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Le Società
Anno XXXV
SOMMARIO
DIRITTO SOCIETARIO
Azioni
Soci
Responsabilità
capogruppo
Bilancio
Delibere
Società
cooperative
Azioni
Recesso
La riserva ‘negativa’ per azioni proprie in portafoglio
di Nicola de Luca
5
Problematiche relative alle disfunzioni decisionali dei soci nelle società di capitali
di Giulia Mina
13
L’art. 2497 e la responsabilità della capogruppo nei confronti dei soci e creditori sociali della società eterodiretta: un rimedio risarcitorio
Cassazione Civile, Sez. I, 12 giugno 2015, n. 12254
commento di Hadrian Simonetti
25
Difetto di interesse del socio ad impugnare il bilancio: una applicazione del principio di continuità dei bilanci
Corte d’Appello Milano 5 marzo 2015, n. 1015
commento di Federica Fainelli
31
Oggetto e limiti del controllo notarile sulle delibere straordinarie
Tribunale di Milano, Sez. impr., 25 settembre 2015, decr.
commento di Vincenzo Salafia
43
Il privilegio alle cooperative di produzione e lavoro
Tribunale di Modena, Sez. I, 14 luglio 2015, n. 1307
commento di Guido Bonfante
47
Compravendita di azioni e dolo incidente
Tribunale di Milano, Sez. impr., 6 luglio 2015
commento di Enrico Erasmo Bonavera
52
Modifica di fatto e modifica formale dell’oggetto sociale: per l’esercizio del recesso occorre sempre una
delibera assembleare
Tribunale di Napoli, Sez. III, 11 marzo 2015
commento di Enrico Civerra
62
Direzione
Controllo esterno e responsabilità da direzione e coordinamento
e coordinamento Tribunale di Catania 26 febbraio 2015
commento di Giacomo Bei
73
PROCESSO, ARBITRATO E MEDIAZIONE
Clausola
Clausola compromissoria statutaria e fallimento del socio.
compromissoria Tribunale di Napoli, Sez. impr., 25 novembre 2014
commento di Elena Zucconi Galli Fonseca
84
ITINERARI DELLA GIURISPRUDENZA
Recesso
Il recesso del socio nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata
a cura di Ubalda Macrı`
98
OSSERVATORIO
GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ
a cura di Vincenzo Carbone e Romilda Giuffrè
107
GIURISPRUDENZA DI MERITO
a cura di Alessandra Stabilini
109
Le Società 1/2016
3
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Le Società
Anno XXXV
CONSOB
a cura di Angelo Busani e Alessandro Portolano
113
FISCALE
a cura di Massimo Gabelli
117
COMUNITARIO
a cura di Pietro Michea
123
INDICI
127
Indice Autori
Indice Cronologico
Indice Analitico
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
F. Annunziata, P. Biavati, C. Consolo, L. De Angelis, G. Fauceglia, G. Ferri, G. Guizzi, F.P. Luiso, V. Meli, S. Menchini, F. Mucciarelli,
A. Pericu, A. Perrone, C. Piergallini, S. Rossi, L. Salvaneschi, L. Stanghellini, G.M. Zamperetti
Mensile di diritto e pratica commerciale
societaria e fiscale
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4
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Le Società 1/2016
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Opinioni
Diritto societario
Azioni proprie
La riserva “negativa” per azioni
proprie in portafoglio
di Nicola de Luca
L’Autore offre una prima riflessione sulla disciplina della riserva negativa per azioni proprie in
portafoglio introdotta da D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 139 di recepimento della Dir. 2013/34/UE in
materia di conti annuali e consolidati. Con tale innovazione, il legislatore italiano ha allineato la
disciplina della contabilizzazione delle azioni proprie in portafoglio per le società per azioni non
quotate a quella delle società quotate, soggette agli IAS.
Introduzione
L’art. 6 D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 139, di recepimento della Dir. n. 2013/34/UE, del 26 giugno
2013, in materia di conti annuali e consolidati,
approfitta per ripensare il profilo relativo alla contabilizzazione delle azioni proprie in portafoglio,
rispetto a come lo stesso era stato disciplinato a
seguito del recepimento della II Direttiva, e confermato a seguito del recepimento della IV Direttiva.
Come meglio si esaminerà in prosieguo, le Direttive europee in materia societaria lasciano (tuttora)
aperta per gli Stati membri l’opzione se annotare
le azioni proprie in attivo o meno. Correlativamente, si pone la necessità di “bilanciare” l’iscrizione o mancata iscrizione in attivo con una posta
del passivo che segnali l’impiego degli utili distribuibili e delle riserve disponibili “consumati” per
effettuare l’acquisto. Le tecniche di contabilizzazione conosciute sono fondamentalmente due: a)
una - impiegata in Italia per le società non quotate dall’introduzione della II Direttiva nel 1986 fino a ieri - è quella di accendere in passivo, e più
precisamente nel patrimonio netto, una riserva
indisponibile di importo pari al valore di carico
delle azioni proprie, annotate in attivo; b) l’altra preferita a livello europeo per le società quotate,
mediante adozione del relativo principio IAS - è
quella di non annotare in attivo il valore di acquisto delle azioni proprie e di bilanciare il minor
valore dell’attivo con una posta di segno negativo
in passivo. Una terza soluzione è infine pure possibile (in quanto sicuramente ammessa dalle Diret-
Le Società 1/2016
tive europee): e cioè c) bilanciare il minor valore
dell’attivo con una definitiva riduzione delle riserve disponibili e utili distribuibili impiegati per
l’acquisto, dando notizia dell’esistenza di azioni
proprie in portafoglio esclusivamente nella nota
integrativa.
La novella in commento allinea la regola contabile valevole per le società non quotate rispetto a
quelle quotate stabilendo (all’art. 2357 ter, comma 3, c.c.) che “l’acquisto di azioni proprie comporta una riduzione del patrimonio netto di eguale importo, tramite l’iscrizione nel passivo di una
specifica voce, con segno negativo”. Questa regola è completata dall’introduzione nello schema di
stato patrimoniale di una serie di variazioni. All’art. 2424 c.c. si prevede che dopo il rigo IX
(Utili o perdite di esercizio) sia introdotto un nuovo rigo X (Riserva negativa per azioni proprie in
portafoglio). Sono anche eliminati i riferimenti alle azioni proprie dai righi B.III.4. e C.III.5. dell’attivo di stato patrimoniale, in passato relativi
alla contabilizzazione delle azioni proprie come
immobilizzazioni finanziarie o attivo circolante.
All’art. 2424 bis c.c., dopo il comma 6, è infine
stabilito che “le azioni proprie sono rilevate in bilancio a diretta riduzione del patrimonio netto, ai
sensi di quanto disposto dal terzo comma dell’art.
2357-ter”.
Per comprendere appieno il valore dell’innovazione, occorre ricordare il dibattito che ruotava intorno alla riserva ‘positiva’ per azioni proprie in portafoglio e alla contabilizzazione delle azioni proprie
secondo i principi IAS.
5
Opinioni
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Diritto societario
La riserva “positiva” per azioni proprie in
portafoglio
Fino all’agosto del 2015 era prevista, a fronte di acquisti di azioni proprie, anche se a titolo gratuito,
la costituzione e il mantenimento di una riserva indisponibile pari all’importo delle azioni proprie
iscritto all’attivo del bilancio, finché le azioni non
fossero state trasferite o annullate (art. 2357 ter,
comma 3, c.c. vecchio testo) (1). Tale previsione
era stata introdotta in occasione del recepimento
della II Direttiva in materia societaria nel 1986 e,
sebbene non avesse del tutto dissipato i dubbi preesistenti, sollecitandone anzi di nuovi, aveva contribuito ad orientare il dibattito sul trattamento contabile delle azioni proprie (2). Il fulcro del problema stava, peraltro, nell’indicazione contenuta nella
IV Direttiva in materia societaria, conservata dalla
Dir. 2013/34/UE, di inserire la riserva azioni proprie in portafoglio in patrimonio netto e non fuori (3).
Già prima della recezione della II e della IV Direttiva in materia societaria era prevista l’iscrizione
(1) Sia permesso rinvio a de Luca, La società azionista e il
mercato dei propri titoli, Torino, 2012, 78-98; Id., Riserve indistribuibili, riserve indisponibili e incidenza delle perdite, in Riv.
Società, 2013, 464, spec. 473 ss.
(2) La II Direttiva in materia societaria (poi sostituita, ma
senza variazioni di contenuto, dalla Dir. 2012/30/UE, del 25-102012) consente di non iscrivere le azioni proprie in attivo di bilancio, restando allora allo Stato membro il compito di stabilire
come dare evidenza anche contabile della presenza di azioni
proprie in portafoglio. Se le azioni proprie sono contabilizzate
nell’attivo del bilancio, viceversa, deve essere iscritta al passivo una riserva indisponibile dello stesso importo (art. 24, par.
1, lett. b, Dir. 2012/30/UE). Da parte sua, l’art. 9 IV Direttiva in
materia societaria prevedeva che le azioni proprie siano indicate nell’attivo di stato patrimoniale, “sempreché la legislazione
nazionale ne autorizzi l’iscrizione nello stato patrimoniale” e
che una riserva di egual valore sia appostata tra le voci di patrimonio netto (ora v. Allegato III alla Dir. 2013/34/UE, senza
variazioni sul punto). È risultato controverso se la II e la IV Direttiva in materia societaria fossero sul punto in contrasto, anche se è apparsa convincente la tesi di chi ha prospettato la
neutralità della IV Direttiva (ed ora della Dir. 2013/34/UE) rispetto alle opzioni offerte dall’art. 24, par. 1, lett. b), Dir.
2012/30/UE. Sul punto L. De Angelis, Considerazioni sulla valutazione delle azioni proprie nel bilancio d’esercizio e sulla correlativa riserva, in Giur. comm., 2002, I, 48, ivi a 53; e già G. Sbisà, in Fré e G. Sbisà, Delle società per azioni6, in Commentario
al codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma,
1997, sub art. 2357-ter, 429 s.
(3) Specificamente, e in luogo di altri, v. E. La Marca, Le
operazioni su azioni proprie, in M. Cassottana - A. Nuzzo, Lezioni di diritto commerciale comunitario, Torino, 2006, 92, risolvendo senz’altro il dubbio nel senso che l’inclusione della riserva
per azioni proprie in portafoglio nel patrimonio netto non può
valere a renderla utilizzabile a copertura delle perdite: se si
trattasse di posta di patrimonio netto, “la Seconda dir. soc.
non avrebbe potuto consentire semplicemente di non iscrivere
le azioni proprie in attivo”.
(4) Così, soprattutto, G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio
6
delle azioni proprie in attivo di bilancio, distintamente dalle altre partecipazioni sociali (art. 2424,
comma 1, n. 10, c.c., nella versione antecedente a
quella introdotta con l’art. 6 D.Lgs. 9 aprile 1991,
n. 127). Era incerto, invece, a quale valore effettuare tale iscrizione - se a costo storico (4), a valore
di presumibile realizzo (5) o a valore simbolico, come da taluno suggerito (6) - e se dare evidenza in
passivo dell’impiego di utili e riserve per l’acquisto.
Questa seconda questione riceveva soluzione affermativa (7), ma restava il dubbio - che non è stato
in seguito risolto definitivamente, nonostante l’obbligo di iscrivere la riserva (8) - se si dovesse trattare di una vera e propria riserva, con le connesse
funzioni, o piuttosto di una posta rettificativa dell’attivo (9).
Secondo le previsioni di legge valevoli fino all’agosto 2015, nelle società non quotate, le azioni proprie si dovevano iscrivere in attivo di bilancio, tra
le immobilizzazioni finanziarie (art. 2424 c.c., rigo
B.III.4, vecchio testo) o nell’attivo circolante (art.
2424 c.c., rigo C.III.5, vecchio testo), indicando
anche il valore nominale complessivo.
delle società per azioni, Padova, 1965, 111.
(5) Questa la tesi di S. Fortunato, Acquisto di azioni proprie:
finanziamento e contabilizzazione, in AA.VV., La seconda direttiva CEE in materia societaria, a cura di Buttaro - Patroni Griffi,
Milano, 1984, 341.
(6) A. De Gregorio, I bilanci delle società anonime nella loro
disciplina giuridica, Milano, 1938, 415 ss., ripreso da Nobili,
Osservazioni in tema di azioni proprie, in Riv. Società, 1987,
782.
(7) A. De Gregorio, op. cit., 415 ss.; G. Frè, Delle società per
azioni5 , in Commentario al codice civile, diretto da Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1982, 654; G.E. Colombo, op. cit.,
111; E. Simonetto, I bilanci, Padova, 1967, 123; M. Caratozzolo, Il bilancio di esercizio negli aspetti contabili e civilistici, Milano, 1980, 96, 249; F. Lizza, L’acquisto di azioni proprie nell’economia dell’impresa, Milano, 1983, 162 ss. Egualmente in giurisprudenza, Trib. Milano 14 luglio 1983, in Giur. comm., 1986,
II, 495, con nota di A. Toffoletto, Le azioni proprie e il bilancio di
esercizio (ritenendo legittima la costituzione della riserva). Isolatamente in senso opposto, U. Belviso, Profili soggettivi della
liquidazione della quota al socio uscente e interesse dei creditori
nelle società di persone, in Giur. comm., 1979, I, 811, ivi, 822.
(8) R. Nobili, in R. Nobili - M. Vitale, La riforma delle società
per azioni, Milano, 1975, 161 (e più di recente, Id., Appunti in
tema di azioni proprie, in La struttura finanziaria e i bilanci delle
società di capitali. Studi in onore di Giovanni E. Colombo, Torino, 2011, 119, ivi a 136); C. Costa, Le riserve nel diritto delle società, Milano, 1984, 22 ss.; S. Fortunato, op. cit., 337 ss.; G.E.
Colombo, La “riserva” azioni proprie, in AA.VV., Riserve e fondi
nel bilancio di esercizio, a cura di Castellano, Milano, 1986, 167
ss.; A. Cursio, Natura giuridica del fondo azioni proprie, ivi, 181
ss.
(9) Secondo un indirizzo autorevole, si sarebbe trattato di
posta rettificativa, risultando “una semplice constatazione del
fatto che una somma di utili corrispondente al valore delle
azioni proprie è stata già impiegata nel loro acquisto e non
può quindi più venire riutilizzata”: così, G.E. Colombo, La riserva, cit., 110 s.
Le Società 1/2016
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Opinioni
Diritto societario
Era opinione sostanzialmente pacifica che l’iscrizione della voce - sia che si tratti di immobilizzazione
finanziaria sia che si tratti di acquisto per la rivendita o in funzione di c.d. trading (dunque da annotare in attivo circolante) - dovesse avvenire secondo il criterio del costo di acquisto, in conformità
del resto all’art. 35, par. 1, lett. a, IV Direttiva in
materia societaria (ed ora dell’art. 6, par. 1, lett. i)
Dir. 2013/34/UE) (10). Era ancora dibattuto, invece, se, una volta accesa la voce azioni proprie, la
stessa potesse (e se non dovesse) essere successivamente svalutata tenendo conto dell’eventuale minore valore di presumibile realizzo delle azioni proprie. In particolare, applicando i principi di cui all’art. 2426, n. 3 e n. 9, c.c. (corrispondenti a quelli
espressi dall’art. 35, par. 1, lett. c), nn. aa e bb, IV
Direttiva in materia societaria e poi dell’art. 6, par.
1, lett. i) Dir. 2013/34/UE), occorreva chiedersi se
la valutazione delle azioni proprie collocate in immobilizzazioni finanziarie, e quindi destinate a permanere nel bilancio per più esercizi, dovesse tenere
conto di una stima di “valore durevolmente inferiore” al costo di acquisto, ovvero dipendere dal
“valore di realizzazione desumibile dall’andamento
del mercato” (11).
Certamente non potevano reputarsi ammissibili rivalutazioni delle azioni proprie in portafoglio.
Con riferimento alle società non soggette ai principi contabili internazionali, la giurisprudenza di legittimità si era espressa nel senso che le azioni pro-
prie, siccome devono considerarsi elementi del patrimonio della società emittente, sono oggetto di
valutazione come ogni altra partecipazione azionaria, e devono dunque essere svalutate se il valore
di presumibile realizzo si riduce durevolmente. Ove
la svalutazione non venisse operata, il bilancio ne
risulterebbe viziato ed invalida sarebbe, dunque, la
delibera di approvazione (12). La Suprema Corte
aderiva in questo modo alla tesi di coloro che,
muovendo dalla possibilità di ricollocare sul mercato le azioni proprie, anche ad un prezzo inferiore a
quello di acquisto, le ritenevano elementi del patrimonio, suscettibili di valutazione e di svalutazione (13).
Questo orientamento giurisprudenziale, confermato
successivamente (14), era stato criticato dai sostenitori dell’opposta tesi sul rilievo che le azioni proprie, pur potendo essere ricollocate, non rappresentano un componente positivo attuale del patrimonio della società, al pari di come non debbono
considerarsi elementi attuali del patrimonio le
azioni che possono essere emesse sulla base di un
aumento delegato (c.d. azioni autorizzate). Se le
azioni proprie non sono un componente attualmente valutabile, va da sé che non possono essere
svalutate (15). Era stato anche notato che le azioni
tesaurizzate in portafoglio, risultando sospesi i diritti patrimoniali, non concorrono a formare il reddito dell’impresa (16).
(10) Per tutti, G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio, in Trattato Colombo-Portale, 7*, Torino, 1994, spec. 310; L. De Angelis,
op. cit., 54; nonché P. Santosuosso, Le azioni proprie nell’economia dell’impresa, Milano, 2004, 122 e 127, ove la notazione
che, qualora l’acquisto avvenga a titolo gratuito, l’iscrizione va
fatta a valore corrente e rilevata come provento straordinario
nel conto economico.
(11) Allo stesso modo, vi è chi ritiene che anche le azioni allocate in attivo circolante debbano essere immediatamente
svalutate, tenendo conto del valore di presumibile realizzo, se
inferiore al costo: L. De Angelis, op. cit., 61 s.
(12) Cass. 3 settembre 1996, n. 8048, in Giur. comm., 1997,
II, 249, con note di A. Toffoletto, La Cassazione, l’iscrizione in
bilancio di azioni proprie e l’interpretazione delle norme “armonizzate”, 262 ss.; e di F.M. Mucciarelli, L’imperatività del principio di chiarezza del bilancio, 629 ss.; in Nuova giur. civ. comm.,
1997, I, 844, con nota di A. Colleoni, Princìpi di chiarezza e precisione, criteri di valutazione delle azioni proprie in portafoglio,
clausole di gradimento; e in questa Rivista, 1997, 172, con nota
(contraria) di G.E. Colombo, Illiceità del bilancio per incompletezza informativa.
Con riguardo alla valutazione delle azioni proprie quotate,
iscritte come immobilizzazione finanziaria (prima dell’adozione
dei Principi IAS), mentre Trib. Milano 10 ottobre 1991, in questa Rivista, 1992, 665, con nota di E. Balzarini, Iscrizione in bilancio di ammortamenti anticipati per immobilizzazioni tecniche,
ha ritenuto che il valore di iscrizione potesse “essere rettificato
da un apposito fondo mirante ad adeguare, a fine esercizio, il
valore delle azioni proprie in portafoglio alla quotazione di fine
anno”, l’opposta conclusione ha raggiunto la Corte di Appello
meneghina (App. Milano 5 novembre 1993, in questa Rivista,
1994, 230, con nota di E. Balzarini, Valutazione in bilancio delle
azioni proprie in portafoglio) annullando la delibera di approvazione del bilancio (caso Zerowatt).
(13) In questo senso, F. Carbonetti, Acquisto di azioni proprie e patrimonio sociale, in Riv. Società, 1982, 1120; Id., L’acquisto di azioni proprie, Milano, 1988, 147; A. Toffoletto, op.
cit., 495 ss.; G. Solimena, Sulla natura della riserva per azioni
proprie, in Riv. dir. comm., 1990, I, 67. Apparentemente così
orientato anche G.F. Campobasso, Acquisto di proprie azioni,
in Armonie e disarmonie nel diritto comunitario delle società di
capitali, a cura del medesimo, Milano, 2003, 486.
(14) Cass. 24 novembre 2000, n. 15189, in questa Rivista,
2001, 180.
(15) G.E. Colombo, Illiceità, cit., 181, il quale evoca una felice metafora: la situazione delle azioni proprie in portafoglio è
analoga a quella della sostituzione di un “mezzo locale” con
uno specchio.
(16) Così de Luca, Riserve indistribuibili, cit., 477 ss. Il problema della produttività dell’investimento è indagato da P.
Santosuosso, op. cit., 112 ss., il quale tuttavia pone la questione nel senso che, se è escluso l’annullamento delle azioni proprie, l’acquisto in sé dà luogo a costi e ricavi che contribuiscono alla formazione del reddito nell’esercizio in corso o nei successivi. Da ultimo, v. pure L. Ardizzone, Le azioni proprie nella
fusione e nella scissione, Milano, 2010, 101 s., richiamandosi
anche alla letteratura aziendalistica, la quale esclude che possano considerarsi “capitale investito esistente”.
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Era perciò dibattuto quale fosse la natura della riserva ‘positiva’ per azioni proprie in portafoglio: se
riserva in senso tecnico o posta rettificativa dell’attivo.
La tesi che sosteneva la natura di riserva in senso
tecnico poggiava sul rilievo che le azioni proprie
non sono prive di valore economico, sebbene questo si realizzi solo con la loro (possibile) alienazione (17). Di qui il nomen attribuito alla posta contabile, sia a livello comunitario sia nazionale, appunto di “riserva”. Conforto alla tesi si traeva anche
dalla circostanza che, in base alle prescrizioni della
IV Direttiva in materia societaria (e poi della Dir.
2013/34/UE), la riserva azioni proprie è collocata
nelle voci di patrimonio netto e non fuori.
Secondo la tesi opposta si sarebbe trattato, invece,
di una posta rettificativa dell’attivo (18), vale a dire di un fondo iscritto al passivo a copertura di una
perdita certa o probabile (19). Con la conseguenza
che non rappresentando utili (seppure indisponibili), ma utili impiegati (e cioè consumati) per l’acquisto delle azioni proprie, il regime non sarebbe
stato quello della mera indistribuibilità, ma quello
dell’indisponibilità: la riserva azioni proprie non solo
non poteva essere distribuita ai soci, ma non poteva essere utilizzata né per effettuare aumenti di capitale, né per coprire le perdite. E allora non era
una riserva.
Delle due impostazioni era stata tentata una conciliazione sostenendo che la riserva azioni proprie
costituisce “una scrittura contabile prudenziale la
cui istituzione prefigura lo scenario peggiore possibile, cioè quello in cui l’intero investimento consistente nell’acquisto delle azioni proprie venga perduto” (20). Sul presupposto che le azioni proprie
potessero essere suscettibili di valutazione, e di svalutazione, la riserva azioni proprie sarebbe stata
perciò idonea a coprire le perdite derivanti da di-
La soluzione preferibile era tuttavia apparsa altra (21). La correttezza di tale soluzione risulta peraltro confermata dalla novella, che impone di
iscrivere una riserva negativa anziché positiva.
Si riteneva infatti che la riserva ‘positiva’ per azioni proprie non potesse considerarsi altro che posta
rettificativa dell’attivo, avente la funzione di esporre in bilancio l’impiego di risorse disponibili eventualmente recuperabili a seguito della alienazione
delle azioni proprie.
Ed invero le azioni proprie in portafoglio, seppure
annotate in attivo, non possono costituire elementi attuali del patrimonio, giacché non potrebbero
rappresentare mediatamente una porzione di attivo, ma solo la “speranza” di recuperarlo (22): tant’è
che potevano e possono tuttora essere annullate e,
in questo caso, nulla rientrerà nelle casse sociali (23).
Era proprio la prospettiva del possibile annullamento o della gratuita distribuzione ai soci a convincere che la riserva azioni proprie avesse natura
di posta rettificativa dell’attivo e non potesse dunque svolgere alcuna delle funzioni proprie delle riserve, tra cui quella di protezione del capitale dall’incidenza delle perdite. La presenza o l’assenza
della posta contabile, o la presenza della stessa in
ammontare ridotto, risultava al riguardo del tutto
ininfluente.
(17) Così, F. Carbonetti, Acquisto di azioni proprie, cit., 1120
ss.; Id., L’acquisto di azioni proprie, cit., 147 ss.; A. Toffoletto,
op. cit., 495 ss.; G. Solimena, op. cit., 67 ss.
(18) Soprattutto, G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio
(1965), cit., 111; Id., La riserva, cit., 169 ss.; Id., Il bilancio di
esercizio (1994), cit., 312; e nello stesso senso, G.B. Portale, I
beni iscrivibili nel bilancio di esercizio e la tutela dei creditori della società per azioni, in Riv. Società, 1969, 242, ivi a 248, nt. 10;
Id., I bilanci straordinari delle società per azioni (appunti), in Riv.
Società, 1978, 305, ivi a 338, nt. 110; R. Nobili, in R. Nobili M. Vitale, op. cit., 161; C. Costa, op. cit., 22 ss.; S. Fortunato,
op. cit., 334 ss., spec. 339 ss.; A. Cursio, op. cit., 183 ss.; G.
Sbisà, op. cit., 431; P. Ferro - Luzzi, L’“antropofagia” societaria;
riflessioni sulla natura e sulle vicende delle azioni proprie in portafoglio, in Riv. Società, 2001, 1276, ivi a 1281 e 1287 s.; da ultimo, v. pure E. La Marca, op. cit., 92; nonché L. Ardizzone,
Artt. 2357, 2357bis, 2357ter, 2357quater, 2358, in Azioni, a cura di Notari, nel Commentario alla riforma delle società, diretto
da P. Marchetti - A.L. Bianchi - F. Ghezzi - M. Notari, Milano,
2008, 652 s.; Id., Le azioni proprie, cit., 97. In questa direzione
(sembra, ma diversamente interpreta F. Carbonetti, L’acquisto
di azioni proprie, cit., 147, nt. 44) anche Trib. Vicenza 18 ottobre 1984, in questa Rivista, 1985, 182, per il quale “l’acquisto
di azioni proprie da parte di una società commerciale deve essere posta in evidenza nel bilancio dell’esercizio mediante collocazione all’attivo del costo sostenuto e al passivo di un fondo corrispondente di bilanciamento, il quale rappresenta quella parte di utili effettivamente conseguiti dalla società e vincolata all’acquisto di azioni proprie”.
(19) G.E. Colombo, La riserva, cit., 160.
(20) L. De Angelis, op. cit., 62 s.
(21) E v. de Luca, Riserve indistribuibili, cit., 478 s.
(22) Lo nota chiaramente G.E. Colombo, Illiceità, cit., 180.
(23) Lo riconosce anche F. Carbonetti, L’acquisto di azioni
proprie, cit., 147, osservando che in un bilancio di liquidazione
le azioni proprie non hanno alcun valore.
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minuzione di valore delle azioni proprie. Ogni volta che le azioni proprie dovessero essere svalutate,
si sarebbe dovuta ridurre corrispondentemente la
riserva azioni proprie: e questo avrebbe consentito
di ritenere tecnicamente appropriato il nome riserva.
La riserva “positiva” come mera posta
rettificativa dell’attivo
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Conferma dell’impostazione preferita si traeva dal
metodo di contabilizzazione prescritto per le società soggette ai principi contabili internazionali (24).
Dato che queste devono annotare a deduzione del
capitale (rectius, come si vedrà, patrimonio netto)
una posta di segno negativo e non iscrivono le
azioni proprie in attivo (25), è evidente come la
stessa posta non possa in nessun caso essere utilizzata né per distribuzioni, né per operazioni sul capitale, né tantomeno per assorbire perdite.
Operata la scelta di campo di non annotare le azioni proprie in attivo, il legislatore aveva due opzioni: a) imporre la riduzione del capitale, facendo degradare la parte rappresentata dalle azioni proprie
da emesso ad autorizzato; b) “rettificare” il totale
del patrimonio netto con una voce negativa, analoga ad una perdita. La soluzione è caduta su questa seconda opzione, con ogni probabilità anche
perché la stessa è quella preferita dagli IAS. In
questo modo, il regime contabile delle azioni proprie è allineato per le società quotate e non quotate. O meglio: è allineato ai principi IAS, ma non
alla traduzione italiana dei principi adottati dall’UE con Reg. 2008/1126/CE.
Come accennato, per le società tenute alla redazione del bilancio secondo i principi contabili internazionali, tra cui soprattutto quelle quotate in mercati regolamentati, è previsto che le azioni proprie
non si iscrivano affatto nell’attivo, non dovendo
dunque essere valutate (26). Lo IAS n. 32, § 33
prevede che “qualora un’entità riacquisti propri
strumenti rappresentativi di capitale, quegli strumenti (‘azioni proprie’) devono essere dedotti dal
capitale”. Questa regola fa sì che il patrimonio netto si riduca contabilmente di una misura pari al costo di acquisizione delle azioni proprie: conseguentemente, non possono essere annotate le azioni
proprie né in attivo circolante né nelle immobilizzazioni finanziarie, ma, ai sensi dello IAS n. 32, §
34, “l’importo di azioni proprie possedute è indicato separatamente nello stato patrimoniale o nelle
note, secondo quanto previsto dallo IAS 1 Presentazione del bilancio”.
Nella prassi italiana delle società quotate, delle
azioni proprie dà notizia la nota integrativa, indicando il valore contabile al quale sono annotate,
corrispondente al costo di acquisizione, il numero
complessivo di azioni proprie in portafoglio e la relativa categoria, e se sono stati effettuati acquisti o
rivendite nell’esercizio. Tutte le operazioni su azioni proprie, del resto, sono illustrate dalla relazione
sul governo societario e sugli assetti proprietari.
E così, in caso di rivendita o annullamento, va depennata o consolidata la correzione sul capitale. Se
non vi è un incremento dell’attivo, il consolidamento deve avvenire imputando a capitale, in diminuzione, il valore nominale delle azioni annullate e a riserva la restante parte, sempre in diminuzione. Se le riserve non sono sufficienti, si deve registrare una perdita, che non va consolidata nel capitale, a meno che non sia conformemente deliberato dall’assemblea.
Tuttavia, come è stato in altra sede osservato (27),
con la tecnica di contabilizzazione prescritta dallo
IAS n. 32, le società allo stesso soggette si trovano
a dedurre l’importo corrispondente al costo delle
azioni proprie non già genericamente dal patrimonio netto, ma specificamente dal capitale; questo
corrisponde, nella sostanza, ad una riduzione del
capitale (28). L’annotazione di una posta correttiva
del capitale lascia inalterato l’ammontare delle riserve impiegate per l’acquisto delle azioni proprie,
non richiedendo la costituzione di una posta contabile indisponibile corrispondente al costo delle
azioni proprie in portafoglio.
La scelta contabile potrebbe tuttavia essere non
priva di riflessi sostanziali. Se infatti non si emarginano dalle riserve disponibili gli importi utilizzati
per l’acquisto delle azioni proprie, questi rimangono (almeno apparentemente) riutilizzabili allo stesso scopo e, comunque, distribuibili.
In sostanza, le società soggette ai principi contabili
internazionali sembrerebbero essere state legittimate ad acquistare azioni proprie utilizzando il capitale, senza formale riduzione, seppure nei limiti delle
riserve disponibili. Siccome queste riserve non
(24) Per queste società il Principio IAS n. 32 (Strumenti finanziari: esposizione nel bilancio), § 33, prevede che “qualora
un’entità riacquisti propri strumenti rappresentativi di capitale,
quegli strumenti (‘azioni proprie’) devono essere dedotti dal
capitale”. Le azioni proprie non vengono perciò annotate in attivo ma, ai sensi dello IAS n. 32 (Strumenti finanziari: esposizione nel bilancio), § 34, “l’importo di azioni proprie possedute è
indicato separatamente nello stato patrimoniale o nelle note,
secondo quanto previsto dallo IAS 1 Presentazione del bilancio”.
(25) Sul punto sia permesso rinviare a N. de Luca, La società azionista, cit., 93.
(26) E v. per tutti De Angelis, Elementi di diritto contabile,
Milano, 2015, 179 s.
(27) N. de Luca, La società azionista, cit., 93 ss.
(28) De Angelis, Elementi di diritto contabile, cit., 156.
La posta “negativa” secondo i principi
IAS
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vengono ridotte, le stesse risorse potrebbero essere
utilizzate in più volte successive fino ad acquistare
un numero di azioni proprie per un importo complessivamente eccedente le riserve.
Questa conclusione non corrisponde esattamente
alla soluzione offerta negli Stati Uniti, dove pur è
consentito acquistare azioni proprie senza limiti,
purché si impieghino risorse in surplus. Una volta
effettuato il buy-back, infatti, la società non annota
le treasury shares in attivo ed opera una riduzione
direttamente sull’equity, dove, non figurando una
voce corrispondente a quella del capitale sociale,
la diminuzione incide direttamente sul patrimonio
netto disponibile. In quel contesto societario, è
dunque corretto ritenere che l’acquisto di azioni
proprie operi esattamente come una distribuzione
agli azionisti, perciò, nei termini a noi familiari,
come una riduzione effettiva, privando definitivamente la società di risorse in surplus che vengono
corrispondentemente ridotte dall’equity (29).
Nel contesto europeo, tuttavia, la conclusione non
può risultare scontata. Da una parte, la Dir.
2012/30/UE continua a prescrivere per tutte le società l’obbligo di utilizzare riserve disponibili e utili
distribuibili per l’acquisto di azioni proprie, essendo
altra e diversa la fattispecie dell’acquisto di azioni
proprie per dare esecuzione ad una riduzione effettiva già deliberata. Dall’altra parte, sia la Dir.
2012/30/UE sia la Dir. 2013/34/UE consentono di
non annotare in attivo le azioni proprie, ma non
prescrivono di bilanciare la riduzione dell’attivo
annotando una posta virtuale a deduzione del capitale: ove lo IAS n. 32 non prescrivesse la deduzione direttamente dal capitale, la soluzione più ovvia
sarebbe quella di ridurre definitivamente il capitale
(e una quota parte di riserve), qualora l’acquisto
delle azioni proprie avvenga per l’annullamento, e
di ridurre invece le riserve disponibili, qualora l’acquisto avvenga per il mantenimento in portafoglio.
Una prima soluzione interpretativa, che mantenga
l’impostazione dello IAS n. 32, ma lo renda conforme alle altre prescrizioni europee in materia di
acquisto di azioni proprie, sarebbe stata quella di
iscrivere la riserva azioni proprie anche quando il
costo di acquisto è dedotto dal capitale (30). In
questo modo, infatti, si sarebbe reso evidente che
le riserve disponibili impiegate non sono più tali,
essendo state consumate. Questa soluzione presenta tuttavia, tra altri, l’inconveniente di riproporre
gli stessi problemi di trattamento della riserva azioni proprie già illustrati in precedenza.
È peraltro necessario constatare che, fino ad oggi,
la prassi delle società quotate è stata quella di non
costituire la riserva azioni proprie, né indicare in
alcun modo che gli utili impiegati sono divenuti
“indisponibili”. Poiché, di fatto, gli emittenti quotati si limitano ad annotare sotto il capitale (spesso
denominato “emesso”) il costo sostenuto per l’acquisto delle azioni proprie (a deduzione) (31), si ha
l’effetto di una contabilizzazione analoga a quella
di una riduzione effettiva, ma “sporcata” dal fatto
che viene dedotto dal capitale tutto il costo anziché il solo valore nominale, come dovrebbe essere
corretto.
Come auspicato altrove (32), sarebbe dunque preferibile (potere) interpretare lo IAS n. 32 alla luce
della sua versione inglese, che non dice di dedurre
a “capitale” il costo delle azioni proprie, ma di imputarlo all’“equity” (33), tale intendendosi, nel modello italiano di bilancio, il patrimonio netto in
generale (34). In questo modo, le somme utilizzate
per l’acquisto di azioni proprie si sottrarrebbero direttamente agli utili distribuibili e alle riserve disponibili, pur restandone evidenza contabile.
(29) Per tutti, Manning & Hanks, Jr., Legal capital, III ed.,
New York, 1990, 190.
(30) Sul punto si è soffermato Bussoletti, La disciplina del
patrimonio netto, il regime delle riserve, in Le modifiche della disciplina codicistica del bilancio di esercizio: il progetto OIC di attuazione delle direttive nn. 51/2003 e 65/2001, a cura di Provasoli e Vermiglio, Milano, 2008, 72, osservando che, se si trattasse di norma sostanziale e non solo contabile, la riserva azioni proprie andrebbe iscritta anche nei bilanci redatti secondo
gli IAS. Tuttavia, soggiunge questo A., “il terzo comma dell’art.
2357 ter mi sembra essere una vera e propria norma contabile.
Dovrebbe allora considerarsi derogato nella specie l’art. 2357
ter, terzo comma, c.c.; e dovrebbe concludersi quindi che sia
venuto meno l’obbligo - anzi che per le società che adottano i
principi contabili internazionali esista il divieto - di costituire
una riserva per azioni proprie in portafoglio”.
(31) Alcune società hanno tuttavia adottato il criterio di annotare l’importo delle azioni proprie, in negativo, come ultima
delle voci di patrimonio netto: così, ad esempio, nei bilanci
2010 di Mediolanum e Mediobanca.
(32) N. de Luca, La società azionista, cit., 95 ss.
(33) IAS 32, § 33: “If an entity reacquires its own equity instruments, those instruments (treasury shares) shall be deducted from equity. No gain or loss shall be recognised in profit or
loss on the purchase, sale, issue or cancellation of an entity’s
own equity instruments. Such treasury shares may be acquired and held by the entity or by other members of the consolidated group. Consideration paid or received shall be recognised directly in equity”.
(34) Nel progetto OIC (Organismo Italiano di Contabilità) di
attuazione delle direttive nn. 51/2003 e 65/2001 era stato proposto di riformulare l’art. 2424 bis nel senso che in relazione
all’acquisto di azioni proprie “il costo sostenuto per il loro acquisto determina la corrispondente riduzione del patrimonio
netto, attraverso l’iscrizione di una specifica voce con segno
negativo” (enfasi aggiunta); parallelamente, sarebbe del tutto
caduto il comma 3 dell’art. 2357 ter. Sul punto v. Bussoletti, La
disciplina del patrimonio netto, cit., 70 ss., per il rilievo che è
escluso che “l’effetto di riduzione del patrimonio netto sia direttamente imputato a capitale”: la scelta di dedurre dal capi-
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A tale conclusione si può più agevolmente giungere, anche per le società sottoposte agli IAS, alla luce della novella generale.
La riserva ‘negativa’ per azioni proprie in
portafoglio
La novella, correttamente, inserisce dopo il rigo IX
- Utile (perdita) di esercizio, un nuovo rigo X - Riserva negativa per azioni proprie in portafoglio. In questo
modo l’entità delle riserve disponibili e degli utili
distribuibili si riduce algebricamente dell’importo
già “consumato” per l’acquisto delle azioni proprie
e divenuto perciò indisponibile fino all’eventuale
alienazione delle stesse.
Qualche dubbio può invero nutrirsi sull’esattezza
dell’espressione “riserva negativa”, posto che le riserve per loro natura rappresentano valori positivi
e non negativi. Al di là dell’ossimoro, tuttavia,
non sembra che tale nomenclatura possa ingenerare problemi applicativi.
Ciò che invece appare meritevole di riflessione è il
trattamento della “riserva negativa” in caso di alienazione o di annullamento delle azioni proprie,
nonché in caso di perdite ed eventuale riduzione
del capitale.
A) Va preliminarmente chiarito che l’acquisto di
azioni proprie deve essere diversamente trattato a
seconda che sia finalizzato alla riduzione del capitale o al mantenimento in portafoglio: nel primo caso, al pari di tutte le operazioni su capitale, non
passa da conto economico, ma deve essere imputato al patrimonio netto in contropartita diretta. Nel
secondo caso, si tratta di un’operazione negoziale
da rilevare nel conto economico e, pertanto, in sede di alienazione può dare corso ad una plusvalenza
o ad una minusvalenza destinata ad essere inclusa
nella base per la tassazione del reddito di esercizio.
Non pare infatti che l’interpretazione del diritto
interno debba essere condizionata dallo IAS 32, §
33, a mente del quale (con scelta opinabile) “nessun utile o perdita deve essere rilevato nel conto
economico all’acquisto, vendita, emissione o cancellazione degli strumenti rappresentativi di capitale di un’entità”.
In caso di vendita con plusvalenza, dal patrimonio
netto si dovrà eliminare per intero la “riserva negativa”, accesa in corrispondenza delle azioni alienate. Supponendo per semplicità che siano state alietale, che non è imposta dallo IAS n. 32 (aggiungo io: se letto
nella versione inglese), è secondo questo A. “incompatibile
con la scelta dell’ordinamento italiano, secondo cui le azioni
proprie ‘esistono’”, anche in relazione all’esercizio del diritto di
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nate tutte le azioni proprie in portafoglio, ciò varrà
a “liberare” integralmente le riserve disponibili o
gli utili distribuibili a suo tempo utilizzati per l’acquisto. È da ritenersi che la parte che costituisce
“plusvalenza” confluisca autonomamente tra gli
utili dell’esercizio, al netto dell’imposizione, e non
vada dunque aggiunta.
In caso di minusvalenza, viceversa, si avrà una mera riduzione della “riserva negativa” per la somma
ricevuta come corrispettivo della vendita, con corrispondente liberazione delle riserve disponibili o
utili distribuibili. La residua parte della riserva negativa, la cui presenza non è più giustificata da
azioni proprie in portafoglio, dovrà essere semplicemente depennata, dato che la minusvalenza è già
stata utilizzata per la determinazione del reddito
dell’esercizio.
B) Anche in caso di annullamento delle azioni
proprie in portafoglio, la riserva negativa non ha
più ragione di permanere in bilancio. La stessa dovrà essere ridotta, anzitutto, del valore nominale
delle azioni annullate, in corrispondenza della riduzione del capitale sociale deliberata. La eventuale
eccedenza - che non transita dal conto economico
come plusvalenza, perché non c’è alcuna realizzazione - non potrà restare inclusa nelle riserve disponibili o utili distribuibili, non diminuiti a seguito dell’acquisto per effetto dell’accensione della riserva negativa. Alla cancellazione della riserva negativa dovrà, quindi, corrispondere una riduzione
di eguale importo, in parte del capitale e in parte
delle riserve disponibili o degli utili distribuibili, similmente a quanto sarebbe avvenuto là dove la società avesse sin dall’inizio effettuato un riscatto per
l’annullamento.
C) In caso di perdite di esercizio, è evidente che le
riserve disponibili o gli utili distribuibili corrispondenti alla riserva negativa - ancora presenti, in
quanto ‘bilanciati’ dalla riserva negativa, ma non
disponibili per la distribuzione - devono essere ‘erosi’ prima che le perdite intacchino il capitale sociale. Al riguardo, va ricordata la tesi che reputa scorretto il mantenimento in bilancio di riserve distribuibili o utili portati a nuovo in presenza di perdite
di esercizio (35): le voci di segno opposto dovrebbero infatti essere consolidate, senza la necessità di
una deliberazione assembleare, necessaria solo per
la riduzione del capitale.
opzione (previsione, tuttavia, caduta).
(35) Per tutti, G.E. Colombo, Il bilancio di esercizio (1994),
cit., 551 ss.
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Se tale tesi è corretta, ne consegue che per “erosione” delle riserve disponibili e utili distribuibili utilizzati per l’acquisto di azioni proprie, anche se bilanciati dalla riserva negativa, deve intendersi il
consolidamento con le successive perdite, non la
mera somma algebrica. Con la conseguenza che
una società in ‘perdita di capitale’ che possieda
azioni proprie in portafoglio, di norma, dovrebbe
presentare nel patrimonio netto solo tre voci con
indicazione numerica, positiva o negativa: a) il capitale sociale (rigo A.I.), con valore necessariamente positivo in quanto posta rappresentativa di
un valore storico; b) le perdite di esercizio (rigo
A.IX.) o portate a nuovo (rigo A.VIII.), con valore
necessariamente negativo; e c) la riserva negativa
per azioni proprie (rigo A.X.).
Non può farsi a meno di notare che alle medesime
conclusioni si sarebbe altresì giunti - ma molto più
agevolmente - se il legislatore avesse infine optato
per la immediata riduzione delle riserve o utili con-
sumati per l’acquisto di azioni proprie, anziché per
l’inclusione della riserva negativa in bilancio. Opportuno è dunque il suggerimento di indicare nella
nota integrativa un prospetto di riclassificazione,
che - in omaggio al principio di chiarezza - esponga
qual è l’entità effettiva delle riserve distribuibili e
degli utili distribuibili (36).
D) Interessante è infine notare che, operata la riduzione del capitale, anche la riserva negativa per
azioni proprie deve risultarne influenzata: a mio
avviso, e confermando al riguardo quanto avevo
sostenuto in passato per la riserva ‘positiva’ (37), la
stessa si dovrà ridurre fino a corrispondere al valore
nominale complessivo delle azioni proprie in portafoglio, rideterminato in ragione del consolidamento delle perdite, e cioè - similmente a quanto può
farsi per le azioni o quote delle controllate contabilizzate secondo il metodo del patrimonio netto per una somma, sebbene negativa, pari al valore
contabile delle stesse.
(36) La proposta proviene congiuntamente da Mario Campobasso e Giovanni Strampelli; la si troverà compiutamente
esposta nella 9 ed. di Campobasso, Diritto commerciale, II, Diritto delle società, Torino, di prossima pubblicazione; nonché in
Strampelli, Le fonti delle s.p.a. Commentario a cura di Abbadessa e Portale, Milano, di prossima pubblicazione.
(37) De Luca, La società azionista, cit., 92 s.
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Scioglimento e liquidazione delle società di capitali
Problematiche relative alle
disfunzioni decisionali dei soci
nelle società di capitali
di Giulia Mina (*)
Con il presente lavoro verranno esaminate alcune problematiche connesse alla causa di scioglimento e liquidazione delle società di capitali prevista dall’art. 2484, comma 1, n. 3), c.c. e consistente nell’impossibilità di funzionamento e nella continuata inattività dell’assemblea. Verranno a
tal fine approfonditi gli aspetti relativi a: le ipotesi in cui può ritenersi configurata tale causa; il procedimento (sia dal punto di vista endosociale che dal punto di vista giudiziale) per l’accertamento
della predetta causa e per la nomina dell’organo liquidatorio; la possibilità di “neutralizzare” la fattispecie dissolutiva in analisi prima della sua iscrizione presso il registro delle imprese (ed i riflessi di
tale, eventuale, possibilità per i soci e per i creditori sociali). Verrà altresì esaminata, seppur per
cenni, la problematica relativa agli eventuali mezzi di tutela (demolitoria e risarcitoria) a disposizione dei soci estranei alla realizzazione dei presupposti per lo scioglimento e la liquidazione dell’ente.
1. Inquadramento giuridico
Secondo il dettato normativo, come noto:
- le società di capitali si sciolgono anche “per l’impossibilità di funzionamento o per la continuata
inattività dell’assemblea” (così l’art. 2484, comma
1, n. 3), c.c.);
- tale causa di scioglimento esplica i propri “effetti”
dalla data in cui è resa pubblicità della stessa presso
l’ufficio del registro delle imprese (ved. art. 2484,
comma 3, c.c.);
- la predetta causa deve essere accertata “senza indugio” dagli amministratori, a pena di loro, personale e solidale, responsabilità risarcitoria (verso la
società, i soci, i creditori sociali ed i terzi) per il
“ritardo od omissione” nell’espletamento del loro
dovere (cfr. art. 2485, comma 1, c.c.);
- nel caso di inadempimento degli amministratori
al loro obbligo di accertamento di cui sopra, “su
istanza di singoli soci o amministratori ovvero dei
sindaci” può essere chiesta al tribunale l’emissione
di un decreto con cui venga rilevato “il verificarsi
della causa di scioglimento” (ex art. 2485, comma
2, c.c.);
- salva diversa disposizione contenuta nell’atto costitutivo o nello statuto, gli amministratori, “contestualmente all’accertamento della causa di scioglimento”, devono convocare l’assemblea affinché, tra
l’altro, nomini l’organo liquidatorio (che potrà essere
anche numericamente plurimo) con le maggioranze
previste per le modifiche dell’atto costitutivo o dello
statuto (così l’art. 2487, comma 1, lett. b), c.c.);
- nel caso di omissione da parte degli amministratori di tale convocazione, quest’ultima può essere
disposta dal tribunale “su istanza di singoli soci o
amministratori, ovvero dei sindaci” (ved. l’art.
2487, comma 2, c.c.);
- qualora l’assemblea così convocata “non si costituisca o non deliberi”, il tribunale, sempre “su
istanza di singoli soci o amministratori, ovvero dei
sindaci” provvede con decreto alla nomina del/i liquidatore/i (cfr. art. 2487, comma 2, c.c.);
- lo stato di liquidazione può essere sempre revocato dalla società, “previa eliminazione della causa di
scioglimento” (pur potendo opporsi i creditori a tale decisione secondo quanto previsto dall’art. 2487
ter, commi 1 e 2, c.c.), con conseguente diritto di
recesso dei soci che non hanno concorso all’assun-
(*) Il lavoro è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
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zione della relativa decisione ex artt. 2437, comma
1, lett. d) e 2473, comma 1, c.c.
Le anzidette norme, pur sembrando di chiara interpretazione ad una loro prima (ma superficiale) lettura, sollevano le problematiche di seguito prospettate, inerenti a: le ipotesi in cui può ritenersi configurata la causa dissolutiva in esame; il procedimento per addivenire all’accertamento della predetta
causa ed alla nomina dell’organo liquidatorio; l’eliminazione della causa stessa prima della sua pubblicità; i riflessi di tale eliminazione (ove possibile)
nei confronti dei soci e dei creditori sociali; gli
strumenti (di impugnazione e di risarcimento) a disposizione ed a tutela dei soci non artefici dello
scioglimento dell’ente (1).
Preme innanzitutto rilevare che la fattispecie dissolutiva in esame era già prevista dall’art. 2448, comma
1, n. 3), c.c. vigente sino alla riforma societaria operata dal D.Lgs. n. 6/2003 e che quindi i principi giurisprudenziali e dottrinali elaborati in ordine ai presupposti operativi della predetta norma nella sua formulazione in vigore sino a tale riforma sono valevoli
a tutt’oggi, costituendo infatti utili ed attuali criteri
interpretativi dell’art. 2484, comma 1, n. 3), c.c.
Si evidenzia altresì preliminarmente che la disposizione legislativa qui analizzata, benché si riferisca
alla mera assemblea secondo il suo contenuto letterale, deve ritenersi operante nelle società a responsabilità limitata anche laddove le relative decisioni
dei soci siano assunte mediante “consultazione
scritta” o “consenso espresso per iscritto” ex art.
2479, comma 3, c.c. (2). Non sembrerebbe infatti
giustificabile l’esclusione di tali modalità decisionali, nell’ipotesi in cui le stesse dessero origine all’”impossibilità di funzionamento” o alla “continuata inattività” di cui all’art. 2484, comma 1, n. 3),
c.c., dal campo operativo della predetta norma.
Questa considerazione trae il proprio fondamento
dalla piena fungibilità delle succitate modalità decisionali rispetto al procedimento deliberativo assembleare (salvi i limiti di cui all’art. 2479, comma
3, c.c., che sono relativi ai casi in cui è inderogabile la competenza dell’assemblea) (3).
Ciò posto, le due fattispecie (“impossibilità di funzionamento” e “continuata inattività” dell’assemblea) componenti la causa dissolutiva in esame mi
sembrano innanzitutto configurarsi laddove l’assemblea ordinaria dei soci non adotti le cosiddette delibere essenziali per la società (4), coincidenti con
quelle aventi ad oggetto la nomina degli organi sociali e l’approvazione del bilancio d’esercizio (5).
(1) Con riferimento alle società per azioni, nel corso del presente articolo verrà operato, secondo il tenore letterale delle
disposizioni normative indicate in questo par. n. 1, il mero riferimento al modello di amministrazione e controllo tradizionale,
dovendo però sempre tenere a mente, con riferimento ai sistemi cosiddetti alternativi, quanto previsto dall’art. 223 septies
disp. trans. c.c., comma 1 (statuente che “se non diversamente disposto, le norme del codice civile che fanno riferimento
agli amministratori e ai sindaci trovano applicazione, in quanto
compatibili, anche ai componenti del consiglio di gestione e
del consiglio di sorveglianza, per le società che abbiano adottato il sistema dualistico, e ai componenti del consiglio di amministrazione e ai componenti del comitato per il controllo sulla gestione, per le società che abbiano adottato il sistema monistico”). Si esprime così in dottrina M. Vaira, Commento agli
artt. 2485 e 2486 c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da G.
Cottino - G. Bonfante - O. Cagnasso - P. Montalenti, Torino,
2004, 2057.
(2) Cfr. in tal senso: F. Fimmanò - C. Esposito - L. Traversa,
Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, Milano,
2005, 52; G. Niccolini, La disciplina dello scioglimento, della liquidazione e dell’estinzione, in Il nuovo diritto societario. Profili
civilistici, processuali, concorsuali, fiscali e penali, a cura di S.
Ambrosini, Torino, 2005, 8; C. Pasquariello, Commento all’art.
2484 c.c., in Commentario breve al diritto delle società, diretto
da A. Maffei Alberti, Milano, 2011, 1330; A. Rossi - C. Pasquariello, Scioglimento, liquidazione ed estinzione, in M. Bione - R.
Guidotti - E. Pederzini (a cura di), La nuova società a responsabilità limitata, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 2012, 569.
(3) Nel corso del presente elaborato, poiché i riferimenti
(per ragioni di semplicità espositiva) saranno effettuati alla mera assemblea ed al relativo procedimento deliberativo, dovrà di
volta in volta essere rammentata la precisazione effettuata nel
corpo del testo secondo cui si ritiene operante la disposizione
ex art. 2484, comma 1, n. 3), c.c. anche per le disfunzioni decisionali realizzatesi nelle ipotesi di adozione, da parte dei soci di
società a responsabilità limitata, delle tecniche della “consultazione scritta” o del “consenso espresso per iscritto”.
(4) Contra, App. Milano 17 gennaio 1950, in Foro pad.,
1950, II, 61, secondo cui lo stato di insanabile e permanente
dissidio tra i soci, quale causa di scioglimento della società,
“(…) può ricorrere in qualunque momento della vita della società, senza uopo di attendere la votazione sul bilancio o sulla
rinnovazione delle cariche”.
(5) Il riferimento alla sola assemblea ordinaria ed alle sue
mere disfunzioni deliberative aventi ad oggetto le cosiddette
decisioni essenziali (ai fini dell’individuazione dei presupposti
operativi della fattispecie dissolutiva di cui all’art. 2484, comma 1, n. 3), c.c.) sembra essere sostenuto dalla maggior parte
della giurisprudenza e della dottrina. Quanto alla prima si segnalano: Trib. Pavia 17 settembre 1988, decr., in questa Rivista, 1988, 1298, con nota di U. Carnevali, Nomina giudiziale
dei liquidatori, ivi, 1299; Cass. 10 novembre 1993, n. 11109, in
questa Rivista, 1994, 202; Trib. Bologna 28 dicembre 1998,
decr., in Giur. comm., 2001, II, 430 (insieme ad App. Bologna
18 maggio 1999, decr., ivi, 430), con nota di A. Pomelli, Obbligo degli amministratori di rilevare l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea ed esercizio abusivo del diritto di voto, ivi, 434
(tale decisione veniva poi confermata in sede di reclamo da
App. Bologna 18 maggio 1999, cit., 434); Trib. Roma 25 settembre 2007, in Riv. dir. comm., 2008, II, 1, con nota di M.
2. Configurazione della causa di
scioglimento “per l’impossibilità di
funzionamento o per la continuata
inattività dell’assemblea” ex art. 2484,
comma 1, n. 3), c.c.
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Credo infatti che lo scioglimento ed il conseguente
stato di liquidazione della persona giuridica siano
un evento di portata tale (con riflessi sia endosociali
che extrasociali) da poter derivare solo nelle ipotesi
in cui le disfunzioni deliberative dell’assemblea (6)
(e non anche degli altri organi sociali) (7) impediscano l’adozione di quelle decisioni necessarie per la
sopravvivenza stessa della società, che non potrebbe
proseguire lo svolgimento della sua attività se priva
dei relativi organi e senza la definizione della sua si-
tuazione patrimoniale, finanziaria ed economica
(nell’interesse dei soci, dei creditori e anche del
mercato in generale) (8). Proprio per tali ragioni reputo che anche laddove i soci riescano a deliberare
in assemblea su questioni diverse da quelle sopra indicate, si configuri comunque la causa di scioglimento di cui all’art. 2484, comma 1, n. 3), c.c., non
essendo tale capacità deliberativa dotata di efficacia
sanante rispetto alla più profonda e complessiva crisi deliberativa dei soci stessi (9).
Rossi, ivi, 8; Trib. Prato 12 gennaio 2010, decr., in questa Rivista, 2010, 560, con nota di D. Fico, Lo scioglimento di s.p.a.
per l’impossibilità di funzionamento, e, con la diversa data del
17 dicembre 2009, in Giur. mer. n. 3/2011, 749, con nota (adesiva) di M.M. Gaeta, L’impossibilità di funzionamento dell’assemblea: necessità di un accertamento concreto, ivi, 750; Trib.
Napoli 25 maggio 2011, in questa Rivista, 2012, 390, con nota
di G. Tarantino, Scioglimento della società: inattività dell’assemblea ed impossibilità di perseguire l’oggetto sociale, ivi, 392.
Quanto alla seconda si segnalano: R. Ambrosini, Nomina dei liquidatori: intervento surrogatorio del presidente del tribunale, in
questa Rivista, 1992, 1553 (nota a Trib. Napoli 10 giugno
1992, ord., e Trib. Napoli 28 luglio 1992, ord., ivi, 1551); Associazione Disiano Preite, Il diritto delle società, Bologna, 2012,
447 (secondo cui rientrano nel novero delle delibere cosiddette
essenziali, la cui mancata adozione comporta lo scioglimento
della società, anche gli “adeguamenti necessari dell’atto costitutivo alla legge”); G. Campobasso, Diritto commerciale, a cura
di M. Campobasso, 2, Torino, 2012, 549; E. Corso, Scioglimento e liquidazione nelle società di capitali. Guida alla lettura della
giurisprudenza, Milano, 2002, 32; G. De Marchi - A. Santus,
Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, in Consiglio
Notarile di Milano, Scuola del Notariato della Lombardia, FederNotizie, Il nuovo ordinamento delle società. Lezioni sulla riforma e modelli statutari, Milano, 2004, 318; F. Di Sabato, Diritto delle Società, Milano, 2011, 582; A. Dimundo, Commento all’art. 2484 c.c., in F. Abate - A. Dimundo - L. Lambertini - L.
Panzani, A. Patti, Gruppi, trasformazione, fusione e scissione,
scioglimento e liquidazione, società estere (artt. 24848-2510
c.c.), in La riforma del diritto societario, a cura di G. Lo Cascio,
Milano, 2003, 26 ss.; F. Fimmanò - C. Esposito - L. Traversa,
cit., 48; G. Manfredi, Scioglimento della società ex art. 2448, n.
3 e poteri del presidente del tribunale, in questa Rivista, 1997,
753; G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione di società di capitali, in Giur. comm., 1991, I, 774, nonché G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per
azioni, in Trasformazione - Scioglimento, a cura di G. Cabras G. Niccolini, in Trattato delle società per azioni, diretto da G. E.
Colombo - G.B. Portale, 7***, Torino, 1997, 284 ss.; C. Pasquariello, cit., 1329; A. Rossi - C. Pasquariello, cit., nt. (10), 569; V.
Sangiovanni, Lo scioglimento della società per continuata inattività dell’assemblea, in Corr. mer., 2012, 29 (nota a Trib. Brescia
24 giugno 2011, decr., ivi, 24); A. Santus - G. De Marchi, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali nella riforma del
diritto societario, in Riv. not., 2003, 604. Si segnalano anche,
ma con riferimento al mero collegio sindacale ed all’ipotesi di
sua integrazione: la Massima Notarile n. H.E.1, in www.notaitriveneto.it, sezione Orientamenti societari, sottosezione H. SPA
- Collegio sindacale, secondo la quale, tra l’altro, “qualora l’organo di controllo diventi incompleto e non sia possibile ricostituirlo integralmente, per incapacità dell’assemblea o per non
reperibilità di sindaci disposti ad accettare l’incarico, la società
si scioglie”; Trib. Milano 2 agosto 2010, in www.ilcaso.it, sezione Reg. Imprese, sottosezione Merito - 2010, secondo cui
l’inerzia assembleare nell’integrazione del collegio sindacale
costituisce causa di scioglimento della società.
(6) Per quanto necessario si rileva che l’incapacità delibera-
tiva dell’assemblea non deve derivare, per assurgere a causa
di scioglimento della società, da circostanze esterne a quest’ultima. Cfr. in tal senso G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in Trasformazione Scioglimento, cit., 287, il quale cita a titolo esemplificativo lo
stato di guerra.
(7) Ritengo che deponga in tal senso, oltre al tenore letterale dell’art. 2484, comma 1, n. 3), c.c. (da reputarsi norma speciale e non suscettibile di applicazione analogica), anche la
considerazione che l’assemblea ordinaria dei soci è l’unico organo della società così espressivo del contratto sociale (di cui
raduna infatti gli stipulanti) da poter minare nelle fondamenta,
nell’ipotesi di suo grave malfunzionamento, il contratto stesso
(non potendo la società svolgere continuativamente la propria
attività se priva dei suoi organi e della conoscenza - anche ai
fini comunicativi nei confronti di qualsivoglia terzo - della sua
situazione patrimoniale, finanziaria ed economica). L’inapplicabilità della norma sopra citata ad organi sociali diversi dall’assemblea è sostenuta in dottrina da: E. Corso, cit., 53; F. Fimmanò - L. Traversa, Scioglimento, liquidazione ed estinzione delle società di capitali alla luce della riforma, in Riv. not., 2003,
1346 ss., che hanno anche affermato con riferimento alla
mancata approvazione del bilancio di esercizio o alla mancata
nomina del consiglio di gestione da parte del consiglio di sorveglianza che “(…) la causa di scioglimento si potrà verificare
lì dove l’assemblea dei soci non approvi, in luogo del consiglio
di sorveglianza, ai sensi dell’art. 2409 terdecies, comma 2,
c.c., il bilancio d’esercizio, ovvero qualora l’assemblea non si
adoperi, ai sensi dell’art. 2409 duodecies, comma 5, c.c. nella
sostituzione dei componenti del consiglio di sorveglianza la cui
inerzia abbia cagionato la mancata adozione delle decisioni
che attengono al nomale ed indispensabile corso dell’attività
sociale” (cfr. sul punto anche F. Fimmanò - C. Esposito - L.
Traversa, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, Milano, cit., 49 ss., e G. Niccolini, La disciplina dello scioglimento,
della liquidazione e dell’estinzione, cit., 7 ss.); C. Pasquariello,
cit., 1330, per la quale ai fini dell’art. 2484, comma 1, n. 3),
c.c. “vengono in rilievo unicamente le patologie concernenti il
funzionamento dell’assemblea, mentre la continuata inattività
o l’impossibilità di funzionamento dell’organo amministrativo o
di controllo non configurano cause di scioglimento della società (…)”. Contra (e quindi ritengono poter costituire causa dissolutiva dell’ente anche le disfunzioni di altri organi sociali): F.
Ferrara Jr. - F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 2011,
952 (nt. 2), i quali, in via esemplificativa, citano il caso cui il
consiglio di sorveglianza sia incapace di nominare o rinnovare
i membri del consiglio di gestione.
(8) Si segnala che Trib. Latina 12 ottobre 1990, in Giur.
comm., 1991, II, 664, con nota di M. Mastrogiacomo, ivi, 667,
ha individuato i soggetti interessati all’approvazione del bilancio di esercizio nei “(…) soci riuniti in assemblea, creditori,
controparti di contratti in corso (…)”, con conseguente lesione
di tali soggetti nell’ipotesi in cui l’anzidetta approvazione non
venga deliberata.
(9) Cfr. in dottrina G. Manfredi, cit., 752 ss., ed in giurisprudenza: Trib. Roma 11 luglio 1984, decr., in Foro it., 1985, I,
873; Trib. Roma 21 settembre 1985, in questa Rivista, 1986,
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In secondo luogo, affinché possa ritenersi sussistente la causa dissolutiva in esame, credo i. doversi
valutare per entrambe le fattispecie contemplate
dalla norma di cui sopra se il malfunzionamento assembleare presenti i caratteri della stabilità (10), irreversibilità (11) ed insanabilità, e ii. doversi compiere tale valutazione alla luce del contesto generale in cui si è realizzata la causa di scioglimento e
delle relative motivazioni (12).
La predetta attività valutativa sembra però essere
considerata necessaria dalla dottrina e dalla giuri-
sprudenza, in via consolidata, solo con riferimento
alla mera fattispecie di “impossibilità di funzionamento” dell’assemblea, ritenuta configurarsi in presenza di un contrasto tra i soci che, alla luce della
situazione complessiva in cui il medesimo si delinea (13) e delle relative cause (14), presenti i caratteri suindicati (15). Con riferimento alla diversa
ipotesi di “continuata inattività” dell’assemblea
(che reputo realizzarsi solo laddove quest’ultima,
benché convocata, non si riunisca) (16) è infatti
anche sostenuto il differente principio secondo cui
855; App. Bologna 18 maggio 1999, cit., 434 (con nota adesiva in tal senso di A. Pomelli, cit., 441 ss.); Trib. Milano 26 giugno 2004, decr., in Corr. giur., 2005, 547, con nota di F. Bruno,
Scioglimento di società per azioni per impossibilità di funzionamento dell’assemblea, ivi, 548 (il quale si è così espresso con
riferimento ad un caso in cui l’assemblea dei soci, pur incapace di assumere le cosiddette delibere essenziali, aveva deciso
su “materie neutre e tecniche”, quali l’opportunità di avvalersi
del condono fiscale).
(10) Ved. al riguardo F. Fimmanò - C. Esposito - L. Traversa,
cit., 48.
(11) Mettono in evidenza i caratteri della stabilità e della irreversibilità dell’incapacità decisionale dell’assemblea A. Rossi
- C. Pasquariello, cit., nt. (10), 569.
(12) L’importanza del contesto generale in cui si origina il
blocco decisionale è posta in luce da A. Rossi - C. Pasquariello, cit., nt. (10), 569. Invece, con riferimento alla rilevanza delle
ragioni determinative dello stallo decisionale si segnalano in
dottrina F. Fimmanò - C. Esposito - L. Traversa, cit., 49, e, in
giurisprudenza: Cass. 8 novembre 1967, n. 2703, in Giust. civ.,
1968, I, 25, con nota di C. Giannattasio, Impugnabilità della nomina presidenziale dei liquidatori nelle ipotesi di scioglimento
della società per impossibilità di funzionamento o continuata
inattività dell’assemblea, ivi, 28, statuente che “la impossibilità
di funzionamento o la continuata inattività della assemblea
che l’art. 2448 n. 3 c.c. considera causa di scioglimento della
società consistono in stati dell’organo deliberante, che viene
meno alle sue funzioni di disposizione, di direzione, di controllo, essenziali perché l’attività dell’ente possa svolgersi in vista
del raggiungimento dello scopo sociale. Tali stati dell’organo
deliberante possono essere rilevati obiettivamente nella loro significazione di stati patologici e nella norma in esame tali appunto sono considerati, senza esplicito riferimento alla cause
che li hanno prodotti. Tuttavia un riferimento implicito alle dette cause deve ritenersi non solo possibile, ma necessario, perché è con tale connessione che gli stati in esame assumono significato di deterioramento e degenerazione strutturale e funzionale dell’organo deliberante e quindi di causa di scioglimento della società e che può determinarsi se il difetto di funzionamento attuale sia riferibile ad impossibilità di funzionamento, e
se l’inattività dell’assemblea sia transitoria (…) oppure significhi il risultato di odiosi contrasti tra i soci, di disordine e di rilassatezza. Il riferimento alle cause dei cennati stati patologici
si presenta (…) quale esigenza logico-giuridica delle qualificazioni degli stati medesimi richieste dalla legge”; Trib. Roma 11
luglio 1984, decr., cit., 872.
(13) Cfr.: Trib. Milano 26 giugno 2004, decr., cit., 547, che
ritiene doversi “(…) avere riguardo allo stato di deterioramento, degenerazione strutturale e funzionale dell’organo deliberante, rivelatore di aspetti patologici connessi a contrasti tra
soci, che dimostrano l’irreversibilità della paralisi, tali da incidere pregiudizialmente sull’ordinaria operatività della società”
(nei medesimi, anzidetti, termini, anche Trib. Alessandria 13 dicembre 2010, decr., in Foro it., 2011, I, 627); Trib. Prato 12
gennaio 2009/17 dicembre 2009, decr., cit., 560, in questa Ri-
vista e 749, in Giur. mer., secondo cui, con riferimento ad una
fattispecie di mancata approvazione del bilancio di esercizio,
“(…) non vi è tanto (…) un problema di quante volte il bilancio
non sia stato approvato dall’organo assembleare (…) quanto
piuttosto il contesto generale nel quale il blocco del funzionamento degli organi del sodalizio si sia originato”.
(14) La necessità di indagare le ragioni alla base dell’impossibilità di funzionamento dell’assemblea (per valutare se la
stessa possa assurgere a causa di scioglimento della società
ovvero sia meramente transitoria) è stata evidenziata in giurisprudenza da Cass. 8 maggio 1992, n. 5498, in Giur. comm.,
1993, II, 356, e, in dottrina, da A. Schermi, Scioglimento della
società per impossibilità di funzionamento o per continuata inattività dell’assemblea, in Giust. civ., 1968, I, 887 ss. (nota alle
massime di Cass. 8 novembre 1967, n. 2703, ivi, 886).
(15) Cfr. in giurisprudenza: Trib. Cagliari 9 agosto 1976, Foro it., 1976, I, 2478, per il quale la causa dissolutiva in esame
consiste “(…) nel venir meno dell’organo deliberante alle sue
funzioni di disposizione, di direzione e di controllo, essenziali
perché l’attività dell’ente possa svolgersi in vista del raggiungimento dello scopo sociale” laddove tale incapacità decisionale
abbia “(…) carattere assoluto e permanente”; Trib. Napoli 28
luglio 1992, ord., cit., 1552, secondo cui deve valutarsi se la
causa di scioglimento in esame presenti “carattere irreversibile
e definitivo”; Cass. 24 ottobre 1996, n. 9267, in questa Rivista,
1997, 531 (insieme a Cass. 2 dicembre 1996, n. 10718, ivi,
528), con nota di A. Cerrai - C. Dini, Natura del provvedimento
giudiziario di nomina del liquidatore, ivi, 528, affermante che
“(…) l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea (…) ricorre solo quando l’organo assembleare appaia stabilmente ed irreversibilmente incapace di assolvere le sue funzioni essenziali, (…)”; App. Catania 21 aprile 2008, decr., in Vita not., 2008,
981, osservante che “(…) l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea ai fini dell’art. 2484 c.c. ricorrere quando l’organo
assembleare appaia stabilmente ed irreversibilmente incapace
di assolvere le sue funzioni essenziali, (…)”. Ved. invece in dottrina: V. Buonocore, La fine dell’impresa societaria a base capitalistica, in Istituzioni di diritto commerciale, a cura di V. Buonocore, Torino, 2009, 259, secondo cui tale disfunzione “(…) deve essere ‘oggettiva’ ed ‘assoluta’ (…)”; E. Corso, cit., 7, per la
quale “(…) qualora si tratti di verificare l’impossibilità di funzionamento dell’assemblea occorre procedere ad una valutazione
circa l’insuperabilità del mancato funzionamento dell’organo
deliberativo nel futuro”; G. Frè, Società per azioni. Artt. 23252461, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja G. Branca, Bologna - Roma, 1968, 674, secondo cui la causa
di scioglimento in esame si riferisce “(…) al caso in cui, in linea di fatto, non si riesca, per il permanente contrasto determinatosi tra i soci, a formare le maggioranze necessarie per il
funzionamento dell’assemblea”.
(16) Non credo infatti che possa costituire presupposto della “continuata inattività” dell’assemblea anche l’inerzia dell’organo amministrativo o di controllo nella convocazione della
stessa (perché, altrimenti, si demanderebbe al predetto organo
il potere di incidere direttamente sull’esistenza del contratto
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tale fattispecie implica la mera presa d’atto dell’inerzia assembleare verificatasi, ma non anche una
sua valutazione (17). Tuttavia, come detto, questo
orientamento non mi sembra condivisibile posto
che dovrà essere in ogni caso stabilito se l’inerzia
(affinché assurga a causa di scioglimento) presenti
natura stabile, irreversibile e insanabile.
Poiché il dettato normativo impone genericamente
agli amministratori di provvedere “senza indugio”
all’accertamento della causa di scioglimento ed all’iscrizione della loro relativa “dichiarazione” (18)
presso l’ufficio del registro delle imprese (ai sensi
dell’art. 2485, comma 1, c.c., che richiama il comma 3 dell’art. 2484 c.c.), deve indagarsi quale comportamento debba essere concretamente assunto
dagli amministratori affinché questi ultimi non incorrano nella responsabilità risarcitoria per i danni
sofferti (a causa del ritardo o dell’omissione ad essi
imputabile nel compimento delle attività suindicate) “dalla società, dai soci, dai creditori sociali e
dai terzi” (ved. art. 2485, comma 1, c.c.).
Non reputo tuttavia definibili a priori, in linea
astratta, i canoni dell’agire amministrativo da adottarsi ai fini di cui sopra, dovendosi di volta in volta
verificare quale sia la situazione effettivamente realizzatasi, nonché quali siano le relative ragioni ed il
contesto generale.
Ciò nonostante, mi sembra chiaro che l’organo amministrativo debba (fermo il principio secondo cui
non ritengo derivanti da suoi inadempimenti le ipotesi dissolutive di “impossibilità di funzionamento”
e di “continuata inattività” dell’assemblea):
i. verificare tempestivamente (e, nelle società per
azioni, l’eventuale sindacato dell’operato degli amministratori sotto tale profilo implica anche la valutazione della loro condotta dal punto di vista dell’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi
e contabili della società ex art. 2381, commi 3 e 5,
c.c.) se si sia realizzata una disfunzione deliberativa
dell’assemblea e se tale disfunzione presenti i caratteri esposti nel precedente par. n. 2 (19);
sociale, al quale tuttavia il medesimo non è partecipe quale stipulante). Al riguardo si segnala che la (reiterata) mancata convocazione dell’assemblea non è menzionata tra le ipotesi originanti l’inattività assembleare ex art. 2484, comma 1, n. 3), c.c.
da: Associazione Disiano Preite, cit., 447; V. Buonocore, cit.,
259; G. Campobasso, Diritto commerciale, cit., 549; G. De Marchi - A. Santus, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, cit., 318 (negli stessi termini ved. anche A. Santus - G. De
Marchi, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali nella
riforma del diritto societario, cit., 604); F. Di Sabato, cit., 582, il
quale osserva sul punto che “(…) l’inattività si ha quando l’assemblea stessa, pur regolarmente convocata, non ha luogo”;
F. Fimmanò - C. Esposito - L. Traversa, cit., 47 ss. Ritengono
invece che si configuri la causa di scioglimento in esame, oltre
che nell’ipotesi di mancata costituzione dell’assemblea, anche
nel caso di mancata convocazione di quest’ultima: G. Cottino,
Diritto societario, Padova, 2011, 564; A. Dimundo, Commento
all’art. 2484 c.c., cit., 25; G. Frè, cit., 674; F. Galgano, Le società. Contratto di società - Società di persone - Società per azioni Altre società di capitali - Società cooperative, in Diritto commerciale, Bologna, 2013, 423 (negli stessi termini ved. anche F.
Galgano - R. Genghini, Il nuovo diritto societario, in Trattato di
diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, XXIX, I,
Padova, 2006, 696); G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed
estinzione della società per azioni, cit., 288; V. Sangiovanni, cit.,
29; A Schermi, cit., 888 ss. In giurisprudenza si segnala che è
stata ritenuta configurarsi la predetta causa di scioglimento
nell’ipotesi di mancata costituzione dell’assemblea, nonostante le sue varie convocazioni, da Trib. Milano 20 maggio 1985,
in questa Rivista, 1985, 1190.
(17) Così è stato sostenuto in dottrina da: A. Dimundo,
Commento all’art. 2484 c.c., cit., 25, che reputa doversi compiere per la verifica dell’eventuale inattività dell’assemblea una
mera “(…) rilevazione fenomenologica volta all’appuramento
di una eventuale prolungata inerzia dell’organo assembleare,
(…), non esteso, tuttavia, all’indagine sull’imputabilità dell’inerzia (…)”; E. Corso, cit., 7, affermante che in questo caso “(…)
è sufficiente un giudizio di mero fatto, che accerti l’esistenza
di una prolungata inerzia dell’assemblea”; G. Cottino, cit., 564,
per il quale “(…) l’inattività è un fatto che prescinde da qualsiasi considerazione delle ragioni che l’hanno provocata (…)”;
M.M. Gaeta, Impossibilità di funzionamento dell’assemblea se
incapace di assolvere le sue funzioni, cit., 751, secondo cui l’ipotesi di “continuata inattività dell’assemblea” ex art. 2484,
comma 1, n. 3), c.c. “(…) si riferisce ad una situazione di fatto
il cui accertamento prescinde da un giudizio valutativo per riconoscersi attraverso la oggettiva ricostruzione storica circa l’inattività dell’organo”; G. Manfredi, cit., 751, affermante che
nel caso di specie “(…) è richiesto un giudizio di mero fatto,
che guardando al passato verifichi semplicemente l’esistenza
della prolungata inerzia dell’assemblea”; G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in Trasformazione - Scioglimento, cit., 288, per il quale “(…) l’inattività dell’assemblea postula una mera rilevazione fenomenologica”; F. Restano, Impossibilità di funzionamento dell’assemblea
e clausola compromissoria, in Giur. comm., II, 2007, 1095 (nota
a Trib. Ravenna 3 febbraio 2996, ord., ivi, 1088), secondo cui
la causa dissolutiva in esame “(…) si riferisce ad una situazione di fatto, il cui accertamento pare prescindere da un giudizio
valutativo, per risolversi in una semplice ricostruzione storica
dell’attività (rectius dell’inattività) assembleare”; A. Schermi,
cit., 888, per il quale nel caso di specie deve effettuarsi “(…)
una semplice rilevazione fenomenica, senza necessità di indagare sulla causa che ha determinato il fenomeno rilevato”.
(18) Si segnala che F. Gusso, Commento all’art. 2485 c.c.,
in Codice commentato delle società, a cura di G. Bonfante - D.
Corapi - G. Marziale - R. Rordorf - V. Salafia, Milano, 2007,
1314, reputa che nell’art. 2484, comma 3, c.c. sia stata utilizzata la (generica) espressione “dichiarazione” “(…) in considerazione dei nuovi sistemi di ‘gestione’ della società, tra i quali
quello dell’amministrazione disgiuntiva o congiuntiva delle
s.r.l. (…)”.
(19) In dottrina M. Vaira, Commento agli artt. 2485 e 2486
c.c., cit., 2053 ss. ha ritenuto, in generale, che l’espressione
“senza indugio” di cui all’art. 2485, comma 1, c.c. “(…) non
soltanto sta ad indicare che gli amministratori devono proce-
3. Accertamento della causa di
scioglimento ed eventuale
“neutralizzazione” della stessa prima
della sua pubblicità
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ii. valutare secondo la propria discrezionalità tecnica (20) se, date la natura e l’origine del malfunzionamento assembleare originatosi, sia più opportuno:
ii.a. accertare prontamente la causa di scioglimento attraverso una sua “dichiarazione” (che dovrà
essere di formazione collegiale qualora la società
sia gestita da un consiglio di amministrazione) ed
eseguire (rispetto a tale accertamento) le prescritte
formalità pubblicitarie presso l’ufficio del registro
delle imprese; oppure
ii.b. effettuare comunque l’accertamento tempestivo della causa dissolutiva, ma subordinare la pubblicità di quest’ultima alla previa convocazione
dell’assemblea affinché i soci siano informati in ordine alla medesima e possano, ove così intenzionati, ripristinare la piena capacità deliberativa dell’organo assembleare; oppure
ii.c. convocare l’assemblea dei soci con un avviso
che dia atto a) della verificatasi incapacità decisionale della stessa, b) della conseguente, ritenuta,
sussistenza dei presupposti operativi della causa di
scioglimento ex art. 2484, comma 1, n. 3), c.c. e c)
del necessario (e doveroso) accertamento di quest’ultima nell’ipotesi in cui i soci non deliberino
sulla materia oggetto di tale incapacità, e dopo tale
convocazione (qualora non sia intervenuta alcuna
decisione sanante da parte dell’assemblea) compiere il predetto accertamento ed eseguire le relative
formalità pubblicitarie.
Qualora, tuttavia, l’organo amministrativo non si
attivi per rilevare la causa di scioglimento nei termini innanzi prospettati, ogni suo membro, ciascun
socio ed il collegio sindacale (21) potrà adire con
ricorso il Tribunale delle imprese competente in
base al luogo in cui si trova la sede legale della società per chiedere che dallo stesso venga accertata
in via suppletiva tale causa. Il procedimento che si
radicherà in tal senso (e rispetto a cui il Tribunale
deciderà in composizione collegiale) mi sembra inquadrabile tra quelli camerali ex artt. 737 ss.
c.p.c. (22) e caratterizzato dalla partecipazione del
soggetto istante, della società (che potrà costituirsi,
a seconda delle situazioni concretamente in essere,
anche nella persona del curatore speciale nominato
ad hoc su istanza del medesimo soggetto richiedente
l’accertamento) e di coloro nei cui confronti il Tribunale eventualmente disporrà la notifica del ricorso e del pedissequo provvedimento di fissazione
d’udienza.
Questo procedimento si concluderà con un decreto
motivato che, a seconda delle risultanze processuali,
accerterà la sussistenza o meno della causa di sciogli-
dere prontamente ad accertare lo scioglimento, ma richiede altresì che essi predispongano tutti gli strumenti di monitoraggio
utili a verificare tempestivamente il realizzarsi dell’evento dissolutivo”, nonché ha specificato che il principio innanzi esposto si applica anche nel caso in cui si realizzi la causa di scioglimento ex art. 2484, comma 1, n. 3), c.c.
(20) La discrezionalità tecnica degli amministratori nella valutazione del malfunzionamento assembleare sembra essere
valorizzata da V. Salafia, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, in questa Rivista, 2003, 378, il quale si pone il
problema, con riferimento agli amministratori stessi, della loro
“(…) responsabilità per i danni subiti dalla società, dai soci, dai
creditori e dai terzi per il ritardo nell’accertamento della causa
di scioglimento e nella iscrizione correlativa nel registro delle
imprese”, affermando al riguardo che, a suo avviso, “(…) dei
predetti danni gli amministratori dovrebbero rispondere solo
se non fosse giustificata la loro fiducia nell’intervento risolutivo
dell’assemblea. La speranza negli effetti positivi del predetto
intervento, non confortata dal riscontro di concreti elementi,
non può discriminare la loro responsabilità per non aver accertato e, soprattutto, non aver reso tempestivamente noto al
pubblico lo scioglimento della società”.
(21) Nel corpo del testo è stata attribuita la legittimazione
ad adire il Tribunale (ai fini dell’accertamento, da parte dello
stesso, della verificatasi causa di scioglimento) al collegio sindacale e non a ciascun membro di tale organo perché così
sembra potersi dedurre dal tenore letterale dell’art. 2485, comma 2, c.c., in cui l’aggettivo “singoli” è riferito ai meri soci ed
amministratori, e non anche ai sindaci. Peraltro ritengo che il
diritto/dovere di ciascun amministratore ad/di intraprendere la
via giudiziale ai fini sopra indicati è considerabile quale strumento suppletivo all’omissione del consiglio di amministrazione nell’adempimento dei suoi obblighi accertativi ex art. 2485,
comma 1, c.c.; tale tesi non è però sostenibile rispetto all’orga-
no di controllo, al quale non sono infatti attribuiti dal legislatore i predetti obblighi accertativi (che dunque, in quanto inesistenti, non devono essere rimediati attraverso l’azione del singolo sindaco nei termini sopra prospettati con riferimento a
ciascun amministratore). Sostengono la legittimazione del collegio sindacale (e non di ciascun suo membro): F. Galgano,
cit., 1317; F. Galgano - R. Genghini, cit., 696; G. Niccolini, La
disciplina dello scioglimento, della liquidazione e dell’estinzione,
cit., 15; M. Vaira, cit., 2057. Contra (e quindi a favore della legittimazione di ogni membro del collegio sindacale all’introduzione del giudizio di cui all’art. 2485, comma 2, c.c.): Trib. Biella 4 giugno 2004, decr., in questa Rivista, 2005, 893 ss., con
nota di G. Bianchi, Accertamento di una causa di scioglimento
e legittimazione individuale dei sindaci, ivi, 895, e (ma con la diversa data del 26 maggio 2004) in Giur. comm., 2005, II, 355
ss., con nota di S. Balzola, Sulla legittimazione del singolo sindaco a proporre istanza di accertamento della causa di scioglimento, ivi, 358; Trib. Napoli 25 maggio 2011, decr., cit., 388;
T. Cavaliere, Le cause di scioglimento, in Le operazioni societarie straordinarie, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G.
Cottino, Padova, 2011, 67; F. Ferrara Jr. - F. Corsi, cit., 956 (i
quali così affermano sulla base dell’art. 2406 c.c., che conferisce comunque al collegio sindacale il potere - sostitutivo - di
convocare l’assemblea); G. Tarantino, cit., 395.
(22) Così M. Vannucci, Orientamenti dei giudici della terza
sezione civile del Tribunale di Roma, in questa Rivista, 2009,
1240 ss., che espressamente sussume nei “procedimenti camerali la cui decisione è affidata al tribunale in composizione
collegiale” i giudizi per: l’accertamento della causa di scioglimento ex art. 2485, comma 2, c.c.; la convocazione dell’assemblea per la nomina dell’organo liquidatorio in caso di omissione in tal senso da parte degli amministratori (ex art. 2487,
comma 2, c.c.); la stessa nomina del predetto organo (ancora
ex art. 2487, comma 2, c.c.).
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mento (a prescindere, tra l’altro, dall’individuazione
della compagine sociale autrice della disfunzione assembleare) (23) e tale esito giudiziale mi sembra realizzabile anche nel caso in cui la causa dissolutiva sia
contestata (24). Infatti, il decreto così emesso potrà
essere reclamato ai sensi dell’art. 739, comma 2,
c.p.c., nonché revocato ex art. 742 c.p.c. (qualora,
ovviamente, sussistano i presupposti per l’esperimento delle azioni di cui alle precedenti disposizioni) (25). Peraltro, ritengo che la contestazione sulla
causa di scioglimento, ove quest’ultima fosse dichiarata per la via camerale, potrà essere oggetto di un
giudizio a cognizione ordinaria sul punto, che potrà
definirsi con una sentenza che accerti l’insussistenza
della predetta causa (se gli esiti del procedimento saranno in tal senso), con conseguente rimozione e
perdita di efficacia del decreto che abbia precedentemente accertato la causa stessa (26).
In ogni caso, a prescindere dalla modalità (endosociale ovvero giudiziale) con cui la causa dissolutiva
venga accertata, reputo possibile (come già accennato al punto ii.b. del presente par.) “neutralizzare”
la stessa prima della sua iscrizione presso l’ufficio del
registro delle imprese attraverso l’assunzione di quella decisione assembleare la cui mancata adozione ha
originato la medesima. Condivido infatti l’orientamento secondo cui tale causa non possa ritenersi
esistente sia nei confronti dei soci, della società e
degli organi sociali, sia nei confronti dei creditori e
comunque di qualsiasi soggetto terzo prima che ne
sia compiuto l’adempimento pubblicitario suindicato, al quale può dunque attribuirsi efficacia costituiva della causa stessa (27). Questo orientamento non
(23) Il principio secondo cui l’accertamento della causa di
scioglimento prescinde dall’eventuale ostruzionismo posto in
essere (proprio al fine della dissoluzione della società) da uno
o più soci è stato affermato in dottrina da A. Pomelli, cit., 443
ss., e in giurisprudenza da Trib. Torino 10 marzo 2003, decr., in
questa Rivista, 2003, 995, con nota di P. Fabris, Decreto presidenziale di nomina dei liquidatori; prime applicazione dopo la
sentenza delle Sezioni Unite, ivi, 996, nonché da Trib. Alessandria 13 dicembre 2010, decr., cit., 627.
(24) Ved. al riguardo App. Catania 21 aprile 2008, cit., 980, e
Trib. Napoli 25 maggio 2011, decr., cit., 389 ss. In dottrina cfr.
G. Cottino, cit., 561; M. Vannucci, cit., 1242 ss. Si segnala sul
punto altresì che, prima dell’introduzione del c.d. processo societario ex D.Lgs. n. 5/2003 (le cui norme di riferimento - gli artt.
1-33 - venivano poi abrogate dalla L. n. 69/2009), era propugnata da una certa giurisprudenza la possibilità per il Giudicante
adito ai fini della nomina del/i liquidatore/i di accertare incidentalmente la causa di scioglimento anche in presenza di contestazioni in ordine alla stessa. Tra questa giurisprudenza si segnala: Cass. 8 novembre 1967, n. 2703, cit., 27 ss.; App. Firenze 23
gennaio 1982, decr., in questa Rivista, 1982, 1144, con nota di
S. Battaglia, Impugnabilità della nomina dei liquidatori da parte
del Presidente del Tribunale, ivi, 1145; Trib. Roma 31 maggio
1984, decr., in Foro it., 1985, I, 873; Trib. Roma 21 settembre
1985, cit., 855; Trib. Napoli 10 giugno 1986, decr., in questa Rivista, 1987, 50, con nota di R. Rordorf, Limiti del potere giudiziario di nomina dei liquidatori, ivi, 51; Cass., SS.UU., 10 febbraio
1987, n. 1392, in questa Rivista, 1987, 699; Trib. Pavia 17 settembre 1988, decr., cit., 1298; Trib. Napoli 28 luglio 1992, ord.,
cit., 1552, secondo cui, però, la causa di scioglimento, anche se
contestata, deve “risultare de plano”; Cass. 2 dicembre 1996, n.
10718, cit., 529 ss.; Cass. 21 novembre 1998, n. 11798, in Giur.
it., 1999, I, 568 ss. (insieme a Cass. 12 giugno 1998, n. 5885, ivi,
566), con nota di R. Weigmann, ivi, 566; Trib. Como 22 gennaio
2000, decr., in questa Rivista, 2000, 600, con nota di F. Funari,
Presupposti della nomina del liquidatore da parte del presidente
del tribunale, ivi, 600; Cass., SS.UU., 25 giugno 2002, n. 9231,
in questa Rivista, 2002, 1232, con nota di G. Spaltro, Inversione
di rotta, a Sezioni unite, sulla ricorribilità del decreto di nomina dei
liquidatori, ivi, 1233; Trib. Torino 10 marzo 2003, decr., cit., 995;
Cass. 1° febbraio 2005, n. 1983, in questa Rivista, 2006, 314,
con nota di S. Fasolino, Il decreto di nomina del liquidatore non è
ricorribile per cassazione, ivi, 315; Cass. 2 febbraio 2005, n.
2078, in Rep. Foro it., 2005, voce Società, n. 1121, 2283. Si annoverano invece nella corrente giurisprudenziale che, ante riforma ex D.Lgs. n. 5/2003, non riconosceva l’anzidetta possibilità,
ritenendo infatti necessario l’accertamento della (contestata)
causa di scioglimento a mezzo di un procedimento a cognizione
ordinaria e sostenendo la natura decisoria del decreto che fosse
stato ciò nonostante emesso sul punto in sede di volontaria giurisdizione (con conseguente sua ricorribilità per Cassazione ai
sensi dell’art. 111 Cost.): Cass. 19 gennaio 1987, n. 403, in Dir.
fall., 1987, II, 306 ss.; Cass. 21 luglio 1993, n. 8147, in questa Rivista, 1994, 192 ss., con nota di F. Platania, Nomina del liquidatore: intervento surrogatorio del presidente del tribunale, ivi, 194;
Cass. 10 novembre 1993, n. 11109, cit., 203; Cass. 24 ottobre
1996, n. 9267, cit., 530 ss.; Cass. 12 giugno 1998, n. 5885, cit.,
568; Cass. 19 settembre 2000, n. 12391, in Foro it., 2001, I, 124;
Cass. 15 dicembre 2000, n. 15834, in Giust. civ., 2001, I, 633;
App. Firenze 26 aprile 2001, ord., in Giur. comm., 2003, II, 370
ss. (insieme a: Trib. Pisa 26 ottobre 2000, decr, ivi, 38; Trib. Pisa
26 gennaio 2002, ord., ivi, 368; Trib. Pisa 7 marzo 2002, ord, ivi,
369), con nota di V. Pinto, In tema di nomina giudiziale dei liquidatori e di impossibilità di funzionamento dell’assemblea, ivi, 373.
(25) Dà atto della reclamabilità e della revocabilità del decreto in esame M. Vannucci, cit., 1242. In tal senso anche,
benché prima della riforma ex D.Lgs. n. 5/2003 e con riferimento al decreto di nomina del liquidatore, Cass. 2 dicembre
1996, n. 10718, cit., 530, e Cass. 21 novembre 1998, n.
11798, cit., 569.
(26) Sulla possibilità di promuovere un simile giudizio di cognizione ordinaria cfr. in dottrina A. Dimundo, Commento all’art. 2485 c.c., cit., 87, e M. Vannucci, cit., 1242 ss. In giurisprudenza ved.: Cass. 8 novembre 1967, n. 2703, cit., 26 ss.;
App. Firenze 23 gennaio 1982, cit., 1144 ss.; Trib. Roma 31
maggio 1984, decr., cit., 873; Trib. Napoli 10 giugno 1986,
decr., cit., 50; Cass., SS.UU., 10 febbraio 1987, cit., 699; Trib.
Bari 13 luglio 1987, in Giur. it., 1988, 1, 2, 70; Cass. 2 dicembre
1996, n. 10718, cit., 530; Cass. 21 novembre 1998, n. 11798,
cit., 568; Cass., SS.UU., 25 giugno 2002, n. 9231, cit., 1232;
Trib. Torino 10 marzo 2003, decr., cit., 995; Cass. 1° febbraio
2005, n. 1983, cit., 314. È stato sul tema anche evidenziato in
dottrina che, qualora i. il giudizio di cui sopra venga definito da
una sentenza che accerti l’insussistenza della causa di scioglimento e ii. tale sentenza sia emessa una volta già conclusa la
fase di liquidazione e cancellata la società dal registro delle imprese, la predetta sentenza sarà “inutiliter data” e sussisterà,
come unico rimedio, “l’azione di danni nei confronti degli amministratori o di coloro che abbiano fatto istanza per l’accertamento con decreto della causa di scioglimento” (così F. Galgano, cit., 424, e F. Galgano - R. Genghini, cit., 697).
(27) Ved. in dottrina: G. De Marchi - A. Santus, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, cit., 322 ss., secondo
cui “il momento in cui la causa di scioglimento prende effetto
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è tuttavia unanimemente sostenuto in dottrina, sussistendo infatti anche la diversa teoria di chi ritiene
operante di diritto la causa di scioglimento (con
conseguente carattere meramente dichiarativo del
suo accertamento e della sua pubblicità) (28), e la
diversa, ulteriore, teoria di chi distingue tra effetti
endosociali (o interni) ed effetti extrasociali (o
esterni) della predetta causa, precisando altresì che i
primi si realizzano al mero verificarsi della causa
stessa (nei confronti degli amministratori, i quali so-
no gravati degli obblighi di accertamento e di pubblicità sopra indicati, nonché degli obblighi di convocazione dell’assemblea per la nomina del/i liquidatore/i e di gestione sociale nei limiti di cui all’art.
2486, comma 1, c.c.) ed i secondi si originano invece al compimento della relativa pubblicità (momento da cui la medesima causa acquista piena e completa efficacia) (29).
Reputo tuttavia deporre a favore del principio dell’efficacia costitutiva dell’iscrizione pubblicitaria della
si è in ogni caso fissato con l’iscrizione nel Registro della dichiarazione dell’organo amministrativo che l’accerta (oppure,
ovviamente, con l’iscrizione della deliberazione assembleare
che dispone lo scioglimento. (…) (…) ha luogo quindi una nuova ipotesi di pubblicità costitutiva. Da tale momento, e non più
da quello precedente del loro verificarsi, si producono tutti gli
effetti che l’ordinamento ricollega al verificarsi di una causa di
scioglimento”; A. Dimundo, Commento all’art. 2484 c.c., cit.,
50 ss., il quale afferma che “l’iscrizione della dichiarazione segna il momento in cui la causa di scioglimento dichiarata produce l’effetto dello scioglimento, trattandosi evidentemente di
una nuova ipotesi in cui alla pubblicità è stata attribuita efficacia costitutiva, anziché dichiarativa come prima della riforma”;
P.G. Jaeger - F. Denozza - A.Toffoletto, Appunti di diritto commerciale. Impresa e società, Milano, 2010, 559 ss., per i quali
“nel sistema vigente (…) le cause di scioglimento producono
gli effetti loro propri (ingresso nella fase di liquidazione) (…)
solo in seguito ad un formalizzato accertamento della loro sussistenza, che consiste in genere nell’iscrizione nel registro delle imprese della dichiarazione con cui gli amministratori ne accertano la sussistenza. (…). Il verificarsi di una delle cause di
scioglimento sembra avere come unico effetto quello di creare
l’obbligo per gli amministratori di accertarne senza indugio la
ricorrenza e di procedere all’esecuzione della formalità (iscrizione nel registro delle imprese) prevista nell’art. 2484 (…). Gli
altri caratteristici effetti dello scioglimento si producono non al
verificarsi della causa di scioglimento, ma al momento della
sua ‘formalizzazione’”; F. Galgano, cit., 424; F. Galgano - R.
Genghini, cit., 696 ss. Con riferimento invece alla giurisprudenza, ved.: Trib. Brescia 14 ottobre 2011, decr., inedita, per il
quale “gli effetti dello scioglimento si determinano pertanto,
come evidenziato in dottrina, non in forza dell’avverarsi del
mero evento dissolutivo, ma in ragione della pubblicità di esso,
cioè a seguito della iscrizione della causa di scioglimento nel
registro delle imprese”; Trib. Avezzano 2 dicembre 2004, decr.,
in questa Rivista, 2005, 618, con nota di V. Salafia, Perdite superiori al capitale sociale e versamento spontaneo di uno dei soci, ivi, 618, secondo cui “l’innovazione fondamentale rispetto
al sistema vigente prima del 1° gennaio 2004 consiste nella
netta separazione tra il verificarsi di una causa di scioglimento
e la determinazione del momento in cui ha effetto. Si legge
nella relazione governativa che il momento in cui la causa di
scioglimento prende effetto è in ogni caso fissato all’iscrizione
nel registro delle imprese della deliberazione del consiglio che
l’accerta ovvero all’iscrizione della deliberazione assembleare
che dispone lo scioglimento. Ciò al fine essenziale di eliminare
l’incertezza, per tutti, sul momento in cui lo scioglimento si determina” (e sulla base di tale principio il Tribunale ha ritenuto
essere stati rimossi i presupposti dell’ipotesi dissolutiva per riduzione del capitale al di sotto del limite del legale in ragione
dell’effettuazione, da parte di un socio, di uno spontaneo, e
sufficiente, versamento nelle casse sociali).
(28) Di tale (e sembra isolato) avviso è V. Buonocore, cit.,
260, affermante che “tutte le cause di scioglimento operano di
diritto, nel senso che non occorre un accertamento a carattere
costitutivo-negoziale, (…). A carattere meramente dichiarativo
sono gli accertamenti della causa di scioglimento previsti dal
comma 1° della norma appena citata (art. 2485, comma 2,
c.c., ndr) a carico degli amministratori, in uno agli adempimenti pubblicitari, pena la loro responsabilità illimitata e solidale
(…)”. Per quanto riguarda la giurisprudenza, si segnala Trib.
Mantova 23 giugno 2008, in www.ilcaso.it, sezione Mantova,
sottosezione Archivio Dir. Societario, che ha sostenuto la natura dichiarativa della pubblicità della causa di scioglimento e
l’efficacia di quest’ultima al suo mero verificarsi nei confronti
dei soci e degli organi sociali.
(29) Ved. in dottrina: M. Aiello, Scioglimento della società e
responsabilità di amministratori e sindaci tra “vecchio” e “nuovo” diritto, in Giur. it., 2010, 2361 (nota a Trib. Milano 3 febbraio 2010, ivi, 2353); G. Niccolini, La disciplina dello scioglimento, della liquidazione e dell’estinzione, cit., 16 ss.; V. Salafia, Perdite superiori al capitale sociale e versamento spontaneo
di uno dei soci, cit., 619 ss.; F. Petrera, Studio n. 15-2008/I. Rimozione della causa di scioglimento della società e l’efficacia
della deliberazione di revoca, in www.notariato.it, sezione Studi
e Materiali, sottosezione Società - Varie, 5, per il quale “(…) il
legislatore ha effettivamente operato una differenziazione tra il
piano endosocietario e quello metacorporativo, ma solo nel
senso che il verificarsi della causa di scioglimento determina
immediatamente una serie di effetti che non si ripercuotono all’esterno della società. (…). Ciò significa, senza dubbio, che il
solo verificarsi di una causa di scioglimento produce effetti indipendentemente dai relativi adempimenti pubblicitari; ma in
quella che pare potersi configurare come una fattispecie a formazione progressiva non pare che detti effetti consentano di
determinare (alla luce delle modifiche operate dalla riforma)
l’insorgere di per sé dello stato di liquidazione”; A. Rossi - C.
Pasquariello, cit., 573 ss.; M. Vaira, Commento all’art. 2484
c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da G. Cottino - G. Bonfante - O. Cagnasso - P. Montalenti, Torino, 2004, 2048 ss., secondo cui “(…) tutte le cause di scioglimento (…) sono al contempo ad efficacia immediata e differita, a seconda della prospettiva da cui vengono riguardate” (si segnala altresì che il
predetto Autore viene citato in via adesiva da G. Cottino, cit.,
560). Sembrano anche così orientati, pur non espressamente
distinguendo tra effetti interni ed esterni rispetto alla società:
Associazione Disiano Preite, cit., 448 ss.; T. Cavaliere, cit., 15
ss. (che attribuisce alla causa di scioglimento “efficacia parziale” al momento del suo verificarsi, nonché “efficacia piena” a
decorrere dalla sua formale pubblicità); F. Fimmanò - C. Esposito - L. Traversa, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, cit., 89 ss. Si dichiara invece espressamente contrario alla tesi propugnata dalla predetta dottrina Trib. Brescia 14 ottobre 2011, decr., cit., che infatti osserva sul punto che “la relazione illustrativa al d.l.vo 6/2003 precisa poi che la nuova norma è ispirata “al fine essenziale di eliminare l’incertezza, per
tutti, sul momento in cui lo scioglimento si determina”, il che
esprime il contrasto dell’intenzione del legislatore con l’assunto difensivo della resistente diretto a evidenziare la necessità
di operare “una distinzione tra il piano degli effetti endocorporativi e quello metasocietario” al fine di riconoscere “efficacia
costitutiva agli adempimenti pubblicitari in questione nei soli
confronti dei terzi” ”.
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causa di scioglimento le seguenti ragioni (che quindi
confutano le differenti teorie innanzi esposte):
- nella relazione illustrativa del D.Lgs. n. 6/2003 è
stato esplicitato che la causa dissolutiva “prende effetto” nei confronti di “tutti” dalla sua pubblicità
nell’ufficio del registro delle imprese (30);
- il contenuto letterale della norma statuente tale
pubblicità (trattasi dell’art. 2484, comma 3, c.c.)
non prevede alcuna diversificazione dal punto di
vista temporale e soggettivo con riferimento agli
effetti della causa di scioglimento;
- sino a quando la pubblicità di cui sopra non è
stata adempiuta, mi sembrano potersi vanificare i
presupposti operativi della causa dissolutiva attraverso l’assunzione della delibera essenziale determinante, attraverso la sua mancata adozione, l’“impossibilità di funzionamento” o la “continuata inattività” dell’assemblea (31). Credo altresì che la va-
nificazione innanzi descritta possa compiersi anche
nell’ipotesi in cui il Tribunale abbia con decreto
accertato la predetta causa (ed eventualmente anche nominato, in via contestuale, il/i liquidatore/i,
secondo quanto prospettato al successivo par. n. 4)
ed il provvedimento così emesso non sia stato ancora sottoposto ai prescritti adempimenti pubblicitari (32), posto che l’organo giudiziale esplica una
mera funzione suppletiva, che, come tale, non può
certo inibire la formazione di una diversa e contraria volontà sociale (33).
Ritengo altresì che qualora si formi la predetta volontà, la relativa decisione assembleare non esplicherà gli effetti derivanti dalla revoca dello stato
di liquidazione ai sensi dell’art. 2487 ter, comma 2,
c.c. (prevedente, alle condizioni lì indicate, il diritto di opposizione dei creditori sociali) (34) e (in tema di recesso dei soci) ai sensi degli artt. 2437,
(30) Ved. il par. n. 12 (rubricato Dello scioglimento e della liquidazione) di tale Relazione, in Giur. comm., 2003, suppl. al n.
4, 97, nel quale, al III capoverso, viene precisato che “l’innovazione fondamentale rispetto al sistema vigente consiste nella
netta separazione tra il verificarsi di una causa di scioglimento,
e la determinazione del momento in cui ha effetto. (…). Il momento in cui la causa di scioglimento prende effetto si è in
ogni caso fissato all’iscrizione nel registro della deliberazione
del consiglio che l’accerta ovvero, ovviamente, all’iscrizione
della deliberazione assembleare che dispone lo scioglimento.
Ciò al fine essenziale di eliminare l’incertezza, per tutti, sul momento in cui lo scioglimento si determina”.
(31) Si segnala in tal senso la Massima notarile n. J.A.11, in
www.notaitriveneto.it, sezione Orientamenti societari, sottosezione J. Scioglimento e liquidazione di società di capitali, secondo cui la causa di scioglimento non ancora pubblicizzata “(…)
non produce alcun effetto. È pertanto possibile, qualora si sia
avverata una causa di scioglimento della società, senza che
essa sia stata pubblicizzata nel registro delle imprese, rimuovere la causa di scioglimento stessa (…)”. Così anche Trib. Brescia 14 ottobre 2011, decr., cit., secondo cui la mancata pubblicità della causa dissolutiva ne legittima la rimozione senza
necessità di previa revoca dello stato di liquidazione (che, in
assenza della predetta pubblicità costitutiva, non può ritenersi
perfezionato). Il ripristino della capacità deliberativa dell’assemblea è stato anche definito quale “sanatoria ex tunc” della
causa di scioglimento da M. Vaira, Commento all’art. 2487 ter
c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da G. Cottino - G. Bonfante - O. Cagnasso - P. Montalenti, Torino, 2004, 2085). In favore dell’eliminazione della causa di scioglimento prima della
sua pubblicità si sono espressi in dottrina anche: T. Cavaliere,
cit., 73, affermante, con riferimento a qualsivoglia causa di
scioglimento, che “(…) lo spazio temporale tra il momento del
suo verificarsi e quello della sua iscrizione possa essere utilizzato dai soci per vanificarne la portata”; G. Frè, cit., 668; F. Petrera, cit., 5 ss., il quale (osservando i. che la società è in fase
di liquidazione solo con l’avvenuta pubblicità della causa di
scioglimento, ii. che il legislatore ha previsto espressamente
per le fattispecie di cui all’art. 2484, comma 1, nn. 2), 4) e 5)
c.c. la possibilità per l’assemblea di rimuovere la causa dissolutiva, e iii. che è addirittura revocabile la liquidazione secondo
quanto prescritto dall’art. 2487 ter, comma 1, c.c.) ha ritenuto
“(…) coerente con il sistema la possibilità di evitare, finché
possibile, l’insorgere di tale stato (di liquidazione, ndr)”; A.
Rossi - C. Pasquariello, cit., 574, per i quali “è pertanto possibi-
le, qualora si sia avverata una ipotesi di dissoluzione della società senza che essa sia stata pubblicizzata nel registro delle
imprese, rimuovere la causa di scioglimento stessa senza l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 2487 ter c.c.”.
(32) Anche in tal caso gli adempimenti pubblicitari sono necessari affinché si producano gli effetti dello scioglimento. Cfr.
in questo senso F. Galgano, cit., 424, e F. Galgano - R. Genghini, cit., 696.
(33) La tesi esposta nel corpo del testo (secondo cui, sulla
base del carattere surrogatorio dell’intervento giudiziale nell’accertamento della causa di scioglimento ex art. 2484, comma 1, n. 3), c.c., è sostenibile la permanenza in capo ai soci, in
via inalterata, della loro facoltà di disposizione - ed anche di rimozione - della predetta causa) è giustificabile anche alla luce
del similare principio elaborato con riferimento alla revoca del
liquidatore nominato dal Tribunale. Su questo specifico tema
ved.: Cass., SS.UU., 25 giugno 2002, n. 9231, cit., 1231, che
ha statuito al riguardo che “(…) stante il connotato suppletivo
del decreto presidenziale, i soci non perdono a seguito della
sua emanazione il governo e la disponibilità della liquidazione,
conservando inalterata la facoltà di revocare - sostituendolo
con altra persona - il liquidatore nominato dal giudice (…)”; F.
Fimmanò - C. Esposito - L. Traversa, cit., 265, per i quali l’assemblea può deliberare la revoca dei liquidatori anche se di
nomina giudiziale (salvo il diritto risarcitorio di questi ultimi se
revocati senza giusta causa).
(34) Ved. in tal senso: Massima Notarile n. J.A.11, cit., secondo cui la rimozione della causa di scioglimento prima della
sua pubblicità non comporta “(…) l’osservanza delle disposizioni di cui all’art. 2487 ter c.c., poiché l’applicazione di tale ultimo articolo presuppone necessariamente che la società si
trovi in stato di liquidazione per effetto di causa di scioglimento già pubblicizzata al registro delle imprese”; AA.VV., Memento pratico Ipsoa-Francis Lefebvre. Società commerciali 2011, Milano, 2010, 850, per i quali laddove “(…) si sia avverata una
causa di scioglimento della società senza che essa sia stata
pubblicizzata nel registro delle imprese, è possibile rimuoverla
senza dover ricorrere alla procedura di revoca della liquidazione (art. 2487 ter c.c.)”; A. Rossi - C. Pasquariello, cit., 574 ss.
Contra (e quindi a favore dell’applicazione della disciplina ex
art. 2487 ter c.c. anche nel caso in cui la causa di scioglimento, che non sia stata ancora pubblicizzata, venga rimossa mediante apposita delibera dei soci), G. Niccolini, La disciplina
dello scioglimento, della liquidazione e dell’estinzione, cit., 17.
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comma 1, lett. d), c.c. (per le società per azioni) e
2473, comma 1, c.c. (per le società a responsabilità
limitata) (35). Tale assunto è giustificabile sulla
base della ritenuta specialità (e conseguente inapplicabilità analogica) delle predette norme dettate
con riferimento alla mera (e diversa) ipotesi della
revoca dello stato di liquidazione, nonché considerando che (come già rilevato in dottrina) sarebbe
contraddittorio dal punto di vista logico prevedere,
proprio nel caso in cui i soci decidessero di superare il loro stallo decisionale, l’operatività delle succitate disposizioni che potrebbero determinare la
cessazione dell’ente societario (qualora l’opposizione dei creditori ex art. 2487 ter, comma 2, c.c. fosse
giudizialmente accolta - e proseguisse quindi la liquidazione della società - ovvero, con riferimento
all’ipotesi di recesso, si realizzassero i presupposti
dello scioglimento ai sensi dell’art. 2437 bis, comma 3, c.c. o dell’art. 2437 quater, comma 6 o 7, c.c.
per quanto riguarda le società per azioni, nonché ai
sensi dell’art. 2473, comma 4 o 5, c.c. per quanto
riguarda le società a responsabilità limitata) (36).
Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo o
dello statuto, l’organo liquidatorio deve essere nominato dai soci nell’assemblea all’uopo convocata
dagli amministratori ai sensi dell’art. 2487, comma
1, lett. b), c.c. Anche con riferimento a tale fase
del procedimento di scioglimento e liquidazione
delle società di capitali sussiste la funzione suppletiva del Tribunale delle imprese competente sulla
base del luogo in cui è sita la sede legale della società, il quale, secondo quanto letteralmente previsto dal comma 2 della predetta norma, “su istanza
di singoli soci o amministratori, ovvero dei sindaci” (da intendersi quale collegio sindacale) (37) dovrà effettuare la predetta convocazione nell’ipotesi
in cui la stessa sia omessa da parte degli amministratori ovvero nominare direttamente il/i liquidatore/i nel caso in cui l’assemblea non provveda in
questo senso (38).
Tale norma sembrerebbe quindi prevedere un (generale) iter dell’intervento surrogatorio del Tribunale articolato in due distinti momenti temporali,
di cui l’uno volto alla sola convocazione dell’assemblea e l’altro finalizzato alla nomina dell’organo
liquidatorio (39).
Tuttavia credo che rispetto alla causa di scioglimento derivante dalla “impossibilità di funzionamento” ovvero dalla “continuata inattività” dell’assemblea, il Tribunale:
- non solo potrà direttamente nominare il/i liquidatore/i senza il previo interpello assembleare dei
soci (qualora lo stesso sia stato omesso);
- ma, altresì, potrà procedere a tale nomina anche
unitamente all’accertamento della causa di scioglimento (40). Tale (duplice e contestuale) potere giudiziale è giustificabile sulla base delle motivazioni
già addotte dalla giurisprudenza di merito che si è
espressa al riguardo, dalla quale sono state invocate
in tal senso “ragioni di economia processuale” (41),
(35) Così in dottrina F. Petrera, cit., 5. Ritengono invece che
sussista in tal caso il diritto di recesso: M. Aiello, cit., 234, il
quale così argomenta (riconoscendo quindi il predetto diritto
“ai soci dissenzienti, assenti o astenuti”) in considerazione dell’immediato prodursi di “(…) rilevanti conseguenze a livello endosocietario” a seguito dell’“(…) inveramento di una delle ipotesi di cui all’art. 2484 c.c.”; G. Niccolini, La “revoca dello stato
di liquidazione” delle società di capitali, in AA.VV., Il nuovo diritto delle società. Liber Amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa - G.B. Portale, 4, Torino, 2007, 39; A.
Rossi - C. Pasquariello, cit., 575 (seppur si esprimano in tal
senso in forma dubitativa).
(36) Ved. G. Niccolini, La “revoca dello stato di liquidazione”
delle società di capitali, cit., 57, il quale evidenzia altresì come
l’attribuzione da parte del legislatore del diritto di recesso al
socio non consenziente circa la delibera di revoca dello stato
di liquidazione “(…) conduce ad esiti per certi aspetti poco
soddisfacenti, giacché l’esercizio del recesso può a sua volta
rendere nuovamente attuale l’effetto solutorio al quale i soci
intendevano sottrarre la società e dunque compromettere l’operazione di revoca della liquidazione”.
(37) Si richiamano sul punto le medesime considerazioni
esposte nella precedente nt. (21) (da intendersi qui però riferite
- e quindi da adattarsi - all’art. 2487, comma 2, c.c.) e si segnala in tal senso al senso anche M. Aiello, La liquidazione delle società di capitali, in Le operazioni societarie straordinarie, in
Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, Padova,
2011, 133, e G. Niccolini, La disciplina dello scioglimento, della
liquidazione e dell’estinzione, cit., 15. Contra, e quindi a favore
della legittimazione del singolo membro del collegio sindacale,
C. Pasquariello, Commento all’art. 2487 c.c., in Commentario
breve al diritto delle società, diretto da A. Maffei Alberti, Milano, 2011, 1345.
(38) L’intervento suppletivo del Tribunale (in entrambi i casi
indicati nel corpo del testo) si esplicherà attraverso un procedimento camerale di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. Cfr. in tal senso
le osservazioni di cui alla precedente nt. (22), a cui si rinvia, e
C. Pasquariello, Commento all’art. 2487 c.c., cit., 1345.
(39) L’articolazione del potere surrogatorio del Tribunale in
due diversi momenti temporali è stata evidenziata da Trib. Como 29 luglio 2004, ord., in Giur. comm., 2006, II, 177, con nota
di C. Carlevale, Il difetto di autodeterminazione dell’assemblea e
la nomina del liquidatore giudiziale, ivi, 177. In dottrina cfr.: G.
Afferni, Commento all’art. 2487 c.c., in Codice commentato delle società, a cura di G. Bonfante - D. Corapi - G. Marziale - R.
Rordorf - V. Salafia, Milano, 2007, 1327 ss.; A. Dimundo, Commento all’art. 2485 c.c., cit., 82 ss.; G. Niccolini, La disciplina
dello scioglimento, della liquidazione e dell’estinzione, cit., 20.
(40) Contra, App. Catania 21 aprile 2008, cit., 981 ss., e, in
dottrina, G. Spaltro, Cause di scioglimento: profili civili e processuali, in questa Rivista, 2005, 462 ss.
(41) Così Trib. Verona 16 ottobre 2010, decr., in banca dati
Juris Data, a cui si richiama (seppur non citandolo) Trib. Novara 24 novembre 2011, decr., in www.tribunale.novara.it, sezio-
4. Nomina assembleare o giudiziale
dell’organo liquidatorio
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Impugnazione della delibera c.d. negativa
Nel caso in cui la proposta oggetto di votazione da
parte dell’assemblea, che verta su un argomento di
carattere essenziale per la società (secondo i termini prospettati nel precedente par. n. 2), venga rigettata e tale esito derivi dalla condotta a tal fine
posta intenzionalmente/dolosamente in essere da
alcuni soci (44), sembra utile interrogarsi:
1) se sussista o meno la possibilità per gli altri soci
di impugnare la delibera di rigetto (definibile anche come delibera negativa) (45) così assunta; e,
qualora sia dia riscontro positivo a tale quesito,
2) se i predetti soci possano chiedere in via giudiziale (o arbitrale), oltre all’annullamento della delibera
negativa, anche la declaratoria di avvenuta appro-
vazione della decisione nei fatti respinta (e tale interrogativo trae origine dalla sentita necessità di fornire ai soci non autori della condotta ostruzionistica
sopra indicata uno strumento utile e incisivo dal
punto di vista pratico, considerando che, anche ove
venisse annullata la delibera impugnata e venisse
nuovamente sottoposta all’assemblea la proposta già
rigettata, quest’ultima potrebbe ancora non essere
approvata a causa della verosimile, reiterata, condotta ostruzionistica degli altri soci) (46).
Al primo quesito sembra potersi rendere risposta
affermativa, considerando, come rilevato correttamente in giurisprudenza, che “(…) anche le statuizioni di rigetto determinano effetti per la vita societaria (…)”, che “(…) le norme sul procedimento e sulla verbalizzazione riguardano tutte le deliberazioni, anche quelle a contenuto negativo” e che
“(…) la deliberazione negativa postula lo svolgimento dell’attività assembleare non diversamente
da quella positiva” (47).
Con riferimento invece al secondo quesito, proprio
in ragione dell’ampio e complesso dibattito esistente in ordine allo stesso (48), ci si limita a rilevare
nella presente sede che:
- per il momento, la Corte di cassazione si è espressa negativamente sul medesimo, affermando che
l’accertamento giudiziale non può surrogare la proclamazione dei risultati della votazione, da cui ha
origine la delibera assembleare (49);
ne Giurisprudenza, macroarea Diritto e procedura civile, argomento Diritto e procedura societaria).
(42) Ved. Trib. Verona 16 ottobre 2010, decr., cit., e Trib.
Novara 24 novembre 2011, decr., cit.
(43) Cfr. Trib. Prato 12 gennaio 2010/17 dicembre 2009,
decr., cit., 561, in questa Rivista e 749 e in Giur. mer.
(44) Si rileva che l’abusiva astensione è stata equiparata al
voto contrario espresso in violazione dei principi di correttezza
e buona fede da M. Centonze, Qualificazione e disciplina del rigetto della proposta (c.d. “delibera negativa”), in Riv. Società,
2007, 442.
(45) La delibera c.d. “negativa” è stata intesa da M. Cian,
La deliberazione negativa dell’assemblea nella società per azioni,
Torino, 2003, 20, come “(…) la reiezione della proposta portata
alla votazione, o per il prevalere dei voti contrari su quelli favorevoli alla sua approvazione, o per l’uguaglianza numerica degli uni e degli altri, o, infine, per il mancato raggiungimento
della maggioranza qualificata, ove questa sia richiesta dalla
legge o dallo statuto”.
(46) Ved. R. Sacchi, Gli effetti della sentenza che accoglie
l’impugnazione di delibere assembleari di s.p.a., in P. Benazzo M. Cera - S. Patriarca, Il diritto delle società oggi. Innovazioni e
persistenze. Studi in onore di Giuseppe Zanarone, Torino, 2011,
570, e Collegio Arbitrale (Prof. C. Consolo, Prof. M. Rescigno e
Prof. R. Sacchi) 2 luglio 2009, in Giur. comm., 2010, II, 917,
con nota di A. De Pra, Deliberazione negativa votata in conflitto
d’interessi e divieto di voto del socio-amministratore, ivi, 918.
(47) Così Trib. Catania 10 agosto 2007, in Corr. giur., 2008,
398, con nota di M. Cian, Abus d’égalité, tutela demolitoria e
tutela risarcitoria, ivi, 399. Tale Autore, nella predetta nota, os-
serva sul punto come la sentenza catanese abbia correttamente evidenziato “(…) il valore che l’atto di reiezione assume sul
piano dell’organizzazione societaria, come esplicazione dell’attività dell’organo assembleare, al pari della delibera positiva”
(ivi, 403). La possibilità di qualificare la reiezione della proposta
sottoposta all’assemblea in termini di delibera e di impugnare
la stessa è stata altresì affermata da App. Roma 29 maggio
2001, in questa Rivista, 2001, 1487, nonché da Collegio Arbitrale (Prof. C. Consolo, Prof. M. Rescigno e Prof. R. Sacchi) 2
luglio 2009, cit., 917, e da R. Sacchi, cit., 569. Per una disamina delle posizioni manifestate in dottrina a favore (e così pare
in via maggioritaria) e contro la impugnabilità della delibera
negativa ved. C. Ferraris, Approvazione del bilancio da parte
dell’amministratore giudiziario e impugnazione di deliberazione
negativa, in Giur. comm., 2004, II, 211, nt. (30).
(48) Si rinvia, per l’esposizione di tale dibattito, a M. Cian,
Abus d’égalité, tutela demolitoria e tutela risarcitoria, cit., 405
ss., e a M. Cian, La deliberazione negativa dell’assemblea nella
società per azioni, cit., 157 ss., nonché a M. Centonze, cit., 428
ss.
(49) Così Cass. 26 agosto 2004, n. 16999, in questa Rivista,
2005, 600, con nota di M.C. Cardarelli, Contrapposizione insanabile tra i soci e causa di scioglimento, ivi, 600, statuente al riguardo che “(…) la deliberazione assembleare, quale atto corporativo, è individuata dal suo collegamento con l’organizzazione sociale e, quindi, anche dal fatto formale ed oggettivo
della proclamazione dei risultati della votazione, che ha pertanto carattere costitutivo e, in quanto tale, non può essere surrogato dall’accertamento giudiziale dell’erroneità del conteggio
dei voti, quale che sia l’errore dal quale esso dipende”. Senza
la necessità di avviare prontamente la fase di liquidazione (42), nonché la considerazione che sarebbe
illogico preservare la competenza deliberativa dell’assemblea per la nomina del/i liquidatore/i (secondo l’articolato procedimento di cui all’art. 2487,
comma 2, c.c.) nelle ipotesi dissolutive sopra indicate che derivano proprio dall’irreversibile e stabile disfunzione decisionale dell’assemblea stessa (43).
5. Cenni sui rimedi esperibili dai soci non
fautori dell’incapacità decisionale
dell’assemblea: impugnazione della
delibera c.d. negativa e azione di
risarcimento danni
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- qualora, però, si ammettesse il potere di accertamento da parte del giudice (o dell’arbitro) nei termini di cui sopra, bisognerebbe poi individuare nel
caso concreto il vizio (eventualmente) inficiante la
delibera impugnata ed interrogarsi sulla sussistenza
o meno della possibilità di espunzione della partecipazione così viziata dal quorum deliberativo (al fine
di far emergere la delibera nei fatti respinta, tenendo solo conto dei voti validamente espressi) (50).
Azione risarcitoria tra soci
Nel caso in cui i. non venga adottata dall’assemblea la delibera essenziale per il funzionamento della società e ii. ne conseguano lo scioglimento e la
liquidazione della società stessa, i soci che “subiscono” tali conseguenze hanno il diritto di agire in
via risarcitoria avverso gli altri soci che hanno intenzionalmente/dolosamente causato il venir meno
dell’ente?
In riscontro al predetto e difficoltoso quesito mi limito a rilevare che:
i. tale diritto mi sembra sussistere, e ciò in considerazione della violazione dei principi di correttezza e
buona fede (nell’esecuzione del contratto sociale) (51) da parte dei soci artefici dello scioglimento;
ii. l’azione risarcitoria così esercitabile mi pare essere differente da quella (sempre risarcitoria) prevista
dall’art. 2377, comma 4, c.c., essendo la stessa interessata dalla legittimazione attiva e passiva dei meri membri della compagine sociale, con conseguente esclusione dal giudizio così radicatosi della società (che deve invece essere parte del procedimento
di risarcimento danni di cui alla norma succitata);
iii. la predetta azione mi sembra essere altresì indipendente dalla tutela demolitoria esperibile dai so-
alcuna pretesa di completezza si segnala che l’insussistenza
del potere del giudice di dichiarare approvata la delibera rigettata è stata sostenuta in giurisprudenza anche da Trib. Reggio
Emilia 20 dicembre 2002, in Giur. it., 2003, 956, mentre in dottrina da S. A. Villata, Impugnazioni di delibere assembleari e cosa giudicata, Milano, 2006, 211 ss. Contra, R. Sacchi, cit., 572
ss., e Collegio Arbitrale (Prof. C. Consolo, Prof. M. Rescigno e
Prof. R. Sacchi) 2 luglio 2009, cit., 919 ss.
(50) Ved. per la disamina della possibilità o meno di espungere dal quorum deliberativo la partecipazione per cui sia stato
espresso un voto viziato da conflitto di interessi o abuso (del
socio di minoranza o del socio paritetico) M. Centonze, cit.,
428 ss., e M. Cian, La delibera negativa dell’assemblea nella società per azioni, 142 ss. Con riferimento al mero caso del conflitto di interessi ved. R. Sacchi, cit., 576 ss., e Collegio Arbitrale (Prof. C. Consolo, Prof. M. Rescigno e Prof. R. Sacchi) 2 luglio 2009, cit., 921 ss.
(51) Sul tema dell’abuso del potere di blocco da parte della
minoranza ved., anche per i riferimenti bibliografici, M. Cian,
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ci (eventualmente) alla stessa legittimati (che sarebbero altrimenti gravati, ove così non si ritenesse, dell’obbligo di impugnare ogni delibera di rigetto al fine di non precludersi l’eventuale azione risarcitoria qui in esame), e tale indipendenza, che è
stata peraltro già sostenuta in dottrina (52), mi pare essere suffragata anche dai recenti principi elaborati dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite rispetto alla diversa ipotesi di risarcimento dei danni
da illegittima attività provvedimentale della P.A.
Con riferimento a tale ipotesi, infatti, le predette
Sezioni, nella loro recente ordinanza del 7 gennaio
2008, n. 35, hanno ritenuto che tale tutela sia
esercitabile dal privato a prescindere dal contestuale o previo esercizio da parte dello stesso dalla relativa azione impugnativa, considerando ristorabili
di per sé i danni dal medesimo lamentati in giudizio (53).
In ogni caso, con riferimento all’azione risarcitoria
esperibile ai fini che qui rilevano, per appurare
(nell’ambito del giudizio così radicatosi tra i soci)
la fondatezza delle istanze lì svolte, dovrà ovviamente essere accertata la correttezza o meno della
condotta della compagine sociale determinante la
dissoluzione della società, ma tale accertamento sarà del tutto ininfluente rispetto allo stato di liquidazione della società stessa, che proseguirà il suo
iter.
Ritengo infine che la predetta azione risarcitoria
sia soggetta al temine di prescrizione quinquennale
di cui all’art. 2949, comma 1, c.c., con decorrenza
dalla data di iscrizione presso l’ufficio del registro
delle imprese della dichiarazione dell’organo amministrativo ovvero del decreto tribunalizio di accertamento della causa di scioglimento.
Abus d’égalité, tutela demolitoria e tutela risarcitoria, cit., 400
ss.
(52) Cfr. M. Cian, Abus d’égalité, tutela demolitoria e tutela
risarcitoria, cit., 403 ss. (di cui si condividono le teorie espresse
sullo specifico tema qui in esame). Ved., però, in senso contrario, Trib. Catania 10 agosto 2007, cit., 398.
(53) In tale ordinanza, pubblicata in Resp civ. prev., 2008,
1360, con nota di F. Pavoni, Sulla pregiudizialità (ancora?), ivi,
1361, è stato statuito il principio secondo cui “(…) siccome si
deve escludere la necessaria dipendenza del risarcimento dal
previo annullamento dell’atto illegittimo e dannoso, al giudice
amministrativo può essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva, ma
anche la sola tutela risarcitoria, senza che la parte debba in tale caso osservare il termine di decadenza pertinente all’azione
di annullamento (Cass., SS.UU., 13 giugno 2006, nn. 13659 e
13660; Cass., SS.UU., 28 giugno 2006, n. 14842)” (cfr. ivi,
1361).
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Diritto societario
Direzione e coordinamento
L’art. 2497 e la responsabilità
della capogruppo nei confronti
dei soci e creditori sociali della
società eterodiretta: un rimedio
risarcitorio
Cassazione Civile, Sez. I, 12 giugno 2015, n. 12254 - Pres. Ceccherini - Est. Scaldaferri - P.M.
Sgroi - Fallimento Costruzioni Edili M.L. S.n.c. e M.R. c. Fallimento della società di fatto tra M.
S. M.S. e M. F.
Società - Attività di direzione e coordinamento - Responsabilità della capogruppo - Azione di responsabilità ex art. 2497
c. c. dei creditori della società eterodiretta - Unicità - Rimedio di tipo risarcitorio - Responsabilità patrimoniale, di natura
sussidiaria, della capogruppo per il pagamento dei debiti insoddisfatti della società eterodiretta - Configurabilità - Esclusione
(Cod. civ. art. 2497; legge fallimentare art. 147)
L’art. 2497 c.c. prevede un’unica azione di responsabilità, per danni, che può essere esercitata dai creditori sociali della società eterodiretta (e, in caso di fallimento, dal curatore) nei confronti dell’ente o della società che
ha abusato dell’attività di direzione e coordinamento, al fine di ottenere il ristoro del pregiudizio conseguente
alla lesione cagionata all’integrità del patrimonio sociale. Pertanto, il comma 3 della menzionata disposizione,
nel prevedere che il creditore sociale può agire nei confronti dell’ente o della società che svolge attività di direzione e coordinamento solo se non sia stato soddisfatto dalla società soggetta a tale attività, si limita ad individuare una condizione di ammissibilità dell’azione di responsabilità prevista dal comma 1, ma non costituisce il fondamento normativo di un’ulteriore responsabilità sussidiaria tipica della c.d. “holding” per il pagamento dei debiti insoddisfatti della società eterodiretta.
La Corte (omissis).
1. Innanzitutto si impone, a norma dell’art. 335 c.p.c.,
la riunione dei due ricorsi proposti avverso la stessa sentenza.
2. Con i primi due motivi del ricorso principale si sostiene che il giudice di merito, affermando che avrebbe
natura extracontrattuale la responsabilità della società
controllante che eserciti (nell’interesse proprio o altrui)
attività di direzione e coordinamento della controllata
in violazione dei criteri di corretta gestione societaria
ed imprenditoriale, avrebbe violato e falsamente applicato l’art. 2497 c.c. Tale norma di legge andrebbe invece interpretata nel senso (già prospettato in sede di opposizione) che dalla violazione, nel compimento della
attività di eterodirezione, del dovere specifico di corretta gestione derivi a carico della società che ha esercitato detta attività una responsabilità contrattuale (non
per i danni causati, ma direttamente) per i debiti non
soddisfatti ammessi al passivo della società eterodiretta.
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A tale conclusione condurrebbe, da un lato, il collegamento negoziale tra contratti di società all’interno del
gruppo (che determinerebbe l’effetto tipico della “comunicazione delle vicende” da un contratto all’altro, effetto che nella specie si tradurrebbe nel riverberarsi della responsabilità patrimoniale dalla società debitrice
eterodiretta abusivamente alla controllante che tale eterodirezione abusiva ha esercitato), dall’altro il disposto
del comma terzo dell’art. 2497 c.c., da cui si evincerebbe che la responsabilità della holding (o dell’imprenditore P.), in quanto sussidiaria rispetto a quella della società eterodiretta, non può che essere di tipo patrimoniale
per i debiti non soddisfatti di quest’ultima, e non meramente risarcitorio. Non sarebbe dunque necessario, una
volta provata l’attività di eterodirezione, allegare e provare l’esistenza di direttive specifiche ed il danno da esse derivato al patrimonio della società eterodiretta, perché per l’appunto la responsabilità fatta valere non sarebbe di tipo risarcitorio bensì direttamente patrimonia-
25
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le per tutti i debiti insoddisfatti ammessi al passivo della
eterodiretta.
3. Tali doglianze, esaminabili congiuntamente stante la
stretta connessione, sono infondate.
3.1. Ove la prospettiva nella quale si muove il percorso
argomentativo del ricorrente fosse esclusivamente quella
della pur discussa (in dottrina e giurisprudenza di merito)
questione relativa alla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità qui evocata a norma dell’art.
2497 c.c., la risposta potrebbe limitarsi ad evidenziare come, nella specie, tale questione sia puramente teorica, e
quindi non decisiva, giacché la sentenza impugnata ha
anche rilevato - senza che sul punto risultino svolte censure specifiche - la mancata allegazione e prova, da parte
dell’opponente, di un danno da ricollegare causalmente
con la condotta della holding della quale si controverte.
Ed è noto che il creditore di una obbligazione contrattuale che agisce per il risarcimento dei danni prodotti
dall’inadempimento del debitore, se è esonerato dalla
prova della imputabilità dell’inadempimento stesso al debitore, è comunque onerato - al pari del danneggiato che
agisca in via extracontrattuale - della allegazione e prova
del danno e del nesso di causalità con la condotta del debitore violativa dell’obbligazione. Onere di allegazione e
prova la cui inottemperanza renderebbe dunque priva di
interesse la soluzione della questione relativa alla natura
della responsabilità evocata.
3.2. Ma la prospettiva del ricorrente è parzialmente diversa: nel ricorso la affermazione della natura contrattuale della responsabilità in questione si mostra invero funzionale a una ricostruzione dell’istituto secondo la quale
dal solo abuso della attività di direzione e coordinamento
deriverebbe a carico della società che la compie la assunzione di una responsabilità tipica (cioè di fonte legale)
nei confronti dei creditori sociali per l’adempimento delle singole prestazioni ad essi dovute dalla società abusivamente eterodiretta e da questa non soddisfatte: una responsabilità aggiuntiva e sussidiaria rispetto a quella della
debitrice, in tal senso analoga a quella che l’art. 2449
c.c., comma 2 (abrogato dalla stessa riforma del 2003 che
ha introdotto il nuovo art. 2497 c.c.) poneva a carico degli amministratori di società di capitali che contravvenivano al divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società
da essi amministrata (cfr. ex multis Cass. n. 17033/08).
Tale tesi interpretativa tuttavia non convince, per più
ragioni.
3.2.1. In primo luogo, posto che, secondo il disposto del
dell’art. 2497 c.c., comma 1, la società che ha abusato
della eterodirezione è responsabile verso i creditori della
società che l’ha subita per la lesione cagionata alla integrità del patrimonio di quest’ultima, cioè una responsabilità per danni (la cui definizione riecheggia peraltro
quella dell’art. 2394, comma 1, non già quella dell’art.
2449, comma 2), la interpretazione del ricorrente secondo cui il comma terzo del medesimo articolo prevederebbe una responsabilità sussidiaria della holding per il
pagamento dei debiti insoddisfatti della eterodiretta si
mostra assai debole nella individuazione nel comma terzo di una base normativa di tale ulteriore responsabilità
26
tipica, distinta da quella prevista dal comma 1. Tanto
più che la piana lettura del comma 3, induce piuttosto
a ritenere che con tale norma si sia dettata esclusivamente una condizione di ammissibilità dell’azione di responsabilità prevista nel primo comma verso i creditori
della società eterodiretta, peraltro secondo un ordine di
concetti che, anche qui, non si mostra dissimile da
quello che appare sotteso al disposto dell’art. 2394 c.c.,
comma 2. Del resto, che una sola sia la azione spettante
ai suddetti creditori a norma dell’art. 2497 c.c., si mostra confermato dal disposto testuale dell’ultimo comma
dello stesso articolo; che oltretutto, attribuendone la legittimazione in caso di fallimento della società eterodiretta al curatore della stessa, ne chiarisce il carattere di
azione c.d. di massa che è proprio della azione risarcitoria per la lesione prodotta al patrimonio della società
fallita, non già della distinta azione spettante ai singoli
creditori ex art. 2449 c.c., comma 2, che il curatore non
era conseguentemente legittimato a proporre (cfr. ex
multis: Cass. Sez. 1 n. 8368/00; n. 1570/2004; S.U. n.
7029/06).
3.2.2. Né le conclusioni possono mutare facendo riferimento al dedotto collegamento negoziale tra contratti
di società all’interno del gruppo, atteso che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (cfr. Cass.
Sez. 1 n. 9143/08), le peculiarità di tale collegamento
non sono idonee a superare il principio (ribadito dalla
riforma del 2003 con l’art. 2325 c.c., comma 1 e art.
2462 c.c., comma 1) della piena e perfetta autonomia
patrimoniale delle società di capitali rispetto ai soci, dal
quale discende che, anche nel caso di operazioni infragruppo, non possono - stante l’autonomia giuridica e
patrimoniale delle singole società facenti parte del gruppo - imputarsi alla capogruppo atti che siano direttamente riferibili alle società partecipate, ancorché voluti
e coordinati dalla capogruppo.
La cui responsabilità per la violazione delle regole cui
deve conformarsi l’attività di direzione e coordinamento
non può dunque produrre effetti equivalenti alla estensione ad essa della giuridica imputazione degli atti compiuti dalla eterodiretta.
3.3. Il rigetto delle doglianze esaminate deriva dunque
di necessità dalle considerazioni svolte.
4. Né migliore sorte può avere il terzo motivo, con il
quale - nell’ipotesi di rigetto della prima prospettazione
testé esaminata - si denuncia il vizio di motivazione sulla
mancanza di prova di specifiche condotte della controllante o di specifiche operazioni della controllata realizzate su direttiva della controllante: si lamenta che il tribunale sarebbe incorso in errore laddove ha ritenuto non
prodotta nel giudizio di opposizione la sentenza di dichiarazione del fallimento della holding di fatto dei fratelli M.
senza provvedere sulla istanza, proposta dalla Curatela
odierna ricorrente, di acquisizione del fascicolo della
istanza di ammissione al passivo di detto fallimento, all’interno del quale si trovava la sentenza dichiarativa anzidetta. Tale motivo di impugnazione è inammissibile
perché: a) l’illustrazione della doglianza risulta priva del
momento di sintesi che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, era richiesta dall’art. 366 bis, ora
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abrogato (ma applicabile alle sentenze che, come nella
specie, sono state depositate nel periodo di vigenza della
norma stessa) nel caso di impugnazione a norma dell’art.
360 c.p.c., comma 1, n. 5; b) in ogni caso, la censura (oltretutto non decisiva perché non afferente anche alla statuizione circa la mancata allegazione e prova di un danno e del nesso di causalità) sarebbe priva di fondamento,
atteso che la sentenza impugnata ha puntualmente esaminato, e ritenuto non sufficientemente specifici, gli elementi di fatto emergenti dalla sentenza dichiarativa del
fallimento della holding, ed il ricorrente non ha offerto
indicazioni circa ulteriori elementi di prova che non siano stati esaminati dal Tribunale.
5. Il ricorso incidentale, con il quale si censura - sotto il
profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c. - la qualificazione come extracontrattuale della responsabilità fatta
valere dal ricorrente principale come contrattuale, è assorbito dal rigetto del ricorso principale.
(omissis).
Il COMMENTO
di Hadrian Simonetti (*)
A distanza di oltre un decennio dall’introduzione della disciplina in tema di gruppi, con gli articoli
del Codice civile in materia di direzione e coordinamento di società, la Corte di Cassazione si
confronta con la discussa natura dell’azione di responsabilità che l’art. 2497 accorda ai soci e ai
creditori della società eterodiretta nei confronti della società o ente capogruppo. La Corte, pur
non prendendo posizione sul carattere contrattuale o aquiliano di tale ipotesi di responsabilità,
considera il rimedio in questione come di tipo risarcitorio, incentrato sulla prova di un danno riconducibile all’attività di direzione e coordinamento, e non come una forma di responsabilità patrimoniale, di natura sussidiaria, per mezzo della quale imputare alla capogruppo il pagamento
dei debiti, rimasti inadempiuti, della società soggetta alla sua direzione.
Introduzione
L’azione di responsabilità da abuso di direzione e
coordinamento prevista dall’art. 2497, a distanza di
oltre un decennio dalla sua introduzione con la riforma societaria del 2003, comincia finalmente ad
essere esaminata anche dalla Corte di cassazione,
dopo essere stata sin qui ampiamente discussa dalla
dottrina ed avere ricevuto significative applicazioni
da parte della giurisprudenza di merito (1).
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Poiché la letteratura in argomento è molto vasta, ci si limiterà nel prosieguo solamente ad alcuni richiami, su singoli
profili attinenti alla decisione in commento. Per la giurisprudenza è certamente utile, oltre ai precedenti che si troveranno
citati nelle note successive, la rassegna di S. Maddaluno, Dieci
anni di giurisprudenza sulla “direzione e coordinamento” di società, in Giur. comm., 2013, II, 743 ss.
(2) Sull’inquadramento della responsabilità da direzione e
coordinamento, se debba essere qualificata come di natura
contrattuale o extracontrattuale, continuano a registrarsi indirizzi divergenti. Nella giurisprudenza più recente v., nel primo
senso, Trib. Milano 17 gennaio 2011, in questa Rivista, 2012,
258, 17 giugno 2011, ivi, 2012, 258, Trib. Milano 20 marzo
2014, ivi, 2014, 881; nel secondo senso v., invece, App. Milano
20 giugno 2012, ivi, 2012, 1099; Trib. Palermo 15 giugno
2011, Foro it., 2011, I, 3184; Trib. Prato 25 settembre 2012, in
questa Rivista, 2012, 1358. In dottrina, per la prospettiva extracontrattuale v., tra gli altri, V. Cariello, Art. 2497, Società di capitali, Commentario, a cura di Niccolini - Stagno d’Alcontres,
Napoli, 2004, spec. 1865; F. Galgano, Direzione e coordina-
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Nel caso in esame si discuteva di una delle principali questioni sollevate dall’art. 2497, quella concernente la natura della responsabilità da attività
di direzione e coordinamento, se patrimoniale o risarcitoria e, nella seconda alternativa, se di impronta aquiliana o contrattuale, nonché del conseguente differente onere probatorio posto a carico
di chi agisce in giudizio (2).
mento di società, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2005, 93; M. Maggiolo, L’azione di danno contro la società
o ente capogruppo, in Giur. comm., 2006, I, 191. V. altresì, G.
Scognamiglio, Danno sociale e azione individuale nella disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento, Il nuovo
diritto delle società, a cura di P. Abbadessa - G.B. Portale, 3,
Milano, 2007, n. 10, che richiama lo schema della induzione
all’inadempimento; favorevoli alla natura contrattuale della responsabilità, sebbene seguendo percorsi e argomentazioni differenti, M. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria tra apserture e incertezze: una prima riflessione, in
questa Rivista, 2003, 335; S. Giovannini, La responsabilità per
attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, in
Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2007, passim;
N. Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi
nella riforma del diritto societario, in questa Rivista, 2002, I,
624; distingue, a seconda che l’azione sia proposta dai creditori o dai soci della società soggetta all’altrui direzione e coordinamento, qualificandola, nel secondo caso, come fondamentalmente contrattuale, R. Rordorf, I gruppi nella recente riforma
del diritto societario, in questa Rivista, 2004, 545.
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In una fattispecie nella quale la tutela dei creditori sociali era azionata ai sensi dell’art. 2497, comma 4, dal curatore di una società eterodiretta dichiarata fallita, la sentenza della Cassazione, pur
non prendendo esplicita posizione sulla natura
aquiliana o contrattuale della responsabilità, presenta sicuro interesse sotto almeno due profili, peraltro tra loro strettamente correlati.
Dopo avere in (buona) parte ridimensionato
l’importanza e la rilevanza pratica, nel caso di specie, dell’alternativa tra la responsabilità aquiliana
quella contrattuale, la Cassazione confuta la premessa di parte ricorrente volta a sostenere che la
società che abusa dell’attività di direzione e coordinamento sarebbe gravata di una responsabilità sussidiaria ed aggiuntiva rispetto a quella della società
eterodiretta, debitrice in via principale.
Non disponendo degli atti di causa e non conoscendo nel dettaglio quali fossero le argomentazioni di parte ricorrente, possiamo supporre che la difesa della curatela intendesse alleggerirsi degli oneri probatori comunque su di essa gravanti - sia nella prospettiva aquiliana che in quella contrattuale,
per quanto concerne in particolare la prova del
danno e dalla sua riconducibilità sul piano eziologico alla condotta della società capogruppo - adombrando la tesi che l’art. 2497 avrebbe introdotto
una responsabilità patrimoniale di tipo indennitario: quasi una sorta di garanzia a carico della capogruppo ove il danno non sia (stato prima) rimosso
o ristorato dalla società debitrice.
Tale tesi, talvolta peraltro affiorante anche in
dottrina in un panorama di ricostruzioni teoriche
quanto mai variegato e articolato (3), troverebbe
secondo la difesa ricorrente una base normativa
nel comma 3 dello stesso art. 2497 e risponderebbe
ad una concezione fondamentalmente unitaria, anche sul piano giuridico, e in chiave spiccatamente
contrattuale, del fenomeno del gruppo di imprese.
Nel respingere (le conclusioni di) questo ragionamento e nell’affermare il carattere diretto della
responsabilità della holding, la Cassazione da un lato ripropone l’approccio più tradizionale e formale
che riconosce autonomia giuridica e patrimoniale
alle società del gruppo; dall’altro legge nel comma
3 la previsione di una condizione di ammissibilità
rispetto ad un’azione di responsabilità, quella accordata ai creditori sociali nei confronti della (sola) holding, da intendersi come un rimedio tipicamente risarcitorio.
(3) Cfr. S. Giovannini, La responsabilità per attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, in Quaderni di giurisprudenza commerciale, Milano, 2007, 113.
(4) Il riferimento è soprattutto al tema delle invalidità delle
delibere assembleari dove le importanti novità del 2003 erano
state subito sottolineate, tra gli altri, da A. Di Majo, Tutela reale
e risarcitoria nella riforma del diritto societario (la contendibilità
dell’interesse sociale), appendice a La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 413 ss. Su un piano più generale, per una critica
serrata a questa tendenza espansiva, considerata come un impoverimento quanto meno sul piano del metodo, v. C. Castro-
novo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, passim. Sulla tendenza ad impostare il problema della responsabilità della capogruppo in termini di responsabilità per danni, attraverso il ricorso a tecniche risarcitorie, sin dall’art. 3, ultimo comma, L.
n. 95/1979, v. peraltro già G. Scognamiglio, Autonomia e coordinamento nella disciplina dei gruppi di società, Torino, 1996,
145.
(5) La giustificazione è abbastanza ricorrente, si veda, per
tutti, C. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova,
2006, 196.
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La logica risarcitoria della regola di
responsabilità ex art. 2497
Nella sentenza in commento, il problema dell’eventuale abuso dell’attività di direzione e coordinamento e della responsabilità della società o ente
capogruppo, nei confronti dei soci “esterni” e dei
creditori sociali della controllata, è quindi inquadrato e risolto all’interno di una logica essenzialmente risarcitoria. A conferma di una linea di tendenza che privilegia la tutela risarcitoria in luogo
della tutela reale, e che contrassegna da tempo
l’intero diritto civile e di cui, nell’ambito del diritto societario, la riforma del 2003 costituisce un
passaggio significativo (4).
Con particolare riferimento alla disciplina dei
gruppi di imprese, il favore per i rimedi risarcitori
in luogo di forme di tutela reale, di tipo invalidante o comunque caducante, che caratterizzano ad
esempio la disciplina del conflitto di interessi, è
stato giustificato osservando come, al cospetto del
fenomeno “direzione e coordinamento”, la tutela
non sia riferibile a singoli atti o comportamenti ma
all’attività nel suo insieme (5).
Anche se la sentenza è piuttosto sintetica sia
nella ricostruzione delle argomentazioni di parte ricorrente che nella loro confutazione, i Giudici di
legittimità sembrano porsi sulla linea appena tracciata, ritenendo che il rimedio posto dall’art. 2497
rimanga di tipo risarcitorio e si contrapponga (e
vada tenuto comunque distinto rispetto) ai rimedi
societari fondati invece su tecniche di responsabilità patrimoniale realizzate attraverso il superamento
(del velo) della personalità giuridica e della limitazione di responsabilità, senza che (pare di capire)
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neppure la sottoposizione della società eterodiretta
a procedura concorsuale possa mutare i termini essenziali della questione.
Senza, quindi, che sia possibile far derivare dalla
legittimazione ad agire del curatore, prevista dall’art. 2497, u.c. in caso di fallimento unicamente
per i creditori sociali, la conseguenza di una responsabilità automatica per cui, senza la necessità
di un’istruttoria sul punto, il danno da eterogestione sarebbe equivalente al passivo della società eterodiretta; il che finirebbe per determinare la sostanziale estensione, verso la holding, dei crediti
vantati nei confronti della società eterodiretta (6).
Ciò posto, il 2497 si occupa espressamente di
una (sola) delle responsabilità astrattamente configurabili all’interno del fenomeno dei gruppi di imprese: quella della holding per i danni arrecati nei
confronti dei soci “esterni” e dei creditori della società eterodiretta (7).
E se ne occupa, a detta di molti autori, prevedendo una disciplina di privilegio per chi esercita
l’attività di direzione e coordinamento: sia perché
una simile attività ed il relativo potere ricevono in
tal modo una sicura legittimazione e una patente
di legittimità giuridica almeno in via di principio;
e sia perché la responsabilità della holding è subordinata al ricorrere di tutta una serie di condizioni
ed è esclusa in presenza di esimenti quali: i vantaggi compensativi, per un verso; la soddisfazione o
l’eliminazione del danno ai sensi del citato comma
3, per altro verso.
Al punto che superando un certo entusiasmo
iniziale, una parte della dottrina ha creduto di
scorgere nel 2497, piuttosto che la disciplina dei
casi in cui la società holding è chiamata a rispondere dei danni sofferti dai soci esterni e dai creditori
della società eterodiretta, il conto delle ipotesi in
cui, per una ragione o per l’altra, detta responsabilità sarebbe destinata invece ad essere esclusa (8).
Sicché, memori dei tentativi dottrinali ante riforma di costruire una regola di responsabilità sulla
clausola generale del 2043 (oltre che su di un’applicazione estensiva dell’art. 90 del D.Lgs. n.
270/1999, magari letto in combinato disposto con
il 2049 c.c.), si è avanzato persino il dubbio che il
2497 non sia servito ad ampliare davvero l’ambito
di operatività della fattispecie della responsabilità
da abuso della direzione unitaria quanto, piuttosto,
a contenerne i margini di applicazione possibile.
Da qui si spiega forse la posizione (di una parte)
della giurisprudenza, specie di quella milanese, che
legge la responsabilità in commento come una previsione speciale concorrente con le ipotesi comuni
e preesistenti di responsabilità civile e ritiene che
la legittimazione dei soci e dei creditori sociali della controllata convivrebbe con quella di quest’ultima, ai sensi del 2043. Secondo questa prospettiva,
la previsione di cui al comma 3 dell’art. 2497 servirebbe quindi semmai, attraverso la denuntiatio litis,
a prevenire contrasti giurisprudenziali o duplicazioni risarcitorie (9).
Come si è già detto in apertura, la Cassazione
con la sentenza in commento non si sbilancia a
proposito della natura del rimedio risarcitorio introdotto dall’art. 2497, se sia contrattuale o aquiliano, sebbene tra le righe della motivazione sembrerebbe potersi ricavare una preferenza per la seconda opzione.
La natura contrattuale di tale responsabilità è
sostenuta, da una parte crescente della dottrina, seguendo diversi percorsi logici: uno tra questi valorizza proprio il collegamento negoziale tra i contratti delle società appartenenti al gruppo, negli
stessi termini proposti nel caso di specie dalla difesa ricorrente (10); un’altra via percorsa è quella de-
(6) In senso conforme alla sentenza qui in commento v.
Trib. Napoli 1° agosto 2014, in Dir. fall., 2014, 2, 516, con nota
di F. Murino. Questi profili, che la sentenza sfiora appena, sono approfonditi in particolare da M. Miola, Riflessioni su responsabilità per eterodirezione dell’impresa e procedure concorsuali, in rivistaodc.eu, 2014 e da F. Fimmanò, Abuso di direzione e coordinamento e tutela dei creditori sociali, in Riv. not.,
2012, 298 ss. Entrambi gli autori sostengono che la disciplina
di cui all’art. 2497 ss. (e all’art. 147 l.fall.) avrebbe finito, nelle
intenzioni del legislatore, per delimitare l’ambito di applicazione delle diverse tecniche elaborate in passato dalla giurisprudenza per colpire gli abusi della personalità giuridica. Per la
possibile coesistenza della responsabilità prevista dall’art.
2497 con la figura dell’amministratore di fatto e della sua relativa responsabilità (che è poi appunto una delle tecniche di
creazione giurisprudenziale sopra ricordate) v. peraltro la pressoché coeva Cass., Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 2952.
(7) Le altre ipotesi di responsabilità configurabili, sempre a
carico della holding - ma che l’art. 2497 non contempla - sono
quella per le obbligazioni contrattuali assunte dalle controllate
e quella per gli illeciti commessi da queste ultime. La prima
ipotesi di responsabilità, sussidiaria, è esaminata, per escluderla, dalla sentenza qui in commento; la seconda ha il suo terreno elettivo soprattutto nel diritto europeo antitrust, dove si fonda su di una nozione sostanziale e funzionale di impresa, come
ricordato da F. Ghezzi - M. Maggiolino, L’imputazione delle
sanzioni antitrust nei gruppi di imprese, tra responsabilità personale e finalità dissuasive, in Riv. Società, 2014, 1060 ss.
(8) V., ad esempio, M. Bussoletti, Sulla “irresponsabilità” da
direzione unitaria abusiva e su altre questioni aperte in tema di responsabilità ex art. 2497 c.c., in Riv. dir. comm., 2013, I, 418 ss.
(9) Cfr. Trib. Milano 20 dicembre 2013 e 20 marzo 2014, in
questa Rivista, 2014, 357 e 881.
(10) V., in tal senso, S. Giovannini, cit., 111 ss.
La natura della responsabilità
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gli obblighi (legali) di protezione che, connaturati
al riconoscimento di un potere giuridico di direzione unitaria, graverebbero sulla capogruppo e che le
imporrebbero uno standard di comportamento conforme al principio di correttezza affermato dall’art.
2497, nel senso di (dover) salvaguardare le società
del gruppo nel loro essere pur sempre autonomi
“centri di profitto”, sebbene private della loro indipendenza economica (11).
Continuando invece a seguire la tesi della responsabilità da fatto illecito incomberà sull’attore
un onere probatorio maggiore, dovendo chi agisce
fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi della fattispecie: fatto colposo, danno ingiusto e nesso
causale fra condotta ed evento.
Come si è già osservato la Cassazione ravvisa
nell’art. 2497 la previsione di un’unica responsabilità per danni: quella, in via diretta, della holding.
Esclude invece che sulla base del comma 3 possa
fondarsi un’ulteriore responsabilità, distinta dalla
prima, che ricadrebbe sulla società eterodiretta.
Precisando che, con il comma 3, si sarebbe piuttosto introdotta una condizione di ammissibilità dell’azione accordata nei confronti della holding.
La lettura di questo comma continua a suscitare
più dubbi che certezze, in particolare con riferimento alla posizione dei soci.
Nel caso dei creditori - anche alla luce del precedente offerto dall’art. 2394, comma 2, che la
sentenza richiama - la disposizione parrebbe infatti
di più facile comprensione ove si rifletta sul fatto
che è persino ovvio che il creditore si rivolga in
prima battuta al proprio debitore e che la soddisfazione del credito da parte della società diretta, attraverso l’adempimento, equivale all’estinzione del
credito stesso, il che fa venir meno in radice il presupposto stesso di qualunque responsabilità.
Peraltro, anche seguendo la tesi che fonda proprio su questa disposizione la natura sussidiaria della responsabilità della holding, si dovrebbe comunque osservare che, in caso di fallimento della società eterodiretta, l’incapienza patrimoniale è in re
ipsa e quindi riconoscere sempre la legittimazione
del curatore ad agire direttamente nei confronti
della holding (12).
Con riferimento ai soci, invece, la disposizione
continua a porre problemi e diverse sono le interpretazioni sin qui emerse: da chi la legge in chiave
processuale e vi fa derivare a carico degli attori un
onere di preventiva escussione del patrimonio della
società eterodiretta, che opererebbe per alcuni addirittura sin nel giudizio di cognizione e per altri
solo in sede esecutiva (13); a chi la considera come
una norma di diritto sostanziale, che varrebbe a delimitare l’oggetto del danno risarcibile (14); a chi
vi scorge la previsione di un meccanismo solutorio,
in forza del quale la holding, che voglia prevenire
una condanna nei propri confronti al risarcimento
dei danni, sarebbe indotta a mettere la società sottoposta nella condizione di soddisfare i propri soci,
fornendole le risorse necessarie per farlo (15).
Quel che invece sembrerebbe da escludersi è la
possibilità di fondare su tale previsione il privilegio
ulteriore, da riconoscere alla holding, di poter utilizzare il patrimonio della società eterodiretta per tacitare il socio esterno, in nome di un superiore interesse di gruppo.
È infatti evidente come una simile ricostruzione
condurrebbe al risultato di accentuare il danno direttamente cagionato alla società sottoposta, e di
riflesso agli “altri” suoi soci e creditori, riducendo
la sua formale autonomia giuridica e patrimoniale
a ben poca cosa.
(11) Si ritiene che la nota teoria di Castronovo sull’obbligazione senza prestazione possa trovare applicazione alla responsabilità della capogruppo secondo l’art. 2497: v., lo stesso
C. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006,
154, M. Franzoni, L’illecito civile, 2a ed., in Trattato della responsabilità civile, Milano, 2010, 1121 e, da ultimo, A. Di Majo,
L’obbligazione protettiva, in Europa e dir. privato, 2015, 1 ss.
(12) Cfr. M. Miola, op. cit., 7.
(13) Nel primo senso v. Trib. Palermo 3 giugno 2010, Foro
it., 2011, I, 936 con nota di H. Simonetti, Sull’art. 2497, 3°
comma, c.c.: presupposti e natura della responsabilità di direzione e coordinamento; nel secondo senso v. Trib. Pescara 2 febbraio 2009, in Foro it., 2009, I, 2829 e Trib. Palermo 15 giugno
2011, ivi, 2011, I, 3184.
(14) Cfr. M. Maggiolo, L’azione di danno contro la società o
ente capogruppo, in Giur. comm., 2006, I, 176 ss.
(15) G. Scognamiglio, Danno sociale e azione individuale
nella disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco
Campobasso, 3, Torino, 2007, 959.
Ancora sull’art. 2497, comma 3
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Diritto societario
Bilancio
Difetto di interesse del socio ad
impugnare il bilancio: una
applicazione del principio di
continuità dei bilanci
Corte d’Appello di Milano, Sez. I, 5 marzo 2015, n. 1015 - Pres. F.M. Baldo - Rel. D. Bonaretti Valbruna Nederland B.V. c. Ilva S.p.a.
Società - Società di capitali - Assemblea dei soci - Deliberazioni - Impugnativa - Interesse ad agire - Continuità dei bilanci
(Cod. civ. artt. 2377, 2379, 2434 bis)
Deve pronunciarsi l’inammissibilità di una proposta domanda di nullità (o annullamento) di un bilancio, per
difetto di interesse ad agire in capo all’impugnante, qualora i bilanci relativi agli esercizi successivi siano divenuti irretrattabili, a seguito dell’intervenuto passaggio in giudicato delle sentenze di rigetto di (analoga) impugnativa proposta avverso questi ultimi.
La Corte (omissis).
Con atto di citazione in appello notificato il 9.12.2010,
V.N. B.V. (di seguito, V.) ha impugnato, chiedendone
l’integrale riforma, la sentenza n. 7651 in data 22.4 10.6.2010, con la quale il tribunale di Milano aveva rigettato l’impugnazione proposta dalla stessa V. contro
la deliberazione dell’assemblea dei soci della società I.
spa del 24.6.2008, con la quale era stato approvato,
contrario il socio di minoranza, il bilancio della società
chiuso al 31.12.2007 e si era deliberato di non procedere alla distribuzione di utili.
I., costituitasi anche nel giudizio di appello, ha contestato
la fondatezza delle domande avversarie, chiedendone il rigetto, con la conferma della sentenza appellata e la condanna dell’appellante alla rifusione delle ulteriori spese.
Prima della udienza fissata per la precisazione delle conclusioni (4.11.2014), I. è stata sottoposta a commissariamento straordinario ai sensi del D.L. 4 giugno 2013,
n. 61, convertito, con modificazioni, nella L. 3 agosto
2013, n. 85 e alla detta udienza il commissario straordinario si è costituito in giudizio, depositando comparsa
di nuova costituzione con diverso difensore, avendo i
precedenti rinunciato al mandato.
Alla stessa udienza, le parti hanno precisato le rispettive
conclusioni e la causa è stata trattenuta in decisione,
con assegnazione dei termini per il deposito degli scritti
conclusivi.
Motivi della decisione
Pare fondato e da accogliere il rilievo della parte appellata concernente la sopravvenuta carenza dell’interesse
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ad agire in capo all’appellante per la nullità o l’annullamento delle “delibere di approvazione del bilancio al
31/12/2007 e destinazione degli utili relativi” e per la
condanna di I. al risarcimento dei danni. Ciò a seguito
dell’intervenuta decisione di altre cause analoghe, relative all’impugnazione dei bilanci I. per gli esercizi 2006,
2008, 2009 e 2010 (cause decise dal tribunale di Milano
anche in diversa composizione, cfr. docc. B, C, D fasc.
appellata. e di questa stessa corte, cfr. ibidem, doc. F,
che ha confermato il rigetto dell’impugnativo del bilancio 2006), impugnazioni proposte con riguardo alle stesse voci e appostazioni e sulla base degli stessi argomenti
svolti nel presente giudizio con riferimento al bilancio
2007.
Da un lato, detto rilievo non integra certamente una
domanda ‘nuova’ e inammissibile, come eccepito dalla
parte appellante,
- sia perché la carenza dell’interesse costituisce una includibile condizione dell’azione, requisito essenziale per
la trattazione del merito della domanda e dunque materia sottratta alla disponibilità delle parti, il cui difetto
importa inammissibilità/improponibilità della domanda
stessa - non certo cessazione della materia del contendere, come opinato dall’appellante- ed è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, essendo
il giudice “tenuto ad accertare le condizioni che rendono proponibile l’azione anche in mancanza di una specifica contestazione al riguardo” (cfr. Cass. 3330/2002,
SU 12637/2008, ecc.), sicché non di domanda o eccezione in senso stretto si tratta, ma di semplice rilievo difensivo inteso a sollecitare l’esercizio di quello che è, e
31
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resta, un potere officioso del giudice, in quanto tale non
soggetto ad alcuna preclusione;
- sia perché, nel caso in esame e per quanto possa valere
l’osservazione, la carenza di interesse non è neppure originaria, ma sopravvenuta e discende dal deposito delle
sentenze richiamate, rese dal tribunale di Milano e da
questa corte, sicché deve ritenersi che la circostanza sia
stata dedotta tempestivamente dalla parte interessata,
non appena, cioè, si è constatato e potuto far constatare
il venir meno della condizione dell’azione di cui si tratta,
Dall’altro lato, il rilievo deve ritenersi fondato sia alla
luce del fatto -rimasto in causa incontrastato- del passaggio in giudicato delle sentenze del tribunale intervenute sulle impugnazione di V. dei bilanci Ilva relativi
agli esercizi 2008, 2009, 2010 (cfr. rispettivamente, sentenza trib. Mi n. 2613 in data 25.10.2012 - 25.2.2013,
sub doc. B Ilva; sent. n. 4272 del 25-27.3.2013, sub doc.
C; sent. n. 11392 del 27.6-10.9.2013, sub doc, D), sia
alla luce del principio di continuità dei bilanci, che
-imponendo che ogni bilancio segua il precedente e
preceda il successivo in un rapporto di stretta continuità e interdipendenza- finisce anche, in ragione della irretrattabilità, conseguente al giudicato, dei bilanci dei
richiamati esercizi (successivi), per precludere ogni modifica del bilancio 2007 oggetto della presente impugnazione e impedisce cosi di riconoscere in capo a V. un
interesse, giuridicamente rilevante, a ottenere una pronuncia di nullità o di annullamento dello stesso bilancio.
In tal senso può richiamarsi il consolidato orientamento
di dottrina e giurisprudenza (cfr. ampie indicazioni alle
pagine 21 e ss. della conclusionale Ilva), orientamento
che ha trovato in fine con ferma anche a li vello legislativo, con l’introduzione dell’art. 2434-bis cod. civ.,
per il quale “Le azioni previste dagli articoli 2377 e
2379 non possono essere proposte nei confronti delle
deliberazioni di approvazione del bilancio dopo che è
avvenuta l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo”.
L’intervento legislativo risponde ovviamente a esigenze
di certezza e di stabilità degli atti societari, che si è inteso privilegiare anche rispetto alle ragioni dei soci, dei
creditori e dei terzi in genere e che, sotto il profilo processuale, evidenziano il venir meno dell’interesse ad agire per l’impugnazione di un bilancio dopo l’approvazione di un esercizio successivo.
Vero è che nel caso di specie l’impugnativa è precedente, ma è altrettanto vero che l’effetto d’irretrattabilità
che consegue al giudicato formatosi sui bilanci successivi risalta con evidenza ancora maggiore. Posto infatti
che il principio della continuità dei bilanci impone agli
amministratori, ove un bilancio (con la relativa deliberazione assembleare di approvazione) venga dichiarato
nullo o annullato, di “redigere nuovamente il bilancio
impugnato e quelli degli esercizi intermedi affetti dal
medesimo vizio... cosi, sostanzialmente, ricostituendo
quella continuità che sarebbe, altrimenti, venuta meno”
(cfr. conclusionale I., pagg. 23-24; cfr. altresì art. 2377,
comma 7, cod. civ.), pare incontestabile che “l’irretrat-
32
tabilità dei bilanci di I., successivi (2008, 2009 e 2010)
a quello oggetto del presente giudizio (2007), dovuta al
passaggio in giudicato delle sentenze mediante le quali
il Tribunale di Milano ha rigettato le relative impugnative proposte da V., priva l’appellante dell’interesse ad
agire per la declaratoria di nullità o per l’annullamento
del bilancio 2007 e per le pronunzie conseguenziali e/o
connesse e, dunque, per l’‘ottenimento di una pronunzia
utiliter data” (cfr. ibidem, pag. 24).
Ricorda in proposito la difesa dell’appellata:
- che i bilanci 2008/2010 di I. sono stati ritenuti in sede
giudiziaria “redatti correttamente, in particolare e tra
l’altro, nelle voci (e per i corrispondenti valori) censurate dal socio V. nelle relative impugnative (esattamente come, nel presente giudizio, con l’impugnativa del bilancio 2007)”;
- che tali bilanci, nel rispetto del giudicato, non potrebbero essere modificati dagli amministratori di I., i quali,
in caso di declaratoria di nullità o di annullamento del
bilancio 2007, neppure potrebbero redigere un nuovo
bilancio 2007, che, in quanto modificativo delle “voci
contestate di quello impugnato nel presente giudizio,
verrebbe ad essere in contrasto con i bilanci successivi,
relativamente alle medesime voci, ormai coperti dal
giudicato quanto alla loro piena legittimità” (cfr. ibidem,
pag. 25). Ne segue che l’impossibilità di giungere comunque “alla redazione di un nuovo bilancio 2007” e,
con esso, ad “assicurare a V. il “bene della vita “ oggetto
della azione”, rende di immediata evidenza l’impossibilità di riconoscere effetti pratici alla pronuncia chiesta da
V. e dunque di un effettivo interesse di quest’ultima a
ottenere l’accoglimento dell’impugnativa del bilancio
2007.
Né può dirsi che l’impugnativa del bilancio 2007 presenti caratteristiche peculiari e differenti dagli altri giudizi o comunque contestazioni su alcuno voci di bilancio in ordine alle quali il tribunale non avrebbe preso
in alcun modo posizione.
Al riguardo, e a giustificare l’inammissibilità anche di
tale ultimo rilievo, pare sufficiente considerare:
- che talune delle doglianze menzionate (cfr. intra, nota
4) non paiono nuove e differenti rispetto alle altre impugnazioni (cfr. all. C I., pagg. 7-8, nonché il capitolo
‘operazioni finanziarie’ all. D, pag. 6 c ss., punto C, con
richiami ai debiti verso Slahlbeteiligungen);
- che la sentenza impugnata (cfr. ivi, pag. 20) non ha
trascurato di prendere posizione, sia pure sinteticamente, sulle citate doglianze (definite “presunti ulteriori vizi
di chiarezza del bilancio”), richiamando, a mo’ di esempi, le operazioni di “ottimizzazione della tesoreria” e i
“fondi rischi” (e osservando che V. si è limitata a lamentare l’insufficienza dell’informativa in bilancio, senza indicare i principi di diritto ovvero le ragioni che
avrebbero richiesto precisazioni non fornite da V., e, al
tempo stesso, senza tener conto delle indicazioni contenute, quanto alla tesoreria, nella relazione sulla gestione
e, quanto ai fondi rischi, nella nota integrativa), nonché i “debiti verso le consociate per finanziamenti” (in
relazione ai quali V. non sarebbe andata oltre “affermazioni generiche”, non sostenute da “alcuna sostanziale
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valida argomentazione”, ancor più necessaria trattandosi
di operazioni “in parte risalenti e appostate in precedenti bilanci”, meglio indicate “a pag. 40 della nota integrativa nei loro tratti essenziali”);
- che sembra semmai da imputarsi all’appellante la sostanziale inadeguatezza, quanto a motivazioni, della censura concernente l’insufficienza dell’informativa resa nel
bilancio I. su alcune voci dello stesso, inadeguatezza desumibile, tra l’altro, dalla parzialità delle trascrizioni
della relazione sulla gestione (così per le operazioni di
ottimizzazione della tesoreria, descritte alla pag. 2 della
relazione, di cui V. omette di riportare i flussi reddituali
illustrati nella successiva pag. 3, e per il programma di
investimenti, descritto alla pag. 14, per cui V. omette il
richiamo alla sua deliberazione, precedente all’esercizio
2007, alle sue principali realizzazioni, alla sua durata,
per il triennio 2007/2009, e portata, 2.5 miliardi di Euro
circa), dal mancato richiamo ai chiarimenti forniti dalla
nota integrative (così per i fondi rischi, descritti in sei
pagine della nota, con specchietto riepilogativo, e per
la capitalizzazione, da parte di I., della controllata
I.F.G., di cui trattato le pagine 13, 16 e 17 della nota
integrativa) e alle vicende pregresse (così per l’approvazione dei due finanziamenti contestati, in particolare, i
debiti verso Stahlbeteiligungen Holding sa, che risultano uno, approvato dal cda Ilva il 30.10.2006 con il voto
favorevole del consigliere espresso dalla famiglia A./V.,
l’altro, “riportato in bilancio con formulazione inalterata dal 2005, anno in cui il socio di minoranza ha approvato senza riserve il bilancio d’esercizio, dopo che il suo
consigliere aveva concorso alla predisposizione del rela-
tivo progetto”, cfr. comparsa di risposta I., pagg. 56-57),
nonché dalla sottovalutazione di talune componenti di
rischio che le vicende storiche successive hanno reso
manifeste nella loro drammaticità (si allude al fondo rischi per problematiche ambientali, il cui incremento,
più che alla “volontà di annacquare ulteriormente gli
utili di esercizio”, cfr. memoria di replica V. 22.12.2010,
pag. 30, sembra ragionevolmente riferibile alla coscienza
della necessità degli oneri per la messa in sicurezza dell’isola portuale del sito produttivo di Porto Marghera e
per lo stabilimento di Taranto, cfr. docc. 27 e 28 I.);
- che alcune delle doglianze si riferiscono espressamente
a operazioni di lungo periodo, insuscettibili di essere circoscritte all’esercizio 2007, oggetto della presente impugnazione (così per il già ricordato “programma di investimenti” 2007/2009) e dunque senz’altro ricadenti nelle preclusioni di cui sopra si è discusso;
- che dunque appaiono corrette e da confermare sia le
conclusioni del tribunale circa la genericità delle affermazioni di V. e il fatto che il socio impugnante non ha
tenuto conto delle indicazioni esaurienti contenute nella relazione sulla gestione e nella nota integrative, sia le
valutazioni della parte appellata, I., in ordine alla complessiva inammissibilità dei motivi e rilievi dell’appellante V.
Le considerazioni tutte sopra svolte -che appaiono assorbenti rispetto a ogni altra domanda, questione o motivo dedotti e trattati dalle parti- giustificano dunque,
secondo la corte, la declaratoria d’inammissibilità dell’appello.
(omissis).
IL COMMENTO
di Federica Fainelli (*)
La vigenza, nel nostro ordinamento, del principio di continuità dei bilanci impone agli amministratori, a seguito di declaratoria di nullità o annullamento della delibera di approvazione, l’adeguamento dei bilanci “intermedi” rispetto a quello dichiarato nullo o annullato e quello relativo
all’esercizio nel corso del quale la pronunzia interviene. Solo ripristinando una completa sequenza di bilanci corretti, infatti, può dirsi garantita l’attuazione della funzione informativa svolta dal
bilancio.
L’oggetto del giudizio
La sentenza in commento, mediante la quale la
Corte d’Appello di Milano ha definito, in secondo
grado, una controversia in materia di impugnativa
di bilancio appare degna di nota per un duplice ordine di ragioni.
Innanzitutto, la Corte, facendo applicazione del
principio di continuità del bilancio, ha dichiarato
l’inammissibilità dell’azione proposta per difetto di
interesse ad agire in capo all’attore in una fattispecie alquanto insolita; inoltre, ha accolto una nozione particolarmente ampia della locuzione “conseguenti adempimenti” di cui agli cui gli artt. 2377,
comma 7, c.c. e 2379, comma 4, c.c. (adempimenti
cui, per l’appunto, gli amministratori sono tenuti a
seguito di una pronuncia di annullamento o decla-
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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ratoria di nullità del bilancio). Nozione, quest’ultima, che, a seguito della riforma di diritto societario
- e pertanto, dell’introduzione dell’art. 2434 bis c.c.
-, sembrava doversi ritenere, a detta della dottrina
dominante, “abrogata”.
Questi i fatti rilevanti.
Parte appellante impugnava, chiedendone l’integrale riforma, la sentenza con cui il Tribunale di
Milano aveva rigettato l’impugnazione, proposta
dalla stessa appellata (allora attrice in primo grado), della deliberazione dell’assemblea dei soci con
la quale era stato approvato il bilancio della società
X, relativo all’esercizio 2007.
Quest’ultima si costituiva in giudizio contestando integralmente la fondatezza delle domande avversarie e chiedendone il rigetto. In particolare, la
società convenuta eccepiva, nella sola comparsa
conclusionale - stante il fatto che, nelle more del
giudizio, si era formato il giudicato nelle altre cause
di impugnativa di bilanci precedenti e successivi -,
la sopravvenuta carenza, in capo all’appellante, di
interesse ad agire, per la nullità o l’annullamento
della delibera di approvazione del bilancio relativo
all’esercizio 2007, a seguito dell’intervenuto passaggio in giudicato di sentenze rese in altre cause,
aventi ad oggetto l’impugnazione dei bilanci della
medesima società X, relativi agli esercizi 2006,
2008, 2009 e 2010, impugnazioni tutte proposte
con riguardo alle stesse voci e appostazioni, nonché concernenti le medesime contestazioni, oggetto del giudizio definito dalla sentenza in commento.
La decisione in commento
La Corte d’Appello di Milano si è pronunciata
in favore della inammissibilità dell’appello, accogliendo l’eccezione di carenza di interesse ad agire
sollevata dalla convenuta, motivando come di seguito brevemente riassunto.
Secondo la Corte, il principio di continuità dei
bilanci impone che “ogni bilancio segua il precedente e preceda il successivo in un rapporto di
stretta continuità e interdipendenza”.
Nel caso sottoposto al suo esame, si è verificato
(fatto, questo, “incontestato”, sottolinea la Corte)
il passaggio in giudicato, in pendenza di causa, delle sentenze con le quali il Tribunale di Milano
aveva rigettato le analoghe (quanto a tenore ed oggetto delle censure rivolte al bilancio) impugnazioni, proposte dalla stessa attrice, delle delibere di
approvazione dei bilanci, relativi agli esercizi 2006,
2008, 2009 e 2010, della società partecipata conve-
34
nuta. Osserva a questo proposito la Corte, infatti,
che i bilanci 2008, 2009 e 2010 della società partecipata convenuta sono stati ritenuti, in sede giudiziaria, “redatti correttamente, in particolare e tra
l’altro, nelle voci (e per i corrispondenti valori)
censurate dal socio … nelle relative impugnative”,
voci corrispondenti a quelle oggetto di censura nell’impugnativa del bilancio 2007 e nei confronti dei
quali il socio aveva avanzato contestazioni del tutto analoghe.
Tale circostanza, rileva la Corte, ha determinato
la (definitiva) irretrattabilità sia di tali bilanci (vale a dire, di quelli successivi) sia del bilancio sub
iudice.
Ed infatti, motivando in merito alla irretrattabilità dei primi (quelli successivi), la Corte afferma,
ineccepibilmente, che “tali bilanci [2008, 2009 e
2010], nel rispetto del giudicato, non potrebbero
essere modificati dagli amministratori”, a seguito
della (eventuale) declaratoria di nullità o annullamento del bilancio 2007, come richiederebbe, in
ossequio al principio di continuità dei bilanci, la
corretta interpretazione ed applicazione del combinato disposto degli artt. 2377, comma 7, 2379,
comma 4, e 2434 bis c.c.; mentre, motivando in
merito alla irretrattabilità del secondo (il bilancio
sub iudice), la Corte afferma, altrettanto ineccepibilmente, che gli amministratori della società convenuta “neppure potrebbero redigere un nuovo bilancio 2007”, poiché quest’ultimo, “in quanto modificativo delle “voci contestate … nel presente
giudizio, verrebbe ad essere in contrasto con i bilanci successivi, relativamente alle medesime voci,
ormai coperti dal giudicato quanto alla loro piena
legittimità” (così si esprime la Corte, virgolettando
alcune affermazioni contenute nella comparsa conclusionale per la convenuta).
Ne discende “l’impossibilità di giungere comunque alla redazione di un nuovo bilancio 2007” e,
pertanto, “l’impossibilità di riconoscere effetti pratici alla pronuncia chiesta”: dunque, “l’impossibilità di riconoscere … un effettivo interesse” dell’attrice all’impugnativa promossa nei confronti del bilancio 2007.
In altri termini, non potendosi che ritenere oramai “preclusa” ogni modifica al bilancio 2007, la
Corte ha concluso riconoscendo l’assoluto difetto,
in capo all’attrice, di un qualsiasi interesse, giuridicamente rilevante, ad ottenere una pronuncia di
nullità o annullamento del bilancio stesso.
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Analisi della motivazione della sentenza in
esame
Punto di partenza della motivazione della Corte
è rappresentato dall’ermeneutica della disposizione
di cui all’art. 2434 bis, comma 1, c.c. Tale articolo
recita, al primo comma, che “le azioni previste dagli artt. 2377 e 2379 non possono essere proposte
nei confronti delle deliberazioni di approvazione
del bilancio dopo che è avvenuta l’approvazione
del bilancio dell’esercizio successivo” (la sottolineatura è aggiunta).
Così disponendo, il legislatore, secondo l’opinione della dottrina e della giurisprudenza prevalenti,
qui ribadita dalla Corte, ha inteso garantire “esigenze di certezza e di stabilità degli atti societari”,
esigenze che si sono intese “privilegiare anche rispetto alle ragioni dei soci, dei creditori e dei terzi
in genere” (1).
La norma di cui all’art. 2434 bis, comma 1, c.c.,
afferma la Corte, opera anche “sotto il profilo processuale”, “evidenziando il venir meno dell’interesse ad agire per l’impugnazione di un bilancio dopo
l’approvazione di un esercizio successivo” (2).
(1) La dottrina, in particolare, ha osservato che, con l’introduzione della norma in esame, “la riforma ha privilegiato le
esigenze di certezza e di stabilità degli atti societari” (M. Silvetti, Invalidità del bilancio e principio di continuità prima e dopo la
riforma”, in questa Rivista, 2004, 1422. In tal senso, si vedano
anche L. Salvaneschi, Impugnativa in via arbitrale della delibera
di approvazione del bilancio, in Riv. arb., 2010, 62; G. Racugno,
Le società di capitali. Le scritture contabili e il bilancio, in
AA.VV., Manuale di diritto commerciale, ideato da V. Buonocore, Torino, 2011, 466), posto che “In tale modo si sono, dunque, privilegiate le ragioni dell’impresa - cioè, per l’appunto, la
certezza giuridica - a svantaggio delle ragioni dei soci, dei creditori e dei terzi in genere” (L. Quattrocchio, Sub art. 2434-bis,
in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da G. Cottino
- G. Bonfante - O. Cagnasso - P. Montalenti, Bologna, 2004,
1372): venendo, così, riconosciuta “all’impugnativa di bilanci
relativi ad esercizi chiusi una forte potenzialità destabilizzante
sui rapporti esterni e su quelli endosocietari” (C. Simone, Sub
art. 2434-bis, in A. Maffei Alberti, Commentario breve al diritto
delle società, Padova, 2011, 1014).
(2) Dello stesso avviso si è dimostrata anche la dottrina
maggioritaria, la quale ha sottolineato che, con l’introduzione
della norma in discorso, “Si è proferita ad alta voce la mancanza di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) che si verifica quando è
impugnato un bilancio dopo che è ormai stato approvato quello
relativo ad un esercizio successivo (art. 2434 bis c.c.)” (R. Weigmann, Luci ed ombre del nuovo diritto azionario, in questa Rivista, 2003, 279. In senso analogo, si vedano anche: T. Onesti M. Romano - M. Taliento, Sub art. 2434-bis, in G. Bonilini - M.
Confortini, Codice commentato delle società, Torino, 2010,
1587-1588; G.E. Colombo, L’invalidità dell’approvazione del bilancio dopo la riforma del 2003, in Riv. soc., 2006, 940; M. Bussoletti, Sub art. 2434-bis, in G. Niccolini - A. Stagno D’Alcontres, Società di capitali, II, Napoli, 2004, 1087; M. Silvetti, Sub
art. 2434-bis, in G. Bonfante - D. Corapi - L. De Angelis - U.
Napoleoni - R. Rordorf - V. Salafia (a cura di), Codice commentato delle società, Milano, 2011, 1331; D. Corrado, Sub art.
2434-bis, in Commentario alla riforma delle società, diretto da
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Secondo la dottrina dominante, infatti, con l’introduzione dell’art. 2434 bis c.c. il legislatore ha
“recepi[to] le istanze formulate dalla prevalente
dottrina e giurisprudenza volta a arginare azioni di
nullità relative anche a bilanci alquanto risalenti
nel tempo, attraverso la manovra della verifica della sussistenza dell’interesse ad agire” (3).
La ratio della disposizione di cui al primo comma
dell’art. 2434 bis c.c. è autorevolmente individuata
nella necessità di “evitare che venga impugnata
l’approvazione del bilancio dell’esercizio N quando,
essendo già stato approvato il bilancio dell’esercizio
N+1, o sarebbe possibile (e, a giudizio del legislatore, sufficiente) impugnare l’approvazione di quest’ultimo (se il vizio di contenuto è presente anche
in esso), o -al contrario- sarebbe inutile (a giudizio
del legislatore) far accertare il vizio del precedente
bilancio, essendo venuto meno nel bilancio successivo (sì che l’impugnazione riguarderebbe un vizio
ormai ‘superato’)” (4).
Si badi, tuttavia, che unica condizione, posta
dalla disposizione riportata, il cui rispetto deve sussistere affinché possano ritenersi garantite le priviP. Marchetti - L.A. Bianchi - F. Ghezzi - M. Notari, Milano,
2006, 680; C. Simone, op. cit., 1017).
(3) M. Bussoletti, Art. 2434-bis, in G. Niccolini - A. Stagno
D’Alcontres (a cura di), Società di capitali. Commentario, Napoli, 2004, 1087, nt. 1). In particolare: (i) con riferimento alle
istanze che erano state formulate dalla giurisprudenza, è stato
osservato che “Il legislatore ha recepito, infatti, l’orientamento
giurisprudenziale che negava la sussistenza dell’interesse all’azione di nullità di una deliberazione di approvazione del bilancio di esercizio se a questo ne fosse seguito un altro che avesse privato di attualità e concretezza il pregiudizio attuale e concreto al diritto di informazione” (M. Silvetti, Sub art. 2434-bis,
cit., 1331). La giurisprudenza, in particolare, con riferimento al
fatto “se l’attore sia, o meno, titolare di un interesse idoneo a
giustificare la sua iniziativa giudiziaria, come prescritto dall’art.
100 c.p.c.”, affermava che “Si potrà negare che esso [i.e. lo
‘interesse’] sussista…ove l’impugnazione riguardi esercizi relativi ad anni precedenti, ormai superati da bilanci più recenti e
corretti” (Trib. Milano 5 gennaio 1981, in Giur. comm., 1981, II,
458. Nei medesimi termini anche: Trib. Torino 16 maggio
1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 118; Trib. Milano 24 ottobre 1988,
in questa Rivista, 1989, 479); (ii) con riferimento, poi, alle istanze formulate dalla dottrina, è stato osservato che “Già in precedenza la dottrina riteneva che la approvazione del bilancio
successivo inibisse la proposizione delle azioni di impugnativa
del bilancio per carenza dell’interesse ad agire” (A. Lolli, Sub
art. 2434-bis, in A. Maffei Alberti (a cura di), Il nuovo diritto societario, Padova, 2005, 1437, nt. 10). A tale proposito, infatti,
si deve ricordare che autorevole dottrina aveva condiviso lo
“accoglimento di questa impostazione, che coincide con quella della giurisprudenza prevalente, implica riconoscere l’insussistenza dell’interesse quando le violazioni di legge…si riferiscano a bilanci passati” (G.E. Colombo, Il bilancio d’esercizio,
in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo G.B. Portale, Torino, 1998, 451-452).
(4) G. E. Colombo, L’invalidità dell’approvazione del bilancio
dopo la riforma del 2003, in Riv. soc., 2006, 939.
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legiate esigenze di cui si è detto, è che l’impugnazione sia proposta antecedentemente rispetto al
momento dell’approvazione del bilancio relativo
all’esercizio successivo.
Come affermato in sede giurisprudenziale, infatti, a nulla rileva la circostanza che, in pendenza di
impugnazione, i bilanci relativi agli esercizi successivi vengano approvati (5).
Ebbene, nonostante nel caso di specie sussistessero tutte le condizioni poste dalla predetta disposizione affinché non si avesse inammissibilità dell’impugnativa proposta, la Corte ha applicato alla
fattispecie sottoposta al suo esame lo stesso precipitato processuale sancito per la fattispecie espressamente regolata dall’art. 2434 bis c.c.: l’inammissibilità dell’impugnativa proposta per difetto di interesse ad agire.
Nel caso di specie, infatti, come espressamente
riconosciuto dalla Corte, “l’impugnativa è precedente”, proprio come imposto dal primo comma
dell’art. 2434 bis c.c., tuttavia, prosegue la Corte,
la “irretrattabilità [che caratterizza il bilancio impugnato] … risalta con evidenza ancora maggiore”
nel caso sottopostole. Eccone illustrate le ragioni.
La irretrattabilità del bilancio 2007, in una situazione quale quella sottoposta all’esame della
Corte, è determinata, da un lato, dalla operatività
del “giudicato formatosi sui bilanci successivi”; dall’altro, dalla stessa vigenza, nel nostro ordinamento, del principio di continuità dei bilanci.
Ed infatti:
(i) in ragione del giudicato formatosi sui bilanci
successivi, l’accoglimento della impugnativa di specie risulterebbe del tutto priva di “effetti pratici”
poiché i bilanci successivi non potrebbero accogliere le modifiche che si renderebbero necessarie
per adeguarli alla sopravvenuta declaratoria di nullità o al pronunciato annullamento del bilancio
2007;
(ii) in ragione del principio di continuità dei bilanci, non potrebbe essere modificato nemmeno il
solo bilancio relativo all’esercizio 2007: qualora,
infatti, l’impugnativa fosse accolta e quest’ultimo
fosse rettificato, accogliendo le modifiche resesi
conseguentemente necessarie, esso verrebbe a con-
trastare con i bilanci successivi, relativamente a
voci ormai coperte dal giudicato in ordine alla loro
piena legittimità.
La soluzione della Corte, che si ritiene di condividere, si fonda su due premesse che è bene mettere in luce: una prima, di ordine fattuale (concernente una indagine di fatto); una seconda, di ordine giuridico.
Quanto alla prima premessa (fattuale), essa consiste nel verificare che l’impugnativa di cui si tratta
(vale a dire, quella sub iudice) non presenti alcun
elemento di novità, alcuna differenza, rispetto a
quelle proposte con riferimento ai bilanci successivi. In altri termini, le contestazioni rivolte ai bilanci devono riguardare le stesse voci e presentare lo
stesso tenore.
Se così non fosse, vale a dire, se l’impugnativa
sub iudice presentasse caratteristiche peculiari, e
pertanto, si differenziasse dalle impugnative relative ai bilanci successivi, non opererebbe la barriera
preclusiva del giudicato (per evidente differenza tra
le azioni di impugnativa dei bilanci, avuto riguardo
alla causa petendi): ciò, pertanto, implicherebbe
l’ammissibilità delle contestazioni aventi ad oggetto voci, profili in ordine alle quali il Tribunale (in
primo grado) non ha preso posizione.
Nel caso di specie, la Corte ha, correttamente,
eseguito tale accertamento, negando che l’impugnativa del bilancio 2007 presentasse “caratteristiche peculiari e differenti dagli altri giudizi” o comunque “contestazioni” altre (e diverse) rispetto a
quelle su cui il Tribunale aveva “già preso posizione”.
Quanto alla seconda premessa, in diritto, essa
consiste nell’accogliere una nozione del c.d. principio di continuità il cui rispetto importi la necessità
- in caso di accoglimento della declaratoria di nullità o l’annullamento del bilancio - non solo della
modifica del bilancio inficiato dalla declaratoria o
di quello relativo all’esercizio in cui tale declaratoria interviene, ma della ricostituzione della completa catena di bilanci, e pertanto, la modifica anche dei bilanci relativi agli esercizi intermedi.
(5) “Ai fini dell’applicazione dell’art. 2434-bis c.c. che, al primo comma, esclude la proponibilità delle azioni di impugnazione
del bilancio di un esercizio allorché sia già stato approvato il bilancio dell’esercizio successivo, si deve avere riguardo al momento della proposizione dell’azione non potendo assumere rilievo l’approvazione dei bilanci successivi in corso di giudizio”
(Trib. Pavia 20 febbraio 2007 e Trib. Grosseto 10 ottobre 2012,
entrambe in DeJure; non sussistendo ostacolo alcuno, in tale
eventualità, in caso di eventuale accoglimento dell’impugnativa, alla conseguente adozione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2377, comma 7, c.c. e 2434-bis, comma 1, c.c.,
dei provvedimenti necessari, vale a dire, delle modifiche necessarie da apporre ai bilanci successivi al fine di garantire il rispetto del principio di continuità dei bilanci di cui le predette
norme sono espressione).
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Limiti oggettivi del giudicato: la
conformazione della causa petendi nelle
impugnative di bilancio
La soluzione apprestata dalla Corte, con riguardo
alla prima delle premesse (di ordine fattuale) sopra
illustrate, risulta conforme all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la causa petendi (elemento
di identificazione della domanda sulla quale si radica il contraddittorio) identificativa di una azione
di impugnazione del bilancio (6) di una società di
capitali “non è costituita esclusivamente dall’allegazione degli elementi del fatto sui quali si fonda
la pretesa, ma include necessariamente le ragioni
di diritto che giustificano le richieste formulate in
giudizio”; di talché l’oggetto del giudicato comprende esclusivamente le ragioni effettivamente
dedotte dalla parte (7).
Nel caso di specie, infatti, la Corte ha, correttamente, eseguito l’accertamento volto ad individuare eventuali profili di “novità”, negando che l’impugnativa del bilancio 2007 presentasse “caratteristiche peculiari e differenti dagli altri giudizi” o comunque “contestazioni su alcune voci di bilancio
in ordine alle quali il tribunale non avrebbe preso
in alcun modo posizione”: in particolare, la Corte
ha evidenziato la coincidenza delle poste di bilancio censurate, ed inoltre, che rispetto a talune di
esse parte appellante aveva “aggiun[to] tuttavia ulteriori considerazioni … che, in quanto introdotte
soltanto in appello, debbono considerarsi nuove e
inammissibili”.
A questo proposito, merita di essere rilevato che
il predetto orientamento non può dirsi pacifico.
Ed infatti, non si rinviene unanimità di vedute
in merito a cosa integri la causa petendi di una impugnativa di bilancio, in particolare, se essa sia costituita dalla sola posta o voce di bilancio censurata o se essa inglobi anche le specifiche irregolarità
dedotte con riferimento a quest’ultima; conseguentemente, v’è discordanza in merito alla legittimità:
(i) da un lato, per la parte, di dedurre ulteriori (8)
(6) Ci si riferisce, evidentemente, alla sola azione di nullità,
considerata la tradizionale “corrispondenza tra vizi cd. di procedimento e sanzione dell’annullabilità da un lato, e tra vizi di
contenuto e sanzione della nullità dall’altro … sostanzialmente
condivisa da giurisprudenza e dottrina” (così D. Corrado, Sub
art. 2434-bis cod. civ., Obbligazioni e bilancio, in Mario Notari L.A. Bianchi (a cura di), Commentario alla riforma delle società,
2006, Milano, 660).
(7) Così Cass. 9 luglio 2005, n. 14467, in questa Rivista,
2006, 582, con nota di Fico, Rappresentazione in bilancio delle
spese di manutenzione.
(8) Ossia diversi rispetto a quelli lamentati con gli atti introduttivi.
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profili di irregolarità, nel prosieguo del processo o
in appello, con riferimento alla medesima voce di
bilancio già censurata (sebbene per altri aspetti);
(ii) dall’altro, per il giudice, di dichiarare la nullità
del bilancio per ragioni diverse rispetto a quelle addotte dalla parte medesima.
Come anticipato, un primo orientamento ritiene
che la causa petendi (elemento di identificazione
della domanda sulla quale si radica il contraddittorio) identificativa di un’azione di impugnazione del
bilancio di una società di capitali “non [sia] costituita esclusivamente dall’allegazione degli elementi
del fatto sui quali si fonda la pretesa [elementi di
fatto che, in caso di impugnativa di bilancio, sono
integrati dalle singole ‘poste di bilancio’ (9)], ma
includ[a] necessariamente le ragioni di diritto che giustificano le richieste formulate in giudizio”, con la conseguenza che “l’allegazione dell’irregolarità di una
voce non giustifica l’annullamento del bilancio per
qualsiasi ragione attinente a quella voce, ancorché
diversa - anche solo in diritto - da quelle originariamente indicate”, inoltre, coerentemente, che
“nelle azioni di nullità, nelle quali il potere d’ufficio del giudice di pronunciare la nullità … deve
coordinarsi con il principio della domanda … non
è consentita la dichiarazione di nullità per un motivo diverso da quello indicato dalla parte” (10).
In altri termini, l’impugnazione di una deliberazione societaria “esige la specifica deduzione delle
ragioni di nullità che - si assume - la inficiano, in
modo che la materia del contendere risulti precisamente definita, in relazione sia alla delimitazione
dell’ambito entro e non oltre il quale devono esercitarsi i poteri decisori del giudice, sia rispetto al
principio del contraddittorio”, con la conseguenza
che “nell’ambito di una corretta dialettica processuale, non è consentito, attraverso deduzioni inizialmente mantenute in termini di assoluta genericità, lasciare aperta la via alla successiva introduzione di ragioni del contendere diverse o, comunque, non comprese in quelle già esplicitate”, ti talché la “deduzione di vizi non specificamente fatti
(9) M. Ferrara - A. Pinamonti, La delibera di bilancio, Milano,
2001, II, 898.
(10) Così Cass. 9 luglio 2005, n. 14467, cit. Nella fattispecie
decisa la S.C. ha confermato la sentenza di secondo grado, la
quale aveva ritenuto inammissibile la deduzione in appello della irregolarità dell’appostazione nello stato patrimoniale, piuttosto che nel conto economico, delle spese di manutenzione
di un immobile locato, mentre in primo grado era stato dedotto soltanto che quelle spese, in quanto costi di manutenzione
ordinaria, dovevano figurare, quale credito nei confronti del locatario, nell’attivo del conto economico invece che al passivo
come costi di esercizio.
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valere con l’atto di citazione [in primo grado, inevitabilmente, integra] … introduzione, negli originari termini processuali, di una nuova materia del
contendere” (11).
Tuttavia, non mancano pronunzie in cui, sollevata da una delle parti eccezione di novità della
domanda, a seguito della deduzione di nuove ragioni di nullità, vale a dire, della prospettazione di
nuove censure rispetto a quelle inizialmente proposte o prospettate da controparte, i giudici hanno
deciso in favore della inaccoglibilità della stessa, in
ragione della rilevabilità d’ufficio della nullità della
delibera di approvazione del bilancio.
Ed infatti, è stato affermato che “a prescindere
da ogni problema in ordine alla oggettiva ‘novità’
della domanda, l’inaccoglibilità dell’eccezione
[‘con la quale la convenuta ha lamentato la novità
della domanda laddove, mentre in citazione era
stato censurato l’accorpamento dei fondi e, quindi,
posta la questione della ‘separazione’ dei fondi, solo
nella memoria collegiale è stato sollevato il diverso
problema della ‘separata riduzione’ dei valori’] appare chiara ove si consideri che, poiché la censura aggiuntiva comunque si inquadra nel paradigma della
nullità, il giudice ha il potere-dovere di prenderla in
esame, se pur il suo intervento è delimitato dall’interesse dedotto dall’attore”, poiché “la nullità può essere
rilevata ‘anche d’ufficio, anche cioè per motivi
non specificamente dedotti dall’attore, solo se questi siano compresi nella materia introdotta dall’attore stesso’” (12).
Risulta pertanto necessario indagare cosa debba
intendersi per “materia introdotta dall’attore stesso”.
Pare di potersi affermare che essa corrisponda,
secondo l’orientamento citato, alla (sola) voce (o
posta) di bilancio censurata. In ossequio a tale
orientamento, pertanto, potrebbe aversi, ad esempio, che “impugnato un bilancio per illecita valutazione degli ammortamenti, il giudice può indagare
d’ufficio sul prezzo di costo” (13).
In altri termini, il potere del giudice di rilevare
d’ufficio la nullità della delibera di approvazione
del bilancio “può essere esercitato con riferimento
alle voci interessate dalla censura originaria (o comunque facenti parte della materia del contendere); rispetto a tali voci, il giudice può rilevare motivi di nullità anche diversi da quelli originariamente proposti” (14).
(11) Cass. 29 aprile 1994, n. 4177, in questa Rivista, 1994,
9, 1201, la quale ha confermato la sentenza con cui la Corte di
Appello “ha ritenuto nuove le ulteriori ragioni di nullità della
deliberazione impugnata prospettate nella comparsa conclusionale di primo grado. Il ricorrente, nell’atto di citazione, aveva lamentato la carente chiarezza e precisione del bilancio, del
conto economico e della relazione, nonché la mancata osservanza delle norme di legge nella redazione del bilancio, in particolare, con riferimento (a) all’illegittima rivalutazione di un cespite immobiliare; (b) alla mancata scritturazione di perdite e
di un congruo accantonamento al fondo ‘rischi’ in relazione al
contenzioso attivo ed a quello passivo (controversia con ex dipendenti, richieste di una ex amministratrice); (c) al mancato
accantonamento al fondo ‘svalutazione di magazzino’: e tutto
ciò ha formato oggetto di specifico esame (censurato nei successivi motivi del ricorso) dalla Corte d’Appello” mentre “nella
comparsa di risposta [rectius comparsa conclusionale] furono
dedotti la mancata disaggregazione dei dati con riguardo a distinti settori e sottosettori della società: la mancata indicazione
dei criteri di valutazione delle varie categorie di beni; l’indicazione sommaria delle variazioni intervenute nelle diverse partite dell’attivo e del passivo; l’insufficienza dei dati relativi al personale dipendente; la mancata ripartizione degli interessi passivi conglobati in un’unica voce; il conglobamento in un’unica
voce delle immobilizzazioni tecniche e del fondo ammortamento; l’iscrizione generica e globale dei costi pluriennali; l’insufficienza delle ‘voci creditori diversi’ e debitori diversi; il
mancato accantonamento del fondo ‘risoluzione rapporto
agenti di vendita’; l’insufficienza delle voci ‘ratei passivi’, ‘ratei
attivi’, ‘clienti concorsuali’, ‘fondo svalutazione crediti e magazzini’; il riferimento globale ai ricavi delle vendite; il mancato
dettaglio delle voci ‘sopravvenienze attive e proventi diversi’;
la mancata disaggregazione delle rimanenze iniziali e degli acquisti, del conto del personale e degli interessi passivi; la globale indicazione degli ammortamenti e dell’accantonamento
del T.F.R. e l’omissione del di quello relativo agli agenti; la
mancata specificità di tutte le altre voci; l’insufficienza dei criteri di valutazione delle merci e la non esplicitazione dei criteri
di valutazione dei crediti; l’omesso dettaglio dei ratei attivi e
dei ratei passivi di partite relative a più esercizi”.
(12) Trib. Napoli 31 ottobre 1991, in questa Rivista, 1992, 5,
679.
(13) Trib. Napoli 31 ottobre 1991, cit., con nota adesiva di
V. Salafia, secondo il quale “il Tribunale fa buon governo della
regola secondo cui il giudice non può pronunciare senza domanda, in forza della quale si ritiene in giurisprudenza che il
giudice non può pronunciare una nullità dell’atto sottoposto al
suo giudizio se non vi è domanda dell’interessato, salvo che
egli debba valutare la validità dell’atto stesso per giudicare sulla domanda”, aggiungendo che, nel caso deciso dal Tribunale
partenopeo, “il problema da risolvere era più semplice, perché
al giudice era stata chiesta la dichiarazione di nullità della delibera approvativa del bilancio di esercizio ed era sorta questione solo sulla deducibilità con la comparsa conclusionale di un
argomento nuovo fondato su un ulteriore difetto del bilancio,
attinente però ad una posta espressamente contestata”.
(14) M. Ferrara - A. Pinamonti, La delibera di bilancio, Milano, 2001, II, 899. Sembra ritenere sufficiente, ai fini della individuazione della “materia introdotta dall’attore”, la sola posta
o voce di bilancio censurata anche Cass. 2 maggio 2007, n.
10139, in Giust. civ., 2008, 2, 453, la quale ha confermato la
decisione della Corte d’Appello di Roma con cui quest’ultima
aveva respinto l’eccezione di giudicato proposta da parte appellante in ragione del fatto che, sebbene “L’art. 2377 c.c. afferm[i] che l’annullamento della deliberazione dell’assemblea
ha effetto nei confronti di tutti i soci … Non rientra in tali ipotesi il giudicato di rigetto della domanda di annullamento o di
nullità della delibera assembleare, perché esso non incide sulla
validità della delibera e di conseguenza sulla sua obbligatorietà
nei confronti dei soci ai sensi dell’art. 2377 c.c., comma 1, e
tantomeno sulle posizioni giuridiche soggettive eventualmente
derivanti nei confronti dei terzi che non siano soci dalla delibe-
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Tuttavia, difficile appare conciliare tale statuizione con la vigenza del principio della domanda e
del contraddittorio. Ed infatti, come obiettato dalla
giurisprudenza di cui al primo orientamento, “il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità
ex art. 1421 c.c., va coordinato col principio della
domanda fissato dagli artt. 99 e 112, codice procedura civile, con la conseguenza che … una diversa
ragione di nullità non può essere rilevata d’ufficio
né può essere dedotta per la prima volta in grado
di appello trattandosi di domanda nuova e diversa
da quella in origine proposta dalla parte nell’esercizio del suo diritto d’azione (così Cass. sent. n.
7462/1986, conf. Sentt. n. 4068/1987; n.
2398/1988)” (15) o, ancora, che “la nullità della
deliberazione di approvazione del bilancio di una
S.p.A. può essere pronunciata soltanto in base a
vizi la cui denuncia risalga alla citazione introduttiva, non essendo consentito, nemmeno sulla premessa di illiceità, superare ed aggirare il principio
del contraddittorio (art. 101 c.p.c.), mentre neppure il giudice può pronunciare la conseguenziale
nullità quando quella non risulti tempestivamente
dedotta o non risultino dedotti i fatti dai quali essa
dovrebbe dipendere (Cass. 9 marzo 1971, n.
661)” (16).
Unanimità di vedute pare sussistere esclusivamente in merito al fatto che “non bast[i] … la domanda di dichiarazione di nullità della deliberazione intorno ad un determinato bilancio, per generi-
che violazioni delle norme sui bilanci, a far scattare l’attività qualificatoria del Giudice” (17).
In merito alla questione della rilevabilità ex officio di cause di nullità del bilancio diverse da quelle
dedotte dalle parti, questione strettamente connessa (come si è sopra illustrato) a quella circa la conformazione della causa petendi in caso di impugnativa di bilancio, fornisce spunti interessanti la recente pronunzia delle Sezioni Unite in materia di rilievo officioso di cause di nullità negoziali (18).
Le statuizioni in essa contenute, infatti, seppur
formulate con riferimento alle impugnative negoziali, ben rilevano anche in materia di nullità inficianti delibere assembleari, considerato che il secondo comma dell’art. 2379 c.c. riproduce fedelmente la norma di cui all’art. 1421 c.c. (solo richiamata dal testo pre-riforma dell’articolo medesimo), il che ben consente di integrare la (scarna)
regolamentazione di cui all’art. 2379 c.c. con quella di cui agli artt. 1421, 1422, 1423 c.c., nonché
con gli approdi giurisprudenziale sviluppatisi in riferimento a questi ultimi (19).
Circa “i rapporti tra una domanda di nullità proposta dalla parte e la rilevazione ex officio di una
causa diversa di nullità”, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, è giunta, infatti, ad affermare l’ammissibilità di quest’ultima ritenendo “non più condivisibile” la tesi della “collocazione della azione di
nullità nella categoria delle domande eterodeterminate”.
ra stessa”, affermando, seppur ad abundantiam, che, in ogni
caso, “l’unica posta di bilancio in ordine alla quale era stata
denunciata la contrarietà ai criteri di redazione del bilancio dettati dagli artt. 2423 e ss. c.c., oggetto di censura anche nel
presente giudizio, era quella relativa agli ammortamenti, rispetto alla quale peraltro il giudice non aveva pronunciato nel
merito, rilevando il difetto d’interesse ad agire degli impugnanti”, in tal modo rigettando le argomentazioni, dedotte dalla
parte, secondo cui “l’azione di nullità della delibera assembleare di approvazione del bilancio sarebbe identificata dal petitum, rappresentato dalla richiesta di accertamento della nullità
della delibera, e dalla causa petendi, costituita dalla impossibilità od illiceità dell’oggetto, mentre si tratterebbe di azione che
potendo essere esperita, nel sistema previgente, da qualunque
socio, vedrebbe un caso di co-legittimazione, con la conseguenza che l’avvenuto esperimento dell’azione da parte di uno
dei co-legittimati comporterebbe la consumazione dell’azione
in capo a tutti gli altri co-legittimati. E, per il principio per cui il
giudicato copre il dedotto ed il deducibile, sarebbe irrilevante
che sia stata in concreto dedotta la contrarietà a legge di alcune poste soltanto del bilancio oggetto della delibera di approvazione, perché tutti i possibili vizi della delibera non dedotti rimarrebbero coperti dal giudicato, in virtù del summenzionato
principio”.
(15) Corte App. Milano 31 maggio 1991, in questa Rivista,
1991, 1654, con nota di Fattori.
(16) Corte App. Milano 29 settembre 1981, in Foro pad.,
1983, I, 41 in part. 47, rigettando così il motivo di appello con
cui la parte si doleva dl fatto che “il Tribunale a[vesse] erronea-
mente ritenuto inammissibili le censure mosse per la prima
volta in comparsa conclusionale, considerandole alla stessa
stregua di una domanda nuova, laddove trattavasi invece di integrazione di precedenti deduzioni, di nuovi motivi di invalidità
di un atto - il bilancio - già formante oggetto di discussione”;
vedere anche Trib. Milano 8 aprile 1982, in Giur. it., 1983, I, 2,
842).
(17) Corte App. Milano 29 settembre 1981, cit.
(18) Ci si riferisce a Cass., SS.UU., nn. 26242 e 26243 del
2014, le quali hanno affrontato questioni quali il rapporto tra
impugnative negoziali e rilievo officioso della nullità nonché indagato la legittimità del rilievo officioso di una causa di nullità
(negoziale) diversa rispetto a quella dedotta dalla parte.
(19) Nel senso indicato nel testo si veda G. Muscolo, Il nuovo regime dei vizi delle deliberazioni assembleari nella s.p.a., in
questa Rivista, 2003, 4, 540 e 675. Contra A. Stagno D’Alcontres, L’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea di s.p.a. La
nuova disciplina, in Liber amicorum Campobasso, II, 2006, 203,
214-215, secondo cui “l’espunzione dal testo dell’art. 2379
cod. civ. del riferimento agli artt. 1421, 1422 e 1423 e, sul piano sostanziale, l’introduzione nel contesto delle regole proprie
della nullità delle delibere di s.p.a. di disposizioni automaticamente dirette a regolare sanabilità e legittimazione all’esercizio
dell’azione e decadenza” sarebbero prova della “specialità e
specificità della nuova normativa, che configura un sistema
d’invalidità del tutto autonomo”, dovendosi, pertanto, “esclud[ere] … la necessità di un ricorso in sede interpretativa alle
regole proprie dell’invalidità dei contratti”.
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sembrerebbero, pertanto, avallare la ricostruzione
della causa petendi dell’azione di impugnativa di bilancio in termini più generali, tale da ricomprendere tutti i profili di irregolarità rilevabili con riferimento alla voce o posta di bilancio censurata,
area entro la quale può esplicarsi il potere di rilievo
officioso del giudice, con il solo limite della necessaria attivazione del contraddittorio sulla causa di
nullità rilevata ex officio.
In altri termini, la Suprema Corte ha affermato
la “legittimità del rilievo officioso del giudice di
una causa diversa di nullità rispetto a quella sottoposta al suo esame dalla parte”, dovendosi accordare alla domanda di accertamento della nullità “un
trattamento analogo a quello concordemente riservato alle domande di accertamento di diritti autodeterminati, inerenti a situazioni giuridiche assolute, anch’esse articolate in base ad un solo elemento
costitutivo”: “il giudizio di nullità/non nullità del
negozio (il thema decidendum e il correlato giudicato) sarà, così, definitivo e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano
stati fatti valere dall’attore” (20).
Secondo la Corte “la sentenza dichiarativa della
nullità di un contratto per un motivo diverso da
quello allegato dalla parte corrisponde pur sempre
alla domanda originariamente proposta”, considerati:
(a) la perdurante coincidenza di causa petendi, da
intendersi quale “inidoneità del contratto a produrre effetti a causa della nullità”, nonché del petitum,
da intendersi quale “la declaratoria di invalidità e
di conseguente inefficacia ab origine dell’atto”;
(b) la circostanza che le domande aventi ad oggetto una questio nullitatis postulano tutte (vale a
dire, indipendentemente dal motivo di nullità dedotto dalla parte) “l’accertamento negativo dell’esistenza del rapporto contrattuale”.
Unico limite alla rilevabilità ex officio di una
causa diversa di nullità deve ritenersi “il rispetto
del principio del contraddittorio ex art. 184 IV
comma e 101 II comma c.p.c.”: ed infatti, la nullità
potrà essere dichiarata in ragione di un motivo diverso rispetto a quello fatto valere dalla parte solo
qualora “questa emerga dai fatti allegati e provati
o, comunque, ex actis”, inoltre, “previa attivazione
del contraddittorio sulla questione, incorrendo altrimenti nel vizio della cd. sentenza della terza
via”.
I recentissimi approdi giurisprudenziali illustrati
(formulati in materia di impugnativa negoziale)
Il cd. principio di continuità dei bilanci può essere descritto come il principio secondo cui “ogni
bilancio deve avere il proprio antecedente contabile ed economico nel precedente e deve costituire il
precedente contabile ed economico del successivo” (21).
Dichiarata nulla, o annullata, una delibera di approvazione del bilancio, per vizi di quest’ultimo, è
imposto:
(i) agli amministratori, al consiglio di gestione e
al consiglio di sorveglianza, secondo il regime di
governance adottato dalla società, di “prendere i
conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità” (così prevede l’art. 2377, comma 7, c.c.,
richiamato dall’art. 2379, comma 4, c.c., in merito
ai quali, tuttavia, l’articolo non fornisce alcuna indicazione);
(ii) che il bilancio dell’esercizio, nel corso del
quale viene dichiarata l’invalidità di un precedente
bilancio, “t[enga] conto delle ragioni di questa”
(così recita il comma 3, dell’art. 2434 bis c.c.).
In merito a quali siano i “conseguenti provvedimenti” imposti agli amministratori si sono sviluppati due distinti e contrapposti orientamenti (22).
Secondo un primo orientamento, gli amministratori non sarebbero tenuti ad eseguire alcuna
modifica sui bilanci “successivi” rispetto a quello
dichiarato nullo o annullato (23).
(20) Così facendo la Corte ha espressamente mutato la propria giurisprudenza “ampiamente consolidata … nel senso dell’impossibilità per il giudice di procedere al rilievo officioso di
un motivo di nullità diverso da quello fatto valere dalla parte
(ex multis, Cass. nn. 11157/1996, 89/2007, 14601/2007,
28424/2008, 15093/2009, 11651/2012”, orientamento fondato,
per l’appunto, “sulla riconducibilità dell’istanza di declaratoria
della nullità alla categoria delle domande (relative a diritti) eterodeterminate”.
(21) V. Salafia, La delibera di approvazione del bilancio di
esercizio, in questa Rivista, 2008, 5, 553 ss.
(22) La sentenza in commento, invece, non ha affrontato la
questione, altrettanto dibattuta, del rapporto tra i doveri impo-
sti dalla norma di cui all’art. 2377, comma 7, c.c. e la norma di
cui all’art. 2434 bis c.c., in particolare, se il comando contenuto nella seconda disposizione sia “sostitutivo o aggiuntivo” rispetto a quanto stabilito dalla prima (l’espressione è di G.E.
Colombo, L’invalidità dell’approvazione del bilancio dopo la riforma del 2003, in Riv. soc., 2006, 961).
(23) F. Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2003, 363; F.
Corsi, Le nuove società di capitale, Milano, 2003, 186; L. Quattrocchio, Art. 2434-bis, in Il nuovo diritto societario, Commento
diretto da G. Cottino - G. Bonfante - O. Cagnasso - P. Montalenti, Bologna, 2004, 1373, secondo il quale la norma di cui al
comma 3 dell’art. 2434-bis c.c. deve essere intesa nel senso
che solo “il bilancio d’esercizio successivo a quello la cui deli-
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Il principio di continuità del bilancio e le
sue implicazioni pratiche
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Anteriormente rispetto alla riforma del diritto
societario, intervenuta nel 2003, tale approdo veniva giustificato, ad esempio, adducendo che non
vi sarebbe stato alcun interesse della società al rifacimento di bilanci ormai superati nel tempo, considerato che “è all’ultimo bilancio approvato e non a
quelli passati, infatti, che l’ordinamento ricollega
… effetti di conformazione dell’organizzazione” (24).
Successivamente alla riforma del 2003, si è affermato che sarebbe lo stesso tenore letterale dell’art.
2434 bis c.c. ad imporre che “a seguito di pronuncia che dichiara l’invalidità del bilancio gli amministratori siano obbligati a intervenire esclusivamente sul bilancio dell’esercizio nel corso del quale
la pronuncia ha avuto luogo”, avendo tale disposizione “l’effetto di circoscrivere l’obbligo di attivazione degli amministratori, chiarendo che esso riguarda solo il bilancio dell’ultimo esercizio, e non,
come si riteneva nel vigore della previgente disciplina, tutti i bilanci che fossero succeduti a quello
colpito dalla pronuncia di invalidità” (25).
Secondo altro orientamento, invece, apparentemente dominante in giurisprudenza (26), la declaratoria di nullità o l’annullamento del bilancio imporrebbero non solo la modifica del bilancio dichiarato nullo o annullato e di quello relativo all’esercizio nel corso del quale le predette invalidità
sono state pronunciate, ma anche la modifica dei
bilanci relativi agli esercizi intermedi rispetto ai
primi (27).
Nella pronunzia in commento la Corte ha affermato che il principio della continuità dei bilanci
impone agli amministratori, ove un bilancio venga
dichiarato nullo o annullato, di redigere “nuovamente il bilancio impugnato e quelli degli esercizi
intermedi affetti dal medesimo vizio”, in tal modo
(condivisibilmente) avallando il secondo degli
orientamenti illustrati.
Tale opinione appare di gran lunga quella prevalente in giurisprudenza.
Essa è stata di recente affermata anche in un recentissimo provvedimento (inedito) del Tribunale
di Roma (28).
Il Tribunale ha argomentato in favore della necessità di “procedere alla correzione anche dei bilanci intermedi intervenuti tra la data di impugnazione del primo e la data in cui interviene il passaggio in giudicato della pronuncia che definisce
quel giudizio” affermando che:
(i) detta correzione ben si presenta quale “l’unica soluzione concettualmente coerente con il principio di continuità”, il quale, altrimenti, “non verrebbe appieno rispettato, in quanto a seguito del
passaggio in giudicato di una decisione che accerta
un determinato vizio, si avrebbe, da una parte, un
bilancio corretto (quello oggetto di impugnativa)
e, dall’altra, l’adeguamento soltanto a partire dal
bilancio relativo all’esercizio in cui interviene il
passaggio in giudicato della sentenza”;
(ii) inoltre, evidenti sarebbero le conseguenze
negative che si avrebbero, a seguito della esclusione dell’obbligo di correzione dei bilanci, quanto al-
berazione sia stata dichiarata invalida debba riportare le correzioni discendenti dalla pronuncia di invalidità”; interpretazione,
quest’ultima, condivisa anche da M. Silvetti, Invalidità del bilancio e principio di continuità prima e dopo la riforma, in questa
Rivista, 2004, 1423; A. Bracciodieta, La nuova società per azioni, Milano, 2006, 498; A. Genovese, Le fattispecie tipiche di invalidità, in Liber amicorum G.F. Campobasso, diretto da P. Abbadessa - G. .B. Portale, 2, 2006, 9, 246.
(24) G. Meo, Gli effetti dell’invalidità delle deliberazioni assembleari, Milano, 1998, 301-308, ed ivi in particolare 304. Tra
le opinioni ancor più risalenti si segnalano: B. Libonati, Osservazioni in tema di bilanci irregolari e di interesse a farne dichiarare l’irregolarità, in Riv. dir. comm., 1975, II, 167-168, secondo il
quale “il bilancio dovrebbe essere corretto, e non propriamente rifatto”, con la considerazione che “quando il vizio attiene
alle valutazioni, né i giudici, né eventuali esperti, né amministratori o assemblea possono annullare il decorso del tempo,
che ciò è materialmente impossibile”; P. Ferro - Luzzi, Vizi del
bilancio e vizi della delibera di approvazione, in Giur. comm.,
1982, I, 820, dove si sottolinea l’interesse sostanziale dell’impugnante per l’ultimo bilancio approvato, e non per quelli anteriori.
(25) Così D. Corrado, Sub art. 2434-bis cod. civ., in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti - L.A.
Bianchi - F. Ghezzi - M. Notari, Milano, 2006, 681 e 691). Nel
medesimo senso, si vedano anche: M. Bussoletti, Sub art.
2434-bis, in Commentario, Niccolini - Stagno D’Alcontres,
2004, 1090; D. Spagnuolo, Sub art. 2434-bis, in Commentario
Sandulli - Santoro, 2003, 2, II, 858; F. Corsi, Le nuove società di
capitali, Milano 2003, 186.
(26) Nonostante la penuria di precedenti rinvenibili in materia, per lo più risalenti: Cass. 9 giugno 1977, n. 2379, in Dir.
fall., 1977, II, 611-612; Trib. Milano 5 febbraio 1981, in Giur.
comm., 1981, II, 805; Trib. Milano 4 dicembre 1986, in questa
Rivista, 1987, 412; Trib. Milano 9 luglio 1987, in questa Rivista,
1987, 1060, Trib. Milano 16 giugno 1988, in questa Rivista,
1988, 1148.
(27) In dottrina è stato affermato che oltre “alla materiale
sostituzione del bilancio dichiarato invalido” dovrebbe procedersi “eventualmente anche …[al] la correzione di quelli successivi, se il bilancio invalido abbia influito nella loro redazione”; tale correzione “non sarà necessaria solo se la posta dichiarata invalida si fosse esaurita nell’esercizio in cui è stata
considerata dalla sentenza”(così V. Salafia, La delibera di approvazione del bilancio di esercizio, in questa Rivista, 2008, 5,
553 ss.). nel medesimo senso, si vedano anche: G. Zanarone,
L’invalidità delle deliberazioni assembleari, in Trattato delle società per azioni diretto da G. E. Colombo - G. B. Portale, Torino, 3, II, 1993, 354, nt. 113; G.E. Colombo, Il bilancio d’esercizio, in Trattato delle società per azioni diretto da G. E. Colombo
- G. B. Portale, Torino, 1998, 7, I, 456.
(28) Trib. Roma 8 ottobre 2014, n. 19829, in www.giurisprudenzadelleimprese.it.
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la loro funzione informativa: ed infatti, tale esclusione impedirebbe di “trovare nei bilanci di un determinato arco temporale l’utilizzazione di criteri
omogenei” per la redazione degli stessi, e pertanto,
impedirebbe, anche a terzi, di “riscostruire la sequenza dei valori (patrimonio netto, utile o perdita
di esercizio) e dei rapporti tra valori negli anni”. In
altri termini, sarebbe ostacolata la “confrontabilità” dei valori corrispondenti da un esercizio all’altro, e pertanto, l’analisi dell’andamento della gestione stessa; il che “sarebbe all’evidenza lesivo della funzione informativa - dei soci e dei terzi - che i
bilanci di esercizio dovrebbero assolvere”.
Conclusioni
Con la pronuncia in commento, pertanto, la
Corte ha ribadito, in particolare, come il rispetto
del principio di continuità dei bilanci imponga la
modifica anche del bilanci “intermedi” rispetto a
quello dichiarato nullo o annullato e quello relativo all’esercizio nel corso del quale tale pronunzia
interviene.
Tale soluzione appare, certamente, da condividersi.
È pacifico che il bilancio svolga una duplice funzione: organizzativa e informativa.
Come recentemente ribadito dalla Suprema
Corte, infatti, esso “si configura come un documento unitario, pur essendo destinato allo svolgimento di una duplice funzione - endosocietaria,
ponendosi quale strumento di gestione della società e di programmazione strategica - esosocietaria,
identificando il patrimonio sociale, la gestione,
l’andamento finanziario, in un’ottica di tutela dei
terzi” (così Cass. 25 giugno 2014, n. 14337).
(29) G. E. Colombo, L’invalidità dell’approvazione del bilancio dopo la riforma del 2003, in Riv. soc., 2006, 968-970.
42
In ragione della sua doppia anima di “documento interno per i soci” e, al contempo, “fonte di cognizione per i terzi”, “anello di congiunzione fra le
attività della compagine sociale e le esigenze e le
aspettative del mercato e dei creditori”, esso “deve
perciò essere predisposto nel rispetto di entrambe
le sue attitudini” (Cass. 25 giugno 2014, n. 14337,
cit.).
A prescindere da quale delle due finalità possa o
debba considerarsi prevalente, non può dubitarsi
che mentre negare, a seguito della declaratoria di
nullità o dell’annullamento di un bilancio, la necessità di ristabilire una sequenza completa di bilanci corretti nuocerebbe gravemente alla funzione
informativa, assolta dal bilancio, ammettere tale
necessità non avrebbe alcun impatto negativo sulla
funzione organizzativa, potendo tuttalpiù tale
adempimento, sotto quest’ultimo profilo, essere
giudicato “inutile” (29).
In conclusione, pare proprio di doversi ritenere,
conformemente a quanto esplicitamente affermato
dal Tribunale di Roma (30) nonché implicitamente confermato dalla pronunzia della Corte di Appello di Milano in commento, che solo attraverso
la ricostruzione di una sequenza completa di bilanci corretti possa dirsi garantita una completa ed efficiente attuazione della funzione informativa del
bilancio.
Ed infatti, esclusivamente ricostruendo una
omogenea “sequenza dei valori … e dei rapporti
tra valori … negli anni” (31) potrà garantirsi il diritto, dei soci e dei terzi, a conoscere la situazione
patrimoniale della società.
(30) Trib. Roma 8 ottobre 2014, n. 19829, cit.
(31) G. E. Colombo, op. cit., 968-969.
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Controllo notarile
Oggetto e limiti del controllo
notarile sulle delibere
straordinarie
Tribunale di Milano, Sez. Impresa B, 25 settembre 2015, decr. - Pres. ed Est. Perozziello
Società per azioni - Assemblea straordinaria - Deliberazione - Controllo notarile - Contenuto e limiti
(Cod. civ. art. 2436)
L’effettivo contenuto del c.d. “controllo sostanziale di legalità”, riservato alla fase di omologa notarile (quale naturalmente limitato ad un esame di carattere rigorosamente documentale ed alieno da ogni sindacato di merito), deve svolgersi alla luce di più generali parametri di conformità dell’atto al modello legale di riferimento.
Il Tribunale (omissis).
Con il ricorso in esame la società MACCORP ITALIANA spa chiede che il Tribunale “ai sensi degli artt.
2436 comma 4 c.c. e 737 c.p.c., dopo avere verificato
l’adempimento delle condizioni richieste dalla legge e
sentito il pubblico Ministero, voglia ordinare l’iscrizione
della deliberazione dell’assemblea straordinaria dei soci
della Società” assunta in data 8.7.15, avente ad oggetto
aumento del capitale sociale ed emissione di nuovi strumenti finanziari.
Nella specie i termini della vicenda in esame risultano
chiaramente evidenziati nella comunicazione 13.7.15
con la quale il notaio comunicava alla società il proprio
rifiuto a provvedere alla iscrizione della delibera in parola, rilevando che;
“- all’assemblea in data 8 luglio 2015 sono intervenuti i
soci titolari della totalità delle azioni in cui è suddiviso
il capitale, i quali, stando a quanto dichiarato dal presidente dell’assemblea stessa, risultano regolarmente
iscritti nel libro dei soci;
- i predetti soci, in base a quanto emerge dalle dichiarazioni rese dal presidente, non erano in possesso dei certificati azionari che incorporano le loro azioni, gravati
da pegno a favore di alcune banche finanziatrici e presso di esse depositati;
- le banche finanziatrici, nella loro qualità di creditori
pignoratizi, hanno inviato ai soci e alla società una comunicazione, in data 6 luglio 2015, nella quale asserivano l’avvenuto verificarsi di uno degli eventi dai quali
deriva l’acquisizione della legittimazione al voto da parte dei creditori pignoratizi stessi;
*- le banche finanziatrici comunicavano altresì, con la
medesima missiva, la loro intenzione di esercitare diritto di voto e conseguentemente il loro rifiuto dì rilasciare ai soci il biglietto di ammissione all’assemblea;
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*il presidente dell’assemblea, nella fase di apertura dei
lavori assembleari, prendeva atto di tale situazione ed
effettuava le seguenti dichiarazioni, come risultanti dal
verbale dell’assemblea di cui sì riporta il seguente stralcio: Il presidente rileva che le azioni sono costituite in
pegno e che in deroga all’articolo 2352 c.c. il diritto di
voto spetta ai soci, ai sensi degli atti di pegno in data 8
ottobre 2009 egli osserva altresì che con riferimento all’odierna assemblea i creditori garantiti, con comunicazione in data 6 luglio 2015, hanno manifestato la loro
intenzione di esercitare il diritto di voto al sensi dell’articolo 5,2 dell’atto di pegno.
Interviene quindi il socio Sviluppo 2015 S.r.l. (già Phase Europe Holding SA.) il quale informa i presenti che
la suddetta comunicazione delle banche è stata decisamente contestata dai soci in data 7 luglio 2015 in quanto non sussisterebbero i presupposti dell’esercizio del diritto dì voto da parte dei creditori garantiti e - fra l’altro
e in ogni caso - la comunicazione dei creditori garantiti,
alla luce di quanto esposto nella risposta dei soci, costituisce una violazione dell’obbligo di eseguire in buona
fede i contratti di finanziamento e l’atto di pegno nonché di specifici obblighi del medesimo e, pertanto, la
condotta delle banche è meramente, emulativa;
*in conseguenza di ciò il presidente dell’assemblea accertava la legittimazione dei soci all’intervento e al voto in assemblea, dichiarando la valida e regolare costituzione della stessa ….”
A fronte di una tale ricostruzione delle vicende assembleari, il notaio osservava in particolare che: “l’art. 10
dello statuto sociale dispone che hanno diritto di partecipare e dì votare in assemblea i soci che esibiscano i
certificati azionari regolarmente intestati o muniti di
una serie continua di girate ovvero, nel caso in cui i
certificati azionari fossero depositati presso un istituto
di credito, i soci che esibiscano il relativo biglietto di
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ammissione rilasciato dal medesimo istituto di credito;
il che pertanto non sembra rendere equipollente l’accertamento della legittimazione tramite le risultanze del
libro dei soci, giacché solo il certificato azionario o il biglietto di ammissione attribuirebbero la legittimazione
all’intervento”.
La valutazione dei notaio risulta contestata dalla società
interessata sulla base di un duplice assunto:
a) competenza esclusiva dei Presidente dell’Assemblea,
ex art. 2371 c.c., a procedere alla verifica dei requisiti
di regolare costituzione dell’assemblea e legittimazione
al voto (e nella specie fondatezza nel merito delle ragioni di ammissione dei soci al voto addotte dal Presidente, quali sopra richiamate);
b)limitazione del controllo notarile in sede di omologa
alla rilevazione di eventuali vizi di nullità ex artt. 2379
e 2479 ter comma 3° c.c. della delibera impugnata,
A parere del Collegio il primo assunto così menzionato
deve reputarsi inconferente ai fini della decisione, atteso che una attribuzione di potere non vale affatto di per
sé ad escludere, ed anzi normalmente implica, funzioni
di controllo sul concreto esercizio dei poteri attribuiti
(salva evidentemente ogni più approfondita valutazione
su oggetto e limiti di tali funzioni di controllo in relazione ai diversi ambiti di competenza in rilievo).
Il secondo assunto non può invece essere condiviso a
fronte innanzitutto del dato letterale rappresentato dalla
ampia formulazione dell’art. 2436 commi 1° e 3° c.c.
(anche alla luce della significativa distanza tracciata rispetto al controllo, espressamente definito .come “formale”, invece riservato all’ufficio del registro ai sensi
del comma 2° della medesima disposizione); a fronte
più in generale di stringenti ragioni di ordine sistematico in considerazione del pregnante potere di controllo
riservato al notaio in fase dì costituzione della società
ex art. 2329 c.c., inequivocabilmente dì carattere “sostanziale” (e ancora una volta chiaramente distinto dal
successivo controllo, espressamente definito come “formale”, riservato all’ufficio del registro ex art. 2330 c.c.).
Al riguardo, muovendo da rilievi di carattere testuale, il
Collegio (in conformità ad un orientamento dottrinale
che può ritenersi prevalente) ritiene innanzitutto di dover escludere la possibilità di interpretare i poteri previsti ex art. 2436 c.c. alla luce delle specifiche previsioni
di cui agli artt. 28 e 138 bis della legge notarile quali disposizioni piuttosto da reputarsi volte a delimitare lo
spazio (ristretto) di una eventuale responsabilità del notaio sotto lo specifico profilo disciplinare nel più ampio
ambito di competenza allo stesso attribuito e dunque
senza incidere in alcun modo su ordinarie forme di; responsabilità contrattuale o extracontrattuale comunque
soggette alla disciplina comune - e proprio per tali motivi si ritiene qui non pertinente il richiamo proposto
da parte ricorrente alla giurisprudenza formatasi in tema
di responsabilità disciplinare del notaio ai sensi appunto
dei menzionati artt. 28 e 138bis c.c.
Sotto il medesimo profilo, appare d’altro canto priva di
espresso supporto e anzi evidentemente ostacolata dal
diverso tenore letterale delle norme di riferimento la
pretesa pure avanzata di dedurre i limiti del controllo
44
notarile dalla disciplina di cui all’art. 2379 c.c. né un
tale invocato parallelismo pare trovare adeguato fondamento in ragioni di ordine sistematico, in nome di una
comune ispirazione ad una drastica limitazione di forme
di controllo svincolate dalla iniziativa dei diretti interessati. Invero tale prospettazione
* appare già di per sé poco appagante sotto il profilo
della coerenza interpretativa, una volta preso atto che
anche le delibere affette da vizi di nullità ex art. 2379
c.c.(secondo tale costruzione soggette ad omologa) risultano suscettibili di stabilizzazione in mancanza di iniziativa di parte - salva l’ipotesi limite di cui all’ultima parte del comma 1°:
* ma soprattutto risulta inidonea a dare conto della manifesta irriducibilità agli schemi di nullità/annullabilità
del potere di controllo spettante al notaio ex art. 2329
c.c. ovvero di ipotesi particolarmente delicate come
quelle di cui agli artt. 2379ter o 2504quater c.c. in cui
l’azione del notaio (quale necessariamente propedeutica
al controllo “formale” dell’ufficio del registro) vale addirittura, all’inverso, a determinare una drastica compressione del potere di impugnazione dei soggetti interessati
- secondo dunque una chiara divergenza di piani tra
controllo notarile e poteri privati di impugnazione che
emerge proprio in punti chiave della disciplina societaria in cui più forti sono avvertite peculiari esigenze di
tutela della generalità dei terzi.
Per tali motivi il Collegio ritiene in definitiva semplicemente non pertinente alla materia in oggetto il riferimento alla dicotomia nullità/annullabilità quale propria
di un ordinario giudizio contenzioso, condividendo piuttosto il diverso orientamento volto a ricostruire l’effettivo contenuto del ed. “controllo sostanziale di legalità” riservato alla fase di omologa notarile (quale naturalmente
limitato ad un esame di carattere rigorosamente documentale ed alieno da ogni sindacato dì merito) alla luce
di più generali parametri di conformità dell’atto al modello legale di riferimento in considerazione della qualità
ed estensione degli interessi coinvolti - secondo consolidata giurisprudenza di questo Tribunale (v in via esemplificativa decreti 13.5.10 rg 10736/09; 10.2.12 rg
10933/11 espressamente citato dal ricorrente ma in realtà
di orientamento esattamente opposto a quello invocato
dalla parte; 18.11,13 rg 8180/13; 22,12.14 rg 4978/14).
Muovendo da tali premesse:
Osi osserva innanzitutto che l’intera disciplina della costituzione e modifica del capitale sociale quale propriamente volta m primo luogo a definire presupposti e termini della responsabilità patrimoniale della società nei
confronti della generalità dei terzi, trascende evidentemente gli interessi dei soci e degli stessi creditori sociali
prò tempore, risultando piuttosto orientata alla tutela di
generali principi ed esigenze di certezza dei traffici secondo funzioni tipicamente soggette a controllo notarile (espressamente in materia v. le già menzionate previsioni di cui artt. 2329 o 2379 ter c.c.);
nella specie, in tema di aumento di capitale e in evidente analogia con le esigenze di tutela previste ex art.
2329 c.c., pare evidente l’interesse della generalità dei
terzi a poter fare ragionevole affidamento su un livello
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almeno minimale di tutela preventiva (assenza di vizi
già documentalmente emergenti) per quanto attiene la
stabilità delle delibere in materia a fronte di eventuali
rischi di successive impugnazioni che potrebbero comportare la totale vanificazione delle garanzie patrimoniali offerte attraverso l’assunzione della delibera e la
sua successiva esecuzione;
ii) con specifico riferimento al caso concreto in esame
non può condividersi l’assunto di parte ricorrente secondo cui il notaio avrebbe dovuto limitarsi a prendere
atto della affermazione del Presidente del! Assemblea di
avere proceduto alla verifica della rituale costituzione
dell’assemblea e della legittimazione al voto dei presenti, dovendosi ritenere che un tale (limitato) adempimento sarebbe piuttosto riconducibile a funzioni di controllo meramente “formale”, laddove un controllo di ca-
rattere sostanziale” presuppone al contrario una puntuale verifica del rispetto delle condizioni di legge e di-statuto espressamente destinate a vincolare l’esercizio dei
poteri del Presidente;
iii) nella specie risulta documentalmente manifesta (e
in verità addirittura “dichiarata”) la pretesa del Presidente dell’Assemblea di agire in violazione di una
espressa previsione statutaria
- mentre devono necessariamente reputarsi del tutto irrilevanti ai presenti fini le motivazioni di merito addotte a sostegno di una tale condotta quali semplicemente
non pertinenti, come già sopra rilevato alla sfera di valutazione del notaio rogante,
Alla stregua di tali considerazioni il Tribunale ritiene
dunque che non possa essere accolto il ricorso in esame,
(omissis).
IL COMMENTO
di Vincenzo Salafia
Nel condividere la decisione del Tribunale, si approfondisce il tema del controllo del notaio e
dell’ufficio del Registro imprese sulle deliberazioni societarie, destinate all’iscrizione nel predetto
Registro.
L’art. 2436 c.c. regola i controlli relativi alle deliberazioni assunte dall’assemblea straordinaria della società per azioni per la modificazione dello statuto sociale, stabilendo che il primo di essi deve essere svolto dal notaio, che ha verbalizzato la deliberazione, ed il secondo dall’ufficio del registro imprese al fine della sua iscrizione.
Quello notarile viene descritto come verifica
dell’adempimento delle condizioni stabilite dalla
legge e, se positivo, è seguito dal deposito della deliberazione nel Registro delle imprese con la contestuale domanda di iscrizione.
Quello dell’ufficio del Registro è descritto come
verifica della regolarità formale della documentazione prodotta e, se positivo, è seguito dall’iscrizione della deliberazione nel Registro.
Dei due controlli il primo riguarda il procedimento di assunzione ed il contenuto della deliberazione, il secondo attiene solo alla verifica della forma della documentazione prodotta, consistente
nella copia della deliberazione eseguita, di norma,
dal notaio verbalizzante.
Il controllo notarile, dunque, consiste nella verifica dell’adempimento delle condizioni stabilite
dalla legge, le quali non possono che riguardare le
regole del procedimento assembleare e del suo promovimento nonché quelle specifiche della deliberazione assunta.
Il notaio, cioè, deve accertare che l’assemblea è
stata convocata con l’osservanza delle regole relative alla sua convocazione, è stata costituita con
l’intervento dei soci e degli altri soggetti legittimati
(amministratori, sindaci ed eventualmente (art.
2352 c.c.) creditori garantiti da pegno su azioni,
usufruttuari di azioni e custodi di azioni sequestrati) ed ha deliberato una decisione con oggetto lecito e possibile.
In altri termini il notaio deve verificare che la
deliberazione sia imputabile all’assemblea della società, sia stata votata dalla maggioranza determinata dagli artt. 2368 ss. c.c., il suo oggetto sia lecito e
possibile.
La norma dell’art. 2436 c.c. si applica anche alle
assemblee della società a responsabilità limitata (1).
Il controllo successivo dell’ufficio del Registro imprese è regolato, oltre che dall’art. 2436 c.c., come
già detto, anche dall’art. 2189 c.c., il quale stabilisce
che, prima dell’iscrizione, l’ufficio deve anche accertare l’autenticità della sottoscrizione del soggetto richiedente ed il concorso delle condizioni richieste
(1) Cfr. art. 2480 c.c.
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dalla legge per l’iscrizione dell’atto. L’ufficio del registro, cioè, è tenuto a verificare che la deliberazione da iscrivere corrisponda al modello di deliberazione previsto dalla legge in relazione al suo oggetto (2). Al riguardo potrebbe, quindi, verificarsi un
contrasto con il risultato della verifica notarile.
Il provvedimento del Tribunale di Milano, qui
in esame, riguarda una fattispecie particolare, caratterizzata dal contrasto fra il notaio, che ha redatto il verbale della deliberazione, ed il presidente
dell’assemblea deliberante.
Contrasto che ovviamente non ha potuto manifestarsi nel corso dell’assemblea, durante il quale il
notaio, in veste di soggetto preposto alla redazione
del verbale delle operazioni, era tenuto a seguire (3)
le dichiarazioni del presidente dell’assemblea, riguardanti la regolarità della costituzione dell’assemblea,
l’identità e la legittimazione dei presenti, lo svolgimento dell’assemblea ed i risultati della votazione, e
ad inserirle nel documento che via via andava redigendo; si è però manifestato nel momento in cui il
notaio, concluso e sottoscritto il verbale, doveva,
nell’autonomo esercizio delle sue funzioni di soggetto obbligato a richiederne l’iscrizione nel Registro
imprese. In quel momento egli era tenuto anche a
verificare la legittimità della deliberazione, sia pure
limitatamente alla sua corrispondenza al modello legale di riferimento.
In quel momento, ha dovuto verificare se l’assemblea era stata costituita da soggetti legittimati ad intervenirvi ed a votare. Ha dovuto, pertanto, constatare che i soci intervenuti avevano dichiarato di essere legittimati all’intervento in assemblea e all’espressione del voto sui temi in decisione, sebbene
dichiarassero che le loro azioni erano state costituite
in pegno a favore di loro creditori. Ha dovuto anche verificare che, in contrasto con la norma dell’art. 2352 c.c., che attribuisce al creditore pignoratizio il voto relativo all’azione costituita in pegno,
salva diversa convenzione, il presidente dell’assemblea aveva ammesso i soci a votare nonostante che
non fosse stata provata l’esistenza di una diversa
convenzione da loro stipulata con i creditori ai fini
della loro legittimazione al voto in assemblea.
Questa constatazione rientrava nella funzione
del notaio quale soggetto richiedente l’iscrizione
nel Registro imprese, in quanto atteneva al con-
trollo della corrispondenza dell’assemblea dei soggetti votanti all’assemblea che nella fattispecie
avrebbe dovuto formarsi con la partecipazione dei
creditori pignoratizi delle azioni emesse dalla società deliberante. Il notaio non è legittimato a valutare l’esistenza di vizi o difetti della deliberazione
che ne determinino la nullità relativa, in quanto
sanabile e già sanata (4) o deducibile in giudizio
entro ristretti limiti temporali, il cui inutile decorso consolida l’atto (5), o l’annullabilità, ma è legittimato a verificare gli elementi costitutivi della deliberazione, fra i quali essenziale la corretta formazione dell’assemblea e la liceità dell’oggetto.
In esito a questa verifica il notaio aveva rifiutato
di procedere alla richiesta di iscrizione della deliberazione nel Registro delle imprese, donde il ricorso
degli amministratori della società al Tribunale affinché disponesse l’iscrizione dopo aver disatteso le
conclusioni cui il notaio era pervenuto.
Conseguentemente il Tribunale, dopo aver verificato che i soci intervenuti all’assemblea avevano
dichiarato di aver costituito in pegno le loro azioni
in favore di loro creditori ma non avevano provato
di aver convenuto con essi la loro conservazione
del diritto di voto, ha condiviso il rifiuto del notaio verbalizzante di non richiedere l’iscrizione della deliberazione nel Registro imprese, respingendo
l’istanza proposta dalla società, in dissenso dal rifiuto del notaio.
Ci si potrebbe chiedere perché il notaio verbalizzante e professionista esperto di diritto societario
non avesse segnalato al presidente dell’assemblea
l’errore in cui sarebbe caduto ove avesse ammesso
al voto i soci presenti; in realtà è probabile che il
notaio abbia richiamato l’attenzione del presidente
sulla norma dell’art. 2352 c.c. e sul difetto in concreto di una idonea prova della convenzione di deroga allegata dai soci. Tuttavia, poiché l’art. 2371
c.c. affida, anche in presenza del notaio come soggetto preposto alla redazione del verbale, al presidente dell’assemblea il potere di verifica della corretta costituzione dell’assemblea e della legittimazione degli intervenuti all’espressione del voto, sono prevalse le dichiarazioni del presidente sui rilievi fatti dal notaio, in assenza di vincoli di subordinazione del secondo rispetto al primo (6).
(2) Cfr. Sanfilippo in nota Trib. Catania 26 novembre 2011,
in Giur. comm., II, 2002, 464.
(3) Cfr. artt. 2371 e 2375 c.c.
(4) Cfr. art. 2379 bis c.c.
(5) Cfr. art. 2379 ter c.c.
(6) Cfr. sul tema Di Sabato, “Manuale delle società”, Torino,
1987, 387 ss.; Zanarone, “Diritto commerciale” opera collettiva, Bologna, 1993, 303 ss.
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Società cooperative
Il privilegio alle cooperative di
produzione e lavoro
Tribunale di Modena, Sez. I, 14 luglio 2015, n. 1307 - Giud. Rimondini - Cons. Triveneto Rocciatori Soc. Coop. a r.l. c. So.Co.Gen S.r.l. in liquidazione e in concordato preventivo ed altri
Cooperativa - Cooperativa di produzione e lavoro - Privilegio ex art. 2751 bis, n. 5 cod. civ. - Ammissibilità
(Cod. civ. art. 2751 bis, n. 5, art. 82, comma 3 bis, d.l. n. 69/2013 conv. L. n. 98/2013, D.Lgs. n. 220/2002)
Ai sensi dell’art. 82, comma 3 bis, D.L. n. 69/2013 hanno diritto a godere del privilegio di cui all’art. 2751 bis,
n. 5, c.c. per i crediti spettanti per corrispettivi dei servizi prestati e dei manufatti prodotti le cooperative di
produzione e lavoro che abbiano superato positivamente o comunque abbiano richiesto la revisione di cui al
D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220.
Il Tribunale (omissis).
Il Consorzio T.A. s.c. a r.l. (d’ora in poi, per brevità,
denominata Consorzio) ha agito in giudizio nei confronti della B.s.r.l. in liquidazione e concordato preventivo (da ora indicata Socogen) e di XX in qualità di liquidatore giudiziale della società convenuta, deducendo
che: il Consorzio aveva eseguito prestazioni per la Socogen ed era creditore dell’importo capitale di Euro
735.090,91; la Socogen era stata ammessa, con decreto
del 16-17 aprile 2013, alla procedura di concordato preventivo, successivamente omologato; il credito dell’attrice era, contrariamente a quanto risultava dagli atti
della Procedura, privilegiato ex art. 2751 bis n. 5 c.c.,
stante la natura del consorzio e il tipo di attività esercitata sui cantieri o presso la sede sociale per la preparazione del materiale destinato ad essere montato. Sulla
base di tali allegazioni, l’attore ha dato atto di esperire
l’actio nullitatis nei confronti del decreto di omologa
che, pur non essedo suscettibile d’impugnazione, non
poteva acquisire autorità di cosa giudicata in caso di vizi
particolarmente gravi. In caso di omessa pronuncia di
nullità del decreto di omologa, il Consorzio ha chiesto
accertarsi la natura privilegiata del proprio credito e
condannarsi la Socogen al pagamento della somma di
Euro 734.090,91, oltre interessi.
La Socogen e XX si sono costituite in giudizio eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza dell’actio nullitatis,
l’insussistenza dei presupposti per l’accoglimento della
natura privilegiata del credito vantato dall’attore e, infine, l’inammissibilità della domanda di condanna.
Rimessione in termini.
Premesse tali brevi considerazioni in ordine alle domande e allegazioni delle parti, va anzitutto confermata l’ordinanza del 18.3.2015 con la quale è stata respinta la richiesta di revoca del Provv. del 30 ottobre 2014 nella
parte in cui, dopo aver rigettato l’istanza di ctu, il Tribunale ha fissato udienza di precisazione delle conclu-
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sioni, anziché concedere i termini di cui all’art. 183, VI
comma, c.p.c. Al riguardo appare sufficiente richiamare
le argomentazioni contenute nell’ordinanza del
18.3.2015 che s’intendono qui trascritte.
Parimenti va disattesa la richiesta di produzione documentale compiuta all’udienza di discussione orale, già
respinta in corso di causa, trattandosi di documenti formati prima del maturare delle preclusioni istruttorie e
che, pertanto, avrebbero dovuto essere depositati tempestivamente.
Actio Nullitatis.
Preliminarmente va rilevato che l’attrice non ha riproposto, in sede di precisazione delle conclusioni, l’actio
nullitatis nei confronti del decreto di omologa del concordato della Socogen che, pertanto, deve intendersi rinunciata e non sarà presa in esame ai fini della decisione.
Modifica della domanda inerente l’accertamento del
credito privilegiato - esclusione.
Sempre in via preliminare, va osservato che il Consorzio nell’atto introduttivo del giudizio ha proposto una
domanda inerente all’accertamento della natura privilegiata del credito ex art. 2751 bis n. 5 c.c. del seguente
tenore “accertare e dichiarare la sussistenza e la natura
privilegiata ex art. 2751 bis n. 5 del credito imponibile
di Euro 735.090,91, oltre interessi con il medesimo privilegio”. In sede di precisazione delle conclusioni l’attore ha sostanzialmente riprodotto la medesima domanda,
avendo chiesto: “accertare e dichiarare la sussistenza e
la natura privilegiata ex art 2751 bis, n. 5) c.c. e/o in
forza del combinato disposto di cui all’art. 82, comma 3
bis, D.L. 21 giugno 2013, n. 69 e/o del D.L. 2 agosto
2002, n. 220, del credito di Euro 735.090,91.= oltre interessi... sempre con il medesimo privilegio...”. Il Consorzio si è sostanzialmente limitato a introdurre il richiamo all’art. 82, III comma bis D.L. n. 69 del 2013
che, come si preciserà in seguito, non prevede un nuovo
privilegio, né modifica quello esistente, ma si limita ad
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agevolare il regime probatorio del privilegio disciplinato
dall’art. 2751bis n. 5 c.c. per le società cooperative. Il
petitum è dunque sostanzialmente identico, essendosi
parte attrice limitata a chiedere al Tribunale di riconoscere la natura privilegiata, sempre ex art. 2751 bis n. 5
c.c., del proprio credito.
Va altresì escluso che - come invece eccepito da parte
convenuta - nella fattispecie parte attrice abbia introdotto una mutatio libelli, introducendo - a sostegno dell’originaria domanda (riconoscimento del credito privilegiato) - un tema di indagine e di decisione completamente nuovo fondato su presupposti totalmente diversi
da quelli prospettati nell’atto introduttivo.
Al riguardo va osservato che l’art. 82, comma III bis,
del D.L. n. 69 del 2013, conv. con modifiche nella L. n.
98 del 2013, ha introdotto una nuova disposizione ai
sensi della quale “al fine di garantire i crediti spettanti
alle cooperative di lavoro, in relazione alla loro finalità
mutualistica, il privilegio di cui all’art. 2751bis, numero
5 del codice civile, spettante per corrispettivi dei servizi
prestati e dei manufatti prodotti, è riconosciuto qualora
le medesime cooperative abbiano superato positivamente o comunque abbiano richiesto la revisione di cui al
D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220”.
Il richiamo a tale norma, contenuto nelle conclusioni
di parte attrice e ampiamente illustrato nelle note difensive finali, non comporta l’introduzione di un nuovo
tema di indagine, atteso che già nell’atto di citazione il
Consorzio aveva dato atto che la natura privilegiata del
credito derivava “dalla natura del consorzio”, oltre che
dal tipo di attività esercitata, ed aveva espressamente richiamato il doc. 26, ovvero le attestazioni di avvenuta
revisione, le medesime certificazioni richieste dall’art.
82, III comma bis, D.L. n. 69 del 2013 citato. L’allegazione relativa alla natura del consorzio, indicato come a
mutualità prevalente e di produzione e lavoro, ed il richiamo alla relativa attestazione, induce evidentemente
a ritenere che - di fatto - il tema di indagine fosse stato
tempestivamente, se pur non in modo approfondito, introdotto. L’eccezione di inammissibilità della domanda,
pertanto, va respinta.
Art. 82, III comma, bis del D.L. n. 69 del 2013, conv.
con modifiche nella L. n. 98 del 2013.
Come è noto l’art. 2751 bis n. 5 riconosce il privilegio
generale ai crediti delle società ed enti cooperativi di
produzione e lavoro per i corrispettivi di servizi prestati
e della vendita dei manufatti. La giurisprudenza prevalente ha ritenuto necessario - per il riconoscimento del
privilegio ad una cooperativa di produzione e lavoro l’accertamento che il credito fosse effettivamente correlato al lavoro dei soci e che il loro apporto lavorativo
fosse prevalente rispetto a lavoro dei dipendenti non soci (cfr. Cass., sez. VI - I, ord. 30.5.2014, n. 12136).
In questo quadro giurisprudenziale è intervenuta la norma contenuta all’art. 82, comma III bis, del D.L. n. 69
del 2013, conv. con modifiche nella L. n. 98 del 2013,
che consente alle cooperative e/o consorzi di dimostrare
la loro natura mutualistica con il superamento positivo
della revisione di cui al D.Lgs. n. 220 del 2002 (o alme-
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no di richiederla) ed ottenere così il riconoscimento del
privilegio.
La stessa norma precisa di essere volta a garantire i crediti spettanti alle cooperative di lavoro in relazione alla
loro finalità mutualistica e ciò induce a ritenere che la
disposizione richieda, per la “concessione” del privilegio
da parte del giudice” il solo superamento della revisione. Ciò che la norma identifica come “superamento positivo” della revisione, infine, sembra identificarsi con
l’“attestazione di revisione...” ex art. 5 del D.Lgs. n. 220
del 2002 in materia di conclusione della revisione cooperativa, che parte attrice ha ottenuto dal 2006 in poi
(cfr. doc. n. 26 fascicolo attoreo).
La disposizione citata introduce dunque una presunzione assoluta circa la mutualità prevalente e consente alle
cooperative che abbiano ottenuto l’attestazione di revisione di cui al D.Lgs. n. 200 del 2002 di godere del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 5 c.c. per i crediti relativi ai corrispettivi per i servizi prestati e ai manufatti
prodotti.
È quindi superfluo accertare la ricorrenza dei requisiti
circa l’effettiva natura di cooperativa a mutualità a prevalente in capo al Consorzio, o la prevalenza del lavoro
dei soci rispetto a quello dei dipendenti non soci e/o di
terzi e/o rispetto agli altri fattori produttivi. A seguito
dell’entrata in vigore dell’art. 83, III comma bis citato,
infatti, il superamento positivo della revisione da parte
del Consorzio comporta automaticamente il riconoscimento del privilegio per i crediti.
Da ultimo, va osservato che la nuova disposizione trova
applicazione anche per i crediti sorti anteriormente alla
sua entrata in vigore, tenuto conto che non introduce
un nuovo privilegio, né modifiche ad uno già esistente,
ma si limita ad intervenire sul sistema probatorio del
privilegio disciplinato dall’art. 2751 bis n. 5 c.c. In relazione a tale disposizione, pertanto, non possono valere i
pur condivisibili principi richiamati dalla giurisprudenza
di legittimità e della Corte Costituzionale citata da parte convenuta nelle note difensive finali (Cass. S.U.
20.3.2015, n. 5685; Corte Cost. 4.7.2013, n. 170).
Sulla base di tali considerazioni, pertanto, ricorrono i
presupposti per accertare - in considerazione della documentazione prodotta da parte attrice (cfr. doc. n. 26) la natura privilegiata ex art. 2751 bis n. 5 del credito
vantato dal Consorzio in misura pari a Euro 735.090,91
(somma non contestata e già ammessa in chirografo),
oltre interessi (calcolati nel la misura prevista dal
D.Lgs. n. 231 del 2002 dalle singole scadenze delle fatture al 6 novembre 2012 e nella misura legale dal 7 novembre 2012 in poi) sempre con il medesimo privilegio.
Per l’effetto, condanna la Socogen al pagamento del
medesimo importo, poiché la sussistenza della procedura
concorsuale limita solo l’esercizio delle azioni esecutive.
Stante l’obiettiva dubbiezza della lite, che ha comportato la necessità di affrontare questioni normative di recente introduzione, sussistono gravi ed eccezionali ragioni per compensare integralmente le spese del giudizio.
(omissis).
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IL COMMENTO
di Guido Bonfante
Il Tribunale di Modena alla luce del disposto dell’art. 82, comma 3 bis, D.L. n. 69/1993 ha riconosciuto che, qualora una cooperativa di produzione e lavoro dimostri di aver superato positivamente la revisione di cui al D.Lgs. n. 220/2002, ha automaticamente diritto al riconoscimento
del privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 5, c.c. con conseguente venir meno delle interpretazioni
restrittive della norma elaborate in passato dalla giurisprudenza di legittimità.
La decisione del Tribunale
Il tema trattato dalla sentenza del Tribunale di
Modena riguarda il riconoscimento o meno della
natura privilegiata dei crediti delle cooperative di
produzione e lavoro, privilegio statuito in linea di
principio dall’art. 2751 bis, n. 5, c.c. ma che ha incontrato in passato non poche difficoltà ad essere
riconosciuto. E infatti proprio nel tentativo di superare tali ostacoli è intervenuto nel 2013 il disposto dell’art. 82, comma 3 bis D.L. n. 69/2013
(conv. L. n. 98/2013) che ha fissato le condizioni
nel rispetto delle quali il privilegio deve essere comunque riconosciuto.
La sentenza qui commentata rappresenta una
delle prime applicazioni in positivo della normativa introdotta riconoscendo nell’ambito di una procedura di concordato preventivo ad una consorzio
in forma cooperativa il carattere privilegiato del
proprio credito sussistendo nel caso di specie le
condizioni indicate dal citato art. 82.
Statuisce infatti l’art. 82, comma 3 bis che: “al fine di garantire i crediti spettanti alle cooperative
di lavoro, in relazione alla loro finalità mutualistica, il privilegio di cui all’art. 2751 bis, numero 5
del codice civile, spettante per corrispettivi dei servizi prestati e dei manufatti prodotti, è riconosciuto qualora le medesime cooperative abbiano superato positivamente o comunque abbiano richiesto
la revisione di cui al decreto legislativo 2 agosto
2002, n. 220”.
La sentenza del Tribunale di Modena osserva come tale disposizione non rappresenti un “nuovo”
privilegio rispetto a quello previsto dall’art. 2751
bis n. 5, c.c., limitandosi la norma ad intervenire
sul sistema probatorio stabilendo cioè che, ove le
cooperative abbiano ottenuto l’attestazione di revi(1) Cfr. Cass. 26 agosto 2005, n. 17, 396, Cass. 14 giugno
1999, Trib. Milano 31 dicembre 2014, in Fall., 2005, IV, 467,
Trib. Milano 23 marzo 2005, in Fall., 2005, 11, 1323.
(2) Così Trib. Salerno 9 maggio 2001, in Dir. fall., 2003, 716
con nota di Sarno.
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sione, le stesse hanno diritto a godere del privilegio
per i crediti relativi ai corrispettivi per i servizi prestati e ai manufatti prodotti.
Conseguentemente tutti i criteri individuati dalla giurisprudenza del passato per cercare di circoscrivere l’applicazione dell’art. 2751 bis, n. 5, c.c.
non hanno più ragione di sussistere travolti dalla
disposizione in questione la quale, intervenendo,
come si è detto, esclusivamente sul sistema probatorio, trova applicazione anche per i crediti sorti
anteriormente alla sua entrata in vigore.
Si tratta di una interpretazione del tutto corretta
e condivisibile della norma. Per comprenderne
l’importanza occorre però fare un passo indietro e
ricostruire le vicende che hanno portato alla sua
emanazione.
La ratio del privilegio di cui all’art. 2751 bis
n. 5
L’art. 2751 bis n. 5 è sempre stato oggetto - come si è detto - di interpretazioni restrittive da parte
della giurisprudenza.
E così quanto ai crediti delle cooperative di produzione e lavoro si è escluso che il privilegio possa
essere concesso ai consorzi (ad esempio autotrasportatori) cooperativi, ma anche ai compensi per
appalto d’opera e comunque solo in presenza di dimensioni imprenditoriali modeste (1) e quando sia
rigorosamente provata la prevalenza del lavoro dei
soci rispetti a quello dei non soci (2) e in genere
del lavoro sull’apporto di capitale (3).
Da ultimo, lo ricorda la stessa sentenza qui in
commento, la Cassazione ha ribadito che per il godimento del privilegio deve essere dimostrato che
il credito deve essere strettamente correlato al lavoro dei soci e l’apporto lavorativo di questi ultimi
(3) Trib. Monza 13 luglio 2005, in Fall., 2006, 448, con nota
di Aprile, Trib. Milano 20 luglio 2004, in Giur. it., 2005, II, 305
con nota di Iozzo, Trib. Grosseto 22 gennaio 2004, Commisso
- Staunovo Polacco, Massimario di merito, in Fall., 2004, 1057.
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debba essere prevalente rispetto a quello dei non
soci (4).
Ad avviso di chi scrive questi arresti giurisprudenziali sono in parte il frutto di fraintendimenti
sulla portata della norma.
Sullo sfondo vi è innanzitutto il pregiudizio che
la cooperativa di grandi dimensioni non sia una
vera cooperativa; di qui l’ulteriore passaggio che
“aggancia” il privilegio solo ai casi in cui sia prevalente il costo del lavoro dei soci rispetto agli altri
fattori produttivi. E dove, sempre in questo orientamento, anche a seguito dell’introduzione della L.
n. 142/2001 sul socio lavoratore, viene rilevata
una sostanziale identità di situazioni con il lavoratore di un’impresa ordinaria. In entrambi i casi, si
osserva, si applica il contratto collettivo di settore
e il ristorno al socio lavoratore è solo un fatto
eventuale sicché non vi sarebbe ragione per riservare alla cooperativa un trattamento di favore rispetto a un’impresa ordinaria.
In verità si dimentica in questa equiparazione di
sottolineare che il socio lavoratore della cooperativa è anche il titolare delle partecipazioni della società il che non si riscontra in una società non
cooperativa. A sua volta il fatto che i soci cooperatori siano, come è stato detto, “imprenditori di se
stessi” mette in evidenza la causa cooperativa intesa come gestione di servizio al socio, causa del tutto diversa da quella di una società ordinaria: mentre quest’ultima tende a remunerare il capitale investito, la cooperativa mira a remunerare il servizio
al socio (5).
Ora, se questa è la missione di una cooperativa,
si spiega a sua volta, più compiutamente, la ragione
del privilegio concesso ai sensi dell’art. 2751 bis, n.
5. Con tale disposizione, infatti, si intende valorizzare la funzione della cooperativa di produzione e
lavoro considerata strumento per la fornitura di occasioni di lavoro e, quindi, privilegiando i crediti
della cooperativa, non solo indirettamente si privilegia il lavoro dei soci cooperatori - già di per sé
tutelato con il privilegio dei propri crediti verso la
cooperativa -, ma soprattutto si dà riconoscimento
alla mission della cooperativa come veicolo di inveramento delle politiche occupazionali.
In questo senso non si ha quindi ragione distinguere fra grandi o piccole cooperative. Se in una
cooperativa di facchini il collegamento con il lavoro dei soci è più immediato, ciò non significa che
questo collegamento manchi in strutture più complesse che, in ragione della tipologia dell’attività
svolta, necessitano di maggiori investimenti di capitali, ma che nella sostanza mirano anch’esse a
soddisfare i bisogni occupazionali dei soci.
Principi fatti propri dal D.L. 21 giugno 2013, n.
69 all’art. 82, comma 3 bis e che correttamente il
Tribunale di Modena ha giustamente riconosciuto
sia pur con una marginale imprecisione nella motivazione. Si allude a quella parte della sentenza in
cui si collega la revisione al requisito della prevalenza.
A parte il fatto che la revisione riguarda tutte le
cooperative, anche quelle a mutualità non prevalente in quanto anch’esse debbono comunque rispettare i principi mutualistici, il privilegio di cui
all’art. 2751, n. 5 bis non è assimilabile a una agevolazione fiscale (per il godimento della quale occorre rispettare la prevalenza) e quindi prescinde il
suo riconoscimento dalla sussistenza del requisito
della mutualità prevalente.
In conclusione, l’art. 82, comma 3 bis, D.L. n.
69/2014 vale ad affermare che se si è in presenza di
una qualsivoglia cooperativa di produzione e lavoro
non falsa, grande o piccola, prevalente o non, il
privilegio in questione deve essere automaticamente riconosciuto qualora tale cooperativa dimostri di
aver superato con esito positivo la revisione. Il richiamo a questo istituto significa appunto che se la
cooperativa è stata regolarmente revisionata (o se
pur richiesta la revisione non è stata effettuata) vi
è una presunzione assoluta che quella cooperativa
ha diritto a godere del privilegio ex art. 2751 bis, n.
5 (6).
(4) Cfr. Cass. 30 maggio 2014, n. 12136.
(5) Per una illustrazione di tale concetto si rinvia al mio, La
società cooperativa, in Tratt. Cottino, 2014, passim.
(6) E sempre su questa lunghezza d’onda, più attenta a valorizzare la funzione sociale delle cooperative, merita segnalare
l’art. 11 della L. 21 febbraio 2014, n. 9 che, convertendo il D.L.
n. 145/2013 (c.d. piano Destinazione Italia), statuisce che in
caso d’affitto o vendita d’azienda nell’ambito di imprese sottoposte a procedure concorsuali, le cooperative composte da lavoratori appartenenti all’impresa sottoposta alla procedura
hanno diritto di prelazione nell’affitto o acquisto dell’azienda
Cfr. in argomento Iengo, in Bonfante, op. cit., parte III, cap. II,
par. 6.2.
50
Una (breve) riflessione conclusiva
L’art. 82, comma 3 bis, D.L. n. 69/2013 induce a
qualche breve riflessione critica.
Si tratta di una disposizione che è chiaramente
il frutto della attenzione delle Centrali cooperative
pronte ad agganciare ai treni in corsa, rappresenta-
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ti dai provvedimenti fiume di questi tempi, disposizioni volte a tutelare interessi del movimento. Come spesso capita però in questi casi le norme varate sotto l’assillo della fretta non sono esenti da imprecisioni.
Innanzitutto viene da chiedersi perché, se, come
si è cercato di argomentare, il privilegio si giustifica per la mission cooperativa imperniata sulla gestione di servizio al socio, il privilegio riguardi solo
le cooperative di produzione e lavoro e non invece
tutte le vere cooperative che perseguono la gestione di servizio al socio. Ma a questo punto, lasciata
parte in questa sede la questione se l’attuale ordinamento imponga effettivamente la gestione di
servizio al socio, dando per scontato che così
sia (7), si apre un altro argomento di discussione
che riguarda la “bontà” in sé dello strumento indicato per garantire la “genuinità” mutualistica delle
cooperative.
Come è noto la revisione viene effettuata ogni
due anni (per le cooperative di maggiori dimensioni ogni anno) da parte di revisori delle Centrali
Cooperative per le società che aderiscono ad esse e
da revisori inviati dal Ministero per le società che
non aderiscono ad alcuna associazione di rappresentanza. Ora poiché, fra l’altro, la revisione viene
“pagata” dalla singola cooperativa e quindi rappresenta una fonte di finanziamento per le Centrali
Cooperative, per le società affiliate a queste ultime
le revisioni vengono per lo più effettuate con regolarità. Non è così negli altri casi in quanto il Ministero per mancanza di risorse spesso non è in grado
di far svolgere le revisioni.
In questo senso si spiega la previsione della legge
che equipara la revisione effettuata con successo
alla mancata revisione preceduta da apposita richiesta.
Non è specificato però come e in quali termini
deve essere fatta questa richiesta. E quindi, contando sulla mancanza di risorse del Ministero, basterà
una semplice raccomandata inviata quindici giorni
prima della scadenza del biennio per garantirsi il
godimento del privilegio di cui qui si discute.
Per altro verso nella sua genericità pecca di
chiarezza la previsione secondo cui il privilegio viene riconosciuto alle cooperative che “abbiano superato positivamente” la revisione. Ne consegue
che sembrerebbe non spettare il privilegio alla cooperativa in cui sia stata accertato il carattere mutualistico, ma a cui sia stata, per esempio, inviata
una diffida per un’errata convocazione assembleare
o comunque per qualche altra irregolarità sanabile
del tutto estranea al rispetto dei principi identitari
cooperativi.
Ma al di là di queste incongruenze dettate dalla
fretta di aggancio ai sopra ricordati “treni” in corsa,
resta il problema di fondo sopra ricordato attinente
alla idoneità della revisione a garantire la genuinità del fatto cooperativo.
Purtroppo le gravi vicende scandalistiche di questi tempi che hanno coinvolto cooperative operanti nel sociale aderenti alle Centrali Cooperative dimostrano in modo impietoso la inadeguatezza dei
controlli previsti dalla legge.
La conclusione è senza appello: le revisioni da
sole così come sono oggi regolamentate garantiscono spesso, ma non sempre il rispetto delle regole
mutualistiche da parte delle cooperative.
Di fronte a tali esiti si è quindi facili profeti se si
ritiene che nonostante questo intervento “interpretativo” della legge in tema di privilegi alle cooperative, i distinguo del passato in chiave restrittiva da
parte degli interpreti sulla portata della norma continueranno a sussistere.
Il che è un’ennesima prova della necessità di intervenire in modo serio nella lotta contro le false
cooperative.
Ma questo è un altro ben più arduo tema di natura più politica che giuridica su cui non è questa
la sede per dilungarsi.
(7) Ma sul punto non mancano opinioni diverse. Cfr. a riguardo fra gli altri Angster, Il diritto al ristorno tra resistenza legislativa e prospettive di riforma, in Studi, in onore di G.E. Co-
lombo, Torino, 2011, 300, Belviso, Scopo mutualistico e capitale
variabile nelle società cooperative, Milano, 2012, passim.
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Giurisprudenza
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Azioni
Compravendita di azioni e dolo
incidente
Tribunale di Milano, Sez. impresa, 6 luglio 2015 - G.U. Riva Crugnola - Eurinvest Dieci S.r.l. c.
F.I.S.I. S.r.l.
Società - Società di capitali - Azioni - Compravendita di azioni - Dolo incidente - Esclusione
(cod. civ. art. 1440)
Con riferimento a un contratto di compravendita di azioni di società, deve escludersi che la mera esposizione
- rivolta al mercato ove la società è quotata - della potenzialità dei progetti di impianti relativi ad energie rinnovabili, facenti parte del patrimonio della società medesima, configuri condotta qualificabile come dolo incidente ai sensi dell’art. 1440 c.c.
Il Tribunale (omissis).
L’attrice Eurinvest Dieci srl ha citato:
- F.I.S.I. Finanziaria Italiana per lo sviluppo industriale
F.I.S.I. S.p.A. (d’ora in avanti anche solo FISI S.p.A.)
- e F.I.S.I. Finanziaria Italiana per lo sviluppo industriale S.r.l. (d’ora in avanti anche solo FISI S.r.l.),
azionando il contratto concluso il 6.8.2010 con la spa e
avente ad oggetto la cessione del 20,67% del capitale di
KR. ENERGY S.p.A. (società quotata, d’ora in avanti
anche solo KRE), lamentando il mancato pagamento
alla scadenza del 31.1.2012 della rata di corrispettivo
dovuto pari ad euro 7.000.000,00, con conseguente decadenza delle obbligate (oltre FISI S.p.A. anche FISI
S.r.l., partecipata dalla prima al 100% e alla quale erano
state conferite il 29.12.2010 le azioni KRE, con conferma del pegno iscritto sulle stesse a garanzia del pagamento del corrispettivo) dal beneficio del termine e domanda di condanna delle stesse al pagamento dell’intero corrispettivo ancora dovuto pari ad euro
12.000.000,00.
Le convenute si sono costituite:
- lamentando in fatto l’assoluta inesistenza e/o irrealizzabilità dei progetti di impianti di energie rinnovabili
rappresentanti l’unico asset di KRE e, anzi, il fatto che
la rappresentazione della potenzialità di tali progetti
nelle comunicazioni ufficiali al mercato fosse “il frutto di
specifici artifici e raggiri ideati dai venditori” (cfr. pagg.
8/18 comparsa),
- e chiedendo quindi:
- autorizzazione alla chiamata in causa del FALLIMENTO EXEUFIS S.p.A. in liquidazione, controllante di
EURINVEST DIECI e soggetto indicato nel contratto
6.8.2010 quale destinatario del ricavato della cessione
(cfr. art. 5.4 doc. 3 attrice),
nonché in via riconvenzionale nel merito:
- annullamento del contratto 6.8.2010 per dolo, ovvero
in subordine per errore essenziale, ex artt. 1439 ovvero
52
1428/1429 c.c., con condanna dell’attrice alla restituzione dell’importo di euro 4.000.000,00 finora versata nonché al risarcimento dei danni;
- in via subordinata, declaratoria di risoluzione del medesimo contratto per colpa delle convenute inadempienti agli obblighi di buona fede e collaborazione, con
condanna ad analoga restituzione ed al risarcimento del
danno;
- in via ulteriormente subordinata, accertamento ex
art.1440 c.c., in riferimento sempre alla mala fede dell’attrice, ai raggiri utilizzati ed alla clamorosa sproporzione tra il corrispettivo convenzionale e il prezzo effettivo
o di mercato, con conseguente condanna al risarcimento del danno, da determinarsi, alternativamente, o con
il criterio del maggior aggravio economico (alla svalutazione dei progetti per euro 48.311.000,00 è corrisposto
una immissione di capitale pari ad euro 47.161.000,00
per evitare il fallimento di KRE) o con il criterio del
minor vantaggio (con rideterminazione del prezzo da
pagarsi quale ammontante a quello di borsa al momento
del deposito della sentenza ovvero, in subordine, in
quello calcolabile in euro 5.795.524, sottraendo dal valore di borsa “gonfiato” dell’epoca dell’accordo di cessione l’ammontare corrispondente alla svalutazione dei
progetti).
Contrastate quindi dall’attrice le domande riconvenzionali in riferimento al tenore del contratto di cessione,
determinante il corrispettivo in relazione al prezzo di
borsa delle azioni cedute senza alcuna possibilità di rettifica in conseguenza della oscillazione della quotazione,
e in riferimento alla diretta conoscenza in capo al dominus di parte acquirente in ordine al business proprio di
KR.ENERGY S.p.A., sempre alla prima udienza l’attrice
ha formulato istanza ex art. 186ter c.p.c. per l’importo
di euro 12.000.000,00: alla successiva udienza, fissata
per la comparizione personale delle parti per il tentativo
di conciliazione, è poi intervenuto in giudizio il FALLIMENTO EXEUFIS S.p.A. in liquidazione in adesione
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alle posizioni dell’attrice e il g.i., dato l’esito infruttuoso
del tentativo di conciliazione, ha assegnato i termini ex
art. 183 c.p.c. sesto comma.
All’udienza del 19.7.2013 il difensore di FISI S.p.A.,
che nel frattempo aveva mutato la propria denominazione in FININD S.p.A., ha dichiarato l’intervenuto
fallimento della spa chiedendo declaratoria di interruzione dell’intero procedimento, richiesta sulla quale il
g.i. ha poi provveduto con l’ordinanza 29.7.2013, recante anche accoglimento della istanza ex art. 186ter c.p.c.
dell’attrice, ordinanza del seguente tenore:
“ritenuto che, a seguito del fallimento della convenuta
FININD S.p.A. (già F.I.S.I. S.p.A.), deve essere dichiarata l’interruzione del giudizio riguardante il rapporto
processuale tra tale convenuta e l’attrice nel quale è altresì intervenuto il FALLIMENTO EXEUFIS S.p.A. in
liquidazione, previa separazione di tale rapporto processuale da quello tra l’attrice e la convenuta F.I.S.I. S.r.l.
nel quale è intervenuto sempre il FALLIMENTO
EXEUFIS S.p.A. in liquidazione, al riguardo dovendosi
considerare che:
- contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa delle
convenute,
- “nel caso di trattazione unitaria o di riunione di più
procedimenti relativi a cause connesse e scindibili, che
comporta di regola un litisconsorzio facoltativo tra le
parti dei singoli procedimenti confluiti in un unico processo, l’evento interruttivo relativo ad una delle parti di
una o più delle cause connesse, opera di regola solo in
riferimento al procedimento (o ai procedimenti) di cui
è parte il soggetto colpito dall’evento (così Cass. s.u. n.
15142/2007),
- e che nel presente procedimento la domanda svolta
dall’attrice per la condanna in solido delle due convenute è palesemente scindibile in due distinti rapporti
processuali, danti luogo a litisconsorzio facoltativo (sull’autonomia delle cause derivate da obbligazioni in solido cfr., ad esempio, Cass. n. 24425/2006, nonché, da ultimo, Cass. n. 3573/2011, n. 6924/2012, secondo la cui
motivazione: “l’obbligazione solidale passiva non comporta sul piano processuale l’inscindibilità delle cause e
non dà luogo a litisconsorzio necessario, in quanto,
avendo il creditore titolo per rivalersi per l’intero nei
confronti di ogni debitore, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, il quale può utilmente svolgersi anche nei confronti di uno solo dei coobbligati”),
- e che, ancora, analoghe considerazioni possono svolgersi anche quanto ai rapporti processuali correnti tra le
due convenute e l’attrice in riferimento alle domande
riconvenzionali concernenti annullamento e risoluzione
del contratto 6.8.2010 sul quale l’attrice fonda la propria pretesa, trattandosi di domande concernenti eccezioni azionabili da entrambi le condebitrici in solido,
non rientrando le stesse nella nozione di “eccezione
personale” ex art. 1292 c.c., dovendo condividersi l’opinione secondo la quale “sono ‘personali’ le eccezioni
che hanno ad oggetto un fatto il quale -oltre che a verificarsi solo nei confronti di un condebitore (o di un
concreditore)- incida sull’obbligazione solidale non direttamente, ma attraverso uno stato o una condizione
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peculiari di tale soggetto, i quali cioè siano determinanti degli effetti del fatto sull’obbligazione. Va precisato,
al riguardo, che il particolare stato o la particolare condizione del soggetto possono essi stessi - e non quali mero tramite di un fatto - assurgere ad elementi determinanti detti effetti: ad es. lo stato di incapacità” (così
Cass. n. 4944/1996);
rilevato che, così regolato il fenomeno interruttivo, occorre provvedere, nel processo destinato a proseguire
senza interruzione e concernente il rapporto processuale
tra l’attrice (e l’intervenuto Fallimento EXEUFIS
S.p.A. in liquidazione) e la convenuta F.I.S.I. S.r.l. sulle
richieste probatorie svolte dalle parti nonché sull’istanza
ex art. 186 ter c.p.c. svolta dall’attrice;
considerato quanto alle prove orali richieste dalla convenuta che le stesse non risultano dirimenti, per l’assorbente rilievo che:
- attraverso tali richieste istruttorie si intende (per la
maggior parte dei capitoli) provare la “inesistenza” dei
progetti per la realizzazione di nuovi impianti produttivi
di energia rinnovabile di pertinenza di KR ENERGY
S.p.A., società quotata in borsa le cui 200.000 azioni sono state cedute dall’attrice al prezzo di euro
16.000.000,00 (determinato secondo la media delle
quotazioni di borsa degli ultimi 100 giorni antecedenti,
cfr. doc. 3 attrice) alla convenuta FININD S.p.A. con
il contratto 6.8.2010 (le cui obbligazioni sono poi state
a s s u n t e i n s o l i d o d a F . I . S . I . S. r . l c o n a t t o d e l
28.2.2011),
- e, dunque, si intende provare, secondo la prospettazione della convenuta, il presupposto delle domande riconvenzionali
- di annullamento per errore essenziale ovvero per dolo
del contratto 6.8.2010,
- nonché di risoluzione di tale contratto in riferimento
al verificarsi di una ipotesi di aliud pro alio,
annullamento alla cui pronuncia osta invece il condivisibile orientamento richiamato dall’’attrice, secondo il
quale:
- “la cessione delle azioni di una società di capitali o di
persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota
parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio
sociale - e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione - possono giustificare l’annullamento
del contratto per errore o, ai sensi dell’art. 1497 cod.
civ., la risoluzione per difetto di “qualità” della cosa
venduta (necessariamente attinente ai diritti e obblighi
che, in concreto, la partecipazione sociale sia idonea ad
attribuire e non al suo valore economico), solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie
contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente,
quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed
astuzie volte a realizzare l’inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza” (così, da ultimo, Cass. n. 16031/2007, nonché, più in generale sul dolo omissivo, Cass. n. 9253/2006, secondo la
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quale: “Il dolo omissivo, pur potendo viziare la volontà,
è causa di annullamento, ai sensi dell’art. 1439 cod.
civ., solo quando l’inerzia della parte si inserisca in un
complesso comportamento, adeguatamente preordinato,
con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito,
determinando l’errore del “deceptus”. Pertanto, il semplice silenzio, anche in ordine a situazioni di interesse
della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto
l’altro contraente, non costituiscono di per sé causa invalidante del contratto”),
- in particolare nel caso di specie nessuna garanzia contrattuale essendo stata prestata dalla venditrice delle
azioni quanto alla consistenza patrimoniale di KR
ENERGY S.p.A. e, al di là di un generico contesto di
complessivo “ingannevole silenzio”, nessuno specifico
artifizio rivolto all’acquirente essendo stato denunciato
dalla convenuta, amministrata anzi (come la sua controllante, oggi fallita) da soggetto già coinvolto in altre
offerte aventi ad oggetto l’ingresso nel capitale di KR
ENERGY S.p.A. a seguito di specifica “verifica dei contenuti industriali e finanziari dell’operazione” (cfr. doc.
1 attrice),
- mentre poi, in riferimento alla configurabilità della invocata fattispecie di aliud pro alio sembrano difettare i
rigorosi requisiti fattuali individuati dalla (isolata) pronuncia di legittimità n. 3370/2004, secondo la quale
“gli estremi di questa più grave forma di inadempienza
possono essere ritenuti sussistenti unicamente se i beni
consegnati sono (non soltanto “difformi”, ma anche) assolutamente privi delle capacità funzionali a soddisfare i
bisogni dell’acquirente e, quindi, “radicalmente diversi”
da quelli pattuiti”, situazione questa ben difficilmente
predicabile nel caso di cessione di un pacchetto di azioni di spa quotata in borsa, pacchetto rispetto al quale “i
bisogni dell’acquirente” non paiono comunque direttamente collegabili alla consistenza della situazione industriale della società oggetto della cessione;
considerato quanto alle ulteriori prove orali richieste
dalla convenuta, alla richiesta ex art. 210 c.p.c. sempre
di parte convenuta e alle prove orali richieste dall’attrice, che le stesse riguardano circostanze non determinanti ai fini del decidere, tenuto conto di quanto sopra detto;
ritenuto quindi, allo stato, che la causa sia matura per
la decisione, senza necessità di istruttoria;
ritenuto che, per quanto sopra detto in tema di ostacoli
all’accoglimento delle domande riconvenzionali, debba
poi essere pronunciata l’ordinanza ex art.186ter c.p.c.
immediatamente esecutiva richiesta da parte attrice,
avendo tale parte dato dimostrazione documentale della
propria pretesa al pagamento del corrispettivo pattuito
nel negozio 6.8.2010 le cui obbligazioni sono state assunte in solido dalla convenuta F.I.S.I. S.r.l., come è
pacifico in causa, essendo poi anche incontestate in
causa le vicende di inadempimento quanto al pagamento delle rate di tale corrispettivo successive alla prima,
con conseguente decadenza della convenuta dal beneficio del termine quanto all’ammontare dell’intero corri-
54
spettivo ad oggi ancora non versato pari ad euro
12.000.000, sul quale vanno poi conteggiati gli interessi
legali dal 31.1.2012, data della scadenza non onorata;
P.Q.M.
visto l’art. 43 l.fall.;
dato atto dell’intervenuto fallimento della convenuta
FISIND S.p.A. (già F.I.S.I. SPA), dichiara l’interruzione del giudizio riguardante il rapporto processuale tra
tale convenuta e l’attrice nel quale è altresì intervenuto
il Fallimento EXEUFIS S.p.A. in liquidazione, previa
separazione di tale rapporto processuale da quello tra
l’attrice e la convenuta F.I.S.I. S.r.l. nel quale è intervenuto sempre il Fallimento EXEUFIS S.p.A. in liquidazione;
visto l’art. 183 c.p.c.;
ritenuto, quanto al rapporto processuale tra l’attrice e la
convenuta F.I.S.I. S.r.l. nel quale è intervenuto il Fallimento EXEUFIS S.p.A. in liquidazione, la causa matura
per la decisione, fissa per la precisazione delle conclusioni l’udienza dell’11.2.2014 ore 9.30;
visto l’art. 186 ter c.p.c.;
ingiunge, con provvedimento provvisoriamente esecutivo, alla convenuta F.I.S.I. S.r.l. di pagare all’attrice
l’importo di euro 12.000.000,00, oltre interessi legali
dal 31.1.2012 al saldo ed oltre le spese ingiuntive pari
ad euro 5.000,00, oltre iva e cpa.”
Differiti quindi gli adempimenti relativi alla precisazione delle conclusioni su concorde richiesta delle parti in
vista di verifiche conciliative, all’udienza del 10.6.2014:
- la difesa dell’attrice e dell’intervenuto ha precisato le
conclusioni richiamando quelle di merito di cui alla citazione e quelle istruttorie di cui alle memorie depositate;
- la difesa della convenuta è stata autorizzata alla produzione di ulteriore documentazione, formatasi dopo la
scadenza dei termini istruttori e relativa a sviluppi conciliativi, concludendo quindi:
- in via principale per la declaratoria di “perfezionamento
della transazione e avvenuta conciliazione della presente
controversia” con conseguente declaratoria di cessazione
della materia del contendere e revoca dell’ordinanza
29.7.2013, formulando al riguardo anche istanza ex art.
210 c.p.c.;
- in via subordinata con riproposizione della sola domanda riconvenzionale ex art.1440 c.c.
Nelle difese conclusionali:
- l’attrice e l’intervenuto hanno ribadito le precedenti
difese, eccependo inoltre l’inammissibilità delle nuove
domande della convenuta e contrastando la pretesa avversaria in tema di intervenuta transazione, in realtà a
loro dire mai perfezionatasi;
- la convenuta ha affermato la ricorrenza di prova scritta della intervenuta transazione e in via subordinata ha
illustrato la domanda riconvenzionale ex art.1440 c.c.,
nella memoria di replica richiamando poi vicende di
escussione del pegno sulle azioni KRE, a suo dire impeditive dell’accoglimento per l’intero ammontare della
domanda avversaria.
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Rimessa quindi la causa sul ruolo istruttorio con ordinanza del 22.6.2015, sul presupposto della “necessità di
chiedere chiarimenti alle parti in particolare quanto alle circostanze sopravvenute illustrate a pagg. 1/3 delle
note di replica della convenuta FISI S.r.l. in ordine alla
vendita delle azioni costituite in pegno il cui corrispettivo di cessione è oggetto della presente controversia”,
all’udienza dell’1.7.2015:
“Su richiesta di chiarimenti del g.i. in ordine alla vendita delle azioni costituite in pegno il cui corrispettivo di
cessione è oggetto della presente controversia, vendita
di cui alla replica conclusionale di parte convenuta, la
difesa dell’attrice precisa:
- che in fatto, a seguito dell’asta competitiva del luglio
2014, è stato ceduto il pacchetto azionario di KR
ENERGY S.p.A., già oggetto delle trattative con la
convenuta, in particolare con realizzazione da parte dell’attrice EURINVEST DIECI S.r.l. delle n. 6.500.000
azioni di KR ENERGY S.p.A., costituite in pegno a garanzia del pagamento del corrispettivo di cui al negozio
di cessione azionato nella presente causa;
- che la somma rinvenuta all’attrice dalla realizzazione
del pegno è stata pari €3.926.473,73, il tutto come risulta dalla corrispondenza che deposita;
- che, essendosi trattato di una somma riscossa coattivamente e non di un pagamento spontaneo da parte della
convenuta, che persiste nel contestare la propria obbligazione complessiva, l’attrice intende mantenere ferme
le conclusioni di condanna al pagamento dell’intera
somma ancora dovuta quale corrispettivo della cessione.
L’avv. Occhionero prende atto di quanto oggi precisato
da controparte e rileva che solo oggi si è quindi venuti
a conoscenza della realizzazione del pegno, realizzazione
che comunque comporta la non attualità della pretesa
creditoria per l’ammontare di €3.926.473,73, ferme comunque restando le contestazioni complessive della
convenuta. Chiede di essere autorizzato a produrre missiva proveniente da KR ENERGY S.p.A. 27.3.2013 e
verbale del cda 26.2.2010, trattandosi di documenti che
sono entrati nella disponibilità della convenuta solo
successivamente alla scadenza dei termini istruttori.
Chiede di poter nuovamente precisare le conclusioni e
illustrarle con assegnazione di termini per comparse e
memorie di replica.
La difesa dell’attrice si oppone alla produzione di controparte sopra indicata, trattandosi di produzione del
tutto tardiva, in particolare controparte essendo stata
legittimata a formulare istanza ex art. 210 c.p.c. relativamente ai documenti di cui sopra; chiede che la causa
sia trattenuta in decisione dal g.i. senza ulteriori termini.
Il g.i., ritenuto che la produzione di cui alla richiesta
odierna della convenuta appare inammissibile, trattandosi di documenti rispetto ai quali in precedenza nessuna istanza di produzione era stata formulata e dei quali
la parte neppure ha chiesto l’esibizione ex art. 210
c.p.c., invita le parti a precisare le conclusioni.
La difesa di parte attrice e di parte intervenuta conferma le conclusioni già precisate all’udienza del
10.6.2014.
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La difesa di parte convenuta richiama le conclusioni di
cui all’udienza del 10.6.2014, con ulteriore conclusione
subordinata:
“par. 4.4. In subordine, decurtare dalla somma rivendicata quanto escusso dall’attrice in via di realizzazione
del pegno pari a €3.926.473,73”.
Insiste per la concessione di termini per le difese conclusionali, richiesta cui si oppone controparte.
Il Giudice
ritenuto che le difese conclusionali sono già state svolte
e che i chiarimenti oggi forniti da parte attrice sulla vicenda del pegno non sono stati contestati in fatto, sicché non appare necessaria ulteriore attività difensiva,
trattiene la causa in decisione.”
All’esito di tale contraddittorio reputa il Tribunale che
le domande dell’attrice debbano essere accolte.
Al riguardo va infatti considerato che:
- l’attrice, come già esposto nell’ordinanza 29.7.2013 sopra riportata e come del resto è pacifico tra le parti, ha
dato idonea dimostrazione del fatto costitutivo della
propria pretesa verso la convenuta,
- mentre nessuna delle prospettazioni della convenuta
in tema di fatti impeditivi/estintivi della pretesa avversaria risulta fondata.
In relazione a tali prospettazioni va in particolare rilevato:
- quanto alla cessazione della materia del contendere
per intervenuta transazione,
- che, contrariamente a quanto eccepito dall’attrice e
dall’intervenuto, si tratta di conclusione di per sé ammissibile in quanto relativa a vicende di fatto sopravvenute;
- che, a prescindere da ogni altra questione discussa tra
le parti, in ogni caso si tratta di conclusione infondata,
posto che la documentazione prodotta dalla convenuta
all’udienza del 10.6.2014 dà conto, senza necessità di ulteriori produzioni o acquisizioni ex art. 210 c.p.c.:
- della formulazione da parte della convenuta di una
proposta transattiva, il cui “perfezionamento” è stato
autorizzato dal Giudice Delegato dell’intervenuto Fallimento il 4/5 marzo 2014 (cfr. doc.34, in relazione al tenore della prima missiva datata 20.3.2014 proveniente
dai legali di EURINVEST DIECI S.r.l. e del Fallimento
EXEUFIS S.p.A. e prodotta sub docc. 35),
- senza che, peraltro, si sia poi effettivamente pervenuti
alla stipulazione di alcuna transazione, posto che:
- come risulta testualmente dalla missiva 20.3.2014 sopra citata, il “perfezionamento” dell’accordo autorizzato
dal G.D. è stato “sospeso” a seguito della formulazione
da parte di terzi di una “proposta migliorativa” quanto in
particolare all’acquisto della residua partecipazione in
KRE in capo a EURINVEST DIECI S.r.l. e al Fallimento EXEUFIS S.p.A., acquisto contemplato anche nella
proposta transattiva della convenuta,
- e che rispetto a tale evoluzione della vicenda lo stesso
consulente della convenuta, dr. G. B., il 21.3.2014, lungi
dall’affermare la già intervenuta stipulazione di un accordo transattivo, ha interloquito con i legali di EURINVEST DIECI S.r.l. e del Fallimento EXEUFIS S.p.A.,
confermando che “FISI S.r.l., al fine di decidere se alli-
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neare o meno l’offerta rispetto a quella migliorativa ricevuta dal Fallimento EXEUFIS, necessita di conoscere
non solo l’importo migliorativo offerto (da Voi già comunicato con precedente lettera sempre datata 20.3.2014)
ma altresì i correlati termini di pagamento” (cfr. missiva
a firma B. sempre sub docc. 35),
cosicché, in definitiva, nessuna efficace stipulazione del
negozio transattivo può ritenersi conclusa sulla scorta
della mera autorizzazione del G.D., che è rimasta -così
come la richiesta di autorizzazione del curatore- un atto
interno alla procedura e non è stata seguita dalla espressa manifestazione di volontà del curatore -organo di per
sé solo legittimato a contrarre per il FALLIMENTO ex
art. 35 l.fall.- di accettazione della originaria proposta
della convenuta, essendosi invece avuti ulteriori contatti tra le parti per la modifica della originaria proposta
della convenuta;
- quanto alla unica domanda riconvenzionale nella quale la convenuta ha insistito in via subordinata:
- che anche tale domanda, contrariamente a quanto sostenuto dall’attrice, non risulta domanda nuova, essendo stata svolta fin dalla comparsa di risposta (cfr. ivi la
conclusione sub 4);
- che tale domanda è formulata quale domanda risarcitoria ex art.1440 c.c., in riferimento alla pretesa violazione di obblighi informativi da parte dell’attrice, violazione integrante -a dire della convenuta- un caso di dolo incidente quanto alla stipulazione del negozio di cessione a condizioni svantaggiose per la convenuta (o,
meglio, per la sua dante causa, la fallita FISI -poi FININD- S.p.A.), condizioni in particolare rappresentate
da un corrispettivo di cessione più elevato di quello corrispondente al valore delle partecipazioni cedute;
- che anche rispetto a tale (residua) prospettazione va
richiamata la motivazione dell’ordinanza 29.7.2013 sopra riportata quanto al condivisibile orientamento in
tema di limitata rilevanza del dolo (in particolare omissivo) in ordine a contratti di cessione di partecipazioni
sociali nei quali non sia prevista alcuna garanzia a carico del venditore quanto alle condizioni patrimoniali
dell’ente le cui azioni o quote sono oggetto di cessione,
- orientamento che non pare al Tribunale sia stato efficacemente confutato nelle difese conclusionali della
convenuta, la quale si è limitata a richiamare il principio di buona fede e ad addebitare all’attrice un “reticente
silenzio tenuto in occasione delle trattative e della conclusione del contratto” nonché “il comportamento commissivo”
consistente in “dichiarazioni ufficiali che hanno indotto a
credere che i ‘progetti’ fossero esistenti” (cfr. comparsa
conclusionale),
- senza poi tener conto, quanto alla concreta negoziazione in discussione, delle considerazioni dell’attrice in ordine alla “verifica dei contenuti industriali e finanziari dell’operazione” verifica compiuta positivamente, in epoca
antecedente alla conclusione del contratto controverso,
da altra società, MT HOLDING S.p.A. (cfr. doc.1 attrice), riferibile alla coppia di dominus M./T., il primo dei
quali fino al fallimento amministratore di FISI (poi FININD) S.p.A., vale a dire amministratore della controllante dell’attuale convenuta, controllante acquirente le
azioni di KRE delle quali ora si lamenta l’acquisto in situazione di carenza informativa,
- illustrazione rispetto alla quale in replica conclusionale (cfr. paa. 8/9) la convenuta ha controdedotto in riferimento a un preteso coinvolgimento del T. nei comportamenti di mala fede dei quali sarebbe stata vittima
il M., e per esso FISI (poi FININD) S.p.A., senza peraltro indicare alcun riscontro al riguardo,
sì che in definitiva,
- anche a voler seguire una più ampia ricostruzione delle “dichiarazioni menzognere” rilevanti quanto alla configurabilità di raggiri e quindi di dolo (1),nel caso di
specie, - in particolare dato il coinvolgimento del legale
rappresentante dell’acquirente in precedenti trattative e
verifiche relative alla consistenza “industriale” della società le cui azioni sono state oggetto della cessione controversa, deve escludersi l’idoneità della mera esposizione -contenuta nei documenti ufficiali citati dalla convenuta - della “potenzialità” dei progetti di impianti relativi ad energie rinnovabili ad integrare condotta commissiva rilevante ex art. 1440 c.c., cosicché, ad avviso
del Tribunale, la domanda riconvenzionale in esame va
ritenuta infondata, senza necessità di procedere alla
istruttoria richiesta sul tema dalla convenuta, istruttoria
rispetto alla quale permangono valide le considerazioni
di cui all’ordinanza 29.7.2013 sopra riportate;
- quanto alla intervenuta escussione, da parte dell’attrice, del pegno sulle azioni di KRE:
- che, come chiarito all’udienza del 22.6.2015, dalla
escussione della garanzia pignoratizia l’attrice ha ottenuto
l’importo di euro 3.926.473,73, importo che, peraltro,
non rappresentando un adempimento spontaneo della
convenuta, non può essere detratto dall’ammontare della
condanna ma va solo menzionato a fini esecutivi.
- Per quanto fin qui detto vanno dunque rigettate tutte
le conclusioni della convenuta e in accoglimento della
domanda dell’attrice la convenuta va condannata al pagamento in favore dell’attrice dell’importo di euro
12.000.000,00 oltre interessi dal 31.1.2012 all’effettivo
saldo, assorbita in tale pronuncia l’ordinanza emessa dal
(1) Cfr. in tal senso, da ultimo Cass. n.16004/2014, secondo
la cui massima: “Le dichiarazioni menzognere (cosiddetto
mendacio) sono idonee ad integrare raggiri - e, dunque, a configurare il dolo contrattuale - la cui rilevanza è tanto maggiore
in relazione all’affidabilità intrinseca degli atti utilizzati (come
quelli contabili destinati a rappresentare in modo veritiero e
corretto la situazione patrimoniale e finanziaria di una società)
e se siano rese da una parte con la deliberata finalità di offrire
una rappresentazione alterata della veridicità dei presupposti
di fatto rilevanti per la determinazione del prezzo di cessione
delle quote sociali e di viziare nell’altra parte il processo formativo della volontà negoziale. La valutazione della idoneità di tale comportamento a coartare la volontà del ‘deceptus’ è riservata al giudice del merito, il quale è tenuto a motivare specificamente in ordine alle concrete circostanze - la cui prova è a
carico del ‘deceptor’ - dalle quali desumere che l’altra parte
già conosceva o poteva rendersi conto ‘ictu oculi’ dell’inganno
perpetrato nei suoi confronti.”.
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g.i. ex art. 186ter c.p.c. il 29.7.2013 e dandosi atto che
per euro 3.926.473,73 l’attrice ha già realizzato in via
esecutiva la somma oggetto di condanna.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, tenuto conto della natura della causa
e dell’attività difensiva svolta nonché della totale comunanza di difese tra l’attrice e l’intervenuta tale da
imporre una considerazione unitaria di tali due parti.
PQM
- 1. rigetta tutte le conclusioni della convenuta;
2. in accoglimento della domanda dell’attrice, condanna la convenuta al pagamento in favore dell’attrice dell’importo di euro 12.000.000,00 oltre interessi dal
31.1.2012 all’effettivo saldo, assorbita in tale pronuncia
l’ordinanza emessa dal g.i. ex art. 186ter c.p.c. il
29.7.2013 e dandosi atto che per euro 3.926.473,73 l’attrice ha già realizzato in via esecutiva la somma oggetto
di condanna;
(omissis).
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra
istanza disattesa o assorbita, così dispone:
IL COMMENTO
di Enrico Erasmo Bonavera (*)
In caso di vendita di partecipazioni azionarie, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale possono giustificare la risoluzione per mancanza
di qualità della cosa venduta solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie
contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente. Non può tuttavia ritenersi sufficiente a caratterizzare il dolo, ancorché incidente, la mera esposizione, rivolta al mercato ove la società è
quotata, della potenzialità dei progetti della società medesima per impianti relativi ad energie
rinnovabili.
Premessa
La fattispecie sulla quale è intervenuta la pronuncia in commento del Tribunale di Milano verteva su di un contratto di compravendita di azioni
di società per azioni quotata in borsa. A fronte della domanda del venditore diretta ad ottenere la
condanna dell’acquirente al pagamento del saldo
del prezzo, quest’ultimo, al fine di paralizzare gli effetti di quella domanda, ha proposto, in particolare, domanda riconvenzionale, in via principale, di
annullamento del contratto per dolo ai sensi dell’art. 1439 c.c., e, in via subordinata, di condanna
del venditore al risarcimento del danno in presenza
di dolo incidente ai sensi dell’art. 1440 c.c.
Successivamente, in seguito all’emissione, in
corso di causa, di ordinanza ex art. 186 ter c.p.c.,
con la quale è stato ingiunto al convenuto di pagare il saldo del prezzo delle azioni compravendute,
quest’ultimo ha rinunciato alla domanda riconvenzionale di annullamento del contratto per dolo,
proposta in via principale. Sicché, il Tribunale di
Milano, con la sentenza in commento, si è pronun(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Per una disamina dello stato della giurisprudenza sul tema per il periodo anteriore al 1990, si vedano F. Bonelli, Giuri-
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ciato soltanto sull’ulteriore domanda riconvenzionale diretta a fare accertare l’esistenza di dolo incidente.
In base a quanto è dato evincere dalla lettura
della motivazione della sentenza, risulta che il convenuto abbia dedotto che il dolo del venditore sia
consistito nella rappresentazione della potenzialità
di progetti per la realizzazione di nuovi impianti
produttivi di energia rinnovabile, effettuata in comunicazioni ufficiali al mercato.
L’evoluzione della giurisprudenza in tema
di garanzie del venditore
In tema di contratti di compravendita di azioni
o, più genericamente, di partecipazioni sociali, si è
ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte
di legittimità un indirizzo inteso ad ammettere assai restrittivamente i rimedi concessi dalla legge al
compratore.
Ancora in epoca recente (1), la Suprema Corte,
sul rilievo che, “pur dovendosi escludere che i beni
sprudenza e dottrina in tema di acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, in AA.VV., Acquisizioni di società e
di pacchetti azionari di riferimento, Milano, 1990, 5 ss.; e F. Liconti, Vendita di quote di s.r.l. e rilevanza dei vizi della situazio-
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sociali si trovino nella diretta disponibilità dei singoli soci, dal momento che la loro posizione è di tipo corporativo e può esplicarsi solo per il tramite
della organizzazione interna della società, deve riconoscersi che la costituzione di una società di capitali non dà luogo alla creazione di nuovi beni,
ma costituisce il presupposto per l’istituzione di un
diverso regime di utilizzazione dei beni conferiti,
senza tuttavia recidere ogni collegamento con i
soggetti che hanno loro impresso quella destinazione, in quanto detti soggetti - proprio in virtù di tale atto - diventano membri di una collettività organizzata, acquistando una posizione giuridica che li
abilita a partecipare alla gestione collettiva dei beni in questione” (2), ha giudicato “evidente che i
beni ricompresi nel patrimonio sociale non possono essere considerati estranei all’oggetto del contratto di cessione delle quote o delle azioni di una
società di capitali, specie quando queste ultime, come nel caso di specie, siano rappresentative dell’intero capitale sociale. E ciò, non solo nell’ipotesi in
cui le parti abbiano fatto esplicito riferimento, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, alla consistenza del patrimonio sociale o a
particolari caratteristiche dei beni in esso ricompresi, ma anche quando l’affidamento, da parte del
cessionario, sulla ricorrenza di tali requisiti debba
ritenersi giustificato alla stregua del principio di
buona fede (Cass. 2843/96, cit.)” (3).
Sicché, in definitiva, secondo quell’orientamento l’applicazione delle norme in materia di garanzia
del venditore poteva trovare applicazione con riguardo alla consistenza del patrimonio sociale o a
particolari caratteristiche dei beni in esso ricompresi, anche in assenza di specifiche garanzie contrattuali del venditore.
Tuttavia, recentemente è andato consolidandosi
un orientamento più restrittivo. In effetti, sulla base
del rilievo che “la cessione delle azioni di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto
immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale
che tale partecipazione rappresenta”, la Suprema
Corte ha concluso che “le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel
patrimonio sociale - e, di riverbero, alla consistenza
economica della partecipazione - possono giustificare
ne patrimoniale, in questa Rivista, 1992, 519, in sede di commento alla sentenza Trib. Milano 3 ottobre 1991.
(2) In questi termini, Cass. 20 febbraio 2004, n. 3370, in
questa Rivista, 2004, 969, con mio commento, “Aliud pro alio”
nella cessione di quote sociali.
(3) Cass. 20 febbraio 2004, n. 3370, cit.
58
l’annullamento del contratto per errore o, ai sensi
dell’art. 1497 c.c., la risoluzione per difetto di “qualità” della cosa venduta (necessariamente attinente ai
diritti e obblighi che, in concreto, la partecipazione
sociale sia idonea ad attribuire e non al suo valore
economico), solo se il cedente abbia fornito, a tale
riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel
caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o
le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie volte a
realizzare l’inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza” (4).
In particolare, la sentenza qui in commento ha
fatto proprio tale insegnamento, espressamente richiamato nell’ordinanza (trascritta in motivazione)
emessa in corso di causa ai sensi dell’art. 186 ter
c.p.c.
Nella fattispecie, in assenza di espresse garanzie
contrattuali aventi ad oggetto il valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale e, conseguentemente, la consistenza economica delle azioni vendute, il
compratore si è quindi indotto a dedurre l’esistenza
del dolo del venditore. In sede di precisazione delle
conclusioni, egli, tuttavia, non ha riproposto la domanda riconvenzionale principale volta ad ottenere
l’annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1439
c.c. (dolo causale); ma si è limitato a chiedere la
condanna del venditore al risarcimento del danno
ai sensi dell’art. 1440 c.c. (dolo incidente).
Il dolo causale e il dolo incidente
La distinzione tra le due categorie di dolo (dolo
causale ex art. 1439 cit., e dolo incidente ex art.
1440 cit.) non attiene alla caratterizzazione del
comportamento del soggetto che vi ha dato luogo,
ma unicamente agli effetti che ne sono derivati:
nel dolo causale, la conclusione di un contratto
che, senza l’inganno, non si sarebbe concluso, indipendentemente da un danno patrimoniale; nel dolo incidente, la presenza di condizioni diverse da
quelle che altrimenti si sarebbero avute. E diverse
sono altresì le sanzioni previste nelle due fattispecie: l’annullamento ed (eventualmente) il risarcimento dei danni, per la prima; il solo risarcimento
dei danni, nella seconda (5).
(4) Cass. 19 luglio 2007, n. 16031, in Contratti, 2008, 57, e
in Vita not., 2007, 1206. Nello stesso senso, Cass. 13 dicembre
2006, n. 26690, in Foro it., Rep. 2006, voce “Società”, 2227, n.
754.
(5) C.M. Bianca, Diritto civile, III, Milano, 2000, 667.
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A tal proposito, in particolare, la Suprema Corte (6) ha precisato che, qualora i raggiri, gli artifici,
le menzogne siano stati tali da indurre in errore
l’altro contraente, così da determinare il vizio della
volontà, essi sono causa di annullamento del negozio giuridico: in tal caso, il dolo si presenta come
fattore decisivo, e, il derivante vizio di volontà diventa causa di annullamento del contratto, nel
senso che lo stesso non sarebbe stato concluso senza l’uso dei mezzi illeciti. Invece, quando il dolo
non incide sull’esistenza del negozio stesso, perché
comunque validamente concluso, ed ha esercitato
influenza soltanto sul contenuto del negozio, rendendolo più gravoso per una delle parti: in tale
ipotesi, costituendo un illecito, esso è causa di risarcimento del danno ed è soggetto, come tale, alla
disciplina generale degli atti illeciti.
Sicché, in definitiva, quando il dolo sia stato determinante del consenso, esso dovrà qualificarsi come dolo causale; ma quando esso abbia esercitato
un’influenza soltanto su alcuni elementi del contratto, rendendolo più gravoso per la parte che
l’abbia subito, in tal caso dovrà qualificarsi come
dolo incidente.
Anche per il dolo incidente è, comunque, necessaria una condotta insidiosa e idonea a trarre in errore un contraente di normale diligenza; ma è sufficiente che tale condotta sia tale da indurlo a modalità del contratto cui egli, senza il raggiro, non
avrebbe aderito (7).
In concreto, l’accertamento del dolo richiede
una duplice indagine: di carattere oggettivo, innanzi tutto, sulla natura della condotta del soggetto agente (deceptor); e di carattere soggettivo, quindi, sulla percezione di tale condotta da parte del
soggetto che l’abbia subita (deceptus).
In tal senso, è stato precisato che il dolo può
consistere tanto nell’ingannare con notizie false,
con parole o con fatti la parte interessata, direttamente o per mezzo di terzi (dolo commissivo);
quanto nel nascondere alla conoscenza altrui, col
silenzio o con la reticenza, fatti o circostanze decisive (dolo omissivo). Tuttavia, nell’un caso e nell’altro, gli artifici o i raggiri, la reticenza o il silenzio, devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni
soggettive dell’altra parte onde stabilire se erano
idonei a sorprendere una persona di normale dili-
genza, giacché l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (8).
(6) Cass. 26 aprile 1972, n. 1308, in Foro it., Rep. 1972, voce “Contratto in genere”, 691, n. 323.
(7) Si veda, in tal senso, già Cass. 21 maggio 1949, n.
1289, in Foro it., Rep. 1949, voce “Obbligazioni e contratti”,
1162, n. 404.
(8) Cass. 12 gennaio 1991, n. 257, nella banca dati Leggi
d’Italia; nello stesso senso, cfr. già Cass. 22 dicembre 1983, n.
7572, in Foro it., Rep. 1983, voce “Contratto in genere”, 698, n.
306.
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Il dolo nella vendita di partecipazioni
azionarie
Tali principi di carattere generale, riferiti sia alla
distinzione tra dolo causale e dolo incidente, sia ai
caratteri che il dolo deve rivestire, trovano applicazione anche al contratto di vendita avente ad
oggetto partecipazioni azionarie.
Nella fattispecie portata all’esame del Tribunale
di Milano, l’acquirente delle azioni aveva configurato il dolo del venditore con riguardo sia alla rappresentazione in documenti ufficiali rivolti al mercato delle potenzialità di progetti (della società le
cui azioni sono state cedute) per la realizzazione di
nuovi impianti produttivi di energia rinnovabile,
sia al silenzio da esso tenuto nella fase di trattative
circa l’inesistenza di tali progetti.
La sentenza in commento ha tuttavia escluso
che la condotta commissiva addotta, consistita nella mera esposizione della potenzialità dei suddetti
progetti, sia valsa ad integrare il dolo, in ragione in
particolare del coinvolgimento del legale rappresentante della società acquirente in precedenti
trattative e verifiche relative alla consistenza industriale della società le cui azioni sono state vendute.
Sono così venuti in rilievo entrambi gli elementi, sia oggettivo che soggettivo, la cui ricorrenza
consente di configurare il dolo.
Sotto il primo profilo, è evidente che riveste
particolare importanza, ai fini della conclusione di
un contratto di vendita di partecipazioni sociali e
della determinazione del relativo prezzo, l’acquisizione di dati precisi riguardo alla situazione patrimoniale della società le cui partecipazioni vengono
vendute.
Ed è per lo più in relazione alla difformità della
situazione patrimoniale quale risultante dai documenti contabili della società, rispetto a quella effettiva e reale, che si è talora presentato in giurisprudenza il problema dell’accertamento del dolo
del venditore, sia quale causa di annullamento del
contratto (dolo causale) che quale fonte dell’obbligazione del venditore di risarcire il danno che possa esserne derivato al compratore (dolo incidente).
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A tale riguardo, la Suprema Corte ha escluso
che la falsità oggettiva del bilancio rilevi ex se come prova del dolo (9).
Occorre, in effetti, una condotta più precisa e
specifica del venditore, perché possa essere configurato il dolo, in presenza di un bilancio falso (della società le cui azioni sono state vendute).
Così, in particolare, è stata accolta la domanda
di annullamento per dolo del contratto preliminare
per la compravendita di quote di una società, in
una fattispecie nella quale il promittente venditore
aveva consegnato al promissario acquirente una situazione patrimoniale “molto distante dalle reali
condizioni della società, quali si sarebbero rivelate
da lì a poche settimane nel bilancio e senza peritarsi, alla data di conclusione delle trattative con
la firma del preliminare, di avvisare la controparte
dei ben diversi termini della gestione 2003”, e nella quale “era allegato al contratto un piano di redditività che assumeva che il 2004 avrebbe avuto
un utile di 45.000 Euro ed una forte crescita per i
due anni successivi e ciò configge nettamente con
la sostanziale assenza di utile della gestione
2003” (10).
E, in fattispecie analoga, è stato ravvisato il dolo
incidente nella condotta del venditore che, in fase
di trattative per la vendita di un rilevante pacchetto azionario, aveva fatto riferimento a una situazione patrimoniale predisposta dagli amministratori,
poi condannati per il reato di false comunicazioni
sociali (11).
Analogamente, è stato ravvisato come mendacio, di per sé idoneo ad integrare un raggiro che, in
quanto tale, può essere determinante del consenso,
la condotta del soggetto “il quale non si è limitato
a tacere la reale situazione patrimoniale e finanziaria della società, ovvero a omettere di rendere le
informazioni che l’acquirente si attenderebbe di ricevere da un contraente in buona fede in un’analoga situazione negoziale, ma era consapevole che il
prezzo delle partecipazioni cedute ... non corrispondeva a quello reale, poiché rispecchiava i valori alterati risultanti dai documenti contabili” [da lui
stesso] “redatti ... o di cui egli era a conoscenza, in
quanto socio e amministratore unico della società” (12).
Per contro, non è stata configurata come integrante il dolo la condotta del venditore di azioni il
quale abbia taciuto circostanze emerse solo successivamente alla conclusione del contratto o per erronee appostazioni di bilancio successive alla conclusione del contratto (13).
La rilevanza della condotta, sia essa commissiva
od omissiva, del venditore, da qualificarsi come
mendacio, non consente comunque, di per sé sola,
di ravvisare il dolo.
Occorre altresì la ricorrenza dell’elemento soggettivo: e cioè che tale condotta sia idonea a sorprendere una persona di normale diligenza. La parte ingannata riceve pertanto protezione, soltanto se la
buona fede sia incolpevole, non costituita, cioè, da
negligenza o da ignoranza (14).
Sotto tale profilo, è stata annullata la sentenza
del giudice di merito che, per escludere il dolo, si
era limitata a osservare - con motivazione dalla Suprema Corte ritenuta inadeguata - che il deceptus
“non fosse persona sprovveduta e incapace di controllo dei dati fornitile dalla controparte e, quindi,
implicitamente, che il mendacio non fosse idoneo
a sorprenderla” (15). Ed è stato pertanto affermato,
quale principio cui il giudice di rinvio debba uniformarsi, che “il dolo che è causa di annullamento
del contratto (nella specie, di cessione delle quote
di una società di capitali) può consistere anche in
dichiarazioni menzognere (c.d. mendacio), in
quanto tali potenzialmente idonee ad integrare raggiri, tanto più rilevanti quanto maggiore è l’affidabilità intrinseca degli atti utilizzati (come quelli
contabili destinati a rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria di una società), qualora rese da una parte con
la deliberata finalità di offrire una rappresentazione
alterata della veridicità dei presupposti di fatto rilevanti per la determinazione del prezzo di cessione
delle quote sociali e di viziare nell’altra parte il
processo formativo della volontà negoziale. La va-
(9) Cass. 17 dicembre 2012, n. 23207, cit. in motivazione
da Cass. 11 luglio 2014, n. 16004, in questa Rivista, 2014,
1142. Si veda anche Trib. Milano 3 ottobre 1991, in questa Rivista, 1992, 517, con il commento di F. Liconti, Vendita di quote di s.r.l. e rilevanza dei vizi della situazione patrimoniale, cit.,
ove si afferma, in motivazione, che “l’eventuale inesatta iscrizione a bilancio di singole poste (‘soci conti finanziamenti’)
non dimostra che senza di essa il B. non avrebbe contrattato”.
(10) App. Milano 29 marzo 2006, nella banca dati Leggi d’Italia.
(11) Trib. Milano 4 giugno 1998, in Giur. it., 1998, 2107, con
nota redazionale, e in Notariato, 1999, 459, con nota di P. Di
Maria, Rimedi e garanzie a tutela dell’acquirente di partecipazioni in società di capitali.
(12) In questi termini, Cass. 11 luglio 2014, n. 16004, cit.,
che ha confermato sul punto l’accertamento di fatto del giudice di merito.
(13) Trib. Milano 17 aprile 1989, in questa Rivista, 1989,
939.
(14) Cass. 19 luglio 2007, n. 16031, cit.
(15) Così, Cass. 11 luglio 2014, n. 16004, cit.
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lutazione della idoneità di tale comportamento a
coartare la volontà del deceptus è riservata al giudice del merito, il quale è tenuto a motivare specificamente in ordine alle concrete circostanze - la cui
prova è a carico del deceptor - dalle quali desumere
che l’altra parte già conosceva o poteva rendersi
conto ictu oculi dell’inganno perpetrato nei suoi
confronti” (16).
Anche nella fattispecie che ha dato luogo alla
pronuncia in commento, le dichiarazioni del venditore riguardavano la situazione patrimoniale della
società le cui azioni sono state compravendute. Esse non vertevano, tuttavia, su elementi contabili
di essa, bensì sulle sue prospettive reddituali in relazione alla potenzialità di progetti di impianti per
energie rinnovabili.
In particolare, poi, la rappresentazione della potenzialità di tali impianti non era indirizzata, nella
fase di trattative precedenti l’acquisto, al compratore; bensì, più generalmente, al mercato ove la società era quotata. Sicché, il mendacio, addotto
consistere in tali dichiarazioni rivolte al mercato,
non è stato ritenuto “integrare condotta commissiva rilevante ex art. 1440 c.c.” (17).
E, in ogni caso, nella fattispecie, è stata esclusa
l’idoneità di tali dichiarazioni ad ingenerare l’affidamento incolpevole dell’acquirente, posto che
quest’ultimo è risultato essere stato coinvolto “in
precedenti trattative e verifiche relative alla consistenza industriale della società le cui azioni sono
state oggetto della cessione controversa” (18).
Né, nella fattispecie, poteva configurarsi dolo
omissivo. In effetti, “il dolo omissivo, pur potendo
viziare la volontà, è causa di annullamento, ai sensi
dell’art. 1439 c.c., solo quando l’inerzia della parte
si inserisca in un complesso comportamento, adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a
realizzare l’inganno perseguito, determinando l’errore del deceptus. Pertanto, il semplice silenzio, anche in ordine a situazioni di interesse della controparte, e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà, ma limitandosi a non contrastare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non costituiscono di per sé
causa invalidante del contratto” (19).
Peraltro, sia pur con specifico riguardo al diverso
caso dell’inesattezza di informazioni contenute nel
prospetto informativo rivolto al mercato azionario,
merita di essere segnalata la recente sentenza della
Suprema Corte (20), secondo cui, “Poiché le regole
destinate a disciplinare il prospetto informativo
che correda l’offerta al pubblico sono regole volte
a tutelare un insieme ancora indeterminato di soggetti per consentire a ciascuno di essi la corretta
percezione dei dati occorrenti al compimento di
scelte consapevoli, la loro inosservanza si configura
come un’ipotesi di violazione del dovere di neminem laedere, con la conseguenza che colui al quale
tale violazione è imputabile può essere chiamato a
rispondere del danno da altri subito a cagione della
violazione medesima secondo i principi della responsabilità aquiliana”.
(16) Cass. 11 luglio 2014, n. 16004, cit.
(17) In questi termini, la sentenza in commento.
(18) Ibidem.
(19) In questo senso, Cass. 20 aprile 2006, n. 9253, in Contratti, 2007, 19.
(20) Cass. 11 giugno 2010, n. 14056, in Resp. civ., 2012,
801, con nota di A. Zanardo, La Suprema Corte si pronuncia
sulla responsabilità da prospetto. La conforme sentenza di primo grado di quel giudizio, Trib. Napoli 25 settembre 2002, è
stata pubblicata in questa Rivista, 2004, 75, con il commento
di S. Rizzini Bisinelli - R. Zuccato, Danno da falso in prospetto.
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Società a responsabilità limitata
Modifica di fatto e modifica
formale dell’oggetto sociale: per
l’esercizio del recesso occorre
sempre una delibera
assembleare
Tribunale di Napoli, Sez. III, 11 marzo 2015 (data decisione) - Giud. Macrì - GEL.FRAN. S.r.l. c.
S.A.C.I. S.r.l. Società Agricoltura Commercio e Industria
Società - Società di capitali - Modifica di fatto dell’oggetto sociale - Acquiescenza dei soci - Delibera modificativa della
clausola dello statuto relativa all’oggetto sociale - Recesso - Esercizio dei diritti sociali
(Cod. civ. art. 2473)
Al socio non compete il diritto di recesso per il mero compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale; il diritto di recesso sorge solo a seguito di una decisione formale dei
soci ai sensi dell’art. 2479 c.c. Il socio, anche dopo la dichiarazione di recesso, è legittimato a partecipare alle
assemblee e a sottoscrivere l’aumento di capitale che sia eventualmente deliberato. Tale sottoscrizione non
esprime una volontà incompatibile rispetto al recesso, ma è un atto necessitato dall’esigenza di non vedere
annacquato il valore della propria partecipazione sociale.
Il Tribunale (omissis).
Con atto di citazione notificato a tutti i convenuti in
data 28 gennaio 2011, la Gel.fran. S.r.l. (d’ora innanzi
Gelfran) ha chiesto: “1) accertare e dichiarare che la
società Gelfran S.r.l. ha legittimamente esercitato il recesso dalla società S.A.C.I. S.r.l. (d’ora innanzi Saci), e,
per l’effetto, accertare e dichiarare il suo diritto alla liquidazione della quota sociale; 2) accertare e liquidare
il valore della partecipazione sociale della società Gelfran S.r.l. nella società Saci S.r.l., con riferimento alla
data dell’effettuato recesso, e condannare la società Saci
S.r.l. a corrisponderlo alla società Gelfran medesima,
con rivalutazioni ed interessi dalla data del recesso fino
al soddisfo, vinte le spese processuali”; in via istruttoria,
ha chiesto ammettersi consulenza tecnica d’ufficio volta
alla determinazione della quota.
Ha esposto in fatto di essere socia della Saci al 25% e
che gli altri soci sono Multifin, Fineffe, Varmag; che in
data 18.10.2010 l’assemblea dei soci della Saci (con il
solo suo voto contrario) ha adottato la delibera verbalizzata dal notaio Vincenzo Pulcini di Napoli, racc.
51055 e rep. 12394, pubblicata sul registro delle imprese
di Napoli, con cui è stato modificato l’art. 1.2 dello statuto della società, disponendo che l’oggetto dell’impresa
sociale sia costituito da attività di costruzioni edili, da
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svolgersi in proprio ovvero attraverso l’assunzione di appalti presso terzi, laddove prima dell’intervenuta modifica l’oggetto sociale consisteva in attività di produzione
e commercializzazione di prodotti conservieri; a seguito
dell’adozione di tale delibera, la Gelfran con raccomandata del 25.10.2010 inviata alla società, all’amministratore unico ed al presidente del collegio sindacale, ha comunicato il proprio recesso dalla società chiedendo l’avvio della procedura di liquidazione della sua quota, secondo le previsioni di legge; l’amministratore della Saci
ha contestato tuttavia l’esercizio di tale recesso dal momento che l’assemblea altro non ha fatto che formalizzare una modifica sostanziale dell’oggetto sociale intervenuta anni prima; di qui l’interesse della Gelfran a
chiedere che la legittimità ed efficacia del suo recesso
siano accertate giudizialmente, nonché a chiedere la liquidazione giudiziale della quota.
Si sono costituite con un’unica comparsa la Saci, la
Multifin S.r.l., la Fineffe S.r.l. e la Varmag S.r.l. che
hanno confermato la ricostruzione in fatto proposta dall’attrice, ma hanno puntualizzato:
a) che la Saci è una società da sempre della famiglia F.
e si è occupata di produzione e commercializzazione dei
prodotti conservieri;
b) che, alla fine del 2005, in concomitanza con lo scemare dell’attività produttiva, il sig. G. F. ha alienato la
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sua quota di partecipazione nella Gelfran nella misura
del 25% ai familiari e, precisamente, ai figli F. (20%),
G. (40%), ed alla moglie R. A. S. (40%);
c) che la Gelfran è una società che esercita in via esclusiva attività immobiliare;
d) che il sig. G. F. ha amministrato la Saci dalla sua costituzione fino al 10.3.2010 quando è stato revocato per
giusta causa dall’assemblea dei soci al 75%; nella predetta assemblea il delegato dei soci Multifin, Fineffe e
Varmag ha contestato tra l’altro al F. di aver omesso “di
convocare un’assemblea ad hoc per constatare il cambiamento dell’oggetto sociale” e lo stesso F. nella relazione
al bilancio al 31.12.2007 ed al 31.12.2008 ha dichiarato
alla presenza anche del socio Gelfran che “l’andamento
della gestione è stato condizionato dalla cessata attività
di commercializzazione per passare al settore immobiliare”; di qui la necessità per la Saci di allineare l’oggetto
sociale di fatto a quello di diritto.
Le convenute hanno contestato che la Gelfran non sapesse della modifica statutaria, dal momento che aveva
approvato i bilanci al 31.12.2007 ed al 31.12.2008 all’esito di assemblee in cui l’amministratore aveva chiaramente espresso l’intervenuta modifica dell’attività esercitata da conserviera ad immobiliare; inoltre, hanno osservato che, successivamente alla formalizzazione del recesso, in data 22.12.2010 è stata convocata l’assemblea
straordinaria dei soci della Saci per procedere alla riduzione del capitale per perdite ed alla conseguente ricostituzione dello stesso ai sensi dell’art. 2482 - ter c.c.; in
tale sede la Gelfran, pur operando il richiamo al recesso
operato, ha dichiarato di voler essere presente in assemblea per esercitare i propri diritti amministrativi e, successivamente, ha sottoscritto integralmente il capitale
deliberato dall’assemblea del 22.12.2010-13.1.2011.
Trattata ed istruita documentalmente la causa anche
con l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio
ordinata dal giudice Angelo Del Franco che ha nominato il consulente contabile ed il consulente per la stima
degli immobili, all’udienza del 21 novembre 2014, questo Giudice, nelle more subentrata nel ruolo, verificata
l’impossibilità della conciliazione della lite - l’attrice ha
dichiarato di essere disponibile a definire la lite verso il
corrispettivo di € 2.000.000,00, di cui € 1.600.000,00
per la quota, la convenuta ha dichiarato di essere disponibile a transigere verso il corrispettivo di € 960.000,00
-, ha invitato le parti a rassegnare le rispettive conclusioni; quindi ha riservato la causa in decisione con termine fino al 20 gennaio 2015 per le comparse conclusionali e fino al 9 febbraio 2015 per le memorie di replica.
L’attrice ha trasmesso in via telematica la comparsa il
20 gennaio 2015 e la replica il 27 gennaio 2015; risulta
dalla consultazione dello storico del fascicolo telematico
che l’attrice avrebbe depositato un’istanza di discussione
orale, ma risulta invece depositato un ordinario scritto
conclusionale; la convenuta ha trasmesso in via telematica la comparsa il 19 gennaio 2015 e la replica il 5 gennaio 2015.
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Motivi della decisione
Oggetto del presente giudizio è l’accertamento della legittimità del recesso esercitato dall’attrice a seguito della modifica dell’oggetto sociale della società di cui è socio.
Secondo l’attrice, il recesso è legittimo perché la società
con delibera del 18.10.2010 ha mutato l’oggetto sociale
dall’attività conserviera all’attività immobiliare, di qui
l’obbligo della Saci di liquidare la quota.
Secondo le convenute il recesso non è legittimo perché
l’attrice ha in un certo senso prestato acquiescenza e
compiuto attività di gestione e godimento del patrimonio immobiliare, “tradendo” l’oggetto sociale indicato
nell’atto costitutivo, ed ha inoltre manifestato un comportamento incompatibile con il recesso perché ha sottoscritto l’aumento di capitale successivamente deliberato.
Le parti non discutono sulle modalità di recesso ma solo
sulla ricorrenza del presupposto.
Orbene, è noto che l’art. 2473 c.c. attribuisce ai soci il
diritto di recesso quando non abbiano consentito al
cambiamento dell’oggetto sociale.
Tale norma va applicata senza alcun dubbio al presente
caso, siccome la Gelfran ha legittimamente dichiarato
di voler recedere dalla Saci, dopo che l’assemblea ha
mutato l’oggetto sociale.
Nell’oggetto sociale sono indicate, infatti, le attività
che i soci “possono compiere” ma non quelle che “devono compiere”, con la conseguenza che il non compierle non implica mai una modifica “di fatto” dell’oggetto sociale perché permane sempre la possibilità, come potenzialità, di svolgere o di ritornare a svolgere
quelle attività in futuro. Solo la modificazione formale
dell’oggetto sociale impedisce tale possibilità e quindi
legittima il socio dissenziente al recesso. Peraltro non
sembra concepibile una modifica di fatto dell’oggetto
sociale, nei sensi prospettati dalla convenuta, che presuppone pur sempre una decisione formale dei soci ai
sensi dell’art. 2479 c.c.
La sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale da
parte della Gelfran in data successiva all’esercizio del
recesso non è espressione di una volontà incompatibile
rispetto al recesso ma è atto necessitato dall’esigenza di
non vedere annacquato il valore della propria partecipazione sociale
La Saci è tenuta quindi a rimborsare alla Gelfran la sua
quota al valore stimato di € 1.145.099,00.
La perizia del consulente tecnico dott. Luigi Russo, il
quale si è avvalso dell’ausilio dell’ing. Luca Sasso (pure
nominato dal Giudice istruttore) per la stima del compendio immobiliare, appare accurata, puntuale, ed immune da vizi logici. Le contestazioni dell’attrice hanno
riguardato solo la consulenza tecnica relativa agli immobili ma paiono superate dalle condivisibili osservazioni dell’ing. Sasso, il quale ha rilevato come i rilievi
critici del consulente tecnico di parte attrice in ordine
al valore di mercato dei cespiti non siano stati adeguatamente documentati.
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Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da
dispositivo solo rispetto alla società, siccome nei confronti dei soci non risulta formulata alcuna domanda.
del valore della quota di partecipazione della prima per
€ 1.145.099,00, oltre interessi legali dalla domanda giudiziale al soddisfo;
(omissis).
P.Q.M.
accoglie le domande dell’attrice Gel.fran S.r.l. e per l’effetto condanna la convenuta S.A.C.I. S.r.l. al rimborso
IL COMMENTO
di Enrico Civerra (*)
L’art. 2473 c.c. attribuisce il diritto di recesso per effetto del compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nello statuto. La mera
modifica di fatto dell’oggetto sociale a causa di un’attività compiuta dagli amministratori non attribuisce di per sé sola la titolarità all’esercizio del recesso, essendo, a tal fine sempre necessario che l’assemblea abbia preventivamente autorizzato gli amministratori a norma dell’art. 2479
c.c. e che a tale delibera, poi attuata, il recedente sia stato dissenziente o astenuto. Il codice civile non prende posizione sulla dibattuta questione della condizione del socio dopo che la propria dichiarazione di recesso sia giunta alla società e, quindi, divenuta irrevocabile. Nelle more
dell’effettiva esecuzione del rimborso ovvero del termine concesso alla società per rendere inefficace il recesso (art. 2473, ultimo comma, c.c.) il socio può esercitare unicamente i diritti amministrativi e patrimoniali finalizzati a consentirgli di mantenere la propria posizione nell’eventualità
di una restitutio ad integrum nella sua qualità di socio.
Il caso
Il provvedimento del Tribunale di Napoli ci offre l’occasione per analizzare due interessanti questioni in materia di recesso da società a responsabilità limitata. Nella vicenda in esame l’assemblea di
una S.r.l. delibera una modifica sostanziale della
clausola statutaria che individua l’oggetto sociale.
Uno dei soci esercita il recesso ex art. 2473 c.c.,
ma gli viene contestata la carenza di legittimità di
tale dichiarazione. Si eccepisce, in particolare, che
la modifica dell’oggetto sociale effettivamente deliberata non innovava l’oggetto sociale, ma recepiva
e formalizzava una situazione di fatto già operante
da lungo tempo. In altri termini, l’oggetto sociale
era stato già modificato di fatto in dipendenza di
una diversa attività condotta dagli amministratori
molto prima che l’assemblea ne recepisse formalmente il contenuto nello statuto. Nel corso del periodo di tempo antecedente l’assemblea de qua il
recedente, a conoscenza dell’intervenuta modifica
di fatto dell’attività, aveva tenuto un comportamento che inequivocabilmente induceva gli altri
soci e gli amministratori nella convinzione di una
sua tacita acquiescenza e consenso al nuovo oggetto della società, così che il voto contrario espresso
in assemblea resta privo di alcuna valenza ai fini
del recesso. Il tribunale nega valore ad un pregresso
comportamento acquiescente dell’attore-recedente,
valorizzando il dato del mancato consenso alla modifica formale dello statuto deliberata: “non sembra
concepibile - scrive il Tribunale - una modifica di
fatto dell’oggetto sociale che presuppone pur sempre una decisione formale dei soci ai sensi dell’art.
2479 c.c.”. Assunta tale decisione, resta possibile,
sostiene la corte partenopea, attivare i rimedi che
l’ordinamento prevede a favore del socio dissenziente. Il convenuto, ad avvalorare la tesi di un
comportamento poco coerente del socio recedente,
espone non solo l’elemento di una adesione alla
modifica di fatto dell’oggetto sociale comprovata
dalla partecipazioni alle assemblee chiamate ad approvare bilanci nei quali si dava atto dell’intervenuta modifica dell’oggetto sociale, ma anche la circostanza che, successivamente alla manifestazione
del recesso, lo stesso socio è intervenuto in un’assemblea e, in quella sede, ha sottoscritto in eserci-
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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zio del diritto di opzione a sé spettante una quota
dell’aumento di capitale ivi deliberato. Anche questo elemento non viene giudicato dirimente dal
Tribunale che, anzi, sottolinea che “la sottoscrizione dell’aumento del capitale sociale in data successiva all’esercizio del recesso non è espressione di
una volontà incompatibile rispetto al recesso, ma è
un atto necessitato dall’esigenza di non vedere annacquato il valore della propria partecipazione sociale”. La descrizione del fatto in causa e delle motivazioni della relativa decisione ci consentono di
proporre alcune riflessioni. Anticipiamo fin da subito la nostra personale adesione alla conclusione
del Tribunale circa la legittimità del recesso che il
socio ha esercitato all’indomani della delibera assembleare che ha sostituito l’oggetto sociale originario, nonostante, nei fatti, tale modifica fosse già
operativa da alcuni anni. Ci preme, tuttavia, evidenziare alcuni elementi a nostro avviso non adeguatamente esplicitati nel provvedimento, anche
se di sicuro di tali rilievi si sarà tenuto conto nell’assumere la decisione. Nell’ultima parte di questo
breve commento, esprimeremo alcune valutazioni
in merito ad un interessante obiter sulla legittimità
dell’intervento in assemblea del recedente e sui poteri che questi medio tempore conserva, con particolare riferimento alla possibilità di sottoscrivere un
aumento di capitale giustificato, nel caso di specie,
“dall’esigenza di non vedere annacquato il valore
della propria partecipazione”.
Tradizionalmente il diritto di recesso era concepito come strumento di tutela della posizione del
singolo socio (1): di fronte all’eventualità di subire
decisioni della maggioranza ritenute penalizzanti
perché tali da modificare condizioni essenziali della
società, al socio viene concesso un “diritto di reazione” consistente nella possibilità di disinvestire e
di uscire dalla società riscuotendo una somma pari
al valore patrimoniale della società. Le più moderne impostazioni tengono conto della circostanza
che le società di capitali sono veicoli dell’investimento e tale visione deve orientare l’interpretazione dei diversi istituti societari, fra i quali, in primis
proprio il recesso. Lo stesso uso del termine exit permette di riunire in una medesima macro-fattispecie
“tutti quegli istituti che, pur presentando differenze
anche significative, comportano il venire meno del
coinvolgimento nelle vicende della società, consentono al socio di recuperare la ricchezza che si
trova investita nella stessa” (2). La dottrina, parlando del recesso, si è espressa sostenendone “il
ruolo di strumento di tutela dell’interesse del socio
al disinvestimento della partecipazione” (3). Si
pensi, prima della riforma del diritto societario, al
lungo dibattito in merito alla legittimità di revocare lo stato di liquidazione della società. Si era giunti alla conclusione che l’apertura della fase di scioglimento attribuisse a ciascun socio il diritto a percepire, ultimata la liquidazione, il valore patrimoniale della società e che, pertanto, la maggioranza
non sarebbe stata più arbitra di ripristinare la vocazione produttiva della società revocando lo stato di
scioglimento: tale decisione avrebbe comportato,
infatti, la violazione di un diritto intangibile del
socio, quello, cioè, di recuperare il proprio investimento. Il nuovo art. 2487 ter c.c. permette alla società di deliberare, con le maggioranze proprie delle modifiche dello statuto, la revoca dello stato di
liquidazione, ma attribuisce al socio dissenziente il
diritto di esercitare il recesso e di fare salve, in tal
modo, le proprie prerogative patrimoniali. Parrebbe, allora, confermata l’impressione che il recesso
sia delineato come presidio del diritto del singolo
socio a non vedere alterati gli elementi essenziali
della società. Autorevole dottrina, per esempio, ha
sostenuto che “l’istituto del recesso rappresenta il
pendant di un sostanziale ridimensionamento delle
situazioni contrattuali ritenute intangibili della
maggioranza durante societate” (4). Accanto a que-
(1) Nell’impostazione tradizionale, si osservava che la modificabilità a maggioranza del contratto sociale aveva reso “necessario introdurre uno strumento (tipicamente) contrattuale al
fine di attenuare (anche se non eliminare) certe conseguenze.
Si riteneva, infatti, che la maggioranza non potesse imporre a
tutti gli altri soci determinate modificazioni del contratto sociale, senza che a questi non fosse data la possibilità di non sottostare a siffatte decisioni e, quindi, di lasciare la società”, A.
Daccò, Il diritto di recesso: limiti dell’istituto e limiti dell’autonomia privata nella società a responsabilità limitata, in Scritti in
onore di Vincenzo Buonocore, Milano, 2005, 2266.
(2) C. Frigeni, Partecipazione in società di capitali e diritto al
disinvestimento, Milano, 2009, 2.
(3) S. Masturzi, Recesso del socio, in M. Sandulli - V. Santo-
ro (a cura di), La riforma delle società, Torino, 2003, 82; O. Cagnasso, Recesso del socio, in Il nuovo diritto societario, commentario diretto da G. Cottino - G. Bonfante - O. Cagnasso - P.
Montalenti, Bologna, 2004, 1838 sostiene che il recesso “funge da “correttivo” al potere della maggioranza di introdurre determinate modificazioni nell’atto costitutivo”. Recentemente,
ancora, L. Cavalaglio, Art. 2437 c.c., in Commentario del codice
civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2015, 1175 che scrive “a
fronte dell’insopportabile pervasività del principio maggioritario è necessario approntare una tutela del socio dissenziente”.
(4) G. Marasà, Prime note sulle modifiche dell’atto costitutivo
della s.p.a. nella riforma, in Giur. comm., 2003, I, 142. Scrive V.
Calandra Buonaura, Il recesso del socio di società di capitali, in
Scritti in onore di Vincenzo Buonocore, Milano, 2005, 2062 che
Lo “strumento” del recesso
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sta affermazione della funzione dell’istituto in commento se ne pone un’altra che, invece, si preoccupa di inquadrare il recesso in un contesto più ampio teso a valorizzare una più ampia facoltà di mutare forma e struttura per adeguarsi alle diverse esigenze e situazioni che possono capitare nel corso
della vita della società senza dover subire veti o costrizioni della minoranza. Si ritorni a considerare
l’esempio della revoca della liquidazione: l’interesse
del legislatore è quello di facilitare il permanere in
vita di strutture societarie già esistenti e per questo
consente alla maggioranza di riattivare il processo
produttivo quando se ne ravvisino i presupposti.
Questa tesi non si oppone diametralmente alla prima, ma ne rappresenta una seconda faccia e la
completa. Leggiamo in un recente commentario
che è “stato tracciato un nuovo punto di equilibrio
tra le esigenze di evitare la perdita di risorse da parte della società (che inevitabilmente si perde con
il recesso) e quella della stessa società di attrarre finanziamenti, consentendo un rapido smobilizzo degli stessi” (5). Non c’è dubbio che aver consentito
alla maggioranza il diritto di prendere importanti e
radicali decisioni, come, appunto, quella di revocare lo scioglimento, rappresenta una seria implementazione delle potenzialità della società come
organismo centrale nei meccanismi di formazione
della ricchezza. Peraltro, il rischio di depauperamento del patrimonio sociale che l’esercizio del recesso comporta, finisce per indurre la maggioranza
a negoziare le condizioni di base delle proprie decisioni prima di assumerle formalmente, forzando
quel dialogo tra i soci che di per sé rappresenta certamente un fattore di ricchezza per la società; si
tenga, infine, conto che qualora tale dialogo non
abbia “funzionato”, la società può sempre revocare
la propria decisione fonte del recesso, finendo per
fare perdere efficacia a quest’ultimo, ripristinando
le condizioni di partenza. Questa possibilità di revocare la decisione che ha dato luogo al recesso e
con essa far perdere efficacia alla dichiarazione del
socio viene a completare il quadro dell’istituto: l’idea che il recesso si traduca nella sola reazione del
socio che abbandona la società non condividendone scelte essenziali va temperata. Non si “tratta più
di un “abbandono senza ritorno”, ma di una decisione che mette la maggioranza nelle condizioni di
trattenere il socio ritirando la delibera che ha legittimato il recesso” (6). Si vuole vedere, in altri termini, nell’istituto del recesso non tanto e non solo
un presidio delle posizioni del singolo socio, ma
uno strumento di equilibrio che, alla fine avvantaggia il ricorso ad avvalersi dello schema capitalistico per l’attività di impresa (7). Si tratta, quindi,
di consentire un rafforzamento dei poteri della
maggioranza e, per questa via, di realizzare l’obiettivo della riforma di favorire l’utilizzo dello schema
societario capitalistico per l’esercizio dell’attività di
impresa, nonché di consentire la crescita, l’efficienza e lo sviluppo dell’attività economica. Si è
pensato, infatti, che la competitività delle imprese
può essere raggiunta anche immaginando che il recesso possa adempiere ad una funzione sostitutiva
del potere del singolo socio di condizionare l’adozione di determinate importanti delibere solo perché tali da pregiudicare il suo interesse individuale.
Si intende, allora, accogliere e sviluppare il suggerimento di assegnare un ruolo sistematico a questa
interpretazione del recesso: il recesso, come strumento “eccezionale”, va riconosciuto unicamente
in relazione a quelle delibere che incidono direttamente sulle caratteristiche essenziali della società,
ossia per quelle decisioni che stravolgono, in un
certo senso, quegli assetti che il socio, entrando
nella compagine sociale aveva accettato e sulla cui
permanenza aveva fatto affidamento; si tratta, cioè,
di quelle delibere per la cui assunzione, in assenza
del rimedio dell’exit, si sarebbe potuto dubitare dell’utilizzabilità del metodo maggioritario (8). Vogliamo, allora, portare l’attenzione sul significato del
recesso nella dialettica maggioranza-minoranza e
sulla sua funzione di strumento di contrattazione
per cui “il recesso non si risolve in una mera attività di disinvestimento della propria partecipazione
da parte del socio, ma può tradursi in un’operazione più complessa, caratterizzata da una valutazione
“il diritto di recesso assolve ad una funzione sostitutiva rispetto alla tutela costituita dalla possibilità per il socio di porre il
veto ad una determinata deliberazione o al compimento di una
determinata operazione ritenuta lesiva di un suo diritto o di impugnarla o di censurarla sul piano della legittimità”.
(5) L. Delli Priscoli, Delle modificazioni dello statuto. Diritto di
recesso. Artt. 2437-2437 sexies, in Commentario, diretto da
F.D: Busnelli, Milano, 2013, 5.
(6) L. Delli Priscoli, Delle modificazioni, cit., 14.
(7) Secondo la giurisprudenza il recesso è uno strumento di
tutela del socio altrimenti costretto a subire “il potere sover-
chiante della maggioranza”, Cass. 8 novembre 2005, n.
21641, in Riv. dir. comm., 2005, II, 279.
(8) Si tratta della posizione sostenuta da V. Calandra Buonaura, Il recesso del socio, cit., 2066 laddove formula, appunto,
la tesi del recesso come “rimedio sostitutivo del potere della
maggioranza”. Tale impostazione, come nota lo stesso Autore,
sembra di particolare utilità proprio per affrontare una delle
questioni proposte dal provvedimento in epigrafe, ossia quello
della causa di recesso rappresentata dal compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale.
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Nel provvedimento in esame si discute sulla legittimazione al recesso di fronte ad una deliberazione modificativa dell’oggetto sociale che, nella realtà, recepiva e introduceva nello statuto l’attività
che, di fatto, la società già svolgeva da lungo tempo. Nodo essenziale della vicenda - taciuto nel
provvedimento - è quello di capire se il socio avesse potuto recedere non appena venuto a conoscenza della modifica di fatto dell’oggetto sociale (conoscenza che si ritiene presunta nell’approvazione
dei vari bilanci di esercizio nei quali si dava, appunto, atto della “nuova” attività posta in essere).
Come affermato dalla convenuta, il mancato tempestivo esercizio del recesso opposto alla modifica
di fatto dell’oggetto sociale - ed anzi l’adesione mostrata a tale variazione evidenziata nell’approvazione dei bilanci - avrebbe fatto decadere il socio dal
suo diritto di exit inibendogli ogni possibilità di
esercizio a fronte del mero adeguamento formale
dello statuto a quella variazione già fattualmente
consacrata ed operativa. Un rapido esame dei materiali normativi è utile per prendere atto della
complessità della materia e, soprattutto, per rilevare l’importanza del provvedimento in epigrafe. La
questione che ci interessa è quella del compimento
di atti di gestione di tale rilevanza da determinare
una modifica di fatto dell’oggetto sociale. Solitamente, l’esempio classico di tale fattispecie è quello dell’acquisto di un ramo aziendale che gestisce
un’attività diversa da quella tipicamente esercitata
dalla società. L’operazione gestoria in esame richiede - proprio perché il suo compimento altera significativamente una clausola statutaria - una preventiva deliberazione autorizzativa da parte dei soci:
l’art. 2479, comma 2, c.c. rimette inequivocabilmente alla competenza assembleare “la decisione
di compiere operazioni che comportano una so-
stanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo”; a sua volta, l’art.
2473 c.c. attribuisce il diritto di recesso in esito al
“compimento di operazioni che comportano una
sostanziale modificazione dell’oggetto della società
determinato nell’atto costitutivo”. La lettura sinottica dei due disposti normativi ci fa comprendere
che la fattispecie enunciata non contempla una diretta modifica dello statuto, ma solo una variazione
di fatto, conseguente, cioè, al compimento di un’operazione di gestione. Tale prima considerazione
evidenzia che, diversamente dal solito, il recesso
pare essere riconosciuto non come diretta dipendenza da una delibera assembleare rispetto alla
quale il socio sia stato assente o dissenziente. Tuttavia, una seconda osservazione ci presenta la necessità di una preventiva autorizzazione assembleare come presupposto tale da legittimare gli amministratori a compiere l’atto che, poi, dà luogo al diritto di recesso. Ossia, sarà pur sempre necessaria
una delibera, dal cui dissenso si legittima il recesso;
questo, peraltro, non sorge per il solo effetto della
dissenso alla decisione, ma richiede anche l’effettivo compimento dell’atto da parte degli amministratori. Delineato il quadro della struttura disciplinare della materia, occorre analizzare le varie distinte impostazioni emerse dal dibattito dottrinale.
Infatti, si potrebbe pensare che il legislatore, prendendo atto della pericolosità del compimento di
operazioni tanto rilevanti da causare la modifica
dell’oggetto sociale, abbia inteso espandere il più
possibile i margini operativi del recesso consentendone l’esercizio anche in assenza di qualsiasi decisione assembleare. Taluni, in effetti, sostengono
che a ciascun socio sia attribuita la titolarità del recesso nell’ipotesi in cui gli amministratori abbiano
posto direttamente in essere attività ed operazioni
di fatto modificative dell’oggetto sociale in violazione delle regole di competenza e, quindi, in assenza di alcuna deliberazione assembleare sul punto. Non si tratta - benché l’argomento sia importante - di definire quale sia la sorte dell’atto così
compiuto, ossia se il compimento dell’atto senza la
prescritta autorizzazione assembleare sia o meno
opponibile ai terzi (10), quanto di individuare se
(9) P. Revigliono, Il recesso nella società a responsabilità limitata, Milano, 2008, 12. L’applicazione della regola maggioritaria - i soci che rappresentano la maggioranza del capitale possono imporre agli altri ogni modifica del contratto sociale “per quanto temperata dalla necessità di far precedere la decisione da un formale confronto dialettico, finisce per riconoscere al socio di maggioranza un così incisivo potere di modifica
del contratto che questo, per non far venire meno ogni interes-
se all’investimento da parte dei sottoscrittori di modeste frazioni del capitale sociale, deve trovare bilanciamento nell’attribuzione in loro favore di un contrapposto ‘potere di recesso’”, M.
Bianca, Contratto di società e recesso: breve chicane attorno all’oggetto sociale, in RDS, 2012, 710.
(10) Sul punto si veda P. Corrias, Limitazioni al potere di rappresentanza, in S.R.L. Commentario dedicato a G.B. Portale,
Milano, 2011, 606.
globale dell’assetto e dell’andamento economico
della società, nella quale sono coinvolti non soltanto i soci, ma anche i potenziali acquirenti della
partecipazione e, infine, i creditori sociali” (9).
Il compimento di operazioni che
determinano una modificazione
dell’oggetto sociale
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tale fatto integri la fattispecie che attribuisce al socio il diritto di recedere. Il riconoscimento della titolarità del recesso in capo a qualsiasi socio che non tanto abbia “votato contro o si sia astenuto”
nella delibera di per sé mancante - ma che risulti
nei fatti non in accordo con l’operazione compiuta
dagli amministratori trova un riscontro anche sul
piano letterale in quanto l’art. 2473 c.c. collega il
diritto di recesso non tanto all’avere dissentito in
sede di delibera ex art. 2479, n. 5) c.c., quanto al
mero compimento dell’operazione (11). Nelle
“condizioni d’uso” del recesso è iscritta la regola
che chi recede lo fa perché si pone in attrito di
fronte ad una scelta, in questo caso ad un’operazione amministrativa. È chiaro che non si potrà accettare il recesso di un socio che sia amministratore e che in tale ultima veste abbia partecipato non dissentendovi o non astenendosi - alla decisione meramente gestoria di compiere l’operazione
fattualmente modificativa. In ogni altro caso, la
necessità di garantire al socio sul piano concreto la
tutela degli interessi in gioco renderebbe del tutto
applicabile il diritto di recedere dalla società (12).
La conclusione parrebbe inevitabile se si vuole rispettare la ratio del recesso come di uno strumento
che garantisce al socio non tanto di potersi tutelare
di fronte a modifiche che possono nuocere al profilo di rischio assunto nella società, ma di poter reagire quando - in via formale o fattuale - si alteri la
sostanza o l’identità dell’operazione di investimento originariamente programmata (13). In effetti,
“se la ratio che caratterizza la previsione normativa
in esame è rappresentata dall’esigenza di salvaguardare comunque la posizione del socio di fronte a
qualunque mutamento sostanziale dell’oggetto sociale, la circostanza che tale mutamento si realizzi
attraverso un atto gestorio non autorizzato da una
preventiva delibera assembleare non può evidentemente costituire un argomento contrario al riconoscimento del diritto di recesso” (14), soprattutto
prendendo atto che tale situazione è senz’altro più
pericolosa per il socio. Altri, invece, ragionano che
la fonte del recesso deve pur sempre consistere in
un atto efficace: l’atto ultra vires - privo, cioè, del
necessario presupposto autorizzativo richiesto dalla
legge - è assolutamente inefficace verso la società
e, pertanto, non ha alcuna valenza tale da influenzare la struttura organizzativa della società e con
essa le condizioni dell’iniziale investimento. Come
potrebbe concepirsi che i soci possano avvalersi di
uno strumento di reazione studiato per raggiungere
un bilanciamento di interessi tra le opzioni della
maggioranza ed i diritti della minoranza quando,
nella realtà, la decisione in sé manca e l’atto modificativo è inefficace? (15) Il tribunale di Napoli pone a motivo della propria decisione la considerazione che “non sembra concepibile una modifica di
fatto dell’oggetto sociale che presuppone pur sempre una decisione formale dei soci ai sensi dell’art.
2479 c.c.”: tanto nel caso in cui l’assemblea sia
chiamata ad approvare una modifica della clausola
dello statuto in merito all’oggetto sociale, quanto
nel caso in cui i soci debbano decidere se autorizzare una determinata operazione - il cui compimento
verrebbe a tradursi in una variazione di fatto dell’attività sociale - fonte e presupposto del recesso è
e deve essere sempre una decisione dei soci. Si
pensi, inoltre, che l’intervento deliberativo dell’assemblea è necessario per impedire “una surrettizia
espropriazione da parte degli altri organi sociali del
potere dispositivo che ai soci, tradizionalmente,
compete su materie di tanta importanza per loro” (16). Nel caso in esame parrebbe che scopo
della delibera sia proprio quello di colmare ex post
(11) Si veda M. Ventoruzzo, Recesso e valore della partecipazione nelle società di capitali, Milano, 2012, 196.
(12) F. Annunziata, Il recesso del socio, in L.A. Bianchi (a cura di), Società a responsabilità limitata, Milano, 2008, 491.
(13) P. Revigliono, Il recesso, cit., 85.
(14) P. Revigliono, Il recesso, cit., 90 che precisa, riferendo
della tesi in esame, anche che la tesi trova fondamento implicito sull’adesione all’impostazione secondo cui la violazione della regola di competenza assembleare da parte degli amministratori non si ripercuoterebbe sull’efficacia dell’atto. Lo stesso
Autore, come vedremo, ritiene di aderire a diversa opinione:
rammentando che la riserva di competenza di cui all’art. 2479,
n. 5, c.c. sia inderogabile, essendo un connotato essenziale
del tipo sociale in questione, scrive che “è infatti agevole comprendere come l’integrale ed effettivo rispetto della competenza esclusiva dei soci in ordine a determinate materie e quindi,
in definitiva, la piena e puntuale realizzazione della ratio del
precetto normativo che stabilisce quella competenza possano
essere assicurati esclusivamente mediante la configurazione
delle operazioni poste in essere senza la decisione dei soci co-
me atti radicalmente inefficaci”. La tesi in esame troverebbe
anche conferma con la finalità dell’istituto: “pare preferibile
che, a fronte di rilevanti modificazioni di fatto delle condizioni
di rischio e rendimento dell’investimento poste in essere senza
che i soci abbiano avuto la possibilità di esprimersi sulle stesse, coloro i quali dissentono da tali modificazioni possano disinvestire dalla società”, M. Ventoruzzo, Recesso e valore, cit.,
196.
(15) “Non si comprende per quale ragione si debba riconoscere il diritto di recesso, potenzialmente esercitabile da tutti i
soci, come reazione ad un atto illegittimo compiuto dagli amministratori, quando nei confronti di tale comportamento è
possibile il ricorso ad altri rimedi quale la proposizione dell’azione di responsabilità esperibile anche individualmente o l’impugnazione dell’atto posto in essere con il terzo nei limiti consentiti dal disposto dell’art. 2475 bis che regola l’opponibilità ai
terzi dei vizi della rappresentanza”, V. Calandra Buonaura, Il
recesso del socio, cit., 2069.
(16) V. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, in Il
Codice Civile. Commentario diretto da F.D. Busnelli, Milano,
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quella carenza di potere in capo all’operare degli
amministratori che hanno condotto per anni un’attività radicalmente diversa da quella prevista nell’oggetto sociale. È questa la fonte del diritto di recesso: le operazioni amministrative precedenti potranno, semmai, attribuire al socio che non le abbia avallate altre forme di reazione, ma, certamente, non il diritto di recesso. “Nell’ipotesi in cui tali
operazioni siano realizzate dall’organo amministrativo in assenza di una decisione dei soci la loro
sanzionabilità nei termini dell’inefficacia esclude,
evidentemente, l’applicazione del recesso, il cui
esercizio da parte del socio necessariamente presuppone una delibera idonea a dispiegare i propri effetti: la salvaguardia della posizione del socio, di
fronte a mutamenti sostanziali dell’oggetto sociale,
realizzati, di fatto, dagli amministratori è, in questi
casi, integralmente assorbita dalla facoltà, per il socio medesimo, di agire per la declaratoria di inefficacia dell’attività compiuta dagli amministratori:
qui la tutela apprestata dal legislatore - consistente
nella possibilità di impedire che le operazioni compiute dall’organo gestorio producano i propri effetti
- anticipa e sostituisce quella che deriverebbe dall’applicazione del recesso” (17).
Il tribunale di Napoli, nella sentenza in commento, sembra avvalorare la tesi che, nelle more
del recesso, ossia dopo la dichiarazione del socio,
quest’ultimo conservi intatti alcuni diritti sociali.
Senz’altro, tra quelli esercitabili anche dal recedente, il tribunale contempla quello di partecipare all’assemblea che prevede come oggetto sociale un
aumento a pagamento, ammettendo il diritto del
socio a sottoscrivere l’aumento medesimo come
“atto necessitato dall’esigenza di non vedere an-
nacquato il valore della propria partecipazione sociale”. L’obiter è importante perché si inserisce nel
dibattito relativo al momento in cui con la dichiarazione di recesso - che innesca un complesso procedimento - il socio termina la sua partecipazione
alla società. Il “travagliato iter che separa il momento della ricezione della dichiarazione di recesso da
parte della società da quello dell’effettivo versamento al socio del valore di liquidazione delle sue
partecipazioni” (18) rende cruciale la definizione
anche del momento in cui il recedente perde la titolarità dei diritti sociali. Il tema è sicuramente
meritevole di attenzione ed attuale come confermato anche da un altro recente provvedimento nel
quale si specifica che “il recesso è atto unilaterale
recettizio giuridicamente efficace dal momento in
cui, con qualsiasi mezzo, la società prende atto della volontà del socio, con la conseguenza che da tale momento il socio perde il relativo status e la legittimazione ad esercitare i diritti sociali” (19).
Buona parte della dottrina sostiene che la dichiarazione di recesso di per sé non determini la cessazione della qualità di socio, ma solamente, come recita l’art. 2473 c.c. il “diritto di ottenere il rimborso
della propria partecipazione”, da realizzarsi attraverso una serie di attività il cui compimento è, appunto, finalizzato a consentire il disinvestimento (20). Quest’ultimo, nell’articolato procedimento
previsto dal legislatore, potrà provenire da un vero
e proprio atto di cessione della quota, agli altri soci
o a un terzo scelto da questi ultimi, ovvero con
una riduzione, prima del patrimonio e, poi, del capitale sociale ovvero con la liquidazione della stessa società. Chi aderisce alla tesi che ritiene inevitabile uno scarto temporale tra il momento in cui
la società prende atto dell’esercizio del recesso e la
perdita dei diritti sociali, discute se tale momento
coincida con l’effettivo rimborso della partecipazio-
2010, 1269 che individua nella norma dell’art. 2479, comma 2,
n. 5 - invece assente nella disciplina delle società azionarie un sintomo della contrapposizione dei due modelli di società
capitalistica: in particolare, i soci della srl vengono considerati
come soci imprenditori, “interessati fondamentalmente a partecipare al governo della società e da tutelare perciò anche
contro le modifiche delle condizioni in cui tale partecipazione,
attraverso i diritti che vi sono connessi, si esplica”.
(17) P. Revigliono, Il recesso, cit., 97. Lo stesso Revigliono
ha anche cura di precisare che la peculiarità della fattispecie risiede nel fatto che a legittimare il recesso non solo il dissenso
alla decisione autorizzatoria, occorrendo anche l’effettivo compimento dell’operazione da parte degli amministratori. L’opinione fondata sul dato letterale dell’art. 2473 c.c. che ricollega
il recesso al puro compimento dell’operazione si deve rispondere che la norma va coordinata con il suo precedente giuridico e cronologico rappresentato dalla presenza o dall’assenza
della prescritta ed inderogabile autorizzazione assembleare. La
fattispecie, quindi, si compone di due fasi: la delibera ed il
compimento dell’atto, ma, evidentemente, una volta perfezionata la fattispecie, “la legittimazione del singolo socio deve essere ancorata ad una circostanza di carattere formale - appunto la decisione di tutti i soci - rispetto alla quale soltanto risulta
effettivamente e giuridicamente possibile scorgere un ‘dissenso’ del socio medesimo”.
(18) M. Perrino, Il recesso del socio ed il suo “momento”, in
questa Rivista, Banche e crisi d’impresa, Liber Amicorum Pietro
Abbadessa, Torino, 2014, 1456.
(19) Trib. Catanzaro 26 febbraio 2014, in Banca, borsa, tit.
cred., 2015, 352.
(20) Osserva F. Annunziata, Recesso, cit., 531 che “lo stesso snodarsi del procedimento attraverso le diverse fasi dell’offerta ai soci, prima, dell’acquisto di azioni proprie, dopo, e, infine, della riduzione del capitale, o dello scioglimento della società, confermano il fatto che la partecipazione resta in vita anche dopo la dichiarazione di recesso”.
Il momento di efficacia del recesso
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ne da attuare con una delle operazioni indicate, in
via successiva, dalla norma (21) ovvero con il decorso del termine che condiziona l’efficacia del recesso ex art. 2473, ultimo comma, c.c. (22) Fino all’esito di tali fasi, il recedente resta socio, trovandosi nella condizione di “incamminato all’uscita” (23). La facoltà concessa alla società di revocare la delibera che ha dato luogo al recesso, espressamente prevista dall’art. 2473, ultimo comma,
c.c., unitamente allo scioglimento della società, testimoniano che nelle more il socio deve poter esercitare i propri diritti sociali in quanto funzionali alla preservazione della propria posizione nell’eventualità della successiva inefficacia del recesso. I diritti sociali, cioè, devono poter essere esercitati dal
socio in previsione della revoca della delibera o
dello scioglimento a salvaguardia della posizione
che il recedente potrebbe continuare a detenere in
seno alla società. Si tratta, come si vede, dell’argomento speso sinteticamente dal tribunale di Napoli
che paventa che la mancata legittimazione del recedente ad intervenire nell’assemblea chiamata a
deliberare un aumento del capitale sociale possa
determinare un annacquamento della quota (24).
Ad avvalorare la tesi in esame, oltre all’argomento
utilizzato nella sentenza in esame che, sia pure riferita al caso particolare dell’aumento del capitale,
esprime l’idea che il socio deve prendere parte ad
attività deliberative potenzialmente lesive della
propria posizione proprio perché l’uscita dalla società risulta ancora precaria, vi è la più generale
considerazione che, lungo il percorso che porta all’effettiva liquidazione, si possono verificare situazioni tali da porre nel nulla la dichiarazione di recesso. Se, per ipotesi, si considerasse immediatamente cessata la veste di socio in capo al recedente, l’eventuale delibera di revoca della decisione
che ha dato luogo al recesso, comporterebbe una
reviviscenza della partecipazione oltre all’obbligo
di ricostituire la posizione all’interno di una struttura nel frattempo modificata. In altri termini,
sempre per tornare all’esempio della sentenza del
Tribunale di Napoli, se al recedente non fosse stata
data l’opportunità di intervenire in assemblea e di
sottoscrivere il capitale, la riviviscenza della quota
avrebbe imposto una remissione in pristino del socio e, parallelamente, l’inefficacia ex post della sottoscrizioni degli altri soci nella misura eventualmente necessaria per consentire al socio receduto e
“riammesso” nella società di esercitare il diritto di
opzione che gli sarebbe spettato se avesse potuto
partecipare all’assemblea (25). In giurisprudenza la
posizione in esame è rappresentata da importanti
pronunce. Per esempio, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto che il socio non perda i propri diritti sociali per effetto dell’esercizio del recesso, in
quanto “pur avendo manifestato la volontà di uscire dalla compagine sociale, non ha ancora la certezza, né giuridica, né di fatto, di potere realizzare
questo intento che potrebbe essere vanificato dagli
altri soci” (26). All’opposto si pone la tesi che, invece, collega alla dichiarazione di recesso la perdita
(21) Come fa, per esempio, G. Grippo, Il recesso del socio,
in Trattato Colombo - Portale, Torino, 1998, 181.
(22) Delli Priscoli, Delle modificazioni, cit., 132, sia pure riferendosi ai termini previsti dall’art. 2437 bis c.c. L’Autore rileva
che “deve considerarsi socio colui al quale risulta riferibile una
parte del capitale sociale, in relazione alla quale è titolare dei
diritti sociali”.
(23) Secondo la felice espressione usata da M. Perrino, Il
recesso, cit., 1459 che pone l’attenzione non solo sul momento
in cui cessa lo status socii in capo al recedente, ma anche sulla
qualità e quantità dei diritti sociali che, aderendo alla tesi dominante, gli spettano medio tempore.
(24) “Fino al momento in cui la società ha la possibilità di
rendere inefficace l’esercizio del diritto di recesso revocando la
delibera, il socio resti tale a tutti gli effetti, nella piena disponibilità non solo dei diritti patrimoniali, ma anche di quelli sociali.
Non dipendendo infatti completamente da lui l’effettivo e definitivo recesso dalla società, è evidente che egli abbia per tutte
le delibere successive rispetto a quella che ha dato luogo alla
sua dichiarazione di recesso, un concreto e reale interesse ad
agire”, L. Delli Priscoli, Delle modificazioni dello statuto, cit.,
132.
(25) Scrive P. Revigliono, Il recesso, cit., 303 che “qualora
nel corso del procedimento dovesse, ad esempio, risultare la
mancanza della legittimazione o dei presupposti per il recesso,
si dovrebbe ipotizzare una ‘reviviscenza’ del rapporto sociale,
con la conseguenza che si porrebbe una oggettiva difficoltà
nel considerare e regolamentare le situazioni sorte nel periodo
compreso tra la dichiarazione di recesso e la ricostituzione della compagine sociale”. Altra paradossale conseguenza della
tesi che propende per la sospensione dei diritti sociali in capo
al recedente si verifica nel caso in cui, nelle more della vicenda, la società abbia assunto - senza che il recedente abbia potuto intervenirvi - una delibera che costituisce di per sé causa
di recesso. In questo caso, il socio si troverebbe a subire gli effetti di tale delibera, senza poter recedere a causa della privazione dei suoi diritti sociali. Sarebbe indispensabile, alla fine,
“imputare al socio ‘ritrovato’ gli effetti prodotti medio tempore
dalle operazioni sociali”, G. Grippo, Il recesso del socio, cit.,
182. Recentemente, la dottrina ha segnalato che “negare al
socio recedente, il quale non ha la certezza di poter realizzare
effettivamente la sua volontà di exit, l’esercizio di ogni diritto
sociale, costituirebbe una ingiustificata menomazione, a fortiori
in una situazione di incertezza giuridica che potrebbe protrarsi
per un periodo di tempo indeterminato”, E. Locascio Aliberti,
La sopravvivenza dei diritti sociali dopo il recesso da s.r.l., in
Banca, borsa, tit. cred., 2015, 363.
(26) App. Milano 21 aprile 2007, in questa Rivista, 2008,
1121; tuttavia, è evidente che la particolare condizione di essere sulla “porta di casa e in procinto di uscirvi” non è ininfluente
ed andrà attentamente valutata soprattutto sotto il profilo del
conflitto di interessi “poiché la peculiare posizione del socio receduto potrebbe determinare, in relazione a determinate delibere, una divergenza tra i suoi interessi e quelli sociali”. Nello
stesso senso Trib. Pavia 5 agosto 2008, in Giur. comm., 2009,
II, 1218 (lo stesso Tribunale, tuttavia, in sede di reclamo al ci-
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della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali;
la natura di atto unilaterale recettizio propria della
dichiarazione resa dal socio comporta che coevamente alla ricezione da parte della società il recedente perda se non la qualità di socio quanto meno
la legittimazione ad agire come socio. Lapidariamente si è sostenuto che “i diritti sociali connessi
alla partecipazione per la quale è stato esercitato il
recesso sono sospesi, conservando il socio recedente esclusivamente la titolarità formale della partecipazione finalizzata alla liquidazione della stessa” (27). A confortare quest’ultima opinione si pone il dato letterale dell’ultimo comma dell’art.
2473 c.c. secondo cui l’esercizio del recesso è privo
di efficacia se venga revocata la delibera che vi ha
dato causa. La privazione di efficacia implicherebbe l’immediata efficacia del recesso stesso, già dichiarato. Peraltro, è convincente anche l’argomento della pericolosità di lasciare intonso l’esercizio
dei diritti sociali ad un soggetto che ha manifestato
l’intenzione di lasciare la società (28). L’argomento
che eventuali delibere potrebbero nuocere al recedente perde significato se solo si pensi che il diritto
patrimoniale del socio viene congelato al momento
del verificarsi della causa di recesso così che ogni
decisione non potrebbe ripercuotersi sui suoi diritti. L’argomento che la sospensione dei diritti sociali può nuocere al socio quando, per esempio, gli sia
impedito di sottoscrivere un aumento del capitale
sociale e, successivamente, la società ponga in essere l’atto che priva di efficacia il recesso, non coglierebbe nel segno. In tal caso, la questione è stata
risolta chiarendo che “il termine per l’esercizio del
diritto di opzione del socio receduto prima della
stessa delibera di aumento, ma poi forzosamente
reintegrato mediante revoca preclusiva della decisione legittimante il rimedio, decorra solo a partire
dalla stessa reintegrazione, quale momento di possibilità giuridica per il socio di esercitare il diritto” (29). Il Tribunale di Napoli, in un precedente
del 2011, sgancia la questione della titolarità ed
esercitabilità dei diritti sociali dalla conservazione
o dalla perdita dello status di soci: quale che sia la
condizione in merito alla titolarità della partecipazione, ciò che rileva è il “congelamento di tutti i
diritti del socio receduto, partecipativi e patrimoniali, diversi da quello alla liquidazione delle azioni, a partire dal diritto di voto in assemblea” (30).
Probabilmente, la tesi migliore è quella che prende
atto delle incongruenze delle due tesi tradizionali e
le ricompone in un sistema che appare coerente
con la normativa e, soprattutto, con la funzione
del recesso che, al tempo stesso, è garanzia della
conservazione della posizione del socio ed elemento che consente lo svolgimento dell’attività sociale. Secondo quest’ultima impostazione, non si vede
per quale ragione il socio che, con il recesso, ha
manifestato la ferma volontà di recedere (31) deb-
tato provvedimento reso in composizione monocratica, ha stabilito che “il socio di srl che ha validamente manifestato la volontà di recedere dalla compagine sociale non è più attivamente legittimato all’esercizio dei diritti sociali inerenti alla quota
oggetto di recesso”, cfr. Trib. Pavia 5 agosto 2008, in Giur.
comm., 2009, II, 1218); Trib. Tivoli 14 giugno 2010, in Giur. it.,
2011, 1086.
(27) Comitato Triveneto dei Notai, Massima I.H.5, reperibile
in www.trivenetogiur.it. Alla tesi in esame aderisce, recentemente anche L. Cavalaglio, Art. 2437-bis - Termini e modalità
di esercizio, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2015, 1199 secondo cui “ritenere il socio tale
anche oltre il momento della comunicazione del recesso, magari addirittura fino al momento della liquidazione della quota,
potrebbe esporlo a conseguenze assai pregiudizievoli, per es.
nel caso di recesso esercitato a seguito di delibera di trasformazione di società di capitali in società di persone: è preferibile, quindi, e sicuramente più aderente ai principi generali, ritenere che nel momento in cui la società ha ricevuto la dichiarazione muta la posizione del socio receduto il quale diventa titolare del diritto potestativo, previsto dall’art. 2437-ter c.c., alla liquidazione delle azioni interessate dal recesso”.
(28) Sotto questo profilo è interessante l’osservazione di A.
Stabilini, Efficacia della dichiarazione di recesso e perdita della
qualità di socio, in Il recesso del socio di società di capitali, Milano, 2014, 12 che nota che il meccanismo della c.d. record date
contempla il caso di esercizio del diritto di voto anche in capo
a chi non sia più socio per aver alienato le azioni dopo la registrazione; parimenti, il diritto di recesso viene attribuito, in questi casi, spetta a chi abbia acquistato le azioni in epoca successiva alla registrazione e prima dello svolgimento dell’as-
semblea, ossia ad un soggetto non legittimato a partecipare
all’assemblea e minimamente condizionato, nell’esercizio del
diritto de quo, dal comportamento tenuto in assemblea dal
proprio dante causa. Osserva la Stabilini che questa situazione
può mettere in crisi tutte le ricostruzioni in tema di perdita della qualità di socio e di esercizio dei diritti sociali: “chi ha esercitato il voto in assemblea potrebbe averlo fatto non essendo
più socio, mentre chi recede potrebbe farlo in relazione ad
azioni che in assemblea hanno votato a favore della delibera
che ha originato il recesso. È evidente che qualsiasi ragionamento fondato sull’interesse del recedente e sulla sua collocazione rispetto all’interesse sociale è ben difficile da articolare
in questo contesto”.
(29) M. Perrino, Il recesso del socio, cit., 1475; “perciò la
maggioranza, ove abbia in animo di precludere nei modi di
legge l’efficacia delle dichiarazioni di recesso ricevute, possa sì
frattanto avviare ma non già definire procedure di aumento del
capitale sociale, a pena di illegittimità e comunque instabilità
delle stesse, se non dopo aver consentito anche ai recedenti
“neutralizzati” e reintegrati in soci l’esercizio - pur necessariamente a termine differito - dei loro diritti di sottoscrizione”.
(30) Trib. Napoli 14 gennaio 2011, in questa Rivista, 2001,
1152.
(31) A nostro avviso la natura giuridica della dichiarazione
di recesso come dichiarazione unilaterale recettizia (come fatto
proprio dalla Cass. 19 marzo 2004, n. 5548, in Giur. comm.,
2006, II, 67 per cui “il recesso del socio da una società è un
negozio unilaterale recettizio, destinato a perfezionarsi e a produrre i propri effetti sin dal momento in cui la dichiarazione
che lo esprime sia pervenuta nella sfera di conoscenza della
società destinataria” - perfetta ed efficace nel momento in cui
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ba conservare incisivi poteri di voice e di ingerenza
nell’organizzazione sociale come se fosse ancora “socio a tutto tondo”; analogamente, l’incertezza fisiologica della sua condizione e la precarietà del recesso, messo in dubbio, nella sua efficacia sia dalla
possibilità della società di revocare la delibera che
vi ha dato causa, sia di porre in essere il proprio
scioglimento (cfr., art. 2473, ultimo comma, c.c.),
mostra come sia iniquo sottrarre al socio - che, appunto, potrebbe essere destinato a restare tale ogni diritto o prerogativa sociale. La dichiarazione
di recesso, come volontà di reagire ad una decisione che incide, nonostante il dissenso, sulla condizione iniziale del proprio investimento, è perfetta
non appena giunta a conoscenza della società; l’eventuale inefficacia cui fa cenno l’ultimo comma
dell’art. 2473 c.c. opera solo sulla delibera e, solo
mediatamente, sulla dichiarazione di recesso, privandola di causa. Per tale ragione, una convincente impostazione (32) prende atto della struttura polifasica del recesso: concluso il primo step con il
perfezionarsi, a seguito della ricezione, della dichiarazione di recesso, si aprono due scenari. Il primo
conduce all’effettivo rimborso del socio ed alla sua
definitiva uscita dalla società ed il secondo determina la privazione di efficacia del recesso (33).
Qualora intervenga quest’ultima situazione, perché,
per esempio, la società eserciti nei termini lo jus
poenitendi di cui è titolare, è chiaro che si genera
un forte attrito con la posizione del “socio ritrovato” (34). Questa posizione intermedia distingue tra
diritti patrimoniali ed amministrativi. Con riferimento a questi ultimi, sembra corretto ammettere
il socio al loro esercizio finalizzato all’eventuale
perdita di efficacia del recesso ed al venire meno
dell’exit. Anche i diritti patrimoniali meritano una
tutela interinale, calibrata ancora sull’esigenza di
una coerente tutela della posizione del socio che
potrebbe “essere costretto” a restare nella società.
Tra questi, il diritto di opzione che la sentenza, sia
pure a livello di obiter riconosce al recedente. L’eventualità del concludersi dell’iter del recesso senza
rimborso della quota, ossia con il definitivo perdere
di efficacia del recesso, deve condurre l’interprete a
valutare l’ammissibilità dell’esercizio dell’opzione,
ma subordinatamente alla condizione rappresentata
dal verificarsi degli eventi di cui all’ultimo comma
dell’art. 2473 c.c. In tale ultimo caso, “il recedente,
nuovamente socio a tutti gli effetti, sarà titolare con effetto retroattivo - anche della nuova quota
di capitale sottoscritta” (35).
giunge a conoscenza della società - non serve tanto a definire
il momento in cui il socio esce dalla società, ma il momento di
conclusione di una delle fasi in cui si compone il procedimento
che, avviato, appunto con il recesso, può avere esiti diversi a
seconda che si giunga all’effettivo rimborso della quota ovvero
la società si avvalga dello jus poenitendi e revochi la propria
precedente delibera ovvero deliberi il suo scioglimento. Il momento in cui la società riceve la dichiarazione di recesso vale a
consacrare in capo al socio il diritto ad essere liquidato ed a disinvestire, ossia innesca le successive fasi dell’iter previsto nei
vari commi dell’art. 2473 c.c.
(32) Si tratta della posizione sostenuta da V. Calandra Buonaura, Il recesso, cit., 2085, recentemente riproposta con validi
argomenti da E. Locascio Aliberti, La sopravvivenza dei diritti,
cit., 360.
(33) Scrive E. Locascio Aliberti, op. cit., 362 che “fin quando l’intera procedura non sia giunta al traguardo (…) il socio
deve conservare la qualità di socio perché egli è ancora partecipe, tramite la sua quota, al capitale sociale. D’altronde, non
pare verosimile che il recedente, che abbia perso la qualità di
socio, la riacquisti in seguito alla revoca della delibera legittimante il recesso ovvero alla delibera di scioglimento, risultando, altresì, difficile capire come faccia siffatta delibera a produrre effetti nei confronti di chi socio non era più”.
(34) Secondo l’espressione di E. Locasio Aliberti, La sopravvivenza, cit., 363. Secondo V. Calandra Buonaura, Il recesso,
cit., 2086 “parrebbe logico riconoscere al recedente l’esercizio
dei diritti sociali fino al momento della cessazione della sua
qualità di socio. Sembrerebbe, infatti, iniquo negargli tali diritti
quando l’efficacia del recesso potrebbe essere vanificata dalla
revoca della delibera che lo ha causato o dallo scioglimento
anticipato della società per volontà della stessa o a seguito di
opposizione dei creditori alla riduzione del capitale”.
(35) E. Locascio Aliberti, La sopravvivenza, cit., 364.
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Direzione e coordinamento
Controllo esterno e
responsabilità da direzione e
coordinamento
Tribunale di Catania 26 febbraio 2015 - Pres. Puglisi - Est. L. De Bernardin - Finaria S.p.a. c.
Alitalia - Compagnia Aerea Italiana S.p.a.
Società - Società di capitali - Direzione e coordinamento - Responsabilità - Controllo societario - Controllo societario di
tipo contrattuale.
(Cod. civ. artt. 2359, 2497, 2497 sexies, 2497 septies)
L’influenza esercitata da una società su un’altra in virtù di un contratto che non conferisce alla prima alcun
potere di determinare le scelte gestorie della seconda non rileva ai fini dell’applicazione dell’art. 2497 c.c., né
con riferimento al c.d. controllo esterno di cui all’art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. (norma richiamata dall’art.
2497 sexies c.c.) né con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 2497 septies c.c. La responsabilità da attività di direzione e coordinamento, in entrambi detti casi, non può prescindere dall’esistenza di disposizioni contrattuali rilevabili in maniera oggettiva. In mancanza di uno specifico potere contrattuale della parte dirigente di imporre le proprie decisioni, le condotte della parte asseritamente eterodiretta devono ricondursi alla libera
strategia imprenditoriale di quest’ultima, e gli effetti di tali scelte non possono in alcun caso imputarsi ad altri
(nel caso di specie, una società aveva orientato la propria gestione in modo conforme alle direttive impartite
da altra società senza che vi fosse alcun obbligo contrattuale in tal senso, al solo fine di non pregiudicare il
buon esito di una negoziazione volta alla cessione di un ramo di azienda).
Società - Società di capitali - Direzione e coordinamento - Responsabilità - Controllo societario - Controllo societario di
tipo contrattuale - Azione di risarcimento del danno - Legittimazione a proporre l’azione.
(Cod. civ. artt. 2359, 2497, 2497 sexies, 2497 septies)
L’azione di risarcimento del danno, esperibile da parte del socio ex art. 2497 c.c., è volta alla tutela del socio
di minoranza che subisce le scelte gestorie imposte dal socio che dirige e coordina la società. Tale azione,
pertanto, non può essere proposta da parte del socio che detiene l’intero capitale sociale, essendo tale socio
carente della posizione di soggezione alle scelte adottate nell’interesse del gruppo.
Il Tribunale (omissis).
Preliminare alla valutazione nel merito della domanda
attorea, è l’esame della fondatezza dell’eccezione di incompetenza sollevata da parte convenuta.
Sul punto, deve ricordarsi come - per giurisprudenza pacifica di legittimità -:
“In caso di eccezione di incompetenza territoriale sollevata
con riguardo a persona giuridica, la mancata contestazione
in comparsa di risposta - alla quale è da equiparare quella
formulata senza motivazione articolata ed esaustiva - della
sussistenza del criterio di collegamento indicato dall’art. 19,
comma 1, ultima parte, c.p.c. (contestazione da compiersi
adducendo l’inesistenza, nel luogo in cui è territorialmente
competente il giudice adito, di uno stabilimento della persona
giuridica e di un suo rappresentante autorizzato a stare in
giudizio con riferimento all’oggetto della domanda) comporta
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l’incompletezza dell’eccezione, da ritenere, pertanto, come
non proposta, con il conseguente radicamento della competenza del giudice adito” (Cassazione civile sez. VI 07 marzo 2013 n. 5725; cfr. nello stesso senso, fra le altre: Cassazione civile sez. VI 10 marzo 2014 n. 5456; Cassazione
civile sez. VI 14 giugno 2013 n. 14934).
Nella specie, parte convenuta ha omesso di argomentare specificamente con riferimento all’assenza di suo rappresentante autorizzato a stare in giudizio nell’ambito
del territorio di competenza del Tribunale di Catania,
con la conseguenza che la detta eccezione non può trovare accoglimento.
La superiore argomentazione - quale ragione è maggiormente liquida rispetto alla decisione sulla competenza per un verso individua il foro adito quale competente e
per altro verso fa perdere rilievo, determinandone l’assorbimento, alla questione della natura contrattuale ov-
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vero extracontrattuale dell’azione incoata che non necessita, quindi, di esame.
Nel merito della domanda di risarcimento ex art. 2497
c.c., parte attrice deduce una serie di fatti relativi alla
vicenda da cui scaturisce la domanda di risarcimento
che, a suo avviso, costituirebbero attività di direzione
unitaria da parte di A. su W.J., attività di direzione intesa come imposizione agli organi amministrativi della
società eterodiretta di decisioni provenienti dalla società dominante. Parte attrice deduce, altresì, in via principale, la sussumibilità della vicenda di cui ci si occupa
in una delle ipotesi di cui all’art. 2497 sexies c.c. (cfr.
sul punto anche precisazione a pag.18 delle memorie ex
art. 183 co. 6 n. 1 di parte attrice). In via gradata, poi,
parte attrice deduce la ricorrenza dell’ipotesi di cui all’art. 2497 septies c.c. argomentando nel senso che: “i
comportamenti rilevanti ai fini dell’applicazione della suindicata disciplina non devono rappresentare necessariamente
l’adempimento di un obbligo contrattuale, ma devono invece
presupporre che per effetto del controllo, o di altre intese negoziali, la società eterodiretta sia di fatto nella condizione di
non poter in assoluta libertà scegliere se seguire o meno le
direttive” (cfr. pag. 19 memorie ex art. 183 co. 6 n. l
c.p.c. di parte attrice). Secondo parte attrice, la differenza fra le fattispecie disciplinate dagli artt. 2497 sexies
e 2497 septies risiederebbe nella constatazione che
mentre il primo dei menzionati articoli: “prende in considerazione un’influenza dominante di una società rispetto ad
un’altra”, la seconda: “è invece correlata ad accordi inter
partes che consentono l’esercizio di un’influenza solo notevole” (cfr. pag.18 memorie ex art. 183 co. 6 n. l c.p.c.).
Ciò premesso, ai fini di un più ordinato esame delle
questioni sottoposte dalle parti, appare utile - in via
preliminare - una ricostruzione del quadro normativo
invocato da parte attrice.
L’art. 2497 c.c. sancisce la responsabilità delle società
che esercitano attività e coordinamento nei confronti
dei soci delle società che detta attività subiscono.
L’art. 2497 sexies c.c.. individua, poi, due ipotesi in cui
si presume l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento:
A1. nell’ipotesi di società tenute al consolidamento dei
bilanci;
A2. nell’ipotesi di società che controlla ai sensi dell’art.
2359 c.c. Quest’ultimo articolo a sua volta riporta tre
distinte ipotesi di controllo:
A2.1: quando una società dispone della maggioranza dei
voti esercitabili nell’assemblea della controllata;
A2.2: quanto una società dispone di voti sufficienti a
esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria della società controllata;
A2.3: quando una società esercita sulla controllata
un’influenza dominante in virtù di particolari vincoli
contrattuali.
L’art. 2497 septies c.c., infine, sancisce l’applicabilità fra l’altro - della disposizione di cui all’art. 2497 c.c. anche nelle ipotesi in cui l’attività di direzione e coordinamento è posta in essere in base a un contratto colla
società eterodiretta ovvero in virtù di clausole statutarie.
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Venendo quindi all’esame della fattispecie concreta.
Pacificamente W.J. ed A. non erano tenute al consolidamento dei rispettivi bilanci, con conseguente esclusione della ricorrenza di cui al superiore punto A1.
Pacificamente, A. non deteneva alcun voto nell’assemblea dei soci W.J. con conseguente esclusione della ricorrenza delle ipotesi di cui ai superiori punti A2.1 e
A2.2.
In ordine all’esistenza di: “particolari vincoli contrattuali”
di cui all’ipotesi A2.3 deve rilevarsi come la dottrina
maggioritaria ritenga sussistente il cd. controllo esterno
(diverso dal controllo interno di cui alle riferite ipotesi
A2.1 e A2.2.) quando ricorrono due caratteristiche: a)
l’esistenza fra le due società di rapporti contrattuali la
cui costituzione e il cui perdurare rappresentino la condizione di esistenza e di sopravvivenza della capacità
d’impresa della società controllata; b) tali vincoli contrattuali attribuiscono alla controllante il potere di determinare la politica imprenditoriale e di imporre le
proprie scelte nella gestione della società controllata.
Nella specie, parte attrice - sebbene in maniera non
netta - sembrerebbe ricollegare al Memorandum of understanding e all’accordo del 12 aprile 2012 (di seguito:
Accordo): “l’assunzione da parte della convenuta di un’influenza dominante sull’azienda aereonautica esercitata da
W.J.” (cfr. pag.17 memorie ex art. 183 co. 6 n. l c.p.c.).
Tali documenti, tuttavia, definiscono l’intento di A. e
W.J. di procedere a un accordo tramite il quale la seconda avrebbe ceduto il proprio ramo di azienda relativo al settore del trasporto aereo previa costituzione una
newco e indicano le tappe attraverso cui tale risultato
avrebbe dovuto essere raggiunto. Di contro, in tali documenti, non sono presenti clausole contrattuali che attribuiscano ad A. il potere di impartire qualsivoglia indicazione relativa all’agire di W.J. nell’ambito della propria attività d’impresa. Riprova di tale constatazione è
la circostanza che - a fronte di una plurima serie di doglianze in ordine al comportamento tenuto da A. - la
stessa parte attrice omette di specificamente indicare la
clausola contrattuale che avrebbe conferito una condizione di controllo di A. su W.J. Deve pertanto escludersi la ricorrenza anche dell’ipotesi di cui al superiore
punto A2.3.
In conclusione, non pare ricorrere - nella specie - alcuna delle fattispecie di cui all’art. 2497 sexies c.c. per assenza di quelle caratteristiche del cd. controllo interno
o esterno di A. nei confronti di W.J.
Rimane quindi da verificare l’eventuale ricorrenza dell’ipotesi residuale di cui all’art.2497 septies c.c. e, sul
punto, appare utile evidenziare la circostanza che - come già detto - parte attrice omette di fornire indicazioni
specifiche in ordine alle previsioni contrattuali che
avrebbero consentito ad A. di influenzare in maniera
“solo notevole” il comportamento di W.J.
Malgrado tale omissione, ritiene il Collegio che - per i
fini che ci si prefigge - siano rilevanti i seguenti stralci
dell’Accordo:
a) parte della premessa del detto accordo in cui si legge:
“C: W.J. ed A. intendono dar luogo ad un’operazione
che prevede: (i) il conferimento da parte di W.J. del ra-
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mo di azienda di sua proprietà attivo nel trasporto aereo
di passeggeri in favore di una società di nuova costituzione; e (ii) la successiva cessione da W.J. ad A. dell’intera partecipazione in tale società”;
b) il punto 4.3. dell’Accordo in cui si legge: “Alcuni diritti di A. (...): (a) W.J. fornirà ad A. e ai suoi consulenti tutte le informazioni relative al ramo di azienda, a
Newco ed alla gestione degli stessi, secondo le ragionevoli richieste di A. e/o dei suoi consulenti; (b) A. avrà
diritto di esaminare e ispezionare i cespiti e i beni mobili e immobili, i contratti, i crediti, i diritti e gli obblighi
facenti parte del Ramo di azienda, nella misura che A.
ritenga ragionevolmente necessaria o appropriata (...).
Si evince dai riportati passaggi, in primo luogo, che
l’Accordo è stato pensato nella prospettiva di realizzare
proprio quanto indicato da parte attrice in citazione.
W.J. ascrive infatti tutti i comportamenti asseritamente
illegittimi di W.J. nell’ambito della definizione dell’operazione di cui al superiore punto a) e ammette espressamente di aver subito e accettato detti comportamenti al
solo fine di poter concludere e/o di non vedere compromesso l’esito della suddetta operazione.
In secondo luogo, si comprende che i comportamenti di
A. di cui si duole parte attrice (cfr. punti g), h) e 1)
dell’illustrazione della citazione) prendono le mosse da
un diritto di A. espressamente sancito nell’ambito dell’Accordo, ossia quello di prendere visione dei dati
aziendali di W.J.. A. ha potuto eventualmente influenzare il comportamento di W.J. in quanto: da un lato, ne
deteneva i dati aziendali (logico e necessario antecedente logico per l’elaborazione di indicazioni in ordine al
comportamento da tenere e/o da modificare); dall’altro,
disponeva di una moral suasion atta a influenzare i
comportamenti di W.J. a prescindere dall’esistenza di
un’espressa previsione contrattuale (e ciò in quanto
W.J. temeva, in caso di mancato adeguamento alle indicazioni ricevute, di non poter concludere l’operazione
di cui alla premessa dell’Accordo). In sostanza, ciò di
cui si duole parte attrice non è stato imposto da A. sulla
scorta di alcune delle previsioni dei menzionati documenti, bensì posto spontaneamente in essere da W.J. al
fine di non vedere compromesso il perfezionamento dell’operazione di cessione del ramo di azienda.
In una simile situazione, il Collegio ritiene di condividere quanto già osservato da altro Ufficio giudiziario secondo cui: “in tanto può validamente porsi un problema di
riconducibilità di una qualsivoglia azione della “parte dirigente/coordinante” (di cui all’art. 2497 septies c.c.) verso la “parte etero-diretta/coordinata” ad una ipotesi di
“mala gestio eteronoma” della prima ai danni della seconda (nel senso di cui all’art. 2497 c.c.), in quanto
quella azione costituisca - per chi la “subisce” - l’effetto
di una imposizione, ossia di un atto cogente dal punto
contrattuale e non già (mancando il potere contrattuale
di imporla in capo al contraente asseritamente “apicale”)
di una libera scelta di autonomia privata dell’altro contraente. Se invece quelle “direttive” non fossero (sulla
base del contratto) coercibili da parte dell’un contraente
nei confronti dell’altro, quest’ultimo che (ciò nonostante) vi si conformasse (evidentemente per le più disparate
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ragioni sottese al campo della opportunità e della discrezionalità imprenditoriale), lo farebbe sotto la propria responsabilità (rectius, nell’esercizio della propria autonomia privata), assumendo come proprie, ad ogni effetto, le
relative decisioni. Onde lo stesso non potrebbe pretendere (a posteriori) di imputare alla controparte (e non al
proprio “rischio d’impresa”) le conseguenze economiche
e giuridiche di quelle scelte (non obbligate) di cui invece
avrebbe dovuto e potuto valutare (previamente) la portata e gli effetti” (Tribunale Pescara 03 febbraio 2009 n.
128, Redazione Giuffrè 2009).
Anche nella prospettiva della ratio legis dell’introduzione della disposizione in commento, non pare che possa
imputarsi alla società “dirigente” gli effetti delle libere
determinazioni dell’imprenditore “eterodiretto”. Ciò in
quanto l’art. 2497 septies c.c. ha come finalità quella di
approntare uno strumento di carattere risarcitorio/indennitario in favore dei soggetti (soci e creditori della
società eterodiretta) che subiscono le ripercussioni negative sul credito vantato nei confronti della società
eterodiretta come conseguenza delle scelte assunte dalla
“dirigente” nell’attuazione di una strategia di gruppo. Si
tratta di uno strumento ideato per compensare i soggetti
che subiscono di effetti di legittime strategie di gruppo
astrattamente suscettibili, tuttavia, di pregiudicare i
margini di profitto di una specifica società del gruppo.
Di contro, non si ravvisa giustificazione “di sistema”
nell’imporre alla “dirigente” di rispondere anche delle
libere determinazioni assunte dalla “eterodiretta” nell’ambito della sua strategia imprenditoriale.
La medesima ratio legis porta a escludere la condivisibilità dell’interpretazione proposta dalla parte attrice secondo cui: “il generico richiamo della norma in questione al “contratto” come fonte della fattispecie è infatti
riferibile a qualsivoglia forma di accordo ed è compatibile con l’esecuzione di comportamenti, finanche posti
in essere in maniera tacita” (cfr. pag. 37 citazione).
Ammettere che l’attività di direzione e coordinamento
possa prescindere dall’esistenza di puntuali disposizioni
contrattuali rilevabili in maniera oggettiva e risolversi di contro - nella valutazione a posteriori di fatti ed episodi ritenuti più o meno rilevanti ai fini dell’integrazione de facto di una situazione analoga a quella della direzione e coordinamento normativamente disciplinata significa dilatare in maniera assolutamente imprevedibile
e arbitraria l’applicazione di un istituto che - come sinteticamente illustrato - ha la finalità di compensare il
socio/creditore della “eterodiretta” per il sacrificio imposto dalla “dirigente” in una prospettiva di generale equilibrio di sistema in un ordinamento che prende atto
dell’evolversi e del mutare dell’assetto sempre più integrato delle realtà imprenditoriali.
Invero, portando all’estremo il ragionamento auspicato
dalla parte attrice, si finirebbe per ammettere la responsabilità di qualsivoglia società che abbia con altra società
(ritenuta) più debole un qualsivoglia legame contrattuale
per qualsivoglia comportamento che sia stato auspicato
dall’una e liberamente posto in essere dall’altra. Ciò implicherebbe: da un lato, inammissibili valutazioni in ordine alle ragioni che hanno mosso l’agire dell’imprenditore
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“eterodiretto”; dall’altro, sarebbe fonte di potenziale implementazione delle cause di responsabilità della società
“dirigente” per comportamenti non preventivabili e/o
prevedibili e comunque non compiutamente valutabili
nel rischio di impresa astrattamente atti, tuttavia, ad alterare gli equilibri economici delle società.
A ciò si aggiunga che gli oneri di pubblicità imposti
dall’art. 2497 bis c.c. (così come, sebbene in maniera
più sfumata, le previsioni degli artt. 2497 ter, 2497 quater e 2497 quinquies c.c.) lasciano dubitare del fatto
che possa immaginarsi un modello di fatto e non formalizzato di direzione e coordinamento cui applicare le disposizioni del capo IX del libro V del c.c.
In conclusione, non può dirsi ricorrente nella specie
nemmeno l’ipotesi di direzione e coordinamento disciplinata dall’art. 2497 septies c.c.
Infine, con specifico riferimento alla domanda risarcitoria avanzata da parte attrice n.q. di socio di W.J., va rilevato come la disposizione in commento sia stata interpretata dalla dottrina maggioritaria come volta alla tutela del socio di minoranza che subisce le scelte gestorie
dell’amministratore e il loro avallo da parte del socio di
maggioranza. Tale interpretazione appare condivisibile
e in linea con quanto si legge nella relazione di accompagnamento al D.Lgs. n. 06 del 2003 (“La delega richiede una disciplina di trasparenza con regole tali da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento contemperi l’interesse del gruppo, delle società controllate
e dei soci di minoranza”).
Nella specie, secondo la stessa prospettazione attorea,
parte attrice detiene il 100% del capitale sociale W.J. e
parrebbe quindi carente di quella posizione di soggetto
che subisce le scelte adottate nell’interesse del gruppo
che il legislatore ha deciso di tutelare collo strumento
di cui all’art. 2497 c.c. quindi legittimata alla proposizione ha, quindi, deliberatamente scelto di attenersi alle
indicazioni ricevute da A. che hanno comportato il
danno lamentato. Anche per questa ragione, e in applicazione del generale principio dell’imputet sibi, l’azione
non potrebbe trovare accoglimento.
(omissis).
IL COMMENTO
di Giacomo Bei (*)
Il Tribunale di Catania esamina un caso di asserita responsabilità da direzione e coordinamento ex
art. 2497 c.c., invocata in virtù di accordi contrattuali che, a giudizio dell’attore, erano tali da configurare un controllo esterno ex art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. o, comunque, un coordinamento
fra società ex art. 2497 septies c.c. La domanda dell’attore è stata respinta in limine perché il Tribunale non ha individuato alcuna fattispecie di controllo e, quindi, neppure ha esaminato le singole condotte potenzialmente dannose, né i danni lamentati. La sentenza è motivata in linea con i
principi maggioritari in materia di controllo e di direzione e coordinamento, ma le sue argomentazioni sono occasione di una riflessione più ampia sui rapporti tra il controllo societario di tipo c.d.
contrattuale e la responsabilità da direzione e coordinamento disciplinata dagli artt. 2497 ss. c.c.
La fattispecie e la decisione del Tribunale di
Catania
Alfa S.p.a., socio unico di Gamma S.p.a., si è rivolta al Tribunale di Catania perché questo accertasse la responsabilità ex art. 2497 c.c. della società
convenuta, Beta S.p.a., nei confronti della stessa
Alfa S.p.a. per i danni da quest’ultima subiti in qualità di socio e creditore della società Gamma S.p.a.
L’antefatto consiste nella decisione di Alfa
S.p.a. e di Beta S.p.a. di avviare una negoziazione
per l’acquisizione, da parte della seconda, dell’integrale controllo societario su Gamma S.p.a. (sia Beta S.p.a. che Gamma S.p.a. sono due società ope(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
Desidero ringraziare la dott.ssa Margherita Falagiani per
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ranti nel settore del trasporto aereo e la prima è il
principale operatore del mercato italiano). L’operazione a tal fine progettata prevedeva il conferimento, da parte di Gamma S.p.a., del proprio ramo di
azienda principale in una società di nuova costituzione, la cui partecipazione totalitaria avrebbe poi
dovuto essere ceduta a Beta S.p.a.
Le parti avevano quindi sottoscritto alcuni accordi prodromici all’esecuzione dell’operazione, in virtù
dei quali a Beta S.p.a. veniva riconosciuto il diritto
di accedere a tutte le informazioni relative al ramo
di azienda in questione, nonché il diritto di esamil’aiuto fornito nella raccolta dei materiali giurisprudenziali e
dottrinari.
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nare e ispezionare beni, contratti, crediti, diritti e
obblighi costituenti il ramo di azienda stesso.
Alfa S.p.a., in giudizio, ha sostenuto che Beta
S.p.a., in virtù dei citati rapporti contrattuali, abbia agito in modo tale da esercitare un’influenza
dominante sull’attività d’impresa di Gamma S.p.a.,
imponendo a questa le proprie direttive sulla gestione, e arrecando un pregiudizio a Gamma S.p.a.
ed ai suoi soci e creditori.
Secondo la tesi dell’attrice, la responsabilità di
Beta S.p.a. deriverebbe dalla sussumibilità dei fatti
sopra descritti nella fattispecie di cui all’art. 2497
sexies c.c. e, in via subordinata, nella fattispecie di
cui all’art. 2497 septies c.c. In particolare la convenuta avrebbe imposto a Gamma S.p.a. di uniformare alle proprie direttive la sua strategia di mercato,
indirizzandone in modo stabile l’attività d’impresa.
Tra le azioni indotte vi sarebbero state la dichiarazione di stato di crisi aziendale, la domanda di cassa integrazione straordinaria per tutti i dipendenti
di Gamma S.p.a. ed alcune modifiche dello stesso
assetto aziendale; sarebbero state impartite, inoltre,
istruzioni sulle modalità di reperimento delle risorse finanziarie e vi sarebbero state ingerenze anche
nei rapporti di locazione della flotta aerea.
Alfa S.p.a. ha quindi chiesto, in qualità di socio
di Gamma S.p.a., il ristoro dei danni pari alla perdita di valore della partecipazione in Gamma
S.p.a. e, in qualità di creditore di Gamma S.p.a., il
ristoro dei danni pari al valore del finanziamento
effettuato (come socio) a favore di tale società e
divenuto non più recuperabile.
Beta S.p.a. si è difesa in giudizio deducendo, in
rito, il difetto di competenza territoriale del Tribunale adito, e, nel merito, contestando l’applicabilità dell’art. 2497 c.c. al caso in esame e, comunque,
la fondatezza dell’azione.
Il Tribunale di Catania ha affrontato in primo
luogo la questione preliminare sulla competenza,
respingendo l’eccezione della convenuta.
In ordine al merito della causa, il Collegio ha
analizzato le singole fattispecie previste dagli artt.
2497 sexies c.c. e 2497 septies c.c. - come ipotetica
fonte di responsabilità ex art. 2497 c.c. - ed ha
escluso la loro ricorrenza nel caso in esame.
Il Tribunale si è soffermato, in particolare, su
due delle situazioni potenzialmente rilevanti ai fini
della sussistenza di responsabilità conseguenti all’attività di direzione e coordinamento:
a) l’influenza dominante in virtù di particolari
vincoli contrattuali, di cui all’art. 2359, comma 1,
n. 3, c.c., come richiamato dall’art. 2497 sexies c.c.;
b) l’esercizio di attività di direzione e coordinamento sulla base di un contratto, di cui all’art.
2497 septies c.c.
In ordine al primo punto, il Collegio ha osservato che non ricorrono, nel caso di specie, le condizioni individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza per la sussistenza della influenza dominante
(c.d. controllo esterno), e cioè:
i) l’esistenza tra le due società di rapporti contrattuali che rappresentano condizione di esistenza
e di sopravvivenza della capacità d’impresa della
controllata;
ii) il potere, attribuito dai vincoli contrattuali
alla controllante, di determinare la politica imprenditoriale e di imporre le proprie scelte gestorie.
In ordine al secondo punto, il Collegio ha rilevato
che nessuna delle clausole contrattuali efficaci tra le
parti attribuivano a Beta S.p.a. un potere di direzione
e che Gamma S.p.a. aveva - quindi - agito spontaneamente, all’evidente fine di non compromettere
l’operazione di finanza straordinaria programmata. Il
Tribunale ha osservato che, per ricondurre un atto
gestorio alla responsabilità della parte coordinante ex
art. 2497 septies c.c., è indispensabile che tale atto sia
frutto di una imposizione, cioè di un atto cogente dal
punto di vista contrattuale. Altrimenti, se le indicazioni fornite non sono coercibili dal punto di vista
contrattuale, gli atti conseguenti devono ricondursi
in modo esclusivo alla volontà e alla responsabilità
imprenditoriale della società che li ha posti in essere.
Il Collegio, infine, ha trattato il tema della carenza di legittimazione di parte attrice, osservando
che l’azione di cui all’art. 2497 c.c. è volta a dare
tutela ai soci di minoranza che si trovino ostaggio
di scelte gestorie funzionali all’interesse opposto
della maggioranza, e che dunque tale azione non
sia esperibile da parte del socio unico che abbia,
peraltro, deliberatamente scelto di attenersi alle indicazioni ricevute.
(1) La società convenuta, Beta S.p.a., costituendosi in giudizio, aveva eccepito l’incompetenza territoriale del Tribunale
di Catania sulla base di queste argomentazioni: i) il foro generale ex art. 19 c.p.c. della stessa Beta S.p.a. sarebbe stato il
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Sulla fattispecie della responsabilità da
direzione e coordinamento derivante da
rapporti contrattuali
Il Tribunale di Catania, dopo aver affrontato
l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata
dalla convenuta (1), esamina il merito della con-
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troversia e la risolve sulla base della inesistenza nel
caso in esame dei presupposti di applicazione dell’art. 2497 c.c.
La responsabilità invocata dalla parte attrice derivava unicamente dalla asserita esistenza di vincoli contrattuali tali da determinare una situazione di
“soggezione”, e tali quindi da costituire presupposto
di applicazione di una delle due fattispecie di cui
all’art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. e all’art. 2497 septies c.c.
Può quindi essere utile richiamare, in breve, gli
elementi che, in linea con il tenore letterale delle
norme, devono valutarsi per la sussunzione di questa fattispecie:
a) anzitutto, deve verificarsi la sussistenza astratta di una posizione di direzione e coordinamento, e
quindi - nel caso in esame - l’esistenza o meno di
vincoli contrattuali tali da configurare un “controllo” nelle forme dell’art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. o
nelle forme del coordinamento di cui all’art. 2497
septies c.c.;
b) dopodiché, deve verificarsi, in concreto, l’esercizio effettivo di una attività di direzione e coordinamento, che rappresenta - come noto - qualcosa
di diverso e di ulteriore alla mera posizione di soggezione di una parte rispetto ad un’altra (2);
c) deve poi verificarsi che l’attività di direzione
e coordinamento sia stata posta in essere (nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui) in violazione
dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale;
d) infine, come ovvio che sia, deve verificarsi la
sussistenza di un danno che ritrovi la sua causa efficiente proprio nella illegittima attività di direzione
e coordinamento di cui sopra (e che non sia compensato da altri vantaggi ricevuti dalla parte “danneggiata” ed eterodiretta in virtù della appartenenza stessa al gruppo).
Nel caso in esame la controversia è stata risolta,
in limine, con la esclusione della sussistenza di qualsivoglia ipotesi di controllo riconducibile a rapporti
contrattuali, e la decisione del Tribunale di Catania è in linea con i consolidati orientamenti di
dottrina e giurisprudenza in questa materia.
L’art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. disciplina il c.d.
controllo esterno, cioè quella particolare ipotesi di
controllo che si fonda non su partecipazioni al capitale (quindi su un potere di esercizio effettivo del
diritto di voto in assemblea) ma su “particolari vincoli contrattuali”.
Secondo consolidata giurisprudenza, i vincoli
contrattuali rilevanti ai fini della sussistenza di tale
controllo sono quelli la cui costituzione ed il cui
perdurare rappresentino la condizione di esistenza
e di sopravvivenza della capacità di impresa della
società controllata (3). La società controllata deve
trovarsi in uno stato di soggezione tale da condizionarne concretamente la gestione e l’indirizzo stra-
Tribunale di Civitavecchia; ii) a valor assumere la natura contrattuale dell’azione ex art. 2497 c.c., il luogo rilevante ai fini
del foro facoltativo ex art. 20 c.p.c. sarebbe stato comunque
quello di Roma o, in ipotesi, quello di Fiumicino, con conseguente competenza del Tribunale di Roma o di Civitavecchia
(Tribunale di Roma - sezione specializzata per le imprese); iii)
anche a voler assumere la natura extracontrattuale dell’azione
ex art. 2497 c.c., sarebbe stato competente il Tribunale di Civitavecchia; iv) né la condotta né il danno si sono verificati a Catania, con il che privando questo Tribunale di qualsivoglia
competenza territoriale; v) l’attore Alfa avrebbe omesso di indicare i criteri di collegamento territoriale rilevanti ai fini della deroga al foro generale del convenuto. Il Tribunale di Catania ha
ritenuto infondata l’eccezione con la seguente motivazione:
“sul punto, deve ricordarsi come - per giurisprudenza pacifica
di legittimità -: “In caso di eccezione di incompetenza territoriale sollevata con riguardo a persona giuridica, la mancata
contestazione in comparsa di risposta - alla quale è da equiparare quella formulata senza motivazione articolata ed esaustiva
- della sussistenza del criterio di collegamento indicato dall’art.
19, comma 1, ultima parte, c.p.c. (contestazione da compiersi
adducendo l’inesistenza, nel luogo in cui è territorialmente
competente il giudice adito, di uno stabilimento della persona
giuridica e di un suo rappresentante autorizzato a stare in giudizio con riferimento all’oggetto della domanda) comporta l’incompletezza dell’eccezione, da ritenere, pertanto, come non
proposta, con il conseguente radicamento della competenza
del giudice adito” (Cass. civ., sez. VI, 7 marzo 2013 n. 5725;
cfr. nello stesso senso, fra le altre: Cass. civ., sez. VI, 10 marzo
2014 n. 5456; Cass. civ., sez. VI, 14 giugno 2013 n. 14934)”. Si
tratta di una decisione corretta che richiama un consolidato
orientamento della Suprema Corte. Oltre alle recenti sentenze
citate nella motivazione del provvedimento qui in commento,
si ricorda Cass. n. 11897 del 2013 che, molto chiaramente, ha
stabilito lo stesso principio, richiamando a sua volta Cass. n.
21899/2008, Cass. n. 15628/2010 e Cass. n. 13202/2011.
(2) Si veda quanto chiaramente espresso da Trib. Pescara
16 gennaio 2009, in questa Rivista, 2010, 683: “Pertanto, in
tanto può validamente porsi un problema di riconducibilità di
una qualsivoglia azione della ‘parte dirigente/coordinante’ (di
cui all’art. 2497 septies c.p.c.) verso la “parte etero-diretta/coordinata” ad una ipotesi di ‘mala gestio eteronoma’ della prima ai danni della seconda (nel senso di cui all’art. 2497 c.c.),
in quanto quella azione costituisca - per chi la ‘subisce’ - l’effetto di una imposizione, ossia di un atto cogente dal punto
contrattuale e non già (mancando il potere contrattuale di imporla in capo al contraente asseritamente ‘apicale’) di una libera scelta di autonomia privata dell’altro contraente. Se invece
quelle ‘direttive’ non fossero (sulla base del contratto) coercibili da parte dell’un contraente nei confronti dell’altro, quest’ultimo che (ciononostante) vi si conformasse (evidentemente per
le più disparate ragioni sottese al campo della opportunità e
della discrezionalità imprenditoriale), lo farebbe sotto la propria
responsabilità (rectius, nell’esercizio della propria autonomia
privata), assumendo come proprie, ad ogni effetto, le relative
decisioni”.
(3) Così Cass., Sez. I, 27 settembre 2001, n. 12094: “La
configurabilità del controllo esterno di una società su di un’altra (quale disciplinata dal 1° comma, n. 3, dell’art. 2359 c.c.
nella formulazione risultante a seguito della modifica apportata
dal d.leg. n. 127 del 1991 e consistente nella influenza dominante che la controllante esercita sulla controllata in virtù di
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tegico. Accade, inoltre, in questi casi - e si tratta
di fatto rilevante - che il venir meno dell’accordo
contrattuale abbia l’effetto di pregiudicare, anche
in modo irreversibile, l’attività imprenditoriale della società controllata.
L’orientamento della dottrina è conforme alla
suddetta posizione (4). Si è rilevato che i tipi contrattuali suscettibili (in astratto) di radicare il c.d.
controllo esterno sono, a titolo esemplificativo, i
seguenti: i) i contratti di agenzia; ii) i contratti di
somministrazione di merci in esclusiva; iii) i contratti di concessione di vendita in esclusiva (5); iv)
i contratti di licenza (6); v) i contratti di know
how; vi) i contratti di franchising; vii) i contratti di
subfornitura; viii) i contratti di somministrazione di
prodotti fabbricati in regime di monopolio; ix) i
contratti di commissione; x) i contratti di finanziamento.
La norma di cui sopra (l’art. 2359, comma 1, n.
3, c.c., qui analizzata nei limiti di un approfondimento di commento alla sentenza) deve poi essere
letta, nel caso in esame, congiuntamente all’art.
2497 septies c.c.
L’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 6/2003, come modificato dall’art. 5, comma 1, lett. bbb), D.Lgs. n.
37/2004, ha inserito l’art. 2497 septies c.c., riproducendo sostanzialmente (modificandone il testo) il
comma 2 dell’art. 2497 sexies c.c., contestualmente
abrogato.
Tale intervento del legislatore ha chiarito che la
fattispecie di cui adesso all’art. 2497 septies c.c. costituisce un’ipotesi di coordinamento tra società rilevante ai fini della responsabilità ex art. 2497 c.c.,
che deve considerarsi autonoma, in particolare rispetto alla fattispecie del controllo contrattuale
c.d. esterno di cui abbiamo detto.
Secondo l’opinione oramai maggioritaria, tale
norma intende riferirsi al c.d. gruppo orizzontale o
paritetico (7), che si distingue dal gruppo verticale
o gerarchico perché, nel primo caso, manca il soggetto posto nella posizione egemonica, sussistendo
invece “un accordo fra più società che concorrono,
particolari vincoli contrattuali), postula la esistenza di determinati rapporti contrattuali la cui costituzione ed il cui perdurare
rappresentino la condizione di esistenza e di sopravvivenza
della capacità di impresa della società controllata; l’accertamento della esistenza di tali rapporti, così come l’accertamento dell’esistenza di comportamenti nei quali possa ravvisarsi
un abuso della posizione di controllo tale da convertire una situazione di per sé non illecita nel contesto della vigente disciplina codicistica in una condotta illecita causativa di danno risarcibile, costituisce indagine di fatto, rimessa, come tale, all’apprezzamento del giudice del merito e sindacabile in sede di
legittimità solo per aspetti di contraddizione interna all’iter logico formale della decisione, ovvero per omissione di esame di
elementi determinanti per la decisione stessa (nella specie, la
suprema corte ha confermato la decisione di merito che aveva
respinto la domanda di risarcimento dei danni proposta, nei
confronti di una società facente capo ad un noto stilista e dello
stesso in proprio, da alcune società, asseritamente controllate
dalla prima, che, su licenza di questa, producevano capi di abbigliamento con la griffe di detto stilista, al fine di far valere la
responsabilità aquiliana della società pretesa controllante e del
suo amministratore per avere, con il recesso dai contratti stipulati con le attrici, asseritamente concretante un abuso di posizione di controllo, provocato il dissesto delle stesse)”. Nello
stesso senso Trib. Palermo 3 giugno 2010, in Foro it., 2011, I,
931; Trib. Monza 26 agosto 2004, in Corr. mer., 2005, 2, 143;
App. Milano 28 aprile 1994, in questa Rivista, 1995, 73.
(4) Si vedano, sul tema in esame, ex multis, H. Simonetti,
Nota a Trib. Palermo 3 giugno 2010, in Foro it., 2011, I, 936; M.
Notari - J. Bertone, Sub art. 2359 c.c., in P. Marchetti - L. A.
Bianchi - F. Ghezzi - M. Notari (diretto da), Commentario alla riforma delle società, Milano, 2008, 687 ss., 723 ss.; A. Valzer, Il
potere di direzione e coordinamento di società tra fatto e contratto, in P. Abbadessa - G. B. Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 3,
Torino, 2007, 84; F. Galgano, Direzione e coordinamento di società, in F. Galgano (a cura di), Commentario del Codice Civile
Scialoja-Branca, Bologna, 2005, 180; M. Lamandini, Sub artt.
2359, 2359-bis, 2359-ter, 2359-quater, 2359-quinquies c.c., in
G. Niccolini - Stagno D’Alcontres (a cura di), Società di capitali.
Commentario, Napoli, 2004, 394 ss.; V. Cariello, Sub art. 2497sexies e 2497-septies c.c., in Società di capitali. Commentario,
Napoli, 2004, 1897; G. Loffari, Sul controllo esterno-contrattuale in materia societaria, in Giust. civ., 2004, I, 2426 ss.; E. Rimini, Il controllo contrattuale, Milano, 2002; M. C. Cardarelli, Controllo contrattuale ed abuso della posizione dominante, in questa
Rivista, 2002, 319 ss. ,nota a Cass. n. 12094/2001; V. Carbone,
Un contrastato caso di “controllo esterno” tra società di capitali,
in questa Rivista, 2001, 1429 ss., nota a Cass. n. 12094/2001;
G. Sbisà, Società controllate e società collegate, in Contr. e
impr., 1997; M. Notari, Il gruppo “contrattuale” nella disciplina
antitrust, in AA.VV., I gruppi di società, Milano, 1996, 3, 1697
ss.; M. Lamandini, Il “controllo”. Nozioni e “tipo” nella legislazione economica, Milano, 1995, 152 ss.; A. Musso, Licenze di
proprietà industriale e clausole di dominazione: alcuni recenti
sviluppi sul controllo, in Contr. e impr., 1999 (nota a Trib. Milano 28 aprile 1994); A. Musso, Il controllo societario mediante
particolari vincoli contrattuali, in Contr. e impr., 1995, 19 ss.; R.
Rordorf, Attuazione delle direttive Cee sul bilancio di esercizio e
sul bilancio consolidato, in questa Rivista, 1991, 729 ss.; M. S.
Spolidoro, Il concetto di controllo nel codice civile e nella legge
antitrust, in Riv. Società, 1995, 456 ss.
(5) Così Trib. Palermo 3 giugno 2010, in Foro it., 2011, I,
931.
(6) Così Cass., Sez. I, 27 settembre 2001, n. 12094, che ha
esaminato un contratto di licenza nel settore della moda: le società attrici agivano contro la società facente capo ad un noto
stilista - asseritamente controllante - per conto della quale, in
base a un contratto di licenza, producevano capi di abbigliamento con la “griffe” di detto stilista.
(7) In tal senso si veda la Relazione di accompagnamento
al D.Lgs. n. 37/2004: “Alla lettera rr) si è introdotto il nuovo articolo 2497septies in tema di coordinamento tra società; esso
contiene la previsione dell’originario secondo comma dell’articolo 2497-sexies, essendo apparso opportuno, al fine di eliminare equivoci interpretativi, separare la disciplina del controllo
c.d. “verticale”, prevista nell’articolo 2497 sexies, da quella del
controllo c.d. “paritetico od orizzontale”, nonché, ex multis, R.
Santagata, Autonomia privata e formazione dei gruppi nelle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum
Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa - G. B. Portale, 3, Torino, 2007, 808. F. Galgano, Direzione e coordinamento di società, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna,
2005, 211, ritiene che proprio in tale fatto risieda la distinzione
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in misura paritetica alla formazione di una direzione strategica comune, fondata su un “coordinamento equiordinato” delle rispettive politiche amministrative e finanziarie” (8).
In dottrina si è, poi, ampiamente discusso sulla
possibilità che l’art. 2497 septies c.c. riconoscesse la
legittimità, nel nostro ordinamento, del c.d. contratto di dominio o dominazione (di matrice tedesca), cioè il contratto con il quale viene regolato
espressamente l’obbligo assunto da una società di
svolgere la propria attività conformemente alle direttive imposte da altra società “dominante”; tali
direttive determinano l’alterazione della struttura
organizzativa della prima, e possono determinare
altresì su di essa effetti pregiudizievoli, anche in assenza dei c.d. vantaggi compensativi.
L’opinione maggioritaria è nel senso di escludere
la riconducibilità dell’art. 2497 septies c.c. ai contratti di dominio, e di escluderne quindi (a oggi)
un riconoscimento da parte del nostro ordinamento (9).
La norma in esame si riferirebbe, dunque, a ipotesi diverse dai contratti di dominio e diverse, altresì, dai contratti commerciali che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2359, comma 1,
n. 3, c.c. In ogni caso appare rilevante e determinante che gli obblighi contrattuali assunti dalla
parte coordinata siano cogenti e che quindi l’adempimento di tali obblighi non sia frutto di una
mera scelta imprenditoriale (10).
La giurisprudenza ha affrontato il tema in esame
in casi isolati, con la conseguenza che non esiste
della fattispecie di cui alla norma in esame rispetto a quella di
cui all’art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. Secondo G. Giannelli, Covenants finanziari e finanziamento dell’impresa di gruppo in crisi,
in Riv. dir. soc., 2009, 615 “pare riduttivo limitare l’applicabilità
dell’art. 2497 septies al solo gruppo paritetico”. Nello stesso
senso sul punto, P. Montalenti, Direzione e coordinamento nei
gruppi societari: principi e problemi, in Riv. Società, 2007, 331.
Nel senso che l’art. 2497 septies c.c. non possa invece applicarsi al c.d. gruppo orizzontale o paritetico, perché l’intera disciplina della direzione e coordinamento si riferisce in modo
esclusivo alla fattispecie del gruppo verticale, gerarchico, si veda A. Valzer, Il potere di direzione e coordinamento di società
tra fatto e contratto, in P. Abbadessa - G. B. Portale (diretto
da), Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco
Campobasso, 3, Torino, 2007, 871 ss.
(8) R. Santagata, Il gruppo paritetico, Torino, 2001, 2.
(9) In questo senso ex multis G. Mucciarelli, Sub art. 2497septies c.c., in G. Sbisà (a cura di), Direzione e coordinamento
di società, 2012, 380 ss.; G. Giannelli, Covenants finanziari e finanziamento dell’impresa di gruppo in crisi, in RDS, 2009, 61;
A. M. Perrino, Il gruppo di società tra fatto e contratto, in Foro
it., 2009, I, 2829; R. Santagata, Autonomia privata, cit., 2007,
808; V. Cariello, Sub 2497-septies c.c., in G. Niccolini - A. Stagno d’Alcontres (a cura di), Commentario, Napoli, 2004, 1898;
V. Salafia, La responsabilità della holding verso i soci di minoranza delle controllate, in questa Rivista, 2004, 5 ss.; G. Scognamiglio, I gruppi e la riforma del diritto societario, in Riv. dir.
impr., 2002, 587. Contra si veda Trib. Roma 17 luglio 2009, secondo il quale “la nuova disciplina dell’attività di direzione e
coordinamento di società contenuta negli art. 2497 ss. c.c. (...)
induce a valutare con favore la validità dei contratti di dominazione”. U. Tombari, Diritto dei gruppi di imprese, Milano, 2010,
43, con argomentazioni convincenti e condivisibili, parla di
“contratti di coordinamento o collegamento gerarchico”, cioè di
contratti con i quali si costituisce un gruppo gerarchico, “nell’ambito del quale la società capogruppo è legittimata ad esercitare un’attività di direzione e coordinamento nel rispetto dei
principi dettati dagli artt. 2497 ss., ossia, in primo luogo, dei
principi di “corretta gestione societaria e imprenditoriale” delle
società dirette e coordinate. Secondo P. Montalenti, Direzione e
coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in Riv.
Società, 2007, 331 lo spazio applicativo della norma sarebbe
più ampio di quanto la dottrina maggioritaria ritenga. L’Autore
si riferisce ai cc.dd. regolamenti di gruppo, con i quali vengono
disciplinati contrattualmente il contenuto, i limiti e le modalità
della direzione unitaria (che dovrà in ogni caso essere lecita e
conforme ai principi di corretta gestione), ritenendoli perfettamente legittimi.
(10) A. Niutta, Sulla presunzione di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497sexies e 2497septies c.c.: brevi considerazioni di sistema, in Giur. comm., 2004, I,
999 ss. indica alcuni degli indici che possono rivelare l’esistenza di direzione e coordinamento di tipo contrattuale. L’Autore
fa riferimento ai seguenti casi: i) gli atti di pianificazione finanziaria, non come semplice predisposizione di un progetto ma
come atto cogente, l’esecuzione del quale deve risultare doveroso dal puto di vista contrattuale; ii) gli atti di definizione della
struttura organizzativa di gruppo; iii) gli atti di definizione della
strategia di mercato. Quest’ultimo caso è quello che appare
maggiormente problematico; come osserva l’Autore, infatti
(peraltro conformemente a quanto rilevato dai Giudici nel provvedimento qui in commento) è necessario che l’individuazione
della strategia di mercato della società diretta non dia luogo
ad alcuna facoltà di scelta gestoria di quest’ultima, ma determini “opzioni necessitate o comunque vincolate”. Ci si riferisce,
in particolare, ai cc.dd. contratti di distribuzione, con i quali a
uno dei contraenti può essere attribuita facoltà di determinare
la politica dei prezzi dell’altro, o definirne l’offerta in termini di
quantità del prodotto, tipologia, caratteristiche specifiche. I
medesimi esempi concreti sono riportati ed analizzati da G.
Terzini, Responsabilità del franchisor ai sensi degli artt. 2497 e
2497septies c.c., in RDS, 2010, 1, 161 ss. (nota a Trib. Pescara
16 gennaio 2009). P. Dal Soglio, Sub artt. 2497sexies e
2497septies c.c., in A. Maffei Alberti (a cura di), Il Nuovo diritto
delle società, Padova, 2005, 2437 ss., ritiene che i casi esaminati da A. Niutta, di cui al punto “iii” sopra riportato, esulino
dall’ambito applicativo della norma in esame, rientrando invece in quello dell’art. 2359, comma 1, n. 3, c.c. L’Autore fa inoltre riferimento all’ipotesi dei contratti con cui le società in crisi
“vengono sottoposte al monitoraggio dei creditori forti, degli istituti bancari, mediante i quali si ha un’ingerenza che può giungere sino alla nomina di uomini di fiducia nell’organo amministrativo”. Sul tema degli “indici rivelatori dell’attività di direzione e
coordinamento contrattuale” si veda anche V. Zanelli, Contratto
di franchising ed abuso di direzione e coordinamento contrattuale, in questa Rivista, 2010, 694. A. Negri - Clementi - F. Federici, La natura della responsabilità della capogruppo e la tutela
del socio di minoranza, in questa Rivista, 2013, 521, riportano il
caso peculiare di una fattispecie rilevante ex art. 2497septies
c.c.: “La società capogruppo Alfa ha in essere un contratto di
servizi rinnovato tacitamente di anno in anno con la società
Beta. La società Beta è soggetta a controllo (in forza della titolarità da parte di Alfa della partecipazione di maggioranza di
Beta) e a direzione e coordinamento (pubblicamente dichiarata) derivante da detta partecipazione di controllo (confermando così la presunzione ex art. 2497 sexies c.c.) e in virtù del
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ancora un orientamento consolidato sul punto (11).
La domanda attorea è stata proposta da Alfa
S.p.a., sia nella sua veste di creditore della società
eterodiretta, sia nella sua veste di socio (totalitario) della stessa.
Il Tribunale, come visto, ha respinto la domanda per carenza dei presupposti di fondo per la configurazione di una ipotesi di direzione e coordinamento ma, quanto alla posizione di socio, ha concluso la propria motivazione aggiungendo un argomento ulteriore (valido solo con riferimento alla domanda proposta dal socio, e non per quella
proposta dal creditore): l’art. 2497 c.c. è volto a
tutelare i soci di minoranza con la conseguenza
che un socio che, come nel caso in esame, detenga la totalità del capitale sociale, non può invocarne la tutela (12).
Tale principio è, anzitutto, conforme alla logica
della norma (protezione di un socio che non concorre alla attività di direzione e coordinamento
perché privo del potere di farlo) ed alla sua ratio
ispiratirce: all’art. 10, comma 1, lett. a), L. n.
366/2001 (Legge delega per riforma diritto societario) si legge che “la riforma in materia di gruppi è
ispirata ai seguenti principi e criteri direttivi: a)
prevedere una disciplina del gruppo secondo principi di trasparenza e tale da assicurare che l’attività
di direzione e di coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società
controllate e dei soci di minoranza di queste ultime
(…)”.
Si tratta di una interpretazione che è condivisa
dalla dottrina (13) e che non merita, in questa sede, ulteriore approfondimento salva la precisazione che, come ovvio che sia, qualora il caso in
esame avesse davvero condotto alla sussunzione
di una delle fattispecie di cui agli artt. 2359,
comma 1, n. 3 c.c. e 2497 septies c.c. ciò avrebbe
reso del tutto irrilevante la questione della percentuale di capitale detenuta dal socio che richiede l’applicazione della tutela di cui all’art. 2497
c.c. (se la posizione di controllo deriva da vincoli
esterni allora la posizione del socio di controllo
societario - che possa esercitare, in ipotesi, anche
la totalità dei diritti di voto nell’assemblea soci non dovrebbe essere un ostacolo all’esercizio dell’azione qui in esame).
succitato contratto di servizi ex art. 2497 septies c.c. Il contratto di servizi ha ad oggetto la prestazione da parte di Alfa a favore di Beta di attività di consulenza e assistenza ad ampio
spettro, che ricomprende non solo servizi tecnici, gestionali,
commerciali e amministrativi ma persino atti di consulenza
strategica e direzionale, tanto da concretizzarsi in una sistematica e continuativa espropriazione da parte di Alfa delle competenze gestorie degli amministratori di Beta”.
(11) Si veda Trib. Roma 22 gennaio 2014, banca dati Foro
it., secondo il quale: “Gli accordi negoziali, rilevanti, dunque, ai
sensi dell’art. 2497 septies c.c., vanno ricercati in tutti quei patti parasociali, sindacati, clausole statutarie idonei a realizzare
una relazione di gruppo, nel senso di sancire un impegno delle
società a seguire una strategia imprenditoriale comune, senza
abdicare alla sovranità dei propri organi; inoltre, effetti assimilabili a quelli del controllo possono scaturire da contratti di finanziamento, laddove la holding predisponga in modo cogente la pianificazione finanziaria della società, sotto il profilo dei
requisiti minimi patrimoniali o dell’equilibrio finanziario, o dai
contratti con cui le società in crisi vengano sottoposte al monitoraggio dei creditori forti, degli istituti bancari, mediante
un’ingerenza che può giungere sino alla nomina di uomini di
fiducia nell’organo amministrativo”. Si veda, inoltre, Trib. Pescara 16 gennaio 2009, cit., che - come visto - ha affrontato il
tema dell’applicabilità dell’art. 2497 septies c.c. (e dunque dell’art. 2497 c.c.) ad un contratto di franchising. Il Tribunale ha
tuttavia escluso l’esistenza del coordinamento di tipo contrattuale, ritenendo che, per effetto del solo contratto di affiliazione, l’affiliato non fosse univocamente costretto ad accettare
ed eseguire le direttive impartite. L’adempimento di tali richieste costituiva quindi - come peraltro nel caso oggetto di esame da parte del Tribunale di Catania - frutto di una libera scelta imprenditoriale.
(12) Il passaggio rilevante della motivazione è il seguente:
“infine, con specifico riferimento alla domanda risarcitoria
avanzata da parte attrice n.q. di socio (…), va rilevato come
la disposizione in commento sia stata interpretata dalla dottrina maggioritaria come volta alla tutela del socio di minoranza che subisce le scelte gestorie dell’amministratore e il
loro avallo da parte del socio di maggioranza. Tale interpretazione appare condivisibile e in linea con quanto si legge
nella relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 6/2003 (“La
delega richiede una disciplina di trasparenza con regole tali
da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento
contemperi l’interesse del gruppo, delle società controllate e
dei soci di minoranza”). Nella specie, secondo la stessa prospettazione attorea, parte attrice detiene il 100% del capitale
sociale Wind Jet e parrebbe quindi carente di quella posizione di soggetto che subisce le scelte adottate nell’interesse
del gruppo che il legislatore ha deciso di tutelare con lo strumento di cui all’art. 2497 c.c. quindi legittimata alla proposizione ha, quindi, deliberatamente scelto di attenersi alle indicazioni ricevute da Alitalia che hanno comportato il danno
lamentato. Anche per questa ragione, e in applicazione del
generale principio dell’imputet sibi, l’azione non potrebbe
trovare accoglimento”.
(13) Si vedano in questo senso V. Salafia, La responsabilità della holding verso i soci di minoranza delle controllate, in
questa Rivista, 2004, 5; A. Negri - Clementi - F. Federici, La
natura della responsabilità, cit., 519; U. Tombari, Diritto dei
gruppi di imprese, Milano, 2010, 43; P. Dal Soglio, Commento all’art. 2497 c.c., in Commentario breve al diritto delle società, diretto da A. Maffei Alberti, Torino, 2007, 1139; R.
Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. comm., 2003, I,
675; L. Enriques, Gruppi di società e gruppi di interesse, in Il
nuovo diritto societario fra società aperte e società private, in
Quaderni di Giurisprudenza commerciale, 246, 252. Si veda,
infine, Trib. Milano 17 giugno 2011, in questa Rivista, 2012,
258, con nota di H. Simonetti.
Legittimazione all’azione ex art. 2497 c.c.
da parte dei soci di controllo
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I rischi di una interpretazione estensiva:
regole di mercato e responsabilità del
contraente forte
In aggiunta ai criteri derivanti dai citati orientamenti di dottrina e giurisprudenza, il Tribunale ha
espresso un principio che si ritiene utile sottolineare: “(...) invero, portando all’estremo il ragionamento auspicato dalla parte attrice, si finirebbe per
ammettere la responsabilità di qualsivoglia società
che abbia con altra società (ritenuta) più debole
un qualsivoglia legame contrattuale per qualsivoglia comportamento che sia stato auspicato dall’una e liberamente posto in essere dall’altra. Ciò implicherebbe: da un lato, inammissibili valutazioni
in ordine alle ragioni che hanno mosso l’agire dell’imprenditore “eterodiretto”; dall’altro, sarebbe
fonte di potenziale implementazione delle cause di
responsabilità della società “dirigente” per comportamenti non preventivabili e/o prevedibili e comunque non compiutamente valutabili nel rischio
di impresa astrattamente atti, tuttavia, ad alterare
gli equilibri economici delle società”.
Questo principio rappresenta un passaggio importante della motivazione. Nella prima parte della
motivazione, infatti, si legge (come riportato nella
massima) che l’elemento da ricercare per “riconoscere” un contratto che possa ricondursi alle due
fattispecie descritte dagli artt. 2359, comma 1, n.
3, c.c. e 2497 septies c.c. consiste proprio nella oggettiva pattuzione contrattuale che configuri il diritto, per una parte, di imporre una condotta e, per
l’altra parte, l’obbligo di rispettare gli ordini provenienti dalla parte “dirigente”.
Tale assetto tuttavia se, da una parte, è evidentemente volto a limitare l’ambito di applicazione
(e quindi l’interpretazione) delle citate norme, dall’altra, è al contempo in grado di produrre l’effetto
non voluto e opposto (cioè una estensione dei limiti sopra descritti), laddove si concentri l’attenzione solo sulla obiettività del testo contrattuale,
anziché sul generale assetto negoziale e sulle logiche imprenditoriali che di tale assetto costituiscono la causa stessa. In altre parole, ed uscendo dai
confini del caso in esame (dove nessuna clausola,
comunque, è stata individuata come fonte di un
potere cogente di una parte sull’altra), sarebbe
miope una lettura che si limitasse a rilevare la mera esistenza di una eventuale clausola che, pur
apertamente, individuasse il potere di una parte di
imporre all’altra decisioni operative rilevanti.
Ciò che dovrebbe, a mio giudizio, compiersi è
una lettura congiunta di due momenti distinti:
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quello in cui una parte sceglie di sottoscrivere un
contratto che contiene simili clausole e quello,
evidentemente successivo, in cui tali clausole vengono applicate. Il momento genetico del rapporto
contrattuale dovrebbe rappresentare, infatti, l’elemento essenziale e determinante per la sussunzione
di questa fattispecie. Se l’imprenditore è completamente libero nel compiere una scelta strategica
che lo sottopone al rispetto delle direttive del contraente forte (si pensi ai contratti di franchising o,
in generale, ai contratti dei fornitori di un singolo
bene ad un unico cliente nella c.d. grande distribuzione), come può - poi - lo stesso imprenditore dolersi di essere stato costretto a rispettare quelle direttive? In particolare, tale imprenditore non potrebbe legittimamente dolersi di eventuali danni
invocando la tutela di cui al combinato disposto
degli artt. 2497 c.c., 2359, comma 1, n. 3, c.c. e
2497 septies c.c., fermo il diritto di tale imprenditore di invocare, invece, la tutela di cui alla norma
generale dell’art. 2043 c.c., se ne sussistono i presupposti di fatto (e fermo il diritto dei soci e dei
creditori della società che ha subito gli effettivi negativi di tali contratti di agire contro l’amministratore che ha scelto di sottoscriverli, salva comunque
l’applicazione della c.d. business judgement rule).
Necessità dei limiti di responsabilità
rispetto alla prassi delle operazioni di
compravendita di pacchetti azionari e di
aziende
In ultima analisi, pare utile soffermarsi sul fatto
che il caso in esame scaturisce proprio da una operazione di finanza straordinaria (una cessione di
azienda strutturata tramite conferimento dell’azienda stessa ad una newco e successiva cessione del
suo controllo societario) e dagli accordi ad essa
prodromici.
Nella prassi delle operazioni di finanza straordinaria, è del tutto normale (e necessario) che le
parti pongano per iscritto le regole della negoziazione (cioè le regole relative alla fase anteriore alla
sottoscrizione di un contratto vincolante tra le parti). In estrema sintesi, ed al solo fine di rappresentare la potenziale fonte di equivoco per i fini che
qui interessano, può dirsi che:
- da un lato, v’è la parte acquirente, che richiede
accesso completo alle informazioni rilevanti per
eseguire la sua c.d. due diligence, e che richiede altresì di conoscere le scelte aziendali che saranno
compiute dall’imprenditore nel periodo concesso
per l’esecuzione della stessa due diligence e per l’e-
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ventuale formulazione di una proposta irrevocabile
(il tutto all’ovvio fine di consentire alla parte acquirente di valutare anche le informazioni che
vengono in essere nel periodo, a volte lungo, necessario per l’ultimazione della due diligence oppure, come a volte accade, al fine espliito di valutare
la “performance” dell’impresa al fine di ottenere
più informazioni utili alla sua valutazione);
- dall’altro lato, v’è la parte venditrice che ha interesse a garantire la riservatezza delle informazioni
che emergeranno nel corso della due diligence ma
che, ancor più, ha interesse a conoscere la proposta
dell’acquirente per negoziare le condizioni economiche dell’operazione.
Nell’ambito di questa regolamentazione è possibile che le parti non si limitino a pattuire regole
sullo scambio di informazioni, ma pattuiscano regole sulla condotta aziendale che l’imprenditore
deve tenere nel c.d. periodo di studio, intercorrente tra l’avvio dell’esame dei dati e la presentazione
di una offerta irirevocabile. È questo il punto che
deve essere esaminato con più attenzione per valutare se (come è accaduto nel caso in esame) si instaura tra le parti un contratto volto al mero scambio di informazioni oppure un contratto che può
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assumere rilievo per le responsabilità di cui all’art.
2497 c.c.
Nulla quaestio, e nessuna ipotesi di responsabilità
ex art. 2497 c.c., per il caso in cui l’imprenditore
mantenga piena libertà di scelta ma pattuisca solo
obblighi di informazione verso la parte interessata
all’acquisto dell’azienda e/o pattuisca l’obbligo di
compiere o non compiere alcune specifiche scelte
relative al vero e proprio business aziendale (partecipare o non partecipare ad una gara in attesa di
conoscere se il nuovo imprenditore condivida la
scelta, avviare o meno una campagna vendite con
il marchio storico in attesa di conoscere se un nuovo marchio dovrà contraddistinguere il prodotto,
ecc.).
Viceversa, potrebbero sorgere responsabilità ex
art. 2497 c.c. qualora il soggetto interessato all’acquisto dell’azienda richieda, ed ottenga, il diritto di
imporre fin da subito (ed a prescindere dall’esito
della negoziazione o dal termine temporale per ciò
stabilito) le proprie direttive sulla gestione vera e
propria dell’azienda, per esempio intervenendo su
licenziamenti del personale, gestione della finanza,
scelte commerciali strategiche, gestione delle risorse umane, formazione del budget di spesa e sua allocazione.
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Processo, arbitrato e mediazione
Clausola compromissoria
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statutaria e fallimento del socio
Tribunale di Napoli, Sez. impresa, 25 novembre 2014, ord. - Pre. Buttafoco - Giud. ed Est. E.
Quaranta - Fall. Moccia Infrastrutture S.p.a. (avv. Di Nanni) c. Consorzio stabile Impromed.
(avv.ti Grasso)
Società - Società consortile - Clausola compromissoria statutaria - Arbitrato - Fallimento - Curatore
(legge fallimentare artt. 83 bis e 72; D.Lgs. n. 5/2003 artt. 34-35,)
Con riguardo all’impugnazione di una delibera consortile di esclusione del socio fallito, la clausola compromissoria contenuta nello statuto del consorzio è opponibile al fallimento, come confermato, a contrario, dall’art. 83 bis l.fall.
Società - Società consortile - Compromettibilità - Arbitrato - Impugnazione di delibere assembleari
(Cod. civ. art. 2378; D.Lgs. n. 5/2003 artt. 34-35; cod. proc. civ. art. 806)
L’impugnazione della delibera di esclusione, - promossa per invalidità della convocazione di assemblea e per
violazione dell’art. 72 l.fall. -, rientra nel novero delle materie arbitrabili, attenendo ad ipotesi di annullamento
(e non già di nullità) delle deliberazioni.
Impugnazione di delibere assembleari - Arbitrato - Competenza cautelare - Sospensione dell’efficacia delle delibere
(Cod. civ. artt. 2378, 2287; D.Lgs. n. 5/2003 artt. 34-35; cod. proc. civ. art. 669 quinquies)
Poiché la competenza a decidere la causa di merito va attribuita all’arbitro previsto dallo statuto del consorzio, allo stesso è devoluto l’esame della richiesta cautelare di sospensione della delibera avversata.
Il Tribunale (omissis).
Con atto di citazione notificato in data 14.6.2014, il
Fallimento Moccia Infrastrutture s.p.a., conveniva in
giudizio il consorzio stabile impromed s.p.a. onde sentire
accogliere le seguenti conclusioni:
1) in via preliminare, sospendere l’efficacia esecutiva delle
delibere adottate dall’assemblea della s.p.a Impromed Consorzio Stabile del 17.3.2014;
2) nel merito, dichiarare la nullità e/o comunque l’inefficacia nei confronti della massa, dell’art. 20 dello statuto della
s.p.a. Impromed Consorzio Stabile, per motivi in premessa;
3) dichiarare, ad ogni modo, nulle, e/o comunque annullare, le delibere assunte dell’assemblea della Impromed Consorzio Stabile il 17.3.2014, per tutte le ragioni in premessa;
4) in subordine, determinare, secondo la disciplina di cui alle società di capitali, il valore delle partecipazioni possedute
dalla s.p.a nella Moccia Infrastrutture s.p.a nella Impromed Consorzio Stabile e, procedere alla sua liquidazione,
anche attraverso una c.t.u. che fin d’ora si richiede;
5) condannare la Impromed Consorzio Stabile s.p.a al pagamento dei diritti e spese del presente giudizio”.
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Con ricorso depositato in data 16.7.2014, iscritto al n.
17760/2014 di RG e promosso contestualmente al giudizio di merito ex art. 2378 c.c., il Fallimento Moccia
Infrastrutture s.p.a avanzava istanza volta ad ottenere la
sospensione dell’esecuzione della delibera del 17.3.2014.
A sostegno della domanda lamentava che tale delibera
aveva disposto l’esclusione del socio Moccia Infrastrutture per il sopravvenuto assoggettamento a procedura
ex r.d. 267/1942 e per la perdita dei requisiti per l’assunzione di lavori pubblici nonché disposto, ai sensi
dell’art. 2609 c.c., l’assegnazione gratuita delle relative
quote ai soci residui.
Deduceva, quindi, l’illegittimità della delibera:
a) per l’incompatibilità rispetto alle regole tipiche del
modello societario prescelto, cui si ispirano le società
consortili di cui all’art. 2615 ter c.c. ovvero l’inefficacia,
ex art. 72 l.f., della clausola prevista all’art. 20 dello statuto Impromed che - per l’appunto - prevede(va) l’esclusione automatica o facoltativa della consorziata nel
caso in cui l’impresa sia (fosse) assoggettata a procedura
concorsuale;
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b) il mancato rispetto in specie delle regole di convocazione dell’assemblea e, in particolare, l’omessa preventiva informazione dei soci sugli argomenti all’ordine del
giorno;
c) il mancato rispetto del diritto del socio ad essere informato preventivamente del valore della liquidazione
delle sue azioni e di ottenerne il controvalore, determinato con le modalità tipiche del recesso in applicazione
analogica dell’art. 2437 ter, comma 5, c.c., disciplina da
ritenersi vincolante anche le società consortili in relazione al modello societario prescelto.
Quanto al periculum per la concessione della cautela richiesta, deduceva che esso era configurabile alla luce
della lesione irreparabile degli interessi dei creditori del
fallimento Moccia Infrastrutture, vistisi privati della
partecipazione alla struttura consortile senza riceverne
il relativo controvalore; inoltre, stante l’attribuzione di
tale partecipazione ad altri soci, per le possibili scelte
dannose per la società adottate in sua assenza.
Resisteva al ricorso la Impromed Consorzio Stabile costituendosi in data 31.7.2014 e depositando comparsa
ove esponeva:
in via preliminare l’improponibilità dell’azione da parte
del fallimento stante la previsione, nell’art. 24 dello statuto consortile, di una clausola compromissoria, che
prevedeva la devoluzione di tutte le controversie tra i
soci ovvero tra soci e società aventi ad oggetto diritti
disponibili relativi al rapporto sociale ad un arbitro unico nominato dal Presidente del Tribunale, chiamato a
decidere secondo equità (con applicazione comunque
delle disposizione di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 5);
l’applicazione al caso de quo dell’art 83 bis l.f. “se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è
sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il
procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito”;
la derogabilità dell’art. 2615 ter giacché solo in mancanza di uno statuto dettagliato che disciplini il rapporto tra i soci, ovvero nel silenzio delle parti, si sarebbero
dovute applicare le disposizioni relative al tipo societario prescelto;
l’inconferenza del richiamo operato all’art. 72 l.f. non
applicabile al contratto costitutivo della società consortile, dal momento che l’inizio dell’attività con rilevanza
esterna determinava ipso facto la rilevanza delle sole
norme che presidiano le modalità di partecipazione all’ente e comunque per l’inapplicabilità della previsione
ai contratti di tipo associativo;
la regolare convocazione dell’assemblea dei soci attestata dal notaio dott. Stefano Palladini nonché la comunicazione della convocazione prot. N. 42714 del 7.3.2014
recante l’ordine del giorno, inviata dalla Impromed
Consorzio Stabile al Fallimento Moccia.
Con ordinanza datata 21.8.2014 il GD rigettava l’istanza cautelare.
In particolare assumeva l’insussistenza del fumus in relazione all’azione di merito, per sussistere la competenza
arbitrale (in virtù di disposizione statutaria ritenuta vincolante per la curatela) e, comunque, per la legittimità
della clausola di esclusione del socio fallito dalla con-
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sortile, per l’apparente inapplicabilità al contratto sociale dell’art. 72 l.f. e per la correttezza del procedimento
di convocazione dell’assemblea che aveva dato vita al
deliberato; assumeva, inoltre, l’assenza del periculum,
vertendo in ipotesi di diritto di natura patrimoniale e in
assenza di vaglio positivo della posizione del fallimento
nella comparazione con gli interessi contrapposti della
società.
Avverso detta ordinanza il Fallimento Moccia Infrastrutture s.p.a proponeva reclamo al Collegio, deducendo:
che ai sensi dell’art. 2378 c.c. e 72 l.f., la sospensione
della deliberazione doveva essere concessa e l’ordinanza
riformata nella parte in cui affermava che “la clausola in
questione (art. 24 statuto consortile) deve ritenersi vincolante anche nei confronti della curatela attrice: l’azione da questa proposta, infatti ad avviso di questo organo giudicante,
deve ritenersi avere ad oggetto un diritto spettante al fallito
in quanto socio…e quindi non è azione di massa o direttamente derivante dal fallimento”. Ciò perché l’impugnazione della delibera non costituiva esercizio di un diritto
del fallito, in quanto il curatore non agiva quale sostituto processuale del predetto (cioè a titolo derivativo),
versando piuttosto in ipotesi di azione sorta solo con il
fallimento;
l’inopponibilità della clausola compromissoria in arbitri
per effetto del subentro della massa dei creditori nei
rapporti patrimoniali nei limiti dell’art. 42 l.f.;
la natura non patrimoniale della clausola compromissoria poiché ai sensi dell’art. 808 c.p.c., comma 2, “deve
essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al
quale si riferisce”;
l’inefficacia della clausola compromissoria per arbitrato
irrituale per effetto del fallimento di una parte contraente;
la non compromettibilità in arbitri delle controversie
aventi ad oggetto diritti indisponibili;
l’applicabilità alla fattispecie dell’art 72 ter l.f. nella
parte in cui prevede la possibilità, con il consenso degli
organi fallimentari, di portare a compimento l’affare segno che nessuna incompatibilità esisterebbe tra la gestione dell’operazione e la dichiarazione di fallimento;
l’illegittimità dell’art. 20 dello statuto per violazione
dell’art. 2609 e 2614 c.c., nella parte in cui non prevedeva alcun diritto alla liquidazione della quota in favore
dell’escluso;
la sussistenza del periculum, giacché il fallimento avrebbe visto irrimediabilmente pregiudicata la sua situazione
non potendo più partecipare alla formazione della volontà del consorzio, essendo preclusa la sua possibilità
di beneficiare degli introiti conseguenti all’aggiudicazione di nuovi appalti o dal mantenimento di quelli preesistenti e comunque per il danno derivante dall’illegittimo accrescimento della quota degli altri consorziati;
nel merito, l’illegittimità della convocazione dell’assemblea in quanto in difetto di una previsione espressa, della disciplina legale che dello statuto, si applicano i principi più garantisti dettati per le società di persone (artt.
2287 e 2473bis c.c.) di talché si rileverebbero omissioni
rispetto alla: preventiva informazione (art. 2479 c.c.,
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comma 5), obbligo di comunicazione individuale diretta
al destinatario di un provvedimento sanzionatorio (artt.
2287, 2533, 2606, comma 2 e 24, c.c.) al fine di consentire l’esercizio del diritto di difesa preventiva, prova
dell’invio e dell’avvenuta ricezione della stessa;
l’illegittimità della convocazione dell’assemblea ordinaria in luogo di quella straordinaria, in violazione dell’art. 11 dello Statuto e del relativo quorum deliberativo
(metodo maggioritario in ragione dei soci presenti);
l’inapplicabilità al caso de quo degli artt. 37 relativo ai
soli raggruppamenti temporanei e 38 del d.lgs. 163/2003
che prevede relativo all’esclusione dell’imprenditore fallito non anche nel caso di fallimento della società, in
conseguenza mentre le vicende estintive del mandante
e del mandatario nell’A.T.I. influiscono sulla sorte del
contratto di appalto pubblico stipulato dalla P.A., la
medesima non trova applicazione in caso di fallimento
di un consorziato.
Concludeva pertanto per l’accoglimento del reclamo, la
revoca dell’ordinanza del 21.8.2014 e per l’effetto concedersi la sospensiva richiesta.
Resisteva al gravame il Consorzio.
La decisione impugnata fonda sul presupposto della vincolatività per la procedura fallimentare della clausola
compromissoria contenuta nello statuto della resistente.
Proprio in virtù di tale convincimento, la curatela ha
inteso prospettare suggestive allegazioni per affermare
che l’azione proposta, nel cui alveo si colloca la cautela
in esame, non avrebbe carattere derivativo.
Secondo il fallimento l’impugnativa deriverebbe da una
delibera adottato dal Consorzio dopo l’apertura della
procedura concorsuale ai danni della Moccia Infrastrutture e comunque sarebbe diretta a tutela le ragione di
conservazione e/o incremento dell’attivo fallimentare.
Nei termini così delineati l’azione non sarebbe stata
proposta per effetto del subentro nella posizione della
società in bonis, costituendo piuttosto azione di massa.
Invero la tesi non è condivisibile, così come ritenuto
del resto dal primo giudice.
La giurisprudenza di legittimità portata a fondamento
del resto evidenzia come rilevi, ai fini dell’inquadramento della posizione del curatore nell’ipotesi in cui
agisca o sia convenuto in giudizio, se egli faccia valere
una situazione negoziale rivenuta nel patrimonio del
fallito ovvero una avente carattere autonomo, direttamente riferibile alla massa dei creditori che rappresenta
(Cass. civ., Sez. I, 23/01/2013, n. 1543 Stefanini C. Curatela Fall. Euro Costruzioni di e altri CED Cassazione,
2013, Sito Il caso.it, 2013, Fallimento, 2013, 10, 1310).
Non è dubbio, infatti, che il fine ultimo perseguito dalla
curatela sia quello d’acquisire o di conservare attività
patrimoniali, da liquidare per la soddisfazione delle ragioni dei creditori concorsuali.
Pertanto il fatto che questi agisca per la conservazione
o l’incremento del patrimonio fallimentare non assume,
di per sé, alcun rilievo dirimente, per stabilire se quella
proposta sia azione di massa (derivata dall’apertura della
procedura concorsuale o comunque strettamente ed
autonomamente collegata alle aspettative dei creditori)
ovvero azione già esistente nel patrimonio del fallito
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(inteso quale complesso di diritti ed obblighi facenti capo all’imprenditore).
Ciò che rileva è, invece, se quel tipo d’azione sia collegata, in maniera dipendente, con l’accertamento di un
rapporto preesistente in capo al fallito (ciò è quanto afferma, del resto, Cass. Civ. 22.6.2005, n. 13442, citata
da parte reclamante).
In quella ipotesi non può sicuramente escludersi che il
curatore agisca quale successore dell’imprenditore, pur
perseguendo le indicate finalità istituzionali del proprio
incarico.
Nella circostanza il fallimento intende discutere della
delibera di esclusione dal consorzio e della legittimità
della previsione del relativo statuto che ha portato a tale esclusione, per ottenere evidentemente il ripristino
dello status di consorziato ovvero il controvalore della
partecipazione già detenuta.
Non appare revocabile in dubbio che questo tipo d’azione tragga origine proprio da un rapporto preesistente in
capo alla fallita che la curatela intende ripristinare ovvero dal quale (più specificamente dalla sua risoluzione,
occasionata dall’apertura della procedura concorsuale)
vuol trarre l’utilità del controvalore delle azioni già in
titolarità della Moccia Infrastrutture in bonis.
Peraltro solo nella veste di soggetto subentrato a tal società si può comprendere la legittimazione della curatela
a dolersi della dedotta illegittimità della clausola statutaria del consorzio che ha determinato la sua esclusione
dalla compagine di Impromed e l’accrescimento gratuito
(in danno della stessa Moccia Infrastrutture e, di conseguenza, della massa dei suoi creditori) della partecipazione degli altri soci consorziati.
È evidente, infatti, che quale soggetto terzo la massa
non potrebbe dirsi vincolata dalla clausola e dagli effetti
che ne sono derivati.
In definitiva, ritiene il Tribunale che il fallimento si
trovi nella stessa posizione della società in bonis, avendo proposto rimedi che traggono origine da rapporti esistenti in capo alla medesima.
La conseguenza di quanto appena affermato è che deve
stabilirsi se la curatela sia vincolata al riguardo dalla
clausola compromissoria eccepita dalla reclamata.
Il fallimento, dopo aver contestato l’ordinanza impugnata nella parte in cui ha escluso (viceversa correttamente) che quella proposta sia azione di massa, ha ritenuto di contestare comunque detto vincolo, sul presupposto dell’autonomia (e dell’inopponibilità) della clausola alla procedura.
In altre parole, ove essa non sia stata espressamente accettata (e qui ciò non risulta avvenuto) la compromissione in arbitri non spiegherebbe alcun efficacia rispetto
alla massa.
Secondo il Collegio anche questa difesa non può ricevere accoglimento.
Ed invero è noto che appare essersi consolidato l’orientamento per cui “la clausola compromissoria costituisce un
contratto autonomo ad effetti processuali, anche quando sia
inserita nell’atto contenente il contratto cui ineriscono le
controversie oggetto della clausola; né, data la loro autonoma funzione, tra i due contratti sussiste tecnicamente un
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rapporto di accessorietà, come è espressamente riconosciuto
dall’art. 808, terzo comma, cod. proc. civ., nel testo introdotto dalla legge 5 gennaio 1994, n. 25 - applicabile nella
specie “ratione temporis” - secondo cui la validità e, quindi,
anche l’efficacia, della clausola compromissoria devono essere valutate in modo autonomo rispetto al contratto al quale
essa si riferisce” (Cass. civ., Sez. I, 31/10/2011, n. 22608,
Edil Sole di Coscarella s.n.c. C. Atripaldi e altri, CED
Cassazione, 2011, Conforme Cass. civ. Sez. I,
26/07/2013, n. 18134).
In sede fallimentare, tuttavia, stante il contrasto d’interpretazioni preesistenti, il legislatore della riforma del
2006 pare aver recepito la posizione della giurisprudenza
e dottrina prevalenti, nel senso di collegare l’efficacia
della clausola compromissoria (rispetto alla massa) a
quella del contratto cui essa accede.
L’art. 83-bis del rd 267/1942 (intestato Clausola arbitrale) prevede infatti che “Se il contratto in cui è contenuta
una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito”.
Così facendo la norma - ferma la possibilità per la curatela di discutere della validità della clausola, deducibile
dal contenuto dell’art. 808 cit. - ne subordina l’efficacia
a quella del contratto cui essa si riferisce.
Più nello specifico, lo scioglimento da tale vincolo nelle forme e nei termini di cui agli artt. 72 e ss. della
legge fallimentare - secondo il legislatore costituisce
una ragione d’improseguibilità del procedimento arbitrale attivato in virtù delle clausole contenute in quel
contratto.
Non v’è motivo di non ritenere che dalla norma possa
trarsi, a contrario, che se detto scioglimento non vi sia
stato, la clausola compromissoria mantenga intatta la
sua opponibilità alla massa (salve, come visto, doglianze
specifiche che attengano alla sua invalidità) . (cfr. nello
stesso senso:” nel caso in cui il procedimento arbitrale debba
iniziarsi successivamente alla dichiarazione di fallimento,
l’opponibilità al curatore della clausola arbitrale dipende dall’efficacia nei confronti del fallimento del contratto nel quale
la stessa è inserita (nel caso di specie il contratto contenente
la clausola arbitrale era un contratto di appalto scioltosi a
causa del fallimento), Trib. Udine, 23/08/2013, Fallimento, 2013, 11, 1404).
Nella circostanza anzitutto v’è clausola compromissoria
contenuta nell’art. 24 dello Statuto del consorzio.
La lettura della clausola consente di rilevare che per
tutte le controversie tra i soci e la società (quindi potenzialmente anche quella che occupa) è previsto il ricorso ad un arbitro unico nominato dal Presidente del
Tribunale del luogo in cui ha sede la società su istanza
della parte più diligente, che deve decidere entro 120
giorni dalla nomina (con arbitrato rituale) secondo
equità.
Ciò detto è pacifico che la curatela non si sia affatto
sciolta dal contratto sociale con Impromed.
Anzi essa si duole proprio della risoluzione del rapporto
associativo con il consorzio, dovuta a suo dire ad una
delibera illegittima, adottata in base ad una norma sta-
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tutaria contrastante con l’art. 72 l.f. e con le norme che
presiedono al modello societario assunto dal consorzio.
Nel far ciò assume che la norma appena riferita sia appunto applicabile ai contratti societari, dovendo riconoscersi al fallimento del socio il diritto di scegliere se subentrare nella posizione dell’imprenditore in bonis o
sciogliersi dal vincolo.
In altri termini è la stessa curatela a manifestare l’intenzione di ripristinare lo status di socio di Impromed, impugnando la delibera d’esclusione proprio perché gli ha
precluso tale possibilità (oltre che lo statuto, che non
gli consente di ottenere comunque la liquidazione delle
azioni detenute).
A quanto appena evidenziato consegue che, non versando in ipotesi di scioglimento dal contratto cui accede ed in assenza di doglianze specifiche sulla sua validità, la clausola compromissoria controversa deve considerarsi vincolante per la curatela.
Orbene, nel regolamentare i rapporti fra tutela cautelare
ed arbitrato in materia di società di capitali, il comma 5
dell’art. 35 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 5 stabilisce che:
“La devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell’art. 669- quinquies del codice di procedura civile,
ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in
arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia delle delibere”.
La norma, da un lato conferma il generale principio,
stabilito in combinato disposto dagli artt. 818 e 669
quinquies c.p.c., secondo cui gli arbitri non possono
concedere provvedimenti cautelari. Dall’altro contiene
una deroga al principio, ove stabilisce (“ma se la clausola
compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari
agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia delle delibere”).
L’area entro la quale è configurabile la competenza cautelare degli arbitri d’altra parte non può che essere individuata nei limiti in cui sia ammissibile la devoluzione
arbitrale delle controversie che attengono alla validità
delle deliberazioni societarie.
In altri termini, e venendo alle doglianze di parte reclamante, per stabilire anzitutto se il Tribunale abbia cognizione sul merito delle domande di merito proposte
coevamente dal Fallimento Moccia Infrastrutture ovvero se questo giudice l’abbia almeno sulle istanze cautelari in esame, occorre verificare se la clausola arbitrale di
cui all’art. 24 dello Statuto possa riguardare la materia
di tutte le invalidità prospettate.
Ed invero l’art. 34, comma 1, del d.lg. n. 5/03 stabilisce
che gli statuti possono prevedere la devoluzione in arbitri solo delle controversie societarie che abbiano ad oggetto dritti disponibili, laddove l’art. 36 testualmente
prevede che “Anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non
impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto,
con lodo impugnabile anche a norma dell’articolo 829, se-
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condo comma, del codice di procedura civile quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili
ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari”.
Il combinato di tali disposizioni pone effettivamente un
problema in ordine alla latitudine della compromettibilità della materia.
Da ultimo la Suprema Corte ha ricordato che “le disposizioni del D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 34, e segg., non sono
infatti rivolte a trasferire tale distinta funzione nell’ambito
della disciplina processuale dell’impugnazione di ciascuna
delle due categorie, e quindi a regolarne con modalità opposte la compromettibilità ad arbitri, bensì a completare, da un
lato, il processo di ampliamento della tutela del socio nei
confronti di entrambe dette delibere attuato dalla contestuale
riforma della disciplina delle società per azioni; e nel contempo ad intervenire in maniera compiuta e definitiva sul dibattuto problema dei limiti oggettivi dell’arbitrato societario,
nonché a quelli relativi ai diritti (in)disponibili dei soci (art.
34, comma 1) via via esaminati nel tempo dalla più qualificata dottrina e dalla giurisprudenza con soluzioni spesso contrastanti, limitando altresì il potere conferito dalle parti agli
arbitri di decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile: come conferma del resto la prima delle deroghe introdotta dall’art. 36, comma 1, al giudizio suddetto con il
conseguente obbligo di adottare comunque una decisione secondo diritto, con lodo impugnabile allorquando “per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili”: che
non si dubita essere applicabile anche a quelle che siano originate da delibere consiliari, ovvero in esse contenute”.
Parrebbe, in buona sostanza, che l’art. 36 cit. abbia inteso dettare una regola di giudizio per le ipotesi in cui
gli arbitri abbiano conosciuto incidentalmente di questioni che ad essi non possono essere devolute, poiché
sottratte alla relativa disponibilità.
La conferma della ricostruzione che precede si rinviene,
del resto, in una serie di pronunzie della Corte di legittimità, che ha sostenuto che “le controversie in materia
societaria possono, in linea generale, formare oggetto di
compromesso, con esclusione di quelle che hanno ad oggetto
interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi;
peraltro, l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta
a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata da
qualsiasi iniziativa di parte, quali le norme dirette a garantire
la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio; pertanto,
non è compromettibile in arbitri l’azione di revoca per giusta
causa di un amministratore di società in accomandita semplice ex art. 2259 cod. civ., in relazione agli artt. 2315 e
2293 cod. civ., non facendo eccezione - come invocato nella specie - la avvenuta insorgenza della controversia fra coniugi altresì soci in detta società. (Cass. civ., Sez. I,
12/09/2011, n. 18600 Tapparo C. Monte CED Cassazione, 2011, Corriere Giur., 2012, 3, 365, DE GIORGI);
ancora, che “attengono a diritti indisponibili, come tali non
compromettibili in arbitri ex art. 806 cod. proc. civ., soltanto le controversie relative all’impugnazione di deliberazioni
assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le
quali danno luogo a nullità rilevabile anche di ufficio dal giu-
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dice, cui sono equiparate, ai sensi dell’art. 2479 ter cod.
civ., quelle prese in assoluta mancanza di informazione, sicché la controversia che abbia ad oggetto l’interpretazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea di una società a responsabilità limitata, in cui si discuta esclusivamente se concerna le dimissioni del ricorrente dalla carica di amministratore delegato o anche da quella di componente del consiglio
di amministrazione, in quanto suscettibile di transazione,
può essere deferita ad arbitri. (Cass. civ., Sez. VI - 1,
27/06/2013, n. 16265 Sostegno C. Belpower S.r.l. CED
Cassazione, 2013).
Dal quadro interpretativo riportato emerge, in sintesi,
che anche in tema di invalidità delle deliberazioni societarie vigano i limiti dettati in generale dall’art. 806
cpc e, in materia societaria, dall’art. 34 cit.
Fermo ed impregiudicato quanto innanzi, deve rilevarsi
altresì che la generale compatibilità tra arbitrato e procedura fallimentare pur trovando nell’art. 83 bis l.f.
un’esplicita conferma incontra il limite risultante proprio dalla disciplina processuale dell’art. 806 c.p.c. dal
quale discende l’impossibilità di ricondurre tra le materie suscettibili di essere compromesse in arbitri tutte le
controversie per le quali viga un regime d’irrinunciabilità, intrasmissibilità ed imprescrittibilità (sul punto vd.
Verde Lineamenti di diritto di arbitrato, App. Milano
13.9.2002, Corr. Giur. 03, 1626) che non abbiamo, in
genere, ad oggetto diritti esclusivamente patrimoniali.
Orbene, è corretto allora quanto afferma parte reclamante ove sostiene che - per la giurisprudenza prevalente e la maggior parte della dottrina - l’area dell’indisponibilità attenga soltanto alle ipotesi di vizi dei deliberati
societari che comportino astrattamente nullità insanabili ed imprescrittibili.
In proposito devono intendersi dirimenti le doglianze
formulate dal Fallimento reclamante il quale assume
l’invalida convocazione dell’assemblea in difetto della
comunicazione individuale e specifica dell’ordine del
giorno tale da precludergli l’esercizio del diritto di difesa
preventiva.
Pur tuttavia la lettera dell’art. 2379 c.c. ai fini di quanto
previsto al primo comma la convocazione non si considera mancante nel caso d’irregolarità dell’avviso se questo proviene da un organo di amministrazione o controllo della società ed è idoneo a consentire a coloro
che hanno diritto d’intervenire di essere preventivamente avvertiti della convocazione e della data dell’assemblea. Tale circostanza risulta dalla convocazione
dell’assemblea e dal relativo ordine del giorno comunicato a mezzo Pec ai curatori e comunque vi è prova dell’avvenuta ricezione dell’avviso ad uno di loro. Ancora
l’art. 2379 c.c. “il verbale non si considera mancante
quando contiene la data della deliberazione e il suo oggetto e risulta sottoscritto dal presidente dell’assemblea…. o dal notaio”. Anche questa circostanza è rilevabile nel caso in esame giacché risulta il verbale di
convocazione a firma del notaio Stefano Palladini.
Nella circostanza la sola censura che escluderebbe la
competenza arbitrale atterrebbe alla pretesa violazione
(da parte del deliberato impugnato) dell’art. 72 l.f. visto
che le altre doglianze attengono al vizio della convoca-
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zione (e non piuttosto alla mancanza di convocazione
dell’assemblea) ovvero a temi che attengono ex art.
2379 c.c. all’annullabilità (in luogo della nullità) delle
delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea ovvero affette da irregolarità nel procedimento di convocazione.
In virtù di tale precisazione, pare al giudicante che la
competenza sul punto (determinata dalla domanda)
non possa che essere effettivamente attribuita agli arbitri, versando in caso di lesione di diritti che l’ordinamento riconosce disponibili dal socio.
A questo punto è doveroso stabilire se, la violazione
dell’art. 72 l.f. assurga violazione di un diritto indisponibile attratto alla procedura fallimentare con conseguente inefficacia del deliberato del 17.3.2014 od invece il
Fallimento abbia agito a tutela di un diritto a contenuto
patrimoniale nel qual caso la clausola de qua parrebbe
essergli perfettamente opponibile.
In proposito, va detto, che costituisce ius receptum il
principio secondo cui non sussiste un’automatica estinzione dei diritti e delle obbligazioni assunte dal soggetto
fallito per effetto dell’intervenuto fallimento: ciò contrasterebbe con la funzione dell’art. 72 L.F. secondo il
quale “ sono inefficaci le clausole negoziali che fanno
dipendere la risoluzione del contratto dal fallimento”.
Fino al momento della manifestazione del curatore di
volersi sciogliere dal contratto questo è pienamente valido, mentre viene sospesa ex lege solo la concreta esecuzione.
Ciò posto, ad avviso del Tribunale la norma in esame
risulta esser posta indubbiamente a tutela di diritti di
natura ed a funzione patrimoniale, giacché la relativa
violazione può implicare (come del resto dedotto in
specie) aspettative di reintegro nella posizione contrattuale indebitamente risolta ovvero di tipo risarcitorio.
In coerenza con la funzione generale di esecuzione concorsuale satisfattoria propria del fallimento.
Ricorrendo ipotesi di diritti disponibili (per rientrare
nella scelta della procedura la proposizione eventuale di
rimedi reintegrativi o risarcitori a fronte di condotte
violative dell’art. 72 l.f. ovvero la rinunzia agli stessi)
può concludersi che la clausola statutaria in esame sia
integralmente opponibile alla curatela, in virtù delle
doglianze così prospettate ed a prescindere dall’esame
della fondatezza della questione relativa alla concreta
applicabilità dell’art. 72 cit. ai contratti di tipo associativo.
In virtù di quanto precede, pare al giudicante che - come correttamente rilevato nell’ordinanza impugnata - la
competenza a decidere la causa di merito non possa che
essere effettivamente attribuita all’arbitro unico previsto
dalla statuto Impromed e che allo stesso spetti di esaminare la richiesta cautelare di sospensione della delibera
avversata.
Neppure si verte, d’altro canto, nell’ipotesi presa in
considerazione da parte della giurisprudenza di merito,
che ammette il ricorso alla tutela cautelare d’urgenza
(in caso d’impugnativa di delibera assembleare di competenza arbitrale) fintanto che il collegio arbitrale non
sia ancora costituito e non sia ancora in grado di operare (così Tribunale Napoli, ord. 6.2.2012, in Le Società
5/2102).
Ed infatti è pacifico che nella circostanza il reclamante
abbia inteso adire direttamente l’intestato Tribunale cui
rimettere la causa di merito.
Tra l’altro questi risulta aver prospettato ragioni di natura prettamente patrimoniale (il ripristino dello status
di socio, onde non vedere pregiudicate le prospettive di
guadagno future per la partecipazione del consorzio ad
appalti pubblici; in subordine, il controvalore delle azioni di cui aveva titolarità la fallita in bonis, prima della
sua esclusione), che mal si conciliano con il concetto
d’irreparabilità del pregiudizio, a cui presidio si colloca
normalmente la misura cautelare. Laddove tali ragioni
non sono per nulla destinate ex se a prevalere, nel necessario contemperamento d’interessi richiesto dall’art.
2378 c.c., con l’interesse della società a mantenere la
stabilità delle sue decisioni.
Premesso che le argomentazioni che precedono paiono
assorbire ogni altra questione, il reclamo va quindi rigettato.
(omissis).
IL COMMENTO
di Elena Zucconi Galli Fonseca (*)
Con la sentenza annotata, il Tribunale di Napoli affronta tre questioni “classiche” dell’arbitrato
endosocietario: a) se la clausola compromissoria contenuta nello statuto di un consorzio sia opponibile al curatore del fallimento del socio; b) se l’impugnazione di una delibera assembleare di
esclusione del socio (proprio per via del fallimento) sia arbitrabile; c) se il Tribunale possa pronunciare sulla sospensione dell’efficacia della deliberazione, quando la lite sia stata devoluta ad
arbitri. La soluzione dei giudici è nel senso di riconoscere la competenza degli arbitri e di negare
la propria potestà cautelare. L’annotatrice condivide l’esito, sulla base, tuttavia, di argomenti diversi da quelli addotti dalla decisione.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
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Il caso
La clausola compromissoria contenuta
nello statuto della società è opponibile al
curatore del fallimento del socio?
Il Tribunale di Napoli viene chiamato a giudicare sull’ammissibilità della tutela cautelare, in un
caso di impugnazione di una delibera assembleare
di una società il cui statuto contiene una clausola
compromissoria.
L’assemblea di un consorzio costituito in forma
societaria dispone l’esclusione di un socio per via
dell’intervenuto fallimento, assegnando le relative
quote ai soci residui.
Il curatore conviene il consorzio davanti al tribunale, per sentir dichiarare la nullità e l’inefficacia della delibera, facendo altresì istanza di sospensiva cautelare ex art. 2378 c.c.
La società convenuta oppone l’operatività della
clausola compromissoria statutaria (di tenore conforme al D.Lgs. n. 5 del 2003) ed il giudice della
cautela gli dà ragione, ritenendo inammissibile la
richiesta di inibitoria; la vertenza sfocia in un reclamo cautelare, oggetto appunto della presente
nota.
Il percorso interpretativo seguito dai giudici del
reclamo è il seguente:
a) l’azione di impugnativa non è propria della
massa, dunque di titolarità originaria del curatore,
bensì derivata, per effetto della successione nel diritto ad impugnare che sarebbe spettato al fallito;
perciò, la clausola compromissoria contenuta nello
statuto è opponibile al fallimento, come confermato, a contrario, dall’art. 83 bis l.fall.;
b) né vi sono problemi di incompromettibilità,
perché l’impugnativa della delibera di esclusione, promossa per invalidità della convocazione di assemblea e per violazione dell’art. 72 l.fall. -, rientra
nel novero delle materie arbitrabili, attenendo ad
ipotesi di annullamento (e non già di nullità) delle
deliberazioni;
c) compete dunque all’arbitro e non al giudice
pronunciarsi sulla sospensione dell’efficacia della
deliberazione assembleare nelle more dell’impugnazione, non sussistendo gli estremi, nella specie, per
una tutela d’urgenza ex art. 700 c.p.c.
La richiesta cautelare è, dunque, inammissibile.
Ciascuno dei tre passaggi verrà esaminato nei
paragrafi a seguire.
Il collegio si chiede se l’azione sia propria della
massa (la definisce come “derivata dall’apertura
della procedura concorsuale o comunque strettamente ed autonomamente collegata alle aspettative dei creditori”), oppure se il curatore agisca per
una situazione giuridica di titolarità del fallito, già
esistente all’atto del fallimento.
La questione è evidentemente dirimente: accedendo alla prima ipotesi, non si porrebbe alcun
problema limiti soggettivi del patto arbitrale nei riguardi del curatore, bensì, a monte, l’oggetto della
lite sarebbe esterno ai confini oggettivi della convenzione compromissoria (1).
Il Tribunale propende per la natura derivata dell’azione.
Dato che l’impugnativa trae legittimazione da
una posizione giuridica propria dell’imprenditore
poi fallito e tende a ripristinare l’utilità economica
delle quote sociali perse con l’esclusione, il fallimento - affermano i giudici - si trova “nella stessa
posizione della società in bonis, avendo proposto rimedi che traggono origine da rapporti esistenti in
capo alla medesima”: perciò il curatore assume la
veste di “successore”.
Da ciò consegue, sempre secondo la sentenza,
l’applicazione dell’art. 83 bis l.fall., che istituisce
un nesso inscindibile fra efficacia del contratto in
essere al momento del fallimento ed efficacia della
clausola compromissoria ivi contenuta: se è vero
che lo scioglimento dell’uno comporta lo scioglimento dell’altra, occorre ritenere, a contrario, che,
se detto scioglimento non vi sia stato, la clausola
compromissoria vincoli il fallimento.
Condivido il risultato, ma sulla base di un percorso diverso.
Partendo dall’incertezza della distinzione proposta dalla giurisprudenza su azioni originarie ed azioni derivate (2), si potrebbe essere tentati di argomentare partendo dal complesso problema (su cui
farò un breve cenno in chiosa) della posizione del
curatore rispetto al fallito nella gestione dei rapporti patrimoniali facenti capo a quest’ultimo, se
(1) Si v. ad es. Cass. 23 gennaio 2013, n. 1543, in DeJure:
nella specie, la Corte ha escluso il vincolo arbitrale, contenuto
in un contratto di appalto “qualora la posizione fatta valere dal
curatore non sia strettamente rinvenuta nel patrimonio del fallito [...], bensì abbia carattere autonomo, proprio della rappresentanza della massa (avendo il lavoratore chiesto l’escussione
di crediti inerenti a detto rapporto, ma successivamente oggetto di nuovi negozi, conclusi anche con terzi e ritenuti simulati
ovvero revocabili)”.
(2) In tal senso anche Cass., SS.UU., 26 maggio 2015, n.
10800, in DeJure: in realtà, nella specie, la lite era nata per un
pagamento derivante da una già avvenuta scadenza contrat-
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non fosse che, nella specie, la soluzione passa attraverso una via più semplice.
Poiché, infatti, l’atto costitutivo del consorzio
contenente la clausola compromissoria ha natura
contrattuale, è agevole (e così fa il giudice) fare ricorso all’art. 72 l.fall., con riguardo ai contratti
non ancora totalmente o parzialmente eseguiti.
Il socio, prima del fallimento, era vincolato al
contratto di consorzio.
Si tratta dunque di vedere se il rapporto consortile fosse in atto al momento del fallimento e, in
caso positivo, se il curatore vi sia subentrato.
La prima circostanza sembra acclarata.
Quanto alla seconda, dato che non si tratta di
contratto a scioglimento o a prosecuzione automatica, spetta al curatore la scelta se subentrarvi o
meno, entro un periodo definito nel quale l’esecuzione del contratto si sospende.
Nella specie, poiché l’impugnazione è finalizzata
a sostenere l’illiceità dell’esclusione dal consorzio,
è evidente che il curatore intende far valere l’operatività del contratto, mostrando così di volervi subentrare (3).
Quale sia, poi, l’effetto giuridico della scelta del
curatore, lo dice lo stesso art. 72, cit.: il “subentro”
non può non comportare l’acquisizione derivativa
della posizione sostanziale e processuale del fallito,
similmente a quanto accade nel fenomeno successorio.
Perciò, secondo la regola generale in base alla
quale, quando si succede nel contratto, si succede
anche nel patto compromissorio ivi contenuto, il
curatore deve instaurare una procedura arbitrale
per sentir accogliere la domanda di nullità (4).
Si noti che la soluzione prescinde sia dalla questione della natura derivata o meno dell’azione del
curatore, sia soprattutto dal richiamo all’art. 83 bis
l.fall.
A mio fermo parere - e nonostante l’avviso contrario della giurisprudenza (5) -, il fatto che, una
volta che il curatore abbia scelto di sciogliersi dal
contratto contenente la clausola compromissoria,
l’arbitrato in corso sia da ritenersi improseguibile
non importa necessariamente che la clausola compromissoria si estingua insieme all’estinzione del
contratto, né, a contrario, che essa sia opponibile al
curatore quando questi opti per il subentro nel
contratto.
L’improseguibilità del processo, infatti, non implica il venir meno della convenzione arbitrale: po-
tuale (così afferma la Corte), sicché è da dubitare che si trattasse di una successione in un contratto ancora da eseguire.
Se il contratto fosse stato già estinto, all’atto della domanda,
non si sarebbe potuto parlare di subentro del curatore, sia nel
contratto sia nella clausola arbitrale. La Cassazione in proposito si limita ad una laconica affermazione: “È appena il caso di
aggiungere che non rileva che, nello specifico, il contratto fosse scaduto e non rinnovato al momento della proposizione del
ricorso per ingiunzione, dal momento che l’applicabilità della
clausola arbitrale risponde all’esigenza di regolare le situazioni
già insorte da quel contratto secondo la procedura ivi stabilita.” Diverso è invece stato il caso di Cass., SS.UU., 21 luglio
2015, n. 15200, in DeJure, perché si trattava di un credito del
contraente nei riguardi del fallito, necessariamente avocato alla procedura fallimentare.
(3) Fra l’altro, è da tener conto del fatto che, secondo la
giurisprudenza, la delibera di esclusione non importa automatico scioglimento del contratto, bensì pone in atto una procedura prodromica ad esso e diretta a “regolare i rapporti fra
consorzio e società esclusa” (Cass. 17 aprile 2003, n. 6165, in
DeJure). A maggior ragione, dunque, il curatore subentra in
un contratto in corso.
(4) Diverso è il caso risolto da Cass. 17 aprile 2003, n.
6165, in DeJure: i giudici hanno ritenuto che la clausola compromissoria contenuta nello statuto del consorzio fosse opponibile al curatore che lamentava un credito della società fallita
(società poi esclusa dal consorzio per via del fallimento) nei
confronti del consorzio, per lavori eseguiti, argomentando sul
fatto che “la causa petendi del credito da essa fatto valere risiedesse esclusivamente nel rapporto sociale tra il Consorzio e
l’impresa (poi fallita ed esclusa), in relazione a prestazioni, attinenti all’oggetto sociale, da quest’ultima effettuate”. A mio avviso, l’ipotesi considerata doveva essere affrontata sotto una
(parzialmente) diversa prospettiva, imperniata sulla vigenza del
contratto al momento del fallimento: dando per ammessa quest’ultima, o il curatore era subentrato nel consorzio ed allora il
patto compromissorio era operativo, oppure il curatore aveva
scelto di sciogliersi ed allora il patto compromissorio non era a
lui opponibile. Le argomentazioni della Corte sono richiamate
anche da Trib. Reggio Emilia 2 dicembre 2005, in Fall., 2006,
816, con nota di Macchia, al fine di ritenere opponibile al curatore la clausola compromissoria contenuta nel contratto di
consorzio, per l’azione di impugnativa della delibera di esclusione, in ordine alla quale il curatore medesimo contestava la
somma liquidata. Il caso è parzialmente diverso da quello esaminato poiché la censura riguardava non tanto la legittimità
dell’esclusione, quanto la liquidazione successiva, ma il tribunale trae comunque dall’iniziativa del curatore la volontà di subentro, con assunto condivisibile; tuttavia, successivamente,
si discosta da questa impostazione, invocando l’argomento
della “inerenza a rapporti preesistenti al fallimento”, che, come
ho già detto, non è convincente. L’annotatore osserva che il
curatore sarebbe soggetto legittimato a disporre del diritto e
non successore a titolo particolare, ma poi aggiunge la sua
qualità di sostituto processuale (benché vi sia fortemente da
dubitare che la legittimazione a disporre dia luogo ad una ipotesi di legittimazione straordinaria: v. infatti Cataldo, I giudizi
pendenti alla data di chiusura del fallimento, in Fall., 2005,
1253, in nota a Cass. 28 settembre 2004, n. 19394, che parla
di vera e propria “espropriazione” o “estraniazione” del patrimonio a favore della massa) e conclude comunque per l’opponibilità del patto compromissorio. A mio avviso, invece, in
mancanza di vigenza del contratto di consorzio, (v. supra nel
testo) eventuali crediti o debiti scaturenti dal medesimo possono essere chiesti dal curatore in via giudiziale, perché la clausola compromissoria non si estende ad un terzo che non sia
succeduto nel contratto (a meno che, ovviamente, il curatore
non voglia avvalersi della convenzione arbitrale, nel qual caso
dovrà avere il consenso dell’altro contraente). Né può parlarsi
in questo caso di successione nel credito, sempre in virtù dell’autonomia del fallimento rispetto al fallito.
(5) V. ad es. Cass. 26 maggio 2015 n. 10800, in DeJure.
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trebbe darsi più semplicemente che gli arbitri non
possano più decidere nel merito in quanto il fallito
ha perso la propria legitimatio ad processum, attesa
la riconducibilità della controversia ai rapporti assoggettati a fallimento ex art. 42 l.fall.; d’altro canto, la convenzione arbitrale non è opponibile al
curatore, avendo quest’ultimo scelto di rimanere
estraneo al contratto (6).
Quando poi, come nella specie, non è pendente
un processo arbitrale, l’art. 83 bis cit., non si applica per espressa sua previsione ed occorre, dunque,
fare ricorso alle regole generali sull’efficacia soggettiva del patto compromissorio, che si estende, appunto, al successore.
Non vale richiamare, in contrario, il principio di
autonomia della clausola compromissoria rispetto
al contratto a cui accede (come fa invece il giudice, pur disapplicandolo, sempre in virtù dell’art. 83
bis l.fall.): detto principio significa semplicemente
che la clausola compromissoria, nonostante il nome, è un vero e proprio contratto, come tale distinto ed autonomamente valutabile rispetto al
contratto principale; ma non significa che, passato
di mano quest’ultimo, vada per ciò solo escluso il
trasferimento contestuale del patto arbitrale.
Del resto, nessuno dubita che il diritto di azione
sia autonomo rispetto al diritto sostanziale tutelato:
eppure, trasferito quest’ultimo, si trasferisce anche
il primo (almeno in via di regola). Poiché il patto
compromissorio dà luogo a quello che ho definito
altrove il diritto di “azione arbitrale” (7), anch’esso
passerà nelle mani del nuovo titolare del diritto sostanziale tutelato.
La soluzione individuata trova indiretta conferma nella disciplina dell’arbitrato societario, ex art.
34, D.Lgs. n. 5 del 2003, ove si legge che la clausola statutaria ha efficacia nei confronti di tutti i soci.
Il termine “soci” va inteso in senso ampio: oltre
ai soci futuri, che abbiano acquisito nuove quote o
che siano divenuti tali per successione, vi possono
rientrare anche altri soggetti, che esercitino i diritti spettanti ai soci, ad esempio gli usufruttuari; parimenti vi rientra il curatore, subentrato nel contratto sociale per effetto dell’art. 73 l.fall.
Ciò detto, mi sia consentita una chiosa.
Le osservazioni appena esposte partono, infatti,
da una convinzione presupposta: secondo l’impostazione che preferisco (e di cui non posso dare
esaustivo conto, data la brevità di queste note), il
curatore è titolare una posizione autonoma (8) rispetto al fallito, in quanto amministra la massa
nell’interesse dei creditori (e non del fallito medesimo) (9): non può essere definito, dunque, né rap-
(6) Su cui mi permetto di rinviare, per considerazioni più
ampie, al mio scritto Ancora su arbitrato e fallimento, in Riv.
arb., 2014, 3 ss.
(7) Ho affrontato la questione in La convenzione arbitrale rituale rispetto ai terzi, Milano, 2004, 58 ss.
(8) Lo status del curatore rispetto al fallito ed alla massa è
uno dei nodi più difficili da sciogliere, per via un dettato normativo assai incerto e di interpretazioni non sempre coerenti,
specie nell’applicazione ai casi concreti. È difficile incasellare
l’ipotesi nella categorie familiari al giurista, perché il curatore è
come la chimera dalla coda di drago e dalla testa di leone: per
un verso svolge attività funzionali ad un risultato autonomo, rispetto agli interessi del fallito, in quanto è tenuto ad amministrare la massa nell’interesse dei creditori (Cfr. Satta, Istituzioni
di dir. fall., Roma, 1952, 104 ss., osserva che il curatore non si
sostituisce né ai creditori né al debitore, compie atti autonomi
di amministrazione della massa, al fine precipuo di tutelare i
creditori: ha dunque un potere originario – a p. 142 accenna
ad una perdita di legittimazione processuale in capo al fallito
–). Per altro verso, però, nello svolgimento di questa funzione,
si trova ad amministrare beni e rapporti giuridici giocoforza di
titolarità del fallito, per cui la commistione è inevitabile, sia sotto il profilo dei diritti sostanziali, sia sotto quello delle azioni.
D’altro canto, il fallito perde la disponibilità dei suoi beni (art.
42 l.fall.; benché non la titolarità), ma, come l’araba fenice,
può risorgere dalle sue ceneri riappropriandosi del suo stato di
imprenditore in bonis, persistendo dunque un interesse, anche
durante il fallimento, nel far valere posizioni da spendere nel
potenziale futuro(Cass. 28 maggio 2003, n. 8545, in DeJure); per non parlare dei casi in cui il curatore si disinteressa di
azioni che pure rientrerebbero nell’interesse della massa (in
giurisprudenza si parla di legittimazione suppletiva del fallito:
Cass. 11 ottobre 2012, n. 17367, in Fall., 2013, 948 ss., con
nota adesiva di Bellomi - C. Ferri). L’aporia è evidente specie
se si ritenga che il fallito perda la legittimazione processuale
(in chiave sostanziale di spossessamento del rapporto processuale, Jorio, Le crisi d’impresa. Il fallimento, in G. Iudica - P.
Zatti (a cura di), Tratt. dir. priv., Milano, 2000, 354) da parte del
fallito (Montanari, La sopravvenienza del fallimento in corso di
causa tra riforma e recenti evoluzioni giurisprudenziali, in Fall.,
2008, 308 ss., spec. 312 ss.: l’a. aveva sostenuto in altra sede
- Id., Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 83
ss. - la tesi della inidoneità della sentenza di fallimento a privare il fallito della capacità di stare nel processo; Turroni, Liquidazione coatta amministrativa invalida, fallimento invalido e processi pendenti, in Riv. dir. proc., 2008, 1552, secondo cui l’interruzione del processo non importerebbe la perdita della legittimazione processuale). La dottrina è cospicua: fra gli altri e
senza pretesa di esaustività, Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Torino 1994, 166; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 307; Giorgetti, La capacità
processuale del fallito nei giudizi litisconsortili con il fallimento, in
Fall., 2003, 1085, in nota a Cass. 5 marzo 2003, n. 3245; sul
punto anche Garra, in Il nuovo fallimento, a cura di Santangeli,
Milano, 2006, 217 ss.; Apice, Arbitrato e procedure concorsuali,
in Dir. fall., 2013, 263 ss.; Mandrioli, La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959, 120 ss.; dubbioso sulla possibilità di
portare avanti il processo, De Santis, Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito
alla luce delle riforme della legge concorsuale, in Studi sull’arbitrato, 357; parla di particolare configurazione della legittimazione processuale del fallito Cataldo, Orientamenti giurisprudenziali in materia di rapporti processuali ed interruzione dei giudizi
nella riforma della legge fallimentare, in Fall., 2007, 1431, in nota a Trib. Salerno 7 maggio 2007.
(9) Cass. 22 giugno 2005 del 13442, in DeJure (richiamata,
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presentante legale, né successore (10), né sostituto
processuale (11).
Solo quando la legge lo preveda, il curatore assume la titolarità, in via derivativa, delle posizioni
attive e passive spettanti al fallito: è appunto il caso dei contratti non ancora eseguiti ai sensi degli
artt. 72 ss. l.fall.
Al di fuori di queste ipotesi, il curatore non è
successore, pur esercitando un’azione “collegata, in
maniera dipendente, con l’accertamento di un rapporto preesistente in capo al fallito” (12). Il collegamento da dipendenza, infatti, non è di per sé decisivo per l’inquadramento del fenomeno in chiave
di successione, dato che si concilia anche con la
coesistenza temporale di rapporti giuridici differenti (13).
L’impugnativa della deliberazione di
esclusione è arbitrabile?
ma a titolo diverso, anche dalla sentenza annotata): nella specie, si trattava di una impugnazione del curatore di un lodo
emesso precedentemente al fallimento, che la Cassazione
qualifica come opposizione di terzo, in quanto il curatore aveva impugnato per nullità del compromesso, a differenza della
società fallita, che aveva resistito ad un’analoga impugnazione
da parte di un creditore. Correttamente, dunque, i giudici hanno ritenuto che il curatore non fosse succeduto in alcuna posizione, ma che anzi fosse dimostrata, ancora una volta, l’autonomia della sua posizione. I giudici affermano che “Nella giurisprudenza di questa Corte è pacifico che la posizione del curatore varia appunto in funzione dell’interesse che egli fa valere,
correlato, di volta in volta, alle ragioni del fallito, dei creditori e
della massa fallimentare”; sicché, può decidere si sostituirsi
“alle ragioni del fallito, così da venirsi a trovare nella stessa posizione processuale di quest’ultimo”; ovvero “assumere la veste di rappresentante della massa dei creditori e del fallito,
qualora agisca per la conservazione o l’incremento dell’attivo
fallimentare”; “può, dunque, trovarsi in rapporto di successione con una delle parti, o in una posizione giuridica dipendente
o che, comunque, derivi da quella oggetto di accertamento
nel processo”.
(10) Conf. da ultimo Cass., SS.UU., 20 febbraio 2013, n.
4213 in DeJure.
(11) V. invece in tal senso, Macchia, op. cit., 821.
(12) Secondo le parole dei giudici annotati, che richiamano
Cass. 23 gennaio 2013, n. 1543, in Fall., 2013, 1310: in quella
decisione, però, il curatore aveva fatto valere un credito emergente dalla contabilità - e nato da un contratto di appalto, in
correlazione con altri atti e contratti collegati ad esso - per cui
i giudici argomentano nel senso che l’azione non riguarda solo
il contratto bensì “diversi, successivi e più allargati soggettivamente” (venivano dunque in rilievo i limiti oggettivi, ancor prima che soggettivi della clausola arbitrale): tuttavia, anche se il
rapporto fosse derivato dallo scioglimento del contratto, io ragionerei in termini di efficacia soggettiva della clausola arbitrale, per escludere il vincolo del curatore: poiché egli è terzo e
non ha dato alcun consenso all’arbitrato, il rapporto patrimoniale derivante dallo scioglimento non può essere devoluto ad
arbitri, ove il curatore decida di agire.
(13) Una soluzione tranchante, in grado di risolvere tutte
queste aporie, è quella, ipotizzata da dottrina autorevole, sulla
netta separazione curatore e fallito: corollario di questa tesi è
che l’oggetto dell’azione del curatore non è mai il rapporto sostanziale di titolarità del fallito, che ne rappresenta tutt’al più
una questione pregiudiziale. Secondo questa tesi, oggetto del
procedimento fallimentare di ammissione al passivo è il diritto
al concorso (Ricci, Lezioni di dir. fall., Milano, 1997, 322 ss.): il
fallito non perderebbe dunque la capacità di agire, mentre la
soluzione data dal giudice potrebbe essere valutata incidentalmente in sede di fallimento; cfr. Montanari, Fallimento e giudizi
pendenti sui crediti, cit., 83 ss.
(14) Fa riferimento, infatti, a Cass. 27 giugno 2013, n.
16265, in DeJure, che esclude dal raggio della compromettibilità le nullità ex art. 2479 ter c.c. I giudici annotati premettono
che un problema di arbitrabilità emergerebbe in effetti dall’art.
36, D.Lgs. n. 5 del 2003, ma a me non sembra: semplicemente la norma si limita a garantire l’impugnazione per violazione
di legge, sia nelle impugnative, sia quando gli arbitri abbiano
conosciuto incidentalmente di questioni non compromettibili. I
giudici richiamano altresì Cass. 3 gennaio 2013, n. 28, in DeJure, che, in realtà, riguardava l’impugnabilità secondo diritto
di un lodo che si era pronunciato sulla validità di una delibera
(consiliare), giustamente ammessa dalla Cassazione, in quanto
contemplata dall’art. 36 (impugnativa come oggetto di processo arbitrale), non investendo dunque il tema della non compromettibilità (affrontato per incidens).
(15) Sono parole della sentenza che richiama Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino, 2013, 71 ss. (in realtà l’a.
effettua considerazioni più complesse, imperniate su una evoluzione del concetto di arbitrabilità, centrato, più che sull’indisponibilità, sul divieto di arbitrato in certe materie). Favorevoli
alla distinzione fra nullità ed annullabilità, Andrioli, Comm. al
c.p.c., IV, Napoli, 1964, 763; cfr. poi, post-riforma Carpi, Profili
dell’arbitrato in materia di società, in Riv. arb., 2003, 419; Chiarloni, Appunti sulle controversie deducibili in arbitrato societario e
sulla natura del lodo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 129 ss.;
Jaeger, Appunti sull’arbitrato e le società commerciali, in Giur.
comm., I, 1990, 219 ss. La dottrina ha espresso le tesi più disparate e non è possibile qui riportarle approfonditamente; rinvio alle citazioni di Salvaneschi, Arbitrato, Bologna, 2014, 17
ss. favorevole alla piena compromettibilità, fin dove non c’è
azione o intervento del P.M.; v. anche Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, Padova, 2012, 447; Boggio, Deliberazioni assembleari e “diritti disponibili relativi al rapporto sociale, Milano,
2012, 23 ss., che pone al centro della disponibilità la “funzione
del diritto e la compatibilità della concreta modalità di disposizione di detto diritto con quella funzione” (147); Cerrato, La
clausola compromissoria nelle società, Profili sostanziali, Torino,
2012, 162 ss. collega l’indisponibilità ai poteri officiosi del giudice; nonché, se si vuole, il mio La compromettibilità delle impugnative di delibere assembleari dopo la riforma”, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 2005, 453 ss.
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La seconda questione riguarda l’arbitrabilità dell’impugnazione di merito, risolta positivamente dal
Tribunale.
Ancora una volta, se la soluzione è condivisibile,
non altrettanto vale per i motivi addotti.
La sentenza sembra aderire (14) (pur non esplicitando pienamente i termini di detta adesione) ad
una nota posizione interpretativa, secondo la quale
solo le impugnative per annullamento sarebbero
arbitrabili, mentre quelle di nullità atterrebbero a
diritti non compromettibili, in quanto caratterizzati da “irrinunciabilità, intrasmissibilità ed imprescrittibilità” (15).
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Data la premessa, i giudici si trovano costretti a
prendere in esame, uno per uno, i motivi di censura mossi dal fallimento, per verificare se rientrino
nell’una o nell’altra sottospecie di invalidità.
Quanto al primo motivo, fondato sulla “mancata
convocazione dell’assemblea” ex art. 2379 c.c., il
Tribunale si spinge addirittura a compiere un preaccertamento di merito dei fatti allegati, per poter
riqualificare in termini di annullabilità una censura
che, nella prospettazione attorea, sembrava rivestire piuttosto i caratteri della nullità (per quanto è
dato conoscere, non essendo stato possibile leggere
il ricorso dell’attore) (16).
Quanto alla seconda censura, fondata sull’inopponibilità al curatore della clausola statutaria di
esclusione per fallimento, ex art. 72 l.fall. (a termini del quale “sono inefficaci le clausole negoziali
che fanno dipendere la risoluzione del contratto
dal fallimento” (17)), i giudici osservano che la
norma “risulta esser posta indubbiamente a tutela
di diritti di natura ed a funzione patrimoniale,
giacché la relativa violazione può implicare (come
del resto dedotto in specie) aspettative di reintegro
nella posizione contrattuale indebitamente risolta
ovvero di tipo risarcitorio.”
Tuttavia, l’assunto prova troppo: il fatto che il
diritto tutelato sia di natura patrimoniale non è di
per sé indice di arbitrabilità, perché la legge italiana ha scelto di non adottare il criterio della patrimonialità, a differenza, per esempio, dell’art. 1030
ZPO tedesca (18).
Non è neppure decisivo il fatto che la lesione
del diritto dia luogo a conseguenze risarcitorie, se
si considera che anche un diritto della personalità
è riparabile, spesso, soltanto attraverso il risarcimento per equivalente.
Quel che qui preme sottolineare è che il criterio
di compromettibilità fondato sulla distinzione fra
nullità ed annullabilità della delibera, oltre a non
avere, a mio sommesso avviso, un fondamento positivo, crea più incertezza che certezza, perché, per un
verso, comporta che una stessa delibera possa essere
ritenuta compromettibile o non, a seconda del motivo di censura; per altro verso costringe il giudice ad
esegesi che rischiano di andare persino oltre un coraggioso uso del principio iura novit curia ed accentuano il rischio di confondere la (in)disponibilità
del diritto con la (in)derogabilità della norma (19).
La soluzione che preferisco evita tutte queste
strettoie (20). A mio parere, l’impugnativa delle
delibere assembleari è, infatti, sempre compromettibile, sia quando si tratti delle ipotesi di annullabilità dell’art. 2377 c.c., sia quando si invochi la nullità di cui all’art. 2379 c.c. e finanche quando la
nullità sia del tipo più grave (modifica illecita dell’oggetto sociale).
Nei primi due casi, infatti, l’azione (21) è soggetta
a termine, la rilevabilità d’ufficio è limitata temporalmente, il vizio è in alcuni casi sanabile, l’assemblea può eliminare gli effetti della nullità (salvi i diritti quesiti dei terzi) ed inibire la declaratoria del vizio, con una nuova deliberazione conforme alla legge
(senza contare i poteri “conciliativi” del giudice).
Anche nel terzo caso, però, non può escludersi
l’arbitrabilità, per gli stessi motivi per i quali può ritenersi compromettibile la nullità di un contratto.
Ciò che il legislatore vuole evitare, infatti, nel
dettare il rigoroso sistema degli artt. 1421 ss., è che
il contratto nullo ponga le basi per ulteriori effetti
giuridici: poiché la funzione dell’arbitrato è quella
di accertare la nullità, tale rischio non può avverarsi, come accade invece per il negozio transattivo (22).
(16) I giudici, cioè, ritengono che i fatti denunciati non rivestano gli estremi della “mancata convocazione di assemblea”,
bensì riguardino irregolarità che non incidono sul motivo ex
art. 2379, comma 3, c.c. Ora, il principio iura novit curia, se applicato nel suo senso proprio, dovrebbe poter consentire al
giudice di inquadrare i fatti allegati dalle parti nella nullità anziché nell’annullamento; ma a me pare che i giudici vadano oltre, in questo caso, perché fondano la propria qualificazione
giuridica non sui fatti allegati, bensì su una prognosi di accertamento di quei fatti. L’attore aveva infatti richiesto la nullità
per “mancato rispetto in specie delle regole di convocazione
dell’assemblea e, in particolare, l’omessa preventiva informazione dei soci sugli argomenti all’ordine del giorno”.
(17) Parrebbe infatti questa la norma censurata, benché
non sia esplicitato.
(18) Testualmente vermögensrechtlicher Anspruch.
(19) Non a caso i giudici richiamano una più generale considerazione fatta propria da un orientamento della Cassazione,
secondo cui “l’area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui
violazione determini una reazione dell’ordinamento svincolata
da qualsiasi iniziativa di parte”, quali le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio: v. per
es. Cass. 23 febbraio 2005, n. 3772, in DeJure.
(20) Interessante è, in proposito, Trib. Venezia 17 marzo
2015, n. 5019, in DeJure: i giudici affermano che “il diritto di
impugnare una delibera è disponibile perché il socio ne ha facoltà e non obbligo; può rinunciare agli atti del giudizio; può
transigere la controversia e ciò a prescindere dalla natura delle
norme invocate o del sottostante interesse, generale o individuale” (nella specie si trattava di impugnativa per revoca per
giusta causa da amministratore).
(21) Dò qui per presupposto che l’oggetto del processo
non sia l’effetto-invalidità o addirittura la delibera, bensì il diritto all’impugnativa: la dimostrazione dell’assunto non è possibile nell’economia di queste pagine.
(22) Del resto, il legislatore è sempre più favorevole all’arbitrabilità delle liti del gruppo: si v. per es. il D.M. 16 dicembre
2010.
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Con ciò, non nego che i diritti endosocietari siano ad alto interesse ultraindividuale (23).
Si rientra, infatti, nella sfera che ho definito in
altra sede di “ordine pubblico di protezione” (24) e
che non impedisce la compromettibilità dei diritti,
ma impone una tecnica processuale atta alla tutela
della superindividualità: tecnica, appunto, dettata
dal D.Lgs. n. 5 del 2003, nella parte in cui, ad
esempio, permette l’intervento dei terzi o impone
il metro di diritto.
I giudici possono pronunciare sulla
sospensiva dell’efficacia deliberativa,
quando il merito è oggetto di clausola
compromissoria, a domanda d’arbitrato
non ancora proposta?
La terza questione riguarda la competenza cautelare, quando la lite sia devoluta ad arbitri e non sia
ancora stata notificata la domanda di arbitrato.
Nella specie, risulta che il fallimento abbia proposto l’impugnazione direttamente davanti al giudice ed in quella sede, con ricorso autonomo e
contestuale, abbia formulato la domanda cautelare
di cui all’art. 2378 c.c.: la procedura sarebbe dunque regolare, se non fosse per la sussistenza di una
convenzione arbitrale.
Il curatore si è trovato a doversi muovere in un
spazio delimitato da due angusti confini: per un
verso, l’art. 2378 c.c. gli impone di formulare l’istanza inibitoria contestualmente all’istanza di merito, impedendo la sospensiva tipica ante causam;
per altro verso, l’art. 35, comma 5, D.Lgs. n. 5 del
2003 accorda agli arbitri il potere di pronunciare
sulla sospensione degli effetti della delibera.
Per il vero, si tratta di confini incerti.
Con riguardo all’art. 2378 c.c., si discute se la
parte abbia diritto ad una tutela cautelare ante cau(23) Per una specifica analisi delle diverse funzioni dei diritti
relativi al rapporto sociale, Boggio, op. cit., 200 ss.
(24) Tutela arbitrale e tecnica del processo: la clausola compromissoria nei contratti di consumo, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2014, n. 3, 997 ss.
(25) Conf. Biavati, in Arbitrati speciali, a cura di Carpi, Bologna, 2007, 139; Gennari, L’arbitrato societario, in Tratt. di dir.
comm. e di dir. pubbl. dell’econ., dir. da Galgano, 51, Padova,
2009, 175, sia se il processo arbitrale sia già iniziato, ma il tribunale arbitrale non sia ancora costituito, sia quando la stessa
domanda d’arbitrato non sia stata ancora proposta; in giur. fra
gli altri Trib. Milano 28 aprile 2012, in Banca, borsa, tit. cred.,
2013, II, 305 con nota di Ginevra; diff. Trib. Civitavecchia 3
agosto 2007, in DeJure; con specifico riguardo all’arbitrato,
Trib. Catania 14 ottobre 2005, in DeJure.
(26) Su quest’ultimo punto, la soluzione a me pare corretta:
un conto è il potere del giudice di applicare una norma diversa
da quella individuata dalla parte, fermi i fatti costitutivi del dirit-
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sam, facendo ricorso al provvedimento d’urgenza
dell’art. 700 c.p.c.
Io propendo per la soluzione favorevole (25), ma
in questa vertenza i giudici ne escludono l’esperibilità, sia perché non ravvisano la sussistenza di un
pregiudizio irreparabile, sia perché il ricorrente ha
inteso esercitare la tutela cautelare tipica, che non
può essere “convertita” d’ufficio (26). Le considerazioni che seguono, dunque, debbono concentrarsi
esclusivamente sull’inibitoria tipica.
Ancor più incerto è il tenore dell’art. 35, cit.: la
norma, infatti, non regola l’ipotesi in cui l’organo
arbitrale non sia ancora stato costituito e non precisa se la competenza dell’arbitro sia esclusiva o
no.
Per cercare di capire, occorre prospettare le diverse eventualità.
Se la parte propone l’istanza cautelare quando
gli arbitri sono già stati regolarmente investiti a seguito di accettazione dell’incarico, a me sembra
che non vi sia spazio per una potestà cautelare
concorrente in capo all’autorità giudiziaria.
L’art. 35, cit., come si diceva, non è chiarissimo,
ma una ragionevole interpretazione della congiunzione avversativa “ma” conduce verso una competenza esclusiva degli arbitri sull’inibitoria assembleare, che viene posta come eccezione alla regola
secondo la quale la devoluzione in arbitri “non preclude l’istanza cautelare al giudice” (27).
Ciò può valere, beninteso, solo se gli arbitri siano già venuti ad esistenza.
Se la parte, proponendo la domanda d’arbitrato,
abbia l’esigenza di un’inibitoria urgente, incompatibile con i tempi necessari per la completa costituzione del tribunale arbitrale, condivido l’orientamento che ammette il ricorso al giudice (28). Per
un verso, il requisito della contestualità fra merito
e cautela ex art. 2378 c.c. è comunque soddisfatto;
to; un conto è mutare il tipo di tutela cautelare richiesto, tenendo presente che il cautelare atipico è ammissibile proprio
ove non sussista quello tipico (non sono dunque due “facce”
della stessa tutela, bensì due tutele diverse).
(27) In tal senso, con argomenti funzionali, Dalmotto, L’arbitrato nelle società, Bologna, 2013, 276.
(28) In dottrina, fra gli altri, Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, 724; ritiene invece ammissibile
solo la tutela cautelare atipica, Biavati, op. loc. cit. (in tal senso
Trib. Lucca 27 novembre 2008, in Riv. arb., 2008, 397; Trib. Venezia 22 dicembre 2014, in DeJure); in giur. Trib. Milano 18
giugno 2013, in DeJure; Trib. Napoli 6 febbraio 2012, in DeJure; Trib. Milano 17 marzo 2009, in Riv. arb., 2009, 311; Trib.
Verona 12 aprile 2005, in Giur. it., 2006, 1475. Trib. Venezia 18
febbraio 2014, in DeJure, ha curiosamente disposto un’inibitoria “a tempo” con efficacia cioè fino alla costituzione dell’organo arbitrale.
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per altro verso, non può negarsi la tutela cautelare
per un fatto indipendente dalla volontà della parte
- a meno che un eventuale regolamento arbitrato
non abbia previsto una speciale procedura per la
costituzione del c.d. arbitro d’urgenza -.
L’art. 35 cit. non collide con questa soluzione,
perché il canone della competenza esclusiva non
può spingersi fino a frustrare la funzione stessa del
potere cautelare.
Cosa succede, però, se la parte che ricorre alla
tutela inibitoria proponga al contempo domanda
giudiziale di merito (29), pur in presenza di una
convenzione compromissoria?
Qui sembrerebbe facile argomentare come fanno
i giudici annotati: la parte avrebbe dovuto proporre
domanda d’arbitrato e conseguentemente rivolgersi
agli arbitri anche per la cautela (salva, come si è
detto, la finestra nello spazio temporale fra la notifica della domanda e la costituzione dell’organo arbitrale).
Una diversa soluzione violerebbe sia il principio
di contestualità, essendo la domanda giudiziale
inammissibile, sia il principio di competenza esclusiva degli arbitri fissato dall’art. 35 cit.
Che nell’ipotesi considerata occorra rivolgersi all’organo arbitrale è soluzione condivisibile, ma il
ragionamento deve passare attraverso l’esame e la
confutazione di alcuni argomenti contrari ed apparentemente persuasivi.
In primo luogo, il requisito di contestualità di
cui all’art. 2378 c.c. (o art. 2287 c.c., quando si
tratti di delibera di esclusione del socio) sembrerebbe essere soddisfatto (30) dalla proposizione formale della domanda di merito, seppur davanti a
giudice incompetente.
In secondo luogo, l’art. 35 cit., nello stabilire la
competenza esclusiva degli arbitri, potrebbe essere
stato dettato al solo fine di impedire un contrasto
“materiale” fra tutele, limitandosi perciò a regolare
il caso, già menzionato, in cui i medesimi arbitri
siano già venuti ad esistenza.
Portando l’argomento ad estreme conseguenze,
la norma di riferimento nell’ipotesi considerata sarebbe allora l’art. 669 quinquies, che stabilisce la
competenza cautelare del giudice che sarebbe competente per il merito, sia in caso di processo arbitrale non ancora iniziato, sia a processo già pendente: pertanto, il giudice adito per la cautela non
potrebbe dichiararsi incompetente sulla medesima,
quando sia stato correttamente individuato secondo i criteri di competenza sul merito.
Gli argomenti sono suggestivi, ma non del tutto
convincenti.
L’art. 35, cit., a ben vedere, non condiziona la
competenza cautelare degli arbitri alla pendenza
del processo, bensì all’esistenza di una convenzione
compromissoria (31).
Sembra cioè che il legislatore abbia voluto dire
che, una volta scelta la via arbitrale, la parte deve
perseguirla fino in fondo senza potersi volontariamente sottrarre ad essa, anche ai soli fini della cautela.
Se così è, il giudice investito della cautela deve
dichiararla inammissibile, per difetto di potestas iudicandi.
Ma vi è di più.
Anche nel caso in cui non si fosse d’accordo con
la lettura appena proposta dell’art. 35, cit. e si ritenesse applicabile l’art. 669 quinquies cit., riconoscendo dunque al giudice una potestà cautelare, rimarrebbe pur sempre l’ostacolo rappresentato dalla
necessaria sussistenza del fumus boni iuris, perché la
domanda di merito non avrebbe ragionevoli possibilità di essere accolta a causa della sussistenza del
patto arbitrale (32).
È vero che, nel caso in cui la tutela cautelare in
corso di causa venga chiesta ad un giudice incompetente sul merito, si è giustamente ritenuto che
questi non potrebbe rigettare la cautela per il solo
motivo della propria incompetenza (intesa, questa
volta, come riparto interno alla giurisdizione statuale) sul merito, poiché l’esigenza d’urgenza do-
(29) Trib. Salerno 11 aprile 2008, in DeJure, proprio in un
caso di delibera assembleare, ha escluso che la sospensiva
potesse essere esaminata: la parte sosteneva che il ricorso
cautelare integrasse anche la proposizione della domanda di
merito, ma l’argomento, per la verità, era ardito, dato che dal
tenore del ricorso emergeva in modo letterale che la causa di
merito sarebbe stata instaurata posteriormente.
(30) Nel caso risolto da Trib. Napoli 8 aprile 2013, in DeJure
“la cautela concessa inaudita altera parte deve essere revocata
per non essere la relativa richiesta stata preceduta dalla preventiva instaurazione del giudizio di merito davanti agli arbitri”:
ma in quel caso la parte aveva proposto soltanto la domanda
cautelare ex art. 700 c.p.c. ed il giudice non ne aveva valutato
la fondatezza, bensì l’aveva respinta sul presupposto che non
era ancora stata notificata la domanda di merito; in realtà, il ricorso alla tutela atipica va garantito, almeno secondo la tesi
che ritengo preferibile, proprio quando la tutela tipica non è
data, cioè quando ancora non sia stato instaurato il merito. Ad
ogni modo, qui la questione è un’altra perché la parte ha chiesto la tutela tipica, instaurando la domanda di merito seppur
davanti al giudice e non all’arbitro.
(31) Testualmente: “Se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto
la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre
il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della delibera”.
(32) Così sembrerebbe, infatti, aver ragionato il giudice di
primo grado cautelare, nel caso annotato.
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Giurisprudenza
Processo, arbitrato e mediazione
vrebbe prevalere (33). Tuttavia, l’ipotesi considerata è assai differente.
Secondo l’impostazione che ritengo preferibile,
infatti, il rapporto fra arbitro e giudice non ha nulla a che vedere con il riparto interno alla giurisdizione statuale e il compromesso non dà luogo ad
una diversa modalità di esercizio dell’azione giudiziale, bensì ad un’azione diversa, che si pone in relazione di concorrenza sostanziale con la prima, essendo entrambe dirette al perseguimento dello stes-
so bene, cioè l’accertamento del diritto controverso.
In questo modo, si ritorna al requisito di contestualità: se l’art. 2378 c.c. richiede l’esercizio dell’azione di merito, per poter dare ingresso alla cautela, la proposizione della domanda giudiziale non è
sufficiente all’uopo, dovendosi pur sempre procedere con la notifica la domanda d’arbitrato (34), salvo poi rivolgersi al giudice nelle more della costituzione del tribunale arbitrale, per i motivi già esposti.
(33) Verde, Appunti sul procedimento cautelare, in Foro it.,
1992, V, 435. Secondo Cass. 9 aprile 1999 n. 3473, in Foro it.,
1999, I, 3570, il giudice della lite pendente è competente anche per il cautelare, benché sia incompetente per la lite nel
merito, in quanto, per la competenza cautelare, basta la pendenza della lite.
(34) Né può invocarsi, in contrario, il recente orientamento
della Corte costituzionale (Corte cost. 19 luglio 2013, n. 223,
pubblicata, fra l’altro, in Riv. arb., 2014, 81, con nota di Bove Briguglio - Menchini - Sassani), che ha ammesso la translatio
iudicii fra giudice ed arbitro: la Consulta ha infatti motivato sulla fungibilità fra giudizio arbitrale e giudizio statuale, fungibilità
pienamente compatibile con la già vista relazione di concorrenza sostanziale fra l’azione giudiziale e quella arbitrale.
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Itinerari della giurisprudenza
Il recesso del socio nelle società
per azioni e nelle società a
responsabilità limitata
a cura di Ubalda Macrì
Un itinerario della giurisprudenza dell’ultimo decennio in tema di recesso del socio nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata: profili sostanziali e processuali.
Premessa
È interessante la breve ricostruzione storica del recesso nelle società di capitali tratteggiata da Renato Rordorf in uno scritto apparso sulle Società nel 2003 all’indomani della
riforma (Rordorf, Il recesso del socio di società di capitali; prime osservazioni dopo la riforma, in questa Rivista, 2003, 7, 923 ss.), perché lumeggia tutte le criticità di un istituto
che è un raro esempio di equilibrismo tra tutela del socio di minoranza contro (gli abusi
della) maggioranza e tutela della società sotto il profilo di tutela del suo patrimonio ai fini
della prosecuzione dell’attività d’impresa, ai fini della conservazione della garanzia patrimoniale generica a favore dei creditori nonché ai fini del rispetto del principio della postergazione delle ragioni dei soci rispetto a quelle dei creditori. Il codice di commercio
del 1865 si limitava ad un generico cenno alla possibilità di recesso dalle società commerciali stabilendo che esso dovesse risultare da espressa dichiarazione o deliberazione
dei soci (art. 163), il codice di commercio del 1882 (art. 158, comma 3) inquadrava per la
prima volta il recesso nella disciplina delle deliberazioni assembleari consentendone l’esercizio ai soci dissenzienti da decisioni in tema di fusione, reintegrazione o aumento di
capitale, cambiamento di oggetto sociale e proroga della durata della società (se non già
prevista nell’atto costitutivo); siccome poi la successiva legislazione speciale aveva ridotto l’area di operatività del recesso in modo assai confuso, nella Relazione al codice del
1942 si definiva “il regolamento di quest’istituto una selva inestricabile per l’interprete
che si avventuri per i suoi meandri malcerti” e si dava atto di tendenze alla sua totale
soppressione in una logica fortemente istituzionalistica, volta a privilegiare all’estremo
grado l’interesse alla stabilità della società di capitali; ciò nondimeno il legislatore del
1942 non sopprimeva il recesso (pur rimanendo diffidente), riconoscendo che costituiva
ancora un ottimo strumento di tutela per il socio dissenziente, e vi dedicava un articolo
specifico, il 2437, collocato nell’ambito della disciplina delle modificazioni dell’atto costitutivo delle società per azioni (un’altra ipotesi speciale era prevista nell’ultimo comma
dell’art. 2343 c.c. per il caso di revisione in pejus, dopo 6 mesi, della stima dei conferimenti in natura), mentre per le società a responsabilità limitata l’art. 2494 c.c. rinviava alla disciplina della società per azioni.
La legittimazione a
rendere la dichiarazione
di recesso
Due casi interessanti vanno segnalati entrambi sotto il vecchio regime (ma la soluzione
data è valida anche dopo la riforma). Il primo è Cass. 8 novembre 2005, n. 21641, in
Banca, borsa, tit. cred., 1, 2007, con nota di A. Tucci, relativo ad una vendita di azioni
a termine, secondo cui nel caso di vendita a termine di titoli azionari, il diritto di recesso
contemplato dall’art. 2437 c.c. (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. 17
gennaio 2003, n. 6, applicabile nella specie “ratione temporis”) - a differenza del diritto di
opzione e degli altri diritti presi in considerazione dagli artt. 1531 ss. c.c. - non passa immediatamente in capo al compratore, ma resta di spettanza del venditore fino al momento in cui, col maturare del termine, questi non abbia perso la titolarità delle azioni.
Secondo la Cassazione, infatti, l’art. 2437 c.c., nel testo ante riforma, va letto nel senso
che la legittimazione al recesso presuppone la qualità di socio al tempo della deliberazione ed al momento della dichiarazione di recesso nonché la mancata manifestazione di
consenso alla delibera assembleare. Infatti, il recesso, quale diritto sociale, presuppone
la qualità di socio già al momento in cui si realizza il mutamento del contratto sociale, ad
opera della maggioranza, da cui il sorgere stesso del diritto dipende. L’esigenza di tutela
del dissenso non si pone in termini analoghi per l’acquirente delle azioni in data succes-
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Itinerari della giurisprudenza
siva perché questi ha acquistato la partecipazione in una società già ormai interessata
da tale mutamento, onde non può dolersi dello status quo. Il secondo caso è Cass. 12 luglio 2002, n. 10144, secondo cui il creditore pignoratizio delle azioni - ancorché ai sensi
dell’art. 2352 c.c., gli competa, in luogo del socio suo debitore, il diritto di voto (anche)
nelle deliberazioni concernenti il cambiamento dell’oggetto o del tipo della società o il
trasferimento della sede sociale all’estero - non è legittimato ad esercitare il diritto di recesso di cui all’art. 2437 c.c., configurandosi questo come un atto di disposizione in ordine alla partecipazione societaria, di esclusiva spettanza del socio, ed essendo d’altra parte la tutela del creditore pignoratizio affidata, in presenza di una diminuzione del valore
delle azioni conseguente a quei deliberati mutamenti societari, all’istituto della vendita
anticipata “ex” art. 2795 c.c. L’esercizio del potere surrogatorio è escluso per i diritti connessi con una qualità del loro titolare; ne consegue che il diritto di recesso da una società per azioni, essendo strettamente personale al socio, non può essere esercitato in via
surrogatoria, “ex” art. 2900 c.c., dal creditore particolare di lui [mass. uff.].
Alcuni casi problematici
legittimanti il recesso
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Nell'ambito delle ipotesi normative di recesso, si segnalano alcuni casi problematici.
a) La modificazione dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione, art.
2437, comma 1, lett. g), c.c.
Secondo la Corte d’Appello Brescia, Sez. I, 2 luglio 2014, Est. Miglio, in www.giurisprudenzadelleimprese.it e in DeJure, 2014, nel caso di delibera avente ad oggetto la
modifica del quorum costitutivo e deliberativo dell’assemblea ordinaria e straordinaria
(nel senso che, laddove prima era previsto che “sia in prima come in seconda convocazione l’assemblea ordinaria delibera con il voto favorevole di tante azioni che rappresentano la maggioranza del capitale e la straordinaria col voto favorevole di tante azioni che
rappresentino non meno di due terzi del capitale sociale” l’art. 11 del nuovo statuto stabilisce che “in prima e ulteriore convocazione l’assemblea ordinaria e straordinaria è regolarmente costituita e delibera secondo le previsioni di cui agli articoli 2368 e 2369 del
codice civile”), non è legittimo il recesso ai sensi dell’art. 2437, lett. g), c.c. Nelle società
per azioni l’esercizio del diritto di recesso produce infatti un depauperamento del capitale
sociale e costituisce un fatto negativo anche per i creditori sociali, donde la tassatività
delle fattispecie di recesso e la conseguente necessità di interpretazione restrittiva dei
casi previsti dall’art. 2437 c.c. Il diritto di recesso del socio, del resto, costituisce eccezione al principio generale dell’obbligatorietà per tutti i soci delle deliberazioni assembleari
e, pertanto, non è suscettibile di estensione ad ipotesi diverse da quelle espressamente
contemplate. Alla stregua dei su enunciati principi, che esigono una interpretazione restrittiva, il diritto di voto di cui alla lett. g) dell’art. 2437 c.c. non potrà pertanto che fare
riferimento a quello statutariamente attribuito a ciascuna azione, mentre quello alla partecipazione non può che concernere l’aspetto patrimoniale relativo agli utili che ciascuna
azione attribuisce. Di contro, il mutamento del quorum deliberativo, che attiene alla formazione della maggioranza, incide solo indirettamente sul diritto di voto e partecipazione, sicché la delibera, che, come quella in esame, ne ha mutato il quorum, non legittima
il recesso.
Analogamente, secondo il Trib. Roma 29 aprile 2014, in www.giurisprudenzadelleimprese.it, in un caso di delibera di società per azioni di modifica dello statuto sociale con
riferimento al numero dei componenti del consiglio d’amministrazione ed al meccanismo
del voto di lista per l’elezione degli stessi componenti, ha ritenuto non legittimo l’esercizio del diritto di recesso. Sulla base dell’interpretazione restrittiva, legittimerebbero il recesso solo le modifiche che incidono sia sul piano quantitativo che qualitativo sul diritto
di voto di ciascun socio.
b) La sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o la
rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci, a norma dell’art. 2468, comma 4, c.c.
(nella società consortile a responsabilità limitata), art. 2473, comma 1, c.c. Secondo la
Corte d’Appello di Napoli 21 dicembre 2011, inedita, nel caso di modificazione dell’oggetto sociale della società consortile consistita nell’inserimento dopo la parola “promozione” delle parole poste tra parentesi “(ad esempio mercati, fiere, convegni, etc.)”, non
si realizza quel “cambiamento significativo dell’attività della società” cui l’art. 2437, comma 1, lett. a), c.c. riconnette l’insorgere del diritto di recedere dalla società dei soci che
non abbiano concorso all’approvazione della delibera-zione modificatrice della clausola
statutaria dell’oggetto sociale; analogamente la modifica statutaria consistita nell’aggiunta della frase “L’assemblea dovrà essere convocata a deliberare con maggioranza
superiore al 60% del capitale sociale..”, non è stata ritenuta incidente sui “diritti di voto o
di partecipazione” dei soci cui l’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c., perché tale previsione
va intesa in senso restrittivo e tale da non ricomprendere le modificazioni dei quorum deliberativi. Le modificazioni dei quorum deliberativi assembleari invero non concernono,
strictis verbis, né il diritto di voto né il diritto di partecipazione dei singoli soci, non inci-
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dendo direttamente su tali diritti, bensì sulla concreta importanza o, se si preferisce, sul
“peso”, sulla “consistenza” del voto o della partecipazione dei singoli soci. Secondo la
Corte partenopea, all’art. 2473, comma 1, lett. g), c.c. dev’essere data un’interpretazione
restrittiva nel senso che “modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione” cui fa riferimento l’art. 2437, comma 1, lett. g), c.c. siano quelle che "attribuiscono o sottraggono diritti amministrativi o diritti patrimoniali a singoli soci od a particolari categorie di soci ovvero impediscono o limitano l’esercizio dei diritti amministrativi
o patrimoniali già attribuiti a singoli soci od a particolari categorie di soci o l’esercizio da
parte di singoli soci o particolari categorie di soci di diritti amministrativi o patrimoniali
già attribuiti alla generalità dei soci ovvero riservano a singoli soci o particolari categorie
di soci l’esercizio di diritti amministrativi o patrimoniali già attribuiti alla generalità dei soci, cioè, in sintesi, quelle che incidono direttamente e significativamente sui diritti amministrativi o patrimoniali attribuiti dallo statuto ai soci o sul loro esercizio” (così in motivazione).
c) La modificazione formale o sostanziale dell’oggetto sociale, art. 2473, comma 1, c.c.
Secondo Trib. Napoli 11 marzo 2015, in questo Fascicolo, 62 con nota di E. Civerra,
è legittimo il recesso in caso di modificazione formale dell’oggetto sociale e non sostanziale (i convenuti hanno invano eccepito che il socio amministratore avesse contribuito e
tollerato la trasformazione dell’oggetto sociale da industria conserviera a gestione immobiliare e quindi non potesse legittimamente esercitare il recesso allorquando la modifica
formale si fosse limitata a prendere atto della modifica sostanziale.
d) La durata della società, art. 2473, comma 2, c.c.
Secondo la Cass. 22 aprile 2013, n. 9662, in D&G, 2013, 23 aprile; in Riv. not., 2013, 3,
732; in Giur. comm., 2014, 5, II, 802 (s.m.) con nota di Ciusa, in una società a responsabilità limitata, il passaggio dal regime di durata a tempo indeterminato, che comporta
il corollario legale del diritto del socio al recesso ad nutum, a quello di durata a tempo
determinato, che invece esclude tale diritto, equivale ad una ipotesi di eliminazione di
una causa di recesso (nella specie, la Corte ha ritenuto che una durata statutaria fissata
al 2100 è assimilabile ad una durata a tempo indeterminato, con conseguente applicabilità della disciplina prevista per tale ipotesi). Ne consegue che, in base all’art. 2473, comma 2, c.c., compete al socio in ogni momento il diritto di recesso, sussistendo la medesima esigenza di tutelare l’affidamento del socio circa la possibilità di disinvestimento della
quota da una società sostanzialmente a tempo indeterminato [mass. uff.] Secondo Trib.
Roma 19 maggio 2009, in Foro it., 2010, 12, I, 3567, nell’ipotesi in cui il termine di durata di una società a responsabilità limitata previsto dall’atto costitutivo sia superiore alla
normale durata della vita umana, la società deve considerarsi come contratta a tempo
indeterminato, con conseguente facoltà, per i soci, di recedere “ad nutum”. Ad avviso
del Trib. Tivoli 8 giugno 10, ord., in www.jusexplorer.it, nell’ipotesi di recesso da società a tempo indeterminato, il termine di preavviso non ha la funzione di determinare il
momento di sopravvenuta inefficacia del recesso, ma di indicare il termine entro il quale
ragionevolmente debba espletarsi il procedimento di valutazione, l’offerta in opzione ed
il collocamento delle azioni con conseguente rimborso al socio recedente.
e) Il trasferimento della sede all’estero, artt. 2437, comma 1, lett. c), e 2473, comma 1,
c.c.
Per Cass., SS.UU., 11 marzo 2013, n. 5945, laddove la cancellazione di una società dal
registro delle imprese italiano sia avvenuta non a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente, o per il verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione, bensì come conseguenza del trasferimento all’estero (nella specie, in Francia)
della sede della società, e quindi sull’assunto che questa continui, invece, a svolgere attività imprenditoriale, benché in altro Stato, non trova applicazione l’art. 10 l.fall., atteso
che un siffatto trasferimento, almeno nelle ipotesi in cui la legge applicabile nella nuova
sede concordi sul punto con i principi desumibili dalla legge italiana, non determina il venir meno della continuità giuridica della società trasferita e non ne comporta, quindi, in
alcun modo, la cessazione dell’attività, come peraltro agevolmente desumibile dal disposto degli artt. 2437, comma 1, lett. c), e 2473, comma 1, c.c. [mass. uff.].
f) Il recesso nei casi dell’art. 2469, comma 2, c.c.
Secondo Trib. Roma 5 luglio 2011, in www.jusexplorer.it, in ipotesi di trasferimento
inter vivos, il diritto di recesso viene attribuito al socio solo nel caso in cui la facoltà di trasferire la partecipazione sociale venga esclusa del tutto o venga subordinata al mero gradimento di organi sociali, soci e terzi, non invece in caso di apposizione di mere condizioni o limiti al trasferimento della partecipazione sociale, e ciò in considerazione del fatto che simili clausole non valgono a precludere del tutto l’exit del socio. In ipotesi di trasferimento mortis causa, la previsione di limiti o condizioni per la trasmissibilità della quota di partecipazione sociale può essere fonte del diritto di recesso solo se e nella misura
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in cui, per il concreto atteggiarsi della vicenda successoria, detti limiti o condizioni impediscano di fatto il subingresso nella società dell’erede o del legatario.
Il diritto di informativa
del socio che recede
Secondo Trib. Napoli 14 gennaio 2011, ord. in Giur comm., 2012, 3, II, 697 ss., note
di M. Bassi - G. D’Attorre, la violazione di una norma di legge o statutaria che preveda
il diritto dei soci a ricevere dagli amministratori non già, semplicemente, la notizia dell’assemblea e degli oggetti posti all’ordine del giorno, ma le ulteriori informazioni previste
in occasione di una determinata delibera assembleare, può portare all’illegittimità solo a
condizione che l’informazione mancante riguardi la decisione che l’assemblea è chiamata ad assumere. Altro è l’informazione sulla deliberazione da assumersi per consentire al
socio un voto consapevole, altro è l’informazione necessaria per consentirgli di valutare
il diritto di recesso ad esercitarsi; in siffatte ipotesi, afferma il Tribunale, la lesione del diritto di informazione del socio non può ex se inficiare, quale vizio del procedimento, la
deliberazione assunta dall’assemblea cui i soci abbiano consapevolmente partecipato e
votato sulle materie poste all’ordine del giorno, tanto più se si considera che il recesso è
consentito anche ai soci titolari di azioni prive di diritto di voto che non sono legittimati
all’impugnazione della delibera assembleare ma hanno senz’altro diritto all’informazione
prevista dall’art. 2437 ter, comma 5, c.c. e che il recesso è consentito anche a seguito di
una delibera di trasformazione della società per azioni (art. 2437, comma 1, lett. b, c.c.)
la cui iscrizione nel registro delle imprese non consente la sua impugnazione (art. 2500
bis c.c.). la violazione del diritto di informazione preassembleare consente al socio che
abbia subito un pregiudizio (art. 2377, comma 4, c.c.) solo di agire in giudizio in termini
ordinari per il relativo risarcimento contro gli amministratori che con dolo o colpa l’abbiano in via diretta cagionato (art. 2395 c.c.) e/o la società cui tale comportamento è giuridicamente imputabile (art. 2049 c.c.). Sulla base del tenore letterale della norma, la violazione del socio all’informazione preassembleare sul valore delle azioni dovrebbe condurre all’illegittimità della deliberazione solo in caso di mancato deposito della stima, non
anche nel caso in cui è stata tempestivamente depositata una relazione di stima incompleta ed erronea.
Gli effetti della
dichiarazione di recesso
Il procedimento di recesso del socio si snoda in più fasi ad ognuna delle quali si collegano degli effetti più o meno ampi secondo l’interpretazione. È pacifico che si tratti di una
dichiarazione negoziale recettizia che si perfeziona con la conoscenza legale da parte
della società. Ciò significa: a) che, salva una specifica modalità richiesta nello statuto,
basta una qualsiasi comunicazione della volontà di recedere comunque pervenga alla società e sempre che sia possibile dare la prova della sua conoscenza, e quindi oltre che
con raccomandata, anche via fax, via pec etc.; è sufficiente che la comunicazione giunga nella sfera della conoscibilità della società e quindi anche che si sia maturata la compiuta giacenza della raccomandata, senza che la stessa sia stata ritirata, così Corte
d’Appello Milano 13 maggio 2003, in Giur. it., 2004, 122, secondo cui il diritto di recesso può essere esercitato, oltre che tramite lettera raccomandata, anche tramite altre forme (telegrafo, telex, notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario) che presentino le medesime (o maggiori) caratteristiche di certezza della raccomandata; non può essere invece esercitato tramite comportamenti concludenti del recedente; b) che la dichiarazione
di recesso può essere revocata prima che giunga al destinatario; c) se la comunicazione
di recesso abbia già raggiunto il destinatario, non è possibile la revoca a meno che non
ci sia il consenso di tutti i soci, così Trib. Tivoli 8 giugno 10, ord., in www.jusexplorer.it, secondo cui non è possibile la revoca del recesso se la comunicazione sia giunta a
conoscenza del destinatario; il diritto di recesso è espressione di un diritto potestativo di
determinare una modificazione unilaterale del rapporto contrattuale societario; mentre
nelle società di persona è possibile la rinnovazione del rapporto sociale come espressione concorde della volontà delle parti, nelle società di capitali non è possibile, stante l’importanza del rapporto corporativo; d) il recesso non può essere assoggettato a condizioni
che ne rendano incerti nel tempo gli effetti, così Trib. Milano 5 marzo 2007, in Giur. it.
2007, 12, 2775, con nota di Callegari, secondo cui il recesso del socio rappresenta l’esercizio di un atto unilaterale recettizio e, come tale, non è revocabile, né assoggettabile
a condizione (nella fattispecie: la condizione che la quota del socio sia liquidata ad un determinato prezzo), sia perché l’oggetto economico dell’atto di recesso non è soggetto a
trattativa, sia perché la valutazione della quota va effettuata secondo un criterio predeterminato, rapportato al valore del patrimonio e alle prospettive reddituali dell’impresa
gestita dalla società.
Per Cass. 19 marzo 2004, n. 5548, il recesso del socio dalla società è un negozio unilaterale recettizio destinato a perfezionarsi e produrre i propri effetti sin dal momento in cui
la dichiarazione che lo esprime sia pervenuta nella sfera di conoscenza della società destinataria e l’art. 2437, comma 2, c.c. (nel testo pre-riforma) ne subordina l’esercizio al ri-
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spetto di un breve termine di decadenza, 3 giorni dalla data dell’assemblea che ha assunto la deliberazione da cui il diritto di recesso del socio dissenziente trae origine o 15
giorni dall’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese se il socio non ha partecipato all’assemblea, con la conseguenza che non è concepibile un atto prodromico
come un semplice preannuncio “quasi in guisa di prenotazione” dell’esercizio di un diritto da far valere poi al di fuori del termine decadenziale indicato; ritiene non ammissibile
che il socio disponga sine die del diritto di recesso esercitato in via condizionata una volta che la condizione non si sia avverata dal momento che le regole del recesso non consentono al socio di far rivivere il proprio diritto di recesso in un qualsiasi momento futuro
da lui scelto, in palese violazione del principio secondo cui il recesso sia strettamente
correlato al dissenso da una specifica delibera assembleare e, di conseguenza, ne richiede la manifestazione entro rigorosi termini di decadenza; afferma che l’atto di recesso,
almeno a partire dal momento in cui sono scaduti i termini per eventuali analoghe dichiarazioni di altri soci assenti o dissenzienti dalla medesima deliberazione, non è suscettibile di revoca né può essere subordinato a condizioni che ne rendano incerti
nel tempo gli effetti; ciò in quanto la rigorosa limitazione normativa del brevissimo
termine in cui il recesso è consentito denota il chiaro intento del legislatore di privilegiare l’esigenza di certezza e rapida definizione degli assetti societari interessati da un simile
fenomeno; esigenza che discende dagli effetti modificativi del recesso di uno o più soci
sulla struttura organizzativa e sul funzionamento della società, anche e soprattutto con
riguardo alle ripercussioni sul patrimonio dell’ente ed alle valutazioni e decisioni che ne
possono conseguire e che, pertanto, non appare conciliabile con l’attribuzione al socio
della facoltà di revocare la dichiarazione di recesso, già comunicata alla società, o di modificarne la portata subordinandola a condizioni.
Ulteriori effetti della
dichiarazione di recesso
102
In giurisprudenza, non è pacifico, invece, se vi siano ulteriori effetti ed in particolare se il
socio per il solo fatto che abbia reso la dichiarazione di recesso perciò stesso debba considerarsi fuori dalla società. In questo senso, Trib. Bologna 14 novembre 2013, in
www.giurisprudenzadelleimprese.it, secondo cui il recesso ha natura di dichiarazione unilaterale recettizia che si perfeziona al momento del ricevimento della comunicazione da parte degli altri soci sicché ragionevolmente da tale momento il socio non
può più essere considerato far parte della compagine sociale, potendo pretendere
solo la liquidazione della propria partecipazione; Trib. Napoli 14 gennaio 2011, ord.,
in Giur comm., 2012, 3, II, 697 ss., note di M.Bassi - G. D’Attorre, secondo cui il recesso muta la posizione del socio in seno alla compagine sociale, nel senso che a seguito
del recesso acquista il diritto verso la società alla liquidazione del valore delle azioni già
possedute, ma perde tutti gli altri diritti economici e partecipativi (ivi compresa la legittimazione ad agire per l’annullamento delle delibere assembleari); Trib. Roma 24 maggio
2010, in Foro it., 2012, 1, I, 290, ad avviso del quale, sebbene il recesso del socio da
una società a responsabilità limitata sia un negozio unilaterale recettizio, i suoi effetti sono destinati a prodursi alla scadenza del termine di preavviso, giusta le previsioni dello
statuto, dettate dalle esigenze proprie del settore in cui la società opera (nella specie termine statutario di 12 mesi decorrenti dall’inizio della campagna di commercializzazione).
Secondo altro orientamento, il socio recedente esce dalla società solo con la liquidazione
della quota. Infatti il socio che esercita il recesso ha semplicemente diritto a che si attivi
il procedimento per la sua uscita dalla società secondo le regole codicistiche, giacché la
società può sempre revocare la delibera che ha provocato il recesso o lo scioglimento
della società (art. 2437 bis, ultimo comma, 2473, ultimo comma, c.c.).
Il socio ha diritto ad uscire dalla società in determinati casi, ma se poi esercita il recesso,
la società ha diritto di ritornare sui suoi passi, e tra l’interesse del socio e quello della società prevale quello della seconda. Così, Trib. Tivoli 8 giugno 2010, ord., in www.jusexplorer.it, secondo cui non c’è alcun dubbio che con la riforma ha prevalso la tesi per
la quale lo status di socio si perde al momento di effettiva liquidazione della quota che
può essere anche di molto posteriore alla dichiarazione di recesso: a) l’art. 2437 bis ultimo comma c.c. stabilisce che il recesso esercitato è privo di efficacia se entro 90 giorni
la società revoca la deliberazione che lo ha legittimato o se è deliberato lo scioglimento
della società, ciò significa che il recesso dal rapporto sociale non avviene immediatamente e può essere privato di efficacia ab origine (la disposizione infatti afferma che il recesso è privo di efficacia, non che diventa inefficace) dagli adempimenti sopra indicati
posti in essere dalla società; b) le disposizioni degli artt. 2437 ter e 2437 quater prevedono un articolato procedimento per giungere alla liquidazione e rimborso del valore della
partecipazione sociale, a proposito del soggetto che ha comunicato il recesso usano il
termine “socio”, a proposito delle azioni da rimborsare usano sempre la locuzione “azioni del recedente”, espressioni tutte che stanno ad indicare che durante il procedimento e
fino al rimborso il soggetto che ha comunicato il recesso è tuttora socio e titolare di una
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posizione partecipata che dev’essere liquidata, non è un estraneo alla compagine sociale
né è un titolare di mero diritto di credito; c) l’art. 2437 bis, comma 2, c.c. stabilisce che
le azioni per le quali è esercitato il diritto di recesso non possono essere cedute e devono
essere depositate presso la sede sociale, disposizione che non è il frutto di una perdita,
medio tempore, dei diritti amministrativi del socio recedente ma è semplicemente funzionale a permettere agli amministratori di procedere al complesso iter procedimentale senza che, nel frattempo, il recedente possa disporre in favore di altri soggetti. Anche nella
società costituita a tempo indeterminato, l’effettiva cessazione del rapporto sociale avviene solo con il rimborso delle azioni. Si impone quindi la cautela con nomina di un custode che provveda alla temporanea gestione delle azioni ed all’esercizio dei relativi diritti
amministrativi collegati alla partecipazione alla società nelle more del giudizio che accerti
l’attuale proprietà delle azioni oggetto di recesso. Sembrerebbe di questo stesso avviso
anche Cass. 19 marzo 2004, n. 5548, che in un importante obiter esprime condivisione
per l’opinione di chi reputa perdurante la qualità di socio del receduto fino al momento
in cui sia concluso il procedimento di liquidazione e rimborso della quota.
I poteri del socio che
recede
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L’individuazione dei poteri del socio che abbia reso la dichiarazione di recesso nel periodo di tempo che intercorre tra il ricevimento della dichiarazione da parte della società e
la liquidazione della quota è problema assai spinoso. Non è chiaro se i diritti amministrativi e patrimoniali rimangano al socio che recede fin quando non si è concluso tutto il
procedimento o vadano attribuiti provvisoriamente ai soci che rimangono nella società o
si congelino in attesa della liquidazione della quota. Varie soluzioni sono state proposte.
In via di estrema sintesi, secondo un orientamento, si verificherebbe una sospensione di
tutti i diritti sociali incorporati nella partecipazione sociale del socio receduto; la sospensione riguarderebbe sia i diritti patrimoniali che quelli amministrativi a partire dal diritto
di voto; tale tesi è affine a quella secondo cui si perda immediatamente lo status socii.
Secondo altro orientamento, il socio receduto può esercitare tutti i diritti sociali sino al
momento della cessazione della qualità di socio. Nell’ambito di questa seconda tesi, v’è
chi afferma che al socio spettino senza limiti tutti i diritti sociali e chi propone dei distinguo tra i diritti patrimoniali che restano sospesi salva la possibilità di esercizio successivo
nel caso in cui il recesso perda efficacia ed i diritti amministrativi che possono essere
esercitati senza limiti finché la società conservi la possibilità di revocare la delibera. Secondo altra tesi ancora si ritiene che fino al momento in cui la società mantenga il potere
di revocare la delibera o di deliberare lo scioglimento, il socio può esercitare tutti i diritti
sociali sia pure sottoponendo l’esercizio del diritto di voto ad un controllo sul rispetto delle norme in tema di correttezza e buona fede nonché in tema di conflitto di interessi. In
giurisprudenza è possibile osservare che chi ritiene che il socio esca dalla società già
con la dichiarazione di recesso, tendenzialmente gli nega qualunque diritto amministrativo e patrimoniale, salvo il diritto di impugnare la delibera che ha provocato il recesso.
Secondo Trib. Trapani 21 marzo 2007, in Giur comm., 3, 2009, 529 ss., con nota di S.
Parmiggiani, dalla dichiarazione di recesso deriva l’immediata cessazione dello stato
di socio da cui consegue l’illegittimità della partecipazione nonché della votazione
del socio in assemblea; per Trib. Roma 11 maggio 2005, in Vita not., 2006, 1, 323,
nel momento in cui la società ha ricevuto la dichiarazione di recesso del socio, muta la
posizione del socio receduto, il quale diventa titolare del diritto potestativo, previsto dall’art. 2437 ter c.c., alla liquidazione delle azioni per le quali ha esercitato il recesso. Ad
avviso del Trib. Arezzo 16 novembre 2004, in Corr. mer., 2005, 279 nota di Corvese, Il
civilista, 2010, 1, 91, l’esercizio del diritto di recesso da parte del socio di una società a
responsabilità limitata è atto unilaterale recettizio e pertanto il socio recedente non può
esercitare il diritto di controllo di cui all’art. 2476 comma 2, c.c. poiché gli spetta esclusivamente il rimborso della partecipazione come previsto dall’art. 2473, comma 3, c.c.
Chi ritiene, invece, che il socio esca dalla società a seguito della liquidazione della quota,
tendenzialmente gli riconosce, nel periodo tra la ricezione della dichiarazione da parte
della società e la liquidazione della quota, la perdurante titolarità dei diritti amministrativi
e patrimoniali (in particolare dei diritti agli utili già deliberati, mentre gli utili non ancora
deliberati e relativi all’esercizio in corso al momento del recesso vanno computati nella liquidazione della quota) di cui alla partecipazione sociale nonché il diritto di impugnare
tutte le delibere a cui sia interessato e rispetto a cui non sia in conflitto di interessi. Così
Trib. Roma, Sez. III, 7 luglio 2011, n. 14708, in Giur. comm., 2013, 2, II, 274, con nota
di Capizzi, secondo cui il venir meno del rapporto sociale per esercizio del diritto di recesso dopo l’adozione della delibera asseritamente illegittima non comporta la perdita di
titolarità del diritto al risarcimento dei danni ex art. 2377 commi 4 e 6 c.c., che perdura a
sussistere in capo all’alienante. Per Trib. Pavia 5 agosto 2008, in Giur. comm., 2009, 6,
II, 1218, con nota di Chiloiro, in caso di gravi irregolarità nell’amministrazione, il singolo
socio può esperire, in via cautelare e d’urgenza, domanda giudiziale di revoca dell’orga-
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no gestorio e di nomina di un amministratore giudiziale. La revoca conserverà il proprio
effetto a prescindere dall’instaurazione del giudizio di merito volto a far valere la responsabilità dell’amministratore e la conseguente richiesta risarcitoria. Nel tempo intercorrente tra il valido esercizio del diritto di recesso e la liquidazione della quota, il socio di società a responsabilità limitata recedente resta titolare dei diritti sociali non incompatibili
con la dichiarazione di recesso e per l’esercizio dei quali vanti un concreto interesse ad
agire, anche relativo al pericolo che dal depauperamento del patrimonio sociale derivi un
rischio attuale per l’effettivo rimborso della quota oggetto di recesso. Per Trib. Napoli
14 gennaio 2011, ord., in Giur comm., 2012, 3, II, 697 ss., note di M. Bassi - G. D’Attorre, il socio che ha esercitato il recesso non può intervenire nelle successive assemblee né esercitare il diritto di voto né proporre impugnative che richiedono lo status di socio al momento della domanda e per tutto il corso del giudizio; il recesso muta la posizione del socio in seno alla compagine sociale, nel senso che a seguito del recesso acquista
il diritto verso la società alla liquidazione del valore delle azioni già possedute, ma perde
tutti gli altri diritti economici e partecipativi (ivi compresa la legittimazione ad agire per
l’annullamento delle delibere assembleari); il socio che recede, quindi, conserva la formale titolarità delle azioni (almeno finché non vengano collocate o annullate nelle forme
previste dall’art. 2437 quater c.c.), ma queste azioni non incorporano più i diritti partecipativi e patrimoniali; se il socio non può più partecipare alle assemblee e votare, tuttavia
è legittimato ad impugnare la delibera che fonda la legittimazione a chiedere il recesso;
infatti questa delibera non determina quale effetto giuridico diretto ed immediato la perdita in capo ai ricorrenti della qualità di soci della resistente, ma consente agli stessi di
esercitare il diritto di recesso sicché al momento dell’adozione della delibera il socio, ancorché dichiari di recedere, ha diritto ad impugnare perché il recesso è in rapporto di
pregiudizialità-dipendenza con la delibera che ne fonda la legittimazione, per il quale, se
viene meno questa, viene meno anche il recesso; se l’annullamento della delibera che
ha consentito l’esercizio del diritto di recesso determina l’automatica rimozione di tutti i
suoi effetti giuridici, ivi compresi quelli conseguenti ad atti come il recesso che trovano
nella delibera la sua legittimazione, allora il socio recedente è legittimato ad impugnare
la delibera che ne ha costituito il fondamento perché la rimozione della stessa comporta
la caducazione anche del recesso successivamente dichiarato, salvo forse il solo caso in
cui le azioni del socio recedente siano state, nelle more del giudizio, collocate presso soci o terzi di buona fede ex art. 2377, comma 7, c.c. o annullate nelle forme previste dall’art. 2437 quater c.c.
La sopravvenuta
inefficacia del recesso
Com’è noto, nelle società per azioni, il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se, entro 90 giorni, la società revoca la delibera che lo legittima
ovvero se è deliberato lo scioglimento della società (art. 2437 bis, ultimo comma, c.c.);
nelle società a responsabilità limitata, il recesso non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se la società revoca la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società (art. 2473, ultimo comma, c.c.). La regola nelle società per azioni e nelle società a responsabilità limitata è la stessa: la società può reagire
al recesso revocando la delibera che lo legittima, o sciogliendo e mettendo in liquidazione la società; però, nelle società per azioni tale facoltà è ristretta nel termine di 90 giorni,
nelle società a responsabilità limitata non v’è alcun limite temporale. In giurisprudenza, il
problema è stato risolto in sede di Lodo arbitrale Milano, 10 marzo 2006, in questa Rivista, 2007, 6, 745, con nota di G. Zagra, ritenendo che la delibera volta a neutralizzare
gli effetti del recesso non preclude comunque il recesso, allorché sia decorso oltre un
anno dall’adozione della delibera legittimante il recesso. Per Trib. Chieti 17 febbraio
2011, n. 109, in Giur. loc., Abruzzo, 2011, la questione del limite temporale di inefficacia del recesso deve essere risolta applicando analogicamente il disposto di cui al comma 3 dell’art. 2437 bis c.c. dettato in materia di società per azioni (ma sul cui modello è
stata strutturata la disciplina della società a responsabilità limitata), stante l’evidente
identità di ratio (oltre che della stessa formulazione letterale della norma, salvo l’inciso
“entro novanta giorni”, non inserito nell’art. 2473 c.c.) e quindi estendere anche alla società a responsabilità limitata il termine massimo di 90 giorni entro il quale la società
può revocare la delibera precedentemente assunta che legittimava il recesso del socio.
Recesso nei gruppi
Secondo Trib. Milano 21 luglio 2015, in www.giurisprudenzadelleimprese.it, ai sensi
dell’art. 2497 quater, lett. c) l’inizio e la cessazione di un’attività di direzione e coordinamento, così come il mutamento del soggetto esercente tale attività, assumono rilievo ai
fini del riconoscimento del diritto di recesso del socio della società eterodiretta solo qualora detti fatti possano in concreto comportare una modifica in senso deteriore delle condizioni di rischio di investimento sussistenti prima dell’evento considerato dalla norma.
La disposizione è infatti volta a introdurre una tutela preventiva a fronte di obiettivi se-
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gnali che prospettino quel deterioramento delle condizioni di investimento, che ex post traducendosi in un danno alla redditività e al valore della partecipazione - gli darebbero
diritto ex art. 2497 c.c. al risarcimento del danno. La norma non ha inteso concedere al
socio di minoranza un diritto di exit tout court, che permetta anche al socio di minoranza
di godere dei vantaggi che il socio di maggioranza può negoziare con il terzo acquirente,
bensì ha semplicemente inteso di fare in modo che dalle scelte strategiche legittime del
socio di maggioranza il socio di minoranza non tragga pregiudizio. Non sorge il diritto di
recesso ai sensi dell’art. 2497 quater, lett. c) quando al socio di minoranza sia stata formulata un’offerta di acquisto della sua partecipazione, anche se privata, purché garantisca al socio la possibilità di disinvestire a valori congrui. Tali valori non possono considerarsi incongrui per il solo fatto che siano inferiori a quelli ai quali è stata negoziata la partecipazione del socio di maggioranza. Non è in alcun modo configurabile in capo al socio
di maggioranza un obbligo giuridico di rendere dettagliatamente edotto il socio di minoranza delle trattative di cessione della partecipazione di controllo [mass.uff.].
Arbitrato e recesso
La clausola compromissoria, contenuta nello statuto della società per azioni, che preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società, Cass., ord. 27
settembre 2013.
La deliberazione assembleare di sostituzione nella clausola compromissoria dell’arbitrato
rituale a quello irrituale e dell’arbitro collegiale a quello monocratico non legittima l’esercizio del recesso da parte del socio assente alla votazione, poiché determina modifiche
prive di carattere innovativo o soppressivo nel senso fatto proprio dall’art. 34, comma 6,
D.Lgs. n. 5/2003 (Coll. arbitrale 27-28 ottobre 2010, in Giur. it., 2011, 2591 ss. con nota di Boggio e Giur. comm., 2012, II, 825 ss., con nota di Rizzardo).
La devoluzione ad arbitri di una controversia, in precedenza di competenza del giudice
ordinario, rappresenta una modificazione statutaria introduttiva di una clausola compromissoria, così come si è in presenza di una modifica statutaria soppressiva quando la
modificazione statutaria sottragga un tipo di controversia alla cognizione arbitrale per restituirla a quella del giudice ordinario (Coll. arb. 14 marzo 2008, in Riv. arb., 2008, 109
ss. con nota di Terranova).
L’attribuzione ad arbitri del potere di decidere secondo equità deve ritenersi modifica
che consente l’esercizio del potere di recesso (Trib. Verona 12 aprile 2005, in Giur
comm., 2007, II, 633, con nota di Soldati).
La liquidazione della
quota
Secondo Cass., Sez. I, 13 marzo 2013, n. 6207, in D&G, 2013, 15 marzo con nota di
Bruno, il criterio per la determinazione del valore delle azioni da liquidare in favore del recedente è individuato, per il periodo precedente al 2003, dall’art. 2437 c.c. vecchia formulazione, mentre per il periodo successivo dall’art. 2437 ter c.c. Il rimborso delle azioni
quotate, ex art. 2437 c.c. ante riforma 2003, deve avvenire al prezzo medio, calcolato in
ragione della tipologia delle azioni possedute dal socio recedente e del semestre precedente al momento in cui la società ha deliberato in merito al recesso esercitato dal socio.
Per Trib. Lecco 4 marzo 2010, in DeJure, 2010, il nuovo art. 2473 c.c. stabilisce che il
rimborso della partecipazione al socio receduto avviene in proporzione del patrimonio
sociale, che è a tal fine determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso. Pertanto la nuova disciplina delle società a responsabilità limitata, nell’ipotesi che nulla lo statuto preveda per la liquidazione della quota al socio
receduto, fa riferimento, alla “consistenza patrimoniale”, volendo così indicare che non
si è vincolati al risultato dei dati contabili. Ad avviso del Trib. Roma 20 ottobre 2009, in
Foro it., 2011, 1, I, 281, la pendenza del procedimento camerale per la stima del valore
della quota del socio receduto rende improcedibile la domanda proposta in sede ordinaria tesa all’accertamento e alla liquidazione del valore della quota stessa. Per Trib. Salerno 13 ottobre 2009, in Giur. mer., 2010, 4, 1035 nota di D’Agostino, il contrasto insorto tra società e socio receduto di una società a responsabilità limitata in ordine alla determinazione del valore di liquidazione della quota spettante a quest’ultimo operata dall’esperto nominato ai sensi degli artt. 2473, comma 3 e 1349, comma 1, c.c. deve trovare
soluzione nell’ambito di un ordinario giudizio di cognizione, posto che il procedimento
camerale monosoggettivo presupposto dall’art. 2437 ter comma 6, c.c. può avere ad
oggetto la sola nomina del perito e non anche la determinazione del valore della quota.
Per Trib. Roma 19 maggio 2009, in Foro it., 2010, 12, I, 3567, nel caso di mancato accordo tra i soci e di impossibilità per l’esperto appositamente nominato di determinare il
valore della quota del socio receduto, la determinazione deve essere fatta dal giudice,
che procederà secondo equità qualora le parti non abbiano fornito idonei elementi probatori al riguardo. Secondo Trib. Nocera Inferiore 23 febbraio 2007, in DeJure, 2007,
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in Giur. it., 2007, 12, 2783 con nota di Fauceglia, in Il civilista, 2010, 1, 91, in tema di
rimborso della partecipazione a seguito di recesso di socio da società a responsabilità limitata, il riferimento all’art. 1349 c.c. contenuto nell’art. 2473 c.c. chiarisce che la volontà del legislatore è quella di rimettere la determinazione del valore della partecipazione
societaria - laddove le parti non riescano a raggiungere un accordo - non già alla decisione del giudice, ma al contratto tra socio e società, avente ad oggetto la liquidazione della
quota, il cui contenuto viene determinato da un terzo (il perito), il quale concorre all’integrazione ed alla formazione del contenuto del negozio. Ne consegue che, con la determinazione ad opera del terzo, il contratto si perfeziona in tutti i suoi elementi e diviene vincolante tra le parti, salva l’impugnazione per manifesta iniquità o erroneità prevista dall’art. 1349, comma 1, c.c. Nell’ipotesi di recesso del socio di società a responsabilità limitata, una volta introdotto, in assenza di accordo, il procedimento perla quantificazione
del valore della quota, mediante la nomina da parte del Tribunale di un perito, con funzione di arbitratore che concorre alla integrazione e alla formazione del contenuto negoziale, la determinazione contenuta nella perizia giurata - vincolante per le parti - potrà essere impugnata solo per manifesta iniquità o erroneità, restando preclusa qualsiasi ulteriore e successiva valutazione integrativa.
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Diritto commerciale e societario
Giurisprudenza
Osservatorio di giurisprudenza
di legittimità
a cura di Vincenzo Carbone
con la collaborazione di Romilda Giuffrè
INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA
QUALITÀ DELL’INVESTITORE E RESPONSABILITÀ DELLA
BANCA
Cassazione Civile, Sez. I, 31 agosto 2015, n. 17333 - Pres.
Forte - Rel. Acierno - Unicredit Banca di Roma S.p.a. c. M.
Società - Società di intermediazione - Responsabilità Fattispecie
(D.Lgs. n. 385/1993 artt. 106, 107, 113)
È responsabile, e deve pertanto risarcire il danno patito,
la società di intermediazione che non abbia assolto agli
obblighi informativi specifici che sorgono dal duplice
accertamento dell’inadeguatezza dell’operazione e della
non appartenenza dell’investitore alla categoria di operatore qualificato (massima non ufficiale).
Il Tribunale di Catanzaro, in accoglimento della domanda
proposta da un risparmiatore cui la banca aveva venduto
obbligazioni estere Parmalat coinvolte nel ben noto default,
dichiara la nullità degli ordini di acquisto e condanna la banca convenuta al risarcimento dei danni pari all'ammontare
del costo di acquisto dei detti titoli. La Corte d’Appello respinge il gravame della banca e conferma la statuizione di
condanna, sia pure sotto l'aspetto non della nullità degli ordini, bensì della rilevata responsabilità contrattuale dell'istituto di credito per inadempimento agli obblighi informativi. La
S.C. conferma la decisione dei giudici di secondo grado, ritenendo corretta sia la valutazione in ordine agli obblighi informativi poi risultati violati che l'affermata assenza della qualità di operatore qualificato dell’investitore danneggiato.
Principio pacifico.
SOCIETÀ DI CAPITALI
FALSITÀ DEL BILANCIO, RESPONSABILITÀ DEGLI
AMMINISTRATORI ED ONERE DELLA PROVA
Cassazione Civile, Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17794 Pres. Rordorf - Rel. Nazzicone - C.G. ed altro c. F.N. ed
altri
Società - Società di capitali - Amministratori - False comunicazioni sociali - Responsabilità - Onere della prova da
parte del terzo danneggiato - Nesso causale - Necessità
(Cod. civ. artt. 2395, 2621)
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A fronte dell’inadempimento contrattuale di una società di capitali, la responsabilità risarcitoria degli amministratori nei confronti dell’altro contraente non deriva
automaticamente da tale loro qualità, ma implica, secondo la previsione dell’art. 2395 c.c., la prova di una
condotta dolosa o colposa degli amministratori medesimi, del danno e del nesso causale tra questa ed il danno
patito dal terzo contraente. In particolare, in ipotesi di
bilancio contenente indicazioni inveritiere, che si assumano aver causato l’affidamento del terzo circa la solidità economica finanziaria della società e la decisione
del medesimo di contrattare con essa, il terzo che agisca per il risarcimento del danno avverso l’amministratore che abbia concorso alla formazione del bilancio asseritamente falso è onerato di provare non soltanto tale
falsità, ma anche, mediante qualsiasi mezzo di prova, il
nesso causale tra il dato falso e la propria determinazione di concludere il contratto, da cui sia derivato un danno in ragione dell’inadempimento della società alle proprie obbligazioni (massima non ufficiale).
Il Tribunale penale di Trieste aveva condannato gli amministratori di una S.r.l. per false comunicazioni sociali e truffa
aggravata. Nel giudizio si erano costituiti parte civile i promissari acquirenti di alcuni immobili della società, che avevano versato acconti, ma non avevano ottenuto gli immobili, perché questi non erano stati più costruiti. La Corte
d’Appello aveva assolto gli imputati. La Cassazione penale
aveva annullato la sentenza di assoluzione quanto al reato
di false comunicazioni sociali, e perciò la Corte d’Appello
di Trieste (Sez. civile, in quanto “ai sensi dell’art. 622
C.p.p., in ipotesi di annullamento ai soli effetti civili e fermi
gli effetti penali della sentenza, la Cassazione, se accoglie il
ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia al giudice civile competente per
valore e grado in appello”), in sede di rinvio, aveva condannato gli imputati al risarcimento dei danni patiti dai promissari acquirenti. La S.C., rilevate una serie di incongruenze
nel percorso argomentativo della corte territoriale, non rispettose, peraltro, del giudicato penale, soprattutto in ordine all’incidenza sulla volontà dei terzi di stipulare un contratto con la società dei dati di bilancio accertati come falsi,
cassa con rinvio la sentenza impugnata, enunciando il suesteso principio di diritto.
Principio pacifico.
NON COMPROMETTIBILI AD ARBITRI LE CONTROVERSIE IN
TEMA DI APPROVAZIONE DEL BILANCIO
Cassazione Civile, Sez. VI, 10 settembre 2015, n. 17950
- Pres. Di Palma - Rel. Cristiano - R.A. c. Radelpi Immobiliare S.r.l.
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Giurisprudenza
Società - Società di capitali - Impugnazione del bilancio Clausola compromissoria - Validità - Esclusione
(Cod. civ. art. 2482 ter; D.Lgs. n. 5/2003, art. 34, comma
1)
In tema di impugnativa di delibera di approvazione del
bilancio, la controversia in cui vengono in rilievo situazioni sostanziali sottratte alla regolamentazione dell’autonomia privata (ovvero disciplinate da un regime legale che esclude qualsiasi potere di disposizione delle parti, nel senso che esse non possono derogarvi, rinunciarvi o comunque modificarlo) non è riconducibile nell’ambito di quelle controvertibili in arbitri ai sensi dell’art.
34, comma 1, del D.Lgs. n. 5/2003 (massima non ufficiale).
Il Tribunale di Catania aveva dichiarato la propria incompetenza a decidere sulla domanda di annullamento della delibera di approvazione del bilancio di una S.r.l., in virtù di
una clausola compromissoria inserita nello statuto societario. La parte soccombente impugna il provvedimento con
ricorso per regolamento di competenza che viene accolto
dalla S.C., sul rilievo che la norma di cui all'art. 2482 ter (attinente alla necessità, prima di procedere alla riduzione del
capitale per perdite ed alla sua ricostituzione, della redazione di una preventiva situazione patrimoniale aggiornata)
contiene principi che travalicano l’interesse dei singoli soci,
riguardando, pervero, la tutela dell'affidamento dei terzi
che entrano in rapporto con la società.
Principio ribadito ancora, di recente, da Cass. nn.
13031/2014 e 22715/2014.
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EQUITALIA: DOMANDA DI INSINUAZIONE “ULTRATARDIVA”
Cassazione Civile, Sez. I, 8 settembre 2015, n. 17787 Pres. Ceccherini - Rel. Didone - Equitalia Esatri S.p.a. c.
Fallimento Nylstar S.r.l.
Società - Società di capitali - Fallimento - Insinuazione al
passivo - Termini - Equitalia - Applicabilità - Fattispecie
(d.P.R. n. 602/1973 art. 25)
Per far valere il credito tributario nei confronti di un fallimento, l’Amministrazione finanziaria o l’Esattore devono
presentare istanza di insinuazione tardiva nel termine
annuale previsto dall’art. 101 l.fall., senza che i diversi e
più lunghi termini per la formazione dei ruoli e per l’emissione delle cartelle, ai sensi del d.P.R. n. 602/1973,
art. 25, possano costituire di per sé ragioni di scusabilità
del ritardo, le quali vanno invece valutate in relazione ai
tempi strettamente necessari all’Amministrazione finanziaria per predisporre i titoli per la tempestiva insinuazione dei propri crediti al passivo (massima non ufficiale).
Il Tribunale di Monza, con decreto, aveva rigettato l’opposizione allo stato passivo del fallimento di una S.r.l., proposta
dall’Equitalia, ritenendo mancante la prova della non imputabilità del ritardo nella presentazione della domanda di ammissione, presentata oltre un anno dopo l’esecutività dello
stato passivo stesso. Anche la Cassazione respinge il ricorso
dell’esattore, ribadendo un consolidato principio di diritto.
In termini Cass. n. 20910/2011.
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Giurisprudenza
Osservatorio di giurisprudenza
di merito
di Alessandra Stabilini
SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE
IMPUGNAZIONE DELLA DELIBERA ASSEMBLEARE DI
ESCLUSIONE DEL SOCIO ACCOMANDATARIO
Tribunale Torino, Sez. Impr., 13 marzo 2015 - Pres. U.
Scotti e Rel. S. Vitrò - R.W. e F.P. c. Fides S.a.s. + 1
Società - Società di persone - Società in accomandita
semplice - Esclusione del socio accomandatario - Gravi
inadempimenti - Deliberabilità a maggioranza - Illegittimità della delibera
(Cod. civ. artt. 2286, 2287, 2315)
Non confligge con il divieto di ingerenza nella gestione
dei soci accomandanti (di cui all’art. 2320, comma 1,
c.c.) l’esclusione del socio per gravi inadempienze (in
base agli artt. 2286 e 2287 c.c.), costituendo il compimento della stessa non un atto di amministrazione,
bensì di esercizio del potere di controllo dei soci.
Società - Società di persone - Società in accomandita
semplice - Esclusione del socio accomandatario - Gravi
inadempimenti - Deliberabilità a maggioranza - Illegittimità della delibera
(Cod. civ. artt. 2286, 2287, 2315)
Qualora esista un unico accomandatario, i soci accomandanti hanno comunque il potere di deliberarne l’esclusione in caso di gravi inadempienze, poiché la presenza di due categorie di soci è pienamente conciliabile
con i poteri di controllo di cui gli accomandanti dispongono ed al cui espletamento è consona l’eventuale delibera.
Società - Società di persone - Società in accomandita
semplice - Esclusione del socio accomandatario - Gravi
inadempimenti - Deliberabilità a maggioranza - Illegittimità della delibera
(Cod. civ. artt. 2286, 2287, 2315)
Restano distinte e non sovrapponibili, per disciplina e
presupposti, le questioni dell’esclusione del socio per
gravi inadempimenti e della revoca dell’amministratore
per giusta causa.
Prima dell’instaurazione del procedimento sfociato nella
pronuncia qui massimata, gli accomandanti di una s.a.s.
avevano deliberato a maggioranza l’esclusione del socio
accomandatario W.R. per le condotte illegittime consistenti
in (i) appropriazione di utili e (ii) illegittimo utilizzo di denaro
sociale. Il socio escluso ha proposto una prima opposizione
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ex art. 2287, comma 3, c.c. avanti al Tribunale di Milano,
ma il giudizio si è estinto per cessazione della materia del
contendere (dovuta alla revoca della delibera opposta).
In seguito gli altri soci hanno nuovamente deliberato l’esclusione di W.R., perché erano emersi nuovi gravi fatti,
anche pregiudizievoli per l’immagine della società.
L’accomandatario ha proposto opposizione contro la nuova delibera e, sostenendo e rilevando:
- che l’esclusione dei soci accomandatari non può avvenire
ai sensi dell’art. 2287 c.c. perché altrimenti ricorrerebbe
violazione (i) del divieto di immistione e (ii) del divieto di revoca dell’amministratore nominato con atto costitutivo;
- che l’esclusione avrebbe dovuto essere pronunciata dal
giudice ex art. 2287, comma 3, c.c.;
- l’assenza di preventiva contestazione degli addebiti;
- che l’inadempimento contestatogli riguardava solo la sua
qualità di amministratore (e non quella di socio), e comunque non risultava grave;
ha chiesto la sospensione della stessa, rilevando come la
sua esclusione compromettesse la sua posizione.
I convenuti si sono costituiti contestando la fondatezza della domanda attorea, sostenendo in particolare:
- che le nuove condotte integravano sia giusta casa di revoca di W.R. come amministratore, sia causa di esclusione
del socio per “gravi inadempienze” ex art. 2286 c.c.;
- che la procedura di cui all’art. 2287, comma 1, c.c. sarebbe estensibile alle s.a.s. e che, invece, l’art. 2287, comma
3, c.c. sarebbe di stretta interpretazione;
- che non era necessaria alcuna preventiva contestazione;
- che non sussisteva periculum in mora.
Il Tribunale ha accolto l’impugnazione dell’attore, rilevando
che le contestazioni di W.R. non apparivano - sotto il profilo procedurale - fondate, ma che sotto il profilo sostanziale
la delibera impugnata era illegittima poiché:
- l’addebito contestato appariva costituire mancanza dell’attore nella sua qualità di amministratore;
- l’attore avrebbe dovuto essere revocato con il consenso
di tutti i soci ex art. 2319 c.c.;
- l’istituto della revoca dell’amministratore non è fungibile
con quello dell’esclusione del socio;
- l’addebito non era tale da incidere sui fini sociali tenuto
conto (i) della limitata entità dell’eventuale danno e (ii) del
riconoscimento al medesimo del compenso per le funzioni
svolte.
Quanto alla prima massima si vedano: tra i precedenti
di legittimità, Cass. 22 dicembre 2006, n. 27504; Cass.
29 novembre 2001, n. 15197; tra i precedenti di merito,
Trib. Napoli 1° marzo 2010, ord., reperibile su Giur.
comm., 2011, 5, II, 1233; Trib. Potenza 30 ottobre 2008,
reperibile su www.pluris.it.
Quanto alla seconda massima: tra i precedenti di legittimità, Cass. 8 aprile 2009, n. 8750; Cass. 22 dicembre
2006, n. 27504; Cass. 29 ottobre 2001, n. 15197; tra i precedenti di merito, Trib. Napoli 1° marzo 2010, ord.,
comm. da Ferrari in questa Rivista, 2010, 8, 942.
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Giurisprudenza
Sulla terza massima: tra i precedenti di legittimità,
Cass. 1° giugno 2012, n. 8860; Cass. 2 marzo 2009, n.
5019; tra i precedenti di merito, Trib. Napoli 1° marzo
2010, ord. comm. da Ferrari in questa Rivista, 2010, 8,
942; Trib. Roma 10 marzo 1997, reperibile su www.pluris.it.
TRASFORMAZIONE DI SOCIETÀ IN ACCOMANDITA SEMPLICE
IN SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
Tribunale Milano, Sez. Impr., 4 novembre 2015 - Volontaria Giurisdizione - Pres. E. Riva Crugnola - G. A. Mambriani - G. Est. A. Ricci
Società - Società di persone - Società in accomandita
semplice - Società a responsabilità limitata - Assemblea Trasformazione - Modifiche dello Statuto - Iscrizione delibera nel Registro delle Imprese - Deposito, iscrizione e
pubblicazione delle modificazioni
(Cod. civ. artt. 2252, 2436, 2500 ter)
Ribadita, in via generale, l’applicabilità dell’art. 2500 ter
c.c. alle società di persone costituite prima dell’entrata
in vigore della norma, è necessario interpretare eventuali clausole statutarie che rimandino in modo generico alla disciplina codicistica, facendo riferimento in primo luogo alla comune intenzione delle parti.
Società - Società di persone - Società in accomandita
semplice - Società a responsabilità limitata - Assemblea Trasformazione - Modifiche dello Statuto - Iscrizione delibera nel Registro delle Imprese - Deposito, iscrizione e
pubblicazione delle modificazioni
(Cod. civ. artt. 2252, 2436, 2500 ter)
La clausola statutaria che si limita a riprodurre con formulari comunemente in uso il richiamo al “vigente codice civile” deve essere intesa, con criterio oggettivo,
come rinvio mobile alla normativa vigente al momento
in cui la clausola deve trovare applicazione.
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semplice - Società a responsabilità limitata - Assemblea Trasformazione - Modifiche dello Statuto - Iscrizione delibera nel Registro delle Imprese - Deposito, iscrizione e
pubblicazione delle modificazioni
(Cod. civ. artt. 2252, 2436, 2500 ter)
Se nello statuto sociale di una società di persone non si
rinvengono indici significativi che permettano di appurare che i soci ab origine abbiano inteso escludere la
possibilità di deliberare una eventuale trasformazione
della società a maggioranza, né si rinvengono sintomi
univoci della volontà delle parti di fare riferimento ad
uno specifico contenuto normativo, né tanto meno dell’intenzione di escludere il recepimento di eventuali
successivi aggiornamenti del codice civile, deve intendersi richiamata la disciplina in vigore.
Nel procedimento di volontaria giurisdizione istaurato su ricorso di CF in qualità di legale rappresentante di ACF
S.a.s., la ricorrente, quale unica accomandataria della so-
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cietà ACF S.a.s., ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 2436
c.c. chiedendo al Tribunale di ordinare l’iscrizione sul Registro delle Imprese della delibera di trasformazione della
suddetta società di persone in società a responsabilità limitata. In particolare la ricorrente ha esposto che:
- la delibera di trasformazione è stata assunta con la maggioranza dell’86,5% del capitale sociale della società, con il
voto contrario dell’unico socio IS;
- il Notaio ha ritenuto di non procedere all’iscrizione della
suddetta delibera nel Registro delle Imprese stanti i riconosciuti contrasti giurisprudenziali circa l’applicabilità dell’attuale art. 2500 ter c.c. a società costituite anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6/2003.
Il P.M., destinatario del ricorso ai sensi dell’art. 2436 c.c.,
ha concluso per l’accoglimento dello stesso.
Il Tribunale, accogliendo il ricorso, ha osservato che:
- lo statuto sociale della società non contiene previsioni diverse dalla regola della maggioranza per le delibere aventi
ad oggetto la modifica dello statuto sociale;
- il richiamo alla “normativa vigente” presente in una delle
clausole dello statuto sociale, nonostante abbia formalmente carattere di chiusura, deve essere inteso come criterio oggettivo avente ad oggetto un rinvio mobile alla normativa vigente al momento in cui la clausola deve trovare
applicazione;
- il legislatore della riforma ha inserito un’eccezione alla regola generale dell’unanimità per le modifiche all’atto costitutivo al fine di favorire e semplificare la trasformazione
delle società di persone in società di capitali.
Quanto alla prima massima e alla seconda, limitatamente alla questione relativa alla trasformazione di persone in società di capitali, si vedano i seguenti precedenti conformi Trib. Roma 21 luglio 2006, in Riv. dir.
comm., 2006, 7-8-9, II, 96; Trib. Asti 10 luglio 2013, reperibile sulla banca dati www.pluris.it. Si vedano altresì i
seguenti precedenti difformi: Trib. Lecce 7 maggio
2012, reperibile su www.iusexplorer.it; Trib. Belluno 10
luglio 2009, in Foro it., 2010, 6, I, 1969.
Quanto alla terza massima si vedano i seguenti precedenti: Trib. Milano 30 aprile 2006, in Riv. dir. comm.,
2006, 7-8-9, II, 95; contra: Trib. Reggio Emilia 13 gennaio
2006, in Riv. not., 2006, 6, 1603; Trib. Milano 8 luglio
2005, in Giur. mer., 2006, 4, 949.
SOCIETÀ DI CAPITALI
IMPUGNAZIONE DELLA DELIBERAZIONE DI APPROVAZIONE
DEL BILANCIO. ARBITRABILITÀ. QUALITÀ DI SOCIO
Tribunale di Torino, Sez. impr., 11 giugno 2015 - Pres.
U. Scotti - Rel. G.G. Liberati - Est. G.S. Orlando - A.C.B.
c. Vercelli S.p.a.
Società - Società di capitali - Società per azioni - Impugnativa di bilancio - Arbitrabilità - Legittimazione ad impugnare - Qualità di socio
(Cod. civ. art. 2423)
L’impugnazione della deliberazione di approvazione del
bilancio per violazione dei principi di chiarezza, veridicità e correttezza ex art. 2423 c.c. attiene a diritti non disponibili e pertanto non può essere validamente devoluta in arbitrato.
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Giurisprudenza
Società - Società di capitali - Società per azioni - Impugnativa di bilancio - Arbitrabilità - Legittimazione ad impugnare - Qualità di socio
(Cod. civ. artt. 2377, 2352)
La legittimazione ad impugnare una deliberazione assembleare deve sussistere tanto al momento della domanda quanto al momento della decisione. È al custode
che compete il diritto di voto ex art. 2352 c.c. e conseguentemente il diritto di impugnazione ex art. 2377 c.c.
Società - Società di capitali - Società per azioni - Impugnativa di bilancio - Arbitrabilità - Legittimazione ad impugnare - Qualità di socio
(Cod. civ. art. 2377)
La nozione di pregiudizialità ricorre soltanto quando
una situazione sostanziale rappresenti fatto costitutivo,
o comunque elemento della fattispecie, di un’altra situazione sostanziale, sicché occorre garantire uniformità di giudicati, perché la decisione del processo principale è idonea a definire in tutto o in parte il tema dibattuto: non si deve invece attendere la definizione del giudizio di accertamento della qualità di socio promosso in
altra sede, stante la natura meramente incidentale dell’accertamento di tale qualità di socio nel procedimento
de quo.
Nel giudizio di impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio promosso da A.C.B., per la dichiarazione di inesistenza o invalidità della stessa per difetto di convocazione e raggiungimento del quorum funzionale, nonché, in via subordinata, di annullamento per violazione del
principio di chiarezza e del dovere di informazione, la Vercelli S.p.a. si costituiva eccependo, tra l’altro: (i) il difetto di
giurisdizione/competenza del Tribunale di Torino, in virtù
della clausola compromissoria contenuta nello Statuto della società convenuta con devoluzione in arbitrato di ogni
controversia fra soci o fra soci e società aventi ad oggetto
diritti disponibili; (ii) il difetto di legittimazione attiva dell’attrice, in quanto la stessa non aveva ricevuto in eredità quote della Vercelli S.p.a. (in base all’ultimo testamento del de
cuius) e, comunque, non deteneva una partecipazione pari
ad almeno il 5% del capitale sociale, necessaria per chiedere l’annullamento della deliberazione.
In particolare, A.C.B. rilevava: che il bilancio fosse stato approvato con il voto favorevole anche del rappresentante comune per la quota del 50% della partecipazione in Vercelli
S.p.a. caduta in comunione ereditaria, illegittimamente nominato dagli altri due coeredi; ed inoltre che il bilancio approvato fosse viziato anche nel contenuto.
Il Tribunale di Torino, quanto all’eccezione di arbitrato, ha
ritenuto che essa fosse fondata in relazione alla domanda
principale dell’attrice, ossia l’invalidità o inesistenza della
deliberazione per difetto di convocazione e raggiungimento
del quorum funzionale alla legittima approvazione del bilancio, in quanto materia compromettibile; ha rilevato, invece,
quanto alla domanda subordinata di A.C.B., ossia l’invalidità per violazione dei principi di chiarezza, veridicità e correttezza, che essa attenesse a diritti indisponibili e, pertanto, non devolvibili ad arbitri.
Quanto, poi, all’eccezione della Vercelli S.p.a. sulla legittimazione attiva di A.C.B., il Tribunale, ritenendo di non dover sospendere il procedimento de quo, in attesa di defini-
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zione del procedimento di accertamento della qualità di socio dell’attrice promosso avanti al Tribunale di Ivrea, ha rilevato che in virtù dell’ultimo testamento del de cuius, l’attrice, non risultando più coerede della partecipazione azionaria della società convenuta, non avesse legittimazione attiva ad impugnare la deliberazione di approvazione del bilancio: tale impugnazione, infatti, sarebbe spettata al titolare del diritto di voto, ossia il custode giudiziario nel caso in
esame.
Conformi alla prima massima si vedano, fra le molte,
Cass. 10 giugno 2014, n. 13031, in CED, 2014; Cass. 30
ottobre 2012, n. 18671, in Giur. it., 2013, 6, 1355, con nota di Dalmotto; Cass. 12 settembre 2011, n. 18600, in
questa Rivista, 2011, 10, 1228; Trib. Milano 10 dicembre
2012, in Foro it., 2012, 1, 283; Trib. Milano 10 dicembre
2010, in questa Rivista, 2011, 2, 221; Trib. Milano 12
gennaio 2010, in Giur. it., 2010, 6, 1321; Trib. Torino 30
maggio 2014, su www.ilcaso.it, 2015. Contra, cfr. Trib.
Napoli 8 marzo 2010, in questa Rivista, 2010, 5, 643.
Conforme alla seconda massima, quanto al momento in
cui deve sussistere la qualità di socio, si veda Cass. 27
ottobre 2014, n. 22784, in questa Rivista, 2015, 4, 433.
Sulla legittimazione all’impugnazione della deliberazione da parte del custode, cfr. Cass. 11 novembre 2005, n.
21858, in questa Rivista, 2006, 11, 1395, con nota di Carminati; Cass. 18 giugno 2005, n. 13169, in Corr. giur.,
2006, 4, 541, con nota di Bruno (seppure entrambe in relazione al custode in caso di sequestro preventivo ex
art. 321 c.p.p.); Trib. Napoli 14 settembre 2011, in
www.ilcaso.it, 2011.
Conforme alla terza massima si veda Cass. 28 dicembre
2009, n. 27426, in CED, 2009.
SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA
POTERE DI CONTROLLO DEL SOCIO NON AMMINISTRATORE
Tribunale di Torino, Sez. impr., 3 luglio 2015 - Pres. e
Rel. U. Scotti - TWOE S.r.l. c. B4E S.r.l.
Procedimento cautelare - Reclamo - Documenti nuovi Nuove allegazioni
(Cod. proc. civ. art. 669 terdecies)
L’art. 669 terdecies c.p.c. consente l’introduzione in sede di reclamo di documenti nuovi (quand’anche non
siano stati prodotti nella prima fase per causa imputabile alla parte interessata). Non è, invece, consentita la
modifica dei fatti costitutivi della domanda.
Società - Società di capitali - Società a responsabilità limitata - Potere di controllo del socio - Buona fede - Onere
della prova
(Cod. civ. art. 2476)
Poiché l’art. 2476, comma 2, c.c. introduce un preciso
diritto di controllo sulla gestione del socio non amministratore, l’organo amministrativo può rifiutare l’esercizio di detto diritto solo ove la richiesta sia contraria a
buona fede.
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Società - Società di capitali - Società a responsabilità limitata - Potere di controllo del socio - Buona fede - Onere
della prova
(Cod. civ. art. 2476)
Allorché venga opposta l’exceptio doli per rifiutare al
socio l’accesso alla documentazione sociale ex art.
2476, comma 2, c.c., incombe sugli amministratori dimostrare la natura abusiva di tale richiesta di accesso.
Società - Società di capitali - Società a responsabilità limitata - Potere di controllo del socio - Buona fede - Onere
della prova
(Cod. civ. art. 2476; cod. proc. civ. art. 700)
In caso di esercizio in via cautelare del diritto di ispezione ex art. 2476, comma 2, c.c., l’elemento del periculum
in mora è in re ipsa.
Con ricorso ex art. 700 c.p.c. TWOE, in qualità di socio titolare del 20% del capitale di B4E, ha fatto valere nei confronti della predetta società il diritto di informativa e di accesso ex art. 2476 c.c. chiedendo che venisse messa a disposizione copia della documentazione e dei libri sociali e
fiscali della società.
Il Giudice di prime cure ha rigettato l’istanza cautelare, affermando l’insussistenza del requisito del fumus boni iuris.
Il Collegio, in fase di reclamo, rilevato che:
112
- l’art. 2476, comma 2, c.c. introduce un preciso diritto di
controllo sulla gestione del socio non amministratore e
che, pertanto, l’organo amministrativo può rifiutare l’esercizio di detto diritto solo ove la richiesta sia contraria a buona fede;
- l’onere di dimostrare che la richiesta ex art. 2476, comma
2, c.c. incombe sugli amministratori che intendono rigettare la richiesta di accesso avanzata dal socio non amministratore;
- nel caso di specie, la società non avrebbe dimostrato la
sussistenza dell’allegato abuso e, pertanto, deve ritenersi
sussistente il requisito del fumus boni iuris;
- quanto al periculum in mora nei giudizi ex art. 2476, comma 2, c.c. esso è in re ipsa,
tutto ciò rilevato, accoglie l’istanza cautelare azionata da
TWOE, ordinando a B4E di mettere a disposizione del socio e dei consulenti dal medesimo nominati tutta la documentazione e i libri sociali.
Con riguardo a quanto affermato dalla prima massima,
si vedano Trib. Rimini 3 marzo 2006 e Trib. Torino 23
settembre 2005, entrambe in DeJure, che ammettono
sia la produzione di documenti nuovi che la deduzione
di fatti costitutivi nuovi in sede di reclamo.
Conforme alla seconda massima, si veda Trib. Roma 9
luglio 2009, in Foro it., 2010, 6, I, 1972, Trib. Taranto 13
luglio 2007, in Il civilista 2010, 1, 90, Trib. Bologna 6 dicembre 2006, in Giur. comm., 2008, 1, II, 213.
Quanto alla terza massima, non si sono rinvenuti precedenti in termini.
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Diritto dei mercati finanziari
Documentazione
Osservatorio Consob
a cura di Angelo Busani e Alessandro Portolano
SANZIONI AMMINISTRATIVE
APPLICAZIONE DI SANZIONI AMMINISTRATIVE PECUNIARIE
NEI CONFRONTI DI TALUNI ESPONENTI AZIENDALI, NONCHÉ,
A TITOLO DI RESPONSABILITÀ SOLIDALE, DELLA SOCIETÀ
PER VIOLAZIONE DELL’ART. 18, COMMA 1, DEL TUF
Delibera del 16 luglio 2015 n. 19246 @ In Bollettino
Consob 8.1/15
Servizi di investimento - Autorizzazione alla prestazione
dei servizi di investimento - Opzioni binarie - Sanzioni amministrative
(D.lgs. n. 58/1998 artt. 1, 18, 195)
Applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie nei
confronti dei sigg.ri Tizio, Caio, nonché, a titolo di responsabilità solidale, di Alfa Holdings Inc. per violazione dell’art. 18, comma 1, TUF per aver offerto, senza la
dovuta autorizzazione, un servizio di trading online su
opzioni binarie.
La Commissione ha rilevato che, all’esito degli accertamenti svolti, alcuni siti web redatti in lingua italiana offrivano servizi di trading on line su opzioni binarie. In particolare, dalle verifiche svolte dall’Autorità è stato rinvenuto
quanto segue:
1) due siti web, consultabili anche in lingua italiana, offrivano una piattaforma per fare trading su opzioni binarie aventi diversi sottostanti, con la promessa di rendimenti fino
all’89% del capitale investito;
2) per operare tramite detta piattaforma i clienti dovevano
aprire un conto on line su cui effettuare i versamenti di denaro, previa registrazione che richiedeva dati personali quali
nome, cognome, data di nascita, telefono e indirizzo e-mail;
3) i servizi di trading offerti tramite il sito erano riferibili alla
società Alfa Holdings Inc., con sede nelle Isole Vergini Britanniche, come confermato dai termini contrattuali e indicato nella sezione in lingua italiana “Chi siamo”;
4) Alfa Holdings Inc. non risultava iscritta negli albi e/o
elenchi tenuti dalla Commissione delle imprese di investimento italiane ed estere abilitate ad operare verso il pubblico italiano.
Sulla scorta di quanto emerso dalle predette verifiche, la
Consob ha provveduto ad inoltrare alla Alfa Holdings Inc.
tre note (“richiamo di attenzione”), con le quali sono state
richieste alla medesima società precisazioni sul servizio offerto via web tramite le sopra menzionate piattaforme di
trading su opzioni binarie e sulle cautele adottate al fine di
evitare il rischio di svolgere un’attività configurabile come
un servizio di investimento; dette note sono rimaste prive
di riscontro, avendo continuato la Alfa ad offrire i propri
servizi anche ai risparmiatori italiani.
A seguito della richiesta di cooperazione internazionale formulata dalla Consob, volta ad acquisire i necessari elementi informativi in merito alle persone fisiche e giuridiche responsabili dei servizi di investimento offerti tramite i siti
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web di cui sopra, l’Autorità di vigilanza delle British Virgin
Islands (FSC) ha comunicato i dati relativi ai directors (Sigg.ri Tizio e Caio) ed ai soci di Alfa Holding Inc.
La Consob, in relazione ai fatti sopra rappresentati ha dunque contestato ai Sigg.ri Tizio e Caio, nonché alla Alfa Holdings Inc.,quale responsabile in solido, la violazione dell’art. 18, comma 1, TUF, per avere svolto in Italia, tramite
due siti web, la riferita attività di negoziazione di opzioni binarie, in assenza dell’autorizzazione all’esercizio in via professionale e nei confronti del pubblico dei servizi e delle attività di investimento (art. 1, comma 5, TUF) aventi ad oggetto strumenti finanziari.
Tizio e Caio hanno quindi presentato memorie deduttive
con le quali hanno congiuntamente eccepito:
1) la buona fede del proprio operato, anche in virtù dell’“incertezza normativa” nella quale operavano i broker del settore, in quanto né la regolamentazione comunitaria né quella
degli stati membri avrebbe previsto una procedura di autorizzazione alla negoziazione di azioni binarie, e che gli organi
comunitari e le Autorità di vigilanza degli stati membri non si
sarebbero pronunciati circa la qualificazione o meno delle
opzioni binarie come strumenti finanziari (ad eccezione della
Cysec cipriota e della MFSA maltese per cui “le opzioni binarie non rientravano nella nozione di strumenti finanziari”);
2) l’assenza di attività promozionali in Italia e l’irrilevanza
dell’utilizzo della lingua italiana nei siti internet;
3) il mancato rispetto del termine di prescrizione di 360
giorni decorrente dall’accertamento dei fatti, previsto dall’art. 195 TUF per la formulazione delle contestazioni nei
confronti di soggetti esteri.
La Consob ha ritenuto che, sulla base delle risultanze
istruttorie, della documentazione agli atti e delle deduzioni
di parte, emergano elementi idonei a ritenere accertata la
contestazione formulata nei confronti dei Sigg.ri Tizio e
Caio in qualità di director della Alfa Holdings Inc., ed ha
pertanto espresso considerazioni conclusive nei termini di
seguito richiamati:
- sotto il profilo oggettivo, l’attività in oggetto si è sostanziata in un’ipotesi di svolgimento di servizi di investimento
aventi ad oggetto strumenti finanziari effettuata mediante
mezzi di comunicazione a distanza, rilevante ai sensi del citato art. 18, comma 1, TUF;
- Alfa Holdings Inc. invitava i clienti italiani ad eseguire sulle piattaforme dei predetti siti operazioni su opzioni binarie
aventi diversi sottostanti. A tale riguardo è stata evidenziata la presenza di campagne di affiliazione in Italia e di numeri di telefonia italiana dedicati alla clientela italiana;
- a fronte di tali risultanze, le argomentazioni delle parti,
che pure non hanno smentito di avere tenuto il comportamento in questione, non sono idonee a rimuovere gli addebiti ascritti;
- sulla asserita buona fede degli interessati, la Consob ha osservato che, secondo l’orientamento giurisprudenziale, essa
rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa solo qualora sussistano “elementi positivi idonei a ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde
nessun rimprovero possa essergli mosso” (Cass. n. 7885/11
del 6 aprile 2011). Nel caso di specie, ad avviso dell’Autorità
113
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Diritto dei mercati finanziari
Documentazione
tali condizioni non sono sussistite in quanto, con l’intervento
della Commissione Europea del 28 marzo 2012 - ripreso dalla
Consob con comunicazione del 2 luglio 2012 - con cui è stato precisato che le opzioni binarie costituiscono una forma di
contratti derivati regolati in contanti e rientrano nel novero
degli strumenti finanziari di cui all’Allegato 1, Sez. C della Dir.
2004/39/CE (MiFID), gli incolpati erano tenuti a conoscere
dell’illiceità della prestazione di servizi di investimento su opzioni binarie, svolta in assenza di autorizzazione;
- con riferimento al periodo precedente ai predetti contributi interpretativi, nessun pregio può assumere l’assunto sulla
“incertezza normativa” in merito alla qualificazione come
strumenti finanziari delle opzioni binarie, in quanto la società avrebbe dovuto la Società attivarsi presso l’Autorità di
vigilanza italiana per richiedere le informazioni sulla disciplina applicabile e sulla relativa autorizzazione;
- parimenti irrilevante è, secondo la Consob, la circostanza
che i Sigg.ri Tizio e Caio avessero presentato domanda di
autorizzazione all’Autorità di vigilanza cipriota (Cysec) in
quanto quest’ultima faceva riferimento al rilascio di un’autorizzazione come impresa di investimento cipriota (“CIF”),
necessaria per offrire servizi di investimento nei confronti
del pubblico residente a Cipro; mentre la condotta contestata è stata posta in essere tramite i due siti redatti anche
in lingua italiana ed anche verso il pubblico italiano, nei cui
confronti non può ritenersi applicabile il regime transitorio
istituito a Cipro;
quanto all’eccezione relativa alla presunta tardività delle
contestazioni per superamento del termine di 360 giorni
previsto dall’art. 195, comma 1, TUF, ad avviso della Consob la stessa è smentita dalle evidenze in atti, essendo documentalmente provato che l’attività volta al completamento dell’accertamento degli elementi costitutivi della
condotta sanzionabile si è perfezionata non prima del 21
agosto 2012, data in cui la FSC ha fornito riscontro alla
Consob comunicando le informazioni richieste relativamente alla società Alfa. Pertanto, atteso che le contestazioni
sono state formulate con lettera del 22 luglio 2013, la Commissione ha ritenuto rispettato il predetto termine di legge
di 360 giorni dall’accertamento dei fatti;
- con riguardo al profilo soggettivo, dalle indagini svolte è
emerso che i director di Alfa Holdings Inc. risultavano essere all’epoca dei fatti i sigg.ri Tizio e Caio, la cui condotta,
sulla base delle evidenze in atti, è qualificabile quantomeno
come colposa.
In merito alla quantificazione della sanzione, la Commissione ha osservato che: (i) l’art. 190, comma 1, TUF prevede
l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria da
euro duemilacinquecento a euro duecentocinquantamila
per la violazione dell’art. 18, comma 1, del medesimo decreto, e (ii) l’art. 11 della L. n. 689/1981 stabilisce che “nella
determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria
fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell’applicazione delle sanzioni accessorie facoltative,
si ha riguardo alla gravità della violazione, all’opera svolta
dall’agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche”.
Alla luce di quanto sopra la Conosb ha deliberato l’applicazione delle seguenti sanzioni amministrative pecuniarie,
delle quali è contestualmente ingiunto il pagamento a Tizio
e Caio per l’importo ciascuno di € 5.000,00. Inoltre la Commissione ha ingiunto alla Alfa Holdings Inc., quale responsabile in solido, ai sensi dell’art. 195, comma 9, TUF, il pagamento delle sopra indicate sanzioni amministrative pecuniarie, con obbligo di regresso nei confronti degli autori
della violazione sopra nominativamente indicati.
114
OPPOSIZIONE PROMOSSA A NORMA DELL’ART. 195 DEL
TUF AVVERSO LA DELIBERA CONSOB N. 17894 DEL 27
LUGLIO 2011 DI SANZIONE AMMINISTRATIVA PECUNIARIA
Corte d’Appello di Bologna 24 giugno 2015, decr. @ In
Bollettino Consob n. 7.2/15
Intermediazione mobiliare - Procedimento sanzionatorio Responsabilità solidale di una banca per la condotta di un
proprio dipendente
(D.lgs. n. 58/1998, artt. 190 e 195).
Opposizione alla sentenza del T.A.R. del Lazio che confermava la sanzione amministrativa irrogata dalla Consob nei confronti di un dipendente di una banca che
compiva una serie di irregolarità nella prestazione dei
servizi di investimento affidatigli, nonché della banca in
qualità di responsabile in solido.
La Corte d’Appello di Bologna si è pronunciata sul ricorso
promosso avverso la sentenza del T.A.R. del Lazio che aveva
dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso
presentato da Tizio avverso la delibera Consob n. 17894/2011
con cui gli era stata inflitta la sanzione pecuniaria di €
80.000,00 per violazione degli artt. 190 e 195 del TUF.
La delibera impugnata era stata emessa nei confronti di Tizio, addetto, all’epoca dei fatti, ai servizi di investimento e
responsabile di una filiale della Banca Alfa. A tal proposito,
la Consob nell’ambito della propria attività di vigilanza aveva rilevato una serie di irregolarità nella prestazione dei servizi di investimento da parte di Tizio nell’ambito dell’attività
di intermediazione mobiliare affidatagli dalla banca.
La banca Alfa, ricevuta una richiesta da parte della Consob
di fornire notizie e riscontri documentali in relazione ai fatti
segnalati, aveva disposto un’ispezione interna dalla quale
era emerso che Tizio aveva provveduto, in via continuativa
per numerosi anni, al rilascio e all’inoltro di rendiconti falsi
ai clienti che attestavano l’incremento dei patrimoni investiti, dissimulando così le perdite che in realtà si erano verificate. Inoltre, l’ispezione aveva rilevato che Tizio aveva
provveduto ad effettuare molteplici operazioni di compravendita di strumenti finanziari seppur non possedendo l’autorizzazione a tal fine necessaria.
All’esito dell’attività di controllo la Consob ha quindi contestato a Tizio (ai sensi dell’art. 190 TUF) e, in qualità di responsabile in solido ai sensi dell’art. 195 TUF, alla banca
Alfa, la violazione dell’art. 21, comma 1, lett. a), TUF per
quanto emerso dall’ispezione. La Commissione aveva pertanto irrogato una sanzione amministrativa pecuniaria di €
80.000,00 a Tizio e ne aveva ingiunto il pagamento alla
banca Alfa, in qualità di responsabile in via solidale.
A seguito della sentenza del T.A.R. dichiarante l’inammissibilità del ricorso promosso per difetto di giurisdizione, in
sede di ricorso in riassunzione innanzi alla Corte d’Appello
di Bologna, Tizio chiedeva l’annullamento della suddetta
delibera della Consob, contestando numerose violazioni di
legge concernenti il procedimento sanzionatorio e, in particolare, le modalità di accertamento dei fatti e, nel merito,
l’infondatezza degli addebiti.
In particolare, per quanto riguarda la censura promossa
con riferimento alle modalità di svolgimento dell’accertamento, Tizio lamentava che la Commissione avesse compiuto lo stesso limitandosi a recepire gli esiti dell’ispezione
interna effettuata dalla banca, non svolgendo l’attività di indagine ed ispezione in via diretta. Il ricorrente, a tal propo-
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sito, contestava l’obbligo di imparzialità, trasparenza e corretta instaurazione del contraddittorio a mente dell’art. 187
septies TUF. Il ricorrente contestava inoltre la mancata
tempestiva comunicazione da parte dell’Autorità di vigilanza dell’avvio del procedimento a proprio carico.
La Corte d’Appello, a conclusione della fase istruttoria, si è
pronunciata per l’infondatezza delle censure sollevate.
In primo luogo, la Corte ha evidenziato l’inapplicabilità dell’art. 187 septies in quanto disposizione specifica relativa
all’ipotesi di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione di mercato, mentre nel caso in esame era stata
contestata la violazione dell’art. 190 del TUF e la relativa
sanzione ai sensi dell’art. 195 del TUF.
In secondo luogo, per quanto attiene alle modalità di svolgimento degli accertamenti eseguiti nell’ambito del procedimento sanzionatorio, la Corte ha rinvenuto che la relativa
attività istruttoria era stata svolta ai sensi dell’art. 8, comma 1, TUF che consente di richiedere a una banca di fornire dati, notizie, trasmettere atti e documenti con riferimento a fatti oggetto d’indagine, richieste che la Consob può
promuovere nell’ambito dell’attività di vigilanza della stessa
espletata nei confronti degli istituti di credito.
In terzo luogo, la Corte ha ritenuto emergere dagli atti la
mancata conformità, in modo del tutto chiaro e incontrovertibile, della condotta di Tizio agli obblighi di diligenza,
correttezza e trasparenza imposti dall’art. 21 del TUF richiesti ai soggetti operanti nell’ambito dell’intermediazione mobiliare quali dipendenti di un istituto di credito.
La Corte ha peraltro rilevato come le censure mosse da Tizio
si limitino alla contestazione delle modalità di acquisizione
dei dati e all’omissione dell’attività ispettiva diretta da parte
della Consob (attività considerata dai giudici della Corte
d’Appello di Bologna come non necessaria in virtù dell’accertamento compiuto nell’ambito di un’ispezione interna), senza
provvedere in alcun modo ad una contestazione specifica dei
fatti oggetto di accertamento ed ai relativi addebiti. A tal proposito, la Corte ha sottolineato come il potere di vigilanza informativa ex art. 8 TUF rappresenta una delle modalità ispettive mediante le quali l’Autorità può procedere all’accertamento dei fatti ed è consentita alla medesima di selezionare,
con riferimento al singolo caso concreto, gli strumenti ispettivi appropriati al fine di eseguire l’accertamento purché la
scelta sia adeguata e proporzionata ai fatti oggetto della contestazione, condizione ritenuta soddisfatta nel caso in esame.
La censura riguardante l’asserita violazione degli obblighi di
correttezza, imparzialità e corretta instaurazione del contraddittorio, inoltre, è stata altresì ritenuta infondata dalla Corte.
Secondo quanto sostenuto da quest’ultima, infatti, l’art. 195,
comma 2, TUF prevede il necessario rispetto del principio
del contraddittorio nel corso del procedimento sanzionatorio, avente quest’ultimo inizio con la contestazione degli addebiti e, dunque, non si estende alla fase precedente dell’acquisizione dei dati e delle informazioni necessari ai fini della
valutazione della fondatezza o meno dei fatti, per cui, in tale
fase precedente, non vige nessun obbligo di informazione
nei confronti della parte oggetto dell’indagine.
La Corte ha quindi evidenziato come l’art. 195 TUF preveda
che la contestazione delle violazioni deve essere promossa
entro 180 giorni dall’accertamento. Poiché la controversia
verteva, inter alia, sull’individuazione del termine iniziale
dell’accertamento (ossia il momento in cui la Consob aveva
acquisito un sufficiente grado di conoscenza delle violazioni contestate), la Corte si è inoltre soffermata sulla ratio di
suddetto termine perentorio e cioè fornire una tutela al diritto di difesa dell’incolpato contro la possibilità di dilatazione eccessiva da parte della pubblica amministrazione del
termine di acquisizione e valutazione dei dati raccolti. La
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Corte ha quindi ricordato come la giurisprudenza di legittimità si è espressa in più occasioni sul punto, affermando
come il momento di accertamento degli illeciti amministrativi in materia finanziaria non coincida automaticamente né
con il giorno in cui ha termine l’attività ispettiva né con il
deposito della relazione né con quello in cui la Consob si è
riunita per prenderla in esame, e ciò in quanto è necessario
individuare, secondo le particolarità del caso concreto, il
momento in cui è ragionevole sostenere che la contestazione è capace di tradursi in accertamento, poiché la pura
“constatazione” dei fatti nella loro materialità non coincide
necessariamente con il loro “accertamento”, in virtù del
fatto che esistono settori, come quella dell’intermediazione
finanziaria, in cui è richiesto l’espletamento di attività istruttorie e valutative di natura complessa, non effettuabili nell’immediatezza della percezione. Occorre, infatti, una valutazione caso per caso al fine di individuare il momento in
cui la contestazione può tradursi in accertamento, senza
tener conto di ingiustificati ritardi dovuti in conseguenza a
disfunzioni burocratiche e senza dar rilievo alle diverse
competenze e compiti assegnati ai vari organi interni della
Consob, competenti per le diverse fasi del procedimento
(cfr. Cass., SS.UU., 9 marzo 2007, n. 5395; Cass., 2 dicembre 2011, n. 25836).
La Corte ha peraltro sottolineato che nella vicenda in esame l’individuazione del momento in cui è intervenuto l’accertamento, ovvero il momento in cui la Consob ha raccolto tutti gli elementi sufficienti e idonei per procedere alla
contestazione degli addebiti, debba essere riferita al momento in cui i fatti oggetto della contestazione medesima
sono stati acquisiti dalla Consob e sono suscettibili di valutazione nel caso specifico al fine di poter verificare la congruità del termine tra l’acquisizione dei dati e contestazione
degli addebiti e accertare il rispetto o meno del relativo termine di decadenza. Nel caso in esame, non è apparso alla
Corte che fosse decorso il termine per la contestazione formale degli addebiti.
Inoltre, alla Corte è apparso del tutto generico e infondato
l’ulteriore motivo di gravame con cui Tizio contestava l’accertamento svolto dalla Consob sotto il profilo di una valutazione non imparziale ed unilaterale dei fatti in favore dell’istituto di credito ed a danno del dipendente. Sul punto la Corte
ha rilevato che oggetto di prova documentale era l’illegittima
attività posta in essere da Tizio avendo ripetutamente ed in
modo abituale fornito alla clientela informazioni non veritiere
sugli esiti positivi degli investimenti mobiliari posti in essere
al fine di non far emergere le perdite subite dai clienti e di
aver a tal fine falsificato i rendiconti redatti manualmente e
direttamente dal Tizio e non conformi ai dati emergenti dalla
contabilità della banca, oltre all’aver attuato operazioni di investimento non autorizzate e di aver abusato del ruolo rivestito all’interno della banca e della fiducia di cui lo stesso godeva sia da parte dei clienti che dei propri superiori per compiere dette operazioni, il cui riscontro è stato accertato oltre
che dalle verifiche eseguite dalla stessa documentazione trovata nella disponibilità del Tizio.
A sua volta il ricorrente, non potendo contestare i fatti nella
loro materialità, si era limitato a sostenere di essersi sempre comportato correttamente, di godere della fiducia dei
superiori e di aver agito sulla base delle direttive alla stessa
impartite e di non godere di margini di autonomia nell’ambito delle proprie funzioni, ipotizzando in modo del tutto
generico ritorsioni di colleghi e di funzionari della banca
per altre vicende non oggetto del giudizio, senza alcun riscontro in tal senso.
L’assunto difensivo è smentito dagli accertamenti svolti,
nel senso che il dipendente è stato ritenuto responsabile in
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via autonoma dell’area relativa agli investimenti mobiliari,
avendo tenuto direttamente i rapporti con gli investitori, oltre al fatto che le operazioni in contestazione risultavano
essere state poste in essere dal ricorrente direttamente e
nessuna direttiva risultava essere stata impartita al dipendente dai propri superiori tale da giustificare il comportamento dallo stesso tenuto, per cui anche sotto tale profilo
il ricorso risultava del tutto infondato.
Infine, con riferimento alla sanzione applicata in via solidale
alla banca Alfa e a Tizio, quest’ultimo aveva dedotto l’“eccesso di potere per indeterminatezza e contraddittorietà
della sanzione” avendo la Consob ingiunto il pagamento
della sanzione irrogata a entrambe le parti, con possibilità
per la banca Alfa di esercitare l’azione di regresso nei confronti del dipendente, sostenendo che la responsabilità solidale dell’ente è di natura residuale per cui l’ingiunzione a
carico della banca avrebbe dovuto essere disposta solo in
caso di inadempimento dell’obbligato principale.
La Corte a tal proposito ha ritenuto che la censura fosse infondata posto che la responsabilità solidale dell’autore della violazione e della persona giuridica nei cui confronti la
legge prevede il vincolo della solidarietà importa come
conseguenza che l’autorità amministrativa sia tenuta ad
agire nei confronti di entrambe le parti.
OFFERTA PUBBLICA D’ACQUISTO
DELIBERA DELLA CONSOB SUGLI ACQUISTI DA
COMPUTARE NEL CALCOLO DEL PREZZO DI UN’OFFERTA
PUBBLICA D’ACQUISTO
Delibera 10 agosto 2015, n. 19318 @ In Bollettino Consob 8.1./15
Offerta pubblica di acquisto - Determinazione del prezzo
dell’offerta
(D.Lgs. n. 58/1998, artt. 102, 106 e 109)
Ai sensi dell’art. 106, comma 3, lett. c), n. 2), TUF e dell’art. 47 quinquies, comma 1, lett. a), del Regolamento
Emittenti la Commissione ha deliberato che talune transazioni effettuate dall’offerente a condizione di mercato non
debbano rientrare nell’ambito degli acquisti da computare
ai fini della determinazione del prezzo più alto pagato dall’offerente e dalle persone che agiscono di concerto con il
medesimo ai sensi dell’art. 106, comma 2, TUF.
La Consob ha rilevato che in data 22 marzo 2015 Alfa, Beta
e gli azionisti di Beta avevano emesso un comunicato
stampa con cui rendevano noto al mercato di aver sottoscritto un accordo vincolante volto, tra l’altro, alla cessione
della partecipazione detenuta da Beta nel capitale ordinario
di Gamma - pari al 26,2% dello stesso - e che al perfezionamento del citato accordo di compravendita (“Closing”) una
parte di tale partecipazione doveva essere ceduta a una società di nuova costituzione Delta (o l’“Offerente”) - indirettamente controllata da Alfa - mentre la restante parte doveva essere apportata al patto parasociale da sottoscriversi
contestualmente tra le medesime parti.
Inoltre in data 13 aprile 2015 Alfa rendeva noto al mercato
di avere sottoscritto un accordo vincolante avente ad og-
116
getto, tra l’altro, l’acquisto della partecipazione dell’1,574
per cento del capitale ordinario di Gamma. Infine con il comunicato stampa del 5 agosto 2015 Alfa, Beta e gli azionisti di Beta avevano comunicato di aver concordato che il
Closing avesse luogo in data 11 agosto 2015 alla cui data
doveva sorgere per Delta e i soggetti con la stessa agenti
di concerto l’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di
acquisto ai sensi dell’art. 106, comma 1 bis, e 109 del TUF
(l’“Offerta Gamma”) sulle rimanenti azioni ordinarie Gamma al prezzo più alto pagato.
Alla luce di questi eventi, Banca Omega - soggetto agente
di concerto con l’Offerente - in data 29 giugno 2015 aveva
indirizzato alla Consob il quesito prot. n. 0051986/15 con il
quale chiedeva di confermare “l’irrilevanza […] agli effetti
del calcolo del prezzo” dell’Offerta Gamma di due operazioni di acquisto di azioni Gamma effettuate da Banca Epsilon
- società appartenente al gruppo di Banca Omega - in data
20 e 26 marzo 2015.
Peraltro in data 10 agosto 2015 la Banca Omega - soggetto
agente di concerto con l’Offerente - aveva presentato istanza alla Consob, ai sensi dell’art. 106, comma 3, lett. c), n.
2), TUF e degli artt. 47 bis e 47 quinquies, comma 1, lett.
c), del Regolamento Emittenti, richiedendo di dichiarare l’irrilevanza, ai fini del prezzo dell’Offerta Gamma, delle predette due operazioni di acquisto di azioni Gamma in quanto effettuate a condizioni di mercato, nell’ambito dell’attività di negoziazione per conto proprio, per un quantitativo
“ampiamente all’interno dei limiti quantitativi previsti nella
normativa regolamentare”.
A tal proposito, in data 20 marzo 2015, Banca Epsilon aveva acquistato n. 4.953 azioni ordinarie Gamma al prezzo
unitario di euro 15,10 e in data 26 marzo 2015, di n. 123
azioni ordinarie Gamma al prezzo unitario di euro 15,48.
Tali acquisti erano stati effettuati nell’ambito della attività
di negoziazione in conto proprio di Banca Epsilon, e, in particolare, nell’ambito dell’attività dalla stessa svolta come
market making su strumenti finanziari collegati all’indice
FTSE MIB 40.
La Consob ha rilevato inoltre che il quantitativo complessivo dei menzionati acquisti di azioni Gamma rappresenta lo
0,00148 per cento del quantitativo oggetto dell’Offerta
Gamma.
Ai sensi dell’art. 106, comma 3, lett. c), n. 2), TUF e dell’art.
47 quinquies, comma 1, lett. a), del Regolamento Emittenti
la Commissione ha deliberato che gli acquisti compiuti in
data 20 marzo e 26 marzo 2015 da Banca Epsilon al prezzo, rispettivamente, pari a € 15,10 ed € 15,48 non rientrino
nell’ambito degli acquisti da computare ai fini della determinazione del prezzo più alto pagato dall’offerente e dalle
persone che agiscono di concerto con il medesimo ai sensi
dell’art. 106, comma 2, TUF.
La Commissione ha peraltro subordinato l’efficacia della delibera in esame (i) all’effettiva esecuzione del Closing e al conseguente sorgere dell’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto avente ad oggetto la totalità delle azioni ordinarie emesse da Gamma; e (ii) alla circostanza che i menzionati acquisti di azioni Gamma rappresentino un quantitativo complessivamente non superiore allo 0,5 per cento del
quantitativo di azioni oggetto dell’Offerta Gamma determinato alla data della comunicazione resa ai sensi dell’art. 102,
comma 1, TUF e dell’art. 37 del Regolamento Emittenti.
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Osservatorio fiscale
a cura di Massimo Gabelli
ACCERTAMENTO
NON OPERA IL RADDOPPIO DEI TERMINI DI
ACCERTAMENTO SE LA NOTIZIA DI REATO È STATA
NOTIFICATA SUCCESSIVAMENTE ALLO SPIRARE DEI
SUDDETTI TERMINI
Commissione Tributaria Provinciale di Milano 5 ottobre
2015, n. 7913, sent. - Pres. P. Davigo - Rel. G. Chiametti
La Commissione Tributaria Provinciale di Milano, nella
sent. n. 7913 del 5 ottobre 2015 ha precisato che il c.d.
raddoppio dei termini di accertamento non opera laddove
la notizia di reato sia stata notificata dopo lo spirare dei termini ordinari dell’accertamento.
Come è noto, a fini di certezza del diritto e di effettività della tutela del contribuente, il legislatore impone all’Amministrazione finanziaria precisi termini decadenziali entro cui
deve concludersi l’attività degli enti accertatori con la notifica degli accertamenti tributari.
In particolare, l’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 dispone
che l’Agenzia delle Entrate debba notificare al contribuente
gli avvisi di accertamento, a pena di decadenza, entro e
non oltre il 31 dicembre del quarto ovvero del quinto anno
successivo - a seconda della tipologia di violazione contestata - al periodo di imposta accertato. In caso di violazione
che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331
c.p.p. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000 i termini sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta
in cui è stata commessa la violazione.
La portata applicativa della disciplina del raddoppio dei termini ha comportato accesi contrasti in giurisprudenza per
stabilire ad esempio se l’Ufficio non incorra in decadenza
dal potere accertativo nel caso in cui la denuncia ex art.
331 c.p.p. sia stata effettuata oltre la scadenza dei termini
ordinari di accertamento.
Sul punto si è espressa da ultimo la Commissione Tributaria Provinciale di Milano nella sentenza in esame che concerne il caso di una società cui venivano notificati degli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta 2005 - 2007 e
2008, oltre atti di contestazione delle sanzioni relativi alle
medesime annualità. La società impugnava i predetti atti
impositivi, contestandone l’illegittimità per decadenza del
potere accertativo dell’Ufficio ex art. 43 del d.P.R. n. 600
del 1973, per inesistenza del reato ai sensi del D.Lgs. n.
74/2000.
La società riteneva, in particolare, non applicabile il c.d.
raddoppio dei termini considerato che non era stata fornita
alcuna indicazione circa il reato commesso né, tantomeno,
era stata allegata alcuna denuncia penale (se del caso inviata, in ogni caso, alla competente Proc. Rep. oltre gli ordinari termini di accertamento). L’Ufficio rilevava la totale
infondatezza dell’eccezione, precisando che il presupposto
per il raddoppio dei termini era il mero obbligo di denuncia,
non rilevando, pertanto, le vicende successive del procedimento penale.
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Peraltro, rinviando a quanto precisato dalla Corte cost. con
la sent. n. 247 del 2011, l’Ufficio evidenziava che in presenza di un obbligo di denuncia penale decorreva ab origine
un termine raddoppiato, a prescindere dalla data di presentazione della notitia crimins (e, dunque, a suo dire, anche
nel caso in cui la stessa non fosse stata neppure presentata).
La Commissione Tributaria Provinciale adita ha osservato
che, nel caso di specie, gli ordinari termini di accertamento
in relazione ai periodi di imposta oggetto di accertamento
sono spirati, rispettivamente, il 31 dicembre 2010, per il periodo d’imposta 2005, il 31 dicembre 2012, per il periodo
d’imposta 2007, ed il 31 dicembre 2013, per il periodo
d’imposta 2008. Peraltro, i giudici hanno dato atto che la
trasmissione della notizia di reato è stata depositata presso
la Proc. Rep. in data 23 dicembre 2014, che i ricorsi della
società sono stati depositati in data 16 dicembre 2014 e la
denunzia in data 23 dicembre 2014. Pertanto, i giudici hanno osservato che l’iter seguito dall’Ufficio non corrisponde
con quanto stabilito dall’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600
del 1973 dal momento che l’Ufficio avrebbe dovuto prima
depositare la notizia di reato e, solo successivamente, notificare l’avviso di accertamento.
Quindi, non essendo stata rispettata la norma in modo corretto, giacché la denunzia di reato è stata notificata in anni
successivi allo spirare dei termini di accertamento, la Commissione Tributaria Provinciale ha ritenuto gli avvisi di accertamento illegittimi.
Da ultimo, si osserva che sul tema è intervenuto di recente
il D.Lgs. n. 128 del 2015 che, con l’intento di risolvere definitivamente la questione, ha ridefinito la portata applicativa
della disciplina del raddoppio dei termini, prevedendo che
esso non opera quando la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., per i reati
di cui al D.Lgs. n. 74/2000, sia presentata o trasmessa oltre
il termine ordinario di decadenza.
La ratio dell’intervento legislativo è chiara: l’Amministrazione finanziaria, una volta spirato il termine ordinario di accertamento, non può utilizzare a proprio vantaggio l’istituto
del raddoppio di detti termini per notificare accertamenti
per i quali è già incorsa in decadenza. Viceversa essa beneficia della proroga per poter sfruttare il bagaglio informativo che successivamente dovesse emergere in sede di un
eventuale procedimento penale (ratio che ha ispirato inizialmente una così ampia dilatazione dei termini di accertamento).
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AMMISSIBILE IL RIMBORSO
BENE IN LEASING
IVA PER UTILIZZATORE DI UN
Cassazione Civile 16 ottobre 2015, n. 20951, sent. Pres. C. Piccininni - Rel. S. Bielli
La Cass. 16 ottobre 2015, n. 20951 è tornata a pronunciarsi sul tema del rimborso IVA sui canoni corrisposti da parte
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dell’utilizzatore dei beni in leasing, già oggetto di recenti
sentenze della Suprema Corte, riconoscendo la legittimità
del rimborso per l’IVA assolta sui canoni di leasing finanziario di un bene immobile corrisposta dall’utilizzatore del bene.
Il caso oggetto della sentenza origina da un contenzioso
sorto tra l’Agenzia delle Entrate ed una società a responsabilità limitata. In particolare, l’Agenzia delle Entrate aveva
negato alla predetta società il rimborso di € 20.000 per l’IVA pagata sulla “maxirata” di un contratto di leasing immobiliare. La società ricorreva avverso il diniego di rimborso dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva il ricorso, rilevando che l’ufficio tributario, nelle sue
controdeduzioni, aveva riconosciuto il credito IVA, limitandosi a negare il rimborso, ma non la detrazione o la compensazione. Inoltre, i giudici di primo grado rilevavano che
il rimborso spettava (ai sensi dell’art. 30, comma 3, lett. c),
d.P.R. n. 633 del 1972) per i beni ammortizzabili “acquistati” o importati ovvero “acquisiti” in esecuzione di contratti
di appalto o di locazione finanziaria (come chiarito dalla risoluzione ministeriale n. 27/05; dalla circ. min. n. 2/1990; e
dalle istruzioni per la dichiarazione IVA 2005).
L’Agenzia delle Entrate proponeva appello avverso la sentenza di primo grado, deducendo che, ai sensi delle istruzioni per la dichiarazione IVA (quadro VA, rigo VA3), i canoni di leasing andavano inclusi nel costo dei beni strumentali
non ammortizzabili e che, prima del riscatto, oggetto del
leasing risultava essere solo una prestazione di servizi da
parte del concedente, con la conseguenza che in tale fase
il bene, ancorché ammortizzabile, non poteva ritenersi “acquistato” o “acquisito” e, quindi, non era rimborsabile ai
sensi dell’art. 30, comma 3, lett. e), d.P.R. n. 633 del 1972.
I giudici di appello ritenevano, conformemente a quelli di
primo grado, rimborsabile l’IVA eccedente detraibile versata per il canone della locazione finanziaria d’immobile ammortizzabile (ove il credito sia certo) a seguito della disponibilità del godimento del bene in esecuzione di un contratto di locazione finanziaria. L’Agenzia delle Entrate ricorreva
per la cassazione della sentenza.
La Cassazione ha respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, affermando un importante principio di diritto in precedenza non affrontato dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione.
I giudici di legittimità hanno chiarito, in prima istanza, che
il punto centrale della controversia attiene all’interpretazione dell’art. 30, comma 3, alinea e lett. c), d.P.R. n.
633/1972, nella parte in cui prevede che l’eventuale eccedenza d’imposta a credito di ammontare superiore a €
2.582,28 possa essere richiesta a rimborso, totalmente o
parzialmente, all’atto della presentazione della dichiarazione, limitatamente all’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni ammortizzabili. In particolare, la questione richiede di stabilire se, in virtù di detta norma, l’utilizzatore (lessee) possa richiedere il rimborso dell’eccedenza
IVA versata in relazione al canone della locazione finanziaria di un immobile ammortizzabile.
Al riguardo, la S.C. ha premesso che la citata norma trova
applicazione alla duplice condizione che si sia in presenza
di un “bene” ammortizzabile e che tale bene sia stato “acquistato”.
Posto che non vi sono dubbi circa il fatto che nel caso esaminato si sia in presenza di un bene ammortizzabile, i giudici di legittimità si sono soffermati sulla seconda condizione ed hanno rigettato la posizione espressa dall’Agenzia
delle Entrate tesa a sostenere che l’utilizzatore (prima del
118
riscatto) non “acquisti” il “bene” da lui utilizzato, ma fruisca solo di un “servizio” fornitogli dal proprietario concedente.
La Corte di cassazione ha rilevato, in primo luogo, che la
condizione di “acquisto” del bene ammortizzabile prevista
all’art. 30, comma 2, d.P.R. n. 633/1972 non è da intendersi riferita alle sole ipotesi di acquisto del bene, ma deve interpretarsi in senso “neutro” ovvero deve riferirsi tanto all’acquisto di beni che di servizi. Al riguardo, i giudici di legittimità hanno rilevato come sia sufficiente osservare che
la norma in esame riconosce il diritto al rimborso anche
per l’acquisto di “servizi per studi e ricerche”, tanto per cui
è possibile concludere che tale diritto sorga anche nell’ipotesi in cui sia stato acquistato un servizio.
Peraltro, la S.C. ha rilevato come nel sistema della legge
italiana sull’IVA vi sono casi in cui si configura una “cessione di beni” anche se non si è verificato il trasferimento della proprietà (tipicamente, è il caso delle vendite con riserva
di proprietà nonché delle locazioni con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per entrambe le parti). Al
contrario, vi sono delle ipotesi in cui, pur sussistendo il trasferimento della proprietà, non si configura una “cessione
di beni” (ad esempio, nel caso di cessione di crediti in denaro).
A seguito di queste considerazioni di ordine generale, la
Corte di cassazione ha affrontato il caso del leasing, rilevando come lo stesso, prima del riscatto del bene, possa
ricondursi alle “prestazioni di servizi”, come già affermato
dalla giurisprudenza di legittimità in più occasioni (tra le altre, Cass. n. 1362 del 2000) e da quella comunitaria (ex plurimis, Corte di Giustizia 21 febbraio 2008, C - 425/6 - Part
service).
La Corte di cassazione ha evidenziato come occorra, tuttavia, dare rilievo alla funzione economica del leasing che,
nella maggioranza dei casi, è “quella di fornire all’utilizzatore la disponibilità economica (con i connessi rischi) del bene oggetto del contratto, in modo analogo ad un proprietario”.
Da ciò deriva, a giudizio della S.C., che la concessione dei
beni in leasing, pur costituendo una prestazione di servizi,
deve ritenersi equiparata, ai fini fiscali, all’acquisto derivante dalla cessione del bene, con conseguente possibilità per
l’utilizzatore anche di richiedere il rimborso dell’IVA assolta
sui canoni (o sul maxicanone iniziale come nel caso particolare).
IMPOSTE DIRETTE
L’AGENZIA DELLE ENTRATE CHIARISCE IL REGIME
DELL’ART - BONUS PER LE FONDAZIONI BANCARIE
Agenzia delle Entrate, Risoluzione 15 ottobre 2015, n.
87/E
L’Agenzia delle Entrate, con la ris. n. 87/E del 15 ottobre
2015 (la “Risoluzione”), ha fornito alcuni chiarimenti in relazione all’ambito oggettivo di applicazione del c.d. “Artbonus”, introdotto dall’art. 1 del D.L. n. 83/2014, a sostegno delle erogazioni liberali in denaro effettuate nel triennio
2014-2016 a sostegno della cultura e dello spettacolo.
I chiarimenti forniti dalla Risoluzione riguardano, in particolare, alcune fondazioni bancarie aventi come scopo statutario l’intervento nel territorio di riferimento, attraverso l’e-
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rogazione di contributi e la promozione di iniziative di restauro di beni culturali.
Tali soggetti hanno chiesto, nello specifico, chiarimenti in
merito alla possibilità di fruire del c.d. Art-bonus riguardo
agli oneri che sostengono per l’esecuzione di un progetto
di restauro e di valorizzazione, sulla base di protocolli d’intesa stipulati con diversi enti territoriali, di un bene pubblico, sottoposto alla tutela della locale Soprintendenza per i
Beni Architettonici e per il Paesaggio, per il Patrimonio Storico ed Etnoantropologico, in quanto sulla base dei suddetti protocolli di intesa non provvederanno ad erogare le
somme necessarie per la realizzazione dell’intervento sul
bene, ma assumeranno l’obbligazione di dare esecuzione
ai progetti di restauro e valorizzazione del monumento facendosi carico - in via esclusiva - dei relativi oneri finanziari
e organizzativi.
La Risoluzione, richiamando la posizione espressa dal Ministero dei Beni Culturali, ha chiarito che la fattispecie descritta rientra pienamente nel perimetro delle azioni che il
D.L. n. 83/2014 ha inteso promuovere e favorire, introducendo l’agevolazione a sostegno delle erogazioni liberali
destinate al patrimonio culturale pubblico.
La Risoluzione, ha, in particolare, evidenziato che, secondo
il Ministero dei Beni Culturali, la natura dell’iniziativa intrapresa dalle fondazioni bancarie, come rappresentata, è
ascrivibile alla categoria del mecenatismo, e questo perché
perseguendo una specifica finalità statutaria, erogando
contributi e promuovendo nel territorio iniziative nei settori
dell’arte e dei beni culturali, esse non intervengono con
uno scopo lucrativo, che invece è proprio di una forma di
intervento come, per esempio, quella legata alle sponsorizzazioni.
Il competente Ministero ha, altresì, precisato che il fatto
che le fondazioni non trasferiscano le somme di denaro all’ente pubblico territoriale, ma provvedano, direttamente,
al pagamento delle fatture per la progettazione e l’esecuzione dei lavori di restauro del bene pubblico, appare elemento che non influisce sul meccanismo di liberalità, dal
momento che l’importo e la destinazione della donazione
sono previamente identificati nei protocolli d’intesa: l’erogazione liberale oggetto di beneficio è quantificata a monte, come somma determinata, e, dunque, assimilabile a
erogazione in denaro.
L’AGENZIA DELLE ENTRATE CHIARISCE LE REGOLE DI
TASSAZIONE DELL’ENERGIA ELETTRICA DA IMPIANTI
FOTOVOLTAICI PRODOTTA DA IMPRENDITORI AGRICOLI
Agenzia delle Entrate, Risoluzione 15 ottobre 2015, n.
86/E
L’Agenzia delle Entrate, nella ris. n. 86/E del 15 ottobre
2015 (la “Risoluzione”), ha risposto ad un quesito riguardante il trattamento del reddito derivante dalla produzione
e dalla cessione dell’energia elettrica da impianti fotovoltaici, alla luce delle modifiche apportate dall’art. 22 del D.L.
n. 66 del 2014, che prevede che, a decorrere dal periodo
d’imposta 2016, il suddetto reddito vada tassato forfettariamente (in misura del 25% del volume d’affari).
La Risoluzione trae origine da un interpello presentato da
una società a responsabilità limitata - che riveste la qualifica di società agricola ex art. 2 del D.Lgs. n. 99/2004 - che
esercita, fin dalla sua costituzione, attività agricola, optando per la determinazione del reddito su base catastale, come previsto dall’art. 1, comma 1093, L. n. 296/2006 (senza
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mai revocare tale opzione). Oltre a questa attività agricola,
la società ha realizzato, a decorrere dal 2011, sul proprio
terreno, un impianto fotovoltaico della potenza nominale di
998,16 KW, avviando l’attività connessa di produzione di
energia elettrica. Tuttavia, la società non ha rispettato i criteri di prevalenza individuati dalla circolare dell’Agenzia
delle Entrate n. 32/E/2009.
La società intende conoscere il corretto trattamento del
reddito derivante dalla produzione di energia da fonte rinnovabile ai sensi dell’art. 22 del D.L. n. 66 del 2014 e se,
conformemente a quanto chiarito dalla Corte cost. nella
sent. n. 66 del 24 aprile 2015, tale normativa vada applicata a prescindere dal rispetto dei limiti individuati dalla summenzionata circ. n. 32/E del 2009.
L’Agenzia delle Entrate, dopo aver delineato le caratteristiche che devono possedere le società agricole per essere
considerate tali ed aver ripercorso le regole di determinazione del reddito prodotto da tali società precedentemente
al D.L. 66 del 2014, ha richiamato preliminarmente quanto
statuito nella sent. n. 66/2015 della Corte cost.
In particolare, nella sentenza è stato affermato che l’attività
di produzione e cessione di energia da fonti fotovoltaiche è
da qualificarsi, come “attività diretta alla fornitura di beni”
e, quindi, in quanto tale, per essa deve essere verificato il
requisito della “utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola”.
Ciò che assume rilevanza è il fondo, quale risorsa primaria
dell’impresa agricola che, quando sia utilizzato per la collocazione degli impianti fotovoltaici, insieme alle eventuali
superfici utili degli edifici addetti al fondo, deve comunque
risultare “normalmente impiegato nell’attività agricola”.
Peraltro, l’Agenzia delle Entrate ha dato evidenza al fatto
che nella sentenza costituzionale i giudici hanno rigettato
la questione di legittimità costituzionale, non perché sarebbero stati illegittimi eventuali limiti qualitativi o quantitativi
che il legislatore avesse fissato, ma perché sul piano normativo hanno ritenuto sufficienti a garantire la connessione
all’attività agricola principale gli ordinari criteri della “prevalenza” e del “normale impiego”.
In ragione di questa ricostruzione logica, l’Agenzia delle
Entrate ha chiarito che, dal periodo d’imposta 2016, la produzione e la cessione di energia elettrica da impianti fotovoltaici da parte di imprenditori agricoli sarà automaticamente assoggettata alla tassazione forfettaria soltanto per
la parte generata dai primi 200 KW di potenza nominale installata, mentre per l’eccedenza si dovrà avere riguardo al
parametro della prevalenza come determinato con la circ.
32/E/2009.
In particolare, in caso di rispetto del parametro anche l’ulteriore energia sarà tassata in via forfettaria; diversamente,
si seguiranno le regole ordinarie del reddito d’impresa.
Inoltre, la Risoluzione ha fornito chiarimenti anche riguardo
alla disciplina transitoria di cui all’art. 22, comma 1 bis,
D.L. n. 66/2014. In particolare, è stato chiarito che, per gli
anni 2014 e 2015, l’ambito di applicazione della nuova tassazione forfettaria è stato circoscritto alla sola produzione
e cessione di energia elettrica da fonti fotovoltaiche oltre i
260.000 kWh anno. Ciò a condizioni che risultino rispettati
i criteri di connessione individuati dalla citata circ. n.
32/E/2009. In caso contrario, troveranno applicazione, per
la parte di reddito derivante dall’energia prodotta in eccesso, le regole ordinarie in materia di reddito d’impresa.
Pertanto, entro il limite dei 260.000 kWh la produzione e la
cessione di energia da fonti fotovoltaiche costituiranno atti-
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vità connesse a quella agricola e si considereranno produttive di reddito agrario.
Ne consegue che la società istante potrà assoggettare a
tassazione catastale, per il periodo d’imposta 2014, il reddito derivante dall’attività agricola principale “di produzione
cereali e altri prodotti agricoli” nonché il reddito scaturente
dalla produzione e dalla cessione di energia fotovoltaica
entro il limite dei 260.000 kWh.
Da ultimo, non sussistendo, nella società istante, i requisiti
di connessione con l’attività agricola previsti dalla circ. n.
32/E/2009, la Risoluzione ha chiarito che il reddito derivante dalla cessione di energia fotovoltaica prodotta in eccesso dovrà essere tassato mediante l’applicazione delle regole ordinarie in materia di reddito d’impresa.
AGEVOLAZIONI TRIBUTARIE
PATENT BOX: IL COMUNICATO IN GAZZETTA UFFICIALE
Ministero dello Sviluppo - Comunicato 30 luglio 2015 Gazzetta Ufficiale n. 244 del 20 ottobre 2015
È stato pubblicato sulla G.U. n. 244 del 20 ottobre 2015 un
comunicato con cui il Ministero dello Sviluppo economico
ha dato avviso della pubblicazione sul proprio sito istituzionale del Decreto, datato 30 luglio 2015, attuativo del regime opzionale di tassazione agevolata dei redditi derivanti
dall’utilizzo di opere dell’ingegno, di brevetti industriali,
marchi, disegni e modelli, nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili
(il c.d. Patent Box), introdotto dalla L. n. 190 del 2014 (Legge di Stabilità 2015).
L’agevolazione consiste - su opzione del contribuente - nella parziale esclusione dalla tassazione dei redditi dalla concessione in uso o dall’utilizzo diretto di beni immateriali per
il 50% del loro ammontare. Per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e a quello in
corso al 31 dicembre 2015 la percentuale di esclusione dal
concorso alla formazione del reddito complessivo è fissata,
rispettivamente, in misura pari al 30% e al 40%.
Il Decreto individua (art. 2) i soggetti beneficiari dell’agevolazione, precisando che possono beneficiare del regime opzionale del Patent Box tutti i titolari di reddito d’impresa, inclusi i soggetti residenti in Paesi con i quali sia in vigore un
accordo per evitare la doppia imposizione e lo scambio di
informazioni sia effettivo, con stabile organizzazione nel
territorio dello Stato, alla quale devono essere attribuiti i
beni immateriali agevolabili. Come chiarito dalla Relazione
Illustrativa al Decreto, i beneficiari possono optare per il regime agevolato indipendentemente dal titolo giuridico in
virtù del quale avviene l’utilizzo degli stessi; dunque, a titolo esemplificativo, si devono ricomprendere i beni immateriali sviluppati internamente dal contribuente ma anche
quelli acquisiti da altri soggetti (anche in licenza) e sui i
quali il contribuente svolge attività di mantenimento, accrescimento e sviluppo. Sono esclusi dall’ambito soggettivo di
applicazione dell’agevolazione le società assoggettate a
procedure di fallimento, alle procedure di liquidazione coatta e alle procedure di amministrazione straordinaria delle
grandi imprese in crisi (art. 3).
L’accesso al regime agevolativo viene condizionato all’esercizio di attività di ricerca e sviluppo. Rientrano, in particolare, nelle attività di ricerca e sviluppo (art. 8 del Decreto)
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le attività di: ricerca fondamentale (vale a dire i lavori sperimentali e teorici svolti per acquisire nuove conoscenze ove
successivamente utilizzate nella ricerca applicata e nel design); ricerca applicata (vale a dire la ricerca pianificata per
acquisire nuove conoscenze e capacità, da utilizzare per
sviluppare nuovi prodotti, processi o servizi o apportare miglioramenti agli stessi, in qualsiasi settore della scienza e
tecnica; lo sviluppo sperimentale e competitivo); design;
ideazione e la realizzazione del software protetto dal copyright; ricerche preventive, i test e le ricerche di mercato e
gli altri studi ed interventi anche finalizzati all’adozione di
sistemi anticontraffazione, il deposito, l’ottenimento e il
mantenimento dei relativi diritti, il loro rinnovo a scadenza
e la loro protezione; presentazione, comunicazione e promozione che accrescano il carattere distintivo e/o la rinomanza dei marchi e contribuiscano alla conoscenza, all’affermazione commerciale, all’immagine dei prodotti o dei
servizi, del design o degli altri materiali proteggibili. Al riguardo, la Relazione Illustrativa chiarisce che non è necessario che le attività di ricerca e sviluppo relative ad un determinato bene immateriale siano esercitate nel periodo
d’imposta in cui, in concreto, si fruisce dell’agevolazione
dei redditi derivanti dal medesimo bene; è sufficiente che
tale attività sia stata esercitata nei periodi d’imposta precedenti. È, comunque, sempre necessario che si tratti di attività di ricerca e sviluppo direttamente collegate al bene da
esse “generato”; tale verifica va condotta, quindi, separatamente per ciascun bene.
Il regime di detassazione è applicabile (art. 6 del Decreto) a
tutti quei redditi che derivano dall’utilizzo di: software protetto da copyright; brevetti industriali che siano concessi o
in corso di concessione; marchi d’impresa, registrati o in
corso di registrazione; disegni e modelli, giuridicamente tutelabili; processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o
scientifico giuridicamente tutelabili. Per la definizione di tali
tipologie di beni immateriali e dei requisiti per la loro esistenza e protezione si fa riferimento alle norme nazionali,
estere e comunitarie, nonché alle norme contenute in trattati e convenzioni in materia di proprietà intellettuale applicabili nel relativo territorio di protezione, in ragione del fatto che, come precisato dalla Relazione Illustrativa, i beni
immateriali oggetto del regime in parola sono non solo
quelli tutelati in Italia ma anche quelli tutelati in qualsiasi
Paese estero in base alle norme ivi applicabili. Inoltre, è
specificato che, ai fini dell’agevolazione, i beni immateriali
collegati da vincoli di complementarietà e utilizzati congiuntamente per la finalizzazione di un processo/prodotto
si considerano un unico bene immateriale (come nel caso,
ad esempio, del modello di autovettura che “incorpora”
più brevetti).
Il Decreto (art. 7) specifica, altresì, che il reddito agevolabile è quello che deriva dall’uso diretto del bene immateriale
o dalla concessione in uso del diritto all’utilizzo del bene
immateriale. In quest’ultimo caso il reddito agevolabile è
costituito dai relativi canoni al netto dei costi, diretti e indiretti, ad essi connessi di competenza del periodo d’imposta. Nel caso, invece, di utilizzo diretto dei beni immateriali
è necessario individuare il contributo economico di ciascuno dei beni immateriali che ha concorso a formare il reddito o la perdita. Come precisato dalla Relazione Illustrativa,
il contributo economico consiste in un reddito figurativo
ascrivibile ai beni immateriali incorporato nel reddito rinveniente dall’attività svolta dal contribuente.
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L’opzione per l’agevolazione ha una durata di cinque periodi d’imposta, è irrevocabile ed è rinnovabile (diversamente
dal regime del credito di imposta per attività di ricerca e
sviluppo che è temporalmente limitato). Per i primi due periodi d’imposta successivi a quello in corso alla data del 31
dicembre 2014 (quindi, 2015 e 2016) l’opzione per il regime
del Patent Box deve essere comunicata all’Agenzia delle
Entrate secondo le modalità e i termini che saranno indicati
in un apposito Provvedimento del Direttore dell’Agenzia
delle Entrate. L’opzione riguarda il periodo d’imposta nel
corso del quale essa è comunicata e i successivi quattro. A
decorrere dal terzo periodo d’imposta successivo a quello
in corso al 31 dicembre 2014, l’opzione è comunicata nella
dichiarazione dei redditi e decorre dal periodo d’imposta al
quale la medesima dichiarazione si riferisce. L’opzione è
trasferibile (art. 5 del Decreto) in occasione di operazioni
straordinarie condotte in regime di neutralità fiscale (i.e.,
fusione, scissione e conferimento di azienda). Come precisato nella Relazione Illustrativa, il soggetto avente causa
subentra al dante causa nell’esercizio dell’opzione, sia con
riguardo al computo degli anni di durata dell’opzione stessa sia in relazione all’”eredità” dei costi rilevanti ai fini del
computo dell’agevolazione.
Il Decreto, inoltre, chiarisce (art. 9) le modalità di determinazione della quota di reddito agevolabile, disponendo che
essa venga determinata, per ciascun bene immateriale,
sulla base del rapporto tra: i costi “qualificati” al numeratore, con essi intendendosi i costi direttamente connessi al
bene immateriale, sostenuti per l’attività di ricerca e sviluppo effettuata in proprio e/o affidata a soggetti terzi indipendenti; e i costi “complessivi”, al denominatore, costituiti
dai costi “qualificati” cui vanno aggiunti, in misura integrale, gli eventuali costi di acquisizione (incluso il costo della
licenza) del bene immateriale e i costi derivanti da operazioni infragruppo. Il valore del numeratore può essere incrementato (art. 9, comma 3, del Decreto) dei costi afferenti alle attività di ricerca e sviluppo derivanti da operazioni
infragruppo (i.e., operazioni intercorse con società che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono
controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa) e dai suddetti costi sostenuti dal beneficiario nell’ambito di un accordo per la ripartizione dei costi,
nel limite dei proventi costituiti dal riaddebito ai partecipanti dei costi. Inoltre, il valore del numeratore può essere ulteriormente incrementato (art. 9, comma 5 del Decreto) di un
importo corrispondente alla differenza tra il valore complessivo del denominatore e quello del numeratore del predetto rapporto nei limiti, tuttavia, del 30% di questo ultimo
valore (c.d. up - lift) (in tal senso, si rinvia anche la Relazione Illustrativa). Di conseguenza, come evidenziato dalla Relazione Illustrativa, il numeratore ed il denominatore del
rapporto non differiscono per la natura dei costi ivi indicati
ma soltanto per il diverso computo delle spese di ricerca e
sviluppo derivanti dai rapporti con consociate e di quelle
relative ad acquisizioni dei beni immateriali. I costi rilevanti
ai fini del rapporto sono quelli sostenuti nell’anno di fruizione del beneficio e nei tre precedenti (art. 9, comma 6 del
Decreto). Pertanto: nel primo periodo di efficacia delle norme sul Patent Box, e nei due successivi, i costi che concorrono alla formazione del rapporto sono assunti complessivamente, senza dunque, distinguere il relativo computo
per singolo bene immateriale; a partire dal terzo periodo di
imposta successivo a quello di efficacia delle norme sul Patent Box i costi rilevanti devono essere assunti distintamente per ciascun bene. La quota di reddito agevolabile è data
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dal prodotto tra il reddito derivante dall’utilizzo dei beni immateriali e il rapporto dei costi, e non concorre a formare il
reddito d’impresa del soggetto beneficiario per il 50% del
relativo ammontare; tuttavia, come anticipato, per i primi
due periodi d’imposta di efficacia del regime (2015 e
2016), la percentuale di esclusione è rispettivamente del
30% e del 40% (art. 9, commi 7 e 8 del Decreto).
Il Decreto (art. 12) definisce, infine, l’ambito applicativo
della procedura di ruling internazionale di cui all’art. 8 del
D.L. n. 269/2003, chiarendo che la suddetta procedura è
facoltativa (rectius su base opzionale) nel caso in cui i redditi derivanti dallo sfruttamento di beni immateriali siano
realizzati nell’ambito di operazioni infragruppo. La procedura è, invece, obbligatoria, in caso di utilizzo diretto dei beni
immateriali, per la determinazione del contributo economico alla produzione del reddito di impresa o della perdita. La
Relazione Illustrativa rimanda agli standard internazionali
OCSE in punto di transfer pricing quanto alle metodologie
di calcolo da utilizzare ai fini della determinazione del contributo economico.
REATI TRIBUTARI
IN CASO DI ACCORDO CON L’AMMINISTRAZIONE
FINANZIARIA PER LA RATEIZZAZIONE DEL DEBITO
TRIBUTARIO IL SEQUESTRO PER EQUIVALENTE DEVE
ESSERE RIDOTTO
Cassazione Civile 30 ottobre 2015, n. 43820, sent. Pres. A. Teresi - Rel. A. Gentili
La Cass. 30 ottobre 2015, n. 43820 ha affermato che, in tema di reati tributari, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per
la rateizzazione del debito tributario, il sequestro preventivo
finalizzato alla confisca per equivalente non può essere
mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal
mancato pagamento dell’imposta evasa, ma deve essere
ridotto in misura corrispondente ai ratei versati per effetto
dell’accordo.
Nel caso oggetto della sentenza, il legale rappresentante di
una società, indagato per aver omesso di versare negli anni
2010-2012 le somme trattenute quale sostituto d’imposta
sugli emolumenti versati ai sostituti e certificate a questi ultimi (art. 10 bis, del D.Lgs. n. 74 del 2000), chiedeva al Tribunale il riesame del provvedimento con cui il G.I.P. aveva
disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca
per equivalente, sui beni a lui pertinenti. Il Tribunale riteneva sussistente il fumus del reato contestato e, dunque, confermava il provvedimento impugnato. L’indagato ricorreva
per la cassazione dell’ordinanza lamentando, tra l’altro, l’omessa motivazione dell’ordinanza impugnata con riferimento alla mancata riduzione del sequestro a seguito del
pagamento delle rate nel frattempo maturate, previste dal
piano di rateazione delle imposte evase concordato con
l’Amministrazione finanziaria.
La S.C. ha accolto il ricorso. In particolare, la Corte di cassazione ha chiarito che la mancata riduzione del sequestro
preventivo finalizzato alla confisca per equivalente per l’importo corrispondente ai versamenti effettuati determina
un’inammissibile duplicazione sanzionatoria in contrasto
con il principio secondo il quale l’ablazione definitiva di un
bene non può mai essere superiore al vantaggio economi-
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co conseguito dall’azione delittuosa. In tal senso, la sentenza della Cass. n. 6635/2014.
I giudici di legittimità hanno, peraltro, rilevato come, nel
caso in esame, il Tribunale del riesame non avesse espunto
dal valore totale dei beni sequestrati l’importo versato medio termine in attuazione della convenzione, né avesse indicato le ragioni per le quali tale operazione non avrebbe dovuto essere compiuta. A tale riguardo, la S.C. ha riconosciuto all’indagato la facoltà di chiedere al giudice una riduzione dell’ammontare complessivo del sequestro in mi-
122
sura corrispondente alla rimessa effettuata a favore dell’Amministrazione finanziaria, in attuazione del piano di
rientro concordato.
Da ultimo, i giudici di legittimità, nell’annullare l’ordinanza
impugnata, hanno rimesso al Tribunale, in sede di rinvio, il
riesame della questione relativa alla perdurante congruità
dell’ammontare del quantum dei beni originariamente sequestrati all’attualità del debito tributario gravante sull’indagato.
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Sintesi
Osservatorio comunitario
a cura di Pietro Michea
Fiscalità
GLI STATI MEMBRI TROVANO L’ACCORDO POLITICO PER RENDERE OBBLIGATORIO LO SCAMBIO
AUTOMATICO DI INFORMAZIONI RELATIVE AI RULING FISCALI
Proposta di direttiva del Consiglio del 18 marzo 2015 recante modifica della direttiva 2011/16/UE per quanto
riguarda lo scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale
Il 6 ottobre 2015 gli Stati membri dell’Unione europea (“UE”), nel contesto del Consiglio UE che riunisce i ministri
competenti per gli Affari Economici e Finanziari, hanno raggiunto l’accordo politico sulla proposta di direttiva del
Consiglio (1) (a volte la “proposta”) recante modifica della Dir. 2011/16/UE (2) relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale (“direttiva 2011/16/UE”). La proposta di direttiva persegue l’obiettivo di rendere obbligatorio lo scambio automatico di informazioni relative ai cosiddetti ruling fiscali preventivi transfrontalieri e agli
accordi preventivi sui prezzi di trasferimento (un particolare tipo di ruling preventivo transfrontaliero utilizzato nel
settore dei prezzi di trasferimento) in forza delle norme della Dir. 2011/16/UE che disciplinano le modalità pratiche
di tale scambio, con particolare riguardo all’utilizzo dei cosiddetti formulari tipo (3). Nel presentare la proposta di
direttiva, la Commissione europea (“Commissione”) ha rimarcato che la stessa tiene in debita considerazione gli
sviluppi internazionali intervenuti a livello dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (“OCSE”) ed, in particolar modo, dei lavori svoltisi all’interno di tale organizzazione internazionale sull’erosione della
base imponibile e il trasferimento degli utili.
Nella relazione di accompagnamento alla proposta di direttiva, la Commissione chiarisce che, sebbene in linea di
principio sia considerata una pratica lecita idonea a ridurre il debito d’imposta, la pianificazione fiscale risulta invece essere sempre più uno strumento utilizzato dalle multinazionali per ridurre artificialmente oppure eludere la
loro contribuzione fiscale. Tale abuso - di uno strumento ipoteticamente lecito - si verifica nel momento in cui la
pianificazione fiscale assume forme sofisticate che consentono alle società interessate di trasferire gli utili imponibili in quegli Stati membri dell’UE il cui regime tributario risulta essere più favorevole. A tal proposito le imprese,
sfruttando a proprio vantaggio gli aspetti tecnici di un determinato sistema fiscale o i disallineamenti esistenti fra
due o più sistemi fiscali all’interno dell’UE, hanno posto in essere tipi di pianificazione fiscale “aggressiva” che si
manifestano in molteplici forme e che hanno prodotto fenomeni quali per esempio le doppie detrazioni (i.e. la
stessa spesa è detratta sia nello Stato della fonte che nello Stato di residenza) e la doppia non imposizione (i.e. i
redditi non sono tassati né nello Stato della fonte né nello Stato di residenza). Nella maggior parte dei casi, tali
pratiche “aggressive” sono state agevolate dai ruling fiscali con cui le amministrazioni nazionali, conferendo certezza giuridica ai dispositivi normativi esistenti a livello nazionale, confermano ad una determinata società come
sarà tassata una specifica operazione a norma della legislazione nazionale vigente (4). Orbene, anche se incombe
sugli Stati membri l’obbligo di garantire la compatibilità con il diritto UE e la vigente legislazione nazionale dei ru(1) Proposta di direttiva del Consiglio recante modifica della Dir. 2011/16/UE per quanto riguarda lo scambio automatico obbligatorio di informazioni nel settore fiscale, COM(2015) 135 final del 18 marzo 2015. Oggetto di analisi sarà il testo della proposta
di direttiva, così come modificato dal Consiglio UE con l’accordo politico del 6 ottobre 2015.
(2) Dir. 2011/16/UE del Consiglio, del 15 febbraio 2011, relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale e che abroga la Dir. 77/799/CEE, GU L 64 dell’11 marzo 2011.
(3) Nella relazione di accompagnamento alla proposta di direttiva, la Commissione ha precisato quanto segue: “... Nel corso
del 2012 il gruppo “Codice di condotta (Tassazione delle imprese)” ha esaminato l’evoluzione delle procedure degli Stati membri
in materia di ruling fiscali. Il gruppo ha individuato le tipologie di ruling transfrontaliero per le quali è opportuno uno scambio
spontaneo di informazioni e ha raccomandato l’elaborazione di istruzioni tipo a cui gli Stati membri potrebbero fare riferimento ai
fini dell’applicazione interna. Le istruzioni tipo prevedono che le informazioni sui ruling transfrontalieri siano comunicate spontaneamente in conformità all’articolo 9 della direttiva 2011/16/UE, mediante formulari elettronici tipo trasmessi con i mezzi elettronici specificati nella direttiva stessa, entro e non oltre un mese dall’emanazione del ruling conformemente ai termini di cui all’articolo 10 della direttiva. Tali istruzioni prevedono inoltre che gli Stati membri predispongano idonei canali di comunicazione tra Stati
membri in questo settore e impartiscano una formazione adeguata e validi orientamenti alle amministrazioni responsabili. Esse
forniscono altresì indicazioni sul contenuto delle informazioni che devono essere comunicate spontaneamente. Tuttavia tali istruzioni tipo non sono giuridicamente vincolanti. Di fatto, lo scambio di informazioni tra gli Stati membri sui ruling fiscali preventivi o
sugli accordi sui prezzi di trasferimento rimane molto limitato, anche quando questi incidono su altri paesi ...”.
(4) Al considerando 1 della proposta si afferma quanto segue: “... L’emanazione di ruling fiscali preventivi, che favoriscono l’applicazione coerente e trasparente della legge, è prassi corrente anche nell’UE. Fornendo certezza alle imprese, il chiarimento della
normativa fiscale per i contribuenti può incoraggiare gli investimenti e il rispetto della legge e può pertanto contribuire all’obiettivo
di sviluppare ulteriormente il mercato unico UE sulla base dei principi su cui si fondano le libertà. Tuttavia, i ruling concernenti
strutture fiscali hanno, in taluni casi, condotto a un basso livello di tassazione di importi di reddito artificialmente elevati nel paese
che emana, modifica o rinnova il ruling preventivo e hanno lasciato importi di reddito artificialmente bassi da sottoporre a tassazione negli altri paesi coinvolti ...”.
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Società e Unione europea
Sintesi
ling fiscali da essi emanati, una mancanza di trasparenza su tali ruling può incidere negativamente sulla possibilità di altri Stati membri, che vantano legami con i soggetti cui gli stessi sono destinati, di accertare correttamente
le proprie basi imponibili. Infatti, gli Stati membri condividono poche informazioni riguardo ai propri ruling fiscali,
in quanto, in forza della legislazione UE attualmente vigente, è a discrezione dello Stato membro interessato decidere se un ruling fiscale concluso con una multinazionale possa essere pertinente per un altro Stato membro dell’UE (5). In una società sempre più globalizzata, in cui la mobilità dei contribuenti è particolarmente accentuata,
tale fenomeno è in grado di incidere negativamente sul funzionamento dei sistemi fiscali nazionali, oltreché dare
luogo a pratiche di elusione ed evasione fiscali, compromettendo così il corretto funzionamento del mercato interno.
Per ovviare a questa situazione, nel momento in cui sarà adottata in via definitiva, la proposta di direttiva imporrà
agli Stati membri di introdurre nei propri ordinamenti nazionali nuove regole che rendano obbligatorio ed automatico lo scambio semestrale di informazioni relative ai ruling preventivi transfrontalieri (6) e agli accordi preventivi
sui prezzi di trasferimento (7), le cui definizioni a tal fine dovranno essere ampliate così da far rientrare nell’ambito
di applicazione della legislazione nazionale recepente strumenti fiscali analoghi, ed indipendentemente dalla circostanza che tali strumenti garantiscano o meno un reale vantaggio fiscale connesso. Le nuove regole in materia
di scambio automatico ed obbligatorio di informazioni, che elimineranno il margine di discrezione di cui gli Stati
membri hanno abusato per decidere senza vincoli quali informazioni condividere, quando e con chi, si basano
perciò sul principio che gli altri Stati membri, e non quello che emana il ruling fiscale, si trovano nella posizione
migliore per valutarne l’impatto potenziale e la pertinenza. In aggiunta alle informazioni di base la cui comunicazione risulterà obbligatoria in forza delle nuove regole introdotte dalla proposta di direttiva (8), qualora lo ritenga
necessario, uno Stato membro potrà chiedere informazioni più dettagliate su un determinato ruling fiscale di suo
interesse, compreso il testo integrale dello stesso. Inoltre, una serie più limitata delle informazioni di base (9) che
(5) Ai considerando 3 e 4 della proposta di direttiva è riportato quanto segue: “... La direttiva 2011/16/UE prevede lo scambio
spontaneo obbligatorio di informazioni tra gli Stati membri in cinque casi specifici ed entro determinate scadenze. Lo scambio
spontaneo di informazioni nei casi in cui l’autorità competente di uno Stato membro abbia fondati motivi di presumere che possa
verificarsi una perdita di gettito fiscale in un altro Stato membro si applica già ai ruling fiscali che uno Stato membro emana, modifica o rinnova nei confronti di un contribuente specifico per quanto riguarda l’interpretazione o l’applicazione future di disposizioni fiscali che presentano una dimensione transfrontaliera. Tuttavia, lo scambio spontaneo efficace di informazioni sui ruling preventivi transfrontalieri e sugli accordi preventivi sui prezzi di trasferimento è ostacolato da numerose e importanti difficoltà di ordine pratico, quali il potere discrezionale di cui dispone lo Stato membro di emanazione per decidere quali altri Stati membri debbano essere informati. Pertanto, le informazioni scambiate dovrebbero, se del caso, essere accessibili a tutti gli altri Stati membri
...”.
(6) Ai sensi della proposta di direttiva per “ruling preventivo transfrontaliero” dovrà intendersi “... un accordo, una comunicazione o qualsiasi altro strumento o azione con effetti simili, anche emanato, modificato o rinnovato nel contesto di un audit fiscale, e
che soddisfa le seguenti condizioni: a) è emanato, modificato o rinnovato dal governo o dall’autorità fiscale di uno Stato membro,
o per conto di essi, o dalle ripartizioni territoriali o amministrative dello Stato membro, comprese le autorità locali, indipendentemente dal fatto che sia effettivamente usato o no; a bis) è emanato, modificato o rinnovato nei confronti di una determinata persona o di un gruppo di persone e tale persona o gruppo di persone ha il diritto di invocarlo; b) riguarda l’interpretazione o l’applicazione di una disposizione giuridica o amministrativa concernente l’amministrazione o l’applicazione di normative nazionali in
materia di imposte dello Stato membro o delle ripartizioni territoriali o amministrative dello Stato membro, comprese le autorità locali; c) è correlato a un’operazione transfrontaliera oppure riguarda la questione se le attività svolte da una persona in un’altra giurisdizione costituiscano una stabile organizzazione; e d) è emanato in via preliminare rispetto alle operazioni o alle attività in un’altra giurisdizione che potenzialmente costituiscono una stabile organizzazione o alla presentazione di una dichiarazione fiscale relativa al periodo in cui l’operazione o la serie di operazioni o le attività hanno avuto luogo. L’operazione transfrontaliera può comprendere, senza essere limitata a tali elementi, la realizzazione di investimenti, la fornitura di beni, servizi, finanziamenti o l’utilizzo
di beni materiali o immateriali e non comporta necessariamente la partecipazione diretta della persona destinataria del ruling preventivo transfrontaliero ...”.
(7) Ai sensi della proposta di direttiva per “accordo preventivo sui prezzi di trasferimento” si intenderà “... un accordo, una comunicazione o qualsiasi altro strumento o azione con effetti simili, anche emanato, modificato o rinnovato nel contesto di un audit
fiscale, e che soddisfa le seguenti condizioni: a) è emanato, modificato o rinnovato dal governo o dall’autorità fiscale di uno o più
Stati membri, o per conto di essi, comprese le rispettive ripartizioni territoriali o amministrative e le autorità locali, indipendentemente dal fatto che sia effettivamente usato o no; b) è emanato, modificato o rinnovato nei confronti di una determinata persona
o di un gruppo di persone e tale persona o gruppo di persone ha il diritto di invocarlo; e c) stabilisce, preliminarmente alle operazioni transfrontaliere fra imprese associate, una serie di criteri adeguati per la fissazione dei prezzi di trasferimento applicabili a tali
operazioni o determina l’attribuzione degli utili a una stabile organizzazione. Le imprese sono associate quando un’impresa partecipa direttamente o indirettamente alla gestione, al controllo o al capitale di un’altra impresa o le stesse persone partecipano direttamente o indirettamente alla gestione, al controllo o al capitale delle imprese. I prezzi di trasferimento sono i prezzi ai quali un’impresa trasferisce beni fisici e immateriali o fornisce servizi a imprese associate e la “fissazione dei prezzi di trasferimento” deve essere interpretata nello stesso senso ...”.
(8) Si veda l’art. 8 bis, par. 5, che verrà introdotto nel testo della Dir. 2011/16/UE, una volta che la proposta di direttiva verrà
adottata.
(9) L’art. 8 bis, par. 6 ter, che verrà introdotto nel testo della Dir. 2011/16/UE, una volta che la proposta di direttiva verrà adottata, prevede quanto segue: “... Le informazioni di cui al paragrafo 5, lettere a), b), c) ed e), non sono comunicate alla Commissione
europea ...”, cioè le informazioni relative a “... a) [l’]identificazione della persona, diversa da una persona fisica, e, se del caso, del
gruppo di persone cui appartiene; b) [la] sintesi del contenuto del ruling preventivo transfrontaliero o dell’accordo preventivo sui
prezzi di trasferimento, compresa una descrizione delle pertinenti attività commerciali o delle operazioni o serie di operazioni, fornita in termini astratti, senza comportare la divulgazione di un segreto commerciale, industriale o professionale, di un processo
commerciale o di informazioni la cui divulgazione sarebbe contraria all’ordine pubblico; c) la descrizione dell’insieme dei criteri uti-
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Le Società 1/2016
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Società e Unione europea
Sintesi
gli Stati membri saranno chiamati a scambiarsi in maniera automatica ed obbligatoria dovranno essere anche regolarmente comunicate alla Commissione, affinché quest’ultima possa monitorare l’attuazione della proposta di
direttiva e assicurarsi che gli Stati membri adempiano ai propri doveri. Al fine di agevolare lo scambio automatico
delle informazioni di base tra gli Stati membri, la proposta di direttiva autorizzerà la Commissione ad adottare le
modalità pratiche necessarie per standardizzare la comunicazione di tali informazioni secondo la procedura stabilita nella Dir. 2011/16/UE e per la definizione di un formulario tipo. Tale procedura dovrebbe essere utilizzata anche per l’adozione di ulteriori modalità pratiche per l’attuazione dello scambio di informazioni, come la specificazione dei requisiti linguistici applicabili allo scambio di informazioni per mezzo di tale formulario tipo.
Nel contesto di operazioni fiscali di dimensione sempre più transfrontaliera, rendere obbligatorio lo scambio automatico di informazioni relative ai ruling fiscali preventivi transfrontalieri e agli accordi preventivi sui prezzi di trasferimento consentirà agli Stati membri di ridurre l’elusione, la frode e l’evasione fiscali, migliorando sensibilmente la loro cooperazione in materia e dissuadendoli dall’utilizzo dei ruling fiscali come strumento di frode. Infatti la
previsione di tale obbligo garantirà agli Stati membri di avere a disposizione le informazioni necessarie per proteggere le proprie basi imponibili, individuare efficacemente le imprese che cercano di eludere le tasse e di adottare le misure necessarie in risposta. Inoltre si prevede che tale obbligo dissuaderà le autorità tributarie nazionali
dall’offrire alle imprese multinazionali un trattamento fiscale selettivo, in quanto questo sarà soggetto al controllo
delle loro omologhe negli altri Stati membri, così da poter garantire una più sana concorrenza in campo fiscale.
Gli Stati membri dovranno recepire le nuove regole introdotte dalla proposta di direttiva nella loro legislazione nazionale entro la fine del 2016, cosicché queste siano applicabili dal 1° gennaio 2017. La proposta di direttiva prevede che, una volta recepite nella legislazione nazionale, le nuove disposizioni saranno applicabili ai ruling fiscali
preventivi transfrontalieri e agli accordi preventivi sui prezzi di trasferimento emanati, modificati o rinnovati fino a
cinque anni prima della data prevista per la loro entrata in vigore (i.e. 1° gennaio 2017).
lizzati per determinare il metodo di fissazione dei prezzi di trasferimento o il prezzo di trasferimento stesso nel caso di un accordo
preventivo sui prezzi di trasferimento; e) l’identificazione delle persone, diverse dalle persone fisiche, negli altri eventuali Stati
membri che possono essere interessate dal ruling preventivo transfrontaliero o dall’accordo preventivo sui prezzi di trasferimento
(indicare a quali Stati membri le persone interessate sono legate) ...”.
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Indici
Le Società
INDICE DEGLI AUTORI
Michea Pietro
Avvocato in Bruxelles
Bei Giacomo
Avvocato in Firenze
Osservatorio comunitario.................................
Controllo esterno e responsabilità da direzione e
coordinamento .............................................
76
Bonavera Enrico Erasmo
Avvocato in Genova
Compravendita di azioni e dolo incidente ..............
57
Bonfante Guido
Professore ordinario di Diritto commerciale nell’Università degli studi di Torino
Il privilegio alle cooperative di produzione e lavoro...
49
Busani Angelo
Notaio in Milano
Osservatorio Consob ......................................
113
Carbone Vincenzo
Presidente Emerito onorario della Suprema Corte di Cassazione
Osservatorio di giurisprudenza di legittimità...........
107
Civerra Enrico
Consulente legale in Ravenna
Modifica di fatto e modifica formale dell’oggetto sociale: per l’esercizio del recesso occorre sempre una
delibera assembleare......................................
64
De Luca Nicola
Professore Associato di diritto commerciale e delle assicurazioni Seconda Università degli Studi di Napoli, Dipartimento di Giurisprudenza
La riserva ‘negativa’ per azioni proprie in portafoglio ...
5
Mina Giulia
Avvocato in Brescia
Problematiche relative alle disfunzioni decisionali dei
soci nelle società di capitali ..............................
Osservatorio Consob......................................
Oggetto e limiti del controllo notarile sulle delibere
straordinarie.................................................
L’art. 2497 e la responsabilità della capogruppo nei
confronti dei soci e creditori sociali della società eterodiretta: un rimedio risarcitorio .........................
Zucconi Galli Fonseca Elena
Professore ordinario Diritto processuale civile di Dipartimento di Scienze Giuridiche presso l’Università di Bologna
Clausola compromissoria statutaria e fallimento del
socio .........................................................
10 settembre 2015, n. 17950............................
8 settembre 2015, n. 17794 .............................
8 settembre 2015, n. 17787 .............................
31 agosto 2015, n. 17333 ................................
12 giugno 2015, n. 12254 ................................
Giuffrè Romilda
Avvocato in Napoli
Corte d’Appello
Osservatorio di giurisprudenza di legittimità...........
Bologna 24 giugno 2015..................................
Milano 5 marzo 2015, n. 1015 ...........................
Macrı̀ Ublada
Magistrato in Napoli
Il recesso del socio nelle società per azioni e nelle
società a responsabilità limitata .........................
Le Società 1/2016
89
Cassazione civile
16 ottobre 2015, n. 20951................................
107
27
Stabilini Alessandra
Avvocato in Milano e Ricercatore di Diritto commerciale
nell’Università degli Studi di Milano
Osservatorio di giurisprudenza di merito...............
109
30 ottobre 2015, n. 43820................................
117
45
Simonetti Hadrian
Magistrato Consiglio di Stato
Difetto di interesse del socio ad impugnare il bilancio: una applicazione del principio di continuità dei
bilanci ........................................................
Osservatorio fiscale........................................
113
Salafia Vincenzo
Presidente aggiunto onorario della Corte di cassazione
INDICE CRONOLOGICO
DELLA GIURISPRUDENZA
Gabelli Massimo
Dottore commercialista in Milano
13
Portolano Alessandro
Avvocato in Milano
Fainelli Federica
Dottoressa Magistrale in Giurisprudenza e, Cultrice della
materia presso la cattedra di Diritto Commerciale della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
33
123
121
117
107
107
108
107
25
114
31
Tribunale
Milano 4 novembre 2015.................................
98
Milano 25 settembre 2015 ...............................
110
43
127
Indici
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Le Società
Modena 14 luglio 2015....................................
Milano 6 luglio 2015 .......................................
Torino 3 luglio 2015........................................
Torino 11 giugno 2015 ....................................
Torino 13 marzo 2015 .....................................
Napoli 11 marzo 2015 .....................................
Catania 26 febbraio 2015 .................................
Napoli 25 novembre 2014 ................................
47
52
111
110
109
62
73
84
Commissioni tributarie
Milano 5 ottobre 2015, n. 7913..........................
117
INDICE CRONOLOGICO
DELLA PRASSI
Risoluzione 15 ottobre 2015, n. 86/E ...................
118
119
Consob
Delibera 16 luglio 2015, n. 19246 .......................
Delibera 10 agosto 2015, n. 19318 .....................
113
116
Ministero dello Sviluppo
Comunicato 30 luglio 2015 ...............................
120
INDICE ANALITICO
Gruppi di società
Direzione e coordinamento
Responsabilità
L’art. 2497 e la responsabilità della capogruppo nei
confronti dei soci e creditori sociali della società sottoposta: un rimedio risarcitorio (Cass., sez. I, 12 giugno 2015, n. 12254) commento di H. Simonetti .....
25
Controllo esterno e responsabilità da direzione e
coordinamento (Trib. Catania 26 febbraio 2015) commento di G. Bei ............................................
73
Intermediazione finanziariaria
Sanzioni amministrative
Opposizione promossa a norma dell’art. 195 del Tuf
avverso la delibera Consob n. 17894 del 27 luglio
2011 di sanzione amministrativa pecuniaria (App.
Bologna 24 giugno 2015, decr. - Osservatorio Consob)...........................................................
114
Applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie
nei confronti di taluni esponenti aziendali, nonché, a
titolo di responsabilità solidale, della società per violazione dell’art. 18, comma 1, del Tuf (Delibera del
16 luglio 2015 n. 19246 - Osservatorio Consob)......
113
Offerta al pubblico di acquisto
Prezzo
Banche
Delibera della consob sugli acquisti da computare
nel calcolo del prezzo di un’offerta pubblica d’acquisto (Delibera 10 agosto 2015, n. 19318 - Osservatorio Consob)..................................................
Gestione patrimoniale
Responsabilità
Qualità dell’investitore e responsabilità della banca
(Cass., sez. I, 31 agosto 2015, n. 17333 - Osservatorio di giurisprudenza di legittimità).......................
110
Mercati finanziari
Agenzia delle Entrate
Risoluzione 15 ottobre 2015, n. 87/E ...................
Impugnazione della deliberazione di approvazione
del bilancio. Arbitrabilità. Qualità di socio (Trib. Torino, sez. impr., 11 giugno 2015 - Osservatorio di giurisprudenza di merito) .....................................
107
116
Reati tributari
Rateizzazione del debito
Bilancio
Sequestro per equivalente
In caso di accordo con l’Amministrazione finanziaria
per la rateizzazione del debito tributario il sequestro
per equivalente deve essere ridotto (Cass. 30 ottobre 2015, n. 43820 - Osservatorio fiscale) .............
Impugnativa di bilancio
Arbitrabilità
Non compromettibili ad arbitri le controversie in tema di approvazione del bilancio (Cass., sez. VI, 10
settembre 2015, n. 17950 - Osservatorio di giurisprudenza di legittimità)...................................
121
Regime fiscale
107
Accertamento
Interesse ad agire
Difetto di interesse del socio ad impugnare il bilancio: una applicazione del principio di continuità dei
bilanci (App. Milano 5 marzo 2015, n. 1015) commento di F. Fainelli.........................................
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Termini
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Non opera il raddoppio dei termini di accertamento
se la notizia di reato è stata notificata successivamente allo spirare dei suddetti termini (Comm. trib.
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Indici
Le Società
prov. Milano, 5 ottobre 2015, n. 7913 - Osservatorio
fiscale) .......................................................
117
Fallimento
Agevolazioni tributarie
Insinuazione al passivo
Patent box
Patent Box: il comunicato in Gazzetta Ufficiale (Ministero dello Sviluppo - Comunicato 30 luglio 2015 Osservatorio fiscale) .......................................
Società di capitali
120
Equitalia: domanda di insinuazione ‘‘ultratardiva’’
(Cass., sez. I, 8 settembre 2015, n. 17787 - Osservatorio di giurisprudenza di legittimità) .................
108
Imposte dirette
Recesso
Art bonus
Esercizio del diritto
L’Agenzia delle Entrate chiarisce il regime dell’Art bonus per le fondazioni bancarie (Agenzia delle Entrate, Risoluzione 15 ottobre 2015, n. 87/E - Osservatorio fiscale) ..............................................
Modifica di fatto e modifica formale dell’oggetto sociale: per l’esercizio del recesso occorre sempre una
delibera assembleare (Trib. Napoli, sez. III, 11 marzo
2015) commento di E. Civerra ...........................
62
Il recesso del socio nelle società per azioni e nelle
società a responsabilità limitata, di Ubalda Macrı` ....
98
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Impianti fotovoltici
L’Agenzia delle Entrate chiarisce le regole di tassazione dell’energia elettrica da impianti fotovoltaici
prodotta da imprenditori agricoli (Agenzia delle Entrate, Risoluzione 15 ottobre 2015, n. 86/E - Osservatorio fiscale) ..............................................
Scioglimento
Cause
119
Imposte indirette
Iva
Ammissibile il rimborso IVA per utilizzatore di un bene in leasing (Cass. 16 ottobre 2015, n. 20951- Osservatorio fiscale) ..........................................
Problematiche relative alle disfunzioni decisionali dei
soci nelle società di capitali, di G. Mina ................
13
Società in accomandita semplice
117
Accomandatari
Esclusione
Reati societari
Impugnazione della delibera assembleare di esclusione del socio accomandatario (Trib. Torino, sez.
Impr., 13 marzo 2015 - Osservatorio di giurisprudenza di merito).................................................
False comunicazioni sociali
109
Responsabilità
Falsità del bilancio, responsabilità degli amministratori ed onere della prova (Cass., sez. I, 8 settembre
2015, n. 17794 - Osservatorio di giurisprudenza di
legittimità) ...................................................
Trasformazione
Modifiche allo statuto
107
Società a responsabilità limitata
Trasformazione di società in accomandita semplice
in società a responsabilità limitata (Trib. Milano, sez.
Impr., 4 novembre 2015 - Osservatorio di giurisprudenza di merito) ............................................
110
Soci
Società per azioni
Potere di controllo
Potere di controllo del socio non amministratore
(Trib. Torino, sez. impr., 3 luglio 2015 - Osservatorio
di giurisprudenza di merito)...............................
Assemblea straordinaria
Deliberazioni
111
Società cooperative
Oggetto e limiti del controllo notarile sulle delibere
straordinarie (Trib. Milano, sez. impr., 25 settembre
2015, decr.) commento di V Salafia.....................
Cooperativa di produzione e lavoro
Atto costitutivo e statuto
Privilegio
Clausola compromissoria statutaria
Il privilegio alle cooperative di produzione e lavoro
(Trib. Modena, sez. I, 14 luglio 2015, n. 1307) commento di G. Bonfante .....................................
Clausola compromissoria statutaria e fallimento del
socio (Trib.Napoli, sez. impr., 25 novembre 2014)
commento di E. Zucconi Galli Fonseca ................
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Indici
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Le Società
Azioni
Unione europea
Compravendita
Fiscalità
Compravendita di azioni e dolo incidente (Trib. Milano, sez. impr., 6 luglio 2015) commento di E. E. Bonavera ........................................................
Scambio automatico di informazioni
52
Operazioni sulle azioni proprie
La riserva ‘negativa’ per azioni proprie in portafoglio,
di N. de Luca................................................
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5
Gli Stati membri trovano l’accordo politico per rendere obbligatorio lo scambio automatico di informazioni relative ai ruling fiscali (Proposta di direttiva del
Consiglio del 18 marzo 2015 recante modifica della
direttiva 2011/16/UE - Osservatorio comunitario )....
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Le Società 1/2016
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