PROTAGORA
ELOGIO DI ELENA (SCELTA MIA dei passi del brano)
“esporrò le cause per le quali era naturale avvenisse la partenza di Elena verso Troia. Ella fece quel che fece
1) o per meditata decisione di dei, 2) oppure rapita per forza, 3) o indotta con parole, 4) o presa da amore.
I) )Se è per il primo motivo, la PROVVIDENZA divina non si può impedire con PREVIDENZA umana.
II) E se fu rapita con la forza, è chiaro che la colpa è del rapitore, in quanto oltraggiò, e che la rapita, in quanto oltraggiata, subì una sventura
[…] Ma colei che fu violata, e dalla patria privata, e dei suoi cari orbata, come non dovrebbe esser piuttosto compianta che diffamata? ché quello
compí il male, questa lo patí; giusto è dunque che questa si compianga, quello si detesti.”.
III) oppure ELENA FU CONVINTA DAL POTERE INCANTATORE DELLA PAROLA
“ Se invece fu la parola a persuaderla e a illuderle l'animo, neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi.
[potenza ‘dominatrice’ della parola]
La parola è infatti un gran dominatore, che con corpo assai piccolo e invisibile sa compiere cose molto divine.
[capacità della parola di attenuare/eliminare la paura e il dolore, suscitare gioia, indurre a compassione e struggimento, produrre un reale
‘sentimento’ / ‘patimento’ dell’anima ]
Riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentare la pietà ... Chi l'ascolta è invaso da un brivido di
spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l'anima patisce, per effetto delle parole, un suo
proprio patimento...
[la parola come ‘farmaco’, che guarisce e uccide ]
“ C'è tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima lo stesso rapporto che c'è tra la funzione dei farmaci e la natura del corpo. Come
infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; cosi anche dei discorsi, alcuni
producono dolore, altri diletto, altri paura, altri ispirano coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l'anima
e la stregano.
Ecco così spiegato che, se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata ”.
IV oppure Elena fu ‘presa da amore’
IV) Ora la quarta causa spiegherò col quarto ragionamento. […]Che se dunque lo sguardo di Elena, dilettato dalla figura di Alessandro, inspirò
all’anima fervore e zelo d’amore, qual meraviglia? il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore
potrebbe respingerlo, o resistergli?
e se poi [l’amore] è un’infermità umana e una cecità della mente, non è da condannarsi come colpa, ma da giudicarsi come sventura; venne infatti,
come venne, per agguati del caso, non per premeditazioni della mente, e per ineluttabilità d’amore, non per artificiosi raggir
[sicché] […] Ho distrutto con la parola l’infamia d’una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di
annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco
dialettico.
SOCRATE
L’’ATOPON’ (peculiarità, ‘atipicità’, l’assoluta diversità) di Socrate (citazioni tratte dal “Simposio” ► AGGIUNGERE A PAG 165
[I discorsi di Socrate sono più strazianti e dolorosi del morso di una vipera, perché penetrano a fondo nell’anima e nel cuore ]
Ma ancora io mi sento come un uomo morso da una vipera: dicono cioè che chi l’ha subito non sia disposto a raccontare com’è stato se non ai
compagni di sventura perché essi soli comprendono e possono scusare se sotto l’azione di quella sofferenza ne combina e ne dice d’ogni colore. Io
pure, ferito dal morso piú straziante e nella parte piú dolorosa in cui si possa essere addentati... perché nel cuore, nell’anima o come lo si voglia
chiamare, sono stato piagato e morso dai DISCORSI DI FILOSOFIA CHE ADDENTANO PIÚ SELVAGGI D’UNA VIPERA quando s’attaccano
a un’anima giovane e non ignobile, e la inducono a fare e dire qualunque cosa... e poi vedo qui i Fedri, gli Agatoni “ [da Platone, Simposio, 215a222° ]
Per me …nulla è più importante di diventare quanto più è possibile migliore, e per questo penso che non potrei trovare nessuno che mi possa dare
un aiuto che sia più valido di te [da Platone, Simposio, 218 E – 219 A]
[LA SAPIENZA DI SOCRATE RIVELATA DALL'ORACOLO DI DELFO al suo amico Cherofonte ]
A questo punto qualcuno di voi sarà tentato di chiedermi: -Che faccenda è questa allora, o Socrate? Donde ti sono nate queste calunnie? Se,
come tu dici, non hai fatto nulla di eccezionale, nulla di diverso che gli altri non fanno, perché allora ti si è attribuita una sì cattiva fama? Spiegaci
tutta questa faccenda perché noi non si abbia a giudicare a caso. -La domanda mi sembra più che legittima. Mi proverò a spiegare che cosa ha
provocato l'insorgere di tale fama e di tali calunnie; statemi dunque a sentire: alcuni di voi forse penseranno che io scherzi, ma, credetemi, ciò che
vi dirò è la pura verità. Debbo riconoscerlo, o Ateniesi, io debbo questa fama ad una certa qual sapienza che posseggo. Ma quale sapienza? La
sapienza propria dell'uomo, io credo; e può darsi che io veramente la possegga, mentre quelli di cui parlavo poc'anzi, ne possederebbero un'altra
che è più che umana, o che so io, ma che certamente io non posseggo, e se qualcuno me l'attribuisce mente e cerca solo di calunniarmi. (A questo
punto l'Assemblea schiamazza) Vi prego di non schiamazzare, o Ateniesi, se vi sono sembrato alquanto presuntuoso, perché ad attribuirmi tale
sapienza, se pur ne posseggo alcuna, non sono io, ma uno che per voi è degno di fede: il Dio di Delfo.
Voi conoscevate certamente Cherofonte. Egli mi fu amico fin dalla giovinezza e amico fu al vostro popolo e con voi fuggì in esilio e con voi
tornò. Sapevate bene di lui l'impeto e l'entusiasmo con cui si accingeva a qualunque impresa. Ebbene, costui, essendosi recato una volta a Delfo,
ecco su che cosa osò interrogare il Dio (L'Assemblea riprende lo schiamazzo) Non schiamazzate, vi prego, o Ateniesi. Egli, dunque, interrogò il
Dio per sapere se vi fosse qualcuno più sapiente di me. La Pitia rispose che nessuno era più sapiente. E di questo responso dell'oracolo vi potrà
dare testimonianza il fratello di Cherefonte qui presente, essendo egli morto.
[-SOCRATE INDAGA PRESSO I POLITICI. IL SENSO DELL'ORACOLO-]
Ho raccontato questo perché possiate osservare come sia nata la calunnia. Quando io conobbi le parole dell'oracolo pensai così fra di me: "Che
cosa vuole mai dire Dio? Giacché io non mi sento affatto di essere sapiente. Quale è il senso allora delle sue parole? Certo non è possibile che egli
menta". E stetti molto tempo in dubbio senza riuscire a comprendere che cosa avesse mai voluto significare.
[Socrate indaga presso gli uomini politici]
E fu così che, mio malgrado, mi decisi a venirne a capo. Mi recai infatti presso uno di quelli che passavano per sapienti, sicuro di smentire
l'oracolo e dimostrare così che quello era più sapiente di me.
Esaminai per tanto a fondo il mio personaggio (è inutile che ve ne dica il nome: era un uomo politico) ed ecco l'impressione che ne ricavai: MI
PARVE CHE QUEST'UOMO APPARISSE SAPIENTE A MOLTI, E SOPRATTUTTO A SE STESSO, MA CHE IN REALTÀ NON LO ERA
AFFATTO; E CERCAI ANCHE DI DIMOSTRARGLIELO.
Naturalmente venni in odio a lui e a molti altri che erano con lui presenti. Mentre mi allontanavo pensavo così fra me: "Sono io più sapiente di
costui giacché nessuno di noi due sa nulla di buono; ma costui crede di sapere mentre non sa; io almeno non so, ma non credo di sapere. Ed è
proprio per questa piccola differenza che io sembro di essere più sapiente, perché non credo di sapere quello che non so". E avvicinai un altro che
mi sembrava che fosse più sapiente di costui; ma ottenni lo stesso risultato: quello, cioè, di venire in odio a lui e a molti altri ancora.
[-SOCRATE INDAGA PRESSO I POETI IL SENSO DELL'ORACOLO-]
Ciononostante io continuai la mia indagine con un senso di amarezza e di inquietudine insieme, comprendendo bene che, così facendo, mi
procuravo sempre nuovi nemici.
Il fatto si è che io mi sentivo obbligato di porre al di sopra di ogni considerazione le parole del Dio e non esitavo quindi a recarmi presso tutti
coloro che mostravano di sapere qualche cosa per comprendere il riposto senso dell’oracolo.
[i più sapienti non sono i poeti , ma quelli che non sanno]
E per il Cane, o Ateniesi, -lasciate pure che vi dica le cose come stanno- mi dovetti accorgere, io che indagavo secondo il pensiero del Dio, che
quelli che erano reputati più sapienti erano proprio i meno provvisti, mentre quelli che erano considerati gente da poco, erano i più saggi. E’
necessario però che vi racconti tutta la mia peregrinazione volta a rendermi chiaro il significato dell’oracolo, peregrinazione che non fu scevra di
fatiche.
[i poeti compongono non per sapienza ma per ispirazione]
Dopo aver avvicinato i politici, mi recai dai poeti, dai tragici come dai ditirambici o compositori d’altri generi, sicuro di trovare me più
ignorante di loro. E pigliando in mano i loro poemi, quelli che mi sembravano meglio riusciti, chiedevo loro che me li spiegassero, anche allo
scopo di potermi meglio istruire. Ebbene, o Ateniesi, ho vergogna di palesarvi la verità, ma è pur necessario che lo faccia: si verificava che intorno
agli argomenti da loro trattati ne ragionavano molto meglio quelli che erano presenti che non gli stessi autori. DOVETTI QUINDI
CONCLUDERE CHE I POETI NON PER SAPIENZA POETAVANO, MA PER DISPOSIZIONE NATURALE, QUASI DA DIO ISPIRATI,
come gli indovini e i profeti, i quali dicono cose molto belle, ma non sanno nulla di ciò che dicono. Ed è questo proprio ciò che accadde ai poeti. E
mi dovetti accorgere anche che essi, sentendosi dotati di talento, finivano col reputarsi sapienti anche in altre cose senza che lo fossero affatto. E
così partii da costoro pensando che avevo sui poeti lo stesso vantaggio che sugli uomini politici.
[-SOCRATE INDAGA PRESSO GLI ARTIGIANI IL SENSO DELL'ORACOLO-]
Infine andai anche presso gli artigiani, convinto di non sapere nulla di quelle tante e belle cose che sanno invece costoro. E fu la volta in cui
non mi ingannai, poiché essi sapevano cose che io ignoravo del tutto, per cui potevo reputarli, sotto questo aspetto almeno, molto più sapienti di
me.
[gli artigiani conoscono solo la loro specifica ‘arte’]
Purtroppo però, o Ateniesi, anche i valenti artigiani mi parve che cadessero nello stesso errore dei poeti, poiché ciascuno di loro, per il fatto che
eccelleva nella sua arte, si reputava sapiente in cose di maggior momento; e questa loro stoltezza finiva con l'oscurare quella loro sapienza.
Per giustificare l'oracolo, provai allora a interrogare me stesso e vedere se io avessi voluto essere tale quale sono, nè per nulla sapiente della
loro sapienza, nè ignorante della loro ignoranza, o non piuttosto possedere, come loro l'una cosa e l'altra. Risposi a me e all'oracolo che valeva
molto meglio per me essere tale e quale sono.
IL VERO SENSO DELL'ORACOLO.
Per queste mie indagini, o Ateniesi, mi sono procurato molte inimicizie, aspre e fierissime, dalle quali sono nate tante calunnie e la mia
rinomanza di sapiente.
Giacché, ogni qual volta ho mostrato l'ignoranza altrui, si è voluto credere che sapiente mi reputassi io.
[solo il Dio è sapiente e nulla è la sapienza umana]
No, Ateniesi, sapiente è solo Dio che per mezzo di quell'oracolo ci ha voluto dire che la sapienza umana vale poco o nulla. Ed è chiaro che se
ha nominato Socrate, Egli ha voluto servirsi del mio nome a mo' di esempio, come per dire: "O uomini, sapientissimo fra di voi è colui che, come
Socrate, sa che la propria sapienza è nulla".
Nè ho smesso questa mia indagine, perché vado ancora oggi interrogando, secondo il pensiero di Dio, chiunque mi sembri sapiente, sia esso
cittadino o forestiero. E quando mi accorgo che egli non lo è affatto, allora metto in luce la sua ignoranza per dimostrare che Dio ha ragione. E a
questa occupazione dedico tutto il mio tempo, così che non me ne resta per attendere lodevolmente nè agli affari della città, nè ai miei personali, ed
essendomi consacrato solo al servizio di Dio, vivo in estrema povertà.
La ‘virtù è ‘unica’
“Socrate [...] Ma di’ tu, in nome degli dèi, Menone, cosa sia virtú! Parla, non dirmi di no; sarò felice del mio errore, se mi dimostri che voi, tu e
Gorgia, sapete in che consiste la virtú, a me, che pur sostenevo di non avere mai incontrato persona che lo sapesse Menone – Non ci vuol niente,
Socrate! Innanzi tutto se vuoi la virtú dell'uomo, è facile dire che questa è la virtú dell'uomo: essere capace di svolgere attività politica, e
svolgendola fare il bene degli amici, danno ai nemici, stando attenti a non ricevere danno noi stessi. Se, invece, vuoi la virtú della donna, non è
difficile dimostrare che il suo dovere consiste nell’amministrare bene la casa, conservandone i beni e restando fedele al marito. E cosí altra è la
virtú del fanciullo, a seconda che sia femmina o maschio, altra quella di un vecchio, a seconda che sia libero o schiavo. E altre infinite virtú ci
sono, onde non v'è imbarazzo a dire in che consista la virtú. Per ciascuna attività ed età e per ciascun atto vi è una propria virtú, sí come credo vi
sia un vizio, Socrate. \i Socrate\i0 – Quale mai fortuna sembra mi sia toccata, Menone! Andavo cercando una sola virtú, ed ecco che grazie a te già
ne trovo uno sciame. E, o Menone, se proprio prendendo questa immagine dello sciame io ti domando: l’essenza, qual è? mi risponderai che di api
ce n’è molte e di molti tipi. Ma se ti domando ancora: “E perché le api sono molte e di molti tipi e diverse tra loro? perché sono api? O differiscono
tra di loro solo per bellezza, grandezza e cosí via?”. Dimmi, come risponderesti a simile domanda? \i Menone\i0 – Che in quanto api non
differiscono l’una dall’altra. \i Socrate\i0 E se poi ti domando: “Dimmi, Menone, che cosa è ciò per cui le api non differiscono fra loro, onde sono
tutte api? Cosa è questo?”. Sai rispondermi? Menone– Sicuro Socrate– Lo stesso si ripeta per le virtú: anche se molte e di molti tipi, in tutte ha da
esservi una sola forma, per cui sono virtú, e su tale forma bisogna tener gli occhi fissi, attentamente, perché la risposta alla domanda sia corretta e
faccia esattamente comprendere in che consiste la virtú.” [ Da: Menone]
Socrate, in quanto filosofo , era visto con sospetto dal governo DEMOCRATICO ateniese
Voi lo sapete bene, o Ateniesi: che se da un pezzo io mi fossi messo a occuparmi degli affari dello stato, da un pezzo anche sarei morto e non
avrei fatto cosa utile nessuna né a voi né a me. E voi non sdegnatevi se parlo cosí: è la verità. NON C’È UOMO CHE POSSA SALVARSI
QUANDO SI OPPONGA sinceramente non dico a voi ma A UNA QUALUNQUE altra MOLTITUDINE, e CERCHI DI IMPEDIRE CHE
TROPPE VOLTE NELLA CITTÀ SI COMMETTANO INGIUSTIZIE E SI TRASGREDISCA ALLE LEGGI; e anzi è necessario che chi
davvero combatte in difesa del giusto, se voglia campare da morte anche per breve tempo, viva da privato e non eserciti pubblici uffici.
Socrate non fugge dal carcere perché ciò significherebbe smentire se stesso, disobbedendo alle Leggi della città che egli ha accettato di rispettare,
nel bene e nel male. Il brano che segue è tratto dal dialogo “Critone
SOCRATE E allora guarda un po' la cosa da questo altro punto di vista: supponi che mentre noi stiamo per scappare - oppure usa il termine che
vuoi - ci venissero davanti le Leggi e lo stesso Stato e ci chiedessero: - «Di' un po', Socrate, che cosa hai in mente di fare? Non è, forse, per
distruggerci, per quanto sta in te, noi, le Leggi e tutto lo Stato insieme, che ti accingi a compiere quest'impresa? Pensi proprio che possa reggersi
ancora, senza che ne sia sovvertito, quello Stato in cui le leggi non hanno efficacia, calpestate e rese vane da cittadini privati?» - Cosa
risponderemmo, Critone, a queste parole, a domande simili? Quante cose, specialmente un oratore, potrebbe dire, in difesa di queste leggi, che
impongono l'esecuzione delle sentenze, una volta emesse e che noi abbiamo calpestato. O risponderemmo che è stata la nostra patria ad essere
ingiusta con noi, a non giudicarci rettamente? Questo diremo, o che cosa? CRITONE Sicuro, per dio, questo possiamo dire, Socrate. XII
SOCRATE E se le Leggi dicessero: «Ma erano questi i nostri patti, Socrate, o non piuttosto che tu avresti rispettato le sentenze che la tua patria
avrebbe emesse?» E se noi, a queste parole, mostrassimo di meravigliarci, forse, esse potrebbero dirci: «Non stupirti di questo che abbiamo detto,
Socrate, ma rispondici, perché, proprio tu, conosci bene il sistema di far domande e di replicare. E allora, che cosa rimproveri a noi e allo Stato, tu
che tenti di distruggerci? Che forse non devi a noi, prima di tutto, la tua nascita? Non fummo noi a regolare l'unione di tuo padre e tua madre che
poi ti generarono? Rispondi, hai qualcosa da ridire contro quelle leggi che regolano i matrimoni? Non ti vanno forse bene?» Io dovrei rispondere
che non ho proprio nulla da rimproverare. «E contro quelle che presiedono alla cura dell'infanzia e alla sua educazione, quella che tu stesso hai
ricevuto? Erano, forse, cattive quelle leggi istituite per questo e che obbligavano tuo padre a educarti nella musica e nella ginnastica?» «Ottime,» io
dovrei dire. «Bene. E dal momento che sei venuto al mondo, che sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura
nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi antenati? E, se questo è vero, pensi proprio di avere i nostri stessi diritti, tu, di poter legittimamente fare a
noi ciò che noi decidiamo nei tuoi riguardi? Verso tuo padre o verso il tuo padrone - se per caso ne hai avuto uno - non avevi i loro stessi diritti; tu
non potevi comportarti con loro come loro si comportavano con te, ai rimproveri non potevi rispondere, alle percosse non potevi, a tua volta,
percuotere, nulla di tutto questo. Però, verso la patria e verso le sue leggi, secondo te, tutto questo, sì, ti sarebbe concesso; così che se noi crediamo
giusto che tu muoia, anche tu, dal canto tuo, puoi mandarci in rovina, noi, le tue leggi e la tua patria e, così facendo, dire che è giusto, tu proprio,
che sei al servizio della virtù? «Ma sei così sapiente da non sapere che la patria è tanto più nobile, più veneranda e più santa della madre e del
padre e di tutti i nostri avi e che da dio e dagli uomini di sano intelletto è tenuta nella più alta considerazione, che bisogna rispettarla, venerarla,
blandirla quando è in collera, più che il padre, convincerla dei suoi torti o fare ciò che essa comanda, sopportare in silenzio ciò che essa ci ordina di
sopportare, percosse, carcere e se ci manda in guerra per essere feriti o uccisi, accettare anche questo, perché così è giusto, senza sottrarci, né
cedere, né abbandonare il nostro posto ma, sia in battaglia che in tribunale, come in ogni altro luogo, fare quello che la patria comanda o, tutt'al più,
persuaderla da che parte è la giustizia, ma non farle violenza: non è lecito farla alla madre o al padre e tanto meno alla patria.» A tutto questo,
Critone, cosa risponderemmo? Che le Leggi hanno ragione o no? CRITONE Anche a me sembra di sì. XIII SOCRATE E le Leggi, probabilmente,
continuerebbero: «Vedi, Socrate, che non è giusto, da parte tua, se è vero ciò che diciamo, quel che tu stai facendo nei nostri riguardi. Perché noi
che ti abbiamo messo al mondo, che ti abbiamo allevato ed educato, che ti abbiamo fatto partecipe, con tutti gli altri cittadini, di tutti i beni che
potevamo procacciarti, noi dichiariamo che chiunque degli ateniesi lo voglia, può trasferirsi dove più gli aggrada, con tutti i suoi beni se, una volta
raggiunti i diritti civili e conosciuti gli ordinamenti dello Stato e noi stesse, le Leggi, non ci trovi di suo gradimento. Nessuna di noi vi impedisce di
trasferirvi, magari, in una colonia, se non vi andiamo a genio, o in qualche altro luogo che vi piaccia, portandovi appresso le vostre sostanze; ma
chi di voi rimane, riconoscendo il nostro modo di amministrare la giustizia e gli affari dello Stato, si impegna all'obbedienza di ciò che noi
comandiamo, altrimenti dichiariamo che commette tre volte ingiustizia, […] . «Vi sono molte prove, Socrate - direbbero - che la tua patria e noi ti
eravamo gradite, perché se non ti fossi trovato bene, tu non te ne saresti rimasto nella tua città, più degli altri, mentre non ne uscisti mai, né per
recarti a qualche festa, […] . «E poi, durante lo stesso processo, se lo avessi voluto, avresti potuto benissimo farti condannare all'esilio e ottenere,
col consenso dello Stato, quello che ora, illegalmente, tenti di fare. E, invece, ti sei vantato che non te ne importava niente della morte e, anzi, che
la preferivi all'esilio. Ora, invece, non badi a quelle parole, non ti preoccupi di noi, cerchi di scavalcarci e ti comporti come un vilissimo schiavo,
tentando di fuggire contrariamente ai patti e agli accordi che ti impegnavano a vivere come nostro cittadino. […] E, ora, non resti ai patti? Oh,
Socrate, questo non puoi farlo, se ci dai retta, non puoi renderti ridicolo andandotene, ora, dalla tua patria. [dal Critone]
PLATONE
LETTURA MITO DI THEUTH [continua a pag 253 ]
[IL SAPERE COME ‘SEMINA’ MAIEUTICA: come l’agricoltore semina nel modo e nel luogo opportuno le proprie sementi, così il filosofo non
affiderà le proprie idee allo scritto; bensì pianterà i suoi ‘semi’ in un’anima congeniale ‘educandola’ affinché essi possano germogliare
opportunamente; ciò significa che il vero sapere si realizza attraverso il rapporto fecondo che si crea tra maestro e discepolo e non attraverso la
semplice esposizione scritta del proprio pensiero]
SOCR. […] Ed ora dimmi: — Forse il contadino giudizioso che avesse alcuni semi che gli stanno a cuore e da cui volesse dei frutti, li seminerebbe
con tutta serietà in estate, nei "giardini d'Adone" e rigongolerebbe attendendosi i bei frutti in otto giorni ? O piuttosto non lo farà per gioco e per
solennizzare la festa, ammesso pure che lo faccia ? Mentre per i semi per i quali ha davvero serie intenzioni li seminerà nel TERRENO ADATTO
servendosi della TECNICA AGRICOLA [= nel modo opportuno] , e si rallegrerà se quanti ne ha seminati verranno a maturazione in otto mesi? [=
al tempo dovuto] FEDR. Ma certo così, o Socrate; e nel secondo caso lo farà con intenzioni serie, nel primo caso no, come dici tu. S
OCR.
E diremo ora che chi ha la conoscenza del bello e del giusto è meno giudizioso, riguardo le sue sementi, del contadino ? FEDR.
Assolutamente no. SOCR. Allora non le scriverà con intenzioni serie nell'acqua nera [ = nell’inchiotro] , seminandole mediante la penna con parole
che non possano parlare a propria difesa, né possono insegnare in modo sufficiente il vero. FEDR. Non è certo probabile che le scriva.
SOCR.
No, non lo è. Ma egli spargerà le sue sementi nei giardini letterari [= esporrà il suo pensiero in opere scritte] , io credo, e scriverà, quando
scriva, solo per gioco, al fine di raccogliere un tesoro di ricordi per suo uso, contro la « vecchiaia che porta oblio » quando essa giunga, e per uso di
chiunque si metta sulla stessa orma ; e gioirà mirando i teneri germogli rinverdire. E quando gli altri si daranno a divertimenti diversi, affogandosi
nei banchetti e in quant'altre gioie che s'accompagnano a questi, lui, invece, probabilmente vivrà degli svaghi che io dico ". FEDR. Bellissimo
svago […]
SOCR.
Mio caro Fedro, è proprio così. Ma molto più bello, io penso, è occuparsene seriamente quando usando l'arte della dialettica e prendendo
un'anima congeniale vi si piantano e vi si seminano parole con scientifica consapevolezza. Le quali sono sempre in grado di venire in aiuto a se
stesse e a coloro che le hanno seminate e non sono sterili; ma poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre indoli
esse sono capaci di rendere questo seme immortale, e rendono beato chi lo possiede, quanto può esserlo un umano
LA CRITICA AI SOFISTI (dal ‘Gorgia’)
[ Gorgia fornisce un esempio della ‘potenza ‘ della retorica, che è superiore ad ogni sapere ‘specifico’ ]
GORG. E se tu sapessi tutto, Socrate, [ti meraviglieresti] che la retorica in sé comprenda, per così dire, tutte le potenze e tutte le abbia in suo
dominio. Tè ne darò una notevole prova: più di una volta, insieme a mio fratello " e ad altri medici, andato a casa di qualche ammalato, che non
voleva bere la medicina o si rifiutava di farsi tagliare o cauterizzare dal medico, mentre il medico non riusciva a persuaderlo ci riuscii io, con
nessun'altra arte se non con la retorica ".
Ecco perché posso dire che in qualsivoglia città vadano un rètore e un medico, se una discussione si aprisse nell'assemblea popolare o in un'altra
riunione qualsiasi, per decidere quale dei due debba essere scelto in qualità di medico 53, il medico non comparirebbe affatto, [e] mentre il rètore,
se lo volesse, verrebbe eletto. E così, se il rètore si trovasse a concorrere con qualsiasi altro tecnico ", più di ogni altro riuscirebbe a farsi scegliere,
poiché non v'è materia su cui non riesca più persuasivo di qualsiasi competente di fronte a una massa di persone
[ per Socrate la retorica si rivela superiore al sapere specialistico ma solo se si rivolge ad una folla ignorante ]
…] SOCR. Ascolta, Gorgia, quello che nel tuo ragionamento mi ha stupito: ma, forse, tu hai detto cose giuste e sono stato io a non aver capito bene.
Tu sostieni, dunque, di avere la capacità di formare rètore chiunque voglia apprendere l'arte da tè ". GORG. Sì. SOCR. E in modo tale che su ogni
soggetto sia possibile convincere una gran folla riunita ', non insegnando, ma persuadendo " ? GORG. Senza dubbio. SOCR. Ma [a] appena un
momento fa 8;i dicevi che anche su questioni relative alla salute il rètore sarebbe più persuasivo del medico. GORG. L'ho detto sì, ma qualora ci si
trovi dinanzi a una folla riunita. SOCR. Ma questo ' dinanzi a urta folla riunita ', significa dire ' di fronte a ignoranti ' ? Poiché, senza dubbio,
dinanzi a chi sappia, il rètore non riuscirebbe più persuasivo del medico. GORG. Vero. SOCR. Se il rètore sarà, dunque, più persuasivo del medico,
sarà perciò più persuasivo di chi sa ? GORG. Certamente. SOCR. Pur non essendo medico ! o no ? GORG. Sì. SOCR.[b] Ma chi non è medico non
ha scienza di ciò in cui è competente il medico. GORG. Evidente.
[ la retorica è quindi una semplice tecnica di persuasione]
SOCR. Quando dunque il rètore è più persuasivo del medico, in realtà è chi è ignorante tra ignoranti che sarà più persuasivo di chi ha scienza.
Accade questo o no ? GORG. Sì, questo, almeno in simili circostanze. SOCR. Tale la condizione propria del rètore e della retorica, anche rispetto a
tutte le altre arti: non c'è nessun bisogno che la retorica conosca i [e] contenuti; le basta avere scoperto una certa qual tecnica di persuasione, sì da
potere apparire ai non competenti di saperne di più dei competenti.[la retorica non e’ “arte” (= sapere sostenuto da ‘princìpi) ma esperienza (=
conoscenza derivante dalla ‘pratica’)che suscita diletto ][SOCR. Tu mi chiedi, cioè, che specie d'arte io nidi essere la retorica ? POLO. Sì. SOCR.
Secondo me, Polo, se debbo proprio dirti la verità, non è un'arte. POLO. Ma cosa, allora, ti sembra la retorica ? […] SOCR. Una qual certa
esperienza, direi. POLO. Tu pensi, dunque, che la retorica sia esperienza ? SOCR. Si, se altro tu non sostieni ! POLO. Ma che tipo di esperienza
sarebbe ? SOCR. Quell'esperienza che suscita in noi un qual certo diletto e piacere. […] [Socrate]: Nel suo nocciolo, insomma, io chiamo [b] la
retorica adulazione ' 80. Molte sono poi, mi sembra, le parti dell'adulazione, e una di queste è l'arte della cucina. HA L'APPARENZA DI
UN'ARTE, MA, penso, ARTE NON È, BENSÌ ESPERIENZA ED ESERCIZIO ". Parte di questa io chiamo la retorica, si come parte n'è il saper
vestire […] La retorica, secondo il mio pensiero, è un idolo ", di una parte della politica.
La retorica è adulazione che simula di essere sapienza, dopo essersi ‘insinuata’ sotto di essa [Socrate] […] L'ADULAZIONE, accortasi di queste
quattro arti [ginnastica, medicina, legislazione e giustizia], così costituite e volte sempre a curare nella maniera migliore le une il corpo le altre
l'anima — non per via conoscitiva, dico, ma per congettura — si divise essa stessa in quattro, e, strisciando sotto ciascuna delle quattro parti
corrispondenti, [d] simula d'essere quella certa parte sotto cui si è insinuata e, senza affatto preoccuparsi del meglio, ma sempre con dilettosi
mezzi, caccia ed inganna l'ignoranza, sì da apparire cosa di supremo valore.
[allo stesso modo, la ‘culinaria’ simula, senza possederla, la sapienza dell’arte dietetica ]
Sotto la medicina scivolò la culinaria, che simula di sapere quali siano i migliori cibi per il corpo, onde se un medico e un cuoco dovessero
scendere in gara, in mezzo a ragazzi o a uomini che, come ragazzi, siano senza senno, [perché si giudichi^ su chi dei [e] due conosca meglio la
buona o la dannosa qualità dei cibi, il medico morirebbe di fame ".
[La retorica è ‘adulazione’ perché mira soltanto al piacere; inoltre essa non è ‘arte’ (cioè sapere razionale fondato su princìpi) ma semplice
esperienza, ‘pratica’, che non sa fornire spiegazioni razionali ]
Ecco, dunque, quello [a] che io chiamo ' ADULAZIONE ', e la dico una gran brutta cosa, Polo — è a tè che mi rivolgo " —, PERCHÉ, SENZA
PREOCCUPARSI AFFATTO DEL MEGLIO, È TUTTA TESA AL PIACERE SOLTANTO; NÉ ARTE IO LA DICO, MA ESPERIENZA,
POICHÉ NON HA NESSUNA RAZIONALE COMPRENSIONE " DELLA NATURA DELLE COSE CUI SI RIFERISCE, in virtù della qual
comprensione possa, appunto, riferirsi ”7: ecco perché non sa di ciascuna cosa indicare la causa.
LETTURA SU MITO DEGLI ANDROGENI
“E quando ad alcuno di questi, sia l'amatore di fanciulli o altro, avvenga di incontrare la propria metà, allora restano entrambi così
impetuosamente soggiogati dall'amicizia e dall'intimo amore che non soffrono [sopportano]di restare staccati l'uno dall'altro per così dire nemmeno
per poco tempo. Sono questi che insieme trascorrono l'intera esistenza, che non saprebbero dire cosa s'aspettino l'uno dall'altro, perché a nessuno
parrebbe che tutto ciò sia solo comunanza di piacere amoroso come se questa fosse la ragione per cui amano stare insieme con così intensa
passione; ma è chiaro che l'anima loro aspira a tutt'altro, senza che lo sappia esprimere; essa però vagamente indovina ciò che vuole e per oscuri
segni lo palesa. E se ad essi, mentre insieme giacciono, apparisse Efesto con i suoi strumenti e chiedesse: «Cos'è che volete o uomini, voi, l'uno
dall'altro?». E rimanendo quelli dubbiosi, di nuovo chiedesse: «Forse che desiderate soprattutto essere sempre quanto più possibile una cosa sola
l'uno con l'altro, affinché notte e giorno mai dobbiate lasciarvi? Se questo desiderate voglio fondervi e plasmarvi in un essere solo, affinché, di due
divenuti uno, possiate vivere entrambi così uniti come un essere solo, e quando vi colga la morte, anche laggiù nell'Ade siate uno, invece di due, in
un'unica morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...». A queste parole, sappiamo bene che nessuno contraddirebbe,
né mostrerebbe di desiderare altra cosa, ma semplicemente avrebbe l'impressione di aver udito proprio quello che da sempre desiderava, di
congiungersi cioè e di fondersi con l'amato per formare, di due, un essere solo.
E la spiegazione di questo sta qui, che tale era l'antica nostra natura, e noi eravamo tutti intieri: a questa brama di intierezza, al proseguirla,
diamo il nome di amore. Prima di allora, lo ripeto, eravamo uno; ma ora per la nostra arroganza il dio ci ha divisi e dispersi […]
[…] parlando di tutti quanti, uomini e donne, io dico che ecco noi potremmo essere felici solo se conducessimo a perfezione il nostro amore e
se ciascuno di noi si imbattesse con l'essere gemello, restaurando così l'antica natura. Se questo poi è l'ideale, certo delle presenti possibilità la
migliore è quella che più gli s'avvicina, cioè di incontrare l'amato che ci è di indole affine. Ed allora se volessimo celebrare le lodi di un dio autore
di questa felicità, ad Amore giustamente le canteremmo: egli [Amore], per ora, molto ci è largo di aiuti col guidarci verso il nostro vero essere e
per l'avvenire ci assicura le maggiori speranze che, se saremo pietosi verso gli dei, restituendoci guariti all'antico nostro stato, ci renderà beati e
felici.”
[segue nel testo il MITO DI EROS]
L’amore come ‘manìa’ e ‘invasamento’
“l’amore è una mania, un invasamento simile a quello dei misteri dionisiaci e che, come quelli, contiene qualcosa di divino, superiore
all’assennatezza. Al suo primo manifestarsi, oscuro e inquieto, l’A. mescola dolore gioia. Nel sovrapporsi di questi sentimenti l’anima è stranita,
non sa che fare, non trova riposo né di giorno né di notte”
L’amore come elevazione al divino
«riandando col ricordo alla bellezza vera, mette le ali [.. .1 palpita e fermenta in ogni parte e quel che soffrono i bambini con i denti quando
spuntano, quel prurito e tormento, ecco, questo l’anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali» (249d; 251c).
-LE COMPONENTI DELL’ANIMA descritte nel Fedro: l’aspetto sensibile-appetitivo, l’aspetto passionale, l’aspetto razionale
“Al principio di questo nostro mito abbiamo distinto ciascun'anima in tre parti, delle quali due rassomigliandole a corsieri e la terza a un auriga.
Riprendiamo l'immagine. L'uno dei cavalli, dicemmo, è nobile, e l'altro \d\ no; ma quale sia l'eccellenza del virtuoso e il vizio del malvagio non
l'abbiamo spiegato: conviene dunque parlarne ora. Ora l'uno, e cioè quello in miglior forma, è di figura dritta e snella, ha la cervice alta, le froge
regali, il mantello bianco e gli occhi neri, ama la gloria temperata e pudica, [e] ed è amico dell'opinione verace; lo si guida senza frusta solo con
l'incitamento e la ragione. Ma l'altro corsiero ha una struttura contorta e massiccia, messa insieme non si sa come, ha forte cervice, collo tozzo,
froge vili, mantello nero ed occhi chiari e sanguignit0, compagno di insolenzà e di vanità, peloso fino alle orecchie, sordo e a stento da retta alle
sferzate della frusta. “
L’Amore erotico come energia primaria ‘passionale’ che ci porta ai valori spirituali
“ Vedi dunque che se [negli amanti] ottengono la supremazia gli elementi migliori dell'anima " che guidano a una vita ordinata DALL'AMORE
DELLA SAPIENZA, i loro giorni su questa terra [b] saranno beati e in piena armonia, perché sono padroni di se stessi e misurati, avendo
assoggettato ciò che produce il male nell'anima e liberato ciò che è fonte di virtù.
Gli innamorati che, invece di ‘sublimare’ o ‘spiritualizzare’ il loro amore [come -diciamo per un paragone didattico- accade per Dante e Beatrice]
soggiaciono alla passione amorosa, lasciandosi trascinare dai loro sentimenti, non andranno immediatamente in cielo, ma saranno comunque
anch’essi ispirati da esso, e sollecitati ad andarvi in seguito
“ [gli innamorati che non sanno spiritualizzare il loro amore] Alla morte s'allontanano dal corpo senz'ali ma non senza sollecitazioni a rivestirsene,
cosicché portano seco un non piccolo premio del loro delirio amoroso, ché la Legge " prescrive che coloro che hanno già iniziato il viaggio
superceleste non torneranno ancora alle tenebre e al cammino sotterraneo, ma si accompagneranno insieme felici in una vita luminosa e insieme
saranno provvisti di ali, quando sarà il tempo, in grazia dell'amore.”
Le idee, già presenti in noi in modo ‘virtuale’, sono RISVEGLIATE in noi dall’esperienza, come mostrato nel dialogo di ‘Menone’
Le idee sono in noi perché già possedute dell’anima immortale che le ha ‘viste’ nel mondo celeste
e «poiché la natura tutta è congenere, e poiché l’anima ha imparato tutto quanto, nulla vieta che chi si ricordi di una cosa — ciò che gli uomini
denominano apprendimento — costui scopra anche tutte le altre, purché sia forte e non si scoraggi nel ricercare: infatti il ricercare e
l’apprendere sono in generale un ricordare» (Menone, 8id).
Nella lettura che segue Platone riflette sul concetto e di ‘TEMPERANZA’ ed ‘ARMONIA’, e sul loro rapporto, che costituiscono I VALORI
su cui si deve fondare la polis ‘ideale’:
LETTURA SUL CONCETTO DI ‘TEMPERANZA’
“— Secondo me, la temperanza' è una sorta di ordine e di continenza di piaceri e appetiti, come dicono quando usano, non so in che modo,
l'espressione 'più forte di se stesso' e altre simili che rivelano come le tracce della temperanza. Non è vero?
— Assolutamente, rispose. — E non è ridicolo dire 'più forte di se stesso'? Perché chi è più forte di se stesso sarà anche 'più debole di se stesso', e
chi più debole più forte: in tutte queste espressioni si tratta della medesima persona. — Certamente. — Ma, feci io, a mio parere questa locuzione
significa che nel medesimo individuo, entro l'anima sua, esistono due elementi in uno, l'uno migliore, l'altro peggiore; e quando l'elemento
naturalmente migliore s'impone sul peggiore, allora si usa l'espressione 'più forte di se stesso', ed è certo un elogio. Quando invece per un cattivo
sistema educativo o per qualche relazione l'elemento migliore si riduce più fiacco e viene dominato dal peso del peggiore, gli si muove questo
biasimo sotto forma di rimprovero, e si chiama 'più debole di se stessa' e intemperante la persona che si trova in questa condizione. — Sì, rispose,
sembra che significhi così.
— Ebbene, ripresi, guarda la nostra nuova città e vi riscontrerai uno di questi elementi: dirai che con ragione lo si definisce 'più forte di se stesso',
se è vero che ciò la cui parte migliore comanda alla peggiore dev'essere chiamato temperante e 'più forte di se stesso'. — Lo guardo, rispose, ed è
vero quello che dici. — Molti appetiti, piaceri e dolori di ogni genere si troveranno specialmente in fanciulli, donne e servi, e nella massa mediocre
delle cosiddette persone libere. — Senza dubbio.
— Invece i desideri semplici e misurati, guidati dalla ragione insieme con l'intelletto e con la retta opinione, li troverai in poche persone,
ottimamente dotate ed educate. — E vero, rispose. — E non vedi che questo si verifica anche nella tua città? e che qui gli appetiti della
maggioranza mediocre sono dominati dagli appetiti e dall'intelligenza di una minoranza migliore? — Lo vedo, disse. — Se dunque per una città si
devono usare le espressioni 'più forte dei piaceri e degli appetiti' e 'più forte di se stesso', anche questa nostra si deve definirla così. — Senz'altro,
ammise. — E per tutto ciò non si deve definirla anche temperante? — Certo, rispose.
[definizione della ‘temperanza’ come ‘concordia’, cioè come virtù comune alle due diverse componenti della città, quella dei governanti e dei
governati, che dipende dalla accettazione, da parte dei governati, della loro condizione di subordinazione]
— Ebbene, se in un'altra città governanti e governati hanno la stessa opinione su chi deve governare, ciò potrà verificarsi pure nel nostro. Non ti
sembra? — Certissimo, rispose. — Ora, in quale di queste due categorie di cittadini si trova, secondo te la temperanza, quando hanno questa
identità d'opinione? Nei governanti o nei governati? — Negli uni e negli altri, disse. — Vedi, ripresi, che poco fa indovinavamo giusto
considerando la temperanza simile a una specie di armonia? — Perché mai? — Perché essa differisce dal coraggio e dalla sapienza, che si
trovavano questo in una parte della città, quello in un'altra, e così la rendevano rispettivamente sapiente e coraggiosa. La temperanza invece non
agisce così, ma si estende alla città tutta intera e fa cantare insieme, all'unisono, su tutta la scala, i più deboli, i più vigorosi e i mediani, li voglia tu
classificare così in base all'intelligenza o al vigore o al numero o ai denari o a qualunque altro simile criterio. Così avremmo piena ragione di
affermare che questa concordia è la temperanza: naturale accordo degli elementi peggiore e migliore su quale dei due abbia diritto a governare
nella città come in ogni individuo2. — Sono pienamente d'accordo, rispose. — Bene, feci io;
nella nostra città si sono vedute tre doti [= sapienza, coraggio e laboriosità], almeno così sembra. Ora, quale sarà mai la residua, quella che
accrescerà ulteriormente la virtù della nostra città? E chiaro che è la giustizia. “
[ segue la definizione della ‘giustizia’ come accettazione, da parte di ciascuna componente sociale {governanti, guerrieri e lavoratori, la cui virtù
specifica è la ‘temperanza’} della funzione che ad essa componente compete all’interno dello Stato]
La città giusta
“Ebbene, ripresi, ascolta se ho ragione. Secondo me, la giustizia consiste in quel principio che fin dall'inizio, quando fondavamo la città,
ponemmo di dover rispettare costantemente: in esso, o in qualche suo particolare aspetto. Ora, se rammenti, abbiamo posto e più volte ripetuto che
ciascun individuo deve attendere a una sola attività nell'organismo cittadino, quella per cui la natura l'abbia meglio dotato. — Sì, l'abbiamo
ripetuto. — E d'altra parte dicevamo che la giustizia consiste nell'esplicare i propri compiti senza attendere a troppe faccende: è un discorso che
abbiamo udito da molti altri e noi stessi spesso ripetuto 4. — L'abbiamo ripetuto, sì. — Questo dunque, mio caro, continuai, se realizzato in un
determinato modo, può darsi che sia la giustizia: esplicare i propri compiti. Sai da che cosa lo congetturo? — No, ma dillo, rispose. — Dopo aver
esaminato, feci io, la temperanza, il coraggio e l'intelligenza, mi sembra che quanto rimane nella città sia quella dote che a tutte le altre ha dato la
forza di nascervi e, quando sono nate, permette loro di conservarsi, finché viva in esse. Ora, dicevamo che, se avessimo trovato le altre tré, la
residua sarebbe stata la giustizia. — Per forza, sì, rispose. — Però, ripresi io, se bisognasse veramente giudicare quale di esse [quale
virtù:temperanza, coraggio, intelligenza] più contribuirà con la sua presenza a renderci buona la città, sarebbe difficile giudicare se si tratti della
concordanza di opinione tra governanti e governati, o del fatto che i soldati contraggano e conservino l'opinione legittima di quali sono e quali no
le cose da temere, oppure dell'intelligenza e vigilanza insite nei governanti; o se a renderla buona sia soprattutto questa virtù presente nel fanciullo,
nella donna, nello schiavo, nel libero, nell'artigiano, nel governante e nel governato, questa virtù[= la giustizia] per la quale ciascun individuo
esplica il proprio compito senza attendere a troppe cose.”
La famosa CONDANNA PLATONICA DELL’ARTE
L’arte come suggestione, incantesimo e inganno (l’ “illusione artistica”, la “fiction”)
Ricordo che il sofista Gorgia (v secolo a.C.) aveva sostenuto: «La poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e
chi l’ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l’anima patisce,
per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortume di fatti e di persone» straniere».
L’ambivalenza della posizione di Platone rispetto all’arte
(1) l’arte si presenta come un TRAVIAMENTO DELL’ANIMA, perché ESSA AGISCE SULLE NOSTRE PASSIONI PIUTTOSTO CHE SULL’INTELLETTO
E tuttavia non abbiamo per anco portato contro l'imitazione l'accusa maggiore. Questa cioè, ch'ella è capace di guastare, fatta eccezione per pochissimi,
anche i saggi, e questa è cosa veramente terribile. I migliori di noi, quand'ascoltiamo Omero o qual altro vuoi de' poeti tragici, che ne rappresenti un eroe nell'afflizione, il quale disfoga i suoi crucci in un lungo discorso, od anche gente che piange e si flagella, ci prendiamo piacere, e
abbandonandoci ad esso, lo seguitiamo compartecipando al dolore, e ammirati lodiamo il valente poeta, che così, quanto meglio sa, ci dispone.
(2) spicca la condanna dell'arte, che appare in effetti una mera imitazione della realta sensibile; e poiche quest'ultima e a sua volta
un'imitazione della realta ideale, I'arte si configura come una "imitazione dell'imitazione”, quindi come un'attività assai lontana dal mondo delle
idee.
Dunque, a colui che per l'opera sua di tre gradi dista da ciò che è realmente, diamo nome d'imitatore. Il pittore, in verità, si propone d'imitare
ciascuna cosa, non quale ella è in sè, bensì quale è ne' prodotti degli artefici, e questi non quali sono, ma quali appariscono. Infatti un letto, secondo che
un lo riguardi di traverso o di fronte, o per qual si voglia altro modo, non è affatto diverso in se stesso, né per nulla si diversifica, ma pur diverso
apparisce, e le altre cose tutte ugualmente. Ora la pittura è fatta non per ritrarre ciò che è qual esso è veramente, ma per ritrarre l'apparenza
quale ci si rappresenta; e infatti essa è imitazione dell'apparenza anzichè della verità (Rep., X, 595 c-598 b, dalla traduz. Ferrai).
Conclusione sul Bello: esso è sacro, ma resta appannaggio della considerazione filosofica
10) IL TIMEO
LA ‘NATURA’ DEL MONDO EMPIRICO (COMMENTO AL BRANO CHE SEGUE):
Essendo il mondo empirico stato fatto dal Demiurgo secondo il modello di ciò che è eterno, sempre uguale a se stesso e buono (cioè secondo il
mondo delle Idee), anch’esso deve essere buono; mentre , tuttavia, ciò che possiamo dire del modello eterno (il mondo delle idee) è sempre certo
e indubitabile, quello che possiamo dire sul mondo empirico (il mondo in cui viviamo), fatto a sua immagine e raffigurazione, può essere soltanto
un DISCORSO IPOTETICO, CONGETTURALE
Ciò che è nato , è nato da qualcosa; ma è difficile indicare questo qualcosa [Platone infatti non spiega la ‘genesi’ del mondo delle Idee]
“Noi poi diciamo che quello ch'è nato deve necessariamente esser NATO DA QUALCHE CAGIONE. MA È DIFFICILE TROVARE IL
FATTORE e padre di quest'universo, e, trovatelo, è impossibile indicarlo a tutti.
È più utile allora dire secondo quale modello il mondo è stato fatto dal divino artefice : secondo il modello di ciò che è immutabile o secondo il
modello di ciò che è mutevole
Pertanto questo si deve invece considerare intorno ad esso, SECONDO QUAL MODELLO l'artefice lo costruì: se secondo quello che è sempre
nello stesso modo e il medesimo [= secondo ciò che è immutabile ], o secondo quello ch'è nato [secondo ciò che è mutevole]
Ma poiché il mondo fatto è buono, il modello usato per farlo sarà quello di ciò che è eterno e buono
Se è bello questo mondo, e l'artefice è buono, è chiaro che guardò al modello eterno: se no, -ciò che neppure è lecito dire, - a quello nato. Ma è
chiaro a tutti che guardò a quello eterno: perché il mondo è il più bello dei nati, e dio il più buono degli autori.
Ma poiché il mondo è stato fatto secondo un modello preesistente (= il mondo delle idee), il nostro mondo è immagine (‘imperfetta e mutevole) di
quel modello ‘perfetto’
[…] E se questo sta così, è assoluta necessità che QUESTO MONDO SIA IMMAGINE DI QUALCHE COSA. Ora in ogni questione è di
grandissima importanza il principiare dal principio naturale: così dunque conviene distinguere fra l'immagine e il suo modello, come se i discorsi
abbiano qualche parentela con le cose, delle quali sono interpreti.
Tuttavia mentre ciò che si dice di quel che è eterno e immutabile è sempre certo e sicuro, quel che si dice di ciò che è sua immagine (imperfetta e
mutevole) può essere soltanto ‘verosimile’ , ma non ‘certo’ e ‘indubiltabile’
Pertanto quelli [i discorsi ] intorno a cosa stabile e certa e che risplende all'intelletto, devono essere stabili e fermi e, per quanto si può,
inconfutabili e immobili, e niente di tutto questo deve mancare. [= quel che si dice intorno alle idee deve essere certo e indubitabile] . Quelli [i
discorsi] poi intorno a cosa, che RAFFIGURA quel modello ed è SUA IMMAGINE, devono essere VEROSIMILI e in proporzione di quegli
altri”
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