L’UCCELLO CON TRE ALI Ragionamento intorno alle filastrocche di BRUNO TOGNOLINI Prima ala IL SUONO : LA RIMA Scrivere filastrocche assomiglia al gioco del calcio. Giocando a calcio si corre col pallone al piede, ma più spesso lo si “allunga”, cioè lo si calcia avanti – anche lontano – e lo si insegue per raggiungerlo, e calciarlo avanti ancora. Scrivendo filastrocche si fa qualcosa di simile: si pensa il primo verso, che finisce con una parola; si cerca un’altra parola che fa rima con questa, la si lancia avanti come una palla fino in fondo al secondo verso, che è ancora vuoto; e poi si procede riempiendo di parole questo vuoto fino a raggiungere quella palla. Ed ecco il secondo verso che fa rima col primo. Una filastrocca mia incomincia così: Apro la bocca e dico la rima… Una filastrocca popolare, della serie delle “canzoni alla rovescia”, incomincia così: Il marito che avevo era piccino… Bene. Cerchiamo le rime, le parole-palla da lanciare avanti e poi inseguire per fare il secondo verso. Io trovo la parola “prima”, che fa rima con “rima”, e l’ignoto autore della filastrocca popolare trova la parola “vino”, che fa rima con “piccino”. Lanciamo avanti queste parole. La strada che dobbiamo fare per raggiungerle potremmo figurarla così. Apro la bocca e dico la rima … … … … … … … prima Il marito che avevo era piccino … … … … … … … … vino Però, attenzione: chi gioca al calcio sa bene che non si tratta di calciare avanti la palla a caso e correrle dietro. C’è ben di più: si va in una direzione precisa, che corrisponde a un’intenzione precisa. Io posso voler andare verso la rete avversaria per tentare di segnare, o verso il centrocampo per costruire gioco, o addirittura indietro per alleggerire… Allora, muoviamoci per raggiungere la parola che abbiamo lanciato avanti, in modo però da dirigerci non dove capita, ma “dove vogliamo noi”: verso ciò che vogliamo dire, il Senso che vogliamo dare alla filastrocca. Il Senso, che è una delle due ali con cui volano, se volano, le poesie. Al mio secondo verso io non riesco ancora a dare proprio il Senso che volevo, perché il Suono – che è l’altra ala – mi fa i dispetti. Quella parola-palla che ho lanciato avanti è difficile, dispettosa: che verso si può fare che finisca con la parola “prima”? “Non viene dopo e non viene prima”? Sì, suonerebbe bene, ma… non c’entra molto con ciò che volevo dire. Allora rifletto, vediamo: “prima”… Cosa accade “prima”? Apro la bocca e dico la rima. Prima che io dicessi la rima, prima che io parlassi, cosa c’era? C’era silenzio. E se io parlo, non c’è più. Fugge, perché io parlo. Ecco! Apro la bocca e dico la rima Fugge il silenzio che c’era prima Sì, questo può funzionare, c’entra abbastanza col Senso che volevo dare alla filastrocca. Però attenzione: qui accade una cosa bellissima, che è il cuore della poesia: quel cuore che è proprio a mezza via fra le due ali, fra Senso e Suono. State a vedere. Questi due versi suonano bene insieme. Ma possono suonare ancora meglio. Un modo per fare suonare meglio i versi è metterci dentro parole sorelle, che si assomigliano, parole assonanti che suonano simili, che si richiamano e suonano bene. Vediamo: “Apro la bocca e dico la rima / fugge il silenzio che c’era prima”. Ho due parole vicine: “rima/fugge”, una in coda al primo verso e una in testa al secondo. Se al posto di “fugge” trovassi una parola migliore… Eccola: “RIDE”! “Rima/ride” son parole sorelle, si assomigliano e suonano bene. Apro la bocca e dico la rima Ride il silenzio che c’era prima E guardate cos’è successo al Senso, a danzare col Suono! Il Silenzio ora non “fugge” più, ma “ride”! E questo è MOLTO più bello. Vi immaginate “il Silenzio che c’era prima” che ride contento per la rima che è stata detta? Non è molto più bello? E io non volevo dirlo, questo Senso, o non sapevo di volerlo dire: è il Suono che me l’ha suggerito! Proprio questo succede, lanciando le parole avanti e poi rincorrendole coi piedi dei versi: che saltano fuori cose diverse, e spesso molto più belle di quelle che volevo dire io. Insomma, così i miei primi due versi camminano bene, e vanno proprio dove volevo andare io. Vediamo ora dove voleva andare quell’altra filastrocca. Il marito che avevo era piccino … … … … … … … … vino Lo sa benissimo dove vuole andare. Vuole raccontare una di quelle belle e buffe storie “a rovescio”, dove tutto va al contrario di come deve, e in questo caso la storia di un marito piccolissimo. Allora vediamo: cosa c’entra un marito col vino? Semplice: nell’esperienza quotidiana di tante mogli filastrocchiere popolari, il marito beve il vino. Ma se è un marito piccino? Allora: Il marito che avevo era piccino E in un ditale ci beveva il vino Il gioco è fatto. Siamo quasi nella bellissima saga degli “Sgraffignoli” di Mary Norton. Si tratta di raccontare in versi un uomo minuscolo che si serve di oggetti minuscoli e impropri. Il marito che avevo era piccino E in un ditale ci beveva il vino Metteva dentro l’acqua una ciabatta E andava a remi come fosse in barca Con quattro morsi mangiava un marrone Faceva quattro passi per mattone Lo mandai a far legna in un boschetto E lui me ne tornò con uno stecco Andò nell’orto a coglier l’insalata Si mise a litigar con la lumaca L’ho mandai in cantina a prender vino Si mise a litigar col moscerino Lo mandai a letto per dormire Lo morse una pulce e lo fece morire Pace all’anima sua: molte filastrocche popolari hanno queste fini buffe e crudeli. E molte delle loro rime, come vedete, non sono proprio rime ma “assonanze”, cioè parole che hanno un suono simile ma non identico: “ciabatta/barca”, “insalata/lumaca”, “boschetto/stecco”. Sono molto usate, in poesia, e non sono sbagliate. Niente è “sbagliato” in poesia: tutt’al più è brutto, o meno bello, a seconda dei gusti e dello stile del maestro filastrocchiere. Io, per esempio, non uso mai assonanze, ma solo rime pure. La mia filastrocca infatti continua e finisce così. Apro la bocca e dico la rima Ride il silenzio che c’era prima Un filo brilla fra le parole Mare con mondo, luna con sole Un filo piccolo che tiene insieme Fiore con fiume, sole con seme E ora vicine le cose lontane Come le perle di belle collane Danzano in tondo, perché se tu vuoi Mondo fa rima con Noi Ma allora le filastrocche “tengono insieme” le cose lontane? Peccato, è finita l’ora. Ne parleremo nella prossima Lezione. Prima ala IL SUONO : IL RITMO Parole con un cuore di tamburo Mi sono chiesto perché le filastrocche, le belle filastrocche fatte bene, impongono il loro speciale incanto a chi le ascolta, a chi le dice, a chi le gioca, a chi le legge e a chi le fa. Perché ci ricordano i primi ritmi del nostro corpo, il battito del cuore e l’onda del respiro? Perché echeggiano le prime parole che abbiamo udito in vita nostra, nella lallazione e nelle rime di culla? Perché riflettono le prime cadenze del mondo, il pendolo di giorno e notte, di stagioni e lunazioni, dei moti degli astri? Tutte queste cose e anche altre. Nel libro“Il viaggiatore notturno” Maurizio Maggiani racconta di una festa in un villaggio tuareg sperduto nel Sahara, e di ragazze dalle unghie laccate di nero che suonano grandi e cupi tamburi di pelle di capra. La guida tuareg Jibril spiega che “… quei tamburi imitano la voce del cuore. Quei tamburi vengono suonati ogni volta che è necessario dare forza al cuore di qualcuno. Quando nasce un bambino, ad esempio, per il suo cuore e per il cuore della famiglia che lo crescerà. O quando un malato è così grave che il suo cuore non è più sufficiente a tenergli in petto la vita e gli è necessario un cuore esterno che lavori al posto del suo, troppo affaticato. Quando il tamburo suona per un bambino, dice ancora Jibril, al suo suono si abbeverano e traggono forza anche i cuori dei giovani che vogliono innamorarsi. ‘Abbeverarsi’, ha usato proprio questa parola”. Così è anche per le filastrocche, che sono parole che hanno un cuore. Precisamente, un cuore di tamburo. Anche loro col loro battere incoraggiano, intonano, assecondano il battere dei cuori che ne hanno bisogno. Per questo – pur senza aver più il vigore diretto che conservano in culture lontane, e nella nostra in anni lontani – ancor oggi le parole col cuore di tamburo, se quel tamburo è suonato bene, danno un piacere a chi le ascolta che va oltre ogni analisi. Nella prima chiacchierata abbiamo parlato della Rima. In questa seconda parleremo del Ritmo. Tamburi e violini Traccio, prima di ararlo, i contorni del campo. Io qui ragiono di filastrocche, cioè di poesie per bambini basate su una forte componente di rima e ritmo. Ci sono altri modi e mode di far poesia, anche bellissimi, anche adattissimi ai bambini, che trattano con molta libertà o ignorano del tutto rima e ritmo. Di quelle poesie suonate con altri strumenti, pianoforti o violini o giradischi, questa rivista chiamerà forse altri a parlare: io sono un poeta tamburino, e parlo di ciò che so. E purtroppo ecco subito il problema: pur parlando di ciò che so potrò dir poco, spiegare poco, e solo con l’aiuto di molti esempi. Come si fa, infatti, a imparare a suonare un tamburo? Pochi ragionamenti: si suona e si suona. E si sente suonare e suonare, e poi si risuona. E come si fa a imparare a sentirlo? A sentire e capire se il tamburo di una filastrocca è suonato bene, se ha forza e dà forza al cuore? E soprattutto come si fa a farlo sentire agli altri, per esempio ai propri alunni? Vediamo. Anzi, sentiamo. Tamburi lontani Sotto il ponte di Baracca C’è Pierino che fa la cacca… Trenta quaranta La pecora canta… Stella stellina La notte si avvicina… … E potremmo andare avanti per pagine, ma già molti libri lo fanno, quindi noi ci fermiamo. I tamburi di questi versi ci paiono subito suonati bene, incoraggiano e danno forza col loro battito al nostro cuore. Ma forse ciò accade perché li abbiamo sentiti, o ci pare di averli sentiti, infinite volte e da infiniti anni. Sono come Tamburi Lontani, tamburi degli antenati, che hanno acquisito sulla lunga via fino a noi la forza della durata, del ricordo, della ripetizione, della lontananza, e tante altre forze che travalicano la loro reale qualità metrica. Suonino bene o no, fatto sta che dentro di noi echeggiano bene. E allora merita usarli, quei tamburi, farli risuonare ancora nelle classi, in due modi: così come sono, nelle versioni originali, le cosiddette “filastrocche popolari”, che devono andare avanti anche solo per il merito di essere arrivate fin qui (chi siamo noi, per decretare la loro fine?); e nelle molte riscritture e rifacimenti. Molte filastrocche attuali, infatti, citano e si rifanno a queste antiche rime, perché da esse traggono forza, come lanciate da una rincorsa che parte da molto lontano. Ecco, per esempio, una filastrocca “remake” che ho scritto per la Melevisione. Sotto l’albero dei ricci C’è Tonino che fa i capricci Li fa lunghi, neri e brutti Sciupafiabe li mangia tutti Restano bucce, restano semi Restano corvi che fanno gli scemi Con un cartello che dice così: Tonio Cartonio, piantala lì! Tamburi del corpo Mano mano piazza Ci passò una lepre pazza… Cavallino arrò arrò Per la biada che ti do… Mi chiamo Renzo Lorenzo Asciugamano asciuga… Altre filastrocche, antiche e recenti, hanno cuori di tamburo che paiono suonare bene, con forza e ricchezza, forse anch’essi al di là del loro effettivo rigore metrico, e certamente al di là della loro ricchezza e compiutezza di senso. Perché anche questi ritmi traggono la loro forza altrove: dall’esser suonati col corpo e sul corpo. Non solo dalla bocca che dice o dall’occhio che legge, ma dal corpo che fa. E che fa con piacere, in un rapporto fra corpi dolce e positivo: piacere dell’amore genitoriale, piacere del gioco fra eguali. I tamburi di questi versi sono scanditi sulle dita della mano, i tratti del viso, le parti del corpo, affettuosamente toccate e strapazzate; sono ritmati facendo saltare il bambino sulle ginocchia, o con altre esilaranti acrobazie; sono battuti dalle mani che battono le mani dei compagni di gioco, con virtuosismi acrobatici, incroci, rapidi raddoppi, scambi palmo-dorso… Anche in questo caso, il “genere letterario” è (forse sempre sarà) florido e rigoglioso, e ben merita di essere coltivato in classe, leggendo e giocando le filastrocche “corporee”, tradizionali e non. E come? Ancora in due modi. Il primo: eseguendole fisicamente, e facendole eseguire dai bambini, nelle loro forme specifiche e native: le conte come conte, le filastrocche del viso e del corpo eseguendo i dovuti gesti, e le filastrocche coi virtuosismi di battimani chiamando i due bambini, o meglio le due bambine più brave e chiedendo loro di eseguirle davanti a tutti. L’imbarazzo per giochi e comportamenti che riportano a età ancora troppo vicine, può essere superato facendo leva sul distacco della “ricerca letteraria sul campo” (il loro campo!), della scoperta e custodia di forme a rischio di estinzione, come lontre allegre e incoscienti in riva al lago. E il secondo modo è un test per vedere se filastrocche “letterarie”, nate non per il gioco ma per altri scopi, hanno dentro qualche residuo di questo cuore-tamburo del corpo. Sottoporre le filastrocche di Piumini, Tognolini, Rodari, Carminati, e qualsiasi altra si ritiene che si presti, alla “prova-conta”, alla “prova-gioco”: se funzionano come conta, come gioco di battimani (magari inventandosi gesti e figure sui singoli versi), vuol dire che qualche traccia di cuore-temburo del corpo-poeta in quelle poesie c’era, e questa scansione del corpo-lettore rivela, risveglia, riaccende quel ritmo sepolto. Tamburi, timpani e bongos Aspettami Come oggi aspetta domani, aspettami E come semi i tuoi giorni, piantali E quando torno vedrai che fiori… Alè! Alè! Alè! Vai più in alto, scimpanzé! Dài! Dài! Dài! Dài! Elefante, ce la fai!… (frammenti di filastrocche mie, da puntate di Melevisione) Dïgo pessïgo – de natte natïgo Rïo Rieu – diféndite beu Rocca roccagna – faxeu de semenàgna… (da una filastrocca popolare ligure) O you that are so strong and cold, O blower, are you young or old? Are you a beast of field and tree, Or just a stronger child than me? (da una filastrocca sul vento di Robert Louis Stevenson) E anche qui ci fermiamo, perché ci sono già libri e libri che si sforzano, coi loro segnetti neri e senza voce, di far sentire i pignantamila tamburi diversi che possono essere suonati nel mondo dalle filastrocche. Come esistono rullanti, timpani, grancasse, bongos, e chissà quante altre fogge di tamburi, così, oltre le rime tradizionali e i loro rifacimenti e manierismi, oltre le rime del corpo e dei giochi, ci sono in giro infinite filastrocche, forse fin troppe, scritte e raccolte e offerte alle scuole in mille modi. Quali di esse fanno ballare davvero qualcosa nel cuore, anche se non sono antiche ma scritte oggi, anche se non son da giocare col corpo ma solo da dire e udire? Come fare a riconoscerle, a capirle? Tamburi della nostra voce C’è un solo modo: con la voce. Tutti i poeti dicono che tutte le poesie sono fatte per la voce; ma fra tutte, le filastrocche sono quelle che senza la voce non possono proprio vivere, sono proprio – è il caso di dirlo – lettera morta. Le filastrocche vanno lette e dette a voce alta, scandita, ritmata, la nostra voce alta che batte per cercare, cimentare, stuzzicare il loro tamburo, infila accenti e cesure dove le pare che vadano, strascina e accelera, sale e scende, si diverte e recita e gioca: e sente se funziona. La voce alta che dice a ritmo, non canta melodie ma scandisce ritmo, staccato e deciso e vivo come nel rap, come nelle conte e rime di gioco, è insieme la prova e la vita di ogni filastrocca. Le maestre dicevano una volta ai bambini che ripetevano le poesie: non dirla con la cantilena. E come dovrebbe dirla? Togliendo il Suono e rimarcando il Senso, come se fosse prosa? Ma non è prosa! E non è neanche “poesia”: è una filastrocca! Filastrocca è canto di gioia, cantilena è canto di noia: se il bambino fa cantilena si sta annoiando. Si annoia a dire a voce alta, “per dovere”, la stessa filastrocca che magari, usata come conta con gli amici, suonerebbe ben viva e saltellante. Con questo non voglio dire che le poesie vadano tutte eseguite a scuola in conta e gioco, certo che no. Ma, paradossalmente, è meglio la cantilena che la “prosa”, lo spegnimento totale di ogni ritmo. Dalla cantilena, che un suo tamburo di noia lo batte, si può risvegliare il tamburo di gioia: dalla prosa no. Giuseppe Caliceti, un poeta che è anche maestro elementare, è stato l’unico a notarlo, e mentre assisteva a un mio incontro con una sua scuola, a un certo punto ha detto ai bambini: guardategli il piede. Io avevo sempre cercato di nasconderlo… Ma il cuore-tamburo delle filastrocche, per vivere tutta la sua forza e contagiarla al nostro cuore, deve battere nella voce e, almeno un po’, almeno nella punta delle dita dei piedi, anche nel corpo. I greci e i latini, del resto, i versi li chiamavano “piedi”. Maestre, se dicendo le filastrocche ai vostri bambini non battete un po’ il piedino sotto la cattedra, ai vostri bambini non arriverà niente. E se invece lo battete, e con esso batte il tamburo del ritmo nei versi, e fa battere per invito al ballo quello del cuore dei nostri bambini, questo ci basta? No, non basta ancora. Noi vogliamo che si alzi in piedi e danzi anche la loro mente. Ma di questo, la prossima volta. (10878 battute) BOX FILASTROCCA DELLE ETÀ DEL CUORE RAI Tre, Melevisione, Puntata n. 122 “IL NIPOTE DEL RE”, del 3/4/2001 Ta-bum ta-bum, ta-bum Il cuore è una bestiola Che vive dentro te Che corre, nuota e vola E cresce insieme a te A un anno è un moscerino Che ronza piccolino Ma quattro anni dopo È svelto come un topo A dieci anni è matto E furbo come un gatto A venti anni ha fame E sonno come un cane A trenta ha il mondo in groppa Cavallo che galoppa Cinquanta è un lento bue Va per le strade sue A settanta è pesante Come un vecchio elefante E dopo? Chi viene dopo l'elefante? Dopo di lui c'è solo la balena Che fa zampilli nella luna piena Seconda ala IL SENSO Rime di mamme e di nonne “FILASTROCCA: Composizione cadenzata con versi brevi, rimati o in assonanza, solitamente priva di senso compiuto, recitata o cantata spec. per divertire o far addormentare i bambini”. Così il De Mauro, Dizionario della lingua italiana. In altri dizionari la definizione varia di poco. La filastrocca è “solitamente priva di senso”, dunque, e serve per divertire o addormentare. Bene, vediamo come addormentavano i loro bambini due donne sarde. Devo queste due filastrocche, e soprattutto la lettura che ne faremo, a Giacomo Mameli, illuminato giornalista sardo. Riferita da Zia Consola Melis, di anni 87 1. Dormi pippiu 2. C'esti unu niu 3. Asutt'e su steddu 4. Su pilgioneddu 5. Boli pappai 6. Ma nudda dinai 7. Boli buffai 8. Ma non proi mai 9. Boli bolai 10. Ma non podi pappai 11.Boli cantai 12.Ma non podi pappai 13.In custa terra 14.Fatta de guerra 15.E non c'est trigu 16.In logu aprigu 17.Boli buffai 18.Ma non proi mai 19.Boli bolai 20.Ma est troppu su entu 21.Su pilgioneddu 22.No est prus cuntentu 23.Ma custa mamma 24.Fissa prangendi 25.Boli cantai 26.Celu scuriu 27.Non proi mai 28.E su piu piu 29.Non podi fai Dormi bambino C’è un nido Sotto la stella L’uccellino Vuole mangiare Ma niente denaro Vuole bere Ma non piove mai Vuole volare Ma non può mangiare Vuole cantare Ma non può mangiare In questa terra Fatta di guerra E non c’è grano In luogo aprico Vuole bere Ma non piove mai Vuole volare Ma c’è troppo vento L’uccellino Non è più contento Ma questa mamma Che piange sempre Vuole cantare Cielo scuro Non piove mai E il suo pio-pio Lui non può fare Riferita da Elena Carta, di anni 62 1. Dormi pippiu 2. C'esti unu niu 3. Asutt'e su steddu 4. Su pilgioneddu 5. Boli bolai 6. Ca oli castiai 7. Su mundu bellu 8. Fragu 'e gravellu 9. In custa terra 10.Finia sa guerra 11.Cun abba 'e funtana 12.Cun abba 'e s'erriu 13.Castiendu su campu 14.De frorisi spantu 15.Su pilgioneddu 16.Bidi unu steddu 17.E su fradigeddu 18.E totus imparis 19.Bolanta in celu 20.Contendu dinaris 21.Durci su entu 22.Pilgioni cuntentu 23.Cuntentu su fradi 24.Poitta sa mamma 25.Basau d'adi 26.Custu anninniu 27.A possiu portai 28.A su pilgioneddu 29.Po d'anninniai Dormi bambino C’è un nido Sotto la stella L’uccellino Vuole volare Perché vuol guardare Il mondo bello Profumo di garofano In questa terra Finita la guerra Con acqua di fonte Con acqua di rivo Guardando un campo Meraviglia di fiori L’uccellino Vede una stella E il fratellino E tutti insieme Volano in cielo Contando danari Dolce il vento Uccello contento Contento il fratello Perché la mamma Lo ha baciato Questa ninna-nanna Ha potuto portare All’uccellino Per poterlo ninnare Evidentemente, si tratta della stessa filastrocca reinterpretata da due prospettive diverse. Spesso nella poesia popolare i versi venivano riadattati all’estro o alle necessità del parlante (i bambini con le rime di gioco ancora lo fanno), variandoli all’interno di uno schema dato. Le due varianti di questa ninna-nanna costituiscono un esempio luminoso sia delle ondate degli apporti personali e sia della tenuta dello schema. Proviamo a leggerlo. I numeri, quelli dei versi e quegli degli anni delle due mamme, sono rivelatori. Facciamo un semplice conto: la più vecchia, Zia Consola Melis di 87 anni, cantava la ninna-nanna al suo bambino – poniamo – a 25 anni, quindi più di 60 anni fa, quindi durante la guerra; e la giovane, Elena Carta, intonava la stessa filastrocca 20 anni dopo, in tempi di pieno miracolo economico. Rileggiamole alla luce di questa notizia. Per i primi cinque versi le due filastrocche vanno insieme, perché la ninna-nanna è quella e “si canta così”. Ma ben presto le urgenze di due scenari esistenziali così divergenti hanno la meglio: le due versioni al verso 6 si diramano come un fiume, che più avanti però tornerà a intrecciarsi1. La mamma dei tempi di guerra cantava: “Vuole mangiare / Ma niente denaro / Vuole bere / Ma non piove mai / Vuole cantare / Ma non può mangiare…”. L’altra, 20 anni dopo, negli anni ’60, canterà: “Vuole volare / Perché vuol guardare / Il mondo bello / Profumo di garofano…”. In due punti, sfasati di pochi versi (9-10 e 13-14), l’enunciato esce dalla metafora e si fa esplicito: “In custa terra / Fatta de gherra”, “In custa terra / Finìa sa gherra”; pochi abili tocchi, e la struttura di metro e rima accoglie i due opposti enunciati. La mamma più fortunata prosegue nelle sue variazioni di senso: “Col fratellino” (nuove nascite, finalmente benvenute), “tutti insieme” (non più divisi dalla guerra), “Volano in cielo / Contando denari” (sembra una delle vignette miracolistiche di quegli anni di “boom”). Potemmo andare avanti, ma ci fermiamo qui. Ora: può ben darsi che, a chi le abbia lette morte e puntate con uno spillo come farfalle sulla pagina di un libro, queste rime siano sembrate sinceramente “composizione (…) priva di senso compiuto”. Non è così. Le due ali La scorsa puntata di questo piccolo saggio sulle filastrocche parlava del Suono, e finiva con una domanda: “Se batte il tamburo nel ritmo nei versi, e fa battere quello del cuore dei nostri bambini, questo ci basta? No, noi vogliamo che si alzi in piedi e danzi anche la loro mente”. Questa puntata tratterà di ciò che in una filastrocca fa danzare la mente: il Senso. Come ho già scritto nelle puntate precedenti, e come dico ai bambini nei miei incontri, le filastrocche come gli uccelli hanno due ali: il Senso e il Suono. “Senso” e “Suono” sono parole lunghe uguali, cominciano entrambe per S e finiscono per O. Questo, nella cabala dei nomi, vorrà dire forse che le due ali devono essere uguali, ugualmente lunghe e forti? Io preferisco che sia così, nelle mie filastrocche, ma in tante altre così non è. Il Senso delle due ninna-nanne sarde, a dispetto di ciò che ne dicono i dizionari, è forte e chiaro: è il senso che esprimevano al loro mondo, e del loro mondo. Tanto forte e pressante da incastonarsi, diverso in diversi decenni, nello schema testuale della filastrocca, deformandolo ma senza spezzarlo, adattandolo per tenerlo in vita. Il loro Suono, per noi ora arduo a comprendersi, era a sua volta probabilmente altrettanto potente: rima baciata, scandita o cantilenata a ninna-nanna. In questa filastrocca, dunque, Senso e Suono paiono equilibrati. Ma ci sono altre filastrocche che hanno un’ala più lunga e una più corta: per esempio un Senso forte e un Suono debole. 1 Qui non c’è lo spazio di analizzare nel dettaglio la tenuta dello schema testuale, rintracciando i nodi d’incrocio in cui si ripresentano i motivi comuni (cantare, l’uccellino, la guerra, il vento, etc.): non sarà difficile però condurre quest’analisi a chi voglia. Ala del Senso più lunga dell’ala del Suono Si vede subito che le filastrocche squilibrate su quell’ala “vogliono dire” qualcosa. Qualcosa che, per chi scrive, è importante dire: in genere si tratta di alti contenuti valoriali, pace, tolleranza, intercultura, ambiente, etc. Ma in molti casi si vede anche che chi scrive, fidando nella forza automatica di quei contenuti, non ha voluto o saputo far danzare questo potente Senso con un Suono di pari potenza. Non usa il tamburo gioioso del ritmo per far ballare il cuore di chi ascolta (come si dice nella seconda puntata del saggio); e non usa le rime per farsi suggerire (come si dice nella prima) cose che non voleva dire, o non sapeva di voler dire, sorprendendo se stesso e noi. Al contrario, le rime gli servono per dire ciò che proprio “vuole dire” lui; e le rime, che non sono abituate a servire, a fare le servette, si acquattano in coda ai versi opache e offese. E la mente comprende, ma non si alza per danzare. È sempre antipatico andare alla lavagna a dividere buoni e cattivi, ma è anche vero che senza esempi non si capisce mai bene. Ecco dunque un esempio di filastrocca con l’ala del Senso più lunga di quella del Suono. È scritta da uno scrittore dilettante, di cui tacerò il nome: ma filastrocche come queste – le maestre lo sanno bene – girano a stormo fitto nelle scuole, con o senza firma, e ahimè non sono affatto rare neanche nei libri esposti in libreria. Arriva il Natale Arriva il Natale la festa speciale speciale davvero per il mondo intero. Per tutti i bambini: italiani, francesi o abissini e noi che siamo così piccini, non chiederemo dei regalini, ma solo la pace per tutti i bambini. Dice, eccome se dice! Ma non canta. E non incanta. Ala del Suono più lunga dell’ala del Senso Sentite invece come canta questa. Chi non fa non falla Chi non fa non falla, chi non ba non balla, chi non mo non molla e chi non co non colla; chi non cu non culla, chi non se non sella, chi non vi non villa e chi non zo non zolla; chi non ste non stella, chi non spi non spilla, chi non bo non bolla e chi non pa non palla. (S. Bordiglioni, Ambasciator non porta pena, Einaudi Ragazzi, Trieste, 1998) Canta, eccome se canta! E a suo modo incanta (è un po’ una rima incantata): ma cosa dice? Niente. E non perché non sappia: perché non vuole. Letteralmente, “non vuole dire niente”. Andando avanti in questo gioco un po’ schematico, ora ci chiediamo: fra questa che canta ma non dice, e la precedente che dice ma non canta, quale preferiamo? Io questa, senza ombra di dubbio. Allora possiamo concludere che in una filastrocca è più importante e necessario il Suono del Senso? Un attimo. Prima di rispondere leggiamone un’altra, di un altro autore dilettante che m’ha spedito le sue rime. Nel corso del Carso In sogno mi è apparso e mi pareva assai scarso era il fiume Carso perlopiù laido ed arso. O, almeno, così mi era parso. Ero subito corso avrei bevuto un sorso perciò ero accorso ma invocai soccorso. Stava bevendo l’orso. Anche di questa possiamo dire, come per quella di Bordiglioni, che l’ala del Suono è più lunga di quella del Senso. Ma ci piace? Io la metterei nel paniere della filastrocca natalizia, piuttosto che in quello di Bordiglioni, anche se appartengono a “classi di ali” diverse. E poi, se è possibile, spingerei gentilmente lontano da me questo paniere, insieme con tutte le altre millanta filastrocche che fanno più Senso che Suono, ma anche quel Senso lo fanno male, o che fanno più Suono che Senso, ma anche quel Suono lo fanno male, e insomma non hanno capito che far filastrocche è difficile. Parole che puliscono parole Le parole dicono e dicono e “vogliono dire”. Ma a dire si stancano, e noi ci stanchiamo a sentire. La stanchezza del senso rende noi sordi e mute le parole. Parlano parlano, ma non “vogliono dire” più niente. Per far passare la stanchezza ci vuole riposo. Il riposo che rigenera le parole è di due tipi: silenzio e poesia. Del silenzio su queste pagine non parleremo. Fra le poesie, ci sono certe filastrocche che hanno un bel Senso, che vogliono dire qualcosa. Quando son belle, questo qualcosa lo dicono con suoni, colori ed eco lontane che richiamano altre cose, che a loro volta richiamano altre cose, in una fuga di specchi dove il senso alla fine vuol dire quello ma anche altro, e molto e nulla e tutto. Questa nuvola sfocata e cotonosa di un senso che vuol dire nulla e tutto, per qualche misterioso meccanismo, pulisce e riposa la mente. Dopo aver detto e sentito queste poesie, la mente torna in piedi, acuta e trasparente, pronta a capire di nuovo il senso delle parole, che vogliono dire di nuovo ciascuna la sua cosa, forte e chiara. Fra le poesie, poi, ci sono altre filastrocche che non vogliono dir niente, ma hanno un bel Suono. Quando son belle, funzionano come acqua fresca e pulita, incolore insapore inodore, che lava e sciacqua la mente. Dette e lette, passando nella mente, la fanno liscia, lucente, di nuovo in piedi pronta a sentire e capire tutto. Ma non solo la mente: con le loro paroline levigate come pietrine pomici, queste filastrocche scrostano e lisciano le altre parole, le nostre parole pesanti incrostate di senso; dopo esser venute in contatto con queste paroline smeriglio, le nostre parole sono di nuovo lucide e smaglianti, e di nuovo vogliono dire. La terza ala Come abbiamo visto, filastrocche che hanno più Senso che Suono possono essere belle o brutte. E andare insieme a filastrocche belle o brutte che hanno più Suono che Senso. Le due ali di Senso e Suono sono importanti, ma evidentemente da sole non bastano a fare una filastrocca “bella”, cioè una filastrocca che rigenera le parole stanche e fa alzare in piedi la mente e la fa danzare. Evidentemente occorre una terza cosa. Forse c’è una terza ala, invisibile. Forse è una coda, che fa da timone. E purtroppo si può nominare solo nella lingua del gran mago Signor de Lapalisse. La terza ala invisibile delle filastrocche è la Bellezza. E di questa parleremo, o se non è possibile canteremo in versi e rima, nella prossima e ultima puntata di questo saggio. (12288 battute) FILASTROCCA IRRESISTIBILE Bruno Tognolini, dalle filastrocche della Melevisione Puntata PAURA STRICCAGNOMA, andata in onda il 18/04/02 Filastrocca irresistibile Dalla bocca incorreggibile Spruzza fuori, rima a rima Sgomitando per far prima Tiritera divertente Cantilena come viene Tamburina canzonetta Che non dice quasi niente Ma lo dice così bene Così in fretta! Terza ala LA BELLEZZA La Rosa Guardata Il poeta Thomas Eliot, che è uno dei miei Spiriti Guida, descrivendo un giardino, nel primo dei suoi “Quattro quartetti”, scriveva così: “E c’era lo sguardo non visto, perché le rose / avevano l’aspetto di fiori che sono guardati”. L’aspetto delle rose forse cambia sotto lo sguardo dell’ammiratore? Sono diverse quando nessuno le vede? Se lo dice un Poeta Guida, è così. La Rosa Guardata rifulge di vigore. Splendono di salute e di bellezza gli arti del corpo nella giusta fatica, e appassiscono nell’immobilità. Le filastrocche son fatte per essere usate, lette e dette e date con bellezza: questo le fa star bene, le fa belle. Ma basta? Tutte le filastrocche sono belle se sono “guardate”, se sono usate con bellezza? Sono belle nella relazione? Vediamo se è così. Per le Rose ci vuole un Giardino I Giardini sono dispositivi di relazione: spazi progettati per orientare l’incontro estetico fra l’uomo e le piante. Nei giardini si gioca, si legge, si riposa, si guardano le belle rose. Che sono belle perché son state scelte fra altri fiori e coltivate dai giardinieri perché lo siano; e sono belle perché sono nel giardino, dove si trova anche lo sguardo che le rende belle. Per le rose ci vuole un giardino. La scuola è uno spazio di relazione, progettato per orientare l’incontro fra i bambini e le cose Utili (come diremo) e Belle (come speriamo) che dovranno servirgli nella vita. Gli insegnanti, va da sé, sono i giardinieri. Bene: come per le rose ci vuole un giardino, per le filastrocche ci vuole una scuola. Lì fioriscono con rigoglio, perché trovano giardinieri che le scelgono per la loro bellezza e le coltivano, e sguardi bambini che hanno grande capacità di proiettare bellezza. Certo, bei fiori possono essere ammirati anche nei campi e nel bosco. E le filastrocche si trovano anche altrove. Dove? Nei libri a casa? Ahimé, temo poche, nelle case di pochi: meno che i fiori nei campi. Alle filastrocche è necessaria la scuola forse più che alle rose il giardino. Nel Giardino ci vogliono le Rose Ma il problema che avevamo creduto di eludere ci aspetta in agguato. La bellezza non può essere solo nello sguardo dell’ammiratore: deve essere anche nei fiori. Gli insegnanti giardinieri devono scegliere le filastrocche più belle da coltivare nel loro giardino. E dove si trovano, come si scelgono le filastrocche belle? Si trovano ovunque. Come i bei fiori, è più facile in media trovarle nelle buone serre. Nei libri degli autori famosi ce ne sono parecchie: ma non tutte son belle, e non tutte le belle son lì. Nelle selezioni che le riviste per la scuola e le altre pubblicazioni di supporto offrono agli insegnanti se ne trovano molte, già colte da altri per loro: ma forse a loro sarebbero piaciute altre, che quel giardiniere ha scartato. Nelle raccolte di filastrocche popolari e tradizionali ce ne sono; nei fogli sciolti di rimatori dilettanti ce ne sono… Io stesso mi sono divertito a pescare e spargere su questo articolo una manciata di filastrocche che a me paiono belle, e che vengono da colture assai diverse. La bellezza fra le rime non è rara, è solo ben nascosta. Le filastrocche belle ci sono, a centinaia, ma son sepolte da migliaia meno belle, o mediocri, o terribili, che vanno proliferando per qualche squilibrio d’ecologia “colturale” e creativa, dilagato a nostra insaputa in questi ultimi anni. Allora: alle filastrocche serve il giardino della scuola, per vivere e fiorire. Alla scuola servono filastrocche belle, perché il giardino sia un vero giardino, e non un orto. E alle filastrocche belle, per essere davvero belle, è indispensabile lo sguardo e la mano amorosa del giardiniere, che le sappia scorgere e districare nella macchia sterminata delle troppe rime da nulla che le sommergono. Lo sguardo e la mano del Giardiniere Voi insegnanti dovete essere lo sguardo che dà alle rose “l’aspetto di fiori che sono guardati”. Dovete fidarvi del vostro sguardo, e solo di quello. Le filastrocche che porgete ai vostri bambini devono semplicemente piacere a voi. Sembra una cosa scontata applicare con rigore delle scelte, ma in realtà è difficile; sembra una cosa difficile possedere un criterio di scelta, per esempio un gusto poetico, ma in realtà non lo è. Il gusto non è un problema: cresce da sé, occorre solo pazienza e fiducia. La pazienza di cercare e cercare, finché si trova una filastrocca che si apre sotto i vostri occhi come una rosa superba; e la fiducia che quella rosa esiste, anche se vi fa aspettare: anche lei sta aspettando voi, e non vale la pena accontentarsi per stanchezza e portare ai bambini una qualunque, tanto son tutte uguali. Tutte uguali vi sembrano, finché non trovate “quella”. E quella, quando la trovate, vi educa il gusto: il gusto fa un salto, si assesta su quella, e per tutte le altre seguenti vi dice “acqua” e “fuoco”. Ma non è solo l’occhio del giardiniere, che occorre nella cerca delle rime belle: è la sua mano. L’occhio le scorge, la mano le porge. I vostri bambini hanno bisogno di bellezza, ma non di bellezza qualunque: di bellezza scovata e coltivata e offerta con le vostre mani. Quelle filastrocche brilleranno tre volte: della bellezza intrinseca e loro, quanta ha saputo infonderne il loro poeta; della bellezza che il vostro sguardo e la vostra mano che le porge accende e accresce; e finalmente di quella che straborda e innaffia dallo sguardo potente, proiettore di bellezza, dei vostri bambini. E che cosa bisogna fare per questo, cosa deve fare la mano? Resistere. Il Giardino nell’Orto I giardini, abbiamo detto, sono dispositivi di relazione: spazi progettati per orientare l’incontro estetico fra l’uomo e le piante. Anche gli orti sono dispositivi di relazione, ma adibiti all’incontro economico fra l’uomo e le piante. Nei giardini si ozia e si guardano le belle rose: si cerca Bellezza. Negli orti si lavora e si producono frutti: cioè Utilità. La Scuola è orto, più che giardino: si coltiva, si costruisce la “coltura”, e si devono produrre frutti 2. Questo è giusto, legittimo e sacrosanto: nessuno vuole veder uscire dalle scuole Poeti Giardinieri. Però neanche Biologi Ingegneri: o non a dieci anni… In certi orti di una volta l’ortolano aveva cura di serbare, fra lattughe e carciofi, un angolino di terra ai bei fiori, agli inutili e non commestibili fiori. Questo, senza togliere sostanziale Utilità, dava forse a quell’orto un tocco di Bellezza che lo rendeva più parente alla natura, la quale si compiace di mescolare Utile e Bello più liberamente, o più probabilmente ignora la distinzione. E la natura, grata, come la fata delle fiabe, benediceva di ricchi raccolti quell’orto coi fiori all’occhiello. Questo dunque deve fare la mano: resistere con ostinazione alla forza di due correnti contrapposte. Una che dice: qui non si fa letteratura per l’infanzia, i programmi non ne parlano nemmeno, e quindi tantomeno filastrocche; non siamo qui per imparare i “tattattìra”, ma per fare punti di Pil 3. 2 Recenti disposizioni, ponendo il mercato a misura di tutte le cose, propongono bilance per pesare questi frutti come arance. E l’altra, contraria, che dice: bisogna dargli filastrocche a più non posso, se ne trovano a manciate dappertutto; basta sia scritto in rima ed è creativo, puro, liberatorio, antidoto delle TV e del mercato. No. L’una e l’altra via porta al deserto, dove nessuna rosa mai fiorirà rigogliosa, con “l’aspetto di fiori che sono guardati”. Ciò che invece bisogna fare è piantare un giardino nell’orto. Magari piccolo, in un angolino, ma che sia giardino vero. Con fiori veri, inutili effimeri e splendidi, non fiori di zucca anche lì. Con filastrocche belle (vedi prima e seconda puntata di questo saggio), non utili (vedi terza puntata). Non filastrocche pacifiste interetniche ambientaliste; o anche quelle – magari, accidenti! – ma purché siano belle. Solo così saranno anche utili. Commiato Chiudo qui questo breve saggio, che è stato in parecchi punti, mi rendo ben conto, più predica che ragionamento. Ma del resto io faccio il poeta, non l’esperto, e non potevo perdere questa occasione che mi si dava per raccomandare agli insegnanti giardinieri i fiori preziosi e in pericolo della poesia. Io faccio molti “incontri con l’autore”, da molti anni, in scuole di tutta Italia. Dai confini con la Svizzera a Ragusa trovo insegnanti che resistono con sudore e sangue, e – come diceva Eliot – “in condizioni / che ora sembrano poco propizie”. Non sarà un campione attendibile, mi rendo conto: ma ci sono, molti o pochi che siano, ci sono. Mostrano fieri allo scrittore le cose che fanno: ma prima ancora che cose belle, fanno una vita bella nelle loro classi, e le stelle negli occhi dei loro bambini ne parlano chiaro. Negli incontri, insegnanti e bambini aspettano da me un riflesso di specchio, una testimonianza, la conferma di un “autorevole autore” che anche loro esistono, che non stanno sognando, che un modo di far le cose bene ancora c’è. E non sanno quanto lo specchio abbia due facce: quanto a me serva e conforti sapere che anch’io non sto sognando le chimere, che i lettori golosi esistono, che sono intenditori di bellezza, che i giardinieri di lettori esistono, che hanno quegli occhi quando sentono le rime: e che quindi devo scriverne ancora. Come commiato di questo discorso sulle poesie destinato alle maestre, lascio una filastrocca che non parla di poesie, ma di maestre. Non c’è un motivo, è un fiore del giardino. 3 Al di là della dichiarata caricatura: fonti ministeriali informano che i paesi che hanno anticipato l’ingresso a scuola ai cinque anni hanno visto crescere di un punto il loro Pil. FILASTROCCA DELLE BUONE MAESTRE BRUNO TOGNOLINI, dal programma TV “La Melevisione”, Rai3, Puntata del 17/11/2004. Maestra, insegnami il fiore ed il frutto – Col tempo, ti insegnerò tutto Insegnami fino al profondo dei mari – Ti insegno fin dove tu impari Insegnami il cielo, più su che si può – Ti insegno fin dove io so E dove non sai? – Da lì andiamo insieme Maestra e scolaro, un albero e un seme Insegno ed imparo, insieme perché Io insegno se imparo con te ALTRE FILASTROCCHE DA INSERIRE NELL’ARTICOLO A DISCREZIONE DELLA REDAZIONE FILASTROCCA DELLE SETTE BELLEZZE BRUNO TOGNOLINI, dal programma TV “La Melevisione”, Rai3, Puntata del 7/12/2004. Questa è scritta da me, ed è qui non perché sia bella, ma perché parla della bellezza. Come sei bella, occhi di stella Come sei bello, viso di baci Io non so dire come sei bella Però so dire come mi piaci Come mi piaci, occhi di luna Come mi piaci, viso d’incanto Non c’è nessuno – non c’è nessuna Che nella terra mi piace tanto È la bellezza che arriva più in fondo Perché fiorisce nello sguardo mio Che tu sei bella può dirlo il mondo Ma che mi piaci lo dico io FILASTROCCA DEI REGALI CHICCHO GALLUS, inedita. Questa è scritta da un poeta sconosciuto che non fa il poeta ma il pubblicitario (lui stesso spiega perché nell’ultimo verso). È sincera, nel suo imbroglio, ed è bella. Qualcuno regala vestiti e gioielli oppure giardini con fiori ed uccelli, qualcuno dei viaggi in paesi lontani o feste in locali bizzarri e balzani. Io non ho finito neppure le scuole perciò ti regalo soltanto parole. Lo so non è molto ma, questo si sa, ognuno ti imbroglia con quello che ha. NINNANANNA ROBERTO PIUMINI, da “Rimelandia” - Mondadori. Questa è scritta dal più famoso poeta italiano per bambini. E infatti è molto bella. Ninna come la Luna che dondolandotonda Nanna come balena che dondolandolonda Ninna come la Luna che dondolalontana Nanna come la nonna che dondolalalana Ninna come la Luna che dondolandolenta Nanna come bambina che dondoladdormenta FILASTROCCA DI GENNAIO CHIARA CARMINATI e BRUNO TOGNOLINI, da “Un anno di storie per bambini”, Bibliografia Nati per Leggere in Sardegna 2006, a cura del Centro Servizi Bibliotecari della Provincia di Cagliari. Questa è una di dodici filastrocche per i mesi scritte da due poeti insieme, che hanno giocato a mischiare le loro quartine senza dire chi le ha scritte. Ed è bella anche per questo, perché la bellezza non si sa di chi è. Cupo gennaio, vecchio usuraio Uno spruzzetto di sole e già buio Delle mattine che cosa ne hai fatto? Due monetine di ferro gelato Bianco gennaio, sonno di latte Culli la terra con la tua notte Hai voce soffice e respiro lieve Ninni ogni seme sotto la neve FILASTROCCA DEI TRE ASINELLI ANONIMA, da “Ambarabà – Antologia di filastrocche popolari”, a cura di Lella Gandini – Emme Edizioni. Questa non è scritta da nessuno, ma detta e ridetta da bambini di Bergamo per il gioco della palla sul muro. Ed è bella. Tre asinelli Vanno in Egitto Oh che piacere Oh che tragitto Andare a vedere La stella polare Che brulla nel cielo Caduta nel mare