Giurisprudenza
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Avv. Michele Arabia - Penalistadel Foro di Roma
Il concorso del professionista
nei reati propri dell’imprenditore
e del contribuente
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I
n linea di principio, la maggior parte
dei reati societari, fallimentari e tributari sono di tipo proprio; essi possono, cioè, essere commessi unicamente
dal soggetto, c.d. intraneus, che riveste una
posizione qualificata (imprenditori, amministratori, direttori generali, sindaci,
contribuenti, ecc.). In taluni casi, tuttavia,
chi si trova a svolgere funzioni di gestione
o consulenza previste dalle leggi societarie,
fallimentari o tributarie, a presidio dell’ordinario svolgimento dell’attività economica
o a tutela dell’interesse patrimoniale dello
Stato alla riscossione dei tributi, può ledere
tali interessi in presenza o meno di una valida investitura formale, quale soggetto c.d.
extraneus. È il caso dei consulenti e dei professionisti (commercialisti, consulenti contabili, avvocati, ecc..) dai cui suggerimenti
e dal supporto tecnico fornito agli imprenditori agli amministratori o ai contribuenti, può scaturire la realizzazione di illeciti.
In taluni casi essi possono concorrere negli
eventuali reati commessi dai clienti. Tralasciando, la disamina della c.d. responsabilità
diretta del professionista, a fronte della quale il
soggetto risponderà, nell’ambito dei reati societari, come colui che ha esercitato di fatto i
poteri di gestione tipici dell’amministratore
di diritto in maniera continuata e significativa e, pertanto, inquadrabile come soggetto
intraneus, nel presente scritto verrà, invece,
analizzata la sola forma di responsabilità concorsuale, ossia quel tipo di responsabilità che
vede il professionista-consulente, soggetto
estraneo alla compagine sociale.
Quando i reati societari, i reati fallimentari o
tributari, vedranno il coinvolgimento, sia del
soggetto intraneus, sia del professionista, si
applicherà la disciplina prevista dall’art. 110
c.p. in tema di “concorso di persone nel reato”, secondo cui, quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse
soggiace alla pena per questo stabilita. L’apporto dei singoli concorrenti può essere di
carattere materiale oppure morale; quest’ultimo può manifestarsi nelle diverse forme
della determinazione, istigazione o rafforzamento del proposito criminoso altrui. Affinchè ricorra la compartecipazione è necessario inoltre che il soggetto abbia fornito un
contributo causale alla verificazione del fatto
criminoso. Vista la rilevanza dei compiti che
nei suddetti settori vengono demandati al
professionista, appare legittimo porsi il problema delle eventuali responsabilità penali in
cui lo stesso può incorrere nell’espletamento
della propria attività, e se tali responsabilità
siano da considerare esclusive o in concorso
con l’intraneus.
Uno dei principi fondamentali del diritto
penale è quello della responsabilità personale. In presenza di una fattispecie delittuosa,
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si dovrà soggettivizzare la condotta-reato,
in modo da pervenire all’attribuzione della
responsabilità di chi ha commesso o non ha
impedito il reato in presenza di un obbligo
giuridico che altri lo commettessero. Tale
necessario principio deve valere anche per il
diritto penale societario, fallimentare e tributario, ragion per cui, anche in dette discipline
occorre prefiggere un parametro da cui ricavare se i suggerimenti professionali offerti dai
professionisti travalichino nella consulenza
illecita.
Per quanto concerne i reati tributari occorre
far presente come essi siano punibili soltanto
a titolo di dolo e non di colpa;
ciò significa che per la ricorrenza di queste fattispecie è
necessario che il soggetto attivo (professionista o intraneus)
si sia rappresentato ed abbia
voluto porre in essere il reato.
In particolare, il professionista potrà essere chiamato a rispondere quando abbia dato
intenzionalmente un qualsiasi
contributo causale, materiale o morale, alla realizzazione
del fatto delittuoso del cliente,
agevolandone la condotta o
determinandone o rafforzandone la volontà con un proprio comportamento cosciente e volontario; rimangono
dunque escluse eventuali condotte di natura colposa, quali
errori materiali o concettuali
dovuti a negligenza o imperizia. Ci si è chiesti in dottrina
se per aversi concorso sia sufficiente un semplice consiglio o se sia necessario dare specifiche istruzioni sulle modalità per porre in essere il reato tributario. Su
tale versante la giurisprudenza più risalente
asseriva che il mero consiglio tecnico potesse semmai costituire una semplice violazione
deontologica, pretendendo un contributo
più incisivo affinché si configurasse il concorso in capo al professionista. L’orientamento
più recente - tracciando una sorta di linea di
demarcazione, superata la quale il professionista risponde in proprio, al limite come
concorrente - si contraddistingue per aver
ulteriormente puntualizzato l’argomento
(Cass. n. 9916/2010): il professionista può
essere chiamato a rispondere penalmente in
concorso soltanto se è riconoscibile un suo
comportamento concreto nella realizzazione
dell’illecito. La concretezza della condotta ricorrerà, ad esempio, se il commercialista ha
provveduto personalmente a mantenere una
contabilità incompleta o infedele, ha emesso
fatture su operazioni inesistenti per conto del
cliente o ha concorso con lui a macchinare
gli artifici per supportare una dichiarazione
fraudolenta. Viceversa, qualora la consulenza
professionale sia consistita nell’indicare alternative ad una condotta incriminata dalla legge, quale comodo espediente non in contrasto con la legge penale, tale comportamento
non implicherà nè l’istigazione né il concorso. Sussistono dei casi in cui il professionista
fiscale si adopera in un modus operandi in cui
non ricorre la colpevolezza dell’intraneus.
In parziale contrasto con l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’istituto della delega di funzioni non è idoneo a traslare gli obblighi tributari, dal momento che questi sono
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e rimangono obblighi personali del cliente,
alcune sentenze hanno affermato la esclusiva responsabilità del professionista, (e non
ad es. dell’imprenditore o del contribuente)
per omessa presentazione delle dichiarazioni
fiscali dei propri clienti quale autore mediato
di tali omissioni, avendo indotto in errore i
clienti stessi circa l’avvenuto adempimento
degli obblighi tributari. Si è, per esempio,
indicata la esclusiva responsabilità del com14
mercialista che era stato incaricato di tenere
le scritture contabili e di presentare le dichiarazioni e che aveva, invece, omesso la presentazione delle dichiarazioni IVA a mezzo di
una condotta idonea ad indurre in errore la
titolare della società interessata, sulla circostanza che questi avesse correttamente adempiuto agli obblighi tributari gravanti sulla
società e ad esso delegati; il tutto in misura
tale da far ritenere alla medesima di essere in
regola nei confronti del Fisco.
Si tratta di ipotesi in cui si è ritenuto, da un
lato, che non ricorre la colpevolezza del cliente delegante dal momento che questi non era
a conoscenza della violazione da parte del
delegato-professionista, dall’altro, si inserisce
un quid pluris estraneo alla delega di funzioni, ossia la condotta fraudolenta del delegato.
Ad ulteriore sostegno di una sorta di scriminante in capo al cliente, si può aggiungere
che in materia tributaria, data la complessità
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degli oneri fiscali, la mole e la mutevolezza
della disciplina, il legislatore ha ritenuto opportuno ribadire il principio della scusabilità
dell’ignoranza inevitabile della legge.
Anche in materia di reati fallimentari, e più
specificamente in tema di bancarotta, è pacifica l’opinione secondo la quale terzi soggetti
possano concorrere con l’intraneus nella consumazione del reato, di tal che troverà applicazione la disciplina del concorso di persone,
ed il terzo professionista sarà punibile ove abbia offerto un contributo necessario o agevolatore alla realizzazione del reato che abbia il
requisito della concretezza.
Il concorso del commercialista, dell’avvocato
o del consulente fiscale nei fatti di bancarotta
ricorrerà in termini di concretezza quando,
consapevoli dei propositi distrattivi dell’imprenditore o degli amministratori della società,
forniscano consigli sui mezzi giuridici idonei
a sottrarre beni ai creditori o li assistano nella
conclusione dei relativi negozi ovvero ancora
svolgano attività dirette a garantire l’impunità
o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o
con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui
proposito criminoso (Cass. sez. V, 12.01.2004,
n. 569, rv 226973 CED).
Sul tema la giurisprudenza del Supremo
Collegio si è posta, tutto sommato, in linea
di continuità negli anni. Da una pronuncia
della V° Sezione pubblicata il 1 agosto 2011
(n. 30412/11) si ricava che si configura l’ipotesi concorsuale con l’intervento del professionista, che insieme all’amministratore della
società provvede alla manomissione patrimoniale consistita nella cessione mascherata
degli immobili, dietro cui si celano vendite
simulate e l’incasso del denaro scaturito dalle dismissioni. Il commercialista, insomma,
risponde del reato di bancarotta in concorso con l’amministratore purché, pur terzo
rispetto alla società fallita, contribuisca a
realizzare un segmento efficace del risultato
illecito. Anche in tal caso, ad avviso di chi
scrive, il contributo concreto fornito dal professionista traccia la linea di demarcazione tra
consulenza lecita ed illecita.
Sul punto appare interessante l’opinione
offerta da una Commissione nominata dal
Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti per lo studio dei problemi di diritto
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penale dell’economia (Il giornale dei Dottori
Commercialisti 1988, 4, 43), che ha stabilito
che non vi sarà responsabilità a titolo di concorso, quando il dottore commercialista si
trovi ad operare su elementi forniti esclusivamente dal cliente. In particolare, se le inesattezze e le falsità dei dati non sono conosciute,
né riconoscibili dal professionista sarà solo il
cliente a rispondere dell’eventuale reato.
Su tale solco interpretativo si è ritenuto come
non vi sia responsabilità penale allorchè il
consulente si limiti a prospettare diverse soluzioni giuridiche, illustrandone anche i pro
ed i contro sotto il profilo penale, per consentire poi al cliente di autodeterminarsi liberamente con cognizione di causa; questa
attività, infatti, rientra nell’ambito dei servizi
professionali ad esso propri e la circostanza
che il consulente sia consapevole di quanto,
successivamente, deciso dal cliente costituisce una connivenza priva di rilevanza, non
avendo questi alcun dovere di impedire il reato (G. Soana, I reati tributari, Giuffrè 2009).
Con riferimento ai reati societari, ed in particolare al reato di falso in bilancio, l’ipotesi
che più frequentemente vede la responsabilità del professionista ricorre quando questi
predispone, prima della redazione e presentazione del bilancio, i dati relativi alla contabilità aziendale in modo tale da supportare
la falsa rappresentazione della realtà sociale
offerta dal bilancio stesso. In tale situazione
egli ha la pregressa conoscenza della falsità
dei dati e risponderà in concorso con gli amministratori della società. Sovente, a discolpa
dell’operato del professionista viene addotto
che egli non fosse a conoscenza della falsità
dei dati. In tale circostanza la responsabilità
degli elementi fittizi iscritti in bilancio sarà
da ricondurre in capo all’amministratore reticente secondo il combinato disposto di cui
agli artt. 47 e 48 c.p., secondo cui “l’errore sul
fatto che costituisce reato esclude la punibilità
dell’agente..”,”.. se l’errore sul fatto che costituisce reato è determinato dall’altrui inganno
.. del fatto commesso dalla persona ingannata
risponde chi l’ha determinata a commetterlo”.
Ovviamente, affinché operi la scriminante si
dovrà trattare di dati la cui falsità non possa
essere palesemente rilevata dal professionista,
poiché in caso contrario egli potrà essere ri-
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tenuto consapevole della non veridicità delle
informazioni fornite dall’amministratore che
sono state acriticamente riportate in bilancio.
L’estraneità del professionista al reato di false
comunicazioni sociali sarà inoltre ravvisabile
se questi viene a conoscenza della falsità dei
dati successivamente alla consumazione del
reato. In tal caso, non rivestendo alcuna posizione di garanzia, ossia non avendo alcun dovere di impedimento giuridicamente rilevante, il professionista non correrà il rischio di
essere considerato penalmente responsabile
per l’attività consulenziale successivamente
prestata, sempre che la consulenza medesima
non presenti gli obbiettivi minimi del concorso, o, se antecedentemente promessa, non
abbia rafforzato il proposito di delinquere da
parte del cliente. Caratterizzata nei suddetti
termini l’attività prestata successivamente al
deposito del bilancio sarà da considerare connivenza non punibile.
In conclusione, l’opportuna chiave di lettura per ritenere, o meno, configurabile la responsabilità del consulente professionista si
rintraccia nel grado di concretezza del suggerimento illecito fornito al cliente e da questi
eventualmente utilizzato per commettere il
reato. Tale linea di demarcazione contraddistinta dall’aver, o meno, offerto la via per
adottare l’espediente contra legem, deve rappresentare un punto fermo al fine di garantire
il sereno esercizio della professione, che potrebbe essere soffocata nel caso in cui in tale
disciplina si giungesse ad una sproporzionata
dilatazione del concetto di responsabilità.
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