Giuseppe Alberto Centauro, architetto, professore associato di restauro presso il Dipartimento di
Architettura (DIDA) dell’Università degli Studi di Firenze. Collabora, fin dal 1978, con istituzioni
culturali e scientifiche nazionali, Università, Mibac e Enti Pubblici. È autore di numerosi saggi
e studi monografici riguardanti la diagnostica e le problematiche della conservazione e del
restauro architettonico ed urbano. Nell’ambito del restauro del colore in architettura è autore
tra gli altri di studi, piani e progetti sui materiali e le cromie dell’edilizia storica del Comune
di Prato (1998/2001), del Centro Storico di Firenze (2005/2008-2010/2011), del Parco
Nazionale delle Cinque Terre (2006/2008) e, dopo il terremoto del 6 aprile 2009, è responsabile
scientifico di ricerca per la rigenerazione dei materiali e la salvaguardia dell’identità cromatica
dei centri antichi del cratere aquilano nell’ambito della ricostruzione post-sisma.
Nadia Cristina Grandin, storica dell’arte e restauratrice, assegnista di ricerca (Progetto Colore
Cinque Terre, Firenze In_Colore ed altri) e docente di restauro delle superfici decorate dei
monumenti presso la Facoltà di Architettura (oggi Scuola di Architettura dell’Università degli
Studi di Firenze); dal 1995 svolge ricerche sul colore e sulla pittura murale antica, pubblicando
saggi e vari articoli in materia. Ha collaborato con l’Università Internazionale dell’Arte (U.I.A.)
di Venezia nella formazione professionale di tecnici restauratori e con il Laboratorio per Affresco
“Elena e Leonetto Tintori” di Prato, occupandosi di ricerca applicata attraverso l’ideazione e la
produzione di modelli pittorici e prototipi materici.
€ 15,00
Giuseppe Alberto Centauro
Nadia Cristina Grandin
Giuseppe Alberto Centauro, Nadia Cristina Grandin Restauro del colore in architettura
Questa pubblicazione, Restauro del colore in architettura, offre attraverso un duplice percorso
di valutazione, tecnico-scientifico da un lato e critico-estetico dall’altro, una ampia sintesi
delle linee orientative essenziali per affrontare consapevolmente le problematiche relative
a questo peculiare aspetto del restauro.
Il processo di analisi e di lettura che è contenuto ed illustrato nella presente pubblicazione
prende altresì spunto dalle esperienze e dalle riflessioni prodotte nell’ambito disciplinare
della conservazione e del restauro, al fine di ristabilire nelle diverse espressioni dialettiche,
ambientali ed architettoniche, quel legame di continuità col passato che è anche il vero
senso da dare oggi alla salvaguardia dell’identità cromatica dell’architettura e del paesaggio,
intesa come valore culturale da rispettare nell’azione di restauro.
Il carattere interdisciplinare della trattazione, condotta a quattro mani dagli autori,
ovvero partendo dal campo di osservazione proprio dell’architetto/conservatore nel diretto
confronto con il punto di vista dello storico dell’arte/restauratore, ha permesso, nel
complesso orizzonte caratterizzante la materia del colore in architettura, di interagire a vari
livelli: da quello tecnologico e metodologico integrato, dal rilievo all’archeometria, a quello
grammaticale, linguistico e compositivo, attraverso la creazione di originali modelli pittorici
e prototipi materici quali imprescindibili supporti tecnici del restauro.
Restauro del colore
in architettura
Dal piano al progetto
Giuseppe Alberto Centauro, Nadia Cristina Grandin
RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
Dal piano al progetto
© Copyright 2013
by Edifir Edizioni Firenze s.r.l.
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Responsabile editoriale
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Referenze elaborati documentali e fotografici
Le fotografie e i modelli materici, se non diversamente indicato, sono di proprietà degli autori:
(G.A.C.) Giuseppe Alberto Centauro
(N.C.G.) Nadia Cristina Grandin
Referenze dei documenti catalografici e testuali e dei modelli relativi ai prototipi materici e pittorici
Le riproduzioni fotografiche riguardano tipi e modelli originali ideati e prodotti da N.C.G.
I modelli segnalati con asterisco sono stati eseguiti da Leonetto Tintori e fanno parte dell’archivio storico della
Sezione Ricerche del “Laboratorio per Affresco E. e L. Tintori” di Vainella (PO).
I modelli segnalati con doppio asterisco, tratti dal Piano del colore del Centro Storico di Prato (G.A. Centauro,
1998/1999) sono stati eseguiti da Daniele Piacenti e fanno parte dell’Archivio Comunale (ufficio del colore)
Introduzione e capp. 1, 2, 3 sono di G.A.C.; capp. 4, 5, citazioni e intermezzi sono di N.C.G.
Ringraziamenti
Gli autori ringraziano in particolare, Daniela Chiesi e Roberto Tazioli, per la collaborazione in ambito universitario
alla ricerca e alla didattica, e il Laboratorio Analisi Materiali dell’Università di Firenze
isbn 978-88-7970-507-3
In copertina: Tavolozza (© N.C.G. 2006)
Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico
dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, ConfArtigianato, CASA, CLAAI, ConfCommercio, ConfEsercenti il 18 dicembre 2000.
Le riproduzioni per uso differente da quello personale sopracitato potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione
rilasciata dagli aventi diritto/dall’editore.
INDICE
Introduzione
PARTE PRIMA. ARCHITETTURA E AMBIENTE
Capitolo 1. Il restauro del colore come restauro della superficie architettonica
1.1. Status quaestionis
1.2. Una tipologia d’intervento per il recupero cromatico
1.3. Il colore nei linguaggi compositivi moderni
e nei sistemi di pitturazione dell’industria
1.4. Orientamenti metodologici, prassi operative ed applicazioni di restauro
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Capitolo 2. Il colore nel paesaggio antropico
2.1. Paesaggi e colori
2.2. Il “paesaggio cromatico”: modalità di rilievo
2.3. Matrici minerali e matrici cromatiche
2.4. Postulati dei colori-matrice nella lettura del paesaggio antropico
2.5. Dal paesaggio antropico urbano al colore della città
2.6. Itinerari esemplificativi tosco-umbro-liguri
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Tavole
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PARTE SECONDA. LINGUAGGIO E TECNICA
Capitolo 3. Grammatica e lessico compositivo
3.1. Il colore della città: problemi di identificazione e comunicazione
3.2. Piani del colore e progetti di restauro
3.3. Restauro post-sismico del colore
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Capitolo 4. Semantica del colore
4.1. Considerazioni preliminari
4.2. Le espressioni del colore
4.3. L’esempio di Firenze
4.4. Un’eccezione: il mattonpesto
4.5. Il linguaggio dei colori
4.6. La Grammatica
4.7. La Sintassi
4.8. La proporzione di scala
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Capitolo 5. Nella tecnica dei materiali
5.1. Questioni di dialogo: colori atipici, deviati, difformi
5.2. Lacune e mancanze
5.3. I modelli: simulazioni guidate per l’apprendimento
5.4. I modelli: simulazioni orientate alla riproducibilità
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Appendice 1. Modello di scheda per unità di facciata
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Tavole
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Nota bibliografica
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Introduzione
Il colore in architettura è materia di studio trasversale, se consideriamo i vari settori applicativi che
principalmente qualificano la disciplina come “arte visiva plastica”. Tuttavia, nelle dinamiche evolutive del fare architettura, l’imprinting progettuale del colore appare oggi piuttosto marginale rispetto ai
caratteri marcatamente ingegneristici, tecnologici e prestazionali intrinseci dell’arte del costruire contemporaneo. Lo è ancora di più in chiave di restauro. Semmai, sul piano creativo l’aspetto cromatico
sembra assumere per l’architetto progettista un interesse più iconico che lessicale. Una circostanza
questa che forse è da porre in relazione alle attuali tendenze compositive dettate ora dalle peculiarità
strutturali offerte dai nuovi materiali impiegati nei sistemi costruttivi, che sono principalmente risolte
come pura astrazione nel minimalismo offerto dai monocromi, ora, all’opposto, dalla ridondante e fin
troppo vivace policromia dello stile vernacolare post-moderno.
Nell’edilizia residenziale periurbana, singola o aggregata in lotti, un siffatto uso del colore risulta
alquanto impattante nel paesaggio, specie se osserviamo le tipologie più ordinarie, che vengono
ad assumere sul territorio un vistoso carattere segnaletico. Ne consegue una babele di linguaggi e
di situazioni anomale rispetto al passato, ragioni che hanno profondamente alterato l’unitarietà del
composito paesaggio tradizionale, minando anche sul piano visivo remoto delicati equilibri ambientali
plasmati nei secoli.
Per quanto riguarda il costruito esistente la situazione si presenta più complessa e articolata; ad es.
all’interno della città antica il lessico cromatico sembra riacquisire una dimensione più consona,
stante almeno ai dibattiti sulla qualità urbana riferita soprattutto all’edilizia storica 1; tuttavia nella
maggioranza dei casi il tema del colore è affrontato come condizione di decoro da soddisfare nella
manutenzione delle facciate o nella risoluzione delle condizioni di disordine formale di vecchi o malandati fabbricati piuttosto che come elemento culturale identitario da conservare.
La propensione progettuale più accreditata nei confronti dell’edilizia ricadente nei borghi storici, considerando l’ambito del costruito compreso nelle categorie urbanistiche del “Restauro (Re)” e del “Risanamento conservativo (Rc)” 2 è comunque quella di intervenire con il colore in modo mimetico nella
riconfigurazione estetica urbana, talvolta reinterpretando l’esistente in chiave di mera semplificazione
cromatica, ovvero applicando in via preferenziale per le finiture di facciata, tinte neutre chiare.
Al fine di ottenere questi risultati si finisce per operare attraverso una modulata regolamentazione
delle diverse tonalità del bianco, oppure, più semplicemente, imitando le cromie delle campiture
preesistenti in repliche tonali scalari più o meno similari all’originale.
C’è da osservare al riguardo che se un tal modo di restaurare il colore fosse assunto in via convenzionale si sarebbe indubbiamente fuori dal dettato disciplinare del “restauro conservativo”.
Per di più nella prassi di manutenzione delle facciate non monumentali, non soggette a vincolo di tutela,
vengono sottilmente alterati i principi fondamentali del restauro urbano, operando in modo sistematico
scelte di routine non meno opinabili, basate sulla mera copiatura cromatica dell’esistente ispirata ad
una presunta “continuità storica” del colore, tuttavia senza dover procedere da parte del progettista, a
disamine critiche più approfondite (in quanto non richieste nella categoria della manutenzione, ndr.)
che andrebbero condotte su base stratigrafica o documentale. Infatti nei Regolamenti Edilizi e Urbanistici, nell’ambito della stessa categoria “Manutenzione Straordinaria (MS”), si adottano alla “scala urbana” sostituzioni cromatiche pedissequamente imitative, non qualitative nella risoluzione progettuale
dei colori originari delle facciate. In realtà sono ammesse variazioni alla tavolozza preesistente, indotte
da trattamenti imperfetti di nuova pitturazione, nella presunzione di conferire “a priori” il colore corretto
dell’architettura, ma ancora non necessariamente quello primitivo, “l’inafferrabile stato originario” di
brandiana memoria; piuttosto si preferisce agire in funzione del decoro esteriore. Così facendo, ma
certamente non solo per questo motivo, il paesaggio urbano si trasforma e muta insieme al contesto
cromatico. La città cambia colori e si allontana progressivamente dalla memoria del suo passato, decontestualizzando le facciate più vecchie che risultano distoniche rispetto al nuovo.
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
La leva principale dell’operare viene comunque a riferirsi alla “sfera creativa”, alla sensibilità del tecnico progettista e al lavoro delle maestranze che abbiamo visto essere non sempre aderente al profilo
critico del restauro, promuovendo ex ante una sorta di revival stilistico del colore.
Si ricreano le condizioni per attivare lo “scivoloso” modus operandi del “restauro tipologico” che
applicato al trattamento delle superfici si fonda su due opposti principi:
a) sul decorticamento degli intonaci al fine di evidenziare l’originalità del supporto murario a discapito
della conservazione in stratigrafia delle finiture storiche delle superfici;
b) sull’accentuazione del risalto cromatico degli edifici, distinguendo all’occorrenza ciascuna unità di
facciata dall’altra fino a ricreare un nuovo ordine compositivo, in genere falso e stereotipato 3.
In entrambi i casi si rischia di instaurare procedimenti arbitrari di intervento sia che si opti per la cosiddetta “pulitura totalitaria” sia che si promuova il rifacimento ex novo degli intonaci e dei colori. Per
ottenere la reintegrazione nella “scena urbana” dell’immagine cromatica storica, perduta o sommersa,
si arriva persino a generare condizioni ulteriormente equivoche nel trattamento delle superfici, laddove
il controllo degli interventi nell’uso di colori ammissibili è studiato in via preliminare “a tavolino”.
Il colore verificato solo sulla carta, cioè non combinato all’esame critico in cantiere, con prove “sul
muro”, può facilmente risolversi nell’impiego di prodotti vernicianti non idonei, adesivi e dannosi.
Questi sistemi di pitturazione di facile applicazione, che si fanno preferire nell’uso corrente per la loro
versatilità, sono per lo più di tipo “filmogeno” ovvero pellicolanti, producendo il cosiddetto “effetto
cartonato” del colore, determinando un’immagine totalmente difforme delle facciate specialmente se
il confronto è fatto con le traslucide e trasparenti finiture tradizionali a calce caratterizzanti l’edilizia
storica e monumentale.
Si può commentare un tale orientamento dicendo che un siffatto modo di procedere finisce per
tradire una volta di più la grammatica cromatica primitiva, svilendo la stessa natura materica dei
fronti architettonici storici che, in chiave di restauro architettonico, avrebbe dovuto essere l’obiettivo
principale della salvaguardia.
Tuttavia quello che adesso si pone non è più solo un problema di rispetto della tradizione decorativa,
bensì quello del mantenimento della natura costruttiva degli edifici, a causa della mancata compatibilità fisico-chimica tra supporti murari, stratigrafia di intonaci e tinteggiature. Queste inadeguate
condizioni di esercizio che molto frequentemente si vanno a rilevare nei rifacimenti dei rivestimenti di
intonaco e di tinte, oltre agli inestetismi sopra indicati, sono da annoverare tra le cause principali del
degrado fisico ed igienico delle superfici. Si tratta di una problematica in più, assai ardua da risolvere
per la corretta conduzione del restauro. L’eliminazione delle stratigrafie spurie di colore diviene quindi
una precondizione da soddisfare in chiave di restauro, ma di questi aspetti tratteremo più dettagliatamente nei capitoli a seguire.
Al riguardo c’è da dire che l’industria offre da tempo soluzioni tecnologiche in grado di dare alternative di buona resa e qualità alle azioni di manutenzione straordinaria con sostituzione delle tinteggiature, laddove si deve operare su intonaci civili di rifacimento moderno; ad es. l’introduzione di prodotti
silossanici ha mitigato gli effetti di esfoliazione precoce della pellicola pittorica e di ritenzione di sporco
nel trattamento di superfici caratterizzate da rappezzi disomogenei di intonaco. Inoltre, l’avvento di
sistemi di pittura a base di leganti minerali, validamente utilizzabili per il patrimonio architettonico
storico, ha potuto assicurare la necessaria traspirabilità alle murature tradizionali, unita ad un’ottimale
risposta prestazionale specie in riferimento alla durabilità del trattamento. Si pensi all’introduzione
nei rifacimenti cromatici dei sistemi di pitturazione ai silicati che si sostituiscono alle originarie tinte a
calce come valida alternativa alle precoci solubilizzazioni dei carbonati di calcio causate dalle piogge
acide, dalle aggressioni degli inquinanti atmosferici e degli scarichi gassosi veicolari. Resta semmai
da valutare, caso per caso, il risultato di queste applicazioni sul piano cromatico-estetico.
Ad ogni buon conto in chiave riabilitativa, considerando l’efficace impiego sostitutivo garantito dai
silicati, si può parlare di metodiche funzionali al ripristino cromatico delle superfici moderne da ritrattare, allargando il concetto stesso di restauro del colore seppur in chiave di rifacimento.
Al contrario del “nuovo ordine cromatico urbano” nell’architettura storica, sia quella aulica e magniloquente dei palazzi e delle chiese che quella spontanea di matrice popolare, il colore delle
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Introduzione
superfici è sempre da considerare una componente inscindibile del costruito e del suo contesto,
rivestendo un ruolo espressivo primario, e quindi non solo un valore compositivo sussidiario. Infatti,
quale immagine integrante e compiuta dell’edilizia monumentale e storica, l’aspetto cromatico viene ad assumere un carattere materico suo proprio che va ben oltre il “tempo-vita” di una coloritura
temporanea.
Il “carattere cromatico” è un valore ambientale fondamentale, che in un’ottica conservativa esige
il massimo rispetto formale e una grande attenzione nelle risoluzioni tecniche adottabili nell’azione
restaurativa.
Al riguardo occorre seguire speciali cautele che non ammettono comunque improprie o arbitrarie
manipolazioni delle superfici, partendo dal principio che ogni tinta che si farà di nuovo, anche se ad
imitazione perfetta delle cromie originali, non potrà mai equivalere al colore antico autentico. Sotto
questo aspetto si dovrà prendere atto che ogni tinta-colore aggiunta o postuma sarà, sempre e comunque, il frutto di un rifacimento o di un rinnovamento.
In una tale ottica la patina naturale dell’invecchiamento della materia originaria, nel “faccia-vista”
lapideo come nelle dipinture frammentarie e disgregate degli intonaci, sembra poter svolgere un ruolo
di garanzia e di autenticità.
Questa patina del tempo, sostanziata nella stratigrafia cromatica dalla sovrapposizione stessa dei colori,
viene ad assumere per l’architettura un prezioso valore aggiunto da ben comprendere e semmai proteggere. Allora dovremmo in presenza di queste situazioni allargare vieppiù il campo delle valutazioni
preventive all’azione conservativa, perlustrando con lo sguardo le superfici come fossero distinti “quadri
scenici”, componimenti imprescindibili dei partiti architettonici della tradizione costruttiva locale da
restaurare che, quand’anche lacunosi, riproducono, pure nei residuali lacerti, segni significativi del
passaggio del tempo e della stessa evoluzione tecnologica, meritevoli di essere salvaguardati con metodiche idonee.
A tale proposito, per la conservazione delle stratigrafie materiche, reclamando la conservazione integrale delle patine anche per l’architettura minore, è stato giustamente ritenuto «che l’obiettivo di oggi,
dall’analisi delle patine all’individuazione dei più idonei interventi di conservazione, debba soprattutto
passare dalla qualità alla quantità e cioè dai marmi opulenti agli intonaci più poveri, ai loro trattamenti
di finitura, fino alle stesse stuccature recenti» 4. Ed infatti, il permanere di tali testimonianze può determinare una diversa misura di valutazione nell’opzione di restauro.
Attraverso il colore percepito si esalta l’unicum architettonico a condizione che si ponga sullo stesso
piano di valore il supporto murario, l’intonaco e la superficie cromatica.
Il restauro architettonico, categoria sovraordinata alla quale appartiene anche il restauro del colore,
non potrà quindi concepirsi al di fuori di questo simbiotico rapporto. Se le superfici pitturate sono da
considerarsi come “strati di sacrificio” destinati per loro natura ad essere rinnovati, non altrettanto
può sempre dirsi dell’altra stratigrafia, quella dell’intonaco che, in ultima analisi, è quella che assicura
continuità e qualità all’espressione cromatica.
In conseguenza di ciò si dovrà estendere il raggio dell’azione conservativa alla prevenzione e alla
manutenzione degli intonaci antichi, materia assai preziosa nella duplice valenza documentaria e
funzionale, per poi semmai includere l’analisi selettiva di tutti quei frammenti cromatici ancora eventualmente in grado di testimoniare in modo qualificante quello che abbiamo detto essere il “passaggio
del tempo” nell’evoluzione della composizione pittorica o decorativa.
Si deve infine premettere che nel restauro del colore, in quanto azione critica di preservazione e manutenzione dei caratteri propri dell’architettura, difficilmente la conservazione del residuale palinsesto
cromatico rintracciato in opera restituisce, nella difficile ricostruzione della tracciabilità degli interventi
storicamente più significativi, una compiuta testimonianza della vita del manufatto.
La conservazione di questi frammenti, di per se stessa non agevole e costosa, appare in molti casi
non opportuna anche in relazione allo scarso valore documentale dei reperti.
Il restauro conservativo del colore rappresenta quindi la modalità eccezionale dell’intervento, la più
opportuna ma di certo la meno probabile in ragione delle condizioni di preservazione delle facciate
dell’edilizia storica.
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
Ecco allora che il ripristino dei “colori-matrice”, come vedremo, assume come intervento diffuso un
ruolo centrale nella configurazione architettonica post-restauro, garante esso stesso del carattere
autentico del costruito esistente da riparare o da riabilitare, purché si rispetti nell’applicazione il
corretto profilo tecnologico, la grammatica e la sintassi. Introducendo la problematica del restauro
del colore identifichiamo quindi nell’immagine consolidata di ciascun edificio quei valori cromatici
che più opportunamente saranno da rispettare, ancorché tale analisi progettuale si debba attuare
attraverso una lettura sincronica dei caratteri architettonici prevalenti, come dire che nel restauro del
colore l’unitarietà stilistica è un valore formale da non disperdere e assecondare in ogni successiva
azione di manutenzione.
Note
Si veda, tra gli altri: Piano del colore del centro storico
di Prato. Gestione e tecnologie, Atti della Giornata di
Studio, a cura di G.A. Centauro-A. Fimia, in «Quaderni
di conservazione e valorizzazione dei beni culturali
e ambientali/ Opus 6» coll. a cura di G. BotticelliG.A. Centauro, Poggibonsi, 1999; M. Lolli Ghetti,
Considerazioni sul Piano del Colore, in Piano del colore
... cit., pp. 6-10. Interessanti valutazioni in merito ai
processi di riqualificazione dei centri storici sono state
espresse nel corso del Convegno Internazionale Sicilia
dei Colori, nell’occasione della presentazione del Piano
regionale del colore e del decoro urbano e del paesaggio,
con atti pubblicati dalla Regione Sicilia in collaborazione
con Sikkens - Akzo Nobel Coatings S.p.A., con interventi
di C. Feiffer, M. Fumo, G.A. Centauro, R. Zanetta ed altri.
Si veda anche M. Benfari-A. Zingali, La necessità di un
piano del colore per la Sicilia, in Sicilia dei Colori, Atti del
1
8
Convegno Internazionale (Palermo, 12-13 giugno 2003),
a cura di A. Pes-M. Benfari, Palermo, 2003, pp. 17-20.
2
Nelle definizioni date ex lege 47/1978, riprese nel
successivo Testo Unico per l’Edilizia (ex D.P.R. 380/2001
e s.m.).
3
Nel merito di un siffatto trattamento cromatico delle unità architettoniche per tutte si cita, come antefatto
metodologico, l’esperienza bolognese condotta per il
recupero abitativo dello storico “Quartiere-San Leonardo” nell’ambito dell’operazione “P.E.E.P. Centro Storico”
(Bologna 1972 e sgg.) (cfr. Tav. 1).
4
Cfr. ICV-BC, Le patine. Genesi, significato, conservazione, a cura di P. Tiano-C. Pardini, Firenze, 2005; M.
Dezzi Bardeschi, Il punto di vista dell’architetto, in Le patine ... cit., pp. 61-66.
Parte Prima
ARCHITETTURA E AMBIENTE
Nota degli autori
Le argomentazioni sul colore sono talmente vaste e multidisciplinari, che sarebbe impossibile compendiarle nello spazio breve di un’edizione, soprattutto se rinviano al restauro dell’architettura storica.
Volendo illustrare tuttavia al lettore la complessa articolazione del tema, sono state inserite nel testo,
delle citazioni d’autore, brani scelti, estratti redazionali e osservazioni varie (evidenziate in grigio) che
sottolineano alcuni aspetti tecnici del colore correlati tra di loro nell’apparente casualità distributiva
delle “pillole”. Completano il quadro conoscitivo del libro, cinque intermezzi di attualità, posti alla fine
di ciascun capitolo, in cui il lettore viene invitato a riflettere su questioni sollevate e soluzioni trovate.
Gli studi e le riflessioni presentate in questa pubblicazione fanno altresì riferimento anche ai più recenti risultati prodotti con Ricerche scientifiche d’Ateneo, condotte dagli autori in collaborazione con
Enti Pubblici e in partenariato con aziende private, leader del settore a livello nazionale.
Capitolo 1
Il restauro del colore come restauro della superficie architettonica
1.1. Status quaestionis
Alla luce delle considerazioni introduttive e per quanto concerne la salvaguardia del colore lo status
quaestionis sembrerebbe quindi ruotare intorno alle tematiche proprie del restauro architettonico,
tuttavia legandosi operativamente a complessi processi conservativi a carattere interdisciplinare.
Per giungere in modo coerente alla risoluzione della problematica restaurativa occorre vagliare alcuni
aspetti peculiari: in primis per la tutela del “documento materico” del quale si viene a riconoscere uno
specifico valore culturale; postea per la necessità di rispettare lo stato fisico e la natura espressiva del
documento materico ereditato dal passato.
La superficie che esprime il colore è dunque il “documento materico” al quale sopra si alludeva, da
conservare nella trasposizione non ideologica del valore cromatico a quello del manufatto. Superficie
che, in chiave di conservazione, dovrebbe essere distintamente curata rispetto alle patologie e alle
incongrue sovrapposizioni rilevate: pulita, liberata dalle incrostazioni spurie o dalla presenza di dannose aggiunte ed infine, consolidata e protetta.
In relazione a ciò il trattamento per il restauro del colore in architettura, così come analizzeremo più
in dettaglio in seguito e nella valutazione precedentemente fatta che la superficie cromatica sia da
considerare come una superficie di sacrificio, non potrà essere esclusivamente di tipo conservativo,
cioè operando come ad esempio si fa per una superficie affrescata, per un fregio decorato di pregio
o per un’opera d’arte pittorica, bensì dovrà più diffusamente risolversi seguendo altre modalità. Con
questa prospettiva occorre studiare e mettere a punto procedure d’intervento valide per l’edilizia
seriale storica, non necessariamente soggetta a tutela istituzionale, ma pur tuttavia riconosciuta di
interesse, perché caratterizzante l’assetto storico-urbanistico di borghi e contrade negli aggregati
urbani di antica formazione. Questa stessa eccezione vale ad ogni effetto anche per quanto riguarda
le superfici murarie rustiche di casali e dimore contadine isolate che, non meno dell’edilizia storica
urbana, richiederanno cure appropriate.
Al riguardo possono darsi alcune prescrizioni di ordine generale: ad esempio, per il restauro delle superfici occorre aborrire, nella barbara prassi del “decorticamento”, la sistematica e acritica riduzione
degli intonaci antichi, ancorché non ammalorati, comprendendo in questa prassi da rigettare, anche
l’eliminazione delle malte arricciate sulle pareti in pietrame. Si pensi alla scrostatura delle rabboccature di malta “a raso sasso”, tipiche dell’architettura spontanea, per rendere “bella mostra” del vivo
delle murature rustiche che in realtà dovrebbero essere protette.
Molto spesso osserviamo modalità di trattamento ibride che recuperano parzialmente metodologie e
procedure restaurative corrette, pur ancora non risolvendo compiutamente il problema conservativo
delle superfici cromatiche; esse consistono nell’operare rappezzi più o meno organici delle lacune,
nel corretto ripristino di rinzaffi ed arricci, ma non risolvono coerentemente il problema delle tinteggiature che, per non creare inestetismi, aloni e macchie, richiedono la rasatura con nuovi intonachini
degli strati preesistenti al fine di garantire uniformità tonale.
Nel restauro di consolidamento e/o di riparazione dei supporti murari, occorre necessariamente procedere alla rimozione degli intonaci per poter risanare le murature lesionate, nonchè per “ristilare”
le commessure di giunti ammalorati, o piuttosto per effettuare trattamenti di deumidificazione delle
pareti, ecc. Il risanamento del muro si può ottenere attraverso l’applicazione di malte idonee di restauro e quindi con la stesura di nuovi intonaci accuratamente preparati in funzione di una corretta
giustapposizione con le porzioni salvate in opera.
Questi interventi di integrazione e parziale rifacimento delle superfici corrotte dal degrado e dalla
naturale consunzione del colore, sono in realtà azioni da valutare distintamente come interventi di
restauro, finalizzati cioè a ricercare la migliore corrispondenza e compatibilità possibile con le stra-
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
tigrafie preesistenti, rispettandone l’assetto originario ed eliminandone allo stesso tempo i difetti.
Tuttavia nel campo del restauro, la sovrapposizione di intonaci e di tinte finirà per incidere sul piano
materico della superficie, alterando l’originale leggibilità del colore che dovrà valutarsi in modo separato, disgiunto, anche se si opera con cautela aggiustando con cura i tenori dei nuovi leganti ausiliari
e il dosaggio degli inerti al fine di rispettare le condizioni originarie d’esercizio.
Il principio di sarcitura della superficie è quello di intervenire nell’ottica della riabilitazione giustificata
per ragioni funzionali e di restyling per quanto concerne l’integrità e l’unitarietà estetica, ma non
necessariamente in dipendenza con l’azione conservativa. In ogni caso il trattamento della superficie
comporterà necessariamente la stesura di nuove tinteggiature, scialbature o velature di colore che,
come precedentemente affermato, non rientrano nella categoria del restauro conservativo ma piuttosto in quella del rifacimento.
Nondimeno nel caso in cui sia ritenuto importante salvaguardare sulle superfici parietali esterne, anche
frammentarie o consunte cromie esistenti, si potrà procedere selettivamente al loro parziale recupero,
specialmente nel caso che queste siano state realizzate a fresco o a mezzo fresco, ovvero mineralizzate
nel corpo dell’intonaco che si è voluto tenacemente mantenere in opera e consolidare 1.
1.2. Una tipologia d’intervento per il recupero cromatico
Per prima cosa si dovrà procedere ad un’attenta osservazione della superficie procedendo alla rimozione
dei depositi di sporco, spolverando accuratamente, eliminando meccanicamente eventuali incrostazioni
o indesiderate pellicole pittoriche di rifacimento, effettuando all’occorrenza anche un sobrio lavaggio con
acqua distillata. Successivamente, una volta identificato attraverso le indagini in situ lo strato pittorico originale, occorrerà ripeterlo integralmente riducendo la vivacità dei toni freschi con leggero velo di patina.
Dopodichè sarà necessario conservare lo strato originale, opportunamente risarcito nelle mancanze,
qualora presenti, indi applicare la tinta “a spruzzo” meglio che a pennello, seguendo il magistero della
stesura “a velatura” in modo da mantenere inalterato il tono originale, creando allo stesso tempo, per
armonizzare, l’effetto di una superficie invecchiata, ovvero leggermente consunta. Nell’applicazione
della tinta si dovrà mantenere l’omogeneità con i materiali originari intervenendo preferibilmente con
pigmenti e ossidi naturali ben stemperati in acqua (“smarciti”) e dispersi in acqua di calce, seguendo
al bisogno ulteriori accorgimenti a garanzia di una migliore e più durevole adesione del film pittorico
alla parete (omissis). Ad ogni buon conto queste premure corrispondono proporzionalmente al valore
attribuito alle tracce di colore da tramandare 2.
1. Malta con calce e colla per tinteggiature
«Per dare agli intonaci ed alle arricciature un determinato aspetto ed una maggiore eleganza, se ne coloriscono o dipingono le pareti con tinte che vi si distendono ordinariamente in tre strati, di cui i primi due con latte
di calce, il terzo fatto colla stessa materia a cui si aggiunge della colla e dei colori /…/.
Sovente accade che i muri non assorbano se non imperfettamente le tinte, tanto più se sono antichi, ed è in
tal caso specialmente che è necessario preparare le tinte con colla o quanto meno spruzzarle poi con una
soluzione acquosa di amido cotto o con latte animale». (A. Lenti 1884)
1.3. Il colore nei linguaggi compositivi moderni e nei sistemi di pitturazione dell’industria
Per tutte le considerazioni fin qui espresse e a maggior ragione si dovrà porre l’attenzione nell’azione
del restauro alla superficie architettonica nel rispetto del lessico compositivo e delle tavolozze storicamente accertate. Attraverso l’espressione cromatica si potrà in definitiva leggere l’identità propria
e corografica della fabbrica di appartenenza nella lettura della sequenza stratigrafica. Tuttavia i mutamenti di gusto ed estetici introdotti e reiterati, generazione dopo generazione, che troviamo già
a partire dall’epoca pre-industriale (dal XVIII sec. in poi) sia a livello del singolo manufatto sia del
contesto, hanno prodotto discontinuità non più risarcibili, di cui l’eventuale intervento di restauro
filologico dovrà tener conto.
12
Capitolo 1 Il restauro del colore come restauro della superficie architettonica
Vedremo nei capitoli seguenti come sia esteso ed incisivo il percorso di tali trasformazioni, a cominciare dai
mutamenti ottocenteschi, con l’avvento di tecniche di pitturazione legate alle nuove alchimie dei pigmenti
artificiali resisi protagonisti in pochi anni nelle composizione delle paste coloranti. Questi cambiamenti
sono stati indotti dall’esigenza di produrre sempre più sorprendenti effetti pittorici e decorativi sugli intonaci
di rivestimento che, arricchendo l’abaco dei tipi in uso, alternano superfici ora lisce e lustre “marmorizzate”, ora ruvide e rustiche “grezze”, nella modulazione degli effetti cromatici da raggiungere.
L’inganno visivo e la dissimulazione entrano a far parte dei giochi compositivi e dei nuovi linguaggi
cromatici anche nel trattamento dei fronti di facciata, interessando non più solamente i prospetti di
pregio, di palazzi nobiliari e di edifici pubblici.
Gli elementi architettonici in finta pietra da scialbare ad imitazione degli originali sostituiscono i materiali lapidei, ad essi si aggiungono altri effetti pittorici illusionistici a trompe l’oeil, determinando la
moltiplicazione anche nell’impiego artigianale di tinte decorative temperate con leganti organici che,
se da una parte sono in grado di offrire policromie più vivaci rispetto alla ristretta gamma tonale delle
tavolozze producibili con le tradizionali tinte a calce, dall’altra inducono nuovi fenomeni di degrado,
scurimenti tonali, esfoliazioni, ecc. Infine, ma non in ultimo, resta da considerare il fatto che in molte
città si assiste alla diffusione di specifici regolamenti ad uso di Commissioni di Ornato e Belle Arti nei
quali si viene a imporre nel quotidiano il “patinato” gusto borghese del decoro.
L’eclettismo introdotto nelle tipologie plastiche della decorazione produrrà i suoi massimi risultati nei
primi decenni del XX sec. nei tipi della pietra artificiale e dei rivestimenti ceramici, ma anche negli
esuberanti apparati pittorici posti in fregio ai fronti di facciata, in particolare nei sottogronda protetti
dalle intemperie.
2. Le vernici moderne
«Nel 1850 le pitture contenevano ancora olio di lino mescolato a biacca di piombo eventualmente diluite con
olio di trementina e venivano fabbricate sulla base di ricette empiriche tramandate. Nel 1869 in Inghilterra
si mise a punto un procedimento per ottenere il litopone (solfato di bario + solfuro di zinco), pigmento meno
tossico della biacca, impiegato soprattutto come trattamento bianco di sottofondo su varie superfici. Il litopone
fu presto superato dal diossido di titanio il quale, nonostante il costo più elevato, garantiva un potere coprente
maggiore al punto che, nel 1945, costituiva l’80% del mercato delle vernici. Alla fine del XIX secolo prendono
campo i pigmenti a base di ossidi di ferro sintetici, sfruttati inizialmente per la loro capacità protettiva sui
metalli (smalti), ma successivamente estesi al campo dell’edilizia, dove offrono tinte più accese e resistenti,
in parallelo con la diffusione del cemento, usato nella struttura architettonica e nel confezionamento degli
intonaci, in sostituzione delle malte tradizionali a base di calce e sabbia». (N.C.G. 2011)
Per quanto concerne le cromie moderne, analogamente a quanto detto per gli intonaci dipinti di
vecchia stesura, sarà in ogni caso da promuovere un loro restauro.
La conservazione odierna dovrà valere anche per tutte le stratigrafie recenti che siano testimoni reali
dei processi di abbellimento e ammodernamento dell’edificio nel contesto storico di appartenenza.
Prendendo spunto da questo ulteriore punto di vista appare sotto certi aspetti ancor più complessa,
e quindi di difficile risoluzione in chiave di restauro filologico, l’analisi delle superfici variamente
decorate e tinteggiate, specie per quegli intonaci che abbiano sopportato rimaneggiamenti in tempi
diversi o che siano destinate per loro caduca natura esecutiva a rapida dissoluzione, andando inevitabilmente incontro all’azione di dilavamento e alla disgregazione precoce della pellicola pittorica.
Situazioni pittoriche già precarie in genesi, soggette a non potere essere “manutenute” e quindi più
frequentemente sostituite da pitture di rifacimento.
Per l’induzione di queste molteplici e nuove cause di degrado, ogni cromia derivante da coloriture e
tinteggiature di fattura tradizionale abbisogna necessariamente di essere “rinfrescata”, ovvero ripresa
dal trattamento originario, sapendo tuttavia che tale procedura non potrà eseguirsi per le tempere
organiche delle tinte decorative e per tutte le tinte filmogene.
13
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
Questo limite operativo è infatti comune a tutti i sistemi pellicolanti realizzati dall’industria novecentesca, dai “vinilversatici” agli “acrilstirolici” e, sia pure con qualche eccezione d’impiego, ai silossani. La riproducibilità dei colori a calce sarà quindi soggetta alla verifica degli effetti estetici che le
tinte moderne potranno solo parzialmente garantire. A tale riguardo nel corso delle sperimentazioni
condotte per la messa a punto del Piano del Colore di Prato (cit.), sono stati testati i diversi comportamenti delle tinte industriali su 14 cromie di base (colori-matrice), ciascuna riprodotta a campioni
su “tavelle” a fianchi sagomati in 4 scalari tonali, indi sottoponendo ulteriori modelli (tegole di cotto
intonacate recanti le stese pittoriche, ndr.) a due/tre cicli di invecchiamento naturale ed artificiale.
Nello svolgimento delle prove sono state poste a confronto tinte applicate senza diluizione, in due
mani su intonachino a grassello di calce, giustapponendo uno all’altro i seguenti sistemi di pitturazione: a latte di calce, a tempera con resine acriliche, con pitture ai silicati e con prodotti silossanici. Si sono monitorate le condizioni iniziali, poi ripetendo la lettura a distanza di 24 mesi (1^
ciclo) e, successivamente, a distanza rispettivamente di 36 e 48 mesi (2^ e 3^ ciclo). Le risposte
registrate hanno confermato i limiti operativi ed estetici noti di ciascun prodotto, come osservato
nei rilievi in situ alla scala urbana, mettendo altresì in evidenza comportamenti differenziati da una
tinta all’altra (omissis) 3 (cfr. Tavv. 2-3).
3. Stereocromia o pittura al silicato
«In questo modo di dipingere, introdotto a Monaco nel 1846, vi è escluso qualsiasi veicolo di coesione; i colori
sono macinati, stemperati e adoperati con pura acqua distillata. È a lavoro finito che le tinte vengono fissate
stabilmente sul muro, spruzzandole col silicato di soda o di potassa diluito, il quale, infiltrandosi nei pori dell’intonaco e legandosi con esso intimamente, fissa stabilmente la pittura». (G. Ronchetti 1955).
Gli interventi di restauro del colore di fronte a tali situazioni dovranno necessariamente condursi
sempre in rifacimenti che, in assenza di un’accertata tavolozza di sicuro riferimento, potranno essere
conseguenti ad un parziale rinnovamento, che a sua volta potrà condursi nel rispetto delle tonalità
derivanti dai colori-matrice del luogo o piuttosto realizzati in tinte che armonizzino con il contesto.
Di questo particolare aspetto del problema tratteremo nei paragrafi successivi introducendo l’uso nel
restauro delle cosiddette “tinte madri”. È proprio per questa continua necessità di rifacimento che la
coloritura di progetto potrebbe indurre con facilità, improprie riproposizioni nella tonalità, nella saturazione e nella luminosità, tradendo il concetto stesso di restauro della superficie.
Il trattamento cromatico in questi casi si può prestare ad interpretazioni non sempre adeguate che,
mutando la tecnologia esecutiva nei processi applicativi adottati, potrebbe produrre distonie e distorsioni in primis riscontrabili a livello di paesaggio urbano. Un giudizio negativo su una siffatta pitturazione, che si andrebbe ad estendere ad ogni singola facciata da ritrattare con nuove tinteggiature,
deriva poi dall’instaurarsi di nuove forme di degrado legate alla diversa natura dei coloranti industriali,
alla variata consistenza del film pittorico e alla modificazione della texture superficiale: ritenzioni di
sporco; alterazioni, devianze e difformità cromatiche, ecc.
Il restauro architettonico delle superfici degli intonaci nel trattamento di ispessimenti, sottosquadri, fibrorinforzature, ecc. assume un ruolo centrale nella percezione corretta del colore. Tuttavia,
per quanto riguarda queste tipologie di rifacimenti moderni, gli interventi di restauro delle superfici
seguiranno più un dettato tecnico che non specialistico, laddove dovrà curarsi in particolare la
continuità grammaticale e lessicale del colore nel rispetto del corretto impiego delle tavolozze,
ricercando a livello del contesto le giuste relazioni tra passato e presente direttamente individuate
nei piani di facciata.
Non sembra tuttavia esserci alcuna contraddizione nella distinzione tra il piano di intervento del
restauro urbano e quello del restauro architettonico, lasciando un proprio ambito di azione nella
ritrovata “consapevolezza” che il colore risponda, sul piano visivo vicino e lontano, a complesse
relazioni. Si richiede una profonda conoscenza del lessico cromatico e delle tecniche pittoriche,
14
Capitolo 1 Il restauro del colore come restauro della superficie architettonica
dove semmai appare più ardua la scelta dei colori in chiave filologica che potrebbe obbedire
all’orientamento di cercare di riprodurre presunte cromie originarie, spesso decontestualizzate ed
obsolete, se non persino deoggettivate dagli stessi processi storico-evolutivi.
1.4. Orientamenti metodologici, prassi operative ed applicazioni di restauro
La specificità delle tematiche relative al restauro del colore in architettura non sembra essere stata
ancora compresa nella prassi corrente, o quanto meno non sono state ben sviscerate da un punto
di vista semantico e sotto il profilo storico-artistico. Una materia, quella del colore in architettura,
che quindi si presenta solo in apparenza di comodo approccio, risultando in realtà spinosa, assai
sfuggevole nell’analisi contestuale, mal condensabile in formule precostituite specie in ambito di
manutenzione, messa in pristino e restauro. Ed è forse per tali ragioni che si tarda ancor oggi da parte
dei progettisti e dei pianificatori a fornire risposte adeguate.
Questi limiti operativi sono specialmente evidenti laddove soprattutto si tratti di metter mano in tempi
diversi e quindi diacronicamente sull’edilizia storica aggregata al fine di orientare in modo critico-analitico ed omogeneo le scelte più opportune da seguire nella gestione del trattamento cromatico delle
superfici. Ancor più complicata la risoluzione del problema in presenza di successioni di interventi,
cioè quando occorra ristabilire i giusti parametri cromatici nel recupero di una grammatica compositiva perduta o in parte compromessa.
In questi casi, ad esempio, non pare sufficiente affidarsi nelle azioni restaurative alle buone pratiche
riconducibili alla “Regola dell’arte” che, con tutta evidenza, non sono in grado da sole di giustificare
le ragioni delle scelte, ma solo eventualmente di assecondarle nelle corrette applicazioni. Per valutare
la complessità di tale materia si deve in realtà affondare più in profondità le radici della conoscenza,
partendo dalla consapevolezza che il lessico del colore nasce quasi sempre come un archetipo del
progetto architettonico e in quanto tale è per così dire, antesignano del simbolismo introdotto nei
linguaggi dell’architettura e dell’arte, offrendo da questo punto di vista molteplici spunti d’interesse
anche per la critica d’arte.
Altresì è da tenere presente che il colore della città e del paesaggio antropico, è divenuto per i molteplici significati sottintesi, anche un tematismo di grande interesse letterario e antropologico-sociale.
Anche quest’ultima articolazione della questione dovrà essere “sciolta” nell’azione di salvaguardia.
Inoltre, il cromatismo proprio della materia con la quale si risolve formalmente uno spazio fisico,
architettonico o urbano, è al centro della lezione filosofica che ruota intorno alla comprensione dei
caratteri stilistici e alle variegate declinazioni decorative e artistiche delle architetture.
4. Storie scritte sulle pareti
«Raramente capita di scoprire in un contesto di civile abitazione, una decorazione murale così unitaria e ben
conservata, progettualmente armonica e distintiva dei mutamenti di gusto sopravvenuti nel tempo, al punto
che, nel corso dei lavori di restauro, è stato possibile sviluppare una lettura critica e diacronica intorno alle
evoluzioni stilistiche dei vari apparati decorativi.
Le pitture murali hanno infatti il pregio di poter raccontare non solo la storia “di superficie”, ma anche le
vicissitudini strutturali delle architetture a cui sono intimamente connesse. Così come la tecnica pittorica ed il
genere artistico sanno esprimere pienamente la diversità di mano che l’ha prodotta ed il mutamento di gusto
che l’ha generata, il supporto murario su cui nasce un dipinto, sa dire molto sui cambiamenti che hanno modificato nel tempo gli ambienti». (N.C.G. 2001)
C’è da dire infine, che lo studio del colore è sempre stato fonte inesauribile di ricerca per quasi tutte
le discipline scientifiche e, in virtù dell’intrinseco valore formale e culturale che indiscutibilmente
caratterizza l’espressione cromatica di monumenti e centri storici, è oggetto da oltre mezzo secolo
di ricerche applicate nella messa a punto di aggiornamenti metodologici, nell’introspezione e nelle
indagini diagnostiche, nello sviluppo di sofisticati rilievi colorimetrici e di tecnologie innovative per
15
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
la conservazione, nell’individuazione delle più idonee procedure d’intervento da perseguire per la
protezione del patrimonio.
Ad esempio nello studio delle superfici, l’analisi materica viene ad assumere un’incidenza sempre
maggiore nella valutazione dei processi di alterazione e degrado del colore, nella determinazione
stessa del complesso delle caratteristiche fisico-chimiche delle superfici da indagare, cosicché le
nuove frontiere dell’archeometria per la conservazione vengono oggi in soccorso all’architetto progettista specialmente in chiave di restauro. Ciò nonostante, queste nuove provvidenze non sembrano
essere sufficienti perché, sebbene il microcosmo del colore nell’arte e nell’architettura venga variamente esaminato sotto molteplici angoli visuali, si deve ancora una volta registrare come siano rimasti
ancora da esplorare altri peculiari aspetti del colore come linguaggio, in particolare nelle dinamiche
storico-evolutive. Ad esempio restano da studiare in modo sistematico i materiali e gli intonaci caratterizzanti i diversi ambiti geografici e culturali, regione per regione, come pure la variegata composizione di abachi storici dei materiali e le rispettive cartelle cromatiche.
In particolare, per quanto maggiormente interessa il tema del restauro, le metodiche d’intervento,
vuoi di manutenzione vuoi di rinnovamento del colore in architettura, non sono adeguatamente sperimentate.
Allo scopo di colmare almeno in parte queste lacune si propongono alcune metodologie di studio,
propedeutiche al trattamento dei cromatismi espressi dalle superfici.
Premettendo che le metodiche qui introdotte sono da intendersi prevalentemente come strumenti di
analisi preventiva e di valutazione progettuale, nella fattispecie si tratta di:
a) sistemi integrati di rilevazione e misura parametrica del colore;
b) schede di catalogazione pre-progettuale;
c) prototipi e modelli materici che riproducono abachi di malte, di intonaci e distinte tavolozze cromatiche in simulazione degli originali su muro e di progetto, ecc.
Queste applicazioni sperimentali interessano periodizzazioni storiche, glossari terminologici, colori
ricorrenti, tipicità e atipicità, apparati decorativi, tecniche esecutive e la distribuzione topografica del
colore sia alla scala urbana che alla scala architettonica.
Le prove di colore sul muro, oggi relegate nel limbo dell’empirismo e del libero arbitrio, potranno , seguendo poche e chiare regole, essere supportate tecnicamente da test di laboratorio e da simulazioni
su modelli, come si conviene ad ogni documentata azione di restauro.
Come considerazione ulteriore si sottolinea il fatto che il restauro del colore è materia assoggettabile
al controllo e alla gestione dei beni posti in regime di tutela sia a livello di beni monumentali, sia per
quanto riguarda i beni paesaggistici, ovvero gli immobili e le aree di cui all’Art.136 del Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio 4.
Il livello di verifica che si promuove nella prassi corrente è tuttavia posto, quasi esclusivamente, sul piano estetico e dell’armonizzazione dei caratteri formali rispetto al decoro urbano; si pensi all’Art. 154 che
relativamente al colore delle facciate dei fabbricati dispone la sostituzione del colore «che rechi disturbo
alla bellezza dell’insieme con un diverso colore che con quella armonizzi».
Questa connotazione giuridica, che pure pone il colore in architettura al centro della salvaguardia del
paesaggio, non ci permette di riconoscere, indicando genericamente il “codice estetico della bellezza” come unico parametro di giudizio, dove si debba ricercare il valore del colore inteso come bene
culturale. In quest’ottica possiamo tuttavia affermare, senza tema di smentita, che il colore delle facciate è contemporaneamente espressione del bene architettonico e del suo contesto paesaggistico.
In tale ambito, infatti, il paesaggio è piuttosto da intendersi quale espressione di sintesi del patrimonio
ambientale e culturale, la cui tutela è divenuta un’istanza universalmente riconosciuta, seguendo da
oltre un decennio precisi principi, dettati in ambito comunitario europeo 5.
La necessità stessa di operare in difesa dell’ambiente, includendovi le componenti caratterizzanti il
paesaggio antropico, la sentiamo ripetere sempre più frequentemente nella società contemporanea,
tant’è che è entrata a pieno titolo nella “Carta dei diritti” degli Stati membri e quindi anche in Italia,
sia a livello nazionale che regionale, pur con varie accezioni, nella traduzione che ne è stata fatta nei
disciplinari tecnici e nei regolamenti delle comunità insediate.
16
Capitolo 1 Il restauro del colore come restauro della superficie architettonica
Si tratta per quanto concerne la tutela, di azioni mosse alla ricerca di salvaguardare un’identità culturale che pare sempre più compromessa dal manifestarsi repentino e massiccio delle trasformazioni
territoriali che, peraltro, lo stesso sviluppo urbanistico moderno, induce come motore di sviluppo
e di crescita economica nelle compagini architettoniche, metropolitane e periurbane. Partendo da
questa contraddizione non appare univoco il principio della tutela in difesa dell’identità cromatica dei
luoghi.
Nella prima metà del secolo scorso si perorava in difesa dei beni storico-artistici soprattutto la causa
della tutela diretta dei “monumenti”, rivolgendosi sul piano territoriale alle “bellezze naturali” 6, come
poco più tardi fu recepito ed introdotto nella stessa Carta costituzionale 7. L’esigenza del controllo ai
fini della tutela, è stata ulteriormente allargata alcuni decenni più tardi comprendendovi la categoria
dei centri storici, ed infine, estesa a tutti i beni culturali, riunificando le risorse ambientali e paesaggistiche in una più vasta e onnicomprensiva categoria. Per gli aspetti inerenti alle regolamentazioni e
alle competenze istituzionali, le azioni di salvaguardia sono state variamente declinate negli ordinamenti giuridici di Stato e Regioni, a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, attraverso
forme diverse di protezione che interagiscono ora a livello urbanistico, ora a livello del singolo bene
architettonico e del manufatto di interesse storico-artistico, attuando compositi processi di gestione
e tutela, cioè seguendo da una parte i principi della “conservazione integrata” 8, dall’altra aderendo
tout court al concetto di “conservazione” che si trova nel dettato dal citato Codice dei Beni Culturali
e del Paesaggio 9:
«La conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio prevenzione, manutenzione e restauro».
Tanti modi quindi per evidenziare medesime esigenze di salvaguardia attinenti ad aspetti diversi
auspicabilmente da attuare nella gestione del patrimonio culturale. Al riguardo sarebbe opportuno
ristabilire un giusto rapporto dialettico tra vecchio e nuovo, rispettando e semmai valorizzando le diversità compositive e linguistiche che la natura costruttiva propria di ciascun manufatto architettonico
evidenzia attraverso le superfici materiche, gli apparati decorativi e gli apparati murari a faccia-vista,
intonaci rustici e finiture lisce.
Per concludere questo preambolo con alcune considerazioni finali si deve riconoscere che non appare ancora chiaro nell’ambito della disciplina scientifica cosa debba realmente intendersi per “restauro del colore in architettura” che tuttavia, in base alle suddette valutazioni, pare ricondursi ad
una duplicità di azioni:
a) quella relativa alla materia costitutiva della superficie architettonica costituita dalla stratigrafia
dell’intonaco comprendente in ultimo anche il film pittorico;
b) quella inerente all’immagine, ovvero al contesto entro il quale il bene architettonico è dislocato (cfr.
Tavv. 5-8).
In definitiva, si può quanto meno tentare di enunciare il campo di applicazione della “neonata disciplina”, ovvero che:
«il restauro del colore deve intendersi realizzabile esclusivamente se posto sul piano materico, stabilendo per ciascun edificio un proprio codice, unitamente ad un’idonea tecnologia applicativa, affidando semmai alle tinte di rifacimento il compito di non tradire la stratigrafia storicamente accertata
sui fronti esterni in relazione ai mutamenti consolidati del contesto e conseguentemente rispettare le
matrici cromatiche dalle quali deriveranno tutte le tinte compatibili di progetto» 10.
17
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
I. Intermezzo. Il colore del Quirinale
A Roma, caso emblematico e trainante di “ripristino cromatico” per la rilevanza monumentale,
la grande visibilità pubblica e la tormentata vicenda storica dei suoi restauri, è quello del Palazzo
del Quirinale: «Le facciate esterne che prospettano sulla piazza e la via omonima, furono oggetto
di delicati interventi di manutenzione e restauro. Nell’occasione si procedette a una campagna di
indagini scientifiche sui principali elementi costitutivi del monumento (intonaci, travertini, marmi,
elementi in stucco, ecc.), per acquisire l’esatta conoscenza sullo stato di conservazione del Palazzo, ricostruirne le vicende materiali e progettarne al meglio i lavori futuri. In parallelo con le ricerche d’archivio e i dati scientifici acquisiti, un’attenzione particolare fu dedicata al tema del colore
delle facciate, in vista della necessità d’intervento, poiché, a detta degli esperti, non versavano in
condizioni tali da consentire una loro rimessa in luce, a differenza di quanto avvenuto nel 1998
nel Cortile d’Onore, dove fu scoperta e restaurata l’originaria superficie in stucco della palazzina di
Mascarino. In accordo con il progetto di restauro e con la direzione dei lavori, una commissione
che si occupò dei beni artistici del Quirinale esaminò i dati emersi dalle ricerche scientifiche e
storiche per procedere alla scelta del colore del Palazzo. Una scelta necessariamente coerente
con la storia del monumento, con la corretta lettura dell’organismo architettonico, con il contesto
urbano in cui oggi il Palazzo si colloca. La scelta fu orientata sulle antiche tonalità chiare del colore travertino; la decisione non ebbe l’ambizione di un impossibile “ripristino” o di un ritorno alla
Roma pre-barocca, ma volle essere memoria e momento di conoscenza del progetto originario di
un palazzo che si fingeva “di pietra” per imporre la sua monumentale presenza come sede dei
papi. La decisione scaturì da alcune considerazioni fondamentali. In primo luogo si valutò che il
blocco principale del Palazzo del Quirinale aveva mantenuto sostanzialmente inalterate fino ad
oggi le linee architettoniche cinquecentesche e seicentesche, che nacquero con e per un colore
molto chiaro, secondo la tradizione rinascimentale che conferiva agli edifici monumentali una
superficie a stucco ad imitazione della pietra. La veste chiara del Quirinale risultava inoltre prevalente nella storia del Palazzo ed aveva una importanza progettuale che le successive fasi storiche
non possedevano. L’orientamento verso il colore del travertino corrisponde anche alle condizioni
ambientali attuali della piazza, ove in tempi recenti la Consulta e le Scuderie papali hanno accolto
tinte molto chiare. L’utopia di un grande Palazzo tutto di pietra tramontò verso la fine del Seicento
quando si diffuse nell’edilizia romana la moda del celestino. Non si sono trovati documenti né
tracce materiali di tinteggiature celesti nelle facciate esterne del Quirinale, ma diversi dipinti,
dal 1683 agli anni trenta del Settecento, raffigurano il Palazzo in questa nuova veste cromatica.
Documenti, iconografia e ritrovamenti sugli intonaci dimostrano invece con certezza che furono
celesti le Scuderie papali sulla piazza, il Cortile d’Onore, la Manica Lunga; quest’ultima però, nella
facciata verso la strada, mutò colore già nel 1732 passando dal celestino al travertino in due toni.
Ma le manutenzioni non dovettero essere frequenti: alcuni dipinti ritraggono infatti il Quirinale con
un cupo colore bruno e si documentano lavori di rappezzamento degli intonaci con tinte scure e
patinate. Un colore analogo contraddistingue anche il Palazzo sabaudo della fine del secolo XIX;
solo nei primi decenni del Novecento gli intonaci del Quirinale volsero progressivamente verso le
più scure tonalità dell’ocra gialla o rossa, i colori “mattone” che ancora negli scorsi decenni caratterizzavano la città di Roma» (Estratto dal sito web ufficiale del Quirinale, ndr).
Non entrando nel merito delle scelte critiche operate allora, si sottolinea invece come le metodologie, i materiali e le maestranze moderne, pur nelle loro eccellenze, non siano state in grado di
offrire un livello qualitativo analogo alle raffinate sfumature di grado e di tono delle finiture a calce,
che pur furono rilevate.
18
Capitolo 1 Il restauro del colore come restauro della superficie architettonica
Note
G.A. Centauro, Una metodologia di recupero delle
cromie preesistenti, in Piano del Colore del Centro Storico di Prato. Guida alle norme per gli interventi del colore.
Procedure e modalità, a cura di G.A. Centauro, v. 1, Poggibonsi, 1998, passim.
2
Ivi, p. 88.
3
Cfr. G.A. Centauro, Sperimentazioni sull’invecchiamento dei materiali, in Piano del Colore … cit, pp. 121128.
4
Ex D.Lgs 42/2004. Si veda, al Capo II - Individuazione
dei beni paesaggistici, l’Art.136, laddove sono indicati
“Immobili ed aree di notevole interesse pubblico”. In
particolare: «1. Sono soggetti alle disposizioni di questo
Titolo per il loro notevole interesse pubblico: a) le cose
immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica, ivi compresi
gli alberi monumentali (1); b) le ville, i giardini e i parchi,
non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del
presente codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza; c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico
e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici (2); d) le
bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o
di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo
spettacolo di quelle bellezze (1)
(1) Lettera modificata dal D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 63
1
(2) Lettera modificata precedentemente dal D.Lgs. 24
marzo 2006, n. 157 e successivamente dal citato D.Lgs.
26/03/08, n. 63».
5
Cfr. la “Convenzione Europea del Paesaggio”. Essa
è costituita da un documento adottato dal Comitato
dei Ministri della Cultura e dell’Ambiente del“Consiglio
d’Europa il 19 luglio 2000, successivamente ratificato
a Firenze, il 20 Ottobre 2000 da 27 Stati membri della
Comunità Europea.
6
Si vedano le leggi di tutela n. 1089 e n. 1497 del
1939.
7
Cfr. “Costituzione della Repubblica Italiana”, ex Art.
9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura
e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico della Nazione».
8
Tale definizione deriva dal dettato della “Dichiarazione di Amsterdam” e alla susseguente “Carta Europea
del Patrimonio Architettonico” (1975) sottoscritta dagli
Stati membri del Consiglio d’Europa, particolarmente interessante il principio che riconosce che (ex art. 7) «La
conservazione integrata è il risultato dell’uso congiunto
della tecnica del restauro e della ricerca di funzioni appropriate /…/».
9
Ex art. 128, comma 1.
10
G.A. Centauro, Laboratorio Restauro. Scritti vari e elezioni (1977/83-2012), Poggibonsi, 2012, p. 68.
19
Capitolo 2
Il colore nel paesaggio antropico
2.1. Paesaggi e colori
Secondo la definizione data dal D.Lgs 42/2004 il “paesaggio”, intorno al quale si dovrà muovere la
nostra osservazione, «è una porzione di territorio dai caratteri omogenei, i quali derivano dalla natura
e dalla storia umana e dalle reciproche interrelazioni».
Alla luce anche di questa precisazione si può dunque dedurre che, ai fini della conservazione, il
paesaggio rappresenta un territorio da esplorare non più solo sul piano visivo bensì, allargando
l’analisi all’ambiente fisico, naturale ed antropico, alla sua evoluzione storica.
Ci sono vari modi di leggere l’ambiente che, accomunando città e campagna, realizza quello che,
isolando gli aspetti marcatamente naturalistici, chiamiamo in via breve “paesaggio antropico”; ad
esempio, da un punto di vista percettivo esso si sostanzia con una sommatoria di elementi che, pur
facendo ancora riferimento ai caratteri fisici e naturali (orografia, idrografia, copertura vegetazionale)
attengono in particolare alla morfologia degli assetti agricoli e degli insediamenti, alla loro dislocazione
geografica, ecc., in un parola ai caratteri geo-ambientali che lo connotano.
Il paesaggio antropico si distingue a sua volta in distinte sottocategorie, alle quali daremo un valore
puramente convenzionale: paesaggio urbano, paesaggio rurale, ecc.
Nell’ambito urbano, riferendosi al colore del paesaggio da un punto di vista percettivo, il “peso cromatico”
maggiore è certamente costituito dalla massa del costruito esistente, antico, moderno e contemporaneo.
Nella visione remota dell’aggregazione urbana, il peso più rilevante è dato dal “morfotipo cromatico”
prevalente, più o meno indifferenziato nello skyline, mentre nella visione ravvicinata il connotato
cromatico maggiormente distintivo viene ad assumere un posto preminente nella individuazione dei
caratteri architettonici. Confinando la lettura agli insediamenti storici: le città, i borghi, le case sparse
derivano da questa proprietà la loro icasticità, pur con qualche importante distinguo. Se il ridondante
“rumore visivo” della città contemporanea annulla proporzionalmente l’effetto segnaletico del colore
in un coacervo di segnali contraddittori, le parti più antiche di ogni insediamento, formano rispetto
all’analisi paesaggistica, ambiti omogenei ancora oggi distintamente identificabili, a dimostrazione di
come sia importante il fattore cromatico che viene ad assumere una propria valenza ambientale e
culturale, attribuendo di nuovo un ruolo distintivo primario al colore.
Sul piano visivo questa prerogativa, propria di ogni centro storico, di ogni paesaggio tradizionale,
viene anche identificata come una sorta di genius loci. Una tale proprietà deriva primariamente
dalla composizione minuta del costruito che si specchia soprattutto nella varietà cromatica delle
singole superfici architettoniche, percepite a loro volta attraverso le specchiature delle facciate, dove
spiccano intonaci e pietre da costruzione impiegate nei diversi ambiti geografici di riferimento. Così
come avviene per l’insieme del costruito urbano, ogni paese è diverso dall’altro e allo stesso modo le
cromie delle unità architettoniche saranno comunque distinguibili le une dall’altre sia pure in tenui
modulazioni scalari.
Tuttavia, c’è da precisare, che la vasta gamma di sfumature applicate all’edilizia storica urbana, è
oggi frutto dell’industria dei colori e del marketing delle aziende produttrici, più che il risultato di una
tavolozza originaria, poiché i pigmenti naturali antichi, per loro natura non raggiungevano una così
ampia molteplicità di gamme tonali, come può permettersi l’industria contemporanea.
Si realizza in questo modo un duplice “paesaggio cromatico”:
a) d’insieme, formato dal caleidoscopio di colori che formano le unità visive del contesto urbano;
b) di dettaglio, prodotto dall’insieme delle unità di facciata (cfr. Tavv. 9-11).
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
2.2. Il “paesaggio cromatico”: modalità di rilievo
Un’attribuzione paradigmatica di identità caratterizza dunque il “paesaggio cromatico” che qualifica e distingue attraverso meccanismi di visione di tipo psicofisico (cioè attraverso la percezione
delle cose che si realizza per luce riflessa) un luogo dall’altro, un fabbricato dall’altro, o, per
meglio dire, una superficie dall’altra. Un meccanismo questo che permette di condurre l’introspezione necessaria per il riconoscimento (attraverso la visione non più indistinta delle forme)
dell’evoluzione storica e culturale, significante e distinta di ciascun ambito territoriale, ma che
procede nella selezione dei caratteri d’interesse precipuo, riunendo ulteriori e più complesse valutazioni, indotte e apprezzate non solo attraverso la vista, ma attraverso tutti e cinque gli organi
di senso. Suoni e silenzi, odori e sapori, sensazioni gradevoli o spiacevoli, sono alla base delle
esperienze che legano i nostri ricordi a determinati luoghi, restituendo immagini di panorami
amati o odiati, stimolandoci alle azioni di cura nei loro confronti o, viceversa, allontanandoci per
sempre da essi. Il paesaggio privilegiato che godrà di rispetto, salvaguardia e futuro nel tempo,
sarà dunque quello elettivo che produce in noi una condizione di benessere generale, suscitata
dalle esperienze sensoriali al completo, in cui l’occhio è parte cardinale. La percezione – visiva
ma non solo – si riappropria in questa fase, della dignità di discernimento che era propria degli
antichi, diventando uno strumento legittimo e valido ad accogliere la pienezza del sentimento
estetico, che non riconosce la bellezza solo nella grazia della forma, ma la trova dentro i materiali
che la natura gli dispone davanti.
La verifica di questa articolata affermazione può essere semplicemente realizzata attraverso la lettura
dell’ambiente nell’osservazione diretta del paesaggio antropico, riscontrabile attraverso il riconoscimento dei segni impressi sul territorio dalle generazioni che ci hanno preceduto e che la visione
cromatica è in grado di evidenziare (cfr. Tavv. 12-13).
1. Le città Sante
«Spesso ci dimostriamo analfabeti nell’interpretare la storia delle nostre città, non solo quella testimoniata nei
documenti o interpretata nei monumenti, ma soprattutto quella più lontana costruita sulla memoria. Città che
nascono dalle fondazioni militari romane (il castrum a scacchiera) e che nel tempo si trasformano strutturalmente sotto l’egida di altri sentimenti, come per esempio la fede. Città cresciute intorno ai luoghi di venerazione di un santo, che si modificano in modo simbolico sulle reliquie che custodiscono, separando gli spazi
per la preghiera, la festa, la comunità. È così per Sant’Ambrogio a Milano, San Marco a Venezia, San Gennaro
a Napoli, San Lorenzo a Firenze... città che ruotano attorno ad un potente simbolo d’aggregazione, con un
centro (sacro) e un cuore (santo) che lasciano segni ovunque, dentro le architetture, nelle stratigrafie dei
muri, nella sedimentazione dei colori. Le città moderne – sviluppi contemporanei delle stesse – sembrano aver
dimenticato il significato del centro, in senso religioso o civico che si voglia e per questo si dilatano a dismisura
in lunghe periferie dove lo spazio non manca eppure è vuoto, dove l’orizzonte è libero ma non è riconosciuto.
Sono le tracce familiari che danno il profilo alle nostre radici». (N.C.G. 2011)
Lo strumento principe per l’identificazione delle cellule elementari del “paesaggio cromatico” è dato
dalle cosiddette “schede-colore” che tuttavia si possono descrivere solo in una sorta di cromatismo
astratto, cioè relazionando il “colore percepito” (di per sé non oggettivabile) ad una classe cromatica
codificata, utilizzando distinti sistemi di rilevamento in relazione agli approfondimenti diagnostici che
intendiamo soddisfare con le indagini colorimetriche.
Queste ultime possono suddividersi in due categorie principali:
a) di tipo strumentale, con letture spettrali del colore e di identificazione cromatica per coordinate
convenzionalmente assunte (es. CIE-Lab);
b) di tipo comparativo “speditivo”, ovvero utilizzando “cartoncini cromatici” (sistema Munsell o altri
metodi standardizzati, coperti da brevetti e identificati da acronimi, quali: ACC, NCC, NCS, ecc. Si
tratta in realtà di sistemi tecnici derivati a loro volta da modelli scientifici che permettono di definire e
codificare in sequenza logica ogni possibile tonalità rilevata) 1.
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Capitolo 2 Il colore nel paesaggio antropico
In ogni caso, quand’anche le tinte fossero identificate in via comparativa da medesimi “codici
cromatici” 2, le cromie delle superfici rimarranno percepite dall’occhio in modo soggettivo se
non altro perché rispondono diversamente alla luce incidente che potranno riflettere in vario
modo: al mutare delle ore del giorno e della latitudine stessa del soleggiamento nelle varie stagioni; ed ancora, in relazione alla texture delle finiture, oggettivabile nel “grado di ruvidezza”
(gloss) e, più in generale, alla natura stessa dei materiali di superficie che ne variano l’assorbimento della luce.
Per queste peculiarità, ed a maggior ragione, il paesaggio cromatico viene considerato esso stesso
una pura astrazione. Resta tuttavia tangibile il riscontro del paesaggio antropico rilevato attraverso
le schede-colore nell’ampia scalatura di tipi e di componenti cromatiche variamente “accozzate”
tra loro.
Seguendo invece un percorso di lettura evolutivo di tipo culturale, basato sulla conoscenza della
tradizione costruttiva locale, tecnologica e storico-artistica, si rileva preliminarmente che, per identificare in ciascuno scenario paesaggistico di appartenenza le “tavolozze dei colori” impiegate nel
trattamento dei fondi o degli apparati decorativi, si può orientativamente far riferimento all’epoca di
costruzione della fabbrica, elaborando quelli che abbiamo chiamato “modelli cromatici”, che dal piano puramente astratto della codificazione consentono di riprodurre, seguendo preordinate tecniche
esecutive, altrettanti modelli fisici delle tinte.
Rimanendo per il momento sul piano del rilievo e dell’analisi preventiva si può dire che una tale lettura si basa sul grado di conoscenze e capacità critiche che rientrano nel bagaglio dei saperi di ciascun
rilevatore, una volta attributo degli artieri di bottega nell’esercizio del mestiere.
La ricostruzione della “tavolozza dei colori” nell’analisi sincronica riferita allo stato attuale può essere
viceversa assolta in via breve dal confronto in loco di “casi esemplari” preliminarmente individuati e
rappresentativi delle secolari pratiche localmente in uso, tramandate fino a non molti decenni or sono
dalle stesse maestranze (cfr. Appendice).
2.3. Matrici minerali e matrici cromatiche
Per procedere a più sistematici rilevamenti alla scala territoriale, occorre effettuare distinta
lettura dei colori: volumetrie architettoniche, elementi strutturali, masse plastiche e manufatti
compositi quali modanature, architravi, cornici di porte e finestre, marcapiani, cerniere angolari, lesene e bugnati, espressione esemplare in precisi ambiti geografici, delle caratteristiche
geologiche e delle varietà cromatiche afferenti al repertorio di pietre, rocce, sabbie e minerali
naturali tipici di quel territorio. Da tutti questi elementi si possono osservare e contestualmente identificare, secondo le modalità del rilevo speditivo-comparativo sopracitato, le cosiddette
“matrici minerali”, riferendo ciascuna cromia, o famiglia cromatica, ai litotipi corrispondenti ai
materiali lapidei del luogo. Ulteriori approfondimenti conoscitivi si realizzano in archeometria
con indagini di laboratorio.
2. Tecniche di rilevamento archeologico
«C’è poi un altro aspetto che in questi ultimi anni si sta sperimentando in alcuni cantieri particolari, dove le
pareti intonacate (e spesso affrescate), costituiscono la maggioranza delle superfici murarie. In questo caso
si tratta di considerare il complesso edificato (la costruzione e le modifiche, gli intonaci, le decorazioni e le
coloriture, i trattamenti protettivi, l’usura del tempo) come una parte di un particolare processo di formazione
che può essere “scomposto” nell’ordine inverso con cui si è formato». (R. Parenti 2008)
Ogni insediamento storico presenta da questo punto di vista materiali da costruzione coerenti con la
natura geologica del luogo, sia nell’aspetto mineralogico-petrografico che nel risalto cromatico. Come
se questo non bastasse l’esperienza ci insegna che anche gli intonaci che rivestono gli edifici vengono
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
ad assumere negli impieghi maggiormente diffusi e ricorrenti in ciascun ambito d’impiego, colorazioni
caratteristiche che fanno riferimento e si intonano alle pietre del luogo. Molte matrici minerali pur
avendo una colorazione macroscopica specifica ed evidente, non sono adatte a produrre né colori né
tinte. Dalla loro lavorazione e macinazione, non si estraggono pigmenti (le vere “matrici cromatiche”)
ma si ottengono sabbie, graniglie, inerti e aggregati vari, che mostrano cromie di carattere solo apparente, non avendo nella propria qualità minerale, né capacità coloranti di tingere, né potere coprente
permanente (cfr. Tavv. 14-15).
3. Architettura e natura
«L’architettura imitò la natura, non nelle rappresentazioni delle sue opere, ma nell’assimilazione ch’ella fa
delle loro qualità; imitò la natura non già facendo quello ch’essa fa, ma guardando al modo con cui suole
operare /…/. Ma la natura ha celato delle leggi di solidità, di equilibrio, di gravità; ha stabilite delle leggi di
rapporto, di simmetria, di proporzione, di numero, ci ha dato degli organi, delle facoltà, che medianti le loro
impressioni gradevoli o dolorose, c’insegnano ciò che si accorda o no con la sua volontà e le sue leggi».
(A.C. Quatremere De Quincy 1842-1844)
Questi colori sotto forma di tinte sono distribuiti topograficamente sulle facciate ora in “contrasto” ora
in “armonia” con gli elementi materici del faccia-vista lapideo o laterizio; a queste categorie si possono aggiungere in chiave decorativa o di più raffinata elaborazione artistica, anche altre modulazioni
lessicali basate principalmente sulla relazione tonale del “chiaroscuro”.
Questi linguaggi cromatici nelle applicazioni tradizionali hanno un comune minimo denominatore:
sono tutti strettamente correlati alle tipologie architettoniche storicamente presenti e al paesaggio
urbano al quale si riferiscono.
Nella tradizione costruttiva locale legata soprattutto all’impiego delle tinte a calce si ritrovano generalmente le basi cromatiche di queste coloriture che, attraverso mirate analisi di laboratorio su campioni
rappresentativi di intonaci, possono essere facilmente ritrovate e quindi consentire la selezione per
categorie di pigmenti, ossidi e terre naturali, utilizzati nella preparazione delle tinte con l’aggiunta
proporzionata di grassello di calce al fine di ottenere le chiarezze desiderate.
Le combinazioni possibili di queste tinte, sapientemente condotte dalle maestranze nelle molteplici
varianti tonali compatibili con l’impiego del legante – calce, sono limitate ad un numero ristretto di
matrici cromatiche che tuttavia, nella distribuzione composita che si può leggere nell’espressione
cromatica finale del paesaggio antropico, si moltiplicano in modo addirittura esponenziale se si considera la sommatoria degli accostamenti possibili fra tinte a “corpo”, tinte a “velatura” e stratigrafie
diversamente intonate e colorate di malte stese sulle superfici “a rasare” o “a stuccare” apparecchi
murari in pietrame o misti.
Al fine di stabilire un dialogo stretto, talvolta simbiotico all’interno del tessuto storico con l’architettura
originaria distintiva di ciascun paesaggio, le tinte di ciascun luogo, fatte salve le dovute eccezioni,
sono tuttavia limitate nelle composizioni ad un numero relativamente basso di colori che somma: le
“tinte base”, realizzate mescolando grassello di calce ad un solo pigmento; le “tinte binarie”, composte da non più di due pigmenti; le “tinte ternarie, o composite”, con tre o più pigmenti. L’insieme
di queste combinazioni costituisce l’abaco delle cosiddette “tinte madri”, riproducibili dalle matrici
cromatiche precedentemente descritte, laddove i materiali del luogo divengono espressioni primarie
della tavolozza delle matrici minerali.
I linguaggi cromatici che si desumono dagli abachi dei “modelli” così assemblati, sono di conseguenza gli elementi di maggiore identificazione urbana, a formare per l’architetto progettista e per
il restauratore una sorta di codice di lettura di base in relazione all’impiego di pietre, calci e sabbie
del luogo, anche nella formulazione di intonaci rustici ricavabili dalla macinazione di quelle stesse
pietre (cfr. Tavv. 16-17).
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Capitolo 2 Il colore nel paesaggio antropico
4. Effetto albedo
«Un errore frequente che si riscontra in molte pitturazioni moderne, è l’eccessiva chiarezza delle loro tonalità:
tendenzialmente, tutti i gialli diventano color crema e i rossi si declinano nelle sfumature del rosa. L’effetto è il
risultato dei progressivi interventi di manutenzione sulle facciate, in cui sono utilizzati prodotti industriali molto
diversi dalle tradizionali tinte a calce. Per esempio, nei luoghi in cui la luce atmosferica è intensa, l’irraggiamento solare diffuso e il riflesso del mare forte, l’impiego di mezzetinte eccessivamente schiarite, dovrebbe
essere molto limitato. Il caso affrontato anni or sono nei borghi costieri delle Cinque Terre è stato significativo
in proposito, poiché si è visto come nel corso del tempo, il senso storico-culturale del “paesaggio cromatico”
originario, sia stato completamente stravolto. In questi borghi gli edifici sono caratterizzati da intonaci decorati
e dipinti con una tavolozza vivace di tinte, realizzate a tempera proteica o con tecnica a calce. La nota trasparenza di queste pitture, nelle versioni più recenti di manutenzione e rifacimento edilizio, è sparita sotto l’uso di
prodotti vernicianti pastosi (coating) che contengono basi diverse dalla calce (inerti bianchi) addizionate con
coloranti di sintesi. Ed ecco i risultati: la natura coprente di alcune pitture (requisito apprezzabile e richiesto
dalle normative vigenti), riflette la luce a tal punto che l’occhio non percepisce più la gamma variegata dei
colori, ma li rifugge, preferendo distrarsi all’orizzonte. Le superfici pur colorate e chiare, riflettono troppo la luce
(effetto albedo) respingendola quasi totalmente, non sono cioè superfici “luminose”, nel significato etimologico di superfici “attraversate dalla luce”. Così il principio di visibilità dal mare che contraddistingue le abitazioni
costiere di questi luoghi, risulta del tutto stravolto: l’indugio della vista dei marinai che entrando e uscendo
dal porto amavano cercare il profilo noto della propria abitazione, spesso colorata con le stesse tinte delle vele
delle imbarcazioni è annullato dalla fuga dello sguardo altrove». (N.C.G. 2012)
2.4. Postulati dei colori-matrice nella lettura del paesaggio antropico
Da questo particolare angolo visuale, al fine di determinare alla scala territoriale le “matrici” minerali
e cromatiche storicamente consolidate nel rapporto instaurato tra natura litologica e l’utilizzo dei materiali nei manufatti edilizi, ciascun ambito paesaggistico è osservabile in base alle relazioni geologicoambientali instaurate tra la natura dei luoghi e gli insediamenti umani.
A tale riguardo rispetto alle tecnologie costruttive e alle finiture di facciata, se riferite agli intonaci, alle
coloriture e tinteggiature nell’uso tradizionale si possono utilmente stabilire nel riferimento ambientale
le più opportune relazioni fra i materiali lapidei e i pigmenti ricorrenti nell’impiego primario; in coerenza con tale assunto sono dati questi postulati dei colori-matrice:
– Il colore della città storica è un’espressione paesaggistica conclusa che deriva largamente la
propria identità dal colore dell’ambiente naturale, in particolare da quelle che abbiamo indicato
essere le matrici minerali del colore.
– I colori-matrice sono racchiusi nel patrimonio geologico del luogo, la cui tavolozza è prevalentemente rintracciabile nei materiali lapidei impiegati in architettura.
– Le terre naturali e gli ossidi minerali impiegati nelle tinte tradizionali a base calce trovano corrispondenza a livello locale nei caratteri espressivi delle pietre di ciascun luogo.
– Le tinte moderne si sono sviluppate seguendo modelli culturali autonomi, modificando ed estendendo la tavolozza naturale del luogo, pur derivando largamente da quella.
2.5. Dal paesaggio antropico urbano al colore della città
Dall’assunzione di tali postulati consegue, in chiave di salvaguardia dell’identità delle città, che nelle
applicazioni di restauro urbano sul patrimonio architettonico da porre in stretta correlazione con la
conservazione dei caratteri ambientali, dovremo preliminarmente procedere, per quanto concerne gli
studi sul colore, all’identificazione delle matrici minerali del luogo. Naturalmente il colore del paesaggio antropico urbano non deve scambiarsi tout court con l’immagine della città che risente anche di
altre condizioni instaurate nel tempo, non ultime quelle di natura sociale e politica, da contestualizzare ai diversi periodi storici: basti pensare alle ricostruzioni in stile per la “Torino sabauda”, per la
“Roma papalina”, per “Firenze capitale”, ecc.
La città storica assume un posto preminente nel paesaggio antropico urbano che reca con sé molte e
sostanziali ragioni di diversità, difficilmente compendiabili in più o meno stringate definizioni.
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
«Il colore nella città non è stato, insomma, un orpello, un fatto meramente ornamentale. È stato anche un elemento di consapevole comunicazione sociale, e addirittura di estetica sociale. Ristudiarne
l’evoluzione, ricostruirne lo stato e i fossili attuali non è dunque né un’operazione nostalgica, né un
atteggiamento “post moderno” (di ritorno al gusto della superficie contro il gusto della struttura), ma
la ricerca di una identità sociale» 3.
Come rilevato nel capitolo introduttivo non sono state ancora chiaramente delineate sul piano disciplinare tutte le complesse tematiche del restauro del colore in architettura e in particolare, in chiave
di analisi paesaggistica, del “colore della città”, sebbene questo svolga un ruolo indiscutibile nella
qualificazione ambientale. Si tratta semmai, di un ruolo reso ancor più incisivo in quanto attraverso
di esso si sostanziano e si sottolineano le qualità spaziali, i rapporti di massa e chiaroscurali insiti
nell’idea architettonica prima e nella sua declinazione artistica se, ancora una volta, attraverso di
esso si esprime altresì la caratterizzazione stilistica e decorativa di ciascun manufatto. E soprattutto,
attraverso il colore, si rende altresì riconoscibile la connotazione paesaggistica del costruito in rapporto con le specificità geo-ambientali del luogo. Si conferma il fatto che l’aspetto cromatico degli edifici
storici è, in quanto elemento distintivo della scena urbana, un valore riconoscibile da salvaguardare
nell’interesse pubblico.
5. Il colore dell’ombra
«L’ombra ha un ruolo fondamentale nelle architetture fiorentine, perché il suo colore, una tinta scura dai
riflessi grigio-azzurri, è racchiusa nei materiali strutturali più comuni, è essa stessa, una matrice del colore: la
pietra serena, la pietraforte e la pietra bigia, sono tre tipologie diverse di arenaria, utilizzate fin dall’età etrusca,
per realizzare architetture, colonne, elementi decorativi e conci di lavorazione per i bugnati. Queste rocce
sedimentarie, diffuse lungo tutta la dorsale appenninica toscana, al taglio fresco presentano una colorazione
fredda, che dal grigio chiaro passa al grigio azzurro, ma con l’esposizione prolungata all’aria, virano nella
gamma calda dei gialli ocra». (N.C.G. 2008)
Il colore delle compagini architettoniche che formano il paesaggio urbano, dalle case ai lastrici, dai
monumenti alle piazze comunica l’identità culturale delle città, fisica e storica insieme.
Nella descrizione del Progetto Colore di Torino, per sottolineare l’importanza non solo culturale del
restauro del colore cittadino, nel merito del paesaggio urbano si ebbe a scrivere:
«Le migliaia di casi definiscono un quadro estremamente ricco di esempi architettonici di rilevanza
culturale e ambientale; edifici appartenenti alle stagioni del primo e del secondo Eclettismo e del
Liberty, del Déco, del Razionalismo, ma anche edifici minori che trattengono, e una volta restaurati
restituiscono, ricchezze di dettagli costruttivi, di materiali pregiati, di preziose decorazioni dipinte. Tale
patrimonio troppo a lungo negletto, attende anch’esso di essere rivalutato» 4.
Attraverso la lettura evolutiva delle manifestazioni del colore nelle diverse sedimentazioni impresse
sulle superfici architettoniche si può ricostruire in modo significativo l’evoluzione del gusto di una società, possono altresì fissarsi le coordinate stilistiche e tecnico-costruttive prodotte da ciascuna epoca
e da ciascun artefice. Ciò nonostante, intorno al colore della città si è spesso banalizzato tanto che
il tema del colore urbano è un valore culturale “obliterato”, dimenticato e sconosciuto nella sua più
ampia accezione, confinato ad una rappresentatività esteriore e effimera.
2.6. Itinerari esemplificativi tosco-umbro-liguri
Gli studi sui cromatismi locali svolti in questi anni 5 hanno potuto puntualmente appurare la corrispondenza nei vari territori indagati e perlustrati dell’insegnamento di Francesco Rodolico 6 che qui
può per comodità riassumersi nel modo seguente: per tutti gli insediamenti storici, di antica formazione, esiste una stretta correlazione fra i minerali e le rocce del bacino geologico d’appartenenza e
la costruzione dei manufatti architettonici, principalmente realizzati con i materiali di cava disponibili
nell’area di riferimento.
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Capitolo 2 Il colore nel paesaggio antropico
Queste peculiari relazioni hanno forgiato nei secoli la riconosciuta bellezza ed armonia dei paesaggi
nostrani, da tempo descritti e celebrati nella letteratura europea, come dimostrano le pagine di un
Goethe, di uno Stendhal, dei coniugi Shelley e i molteplici resoconti del Gran Tour nell’Italia pre e
post-Unitaria lasciatici dai viaggiatori inglesi e d’Oltralpe, dettagli descrittivi spesso non a caso accompagnati da bozzetti grafici, disegni ed acquerelli a testimoniare la necessità di comunicare la
dimensione culturale della “vedutistica” e il ruolo del colore.
6. Il paesaggio e la veduta
«Per quanto vicini e simili possano sembrare i due generi pittorici, essi obbediscono ad esigenze diverse se
non antitetiche: nella sua accezione più comune il paesaggio fu per molti artisti pittura di evasione dalla realtà,
richiamo a temi universali in presenza di una natura amica e rasserenante o inquieta e drammatica, teatro
delle umane passioni; all’opposto la veduta fu descrizione razionale imprescindibile dalla prospettiva, ritratto
di luoghi reali e situazioni quotidiane comuni. L’una fa capo allo spirito romantico (tra il ruinismo e la pittura di
genere) l’altra a quello illuministico, pur avendo entrambe le stesse radici ideologiche nel tardo manierismo.
La veduta tuttavia godrà di una maggiore considerazione artistica perché è frutto di interessi e pratiche diversi:
prospettiva e quadraturismo, copia verosimile del paesaggio e descrizione realistica dei dettagli. È un “ritratto”
della realtà in cui la difficoltà e l’impegno intellettuale dell’artista equivalgono all’espressione dei suoi gradi di
valore». (S. Susinno 1974)
Facendo un rapido excursus nella straordinaria varietà geologica di Liguria, Toscana e Umbria tali
riconoscimenti trovano una ancor più evidente corrispondenza nell’articolata geografia dei luoghi,
dove spicca soprattutto la composizione architettonica d’insieme degli insediamenti.
L’espressione materica del costruito storico e la ricca tavolozza che caratterizza, differenziandoli, le
centinaia e centinaia di centri storici spicciolati nei territori vanno a formare le sequenze di questi paesaggi antropici. Riprendendo dalle ricerche condotte da chi scrive nell’ambito del progetto editoriale
di “Toscana Immaginata” 7, ritroviamo ad esempio che nelle città dislocate nei territori dell’Appennino
settentrionale, dalla Liguria fino alla dorsale umbro-casentinese e perugina, predominano le pietre sedimentarie con gamme tonali e cromatiche giocate nella variegata presenza di inclusioni terrose e di
argille che compongono caleidoscopi tra loro molto diversi, nell’alternanza di assonanze e dissonanze
di grande effetto. In questi luoghi e nei bacini idrografici che si diramano dai monti fino al mare si
alternano poi, in una sequenza incredibilmente articolata, condizioni geomorfologiche di segno differente: la grigia Arenaria macigno con venature a volte calde, dai toni giallognoli e bruni, caratterizza i
centri storici di città come Arezzo e Cortona, a volte fredde, dai tenui riflessi verdastri, marca invece
le cromie di altre città come avviene a Pistoia, ma anche in Lucchesia e nel Pesciatino; di contro, la
nobile e cerulea Pietra serena di Fiesole e di Firenze, si mescola al calcare arenaceo della “fiorentinissima” Pietraforte di Monte Ripaldi, dai morbidi e cangianti toni bruni, e all’arenaria più ferrigna della
pietra della Gonfolina, estratta dalle sponde collinari che serrano l’Arno a ovest del capoluogo.
Localmente sono però presenti anche altre formazioni, ad esempio il calcare marnoso, come l’Alberese
della Calvana e del Monte Morello, dai toni chiari e variamente ossidati e le bellissime rocce ofiolitiche di
Prato, come il Serpentino verde del Monteferrato, già estratto nei dintorni della stessa città laniera. Tra
loro, per importanza ambientale, non meno diversi come le varie arenarie, sono l’Alabastro e le molteplici
famiglie dei tufi che distinguono il Volterrano dal Senese, ed entrambi rispetto a quelli della zolla tufacea
tosco-umbro-laziale che connota le formazioni rocciose dell’area di Sorano, Sovana e Pitigliano. Altrettanto può dirsi delle rocce clastiche e dei calcari, dove capitoli a sé stanti sono rappresentanti dai purissimi
marmi bianchi delle Apuane, ma anche dalle impure e calde tonalità del Verrucano pisano o dei calcari
arenacei e della Panchina delle coste tirreniche livornesi; ed ancora, nell’area senese, dei travertini della
Val d’Orcia che hanno ornato e fatto bella la “città ideale” di Pienza, ecc. In quasi tutti i casi, anche per le
città maggiori di pianura, poste su terreni alluvionali, la vicinanza delle stesse alle cave di pietra di buona
qualità, ha assunto un peso specifico nell’edificazione di palazzi pubblici e chiese, come nei casi di Pisa
e di Lucca rispetto alle coste del Monte Pisano e dei massicci montuosi della Garfagnana, di Firenze con
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
le cave di Settignano e di Maiano, ma anche della Valle dell’Arno, della Greve e della Sieve, di Arezzo
con la pietra bigia del Casentino e dei colli vicini alla città. Ci sono poi le contaminazioni date dalla compresenza di policromie minerali, ad esempio Prato su tutte e Siena, laddove osserviamo gli accostamenti
rosso-rosacei con le infinite sfumature del bianco e del giallo offerte dall’alternanza degli ammattonati e
degli intonaci dipinti delle maggiori campiture con le diffuse profilature architettoniche in marmo della
Montagnola e in travertino di Rapolano, ecc. È poi sempre esistito anche un proficuo interscambio di
materiali tra un’area e l’altra che ha generato ulteriori varianti nelle diverse realtà urbane maggiori, proponendo alcune interessanti sovrapposizioni tra una zona e l’altra. Inoltre si deve considerare anche la
ricchezza e la diffusione, seppure molto frammentata all’interno della regione, delle zone ricche di terreni
argillosi che hanno creato le condizioni ottimali per l’impiego costruttivo del laterizio. Anche in questo
caso le differenze rilevabili in origine per ciascun tipo di argilla, o imputabili alle tecniche di cottura nelle
fornaci, quasi sempre dislocate in prossimità delle cave, ha creato ulteriori caratterizzazioni materiche
e coloristiche, ben riconoscibili nei mattoni impiegati nelle varie aree geografiche, distinti dalle tonalità
rosate e giallo rosate del Senese, al rosso ferrigno del cotto classico dell’Impruneta, dal rosso aranciato
delle fornaci di Pistoia a quello più bruno o “vinaccioso” della zona di Lucca, ecc. Rimanendo in Toscana
le aree alluvionali del Valdarno, della Valtiberina, della Valle del Serchio, ecc. hanno in qualche modo
separato e reso tra loro più distanti le aree geologiche principali della regione creando, in ogni caso, più
marcate discontinuità nell’impiego di materiali e di pietre da taglio delle varie provenienze.
7. I colori di Firenze
«L’assenza di colori vivaci e di tinte diverse dal giallo, nella rosa ristretta delle poche sfumature che questo
pigmento consente, caratterizza gran parte delle architetture fiorentine e numerosi fronti esterni del Quartiere di
San Lorenzo. L’impatto cromatico della città, non sembra tuttavia indotto dalle superfici tinteggiate, ma deriva
piuttosto dalla presenza estesa degli apparati lapidei di coronamento. La tipologia edilizia più antica e caratteristica della città, prevedeva infatti l’utilizzo massiccio di materiali costruttivi facilmente reperibili in loco, spesso
lasciati faccia a vista per realizzare basamenti in bugnato, portici, logge, cantonali, marcapiani, paraste, stemmi,
cornici, stipiti, ecc. La tavolozza cromatica fiorentina, risulta innanzi tutto formata da materiali lapidei di diversa
specie e pregio: per questo è stato necessario segnalare tra i colori rappresentativi del Quartiere di San Lorenzo,
alcune delle più importanti matrici minerali chiamate “Pietre di Firenze”, tradotte in equivalenti codici colore
/…/. Un’ulteriore tipologia architettonica presente nei palazzi del centro storico, è offerta dalle facciate decorate e
dipinte /…/. La decorazione graffita fiorentina, cronologicamente riconducibile al XVI/ XX secolo, con il suo vasto
repertorio di ornati figurativi, partiture geometriche e fantasiose grottesche, manifesta perfettamente quel principio di “chiaroscuro”, che caratterizza per antonomasia tutta l’arte toscana. Sul forte contrasto tra luce e ombra,
con cui si modellano i disegni facendo apparire volumetrici e tridimensionali, gli oggetti appartenenti alle superfici
piatte, è incentrato tutto il Rinascimento artistico che a Firenze si è ispirato». (N.C.G. 2008)
La relazione mimetica che s’instaura tra i materiali lapidei, più preziosi e nobili, appartenenti a ciascun luogo e le stesure di colore sugli intonaci è l’altro aspetto che, più di ogni altro, ha caratterizzato
il paesaggio urbano toscano, rendendo il colore pienamente funzionale all’architettura, a volte restituito attraverso il contrasto cromatico, a volte modulato armoniosamente attraverso la scalarità chiaroscurale intercorrente tra i fondi dell’intonaco e le membrature architettoniche, ovvero tra le finiture
bidimensionali ed i risalti plastici.
Ecco perché ogni città ha assunto nel tempo propri codici materici da considerare come “invarianti
minerali” che, nell’ambito del rilievo cromatico, saranno da valutare in distinti codici cromatici, alcuni
di più facile lettura, altri di più difficile traduzione.
Nelle matrici minerali si ravvisa frequentemente una ricchezza di sfumature, venature e inclusioni
cromatiche di vario genere, che non trova durante le fasi del rilevo visivo e comparativo su cartelle colore di riferimento, un codice univoco di corrispondenza, ma ha bisogno di essere descritto all’interno
di una coppia di colori o di un intervallo alfanumerico più articolato. Questa sensibilità di dettaglio che
contraddistingue le grandi capacità percettive dei migliori rilevatori, è tutt’altro che un puntiglioso accertamento poiché, se compiuto con attenzione, fornirà la giusta chiave di lettura per comprendere le
28
Capitolo 2 Il colore nel paesaggio antropico
scelte di gusto di certi accostamenti cromatici, che vengono imitati, simulati e tradotti, negli apparati
decorativi delle facciate storiche e nei fregi dipinti di vario stile ed epoca.
Ecco perché, pur senza dover indicare per ogni edificio un colore originario, del quale è stata perduta qualsiasi traccia o cognizione, si può sostenere che per ogni composizione architettonica sarà
comunque possibile stabilire, attraverso l’osservazione di tali invarianti, quale potesse essere stato in
origine il fraseggio cromatico instaurato tra le campiture intonacate e le parti lapidee. Si può semmai
parlare di colori omologati nell’uso ricorrente tanto da divenire stereotipi da imitare nelle ricostruzioni
e nei rifacimenti vernacolari in stile.
Allora gli itinerari esemplificativi, qui sommariamente portati ad esempio per lo studio dei paesaggi
antropici della Toscana, rappresentano non solo ideali viaggi della memoria, bensì possono costituire
un riferimento nell’approccio alla ricerca sui colori-matrice del luogo.
Questi ultimi sono da valutare come veri e propri “modelli di colorazione”, tanto da poter essere assunti
come testimonianze dei “colori perduti” a causa dei molteplici mutamenti di gusto e di stile che si
susseguono già a partire dal XVII-XVIII secolo. Nel progredire di distinte fasi evolutive che rimandano a
specifici studi storici, le città hanno comunque assunto un loro nuovo e personale volto dal quale difficilmente potremo oggi derogare in chiave di restauro. Nel ricostruire questi processi di trasformazione si
assiste con frequenza, specialmente nei rifacimenti pittorici del XX secolo, a palesi devianze cromatiche
ed evidenti sgrammaticature che compromettono lo stesso lessico compositivo delle facciate.
Se partiamo quindi dalle pitturazioni “a fresco” su intonaci umidi, ben piallettati, tirati a calce e sabbia, oppure da fregi decorati finemente graffiti, si può trasecolare osservando su quelle stesse pareti
l’uso promiscuo di dozzinali tinteggiature realizzate con sistemi di mercato, persino non compatibili
con la natura del supporto; come pure è doloroso per l’arte osservare la gratuita sostituzione delle
stratigrafie a calce con malte bastarde, ovvero con miscele cementizie che tradiscono l’essenza qualitativa stessa della composizione originaria, condannando ogni successivo trattamento delle superfici
all’applicazione di sistemi vernicianti largamente incongrui e deteriori sul piano estetico e funzionale,
basti pensare all’uso ampissimo fatto nei decenni trascorsi di tinteggi al quarzo.
Osservando oggi la pelle delle cortine edilizie delle città, annotiamo con sempre maggiore frequenza
la proposizione passiva di un campionario quanto mai eterogeneo di situazioni che poco o nulla
hanno a che fare con l’immagine autentica del luogo. Tuttavia sotto queste “incrostazioni”, al di là del
monotono orizzonte assunto dalle periferie, della ripetitiva illustrazione urbana della città contemporanea, possono ancora leggersi le stratificazioni storiche di un percorso originale e potenzialmente ricco
di sorprese, principalmente sul piano del recupero dei colori dimenticati.
Se il Movimento Moderno ha lungamente contrastato l’architettura dipinta, privilegiando l’espressività propria del materiale grezzo ed effetti chiaroscurali scarni di cromie, producendo a sua volta un
modello edilizio alternativo ed una ulteriore sedimentazione di tipi nel contesto urbano, è altrettanto
vero che “il colore della città” ha comunque mantenuto piena legittimità come principale protagonista
della “scena urbana” storica (cfr. Tavv. 18-20).
8. Tutti i colori del Colosseo
«La notizia apparsa su diversi quotidiani, sta facendo scalpore. Gli interventi di restauro iniziati sul Colosseo hanno portato a una scoperta che cambierà per sempre la percezione del famoso monumento. Un’equipe di restauratori ha trovato all’interno dell’Anfiteatro, una serie di affreschi policromi in alcuni ambienti di servizio, ritenuti
improbabili per questo genere di decorazioni. Oltre ai dipinti già noti nella galleria “imperiale” di Commodo, se
ne sono aggiunti altri, rinvenuti nella galleria intermedia che collega il secondo e il terzo ordine, a trenta metri dal
piano di pavimentazione stradale. Sotto abbondanti strati di graffiti e firme di coloro che, nei secoli hanno lasciato
traccia del loro passaggio, è emersa un’alta zoccolatura rossa, una fascia di circa due metri e qualche resto di
decorazione pittorica a fogliame su fondo bianco. Più in alto ancora, alcune tracce di azzurrite, un pigmento blu
molto prezioso utilizzato nella pittura antica, la cui presenza testimonierebbe, secondo gli esperti, l’esistenza di
dipinti più complessi. Si tratta di frammenti di piccole dimensioni, ma tanto basta a trasformare l’idea che fino ad
oggi abbiamo avuto del Colosseo nell’antichità: una versione in technicolor che riuniva il bianco del rivestimento
marmoreo che copriva la facciata esterna, il nero delle scritte (alcune anche ingiuriose e pornografiche), il rosso
e il blu delle decorazioni murali … ma forse si potranno vedere tanti altri colori». (N.C.G. 2012)
29
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
Non considerando questo aspetto si generano atteggiamenti incauti e inconsapevoli, tipici del restauro tipologico, laddove per ritrovare il senso di un’architettura perduta si lasciano a vista, perlopiù
senza una reale legittimazione di tipo architettonico-archeologico, porzioni indistinte e poco probanti
del supporto murario, quali archetti, spezzoni di bozzati o cornici isolate. Si tratta principalmente
di membrature in pietrame e laterizio che in sede d’intervento esecutivo, ogni maestranza tecnica
è in grado accuratamente di restaurare ma non ha strumenti sufficienti né per discutere le scelte
di ostentazione, né per praticare un lavoro di soddisfacente valorizzazione. Questi frammenti che
nell’intenzione della loro scoperta, dovrebbero far bella mostra di sé su edifici di fresco rinnovati, si
trovano invece tristemente affossati in spessi masselli d’intonaco, rigidamente squadrato, ritagliato e
pitturato, senza alcun riguardo per la stratigrafia materica messa in luce. L’errore più frequente non
riguarda l’intenzione peraltro fallita, di “musealizzare in situ” un frammento d’antichità presentato
all’occhio come un reperto archeologico sopravvissuto, piuttosto riguarda la debolezza delle soluzioni
di trattamento per la superficie d’accoglienza. Queste porzioni rimangono estranee al contesto storico originale, tanto quanto sono alienate dal supporto d’appartenenza, nella morsa serrata delle loro
nicchie di contorno o dei pesanti intonaci aggettanti. Questo atteggiamento si è andato saldando e
purtroppo legittimando per successive imitazioni con altro genere di sgrammaticature che riguardano
più direttamente la topografia del colore.
Talvolta il fenomeno è accompagnato dalla semplificazione della tavolozza con l’eliminazione sistematica dei repertori decorativi otto-novecenteschi di facciata. Si annoverano, tuttavia, situazioni di
segno opposto, come quelle presentate dalla città rivierasche, dove la policromia svolge un carattere
identitario ancora forte, dalla costa ligure di Levante ai centri del litorale toscano che presentano un
profilo multicolore di intonaci dipinti che ha attraversato le temperie culturali del secolo scorso: dalle
infinite gamme di tinte decorative della Liguria alle esuberanti coloriture di Pisa e Livorno, a quelle
non meno vistose di centri come Pietrasanta, Massa e Carrara.
Per la Toscana il luogo principe di tali manifestazioni cromatiche è certamente rappresentato dall’edilizia novecentesca viareggina che si può osservare percorrendo il luminoso lungomare, dove il colore si fonde con il rivestimento ceramico nell’elaborata architettura del “liberty toscano”, pur non
raggiungendo l’enfasi ed il marcato coinvolgimento ambientale dei borghi rivieraschi liguri, dai fasti
architettonici rinascimentali della Genua Picta alle forti connotazioni paesaggistiche, sempre più colorate che si riscontrano da Camogli a Portofino, da Levanto al Golfo dei Poeti, passando per i piccoli
borghi marinari delle Cinque Terre e Portovenere (cfr. Tavv. 21-24).
9. Colori ad effetto
«Per effetti vivaci del colore non è necessario ricorrere ad un ammasso di tinte brillanti; queste devono essere
riservate per i massimi accenti luminosi:un’intonazione profusa di toni rialzati finisce col stancare l’occhio
respingendolo. I contrasti oltremodo vibrati producono sovente effetti aspri e persino triviali; mentre l’armonia
spinta all’estremo, può generare fiacchezza; e un trattamento eccessivamente largo può suscitare un senso di
vuoto e pesantezza». (G. Ronchetti 1955)
Il colore delle città, come rilevato negli itinerari esemplificativi sopra esposti, si conferma quindi protagonista nel paesaggio antropico in quanto espressione autentica della mutevole condizione sociale
e culturale che storicamente ha contribuito a formare l’identità del luogo attraverso linguaggi formali,
autonomi e distinguibili. Come le matrici minerali hanno un forte legame con le realtà territoriali locali
e una diretta espressione sul piano del paesaggio antropico, alla scala architettonica dei singoli edifici
o dei loro aggregati derivati, sono le matrici cromatiche ad assumere una valenza maggiore. Attraverso un repertorio pittorico-decorativo tipico in ogni specifica località, nei grossi centri urbani tanto
quanto nei minuscoli borghi rurali, le matrici cromatiche, sotto forma di tinte unite distribuite topograficamente sulle facciate, ora in “contrasto” ora in “armonia” con gli elementi materici del faccia-vista,
a cui si vanno ad aggiungere in chiave più raffinata, le tinte decorative nelle elaborazioni artistiche
30
Capitolo 2 Il colore nel paesaggio antropico
di maggiore pregio (graffiti, pitture murali), sviluppano ulteriori modulazioni lessicali, che richiedono
l’attuazione, la conoscenza e la comprensione di una specifica sintassi cromatica.
Il principio di relazione che si instaura con l’uso dei colori in forma ordinata e tecnicamente regolamentata, come conviene alla decorazione pittorica ed architettonica canonizzata, su porzioni diverse
di un solo edificio o tra vari edifici, proietta di colpo il valore materico-strutturale dei colori matrice, dal
piano sincronico delle superfici edilizie, a quello diacronico dei centri in via di sviluppo.
La dimensione storica e temporale si misura attraverso la moltiplicazione di forme architettoniche
sempre più compiute ed efficienti che si sovrappongono e giustappongono ad altre ormai decadute,
sopra gli stessi spazi e dentro gli stessi luoghi, secondo criteri di rifacimento, demolizione, ricostruzione, adattamento, riuso che oggi farebbero inorridire. In questa babele di vicende solo parzialmente
note, l’apparire e lo scomparire delle diverse tinte, segnalano cicli di storia, tecniche artistiche, mode
del periodo, stili ed epoche. Per questa valenza culturale oltre che ambientale, le matrici cromatiche
devono essere tenacemente salvaguardate, rispondendo nel trattamento delle superfici ai principi
della conservazione e del restauro (cfr. Tavv. 25-26).
II. Intermezzo. Le bellezze …
È pensabile l’applicazione corretta del D.Lgs 42/2004 senza un chiarimento oggettivo e qualitativo
di ciò che s’intende oggi per “bellezza dell’insieme”? Ci sono (se esistono) tecnologie e metodologie
scientificamente in grado di aiutarci nella definizione? Oppure questo è un vuoto, una lacuna per
antonomasia, in cui gli strumenti più sofisticati non possono sostituire l’apprendimento intuitivo e
soggettivo del bello?
«Il riconoscimento delle opere d’arte (beni mobili e immobili) è coinciso per molti secoli con il
gusto per le Antichità, di cui si apprezzavano soprattutto la grazia e l’eleganza formale, così attentamente cautelate nella pratica del restauro filologico prescritto nelle prime Carte del Restauro.
Nella Legge 1089/39 il Ministero della Pubblica Istruzione per le Antichità e Belle Arti, preoccupato
all’epoca di regolamentare gli scavi archeologici fortuiti, di sorvegliare l’alienazione dei monumenti
nazionali e d’impedire il commercio clandestino delle opere da parte dei privati, legiferava poche
e scarne disposizioni per la conservazione, integrità e sicurezza delle cose d’interesse artistico e
storico 8. In queste cose di interesse storico artistico, rientravano i musei, le biblioteche, gli archivi e
le bellezze naturali, a cui appartenevano le bellezze d’insieme (urbanistiche e paesaggistiche) e le
bellezze individue (i singoli manufatti artistici, architettonici, archeologici), sottolineando come allora,
il valore delle opere soggette a tutela, risultasse intrinseco all’antichità e legato all’estetica delle cose
stesse.
Nell’immediato dopoguerra, i provvedimenti governativi più urgenti, cercano di fronteggiare il contrabbando estero delle opere trafugate e l’enormità di macerie ereditata coi bombardamenti.
Nel 1954 compare per la prima volta 9, la definizione di bene culturale, in cui con il termine bene,
si sottolinea la funzione economica e il valore nazionale del patrimonio artistico, mentre l’aggettivo
culturale, respinge del tutto il criterio estetizzante che imperava con cui si giudicava il valore dei
monumenti. L’alluvione di Firenze nel 1966, metterà in luce i vuoti organizzativi e legislativi in fatto
di tutela del patrimonio artistico nazionale, rimediando nel 1972, con l’emissione della prima Carta
Italiana del Restauro 10.
Una chiara presa di coscienza giuridica e normativa, che servirà a delineare gli ambiti di competenza
della conservazione e del restauro vero e proprio. Verrà sancito un protocollo unitario d’intervento,
condivise le metodiche d’applicazione, incentivata la diagnostica scientifica, promossa la fotografia
a documento di rilievo. La tutela dell’opera d’arte, esce per sempre dalla dimensione artigianale di
cura privata, per diventare una mansione vigilata di carattere pubblico». (N.C.G. 2009)
31
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
Note
In ambito tecnico-scientifico, comprendente anche
strumentazioni portatili, distinguiamo secondo la funzionalità richiesta, in: 1. spettrometri che misurano le lunghezze d’onda dello spettro; 2. fotometri che misurano
l’intensità di una luce; 3. spettrofotometri che misurano
l’intensità della luce alle varie lunghezze d’onda; 4. colorimetro è uno strumento che misura le coordinate che
descrivono il colore a partire dalle misure fotometriche
delle componenti rossa,verde e blu, che agisce come
uno spettrofotometro limitato al solo campo del visibile
in cui la lunghezza d’onda viene variata per intervalli finiti, impiegando opportuni filtri; 5. spettrocolorimetro è
un colorimetro che consente di effettuare misurazioni
relative di assorbimento per i vari colori dello spettro visibile; è costituito da un colorimetro opportunamente accoppiato a uno spettroscopio; 6. spettrofotocolorimetro è
uno spettrofotometro abbinato ad un’unità di calcolo per
trasformare le misure spettrali in coordinate colorimetriche.
2
I codici cromatici sono parametri alfanumerici associati alla distribuzione di ciascun colore nella sua rappresentazione spaziale (“solido del colore”); questi codici
possono essere espressi per ciascun punto rilevato secondo distinte metodologie di misura convenzionalmente assunte in coordinate tricromatiche identificative dei
tre parametri chiave: tonalità, saturazione, luminosità.
3
O. Calabrese, I colori della città, in Il colore della città.
Siena, a cura di M. Boldrini, Siena, 1993, p. 18.
4
G. Tagliasacchi, Il Progetto del Piano del Colore, in To1
32
rino i colori dell’antico, a cura di G. Tagliasacchi, Torino,
1993, p. 15.
5
Con riferimento alle esperienze di ricerca condotte
soprattutto in ambito territoriale ed urbano (Toscana,
Liguria, Umbria, Lazio) e nell’Abruzzo del dopo terremoto dell’Aprile 2009; cfr., in appendice, il repertorio delle
pubblicazioni citate.
6
F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, II ediz. Firenze, 1995. La ristampa della seconda edizione del 1964
(la prima risale al 1952) è avvenuta contestualmente alla
pubblicazione degli Atti della Giornata di Studi in onore
di Francesco Rodolico, svoltasi a Firenze il 25 Ottobre
1993, durante la quale si è dato ampio risalto al prezioso
contributo tecnico- scientifico dell’autore soprattutto nel
campo della geologia ambientale.
7
G.A. Centauro, Materia e colore, in Toscana Immaginata. Ambiente Urbano, a cura di G.A. Centauro, Poggibonsi, 1999, I, p. 313 e sgg.
8
A. Coppola, La legislazione dei beni culturali, Napoli,
1997, pp. 165-177, cfr. L. 1089/39 e c. II e L.1487/39,
cit.
9
Il termine viene adoperato per la prima volta nella “Convenzione per la protezione dei beni culturali in
caso di 4° conflitto armato” durante il trattato dell’Aia del
1954.
10
F. Gurrieri, Restauro e conservazione, Firenze, 1992,
pp. 51-72.
TAVOLE
1. Bologna, Quartiere “San Leonardo” (foto del 1980). Il “restauro tipologico” dell’architettura storica fa
corrispondere il modello edilizio unitario, monoparticellare, a distinte cromie liberamente desunte dalla
tavolozza originaria dei colori della città antica
33
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
2. Colori-matrice con scalari tonali** (da: Piano del colore del centro storico di Prato … cit. **). In basso, a
destra, campioni materici con stratigrafie cromatiche identificative dei colori-matrice
34
SCALARI TONALI
Tavole
A4
B4
C4
D4
A3
B3
C3
D3
A2
B2
C2
D2
A1
B1
C1
D1
A
B
C
D
COLORE-MATRICE OCRA GIALLA
3. Degrado delle superfici: studio dei diversi comportamenti nei sistemi di pittura commerciali. In alto,
consunzione e disgregazione di intonaci tradizionali a Venezia. In basso, confronto tra diverse stesure: a latte
di calce (A), acrilico (B), silicato (C), silossanico (D). Test per il colore-matrice, ocra gialla naturale (da: Piano
del colore … cit., vol. 1, pp. 121-128)
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
4. Vecchio e nuovo nel trattamento delle superfici architettoniche dopo il rifacimento delle coloriture nel
centro di Roma (in alto) e nel restauro post-sisma delle cortine murarie ad Assisi (in basso)
36
Tavole
5. Vecchio e nuovo: un difficile dialogo. Al centro, il Palazzo del Quirinale nel colore del travertino ripristinato
dopo il restauro delle facciate; in basso, il Museo dell’Ara Pacis nel centro urbano
37
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
6. Superfici materiche: il peso cromatico nel paesaggio tradizionale
38
Tavole
7. Superfici materiche: il peso cromatico dei monumenti nell’ambiente urbano
39
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
8. Superfici materiche: il peso cromatico nell’architettura popolare
40
Tavole
9. Paesaggi cromatici collinari della Toscana in delicati scenari territoriali
41
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
10. Paesaggi cromatici in simbiosi tra natura e costruito storico: il masso tufaceo di Pitigliano
42
Tavole
11. Natura e colori del paesaggio antropico: quando l’ambiente urbano e il variare delle condizioni al
contorno determinano nel combinato effetto i caratteri identificativi del luogo
43
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
12. Ambiente urbano ed atmosfere nelle immagini evocative delle città d’arte
44
Tavole
13. Ambienti ed atmosfere che riflettono suoni e silenzi, odori e sapori quali colori dei luoghi
45
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
14. Colori di pietra nei rivestimenti e negli intonaci graffiti
46
Tavole
15. Colori di pietra nei rilievi plastici e nei bassorilievi scolpiti di fregi lapidei
47
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
16. Paesaggi cromatici marinari: la genesi dei colori segnaletici
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Tavole
17. Paesaggi cromatici marinari: l’invadenza dei colori segnaletici
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
18. Colori omologati nell’edilizia diffusa
50
Tavole
19. Tinte commerciali omologate nella ricostruzione post-sisma come nei villaggi outlet
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
20. Colori omologati nel trattamento di fronti edilizi seriali o isolati, in città e in campagna
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Tavole
21. Esempi di sgrammaticatura di intervento: opposte manifestazioni di risalto cromatico e architettonico
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
22. Esempi di sgrammaticatura: scomposizione cromatica (in alto), incerti interventi sulle lacune (in basso)
54
Tavole
23. Esempi di sgrammaticatura di colore: la finta patina
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
24. Esempi di sgrammaticatura di colore: la decorazione inventata
56
Tavole
25. Colori atipici (in alto) e deviati con sgrammaticature compositive (in basso)
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
26. Colori e tecniche decorative difformi
58
Tavole
27. Tracce di vecchi colori e decorazioni pittoriche testimoni di un contesto urbano dimenticato o perduto
59
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
28. Apparati pittorici e decorativi della tradizione salernitana
60
Tavole
29. Archeologia e colori, una problematica dialettica nella conservazione, ricomposizione e restauro
61
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
30. Degrado delle superfici decorate, cause fisiche ed ambientali
62
Tavole
31. Degrado delle superfici decorate, cause antropiche e vandalismi
63
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
32. Il restauro delle facciate come occasione di marketing commerciale
64
Parte SECONDA
LINGUAGGIO E TECNICA
Capitolo 3
Grammatica e lessico compositivo
3.1. Il colore della città: problemi di identificazione e comunicazione
Lo studio condotto dagli autori per il “Progetto Colore del Parco Nazionale delle Cinque Terre” 1 ha messo in luce come il colore, in quanto protagonista del paesaggio antropico, debba essere posto al centro
delle politiche di salvaguardia da parte delle comunità insediate con la creazione di servizi al cittadino.
Infatti si è reso manifesto, anche in quell’occasione, che per recuperare una progettualità nel restauro
del colore debbano preliminarmente essere recuperati i saperi della tradizione, idonee metodologie
di approccio e di intervento che non consistono solamente nella razionalizzazione e idoneità tecnologica delle prassi di ritinteggiatura delle facciate, laddove si sono evidenziati anche problemi di
identificazione, comunicazione e linguaggio nella conduzione delle prassi operative. All’uopo è stato
tracciato un decalogo sui generis per promuovere adeguatamente il restauro del colore nei borghi
storici rispetto al contesto paesaggistico.
Per i borghi marinari del Parco Nazionale, a valere per il trattamento del “colore della città” in ogni
qualsivoglia centro storico urbano, è stato osservato come 2:
– L’applicazione corretta del colore e dei suoi rapporti nel contesto urbano ed ambientale non può
avvenire fuori dallo studio approfondito delle matrici materiche locali.
– La scelta di una tavolozza cromatica non deve limitarsi a curare la “pelle” degli edifici, bensì
opportunamente considerare il risanamento degli intonaci originari e la loro recuperabilità nelle
applicazioni correnti con appropriate tecnologie costruttive riferibili ai più consolidati e tradizionali
sistemi di finitura.
– La morfologia delle superfici architettoniche, i rapporti di massa e chiaroscurali delle architetture,
hanno un peso enorme nel risultato estetico complessivo, per la qual cosa assumono il ruolo di
elementi guida nella scelta e nell’applicazione delle tinte compatibili.
– Gli interventi di restauro sulle facciate dipinte devono essere condotti con una profonda cognizione di causa, specie per quanto riguarda le tecnologie e il trattamento delle materie “antiche” che si abbia intenzione di recuperare, nonché dei linguaggi cromatici della tradizione
locale.
– I rapporti di colore nei nuclei urbani storici e nei contesti paesaggistici a questi connessi sono tutt’altro che capricciosi, arbitrari e omologabili a quelli di altri luoghi (solo conoscendo le matrici originali
del colore è quindi possibile attuare una selezione cromatica compatibile nella precisazione delle
tinte da utilizzare sia per le azioni di tipo conservativo sia per quelle di tipo innovativo).
– Un ruolo fondamentale nel restauro del paesaggio urbano è affidato al trattamento delle lacune
dell’architettura, attraverso il recupero degli intonaci della tradizione costruttiva locale.
– I colori dell’architettura realizzano anche i colori della città svolgendo un ruolo fondamentale nei
processi identificativi e culturali dei diversi insediamenti umani.
– La simbiosi tra colore e contesto urbano è così forte che possiamo affermare che, come avviene per le arti figurative, studiare l’evoluzione del colore equivale a ripercorrere l’intera vicenda
storico-formativa.
– Al fine di stabilire le matrici culturali e ambientali caratterizzanti i distinti luoghi si deve necessariamente ricercare nel colore un’espressione culturale autentica.
– L’eredità materica e cromatica delle città e dei borghi rappresenta un patrimonio incommensurabile; da questo punto di vista, tale eredità sarebbe ricchissima anche solo volessimo circoscrivere
la storia moderna post-Unitaria, ponendo semmai al centro dell’attenzione ai fini del restauro,
il caso delle mutazioni esiziali più recenti subite dal colore, che hanno indotto una progressiva
perdita di riconoscibilità e d’identità degli spazi urbani, o peggio, che hanno prodotto degrado
urbanistico ed ambientale, dequalificando progressivamente la città esistente.
67
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
– Sulla “pelle” degli edifici possono leggersi tutti questi processi di alterazione perché proprio attraverso l’universalità linguistica promanata dalla città storica viene a riconoscersi il carattere
distintivo del luogo, sapendo intuitivamente che sono questi i segni che sostanziano le forme
dell’architettura.
– Il colore in architettura vive nella storia per le particolarità materiche e cromatiche percepibili e
sulle quali l’occhio si sofferma più o meno inconsciamente, comunque colpito dagli effetti prodotti
dalla luce o dalle relazioni cromatiche suggerite dalla combinazione delle tinte e dal modo in cui
sono state stese.
1. Nuove tavolozze
«I colori decorativi, sono tinte uniche per eccellenza, derivando dalle preferenze e dal gusto cromatico di
ciascun pittore. Una fascia decorativa nel sottotetto, delle cornici ornamentali, delle finte architetture a effetto
trompe l’oeil o altre forme di pittura murale, pur non essendo considerate di grande pregio, devono ricevere
trattamenti di tutto rispetto durante i restauri. Le tinte decorative non possono essere sostituite o integrate con
materiali commerciali qualitativamente diversi da quelli impiegati in originale sul muro, né possono ricevere
trattamenti prescritti o standardizzati, ma vanno sottoposti a valutazioni sui generis. Ogni intervento sul piano
del colore in edifici d’interesse storico, risulta pertanto valido ed accettabile, solo se rispetta congiuntamente
materiali e forme degli originali deteriorati. Alla categoria dei colori decorativi, appartengono anche le tinte
chiare o quasi bianche, delle cornici perimetrali che riquadrano le finestre e marcapiani semplici, sui fronti
edilizi di facciata. Durante la campagna di rilievo colore sugli edifici storici alle Marine nel Parco Nazionale
delle Cinque Terre, fu riscontrato che la numerosa sequenza di codici colore registrati, non corrispondeva ad
altrettante tinte equivalenti, ma documentava l’inganno visivo dell’operatore che leggeva come tonalità differenti, l’influenza della luce riflessa dalle superfici colorate circostanti. Elaborando i dati, fu corretto semplificare
la tavolozza e suggerire una gamma di tinte correttive. Le cornici lineari attorno agli stipiti di porte e finestre,
rispondono, almeno nell’edilizia urbana e rurale povera, a necessità igieniche elementari, in cui il bianco calce
puro, è impiegato per disinfettare periodicamente le zone più soggette a sporco e usura. Fasce colorate diverse
dal bianco, non sono quindi da ritenersi originali, semmai casuali, se la tinta di sottofondo dilavava all’acqua
o la calce era al risparmio. Per garantire una varietà di accostamenti gradevoli attraverso prodotti commerciali
moderni, le mezzetinte ricavate da una lieve scalarità di bianchi (avorio, rosa pallido, giallo crema, grigio perla
ecc.) furono parzialmente mantenute nella tavolozza dei colori di progetto, essendo cambiata la qualità dei
bianchi moderni e il corrispettivo potere coprente rispetto alla calce antica». (N.C.G. 2006)
Nel settore degli intonaci dipinti, per esempio, si registra oggi l’intrinseca difficoltà di esprimere il
colore attraverso univoci codici di linguaggio, cosa che non avveniva quando la tecnologia dei sistemi
a calce era la sola praticata e quindi esisteva una logica ripetitività delle tinte che venivano realizzate
in modo artigianale, quasi sempre in accordo con i tinteggi preesistenti, non inducendo quindi alcun
bisogno ulteriore di puntuale indicazione coloristica.
Nelle “botteghe d’arte”, scuole di specializzazione ante litteram, erano direttamente i mastri e gli
artieri di maggiore esperienza a comunicare agli allievi-apprendisti le regole del mestiere (anche nel
restauro) e i linguaggi e le terminologie più opportunamente da usare nel condurre il lavoro.
L’applicazione imposta dalle rigorose “Regole dell’Arte” doveva essere ferrea e la “conduzione del
lavoro” si poteva riferire all’esperienza maturata accanto al Maestro o alla Scuola d’Arte.
Tuttavia una volta creatasi una discontinuità nel trasferimento dei saperi si è perduta precocemente
anche la memoria del fare.
Le stesse denominazioni dei colori usualmente impiegate nell’uso locale divengono dizioni di non
univoca interpretazione, locuzioni oscure dal vago sapore romantico che legano la formulazione
delle tinte riscontrabile nei capitolati antichi o nella manualistica ottocentesca ai tanti segreti di
bottega rimasti insoluti, laddove nelle applicazioni delle più elaborate e particolari tecniche decorative e pittoriche persino la conoscenza scientifica delle componenti della materia non potrà
essere in grado da sola di fornire la modalità di stesura e risoluzione artistica adottata dal suo
artefice.
68
Capitolo 3 Grammatica e lessico compositivo
Il sapere empirico sembra in apparenza contraddire la rigida condizione imposta dalla Regola, come
puntualmente riscontriamo nella grande varietà delle sfumature dialettiche che s’incontra nelle terminologie del colore impiegate per descrivere gli interventi. In questo senso anche per la manutenzione delle superfici vengono ad essere smentite tutte le eccessive schematizzazioni applicative che
ritroviamo nei dettati di gran parte delle normative tecniche attuali, in relazione al trattamento degli
intonaci e alla preparazione in tinta dei colori da ricreare sulla scorta dei nomi a loro assegnati nelle
varie formulazioni lessicali, antiche e moderne partendo dal principio giustinianeo che nomina sunt
consequentia rerum.
La Regola e una buona dose di empirismo, non dichiarato, erano dunque alla base delle “buone pratiche” acquisite nel tempo dai garzoni di bottega prima di essere a loro volta maestri artieri: i processi
tecnologici da imparare vincolavano in ogni caso la trasmissione del sapere (cfr. Tavv. 27-29).
2. Come si temperano i colori
«Si passerà quindi a comporre le mestiche ossia le principali gradazioni di colore richieste nella decorazione.
Per tale scopo si prepareranno tre o quattro toni fondamentali ponendo il colore, da digradarsi in tre o quattro
vasi puliti, aggiungendo o diminuendo proporzionalmente il bianco o il colore, incorporando e rimestando a
dovere le singole tinte. Anche del nero può essere utile per abbassare eventualmente i toni. Come nell’affresco, le tinte una volta asciutte, vanno soggette a cambiamento di tono, cioè schiariscono talvolta anche in
modo sensibilissimo». (G. Piva 1958)
La sperimentazione preventiva conducibile all’interno del laboratorio tecnologico che proponiamo per
operare nel restauro del colore, certamente supportata da mirate indagini di laboratorio sull’esistente,
potrebbe consentire di riallacciare quel filo sottile dei saperi bruscamente strappato nel passato. A
nostro parere solo così si potrà risalire ad individuare, e di nuovo comunicare, quel codice del colore
che oggi faticosamente cerchiamo di indagare per condurre un corretto restauro.
Tuttavia, con l’avvento di sistemi di pitturazione industriali, è aumentata enormemente la varietà di
tinte e prodotti vernicianti applicabili sugli intonaci, determinando di conseguenza la necessità di una
attenta verifica cromatica e qualitativa sui nuovi materiali. Ragion per cui non sempre il riscontro su
cartelle-colori precostituite è soddisfacente nel merito della valutazione materica e soprattutto le tinte
proposte dall’industria non sono sovrapponibili per tipologia e composizione alle cromie esistenti.
La valutazione sul trattamento cromatico delle superfici nel restauro di rifacimento, dovrà quindi non
considerare solamente le compatibilità fisico-chimiche rispetto alla natura del supporto, ma anche la
corrispondenza cromatica con le tavolozze antiche correttamente reinterpretate attraverso la preparazione ad hoc di modelli materici e pittorici.
D’altronde esiste, come abbiamo appurato, l’oggettiva necessità di comunicare correttamente e con
completezza di espressione i colori utilizzabili sul costruito storico, caratterizzante la scena urbana.
Ancora una volta il “colore”, al quale ci riferiamo per la decorazione e il rivestimento degli edifici
e dei manufatti architettonici, si qualifica soprattutto attraverso la materia che lo compone, quindi
attraverso gli intonaci, le paste coloranti ed i leganti, siano essi minerali o organici. Sul piano corrente del linguaggio, nella comunicazione il colore viene invece indicato in termini alquanto generici,
spesso fuorvianti ed impropri, nel migliore dei casi facendo riferimento in modo incompleto alla
classe cromatica prevalente (giallo, rosso, verde, blu, ecc.), alla luminosità del chiaro e dello scuro
(bianco, grigio, nero), trascurando quasi sempre la saturazione che pure è componente primaria
del codice cromatico. A lungo andare un tal modo di comunicare ha determinato una discrasia tra
il livello percettivo dell’osservazione e quello del linguaggio, ovvero tra ciò che realmente è e ciò che
si descrive essere. In conseguenza di ciò nel linguaggio comune il colore architettonico equivale alla
mera identificazione onomastica dell’indicatore tonale di riferimento, più o meno approssimato, divenendo in questa ridotta accezione qualcosa di totalmente distante e avulso dalle qualità materiche e
costruttive sulle quali si sarebbe dovuto dialogare, un parametro identificativo così semplificato produrrà ulteriori storture nel riferimento allo studio degli accostamenti principali nel rispetto delle più
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
elementari regole lessicali e compositive della tavolozza. Quali che siano le ragioni di questa inopportuna semplificazione, occorre porre attenzione alle conseguenze procurabili sul piano pratico.
Rimanendo sul piano della comunicazione, se «la colorimetria nasce dall’interazione di più discipline,
quali l’ottica, la fisiologia, la psicologia e altre più a carattere scientifico-applicative» dobbiamo comunque considerare che l’attribuzione onomastica di ciascun colore «apparente di sorgenti luminose
e oggetti illuminati» 3, è primariamente un’espressione sensoriale che dovrà necessariamente essere
standardizzata entro sistemi convenzionalmente riconosciuti.
Può sembrare banale dire che lo spettro del colore, nel campo del visibile compreso tra i 400 ed i 700
nm, ovvero dal blu/ violetto fino al rosso, dovrà necessariamente trovare, partendo dalla pura percezione, una sua appropriata conversione in linguaggio per la comunicazione, per quanto complessa
ed articolata, specialmente quella destinata al restauro che oltre alla parametrizzazione tricromatica 4
dovrà avere un preciso ed orientativo valore semantico.
Come rilevato in precedenti studi 5:
«Nel tempo la necessità di comunicare precisamente il valore delle varie cromie ha generato un lungo
lavorio che ha reso talvolta ricca di sfumature, suggestiva ed articolata nei diversi significati la terminologia di riferimento impiegata per descrivere i vari colori. Così, consultando il dizionario, troviamo
conferma dell’infinita nomenclatura che nelle varie epoche è stata elaborata, talvolta basata su nomi
di fantasia, assegnati dai vari autori o dall’uso comune, più spesso determinata in base alla qualità e
alla natura dei pigmenti usati, ed ancora, comparativa con elementi naturalistici in relazione ai risultati
estetici acquisiti».
3. Sulla legge della luce e del colore
«Una tinta di tono debole, come abbiamo detto, si ottiene luminosa o partecipa d’un dato colore, ponendole
vicino l’adeguato complementare od antagonista, e per contrasto di natura si daranno scambievolmente l’uno
per l’altro. Sicché per tale rapporto sarebbe preferibile un colore poco luminoso ma resistente, ad uno alterabile
e brillante, giacché la lucentezza si farebbe risultare mediante confronti e combinazioni». (C. Linzi 1930)
La necessità di sviluppare in chiave di restauro un lessico del colore ha prodotto nuovi studi ed approfondimenti, a partire dalle ricerche per lo studio dei materiali e colori del Centro Storico di Firenze,
pubblicate in tempi diversi nell’ambito di ricerche d’Ateneo 6.
Oltre alle valutazioni fin qui fatte in ordine alle problematiche legate alle cromie storiche, è stato elaborato un glossario terminologico che sta alla base delle indicazioni presentemente illustrate 7.
3.2. Piani del colore e progetti di restauro
Abbiamo premesso che per avere miglior cognizione dell’arte si dovrà partire, sempre e comunque,
dall’assunto che nell’esercizio professionale, così come nello svolgimento di ogni qualsivoglia altra
attività di studio e/o di ricerca applicata, specialmente se riferita ad un’attività complessa come quella
legata al restauro del colore, è soprattutto l’esperienza diretta a produrre le nozioni utili per il progettista e per il restauratore, quali condizioni primarie per la formazione di quelle imprescindibili doti di
“coscienza e conoscenza” 8 che dovrebbero stare alla base di ogni azione di conservazione.
È solamente il provare e riprovare che deriva dall’aver manipolato e sperimentato la materia costitutiva del colore, piuttosto che un generico apprendimento teorico-pratico condotto “a tavolino”, a
produrre i necessari saperi tecnici.
È stato giustamente osservato:
«La preparazione delle mestiche è un lavoro preliminare che ogni pittore deve saper adempiere. Fino
al XIX secolo l’apprendista pittore, prima di cimentarsi nelle tecniche di stesura, aveva il compito di
macinare nei pestelli pigmenti in polvere derivati da pietre colorate e da terre, perché quanto più fine
li rendeva tanto più l’impasto cromatico sarebbe stato di qualità. I colori dei pittori sono innanzi tutto
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Capitolo 3 Grammatica e lessico compositivo
“tattili”; difatti sono composti da materie colorate, pietre dure, terre secche, gomme e resine vischiose, solventi liquidi, oleosi, ecc. Maneggiando queste sostanze il pittore avverte inevitabilmente delle
sensazioni tattili, oltre che cromatiche» 9.
Per il restauro del colore la pratica di laboratorio e la stessa preparazione scientifica non riusciranno
mai completamente ad eludere la necessità di un consapevole contatto diretto con le cose e semmai
da una valutazione critica e artisticamente comprovante dei risultati raggiunti, ovvero da tutto ciò che
distingue il “fare arte” dalla mera riproduzione empirica che ne può fare l’operatore tecnico.
Si tratta di verità indiscutibili che i maestri di bottega conoscevano bene e tramandavano attraverso
l’esercizio diretto agli allievi, ai giovani apprendisti o ai neofiti del mestiere: una “cultura materiale” da
apprendere sui manufatti, analizzando singoli frammenti di colore e il loro contesto storico.
Occasioni diverse di approfondimento che ci insegnano a distinguere quindi nettamente il ruolo
dell’architetto nella veste di restauratore del colore, anche se non necessariamente, come accadeva
un tempo, nelle mansioni di capomastro o di artiere, da quella di progettista del piano colore.
Ci riferiamo in quest’ultimo caso al progetto colore da intendersi come piano attuativo destinato alla
salvaguarda e alla valorizzazione dei centri storici o porzione di essi, trattando di ambiti di riconosciuto
valor culturale ed ambientale. Si rileva che nella prassi, si finisce per assimilare il primo al secondo e
viceversa, tuttavia la distinzione da farsi da un punto di vista metodologico ed operativo è sostanziale ed
appare tanto più necessaria nel momento in cui l’attività progettuale agisce su livelli diversi, laddove le
norme disciplinate dal piano colore stanno a monte dell’azione del restauratore e semmai si completano
solamente con l’azione del secondo. Non compete, infatti, al cosiddetto Piano del Colore, nemmeno
nella sua redazione più minuziosa e particolareggiata, definire nel recupero le singole procedure di
intervento e neppure le composizioni cromatiche degli edifici, facciata per facciata, che sono azioni di
pertinenza del progettista-restauratore, piuttosto esso dovrà fornire tutte le necessarie informazioni al
contorno e le conoscenze derivanti dalle indagini condotte alla scala urbana e attraverso puntuali ricerche storico-territoriali, considerando poi che l’articolazione del piano può prevedere interventi di rifacimento, sostituzione e rigenerazione di intonaci e di sistemi di pitturazione e coloritura dei fronti edilizi.
Il piano colore fornirà quindi il necessario supporto tecnico e la disciplina tecnica dell’intervento alla
quale attenersi: in particolare, dovrà stabilire in modo esaustivo le coordinate cromatiche da rispettare
nell’orientamento generale da adottare nel recupero edilizio e nel processo di riqualificazione urbana,
stabilendo le strategie più opportune in base ai parametri di studio adottati.
Da un punto di vista urbanistico i Piani del Colore dell’Edilizia Storica Urbana corrispondono, nell’ambito delle aree perimetrate (centri storici, ecc.), a prescrizioni speciali che generalmente confluiscono
nei regolamenti comunali sotto forma di salvaguardie paesaggistiche accompagnate da strumenti
operativi quali le cartelle cromatiche e la manualistica di supporto: Tavolozze dei Colori, Linee guida
agli interventi di recupero, Norme Tecniche di Attuazione e Progetti Norma.
Il Piano del Colore risponde quindi a logiche e funzioni di indirizzo strategico a carattere generale,
assai diverse dai documenti propri che formano il progetto architettonico che si esplicita nella richiesta di titoli abilitativi nel rispetto delle categorie assegnate: manutenzione ordinaria e straordinaria,
restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione.
Lo strumento urbanistico del piano colore contiene quindi gli elementi essenziali di indirizzo, propedeutici
alla definizione degli interventi conservativi e di valorizzazione ambientale. In particolare, nell’esperienza
maturata in questi ultimi decenni si è assistito ad un cambiamento radicale di approccio nella formazione
di questi piani, che da strumenti puramente tecnico-urbanistici sono stati sempre più concepiti come
veicoli di promozione culturale nei confronti della cittadinanza insediata e nei confronti di terzi, fungendo
da motore di sviluppo per le categorie economiche e professionali, per gli operatori artigiani e dell’industria
nella riproposizione e rivisitazione della tradizione costruttiva locale ai fini culturali e turistici.
Sulla scorta dell’esperienza maturata si può indicare il repertorio di studi, materiali e documenti che
dovrebbero costituire l’assetto informativo di base per ciascun Piano del Colore, a cominciare dall’indagine geo-ambientale relativa al territorio esaminato e da un’esaustiva analisi conoscitiva dei quadri
documentali riguardanti il costruito esistente e l’ambiente di riferimento:
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
– ricerca storico urbanistica di base, con approfondimenti iconografici e d’archivio;
– rilievo fotografico d’insieme e di dettaglio;
– rilievo architettonico particolareggiato dei fronti edilizi urbani (con restituzione grafica in scala
adeguata e rappresentazione in fotopiano). L’osservazione procederà vuoto per pieno e senza
distinzioni tra parti antiche e moderne;
– schedatura con catalogazione degli elementi morfotipologici, decorativi e pittorici delle superfici
architettoniche comprendente analisi dei materiali e del degrado;
– misure di rilievo colore per fondi, cornici ed elementi accessori di facciata, applicando idonee
metodologie di analisi sia comparative che, a campione, di tipo strumentale;
– indagini visive preliminari dei supporti murari, delle stratigrafie degli intonaci e delle pellicole
pittoriche;
– indagini diagnostiche preliminari per la valutazione dello stato di conservazione delle superfici e
degli intonaci con individuazione delle cause di degrado (omissis)
– analisi tecniche e scientifiche di laboratorio su selezionati campioni materici prelevati in situ;
– creazione di prototipi materici e riproduzione di modelli pittorici;
– analisi statistiche dei dati relativi alle cromie, suddivisi per distribuzione, frequenza e classi di
aggregazione (matrici storiche, ecc.) e/o d’appartenenza (colori compatibili, colori atipici, colori
deviati, colori difformi, ecc.);
– creazione di distinti abachi tematici relativi ai caratteri costruttivi, agli elementi architettonici, ecc.
alle malte e agli intonaci, alle coloriture e alle tinte;
– creazione delle tavolozze dei colori compatibili (matrici minerali, matrici cromatiche, tinte madri,
colori di progetto);
– stesura di documenti di supporto tecnico: capitolati tipo, linee guida per il recupero e ricettari,
normativa e disposizioni per la gestione degli interventi, ecc.
Questo complesso ed articolato quadro di azioni richiede per la gestione la creazione, da parte delle Amministrazioni Pubbliche, di un servizio al pubblico, o meglio di un Ufficio Colore appositamente dedicato.
Questo servizio è particolarmente auspicabile dal momento che gli ordinamenti attuali, specialmente dopo
che recenti disposizioni di legge 10 hanno liberalizzato, nell’ottica della semplificazione burocratica, le
procedure istruttorie e consentono, fatta eccezione per i beni monumentali soggetti a tutela istituzionale,
il semplice asseveramento dei lavori. Le Pubbliche Amministrazioni non sono in grado di assicurare un
adeguato controllo sia per le azioni di rifacimento sia per quelle di restauro del colore 11.
In queste situazioni, per gli interventi di manutenzione ordinaria che interessano il colore delle superfici, sono state soppresse tutte le procedure di preventivo monitoraggio 12. Per certi versi ancora più
precaria è la situazione relativa all’edilizia storica, soggetta a molteplici forme di degrado, non ultime
quelle di origine antropica, legate al fenomeno vandalico del “graffitismo”.
Relativamente al delicato problema della copertura ed obliterazione delle scritte dai muri, operazione
che richiede ai fini conservativi di seguire particolari procedure d’intervento e buone pratiche di restauro,
si stanno sperimentando specifiche linee guida, ad esempio nell’ambito degli studi sul centro storico di
Firenze 13 (cfr. Tavv. 30-32).
4. Incuria
A Firenze … «Il degrado tangibile in certi quartieri urbani, non è altro che una delle tante forme del disagio di
vivere, espresso da una società in vari modi: dalla mancata cura nei confronti delle proprie abitazioni (decoro
delle superfici esterne), all’incuria più evidente degli spazi pubblici (danno antropico); dal deperimento progressivo dei materiali antichi (invecchiamento), alla fatiscenza accelerata di quelli moderni (usura); dall’azione
naturale di agenti incontrollabili (inquinamento ambientale), agli sfregi deliberati contro i monumenti (graffiti).
È necessario dunque intervenire al più presto con un programma coordinato di risanamento urbanistico, in
cui le amministrazioni, le soprintendenze e le diverse competenze preposte, prendano atto dei fenomeni degenerativi e operino di conseguenza, risolvendo l’emergenza di una manutenzione ordinaria e periodica degli
edifici storici urbani, oramai inderogabile». (N.C.G. 2011)
72
Capitolo 3 Grammatica e lessico compositivo
3.3. Restauro post-sismico del colore
Resta comunque importante ai fini della conservazione e del restauro il ruolo che possono svolgere
i Piani del Colore, soprattutto in relazione alla salvaguardia del contesto per non generare la perdita
dell’identità culturale e paesaggistica dei luoghi.
Questo aspetto del problema assume poi un rilievo particolare se si pensa ai territori recentemente
colpiti dal terremoto, ai borghi antichi e centri storici che hanno necessità nella ricostruzione di non
eludere il problema del restauro per non disperdere un patrimonio di civiltà.
A tale riguardo il recupero del costruito danneggiato, o degradato dall’abbandono, assume un duplice
valore: di riabilitazione funzionale e di ripristino della memoria e dell’immagine urbana compromessa
dal sisma o dall’incuria.
Il restauro architettonico, reso di per se stesso assai problematico e particolarmente difficoltoso in
ragione dell’entità del danno e del degrado, dovrà in questi casi seguire procedure non ordinarie e
potrà attuarsi anche in modo desueto; ad esempio nel caso di edifici lesionati o parzialmente crollati
attraverso la ricollocazione in opera di elementi plastici, fregi architettonici, portali e cornici, bozzati
lapidei caduti a terra. Analogamente si porrà un problema di reimpiego, e semmai più qualificato
riuso rispetto a quanto si sta facendo adesso, degli inerti e degli altri materiali da costruzione recuperabili che costituiscono la massa maggiore delle macerie e degli elementi pericolanti da rimuovere.
E, non ultimo per quanto interessa il tema del rifacimento degli intonaci e dei rivestimenti parietali, si
pone l’occasione data dalla potenziale rigenerazione dei materiali di risulta, quindi non solo il trattamento delle macerie, quanto piuttosto la riabilitazione di quelli che fino ad oggi sono stati considerati
materiali di rifiuto o di scarto, provenienti principalmente dalle attività di demolizione che si rendono
necessarie.
Pur non essendo questa la sede per affrontare un tal genere di problematiche, possiamo tuttavia
sottolineare il fatto che, al riguardo, si stanno aprendo scenari impensabili fino a non molti anni or
sono; si pensi, ad esempio, all’evoluzione legislativa in atto nell’ambito delle stesse direttive europee
nella promozione delle recenti politiche di End of Waste (EOW), legate cioè alla “fine del rifiuto” e alla
spinta offerta alla rivalutazione delle qualità proprie degli aggregati di recupero, oggi genericamente
denominati “inerti di riciclo”, in svariati impieghi nelle opere di ingegneria.
L’edilizia storica e monumentale, da risarcire a seguito dei danneggiamenti patiti con il sisma, potrebbe in realtà essere in grado, almeno in interessante quota parte, di alimentare attraverso il recupero
selettivo e il trattamento degli inerti e delle malte, processi virtuosi di rigenerazione dei materiali. Dalla
rigenerazione dei materiali, in particolare degli intonaci, si attiverebbero nuove procedure di intervento nell’ambito del restauro delle superfici, rendendo possibile anche il ripristino delle coloriture
storiche documentate ante-sisma su supporti compatibili.
Il parallelo che si può fare in un tal genere di riparazione con la risoluzione del restauro del colore,
come “valore aggiunto” e strategico della ricostruzione post-sismica, appare evidente nella possibilità
offerta di conservare con la pelle originale delle case, la stessa natura autentica della materia e, quindi, poter esprimere compiutamente la stratigrafia storicamente consolidata delle matrici cromatiche
del luogo.
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
III. Intermezzo. Dal rilievo alle indicazioni di progetto: colori per l’industria.
La tavolozza dell’edilizia storica delle Cinque Terre
L’elaborazione di una tavolozza colore tipica e singolare per ciascuna località del Parco Nazionale
delle Cinque Terre (Riomaggiore, Vernazza, Monterosso al Mare), in aggiunta a una tavolozza più
generale che riunisce, accorpa e descrive tutti i colori del paesaggio antropico delle Cinque Terre,
è stata pensata come guida all’orientamento corretto dei colori esistenti ed eventuale ausilio nel
corso d’interventi di conservazione e/o di rifacimento cromatico delle superfici architettoniche
dell’edilizia storica del Parco. Come tale, sono valse le seguenti specifiche di dettato:
- Le matrici cromatiche forniscono una serie caratteristica di tinte locali, equivalenti alla conversione industriale delle tinte madri individuate e realizzate sotto forma di modelli pittorici, nell’ambito
di studio e ricerca del suddetto Progetto Colore. Le matrici cromatiche della tavolozza, sono state
formulate per essere dunque simili e ad esse affini, ma in certi casi si discostano dai modelli delle
tinte madri, per l’uso in passato, di colori attualmente spariti o proibiti dal mercato.
- Le matrici cromatiche relative alle Cinque Terre, rappresentano una tavolozza comune di tinte,
individuate in varie località e borghi limitrofi. Sono colori sussidiari e complementari alle tavolozze
locali, poiché compensano alcune tonalità altrimenti mancanti. Ad uso comune e selettivo, si riferisce anche la gamma degli smalti, relativi a porte, persiane, infissi e ferri.
- Le invarianti cromatiche corrispondono alla versione commerciale delle tinte madri che originariamente erano applicate su intonaco fresco, mescolando pigmenti naturali locali, con il latte di
calce. Le diverse modalità di applicazione artigianale, stabilivano la possibilità di texture parietali
lisce o ruvide, che al bisogno, si consiglia di ripristinare a tutt’oggi.
- Le invarianti neutre equivalgono a colori visibili nell’edilizia, presenti non come tinte, ma come
intonaci di rivestimento aventi cromie naturali, in virtù degli inerti minerali di miscela. Hanno texture variabile, solitamente ruvida, che può al bisogno essere riprodotta. Queste colorazioni minerali
altrimenti intraducibili, sono presenti nella tavolozza sotto forma di tinte neutre, per equilibrare la
saturazione visiva indotta dalle matrici.
- Le cromie delle cornici, corrispondono ad una serie elementare di tinte, quasi dei non-colori, relativamente all’uso su marcapiani lineari, riquadri di finestre, aree sottogronda, ecc. Non rientrano
in questa gamma, le cornici di tipo decorativo o pittoricamente elaborate.
- Le cromie dei basamenti, indicano soprattutto le tinte adatte per le zoccolature inferiori, escludendo tutte le forme decorate o dipinte a paramento. Hanno texture ruvida, similmente alle invarianti neutre d’ispirazione.
- L’ordine dei colori nella suddetta tavolozza, non segue la disposizione abituale di sfumature
scalari e tonali, ma mescola le diverse cromie, per favorire una corretta lettura generale, evitando
che alcune tinte appaiano troppo spente e altre troppo accese, così da non essere mai utilizzate.
Va ricordato che il linguaggio dei colori in chiave storica urbana si basa su reciproche relazioni di
contrasto ed armonia, che vanno visualizzate nel loro insieme.
(G.A.C. / C.N.G. 2008)
74
Capitolo 3 Grammatica e lessico compositivo
Note
Cfr. Progetto Colore del Parco Nazionale delle Cinque
Terre, a cura di G. A. Centauro-L. Cogorno-S. Bassi, in
“Opus studiorum/3. Studi per la conservazione e la
valorizzazione dei beni architettonici, storico artistici e del
paesaggio” (collana diretta da G.A. Centauro), Poggibonsi,
2008; G.A Centauro, Il restauro del colore per il restauro
del paesaggio:principi generali, linee guida e regole
applicative, in Progetto Colore ... cit., pp. 99-108, C.N.
Grandin, Gli studi del colore:dall’approccio metodologico
di rilievo alla riproduzione di intonaci e tinte, in Progetto
Colore ... cit., pp. 109-118.
2
Ivi, pp. 99-100.
3
C. Giannini-R. Roani, Dizionario del restauro e della
diagnostica, Firenze, 2003, ad nomen, p. 53.
4
La parametrizzazione tricromatica deriva dalla
costatazione che ogni colore ottenuto con pigmenti può
essere prodotto come mescolanza di tre colori blu-rossogiallo (detti “primari”) in proporzioni diverse.
5
Cfr. Piano del colore ...cit., p. 103.
6
Cfr. Tecnologie e conservazione degli apparati pittorici
e del colore nell’edilizia storica, a cura di G.A Centauro,
in “Opus studiorum/1”, Poggibonsi, 2008; G.A. Centauro,
Restaurare il colore per restaurare la città e l’architettura, in
Tecnologie e conservazione ... cit., pp. 5-14; C.N. Grandin,
Colore e restauro: studi, ricerche, sperimentazioni, in
Tecnologie e conservazione ... cit., pp. 15-24.
7
Cfr. Centro Storico di Firenze. Metodologie ed
applicazioni di restauro nella manutenzione dei fronti
edilizi urbani, “Opus studiorum 5”, Poggibonsi, 2011; C.N.
Grandin, Piccolo glossario tecnico del colore, in Centro
Storico di Firenze ... cit., pp. 88-94.
1
«Coscienza e conoscenza non possono essere disgiunte
in operazioni importanti per la conservazione del prodotto
artistico di una qualsiasi epoca, incominciando dalle
indagini preliminari» (cfr. L. Tintori, Antichi colori sul muro.
Esperienze di restauro, Firenze, 1989).
9
G. Di Napoli, Il colore dipinto. Teorie, percezione e
tecniche, Torino, 2006, p. 115.
10
Cfr. D.Lgs 83/2012 convertito nella legge n. 134 del
07/08/2012, a modifica del D.P.R. 380/01, cit.
11
Infatti, alla luce delle modifiche introdotte dalla suddetta
legge, anche in aree perimetrate ai fini della salvaguardia
paesaggistica, non risulta più necessaria la preventiva
acquisizione del nulla osta per la tutela dei caratteri storici,
culturali, architettonici ed estetici. Nel caso citato del
Piano del Colore di Prato, l’Amministrazione Comunale
per sopperire ai limiti procedurali e alla necessità di
promuovere gli interventi di riqualificazione urbana, ha
indetto nei bienni 2001-2003 e 2009-2011, un Bando
Pubblico per l’assegnazione di contributi per il recupero
delle facciate del centro storico. Altre amministrazioni
hanno concesso, per cofinanziare gli interventi di restauro,
l’affissione nei cantieri interessati di cartelli pubblicitari
sopra le schermature dei ponteggi, sollevando tuttavia
non poche polemiche per il forte impatto ambientale delle
pubblicità contenute nella suddetta cartellonistica.
12
L.R. Toscana n. 10 del 21/03/2011
13
Cfr. G.A. Centauro, Per il restauro dell’architettura
storica nel centro antico di Firenze, in Centro Storico di
Firenze ... cit., pp. 7-25; si veda: G.A. Centauro-D. ChiesiC.N. Grandin, Metodologie Applicazioni Strumenti, in
Centro Storico di Firenze ... cit., pp. 59-87.
8
75
Capitolo 4
Semantica del colore
4.1. Considerazioni preliminari
Tutti apprezziamo la vista di un bel paesaggio: nella natura i colori sono sparsi, mescolati e abbinati tra
loro in maniera eccezionale e non c’è regista migliore che possa farlo. I pittori per molti secoli si sono
ispirati a questa grande maestra, cercando di copiarla, emularla, descriverla nel modo più verosimigliante possibile e tutte le arti traggono dalla natura continui spunti di suggerimento. Quest’amore nei
suoi confronti è durato secoli, rimanendo scritto per sempre, dentro i monumenti ereditati dall’antichità,
dentro il paesaggio che abbiamo trasformato, dentro alle città che sono cresciute. Altre discipline sono
incaricate di indagare le complesse vicissitudini nella storia e nella critica d’arte, nonché le delicate
questioni sollevate dalla sociologia e dall’estetica, ma per quanto detto nei precedenti capitoli, nell’affrontare le problematiche conservative dell’edilizia storica e dare un peso concreto al restauro architettonico, non è possibile rinviare oltre alcune premesse fondamentali sugli aspetti tecnici del colore e
dei suoi linguaggi.
È stato sufficientemente sottolineato come il colore nelle sue manifestazioni spontanee dentro il paesaggio (invarianti cromatiche) e nelle applicazioni ricercate dall’uomo sul territorio (colori del paesaggio antropico), sia stato impiegato principalmente in tre modi:
1) come materiale strutturale (matrici minerali) sfruttando le cromie tipiche di certi minerali, in parallelo alle funzioni ricercate; così accade per le tarsie lapidee di pavimenti e rivestimenti vari,
nei mosaici e nei gioielli, nei manufatti plastici, nelle modanature di complemento e in tutti gli
elementi costruttivi e decorativi delle architetture storiche;
2) come materiale pittorico, impiegando sostanze adatte (le matrici cromatiche) per “segnare” le superfici con precise lavorazioni (le tecniche artistiche), allo scopo di dipingere, rivestire, abbellire,
decorare strutture di qualità inferiore ma che s’intende nobilitare. Il pregio delle immagini, una
volta disgiunto dalla preziosità intrinseca dei materiali che le rappresentano, diventa un valore
“discrezionale”, soggetto perciò a variare nel tempo, nel gusto e secondo le culture proprie di
ciascuna civiltà. Del significato, potente e sacro, di “valore aggiunto” si appropriano le Arti, specialmente la pittura, la scultura e l’architettura;
3) come linguaggio in forma di messaggio visivo diretto (segni iconici di tipo figurativo, astratto,
simbolico, cromatico, ecc.). Questa comunicazione è rapida e molto più immediata rispetto alla
lingua, che per definire concetti astratti, adopera termini vaghi e approssimativi, lasciando spazio
a molte interpretazioni, tanto quanto fanno le immagini con le parole a cui si associano. L’articolazione linguistica prevede tuttavia un “codice” regolato da una grammatica e da una sintassi ben
precise, a cui neanche il colore può sfuggire (cfr. Tav. 33).
Quando si affrontano le problematiche conservative per restaurare le superfici decorate o dipinte degli
edifici storici, è fondamentale avere delle informazioni preliminari alle indagini, per quanto l’apprendimento di un argomento così vasto e complesso, non possa sviluppare in questa sede un racconto
esteso, ma ne costituisca solo il preambolo all’orientamento, spostando l’attenzione verso gli aspetti puramente tecnici del colore e della pittura, attualmente trascurati se non addirittura ignorati negli studi.
Non sarà facile per un tema così delicato, trovare un punto di partenza comune a tutti: architetti,
scienziati, storici, restauratori, artisti e altri esperti coinvolti a lavorare nel settore dei beni culturali,
hanno nozioni molto diverse in materia e solo “quelli del mestiere”, conoscono il colore nei suoi
risvolti pratici, attraverso il comportamento dei materiali antichi, dentro le tecniche, le lavorazione e
secondo le regole dell’Arte. Non sembra esserci un minimo comune denominatore, da cui iniziare a
77
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
dipanare la questione, poiché ciascuna di queste figure conosce una sfaccettatura parziale del colore
e segue solo un filo del proprio ragionamento.
Senza toccare questioni di pura teoria, di fisica, chimica, storia dell’arte o tecniche artistiche
tout court, si farà rimando a concetti, definizioni, esempi ed esperienze già esaurientemente descritte in altri testi riportati nella bibliografia, rinviando anche per le nuove definizioni
date ai colori, al glossario terminologico formulato e pubblicato in precedenza dagli autori. Le
semplificazioni e gli inevitabili omissis, sono dettati dalla necessità di focalizzare l’attenzione
solo sui casi specifici dell’edilizia storica che attualmente risultano sviliti e trascurati, tanto in
letteratura quanto nella pratica, sebbene il lettore possa cogliere nelle citazioni evidenziate
nel testo, le molteplici implicazioni di conoscenza, esperienza, linguaggio e trattamento che il
colore comporta.
4.2. Le espressioni del colore
Ogni città ha una serie di colori tipici in grado di identificare e caratterizzare, le proprie radici
culturali: il modo in cui queste forme si esprimono, può essere visibile o mascherato ma sempre
rintracciabile e riconoscibile. La conoscenza delle matrici minerali e dei loro usi in architettura, è
dunque un caposaldo fondamentale che in altri termini, è già stato preso in considerazione dalla
conservazione sull’edilizia storica: il restauro dei materiali lapidei (escludendo la querelle sulle
patine antiche) ne rappresenta l’azione più mirata e garantita da prescritte metodologie d’intervento. Altro problema è invece il trattamento degli intonaci antichi, di tutti quegli strati superficiali
e non, in cui le matrici minerali (frammentate, polverizzate, selezionate, ecc.) rappresentano
solo gli ingredienti di partenza delle malte di costituzione, con una variegata colorazione propria. I prodotti premiscelati commerciali, normati oggi dall’industria, vietano all’opposto queste
variazioni granulometriche all’interno di un’unica pasta, in cui il colore rappresenta solo l’ultima
qualità presa in considerazione, rispetto ad altre caratteristiche ricercate. Questi materiali pronti
all’uso, hanno sostituito con il passare degli anni, la lavorazione a piè d’opera delle miscele, in
cui sabbie, inerti e aggregati, venivano aggiunti alla calce in modo proporzionale, per assolvere
a funzioni diverse: le fonti storiche parlano di malte per pavimenti, per intonaci, pietre fittizie,
modanature, stucchi, ecc. e ancora malte per calcestruzzi, per fondazioni, per moli, sigillature,
ecc. Scorrendo le varie ricette si osserva che gli ingredienti primi sono sempre gli stessi, mentre
le differenze sono date da piccole quantità di altri materiali, che modificano l’aspetto, le proprietà
e la cromia del composto iniziale. Quest’ultimo, nelle varie tipologie di malte di finitura, deriva
dalla frazione sottile delle pietre macinate (matrici minerali e sabbie), o in chiave più decorativa,
dall’aggiunta di alcuni pigmenti naturali (matrici cromatiche). Il colore insomma, risulta in queste
circostanze una materia minerale inclusa, connaturata alla struttura e alla forma dei suoi componenti, non un rivestimento applicato sopra, il quale semmai, assume comunque tonalità distinte
in relazione alle lavorazioni (a stucco, a graffito, ad encausto, ecc.) e ai trattamenti di finitura
(superfici fratazzate, strollate, lisciate, lustrate, ecc.)
1. La risorsa lapidea quale bene storico-culturale
«Vi sono pietre il cui pregio non dipende dall’attuale domanda di mercato: si tratta delle “pietre storiche”, e
cioè delle pietre, spesso non più in coltivazione, che si trovano in opera nei monumenti, nelle opere d’arte, nei
siti archeologici e come manufatti di uso comune, e che fanno parte del patrimonio culturale e in particolare di
quello storico-artistico-architettonico-archeologico di una società. In questi casi il pregio della risorsa lapidea
risiede non solo nel significato che essa assume ai fini della salvaguardia e della conservazione, attraverso il
restauro di tale patrimonio, ma più in generale, nel fatto che le pietre costituiscono un retaggio culturale di
attività assai rilevante nella storia e nelle tradizioni locali e culturali di una civiltà, ormai troppo spesso perso».
(M. Coli 2010)
78
Capitolo 4 Semantica del colore
4.3. L’esempio di Firenze
Firenze è una città monotona sotto il profilo cromatico perché è fatta solo di gialli e di grigi. Le
due tipiche cromie non sono tuttavia dei veri colori (almeno fino a un certo periodo storico) ma
materiali costruttivi territoriali (la pietraforte, la pietra serena, la pietra bigia, il macigno, ecc.)
facilmente reperibili nell’ambiente circostante, con una colorazione tipica che varia dal grigio
argentato al giallo bruno. Queste matrici minerali sono le “invarianti cromatiche” che qualificano
il paesaggio di Firenze e dintorni: la loro presenza nel tessuto urbano, si legittima autentica solo
nella distribuzione sporadica delle due cromie, il giallo e grigio, in associazione a taluni edifici,
di cui mostrano le trasformazioni architettoniche sviluppate nel tempo, mentre nella maggior
parte degli edifici civili, l’accostamento perpetuo delle due tinte non è sempre corretto. Il ricorso
frequente a questo abbinamento cromatico, proviene soprattutto dal linguaggio retorico della
decorazione ottocentesca, che tra i vari revival stilistici, ha prediletto i canoni di un classicismo
ideologico, riportando in auge una composizione ordinata e proporzionale delle superfici che
invade facciate, pareti, fondi, basamenti, cornici e decori dell’architettura. L’impossibilità di ricorrere tuttavia all’uso di uguali materiali di pregio, favorisce all’epoca la tendenza alla copia,
sviluppando imitazioni pittoriche su intonaci e stucchi dipinti. Le ricerche condotte finora, hanno
posto dunque in risalto come le superfici intonacate e tinteggiate di gran parte dell’edilizia storica
fiorentina, non appartengano alla tradizione aulica antica ma rappresentino un loro surrogato tardivo. I colori giallo e grigio, si pongono dunque come tinte atipiche (e talvolta addirittura difformi)
che emulano modelli esemplari più nobili, ma non ne posseggono più il valore materico iniziale.
La colorazione apparente creata nella volontà di imitare l’antico, trasmetterà nei tempi a venire, il
messaggio di maschera ingannevole, di apparenza e non di sostanza, pur non assumendo mai in
architettura, quel senso spregiativo che il colore/travestimento avrà in altre espressioni artistiche.
L’edilizia urbana posteriore all’Unità d’Italia vedrà anzi, nell’omogeneità dei pochi colori della sua
gamma, un fattore positivo di uguaglianza e democrazia sociale, mantenendo nello stesso profilo,
gli edifici della signoria, della borghesia e del popolo.
Si può dire allora che non esista alcun legame innato tra il giallo e il grigio se non l’apprezzamento
generalmente riconosciuto verso quest’abito, che allude ai fasti della propria storia ma non li dichiara in modo autentico, vincolando una gamma di tinte retoriche ottocentesche, all’immagine rarefatta
della città (cfr. Tavv. 34-37).
In quest’ottica, anche i profondi cambiamenti urbanistici disegnati dall’edilizia popolare e dallo sviluppo dei quartieri moderni, ha continuato a riproporre la stessa tavolozza, mescolando e confondendo
le cromie tipiche del centro storico, con i colori delle periferie del Novecento, sebbene materiali vecchi e nuovi, dovrebbero rimanere distinti sul piano conservativo, se volessimo applicare anche alla
scala urbana, il principio di riconoscibilità e distinzione tra parti originarie e parti rifatte, che vale in
toto per il restauro pittorico su monumenti di pregio.
È evidente allora che la perdita dei colori antichi (tinte madri, tinte decorative) e la progressiva
sostituzione degli stessi con l’utilizzo di nuovi materiali, ha da una parte affidato all’industria la riproduzione delle vecchie tinte formulandone di nuove (tinte compatibili), dall’altra ha contribuito
a omologare le superfici cromatiche autentiche con i nuovi rifacimenti, tradendo in pieno il valore
storico, culturale ed espressivo che il colore conserva in architettura. Ugualmente, i profondi
cambiamenti strutturali che hanno interessato i locali pubblici e commerciali al pianterreno di
molti palazzi nei centri storici, hanno modificare prima in sordina, poi in maniera sconvolgente,
il tessuto architettonico delle città: gli adeguamenti funzionali alle normative vigenti, secondo le
tecnologie previste, invadono a tal punto la natura dei materiali originari, che è difficile spesso
considerarli ancora “storici”. In interno come in esterno infine, le tinteggiature e le periodiche
ridipinture degli edifici, hanno trasformato radicalmente la texture dei rivestimenti originari, mascherando i segni delle lavorazioni artigianali negli elementi plastici dell’architettura e appiattendo il senso tipicamente toscano del “chiaroscuro pittorico”, dietro la bicromia di un travestimento
che nessuno nota e nessuno disdegna (cfr. Tavv. 38-39).
79
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
2. Il ritocco pittorico
Il modo in cui risarcire le parti mancanti di un dipinto, è stato oggetto di lunghi dibattiti negli anni. L’integrazione pittorica delle lacune ha vissuto periodi di rifacimenti totali e invenzioni formali, passando dal restauro
archeologico a quello critico. Il colore facendo parte della struttura materiale dell’opera, è stato ai margini del
dibattito che investe ancora adesso l’estetica, l’autenticità e l’antichità delle immagini, sperimentando varie
modalità di ritocco, uniformate solo attraverso le Carte del Restauro. Oggi l’integrazione pittorica di un’opera
mobile (come per esempio una scultura lignea) o immobile (come per esempio un affresco su muro) si attua
secondo queste metodologie: 1) astrazione cromatica; 2) selezione cromatica; 3) rigatino; 4) velatura.
La finezza e il rigore con cui vengono attuati gli interventi di restauro sulle opere di pregio, viene spiegata bene
dalle parole di Umberto Baldini fautore del ritocco pittorico in selezione cromatica: «La selezione quale noi la
definiamo è una tecnica che si serve di stesure di colore eseguite a tratteggio: non giustapposte o accostate,
ma neppure sovrapposte a copertura, bensì messe in opera in modo che una parte di esse resti sempre visibile
(incidendo così nell’occhio nella forma pura) e una parte si misceli combinandosi via via con le adiacenti e le
sottostanti». (N.C.G. 2011)
4.4. Un’eccezione: il mattonpesto
Il mattonpesto consiste, come dice la parola stessa, in pezzi di tegole, cocci e mattoni ben cotti variamente frantumati; non è quindi un materiale naturale ma un laterizio artificiale che in fase d’intervento
conservativo, registra le stesse difficoltà di trattamento cromatico delle matrici minerali. Lo si rileva con
frequenza nei rivestimenti murari antichi dove compare a diversi livelli stratigrafici, esaltandone ora le
facoltà di presa, ora le qualità cromatiche o sfruttandole entrambe, poiché in passato, era difficile garantire la permanenza dei colori su superfici umide. Quando le dimensioni dei pezzi sono grossolane, il
mattonpesto serve ad idraulicizzare malte adatte per gli arricci, i rinzaffi e i sottofondi di pavimentazioni
(ad es. nel terrazzo alla veneziana); se i frammenti sono macinati più sottili, la polvere mescolata alla
calce, forma impasti colorati e intonaci rosa (come il pastellone veneziano o lo stucco); il mattone funge
anche da attrezzo e passato sopra l’intonachino fresco per lustrare la superficie, produce una finitura, la
sagramatura, che ha toni particolari di rosso, ad imitazione del muro (cfr. Tavv. 40-41).
3. Malta di gesso per intonaco a finti mattoni
«Agli intonachi o meglio alle arricciature in gesso si possono dare diversi colori; in tal guisa non si fa che
simulare i mattoni. Per eseguire un tal intonaco, si prende il gesso comune, il quale si impasta con una
gran quantità di ocra rossa per ottenere il colore dei mattoni. Allorquando l’intonaco è compiuto, lo si ripulisce collo sparviere dentato, poi vi si tracciano con una punta tutte le giunture dei mattoni che si vogliono
figurare, spingendole fino al rinzaffo. Queste giunture si riempiono in seguito di un piccolo sottile intonaco
di gesso bianco, raddrizzandone i lati col mezzo dello sparviere dentato. In siffatta guisa si toglie l’intonaco
sottile non lasciando che quello che si trova nelle giunture, e si dà all’intonaco l’aspetto di una superficie in
mattoni». (A. Cantalupi 1862)
Queste superfici così diversamente lavorate, devono la loro colorazione alla presenza in termini di
quantità, alle matrici minerali piuttosto che a pigmenti veri e propri, come ben sa il restauratore quando si trova a risarcire una lacuna su superfici di questo tipo: egli cercherà di trovare quella particolare
tonalità, lavorando prima a livello di stuccatura, scegliendo oculatamente gli inerti di mescolanza,
adeguando lo spessore, la lavorazione e la grana al tipo di superficie originale e, solo se necessario,
ricorrerà alla stesura finale di velature pigmentate.
Se lo stucco è troppo bianco, troppo grigio o troppo colorato, il risultato apparirà come una toppa; se
non rispetta la granulometria della malta antica, apparirà come una toppa; se lo stucco è applicato
allo stesso livello della superficie originaria, la texture dovrà eguagliare quella vecchia o il risultato
sarà una toppa; se la nuova stuccatura rimane sotto livello, ogni colore di ritocco sembrerà più scuro
dell’originale, per effetto dell’ombra portata dall’illuminazione ambientale; infine la forma e la dimen-
80
Capitolo 4 Semantica del colore
sione della lacuna, i suoi contorni geometrici, la topografia in parete, la luce a cui è soggetta e la
prospettiva da cui viene osservata, creano ulteriori difficoltà che pongono questo intervento di routine,
ad una fattibilità adeguata allo studio dei singoli casi.
Fermo restando che una lacuna in seno ad una superficie pittorica di un certo pregio, riceve sempre
un trattamento conservativo diverso rispetto a quello riservato a una superficie cromatica unita e ancor più differente rispetto al risarcimento di una lacuna su un paramento murario faccia vista.
Per ciascuna di queste situazioni, sarà predisposta una malta diversa in cui le matrici minerali verranno mescolate in modo corretto, adeguandone la proporzione in rispetto alle caratteristiche granulometriche e mineralogiche riscontrate sull’intonaco originale eventualmente campionato ed analizzato
presso un laboratorio scientifico (cfr. Tav. 42).
È importante capire bene il ruolo espressivo e cromatico delle matrici minerali all’interno delle malte
e degli intonaci, ruolo che risulta abbastanza chiaro quando si lavora su rivestimenti architettonici più
colorati o su manufatti e decorazioni plastiche, ma che appare già più confuso quando si vorrebbero
tamponare le lacune su intonaci antichi non cementizi e sembra del tutto oscuro nel trattamento delle
mancanze e sulle tinte uniformi.
4. Architettura nel paesaggio
«L’indirizzo progettuale prevedeva la cura preventiva e conservativa dei dettagli superstiti, come gli intonaci residui (dipinti e non), le malte d’allettamento e quelle di finitura, in qualità di testimoni storici
anche se frammentari, di un’architettura del paesaggio dai precisi connotati stilistici e decorativi. Le malte
vennero campionate e analizzate, mostrando una varietà qualitativa, di colorazione e di granulometria.
Della loro composizione tenne conto un’industria incaricata di formulare un prodotto espresso su misura,
avente caratteristiche simili e buona compatibilità con le malte originarie ma, nonostante le garanzie del
prodotto sotto altri parametri, fu necessario a piè d’opera, adattare di continuo la colorazione della malta
commerciale, addizionando altri inerti. Questo perché le stuccature non interessavano solo la stilatura
dei giunti dei laterizi, ma si ponevano come vere e proprie finiture superficiali del paramento murario, dal
momento che, dopo la perdita degli intonaci antichi, rendevano la superficie architettonica, degradata,
irregolare e lacunosa, molto caratterizzante ed espressiva. Sul timpano, dove convivevano frammenti
dipinti e altri solo intonacati, le stuccature furono fatte sotto livello rispetto agli originali, ma adeguate
alla texture e alla granulometria, così come la mescolanza degli impasti e l’applicazione delle stesure, fu
diversamente adattata sugli altri elementi architettonici presenti, come le due colonne in laterizio e i fronti
murari in faccia a vista». (N.C.G. 2010)
4.5. Il linguaggio dei colori
Per arrivare a una definizione sempre più chiara di cosa sia il restauro del colore, va ancora una
volta sottolineato che in architettura, il colore ha una duplice valenza: mantiene un significato
archetipo, innato e strutturale, racchiuso in un abaco di matrici minerali prescelte e manifesta
al contempo, un significato aggiunto, applicato intenzionalmente in altri registi architettonici sottoforma di rivestimenti pittorici e decorativi, utilizzando le matrici cromatiche. Entrambe le categorie sono in genere presenti all’interno di uno stesso corpo di fabbrica, ma con visibilità diverse:
possono coesistere cioè, sullo stesso piano formale e spaziale dove pretendono di mantenere in
ogni momento del restauro, l’uniformità, la continuità e la leggibilità cromatica delle loro superfici;
oppure presentarsi sullo stesso piano diacronico ma sembrare stratificazioni promiscue e disordinate, avendo smarrito ai nostri occhi, una “superficie” temporale unitaria e comune. La situazione
richiede una valutazione più attenta, dovendo correlare coerentemente questi segni, con i canoni
artistici corrispondenti a quel periodo per ripristinare anche sotto il profilo della godibilità visiva, un
piano unitario.
Se si indaga sulla materia del colore in senso stretto, a prescindere dalla forma e dallo stile delle
immagini in cui esso si presenta, la confusione tende un po’ a sparire e gli strati colorati si leggono
in tutte le successioni di realizzazione, ma per affrontare il tema del restauro del colore, è ancora
81
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
necessario esaminare altri due aspetti di forte peso nell’architettura storica, aspetti che non divergono
nelle loro intenzioni dalle metodologie conservative già in uso, ma che tuttavia nelle loro applicazioni
pratiche, hanno esiti alterni e non sempre felici.
Sono: il linguaggio del colore e la proporzione di scala.
4.6. La Grammatica
La cosa più difficile oggi, non è comprendere il linguaggio dei colori, ma accettare il fatto che essi siano
sottoposti a regole. In passato, molto più che adesso, quando i vincoli erano imposti dalla qualità dei materiali componenti, dai processi di lavorazione e dalle tecniche di applicazione. L’espressività del colore in
queste epoche remote è un fatto genuino e spontaneo, legato ai doni di una natura generosa e agli artifici
dell’uomo che intende sfruttarla. I colori degli antichi nascono dalla sapiente mescolanza tra pigmenti (di
origine minerale, animale, vegetale o d’alambicco) e leganti (minerali come la calce, organici come l’olio e
le tempere) per produrre segretamente tinte stabili e permanenti sulle superfici pittoriche.
I pigmenti tuttavia non si possono mescolare a caso, senza rischiare fenomeni di reciproca incompatibilità,
né i vari leganti si sposano con ogni colore, risultando alcuni troppo viscosi, altri troppo magri, altri idrosolubili all’interno della stessa preparazione; ci sono insomma delle combinazioni cromatiche obbligate che
in segreto gli artisti hanno risolto a modo proprio, piegando materie altrimenti vietate, alla propria esigenza
tecnica ed espressiva. Le qualità chimico-fisiche dettano legge sulle mescolanze e alcune tinte si sfoggiano con successo solo quando gli ostacoli sono superati: alcuni pigmenti artificiali non esistono prima
di una certa epoca (blu cobalto, verde smeraldo, giallo limone e tutti i pigmenti industriali moderni), altri
esauriscono il loro filone (porpora, fritta egiziana), altri scompaiono del tutto (la biacca e i pigmenti oggi
dichiarati tossici); lo stesso olio di lino crudo è un legante che fa la sua comparsa tardi nella pittura.
Altre regole sono imposte dalla qualità dei leganti e dalle tecniche artistiche: affresco, tempera, encausto, graffito, stucco per citare solo quelle presenti in muro, hanno lavorazioni complesse ma
comunque ordinate nelle fasi del loro procedere. Fin qui niente di nuovo: questi elementi primi,
costituiscono la grammatica del colore, l’espressione basilare delle due unità principali che descrivono il colore come “materia” artistica e che dovrebbero e potrebbero oggi, essere meglio conosciute
sfruttando tutti i vantaggi della scienza analitica e delle tecnologie diagnostiche più sofisticate. Una
dimensione piuttosto trascurata invece, è la conoscenza delle tecniche di applicazione dei colori, che
ruotano attorno ad altre leggi fisiche della materia, prima ancora che a quelle espressive della creatività: si sappia che alcune tinte per esempio, fino ad una certa epoca non si producono per mescolanza
ma solo per sovrapposizione dei colori; alcune non si possono sfumare né impastare, altre annegano
nel loro legante, altre scompaiono alla luce, altre ancora si corrodono con la calce (cfr. Tavv. 43-45).
Anche questo fa parte della struttura grammaticale, poiché nella pittura gli ingredienti di base del
colore sono sempre almeno due e il materiale di partenza risulta già un insieme composto, ordinato
e combinato di elementi scelti.
5. La gamma
«La parola “gamma” deriva dal sistema musicale inventato nel XI secolo dal monaco benedettino Guido
d’Arezzo che diede un ordine alla scala dei suoni – le note appunto. Il termine richiama dunque l’idea di una
successione di unità peculiari, ritenuta perfetta in quella sequenza e analogamente succede in pittura. Una
gamma cromatica si riferisce ad una scala di toni (disposti come i colori nello spettro visibile); oppure indica
la serie di sfumature in un colore (i gradi di luminosità che vanno dalla tinta più chiara a quella più scura); o
l’appartenenza a un gruppo di colori riuniti per affinità di tono o di tinta, in insiemi ordinati (colori caldi, freddi,
acromatici, complementari, ecc. )». (N.C.G. 2012)
4.7. La Sintassi
Accanto alle ferree leggi grammaticali dei colori, si articola una sintassi altrettanto complessa, con
altre regole e prescrizioni di carattere oggettivo, che nulla hanno a che fare ancora con l’inganno della
percezione o le preferenze individuali dei singoli pittori. L’articolazione sintattica prevede uno sviluppo
82
Capitolo 4 Semantica del colore
temporale fatto di brevi intervalli (le pennellate) e uno più lungo che corrisponde all’intera realizzazione dell’opera: questo tempo può venire accelerato o dilatato a piacere, in relazione alla complessità
figurativa della composizione, alla tecnica prescelta (affresco su muro, olio su tela, ecc.) e alle doti di
bravura dell’artista, ma restringendo il campo d’osservazione al tempo breve della stesura dei colori,
apparirà chiaro che anche i modi di procedere con le varie pennellate sono abbastanza coscritti.
Non lo sapevano solo gli artisti all’epoca ma lo sanno anche i restauratori oggi, che durante la fase
del ritocco pittorico, vedono le stratigrafie dei diversi colori e leggono la sequenza delle loro stesure,
dovendo loro stessi rapportarsi al vincolo di quelle successioni, per intervenire sulle lacune dei dipinti
e ottenere valori tonali simili, nel ripristino di una leggibilità formale e cromatica che viene espressa
attraverso metodologie specifiche, in cui entrano in gioco anche i parametri formali e percettivi della
visione ravvicinata dell’opera (cfr. Tavv. 46-47).
6. Donde la stonazione delle tinte
«In tutti i lavori si riscontra o la imitazione o la stonazione, derivata questa o dal difetto di grado o dal difetto di
colore delle tinte. Si può dire che un dato lavoro di tinteggiatura o decorazione è stonato e discordante in sé
stesso: a) quando manca il giusto rapporto o salto, di grado di tinta dall’una all’altra in modo da portare nell’insieme lo squilibrio, cotanto sgradito e dannoso al lavoro nel suo effetto tonale; b) o quando si sono adoperate
delle tinte di colore urtanti o repulsive alla vista dell’osservatore, o perché l’occhio, deviato dalla discordanza
di codeste tinte, non può abbracciare, comprendere e nemmeno gustare il complesso delle altre tinte o del
lavoro, o anche perché una sola tinta di un colore eccessivamente intenso, smagliante, avvince l’osservatore
colpendolo nell’esame visivo». (D. Frazzoni 1911)
Semplificando il più possibile la sintassi cromatica, si può dire che le tinte in pittura si articolano
secondo questi metodi di stesura:1) sovrapposizione; 2) giustapposizione; 3) contrapposizione; 4)
accostamento (cfr. Tavv. 48-49).
Tutte queste modalità possono coesistere e incrociarsi su uno stesso dipinto, ma ciascuna di esse impone al pittore una scansione ordinata del proprio lavoro (i ritmi), segnata da tempi prestabiliti (in pittura
murale l’inizio e la ripresa successiva nel dipingere si chiamano appunto “giornate” o “pontate”), che
possono essere rispettati o elusi da ciascuna abilità, ma la genesi e lo sviluppo artistico lasciano tracce
precise in questo senso. L’opera compiuta è soggetta poi ad altri eventi temporali, come l’invecchiamento, il degrado, la manutenzione, il restauro, il rifacimento e a questo punto le regole sintattiche – che in
altro contesto ci apparivano auliche – si ripetono, esprimendo altre successioni più o meno ordinate di
azioni, che su macroscala non vengono riconosciute come stesure pittoriche importanti, ma sembrano
strati cromatici di mascheramento, modificazione, accumulo, occultamento, sparizione o quant’altri
segni (tutti intesi negativi), lasciati sulla superficie dal passaggio volontario dell’uomo. Le relazioni sintattiche sono identiche, eppure nella piccola dimensione di scala del dipinto, esse sono apprezzate e giudicate espressive, mentre nella scala maggiore che interessa l’architettura e l’intero paesaggio urbano,
lo stesso processo a carico delle grandi superfici e delle campiture sui fronti edilizi, non viene né visto,
né letto, né recepito, semmai ritenuto uno scomodo ingombro a procedere.
4.8. La proporzione di scala
In architettura, tutto è fatto di proporzioni. Nella piccola dimensione di una superficie dipinta, la
grammatica detta legge sulle mescolanze dei pigmenti e sulla qualità delle tinte, mentre la sintassi
prescrive la sequenza dei colori e la disposizione delle stesure: tinte contrapposte (chiaroscuro) o
giustapposte (sfumature), pennellate sovrapposte (velature) o accostate (campiture). La scelta della
tecnica e del supporto rimangono libere per l’artista, meno per il pittore-decoratore, vincolato alle
condizioni del muro e meno ancora per il decoratore-imbianchino, inchiodato all’economia del lavoro
rapido. Capacità, stile, creatività, sono cose che vengono dopo, insieme alle preferenze soggettive
proprie dell’arte, per la linea del disegno o per la materia del colore.
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
Nella grande scala dell’architettura, l’unità minima e significativa di un edificio, è data da una parete,
una facciata, una superficie qualunque dove il regista, come il pittore nel suo campo, ne articola le
proporzioni strutturali, gioca con quelle cromatiche ed instaura contemporaneamente un dialogo tra
il linguaggio dei materiali e quello delle tinte.
La sintassi architettonica si mostra senz’altro più articolata e può inizialmente apparire confusa, dovendo realizzare insieme, unità grammaticali complesse, disposte entro spazi più ampi, dove intervengono simultaneamente i rapporti di contrasto o armonia tra tinte, i condizionamenti della geometria,
gli spartiti tra sfondo e decorazioni, le relazioni cromatiche di uguaglianza, differenza, somiglianza,
instaurate con le superfici attigue e gli edifici vicini ed infine, alla scala territoriale urbana, influenzate
da contesti edilizi e paesaggistici di altro genere.
La sintassi che regola la scala architettonica, si articola sulle relazioni congiunte tra spazi bidimensionali (superfici colorate) e volumi costruttivi (apparati decorativi) appartenenti a piani strutturali e/o
temporali diversi, pur tuttavia presenti in una singola architettura o in un raggruppamento di edifici
che mostrano caratteri unitari.
7. Disposizione della materia artistica
«Ubbidendo la pittura decorativa a certe norme sue speciali, segue un ordine misuratissimo, soprattutto per
quel che riguarda la composizione. E la parola stessa composizione altro non significa se non mettere insieme
e unire; e bellamente solo si uniscono quelle cose che hanno affinità e armonia e l’arte della pittura è tutta
armonia, l’armonia è tutto ordine». (G. Ronchetti 1955)
Alla scala maggiore della dimensione urbanistica, il linguaggio del colore coinvolge simultaneamente
tutte le architetture storiche e gli edifici più recenti, in una prospettiva “a volo d’uccello” che gli antichi prima di noi avevano previsto, dando vita alle belle località nel paesaggio. In scala territoriale, il
colore fa dimenticare agli occhi le sue sfaccettature più piccole e s’impone come un linguaggio che
comunica armonia o disagio, condiziona la funzione dei luoghi, influenza la psicologia del benessere,
segna gli ambiti e solo a questo livello, il colore può essere relativo, apparente, voluttuario, accessorio,
ma ai gradi inferiori d’indagine, esso è un codice che bisogna imparare a conoscere.
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Capitolo 4 Semantica del colore
IV. Intermezzo. Decorazione murale d’interni tra Ottocento-Novecento
L’impaginato artistico delle architetture dipinte negli interni borghesi del XX secolo, è facilmente
riconoscibile per la qualità accademica delle pitture, aperta a vari revival stilistici ed arricchita da
una nuova tavolozza cromatica, che include ora le tinte sfumate del vedutismo, ora quelle fosche
del romanticismo.
Il Novecento pittorico è facilmente riconoscibile per il cambiamento di tecnica impiegata sul muro:
si predilige l’uso di tempere magre a secco (gomma, destrina, caseina) che nell’invecchiamento
restano parzialmente solubili, decoese e polverulente; s’impiegano pigmenti di nuova generazione
che danno vita a tinte fantasiosamente nominate: avorio, albicocca, lilla, cremisi, verde menta,
celeste, ecc. L’omogeneità decorativa s’imposta su elementi pittorici conformati e ripetitivi che
spartiscono cromaticamente volte e pareti, basamenti e trabeazioni, sparsi in ogni ambiente. L’impaginato ornamentale delle stanze, si articola sulla scansione tripartita delle pareti: uno zoccolo
basso in tinta unita, un basamento di altezza variabile con vari motivi decorativi (greche, modanature, pannelli floreali, ecc.), una cornice marcapiano in curvatura di volta, articolata o meno
da filettature semplici, chiaroscurate o colorate a contrasto, con motivi classici a foglie d’acanto,
ovuli, ventagli floreali, arabeschi stilizzati dipinti al loro interno. Queste decorazioni sono eseguite
in parte ad affresco, più spesso sul mezzo fresco con tinte a calce e ritocchi a secco fatti a tempera forte (colla e caseinato di calcio) e olio. Le modalità di trasferimento del disegno sul muro,
sommano tecniche accademiche già note: corde battute per tracciare le linee orizzontali di cornici
e modanature; spolvero a carbone per trasferire dettagli minuti e particolareggiati; mascherine –
o tecnica a stencil come si direbbe oggi – per riportare meccanicamente decorazioni modulari,
seriali e ripetitive lungo grandi superfici.
Una tecnica simile si utilizza spesso per dipingere le finte tappezzerie nelle specchiature centrali delle pareti, in cui si sovrappongono entrambi i metodi: la “mascherina” novecentesca che
con la sua matrice sottile e ritagliata, forma sul muro motivi decorativi “in negativo”; la stampa
ottocentesca “in positivo” che si avvale di matrici di legno intagliate, come i rulli che s’impiegano
per stampare i veri tessuti. La differenza tra le due tecniche si riconosce perché nella stampa più
antica, la sovrapposizione delle tinte forma uno strato di colore in rilievo e i decori hanno contorni
più sfrangiati, dove la tempera si accumula in modo irregolare, tenace o solubile. L’aderenza
del film pittorico creato con questa tecnica, dipende dal legante adottato per la tempera: nella
simulazione di tessuti damascati e ricamati secondo la voga del tempo, la riuscita del metodo “a
stampa”, è affidata alla scorrevolezza delle tinte, che, con l’invecchiamento, provocano la caduta
o la pulverulenza dei colori. Queste superfici dipinte sono le più difficili da recuperare, anche
perché si trovano quasi sempre scialbate sotto spessi strati di tinteggiature di copertura. Anche la
scelta della tavolozza pittorica è un indice significativo per ipotizzare la datazione delle pitture: le
architetture dipinte, se non hanno i toni caldi e bruno dorati delle patine ottocentesche dei vecchi
paramenti lapidei, mostrano tinte più fredde o accostate a colori complementari (il grigio acromatico appartiene a tutti gli effetti al Novecento). Alcuni pigmenti fanno la loro nuova comparsa: giallo
limone e giallo cromo, verde di zinco e verde ossido, blu cobalto e oltremare artificiale nella prima
metà dell’Ottocento; arancio di cadmio, verde smeraldo, rosso magenta e lacca d’alizarina nella
seconda metà dell’Ottocento; bianco titanio, nero manganese, rosso carminio, vermiglio e tutti i
coloranti derivati dalle ftalocianine nella prima metà del Novecento. L’indagine visiva è in grado di
classificare in modo orientativo i vari pigmenti, solo se supportata da un’approfondita conoscenza
degli stili e delle tecniche pittoriche, mentre le analisi di laboratorio forniranno la caratterizzazione
precisa; tuttavia è importante che l’occhio guidi le fasi del campionamento analitico, selezionando
le aree più significative, che non sempre corrispondono a quelle più deteriorate, ma che si nascondono in zone pittoriche ben più espressive. (N.C.G. 2001)
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Capitolo 5
Nella tecnica dei materiali
5.1. Questioni di dialogo: colori atipici, deviati, difformi
Come nella lingua la sintassi rappresenta l’insieme di norme che regolano le relazioni tra le parole
nella frase, così le matrici del colore formano le parole e la topografia distributiva sulle architetture
ne rappresenta il fraseggio. Alle origini, le relazioni cromatiche che s’incontrano negli edifici hanno
caratteri molto semplici, che si esprimono attraverso i materiali e si dispongono secondo gli ordini
funzionali e strutturali delle costruzioni; in altre epoche, le stesse cromie assecondano l’andamento
degli ordini architettonici di vario stile, mantenendo in equilibrio il dialogo tra preziosità materiche e
decorazioni cromatiche (colori in armonia, colori a contrasto, chiaroscuro). La vita degli edifici, come
quella delle città e dei piccoli borghi, non procede tuttavia in maniera lineare secondo gli umani
propositi, ma può subire in ogni momento, vicissitudini imprevedibili e accadimenti insoliti, episodi di
crescita o calamità fortuite, eventi insomma che provocano dei cambiamenti improvvisi, costringendo
in fretta a sostituire pezzi, ricostruire parti, ripristinare luoghi, raccogliere materiali, con inserti che
s’inseriscono nelle vecchie strutture in modo corretto o insolito, come colori dissonanti o armoniosi
nel dipinto, seminando nuove mode, forme, tinte, dapprima percepite come un adattamento, poi
come una forzatura stravagante ed infine accolte come normali. I materiali lapidei, le pietre e tutti i
manufatti minerali a coronamento dei vecchi edifici, vengono sostituiti con la variopinta tavolozza di
tinte, che predispongono a tutto il repertorio di architetture decorate e dipinte, in cui le matrici cromatiche forniscono uno strumento flessibile, per sostituire la massiccia volumetria delle matrici tettoniche, con l’immagine piatta dei loro simulacri dipinti. La soluzione decorativa si mostrerà vincente
nell’edilizia dei centri urbani, pur sviluppando risultati diversi e alterni.
Ad esempi curati di equilibrio e armonia, si sommeranno manutenzioni dozzinali, riqualificazioni
funzionali e modifiche obbligatorie, che porteranno gli edifici a cambiare continuamente aspetto,
seppellendo in profondità le tracce colorate della sintassi linguistica di appartenenza. L’accavallarsi
inevitabile di eventi/interventi sul destino delle superfici architettoniche, si traduce sul piano del colore, con scelte corrette o accostamenti azzardati, in un ordine crescente di confusione che aumenta
con la perdita dei vari modelli di riferimento. Specialmente sul fronte della decorazione dipinta, quando scompare l’attitudine accademica della copia, si dimenticano gli esempi autorevoli dei maestri e
si abbandonano i canoni tradizionali, allora appaiono evidenti tutte le sgrammaticature accumulate
fino ad oggi.
1. Nel nome delle cose
«Nulla più del termine colore sfugge a una definizione linguistica, chiara ed esaustiva: da qualunque parte si
affronti, il colore lascia vedere di sé, solo facce parziali e scomposte di una realtà frammentaria, mostrando
ora il suo carattere fisico ora la sua componente ottica, l’aspetto fisiologico o il risvolto psicologico, la natura
materiale, il lato espressivo o quant’altro ancora esso possa significare. Non esiste vocabolo che sappia racchiudere in unico lemma, la varietà di complesse implicazioni che il colore assume all’interno della nostra
esistenza. In molte lingue tuttavia, si scorge traccia di questa ricchezza di connessioni, attraverso un dualismo
intimo e dialettico (la doppia denominazione in russo cvet: colore/percezione e kraska: colore / materia), in cui
la radice della parola, associa sia la qualità sensoriale (il latino color: da celare, ossia nascondere alla vista,
tenere segreto, velare) sia la qualità materiale (il greco chroma: sostanza di rivestimento, veste del corpo, pelle;
cfr. sanscrito: macchia, nero, oscuro, inchiostro).
Questo confine indefinito e sfuggente, tra sostanza materiale che ricopre ed apparenza visiva che suggestiona, regala al colore, un senso magico che lo proietta nell’universo dei segni, rendendolo archetipo, simbolo,
linguaggio, codice, espressione, percezione immediata di una incommensurabile realtà e di un dono divino,
altrimenti intelligibile alla nostra esistenza. Ogni individuo è in grado di catturare mediante l’esperienza diretta
del colore, messaggi e valori significativi per la propria storia». (N.C.G. 2010)
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
In quest’oblio della tecnica, degli stili e della storia dell’arte, nell’assenza di regole che oggi contraddistingue senza pudore la nostra cultura, insiste la credenza che le leggi dell’obbedienza siano inutili
e obsolete: invece è solo attraverso la riscoperta delle regole e di questo articolato dialogo, che si possono trovare e definire i colori autentici (tinte madri) e quelli di rifacimento recenti (tinte compatibili),
le tinte strane portate da altri luoghi e altre mode (atipiche) o quelle disarmoniche perfino nell’estetica
contingente (difformi).
5.2. Lacune e mancanze
Dovendo ancora una volta tornare a circoscrivere la questione al solo restauro architettonico, è necessario fare ulteriori omissis nella trattazione: non si parla in questa sede del restauro delle pitture
murali o degli affreschi dell’edilizia monumentale, sulla quale già si interviene con selettive metodologie conservative; né si entra in dettaglio nei restauri delle decorazioni di Ottocento/Novecento, verso le
quali oggi c’è maggiore sensibilità, proponendo timidi interventi conservativi (ma non sempre), come
nel dettato dei dipinti di pregio.
Il restauro di stucchi e intonaci a vista, nelle loro caratteristiche cromie naturali, va affrontato con
cautela, risanando innanzi tutto le situazioni di degrado a carico degli intonaci e delle murature,
ricucendo eventuali lacune superficiali, utilizzando se possibile, matrici minerali affini agli originali
adeguando la preparazione di queste malte, alla texture e alle caratteristiche morfologiche delle
superfici attigue, tenendo presente che i vecchi intonaci, anche se appaiono grigi, non sono mai
acromatici. Il recupero delle loro superfici cromatiche faccia vista, va valutato con grande attenzione e senso della misura: se il numero delle lacune da risarcire supera l’estensione dell’intonaco
originale, il trattamento conservativo sarà impossibile, perché il rifacimento sovrasta la porzione
autentica minore, apparendo come un frammento annegato nello sfondo; se la distribuzione delle
lacune è varia, per numero e dimensione e l’intonaco originale è privo di tinta o finito a calce, il recupero può essere preso in considerazione; se la presenza delle lacune (macchie, distacchi, ecc.)
si concentra solo su una parte dell’edificio, le soluzioni vanno studiate in funzione alla geometria
e all’entità delle stesse, individuando possibilmente una linea di confine reale (marcapiani strutturali, cornici decorative, ecc.) o ideale, che verrebbe a mascherare il perimetro del rifacimento;
se la mancanza interessa solo la superficie cromatica, prima di intervenire con tinte di rifacimento
casualmente sovrapposte, sarebbe utile ispezionare l’intera stratigrafia, comprese le tinteggiature
recenti, alla ricerca di possibili colori (cfr. Tavv. 50-51).
2. Il valore del grigio
«Questi non-colori si notano spesso nelle abitazioni del luogo, sottoforma di basamenti, zoccolature, fronti
laterali, pareti verticali, cavedi interni, materiali faccia vista, superfici intonacate e non dipinte e restano fondamentali nella corretta percezione prospettica di tutti i colori nel paesaggio. Il grigio in tutte le sue sfumature,
viene fisiologicamente percepito come un gradiente acromatico scuro, capace di condizionare la luminosità e
la profondità di campo, degli oggetti colorati vicini. È una specie di diaframma sull’orizzonte ottico che permette alla vista di riposarsi, distinguendo meglio i rapporti di colore simultanei e consecutivi.
Sottovalutare il peso del grigio nell’edilizia storica del Parco Nazionale delle Cinque Terre, equivale a soffocare
lo spazio nel panorama, riducendo una prospettiva aerea fatta di edifici che sembrano naturalmente nascere
dal mare o confondersi con la montagna, in una sequenza piatta di fronti colorati qualunque. I monocromi
neutri con le loro colorazioni strutturali intrinseche, sebbene difficilmente traducibili nei prodotti coloranti tradizionali, suggeriscono quelle corrispondenze cromatiche armoniche, frequentemente presenti nell’ambiente
naturale e costruito, che sarebbe importante riscoprire e imitare». (N.C.G. 2008)
Se esistano vecchie tempere o tinte madri sottostanti, ne andrebbe presa testimonianza e valutata la
possibilità di recupero, considerato che la sovrapposizione continua delle pitture plastiche della prima
modernità, non costituisce mai un sottofondo salubre e coerente con l’antichità delle murature preesistenti. Questi colori che l’industria rende sempre più coprenti e tenaci, non precludono di per sé le
pitturazioni successive, ma limitano alquanto la potenziale valorizzazione delle superfici antiche, varie-
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Capitolo 5 Nella tecnica dei materiali
gate e irregolari nelle loro murature, uniformate sotto strati pesanti di vernici sintetiche, che non lasciano
spazio agli effetti di trasparenza che le finiture a calce o ai silicati, potrebbero regalare qui.
Si può prendere in considerazione una soluzione alternativa, svolgendo una serie di test preliminari.
Il primo consiste nel dedicare alla mediocrità apparente delle superfici dipinte, l’interesse d’indagine
rivolto comunemente ai dipinti più importanti, facendo eseguire dei piccoli saggi di superficie per
accertare possibili cromie sottostanti. Se ci fossero, è utile scoprire la loro intera stratigrafia, stabilire il
tipo di pittura (a fresco, a calce, a tempera, ecc.) e la sequenza delle tinte (rilevate con sistemi comparativi o strumentali), fotografando l’area d’ispezione e campionando un frammento per eventuali
analisi di laboratorio (cfr. Tav. 52).
È bene osservare la qualità e lo spessore anche delle pitturazioni moderne per valutare la fattibilità
eventuale, di liberare il muro dagli strati spuri sovrapposti, alcuni dei quali sono di ostacolo alla traspirabilità stessa della superficie e quindi, far procedere all’applicazione delle tinte minerali di finitura, in
coerenza con quelle originali scoperte.
Il secondo test è una conseguenza diretta scaturita dai saggi d’accertamento precedenti e consiste
nella realizzazione in laboratorio di alcuni “modelli pittorici” in cui vengono simulate le situazioni cromatiche e stratigrafiche del contesto rilevato, per predisporre lo studio di soluzioni conservative o di
rifacimento più mirate. Diverse sono le tipologie dei modelli che possono essere creati per soddisfare
le molteplici esigenze del caso: su queste superfici di sacrificio, si possono testare nuovi prodotti
e materiali per il restauro; monitorare nel breve e lungo periodo l’efficacia delle soluzioni pensate;
conoscere in anticipo le reazioni pittoriche in analogia a quanto avviene sui dipinti murali originali;
sottoporre ad invecchiamento artificiale alcune sostanze da testare; selezionare, sperimentare e produrre una tavolozza di tinte compatibili, adatta per i lavori di riqualificazione o rifacimento pittorico,
che ogni industria potrebbe realizzare su richiesta (cfr. Tavv. 53-56).
3. Colore in stratigrafia
«Il colore inteso come strato pittorico, si dispone a diversi livelli percettivi e funzionali: in profondità, a contatto con il supporto d’allettamento (mestiche, imprimiture, turapori, intonachino ecc.); nello strato intermedio
come materia cromatica a corpo; in superficie, come stesure autografe di completamento (velature); a contatto
diretto con l’aria, sottoforma di film protettivo (vernici), interfaccia di scambio (smaltatura di carbonatazione),
pellicola di difesa (patina); come strato spurio sovrapposto all’originale (ritocco)». (N.C.G. 2008)
5.3. I modelli: simulazioni guidate per l’apprendimento
La conoscenza della pittura fatta e maturata attraverso la sperimentazione su modelli, si rivela fondamentale nella comprensione del colore e delle regole che lo disciplinano. La manipolazione delle
materie arricchisce la memoria visiva e sensibilizza l’occhio moderno verso tonalità cromatiche a lui
ormai estranee ma appartenenti alla vecchia tavolozza pittorica. Provando a conoscere i pigmenti e
a mescolare le vecchie tinte, a elaborare ricette e tecniche, i misteri delle lavorazioni artigianali antiche tornano ad essere esperienze familiari e il risultato non è più l’incognita dei materiali: le infinite
probabilità delle nozioni teoriche cadono davanti al limite finito dei processi pratici. La riproduzione
in copia dei colori antichi, applicati su supporti mobili e modulari, intonacati e dipinti in conformità
con gli originali d’ispirazione, al di là dell’arricchimento conoscitivo sulle tecniche pittoriche, regala
una consapevolezza diversa nei confronti delle scelte d’intervento sul colore, affinando la capacità
di riconoscere le stratigrafie autentiche di maggiore pregio (quelle realizzate ad affresco, a tempera
oppure a calce) e facendo apprezzare tavolozze meno variate ma meglio assortite. Questa sensibilità percettiva, viene acquisita lentamente dagli addetti ai lavori (restauratori, conservatori, architetti
ecc.) osservando attentamente le superfici cromatiche e le materie pittoriche presenti nelle opere
dei grandi maestri e non meno, nelle superfici dipinte dei piccoli monumenti, ma è solo nel campo
dell’esperienza diretta, che il senso del colore si matura pienamente, quando (purtroppo) a ridosso
di un restauro, le indagini più approfondite e ravvicinate, consentono di leggere a ritroso le sfumature
spente e soffuse di una tavolozza già nota, in cui si riflettono i normali processi di maturazione e d’in-
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
vecchiamento di tutte le tinte. Certo anche qui, la fenomenologia del degrado colpisce diversamente
le opere d’arte, le decorazioni murali e le architetture dipinte, ma sono senza dubbio quest’ultime
ad uscirne peggio e non solo per i danni provenienti dall’esterno, assai comuni su tutti i monumenti,
ma per quelli provocati dall’uomo attraverso i suoi interventi. Sul piano del colore ad esempio, il trascolorire delle vecchie superfici dipinte, ha indubbiamente un altro fascino rispetto alla permanenza
immobile dei prodotti moderni, che degradano senza sbiadire, passando bruscamente dalla vivacità
della pittura nuova al vuoto della lacuna scrostata, senz’altro intermedio che le macchie lasciate
dall’umidità: ben oltre la suggestività cromatica, il dileguarsi delle vecchie tinte, non stratificava sulle
pareti, e lasciava traspirare le superfici.
4. Il colore nell’ornamentazione
«La pittura decorativa od ornamentazione policroma offre il miglior campo per l’estesa applicazione delle leggi
che regolano e caratterizzano la scienza dei colori. Infatti mentre nella pittura propriamente detta è la forma che
generalmente domina obbligata quasi sempre alla imitazione degli oggetti reali, nella decorazione (intesa come
ornamentazione policroma) è il colore che vi trionfa libero di sbizzarrirsi nelle più svariate combinazioni. L’ornamentazione è applicata particolarmente nell’architettura, nei teatri, nelle abitazioni» (G. Piva 1949).
Una via alternativa all’esperienza diretta di cantiere, per altro non sempre possibile e praticabile a
tutti, che consente di familiarizzare con la tavolozza cromatica antica, addestrando l’occhio ai vari
gradi di tono e di timbro assunti dalle tinte con l’invecchiamento in base alle diverse tecniche di lavorazione, può essere offerta dalla simulazione didattica assistita.
Attraverso la creazione di prototipi modello ideati all’interno di un laboratorio tecnico e realizzati mediante esperienze guidate, è possibile far conoscere a tutti le principali regole espresse dalle tecniche
pittoriche e dalla grammatica dei colori con formule di apprendimento teorico-pratico, in cui alle
spiegazioni verbali seguono le prove concrete, ovvero tra il dire e il fare, s’impara a capire.
L’universo colore richiede tuttavia una certa attitudine e sensibilità personale, perché visione e percezione pur essendo processi fisiologici comuni, hanno bisogno di radici innate per svilupparsi al meglio
nel terreno accidentato della conservazione e del restauro.
La sperimentazione del colore attraverso la realizzazione di prototipi modello, che simulano in laboratorio le situazioni reali dei materiali pittorici tradizionali, fa immediatamente comprendere il ruolo
tecnico e qualitativo affidato un tempo ai colori, ma apre anche a nuovi presupposti di ricerca sui materiali, nella piena consapevolezza di quante funzioni, versioni, messaggi e linguaggi possano essere
loro assegnati nelle forme artistiche applicate sul muro (cfr. Tavv. 57-60).
Il bagaglio conoscitivo acquisito attraverso la pratica sperimentale di laboratorio, orienta e ottimizza
la diagnostica nel restauro, soprattutto durante la fase speditiva dei sopralluoghi e nella campagna
d’indagini preliminari, quando è importante acquisire il maggior numero di informazioni prima
di procedere con altre operazioni irreversibili sul manufatto. In questa misura, l’attenzione posta
all’analisi conoscitiva di una stratigrafia pittorica, dovrebbe eguagliare quella riservata allo scavo
archeologico: nell’archeologia come nel restauro, i confini d’interfaccia sono gli elementi più critici
ed interessanti per comprendere le vicissitudini del manufatto, ma nascondono l’insidia che, per
conoscerne a fondo la storia, si potrebbero distruggere in parte o in tutto, le loro stesse fonti d’informazione, le superfici. Agire in maniera prudente ma precisa, secondo orientamenti di ricerca ben
mirati e non condizionati dai fenomeni macroscopici dell’incuria e del degrado, serve a raccogliere
un insieme di dati che verranno confrontati con quelli provenienti dall’analisi delle murature, degli
intonaci di rivestimento e delle strutture architettoniche al completo. L’esperienza di laboratorio
condotta su distinte tipologie di modelli, ma intesa ad approfondire lo studio delle tecniche artistiche e del colore, mostra la sua piena validità nell’atteggiamento critico che sviluppa in sede
progettuale ed attuativa, verso soluzioni d’intervento altrimenti precostituite ed omologate. Poiché
al colore come è stato sottolineato più volte, è affidato gran parte dell’esito espressivo, o repulsivo,
di un manufatto, dichiarato apertamente nelle dimensioni contenute dell’opera d’arte ma capace di
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Capitolo 5 Nella tecnica dei materiali
confondere davanti alla grande architettura, la simulazione su modelli (materici, cromatici, pittorici)
consente di combinare, comporre e scomporre a piacere le varie tinte, visualizzando immediatamente le soluzioni prospettate negli originali di confronto (cfr. Tavv. 61-62).
Attraverso l’analisi del colore sotto forma numerica di codice rilevato, come materiale cromatico
territoriale, decorazione pittorica applicata, tinta di rivestimento riprodotta, strato danneggiato dal
tempo, prodotto d’accumulo della manutenzione o quant’altro dichiarino i passaggi di fase di una
stratigrafia complessa, si potranno formulare correlazioni dirette tra i materiali, le tecniche di lavorazione e lo stato di conservazione dei manufatti, assegnando all’invecchiamento e al degrado il
giusto carico di responsabilità. Prima di procedere con ispezioni invasive e analisi distruttive, converrà associare i fenomeni osservati sugli originali, con i dati forniti su modello e indicare le aree più
significative per gli approfondimenti, senza dispersione di risorse, tempo e materiale preziosi.
5. Alla ricerca del colore
«Tutelare un’opera d’arte, garantendone una corretta conservazione e fruizione ai posteri, significa innanzi
tutto riconoscere il suo valore intrinseco e rispettarne la vitalità espressiva, nell’indissolubile integrità di forma
e materia.
/…/ Una ricerca adeguata sulla pittura murale, nel rispetto delle indagini scientifiche e degli studi storici ad
essa associati, non può ignorare la necessità di esperire la materia artistica per assolvere alle esigenze della
sua conservazione.
/…/ La sperimentazione empirica attraverso il modello permette di caratterizzare tutte quelle fasi appartenenti
esclusivamente alla tecnica della pittura murale, correlando fondamentali reazioni chimico-fisiche di causaeffetto, non a generici fenomeni speculativi, ma ad un preciso elaborato artistico fatturatosi in conformità ad
essi». (N.C.G. 2005)
5.4. I modelli: simulazioni orientate alla riproducibilità
Se rimane indubbia la validità dei modelli per la ricerca sulle tecniche artistiche e lo studio delle pitture di pregio, altrettanto valido si dimostra l’apprendimento cognitivo del colore e delle sue variabili
risultanze, attraverso l’esercizio di copia e riproducibilità delle tinte, praticate su modello. Le potenzialità della simulazione pittorica in laboratorio, si esprime al meglio nell’osservazione diretta delle
mescolanze e delle sovrapposizioni delle varie tinte, riprodotte in conformità agli esiti cromatici visti
sugli originali. Ad un primo modello pittorico riprodotto similmente, si aggiunge un modello gemello
realizzato con tinte commerciali comuni, sul quale vengono fatte tutte le osservazioni e le valutazioni
di confronto, a sostegno della fattibilità del recupero/ripristino delle cromie autentiche o del rifacimento conforme con prodotti industriali affini. Si sa che le tinte in commercio oggi, conservano ben
poco degli ingredienti naturali che ancora negli anni Cinquanta gli artigiani mescolavano in proprio;
escludendo sporadici ritocchi eseguiti con tubetti di colore ad olio, i restauri delle opere d’arte in senso stretto, non sono state toccate dall’industria di mercato che ha travolto invece quasi tutta l’edilizia
storica. I nuovi prodotti vernicianti, impermeabilizzanti, termoisolanti, antimuffa, deumidificanti,ecc.
hanno depositato sulle murature antiche e sulle primitive tinteggiature a calce, strati di vario genere,
spessore e colore modificando irreversibilmente la risposta ambientale degli intonaci di rivestimento
e delle strutture murarie stesse. Sopra questo carico di tinte di rinnovo, perpetrate da decenni sulle
superfici degli immobili nell’intento di una manutenzione migliore, si propongono ancora oggi per il
restauro tipologico, pitture moderne che non hanno nessuna parentela con quelle antiche. Laddove
non sia nemmeno stata indagata la possibile presenza di tinte madri sottostanti, la scelta del colore
di nuova applicazione è affidata al gusto personale del progettista o del proprietario: le relazioni di
contesto architettonico influiscono in piccola misura, condizionando la palette cromatica che rimane
tuttavia in balia della sensibilità soggettiva, nell’omologare o differenziare il proprio edificio dalle architetture prossime e vicine. Senza dettati speciali che tutelino i colori delle città e dei centri storici,
la tavolozza delle tinte urbane, rimane a tutt’oggi discrezionale e discutibile, aprendo alle mode e alle
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Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
soluzioni più disparate che, se anche lo volessero fare, non avrebbero un abaco di riferimento cromatico a cui guardare per riproporre la sintassi corretta delle tinte. Da qui l’idea maturata negli anni, di
iniziare a fare ordine nel melting pot dei colori contemporanei cercando di distinguere quelli antichi,
dal chiasso dei colori contemporanei, formulando un glossario terminologico adatto alle cromie architettoniche e realizzando una raccolta di modelli rappresentativi (cfr. Tavv. 62-63).
La fotografia in questo caso è molto utile nella realizzazione di abachi esemplificativi, ma una cosa
è produrre un documento di rilievo adatto alla progettazione di nuovi edifici e un’altra cosa è ottenere le informazioni necessarie per restaurare il colore degli edifici antichi. Entrambe le operazioni
espongono a un rischio identico: lavorando su elaborati fotografici, fotogrammetrici, digitali e virtuali,
la dimensione del colore rimane teorica, la visione è ridotta ai soli fronti bidimensionali delle architetture, la percezione falsata dalla mancanza del vuoto, le cromie pensate con illuminazione uniforme
e le qualità materiche relegate alla stampa delle cartelle colore. Gli elaborati tradizionali e quelli
informatizzati, non sono sufficienti a garantire gli esiti finali dei colori “immaginati”, anche perché le
nuove generazioni di architetti, restauratori e periti, con le vigenti riforme scolastiche, non sono tenute
ad avere una formazione preliminare nelle arti applicate (come accadeva un tempo), né a saperle
riconoscere.
La simulazione su modelli predisposti in laboratorio, potrebbe compensare le lacune didattiche a
monte e sollecitare le operazioni di documentazione e schedatura delle superfici, rilevando per quanto possibile in situ, la stratigrafia dei colori visibili, mediante l’uso di acquerelli. La tecnica certo non
è nuova, ma nuovo potrebbe essere il contributo nella valutazione delle cromie riprodotte: l’utilizzo
di una gamma ristretta di pigmenti, la dimensione materica del rilievo, la copia dal vero delle tinte,
il condizionamento della luce naturale, le texture murarie, danno la consapevolezza immediata di
quali e quanti fattori contribuiscano alla buona realizzazione di una tinta e di come certi risultati, non
dipendano dalle capacità personali, bensì dalle tecniche e dalle qualità dei materiali.
La varietà dei coloranti industriali e le norme di garanzia dei prodotti sul mercato, confonde indubbiamente un po’ quando si tratta d’intervenire sulle superfici cromatiche antiche, dove tutti i progetti
conservativi vanno bene e pochi sono attuabili.
Nel restauro dell’edilizia storica il compromesso è un’azione imprescindibile dalle operazioni scaturite
e derivate, ma la scelta non può essere un fatto soggettivo, funzionale e veniale, dovendo portare
spiegazioni obiettive agli interventi svolti e pretendere dall’industria soluzioni più efficaci.
La simulazione su modelli di laboratorio, risulta utile anche in tal senso: essa non si pone certo in
competizione con i test e i collaudi a norma di legge, ma intende visualizzare piuttosto le problematiche più complesse del colore, quelle cioè relative alla riproducibilità delle vecchie cromie attraverso
i nuovi materiali e quelli relative al linguaggio cromatico su larga scala. Questo passaggio è cruciale
nella scelta giudiziosa delle tinte per l’edilizia storica, poiché l’esito di un buon intervento, dipende
parzialmente dalla qualità del prodotto scelto, mentre le condizioni della superficie muraria e le modalità di applicazione, determinano una grossa differenza percettiva in pitture che commercialmente
avrebbero un colore identico. Solo un prototipo fisico può in questo caso riprodurre le caratteristiche
morfologiche delle vecchie superfici, riproponendo la grana dell’intonaco originario o la grana degli
strati superficiali apparenti, consentendo di formulare le proposte più adeguate al trattamento e i
materiali adatti a garantire la migliore valorizzazione. Mobili e modulari, a differenza degli immobili
originali di corrispondenza, i modelli pittorici si possono muovere come pedine e si dispongono variamente su una scacchiera fisica, mostrando i rapporti simultanei stabiliti tra le porzioni dipinte di
una sola architettura, quelli successivi realizzati con gli edifici vicini e contigui o i rapporti distributivi
correlati al territorio urbano, diffuso e circostante.
92
Capitolo 5 Nella tecnica dei materiali
VI. Intermezzo. Importanza del rilievo colore per la conservazione e il restauro
Scienza e tecnologia sarebbero molto utili alla conservazione, se solo dedicassero maggiori risorse
e attenzioni alle esigenze proprie dei beni culturali, nelle delicate questioni concernenti la loro
tutela. Tra queste, la musealizzazione delle opere d’arte, la gestione tecnologica degli spazi loro
riservati e i problemi legati all’illuminazione, dovrebbero essere attentamente studiati.
È notizia di questi giorni il grido d’allarme lanciato da Londra, per il celebre quadro dei “Girasoli” di
Van Gogh: il colore giallo dei fiori più conosciuti al mondo, si sta trasformando in marrone. L’opera
del Maestro olandese e molte altre dello stesso periodo, stanno cambiando colore a causa della
prolungata esposizione alle luci artificiali del museo, in particolare alle lampade Led, la nuova
tecnologia a risparmio energetico che sostituisce quasi ovunque la tradizionale illuminazione a
lampade fluorescenti. Il colore giallo, secondo le ricerche effettuate dallo European Synchrotron
Radiation Facility, è il più esposto a variazioni cromatiche provocate da questo tipo di lampade.
Un altro effetto negativo indotto sulle opere d’arte dalle diverse sorgenti d’illuminazione, è quello
che si osserva talvolta, sulle integrazioni pittoriche delle lacune dopo un restauro; il fenomeno
noto come metamerismo, si evidenzia molto bene durante le riprese fotografiche e sminuisce il
risultato estetico anche del miglior intervento, facendo apparire completamente diverse e fuori
tono, le stesure pittoriche di ritocco rispetto a quelle originali. Non si tratta tuttavia né di un errore
del restauratore, né di una distorsione visiva dell’osservatore, ma del fenomeno fisico conseguente
all’esposizione di certi colori sotto diversi illuminanti: colori che per un insieme di fattori congiunti
come l’estensione pittorica, l’ampiezza delle stesure, la direzione delle pennellate, il rapporto
cromatico con il fondo, la texture del supporto e la diversa qualità dei pigmenti antichi e moderni,
generano fenomeni di metamerismo. Se le variazioni cromatiche avvenissero in una sola direzione
luminosa, l’osservatore non sarebbe in grado di vedere alcuna diseguaglianza e l’integrazione
pittorica delle lacune non apparirebbe mai fuori tono. Quando un’opera viene restaurata in un
luogo e collocata ed esposta in un altro, il rischio è maggiore, ma anche i beni immobili come gli
affreschi e le decorazioni murali non ne sono immuni.
Ho molto apprezzato pertanto, in occasione della “Settimana della Cultura 2010”, l’evento al
museo S. Marco di Firenze dove fu proposta un’istruttiva lettura delle opere del Beato Angelico
collocate nelle sale al pianterreno, come esperienza percettiva verosimigliante alle condizioni ambientali primitive, che l’artista considerò quando realizzò i dipinti su tavola e gli affreschi delle celle
conventuali attigue. La luce artificiale travisava completamente la tavolozza pittorica del Maestro,
facendo apparire i colori crudi ma non preziosi e restituiva immagini appiattite, come quelle dei
servizi fotografici, negando la spazialità e la direzione luminosa ricercata dall’artista. L’illuminazione artificiale museale, è troppo orientata e costante, mentre la luce naturale è mutevole e diffusa e
in tale condizione, la pupilla di un osservatore si chiude, facendo apparire i colori spontaneamente
adombrati (effetto di Purkinje). In caso di luce debole insomma, si ha una rapida manifestazione
del colore, che si comporta come immagine evanescente in proporzione all’energia della fonte: un
messaggio di vitalità e misticismo, che travalica la semplice esperienza visiva.
Tener conto dei problemi d’illuminazione nei vari musei è dunque molto importante ai fini conservativi e, se si esclude il danno antropico, contribuirebbe alla piena valorizzazione e fruizione delle
opere, soprattutto nella loro espressività cromatica. Se vogliamo, il principio andrebbe esteso anche alla scala urbanistica delle città e dei centri storici, dove antichi palazzi un tempo in bella vista,
sono oggi soffocati dall’edilizia congestionata degli spazi adiacenti, in cui annegano la prospettiva
dei loro fronti o, viceversa, edifici rifatti a nuovo che propongono luci radenti, nell’esaltazione ad
effetto di privilegi morfologici che le loro superfici non hanno. (N.C.G. 2012)
93
Appendice. Modello di scheda per unità di facciata
LABORATORIO DI RESTAURO – PROF. G.A. CENTAURO
Rif. SCHEDA
LABORATORIO DI RESTAURO
Rif. SCHEDA
PROF. G.A. CENTAURO
SEZIONE ANALITICA
SEZIONEPER
ANALITICA
UNITA’ DI FACCIATA
(recto)
UNITA’PER
DI FACCIATA
(recto)
STRATIGRAFIA VISIBILE DEGLI INTONACI
STRATIGRAFIA
INTONACI
Rinzaffo - arriccio VISIBILE DEGLI
spessore
a mm
Intonaco - arriccio
Rinzaffo
spessore
a mm a mm
spessore
acrilico
Tipologia film pittorico:
minerale
Intonaco
Tipologia
film
pittorico:
COLORE
DEGLI
INERTI
Grigio caldo
misto
spessore a mm
minerale
acrilico
Grigio freddo
Bianco
misto
Altro:
COLORE DEGLI INERTI
GRANA
DELLA FINITURA
SUPERFICIALE
Grigio caldo
Grigio freddo
Bianco
Liscia
Ruvida
Altro:
Intermedia
Altro:
GRANA DELLA FINITURA SUPERFICIALE
VALUTAZIONE DEI COLORI RILEVATI DF: difforme A: atipico D: deviato
Lisciaprincipali
Elementi
Ruvida
Intermedia
ACC 4041
ACC 4041
fondo
1
2 basamento
facciata
Elementi
principali
DF
DF
ACC 4041
ACC 4041
VALUTAZIONE DEI COLORI RILEVATI
3
Altro:
DF – difforme
zoccolo
4
ACC 4041
A – atipico
cornici
DF
5
D- deviato
decori
DF
DF
ACC 4041
ACC 4041
ACC 4041
ACC 4041
ACC 4041
A
A
A
A
A
fondo
1 facciata
2 basamento
3 zoccolo
4 cornici
5 decori
D
D
D
D
D
DF
DF
DF
DF
DF
Elementi accessori
di facciata A
A
A
A
A
D
D ACC 4041
D
ACC 4041D
ACC 4041 D
ACC 4041
ACC 4041
6
portone
7
inferriate
8
Elementi accessori di facciata
DF
ACC 4041
6
A
portone
D
DF
DF
DF
ACC 4041
7
serramenti
inferriate
D
8
persiane
ACC 4041
A
serramenti
D
DF
DF
A
A PRESENTI A
TIPOLOGIE
DECORATIVE
D
D
Pittura tradizionale (tecnica mista affresco / tempera)
Pittura ai silicati
D
Altra
Pittura
TIPO
DI tradizionale
FINITURA(tecnica mista affresco / tempera)
PitturaDIaiCONSERVAZIONE:
silicati
Altra
STATO
Mediocre
9
A
D
persiane
DF
A
D
Pittura a calce
cornici
lapidee
DF
ACC 4041
A Colonne
10 lapidee
D
DF
A
D
Intonachino colorato in pasta
TIPOLOGIE DECORATIVE PRESENTI
Buono
10
DF
ACC 4041
A
9
Pittura a calce
Intonachino colorato in pasta
Cattivo
Pessimo
TIPO DI FINITURA:
STATO
DI CONSERVAZIONE:
Annotazioni
sull’incidenza di altri fenomeni di degrado e/o alterazione
Buono
Mediocre
Cattivo
Pessimo
Annotazioni sull’incidenza di altri fenomeni di degrado e/o alterazione
95
LABORATORIO DI RESTAURO – PROF. G.A. CENTAURO
Rif. SCHEDA
LABORATORIO DI RESTAURO
Rif. SCHEDA
PROF. G.A. CENTAURO
SEZIONE ANALITICA
SEZIONEPER
ANALITICA
UNITA’ DI FACCIATA
(recto)
UNITA’PER
DI FACCIATA
(verso)
SEZIONE MONITORAGGIO
STRATIGRAFIA VISIBILE DEGLI INTONACI
Elaborazione indici
Rinzaffo - arriccio
spessore a mm
Intonaco
spessore a mm
A - Grado di impatto visivo
basso
B - Grado di alterazione elementi
Tipologia film pittorico:
decorativi
1
minerale
basso
3
C - Condizioni conservative
buone
1
basso
1
COLORE DEGLI INERTI
D - Grigio
Grado di
alterazione cromatico
caldo
Grigio freddo
e materico
medio
2
alto
4
acrilico
medio
2
alto
1
medie
Bianco
medio
2
misto
cattive 4
Altro:
2
alto
3
Elaborazione
parametri
GRANA DELLA
FINITURA SUPERFICIALE
bassa
media
Alta
Intermedia
Altro:
(2÷3)
(4÷6)
(=8)
bassa
media
alta
VALUTAZIONE
DF – difforme
A – atipico
D- deviato
Rilevanza
(A* B) DEI COLORI RILEVATI
(1÷3)
(4÷6)
(8÷12)
Elementi principali
alta
media
bassa
Recuperabilità (C* D)
(2÷3)
(4÷6)
(8÷12)
ACC 4041
ACC 4041
ACC 4041
ACC 4041
ACC 4041
alta
media
bassa
fondo (B/D)
Compatibilità
1 facciata
2 basamento(>2) 3 zoccolo (1÷2)4 cornici (<1) 5 decori
Liscia
Priorità
(A+C)
Ruvida
DF
DF
DF
A
D comparativo ACC 4041
D
IndicazioniDcromatiche con sistema
DF
A
D
SEGNALAZIONE
PROGETTUALE
A
A
Colori
di progetto
(sostitutivi/correttivi)
Elementi
accessori
di facciata
4041
AACC
Cromatismo
6
ACC 4041
portone
7
DF
A
C TonalitàD
Basamenti Zoccoli
ACC 4041
inferriate
B Saturazione
Fondi
8
DF
A
D
DF
A
D
Cornici
Decori
ACC 4041
serramenti
9
persiane
DF
A
D
DF
A
D
Altro
ACC 4041
Colonne
10 lapidee
DF
A
D
TIPOLOGIE DECORATIVE PRESENTI
Simulazione in acquerello
si
no
Pittura tradizionale (tecnica mista affresco / tempera)
Pittura a calce
Pittura ai silicati
Intonachino colorato in pasta
Note:
Altra
TIPO DI FINITURA:
STATO DI CONSERVAZIONE:
Buono
Mediocre
Compilatore
Cattivo
Pessimo
Data
Annotazioni sull’incidenza di altri fenomeni di degrado e/o alterazione
TAVOLE
33. Colore è sensazione, emozione, percezione … arte e architettura
97
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
34. Invarianti cromatiche della città di Firenze: il giallo e il grigio
98
Tavole
35. Architetture fiorentine: la bicromia espressa dalle matrici minerali e cromatiche e dalla loro emulazione
nelle nuove tinte
99
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
36. Linguaggio dei colori: l’armonia cromatica si ottiene da una gamma di tinte disposte in ordine e proporzione
corretta
100
Tavole
37. Linguaggio dei colori: il contrasto cromatico si visualizza alla scala urbana nel rapporto e nella sequenza
degli edifici
101
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
38. L’arte toscana preferisce il disegno al colore. Nella decorazione murale il chiaroscuro è l’espediente
tecnico che li concilia entrambi
102
Tavole
39. Il chiaroscuro ha radici nel Rinascimento fiorentino. In architettura si esprime rapportando colori chiari e
scuri, volumi pieni e vuoti
103
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
40. Rosso mattone: dipinto e graffito sulle facciate; frantumato e mescolato nelle malte; schiarito ed evocato
nelle tinte
104
Tavole
41. Intonaco di finitura lavorato secondo la tecnica della sagramatura
105
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
42. Campionamenti ed analisi diagnostiche sulle malte: microscopia ottica, sezione grafica, campionamento,
sezione lucida e sezione sottile
106
Tavole
43. Manifesta instabilità chimico-fisica di pigmenti incompatibili con la calce
107
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
44. Variazioni cromatiche repentine nella preparazione e nella stesura di alcuni pigmenti
108
Tavole
*
45. Grammatica del colore: pigmenti, leganti, tempere organiche e tinte a calce seguono dettati rigorosi in pittura
nella gamma scalare dei toni
109
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
46. Superfici architettoniche decorate ad encausto e ad affresco
110
Tavole
47. Facciate graffite e dipinte sono espressione del colore storico delle città
111
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
48. Grammatica e sintassi del colore: tinte accostate, contrapposte, giustapposte e sovrapposte. In basso, un
pigmento macinato
112
Tavole
*
*
*
49. Sintassi pittorica: campiture, sfumature, stesure e velature cromatiche. In basso, test su vetrino
113
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
50. Sgrammaticature di intervento nel trattamento cromatico di fondi e lacune
114
Tavole
51. Alla ricerca dei vecchi colori: analisi delle stratigrafie, rilievo comparativo e strumentale delle tinte
115
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
52. Indagini diagnostiche su intonaci dipinti: campionamento, sezioni sottili, microscopia EDS, analisi FTIR
116
Tavole
53. Le matrici minerali: espressione cromatica del paesaggio antropico
117
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
54. Modelli materici ideati e realizzati in laboratorio utilizzando le matrici minerali
118
Tavole
55. Malte realizzate con matrici minerali e modelli con tinte applicate e loro emulazione
119
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
56. Modelli pittorici riprodotti utilizzando le matrici cromatiche
120
Tavole
57. Modelli pittorici a confronto nella ricerca di tinte madri originali
121
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
58. Analisi sulle stratigrafie e modelli di studio per la riproducibilità del colore
122
Tavole
59. La tavolozza cromatica elaborata per il recupero dell’edilizia storica nel Parco Nazionale delle Cinque Terre
123
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
60. Tinte madri e tinte decorative: elaborati di studio
124
Tavole
*
61. Modelli cromatici per lo studio di tinte in accostamento corretto. In alto, studi sul chiaroscuro pittorico
(da: Firenze In_Colore … cit.)
125
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
62. Simulazioni cromatiche secondo il linguaggio di colori compatibili
126
Tavole
63. Modelli per l’industria
127
Giuseppe alberto Centauro, NADIA CRISTINA Grandin RESTAURO DEL COLORE IN ARCHITETTURA
64. Tavolozza cromatica prodotta per l’edilizia storica di Firenze (da: Firenze In_Colore … cit.)
128
Nota bibliografica
I testi in elenco costituiscono una bibliografia di riferimento generale che viene segnalata per conoscere l’argomento “Colore” e le problematiche relative alla sua conservazione e valorizzazione secondo i dettati del libro. Le citazioni presenti all’interno, sono tratte in parte da alcuni di questi testi.
Archeometria e restauro, a cura di S. Siano, Firenze, 2012
C. Arcolao, Le ricette del restauro. Malte, intonaci, stucchi dal XV al XIX secolo, Venezia, 1998
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Convegno Internazionale (Palermo, 12-13 giugno 2003), a cura di A. Pes-M. Benfari, Varese, 2003,
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G.A. Centauro, Piano del colore del centro storico di Prato, 2 voll., Poggibonsi, 1998
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129
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130
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Finito di stampare in Italia nel mese di marzo 2013
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per conto di EDIFIR-Edizioni Firenze
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