “fisica” diventa una estensione dei nostri mondi virtuali. Da questa
prospettiva, le reazioni dei contestatori hanno più senso: rabbia e
preoccupazione sono nate nel mondo “virtuale” e poi loro le hanno portate in
piazza. Questo non significa che i fattori materiali non continuino. È chiaro che
povertà, corruzione, sfruttamento, repressione militare e colonialismo sono
tutte realtà che hanno influenzato negativamente la quotidianità dei
contestatori. Eppure, è stata una reazione viscerale al video che ha fatto
esplodere questi sentimenti repressi. In questo caso, le immagini e i contenuti
che girano nel mondo virtuale producono la realtà materiale e non il contrario.
Non ci sono confini chiari nell’immaginazione dei contestatori che distinguano
le ambasciate americane da quelle di altri paesi occidentali. Non ci sono
geografie leggibili che relegano le proteste al “mondo arabo”. I talebani hanno
attaccato una base britannica in Afghanistan in risposta al video anti-islam, così
come migliaia di persone hanno protestato pacificamente a Londra in reazione
allo stesso contenuto.
Il 12 settembre 2012, il governo afghano annuncia di aver bloccato l'accesso al sito
YouTube nel paese per impedire la visione del film anti-islamico: ''Abbiamo ricevuto
istruzioni dal ministro dell'Informazione e della Cultura. Abbiamo, quindi, ordinato a tutti
i provider di bloccare Youtube, finché il sito non rimuoverà il film ingiurioso'', ha detto
Aimal Majan, un funzionario del ministero della Comunicazione, delle Tecnologie e
dell'Informazione.
L’amministrazione Obama, in risposta a questo gesto, ha chiesto a Google.inc. di togliere
la pellicola dal web, allo scopo di placare le rivolte ormai esplose a macchia d’olio in tutto
il mondo arabo.
Il 13 settembre 2012, il sito di condivisione di video YouTube ha dichiarato di aver
bloccato il film anti-islamico sia in Libia che in Egitto, vista la delicatezza della
situazione, restringendone anche l’accesso anche in quei paesi dove la visione del video è
illegale.
"Data la situazione molto difficile in Libia e in Egitto, abbiamo temporaneamente bloccato
l'accesso (al cortometraggio) in questi due paesi - si legge in un comunicato di YouTube,
di proprietà di Google - pensiamo alle famiglie delle persone uccise negli attacchi di ieri
in Libia".
E ancora: "Noi lavoriamo per creare una comunità apprezzata da tutto il mondo e che
permetta a ciascuno di esprimere un'opinione differente - prosegue la nota. Questa può
essere considerata una sfida, poiché quello che è senza problemi per un paese, può essere
offensivo per un altro. Questo video, che è ampiamente disponibile su internet, rientra
nella nostra linea di condotta e resterà quindi su YouTube", continua il sito.
In seguito agli attacchi alle sedi diplomatiche del Cairo e di Bengasi, nei giorni successivi
esplode la rabbia di tutto il mondo mussulmano e la protesta si dirama dal Medio Oriente
all’Africa, inclusi anche diversi paesi occidentali.
YouTube si trova quindi costretta a bloccare il video, ormai virale, non solo in Egitto ed in
Libia, ma anche in Indonesia, in Arabia Saudita, in Giordania, in Malesia, in India e a
Singapore, a causa della giurisdizione locale, mentre la Turchia, il Brasile e la Russia
provano a temporeggiare.
Anche i governi del Bangladesh, del Sudan e del Pakistan, decidono di sospendere
temporaneamente la visione di YouTube, “fino alla totale rimozione del filmato”.
Il governo indiano ha chiesto al motore di ricerca Google di oscurare undici siti internet
dove è possibile vedere il video anti-islam.
Le autorità di governo in Cecenia e Daghestan hanno emesso ordini ai provider internet di
bloccare YouTube e l'Iran ha annunciato un blocco di Google e di Gmail: “«Gli iraniani
daranno sfogo alla loro furia contro gli elementi sionisti che si celano dietro l'atto
blasfemo e porteranno al mondo il messaggio di pace, amicizia e fraternità del profeta
Maometto»: così si è rivolto al popolo iraniano il Consiglio per il coordinamento
dell'attività pubblica islamica.
Ma non è bastato il gesto di “buona volontà” di Google per oscurare il discusso filmato:
migliaia di manifestanti inferociti hanno comunque continuato a riversarsi sulle strade nei
giorni successivi, gettando molotov, sassi e pietre e tentando di colpire le ambasciate
statunitensi, dall’Indonesia al Pakistan.
"Morte all'America!", gridava la folla, in preda al linciaggio del mondo occidentale.
Il 21 settembre 2012 viene presa d’assalto una chiesa anglicana ad Islamabad, provocando
ingenti danni all'edificio e all'adiacente biblioteca, dove sono state profanate diverse copie
della Bibbia.
Il vescovo di Islamabad ha stigmatizzato il gesto e ha bollato come "ingiustificabili" le
violenze che hanno contraddistinto il venerdì di protesta. Il 21 settembre i musulmani
pakistani hanno promosso la giornata di "amore al profeta Maometto": le dimostrazioni
hanno preso una piega violenta a causa della partecipazione di movimenti estremisti e
gruppi talebani. A Peshawar sono morte almeno 6 persone, 45 i feriti, tre cinema, due
banche e tre edifici incendiati. Nella capitale Islamabad si sono registrati 45 feriti, due
banche e una pompa di benzina dati alle fiamme. Danni a oggetti o persone sono occorsi
anche a Lahore e Karachi, dove gli estremisti hanno colpito anche due chiese.
L'attacco più grave contro un edificio cristiano è avvenuto a Mardan, nella provincia di
frontiera nord-occidentale (Nwfp), dove è andata distrutta la Sarhadi Lutheran Church,
anglicana e di proprietà della Church of Pakistan. Nell'assalto – portato al termine della
preghiera islamica del venerdì – sono state profanate diverse copie della Bibbia e ha subito
gravi danni anche la biblioteca adiacente l'edificio. La stessa comunità anglicana, nel
recente passato, ha promosso iniziative di assistenza e aiuto alle popolazioni mussulmane
stremate dalle devastanti alluvioni del 2010, offrendo loro riparo e alloggio.
A Gaza, la protesta ha invece trovato l’appoggio delle autorità locali e di Hamas, che ha
definito il film “insultante e razzista“.
Tuttavia, secondo i funzionari americani e quelli libici, l’assalto al consolato americano di
Bengasi potrebbe essere stato un attacco programmato precedentemente ed estraneo alle
vicende relative al video incriminato.
“Sembra ormai evidente come il film sia stato solo un motivo apparente, un pretesto per
attaccare il consolato statunitense a Bengasi e causare tumulti in tutto il Medio Oriente.
L’attacco al consolato è sembrato troppo ben organizzato per essere stato portato avanti
da manifestanti improvvisati”, sostengono alcune fonti.
Sofian Kadura, un pilota di aerei per una milizia di sicurezza a Bengasi, era presente agli
scontri e ha confermato ai media francesi che coloro che hanno attaccato il consolato erano
equipaggiati di tutto punto, con armamenti pesanti e mitragliatrici montate sui pick-up,
trattandosi quindi di un attacco mirato e pianificato da miliziani e, ancora: “Mentre la Casa
Bianca si è limitata a parlare di attacco complesso, funzionari citati dalla Cnn sostengono
che si tratti di un attacco pianificato da Al Qaeda, che utilizza il film come diversivo”.
Nonostante un comunicato attribuito ad al-Qaeda indichi come responsabile dell’attacco la
milizia Ansar Al-Sharia, quest’ultima ha negato il suo diretto coinvolgimento ma si è
congratulata con chi ha portato avanti l’operazione. Il motivo dell’assalto al consolato
statunitense sembrerebbe invece chiaro. Si tratterebbe di un atto di vendetta nei confronti
degli americani per il raid nel Waziristan pakistano, dove, nel mese di giugno 2011, è
rimasto ucciso Abu Yahya al Libi, numero due di al-Qaeda.
La notizia della sua morte è stata confermata da Al Zawahiri proprio l’11 settembre 2012,
giorno dell’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, e anche il giorno dell’attacco al
consolato e dell’inizio delle violenze nel Medio Oriente89.
In conclusione, le proteste contro le ambasciate americane ed occidentali e l’esplosione dei
giovani mussulmani contro la presunta onta subita con la pubblicazione del filmato antiIslam dimostrano che:
La primavera araba, che tante aspettative aveva generato in Occidente e nei
movimenti progressisti del mondo arabo, ha svelato la propria natura di primavera
islamista e si presenta come il volano di una pesante minaccia alla sicurezza del
Nord Africa e del Mediterraneo.
 I salafiti sono riusciti a catturare le proteste giovanili e ad incanalarle su un terreno
fatto di odio contro l’Occidente e di conflitto contro i regimi islamici moderati;
 Il web 2.0 si afferma nella nuova dimensione di strumento di guerra: uno spazio di
file sharing come YouTube può essere sia causa che effetto di tensioni religiose e
di dispute geopolitiche di pesantissime proporzioni;
 Il terrorismo internazionale è presente sul web; i social network e le moderne
piattaforme mediatiche potrebbero diventare, di qui a breve, i nuovi teatri dello
scontro di civiltà.

89
Laura Fontana, L’innocenza dei Musulmani: il film della discordia che sta infiammando il Medio Oriente,
«il Nazionale», 13 settembre 2012.
http://ilnazionale.net/estero/linnocenza-dei-musulmani-il-film-della-discordia-che-sta-infiammandoil-medio-oriente
SCHEDE DEI MEDIA NEI PAESI ARABI
Bahrain
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(dicembre 2010)
Popolazione (2009)
5
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
US $27,260
9
189,000
98% (Penetrazione Satellite TV : 97%; TV
via Cavo Penetrazione: 3%; Penetrazione
Internet Protocol TV 2%)
68%
209%
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile(2009)
0.8 milioni
Egitto
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazioni (2009)
Penetrazione Televisiva 2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
31
76.7 milioni
US $2,160
19
4.0 milioni
93% (Penetrazione Satellite TV: 43%;
Penetrazione TV via cavo: 0.2%)
7.4%
72%
Giordania
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
1
5.9 milioni
US $3,630
8
313,000
95% (Penetrazione Satellite TV: 78%;
Penetrazione TV via cavo: 1%; Internet
Protocol TV Penetration: 0.1%)
15%
95%
Kuwait
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
2
3.5 million
US $45,920
17
961,000
99% (Satellite TV Penetration: 91%; Cable
TV Penetration: 9%; IPTV Penetration: 0.1%)
25%
109%
Libano
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani ( (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
5
3.9 million
US $$7,710
13
396,000
93.4% (Satellite TV Penetration: 88%; Cable
TV Penetration: 1.4%; Internet Protocol TV
Penetration: 0.1%)
19%
61%
Marocco
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
6
31.8 million
US $2,830
20
710,000
89% (Satellite TV Penetration: 68%; Internet
Protocol TV Penetration: 0.3%)
12%
88%
Oman
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
0
2.8 milioni
US $21,650
8
274,000
86% (Satellite TV Penetration: 48%; Internet
Protocol TV Penetration: 0.1%)
9.7%
130%
Territori Palestinesi
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva 2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
1
4.0 milioni
US $$1,680
4
80,000
93%
15%
25%
Qatar
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
0
1.2 million
US $93,170
7
211,000
93.5% (Satellite TV Penetration: 75.5%;
Cable TV Penetration: 3.2%; Internet
Protocol TV Penetration: 13.5%)
84%
169%
Arabia Saudita
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
6
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
25.5 million
US $18,850
15
~1.9 million
91% (Penetrazione Satellite TV : 95%;
Penetrazione Internet Protocol TV. 0.2%)
37%
130%
Siria
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
16
20.3 milioni
US $2,770
10
379,000
90% (Penetrazione Satellite TV: 74%)
0.5%
45%
Tunisia
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
23
10.4 milioni
US $3,950
10
399,000
92.5% (Penetrazione Satellite TV : 92.6%)
24%
87%
Yemen
Bloggers minacciati, rilasciati o arrestati
(Dec. 2010)
Popolazione (2009)
GDP per capita (2009)
Numero di quotidiani (2009)
Copie di quotidiani in circolazione (2009)
Penetrazione Televisiva (2009)
Penetrazione Banda Larga (2009)
Penetrazione Mobile (2009)
3
23.7 milioni
US $1,170
6
170,000
61%
1.6%
34%
FOTO 1. 2. Diffusione Facebook nei Paesi Arabi
Foto 3. Numero Utenti Attivi su Twitter nei Paesi Arabi
Foto 4. Numero utenti attivi su Twitter per singolo paese
arabo
Foto 5. Penetrazione Facebook nei Paesi del Consiglio di
Cooperazione del Golfo
Foto 6. Penetrazione Internet nel Mondo arabo
Foto 7. Popolazione, utenti internet e penetrazione Facebook nel
Mondo arabo
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Gli autori
Roberto Angiuoni
Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, studioso di Storia delle
relazioni internazionali – con particolare riguardo all’area mediterranea – e di
Storia militare.
Collabora con le cattedre di Storia delle relazioni internazionali e Storia delle
istituzioni militari della Facoltà di Scienze Politiche Sociologia Comunicazione
presso l’Università Sapienza di Roma.
È Direttore Generale dell’associazione di studi geopolitici e ricerca universitaria
Analysis. Collabora con «Rivista Militare» ed è autore de “L’Islam Radicale in
Africa” (Apes, 2012).
Daniele Cellamare
Docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università «Sapienza» di Roma.
Direttore dell’Istituto Studi Ricerche Informazioni Difesa (Istrid). È autore di diversi
volumi, tra cui: Acqua arma strategica (Roma 2010), Rapporto Pakistan (Roma
2009), Interoperabilità tra la Forze Armato della Nato (Roma 2008), L’Islam
Radicale in Africa (Apes, 2012).
Collabora con il Centro Alti studi per la Difesa (Casd) ed è autore di diversi saggi su
«Rivista Militare» e altre pubblicazioni di settore.
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L`impatto dei social network sulla comunità