N° 1 - GENNAIO 2015 - TEVET 5775 • ANNO XLVIII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma ISRAELE ITALIA ITALIA ELEZIONI PRO O CONTRO NETANYAHU 27 GENNAIO PER NON DIMENTICARE BENIGNI E I DIECI COMANDAMENTI בס’’ד SHALOMשלום EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA Nonostante tutto bisogna essere ottimisti Israele sogna il grande gol FOCUS www.positivoagency.com LASCIA UN BUON SEGNO TESTAMENTI I progetti di Lasciti e Donazioni danno pieno valore alle storie personali e collettive degli amici del popolo ebraico. Un testamento è una concreta possibilità per aiutare oggi e domani l’azione del Keren Hayesod. FONDI Il nostro buon nome dipende dalle nostre buone azioni. Un fondo a te dedicato o alla persona da te designata, è la migliore maniera di lasciare una traccia duratura associandola ad un ambito di azione da te prescelto. I temi ed i progetti non mancano. Una vita ricca di valori lascia il segno anche nelle vite degli altri. Nel presente e nel futuro. PROGETTI Il KH ha tanti progetti in corso, tra gli altri; progetti per Anziani e sopravvissuti alla Shoah - Sostegno negli ospedali - Bambini disabili - Sviluppo di energie alternative - Futuro dei giovani - Sicurezza e soccorso - Restauro del patrimonio nazionale. Progetti delicati, dedicati, duraturi nel tempo. Di cui sei l’artefice. Giliana Ruth Malki - Cell. 335 59 00891 Responsabile della Divisione Testamenti Lasciti e Fondi del Keren Hayesod Italia vi potrà dare maggiori informazioni in assoluta riservatezza Enrica Moscati - Responsabile Roma Tu con il Keren Hayesod protagonisti di una storia millenaria KEREN HAYESOD Milano, Corso Vercelli, 9 - Tel. 02.4802 1691/1027 Roma, C.so Vittorio Emanuele 173, - Tel. 06.6868564 Napoli, Via Cappella Vecchia 31, tel. 081.7643480 [email protected] EDITORIALE È di soli pochi giorni fa l’annuncio ufficiale - giunto dal Ministero della Difesa israeliano - che l'operazione militare 'Barriera protettiva' svoltasi a Gaza lo scorso giugno, e durata 50 giorni, è da considerare a tutti gli effetti una vera e propria 'guerra'. Quel lungo e sanguinoso scontro tra l'esercito israeliano e le forze di Hamas nascoste in mezzo alla popolazione civile palestinese era già stato immediatamente percepito dall'opinione pubblica, soprattutto israeliana, come una 'guerra sporca', per le difficoltà di un esercito regolare sottoposto a precise regole di ingaggio a operare tra strade, palazzi, colpendo nemici senza divisa, camuffati, disposti a sacrificare donne e bambini pur di arrecare danni materiali e di immagine ad Israele. Ora giunge l’ufficializzazione che quell’operazione - a differenza delle altre due operazioni condotte a Gaza, “Piombo fuso” del dicembre 2008-gennaio 2009 e “Pilastro di difesa” del novembre 2012 - è stata una guerra a tutti gli effetti, sia per la durata del conflitto, sia per il modus operandi teso a distruggere da terra le infrastrutture nemiche, sia per l'alto numero degli israeliani morti (73, di cui 67 soldati), oltre a circa duemila vittime tra i palestinesi. E così dalla fondazione dello Stato nel 1948, Israele ha dovuto sostenere ben otto conflitti militari: la guerra araboisraeliana del 1948 (detta “guerra d’Indipendenza”), la “guerra” di Suez (1956), la “guerra dei Sei giorni” (1967), quella del 1969-1970 contro l’Egitto (detta “guerra d’usura”), la “guerra del Kippur” (1973), la prima e la seconda guerra del Libano (1982 e 2006). Rispetto a tutti gli altri conflitti l'ultimo, quello del 2014, è la prima guerra israelo-palestinese. Questo arido elenco dovrebbe essere sufficiente a dimostrare che il diritto di Israele a vivere entro confini sicuri - affermazione di principio che tutti a parole sottoscrivono - non è stato e non è ancora un principio ed un valore che il mondo arabo vuole sottoscrivere. Anzi il rifiuto verso Israele si è evoluto e la rivendicazione di parte dei territori persi si è trasformata in una richiesta radicale di rivendicazione di tutto il territorio tra il Giordano e il Mediterraneo. È ciò che chiede Hamas, è ciò che auspicano l'Iran e Hezbollah, è ciò che teorizza il Califfato dell'Isis, è ciò che dicono parlando in arabo i leader di Fatah che guidano l'Autorità Nazionale Palestinese. In un mondo normale l'Europa, gli Stati Uniti, il Vaticano, dubiterebbero della credibilità e della serietà di Abu Mazen che all'estero parla di pace e a Ramallah stringe accordi con Hamas che nella sua carta costituente vuole 'gettare gli ebrei a mare'. In un mondo normale la guerra che Israele combatte contro il terrorismo islamico, le misure straordinarie di sicurezza che impone, la caparbia ed eroica volontà di non cedere nonostante il terrore che i palestinesi cercano di portare nelle strade e nelle case israeliane, sarebbero portate ad esempio e costituirebbero elementi per costringere i palestinesi a trattare, pena la progressiva diminuzione dei finanziamenti internazionali. Ma nel mondo rovesciato in cui oggi viviamo Abu Mazen è un uomo di pace, Hamas non è una organizzazione terroristica, e l'Iran può essere un importante elemento di stabilità dell'area. Nel mondo rovesciato in cui viviamo quanto più i palestinesi diventano radicali e rifiutano ogni compromesso, tanto più li si premia aprendogli le porte delle Organizzazioni internazionali. Nel mondo rovesciato Hamas, nonostante avesse costruito decine e decine di tunnel per rapire ed uccidere israeliani, ha ripreso a ricevere ingenti finanziamenti internazionali che ovviamente - essendo un mondo rovesciato - non vengono controllati e vengono utilizzati non per la popolazione civile, ma per riarmarsi. In questo mondo rovesciato è normale che Barak Obama si sia meritato il Nobel per la pace. SHALOMשלום COPERTINA L'anno è nuovo, ma l'Isis e l'Iran rimangono gli stessi 4 6 FIAMMA NIRENSTEIN L’illusione di chi crede che Israele sia un Paese riconosciuto dal mondo UGO VOLLI 8 9 Islamofobia non è una parolaccia ANGELO PEZZANA Yom Kippur: per l’Onu non è una festività religiosa ALESSANDRA FARKAS ISRAELE Elezioni: un referendum su “King Bibi” 10 11 ARIEL DAVID Israele, è allarme povertà PIERPAOLO PINHAS PUNTURELLO PENSIERO Heidegger e il problema dell’antisemitismo ‘metafisico’ 12 13 14 15 GIORGIO ISRAEL 27 GENNAIO 2015: forse è tempo di aggiornare l’agenda PIERO DI NEPI Elogio della normalità CLELIA PIPERNO Una fuga silenziosa DAVID MEGHNAGI EBRAISMO Benigni, i Dieci Comandamenti e le fonti ebraiche 24 25 JONATAN DELLA ROCCA Le responsabilità dei giornalisti secondo la Torà DONATO GROSSER GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Un mondo rovesciato 3 COPERTINA L'anno è nuovo, ma l'Isis e l'Iran rimangono gli stessi Se non prendiamo coscienza con coraggio ed onestà delle minacce che gravano sul mondo occidentale, attendiamoci un 2015 pieno di incognite D GENNAIO 2015 • TEVET 5775 obbiamo ammettere con dispiacere che se una sola foto dovesse mostrare l’immagine più importante, più sofferta e significativa di quest’anno, essa sarebbe quella della decapitazione del giornalista americano James Foley. Il camicione color arancio, il suo viso contratto, il mostro incappucciato poi risultato essere un disk jockey di Londra che ha aderito all’Isis e che con accento britannico spiega che la testa di Foley è necessaria all’acquisizione del sommo fra tutti gli scopi del genere umano, il Califfato Islamico, e che la colpa della morte (e che morte) di Foley è tutta colpa nostra perché tormentiamo e perseguitiamo i depositari dell’unica verità per cui valga la pena di vivere e vincere. Non sono le immagini di un fatto di cronaca ma il punto di svolta del terrorismo islamico, il segnale che ciò che abbiamo di fronte è una battaglia senza quartiere contro un pericolo molto più serio che nel passato, peggiore di quello già terribile inflittoci da Al Qaeda, comparabile a quello che ci propone l’Iran sulla strada della bomba atomica. Il terrorismo dell’Isis è molto pericoloso, quanto lo è il rischio nucleare Iraniano. Perché l’Isis è peggiore di Al Qaeda? Ci sono parecchie e significative motivazioni. Innanzitutto, l’Isis ha tolto ogni limite alla crudeltà, niente è proibito ai più bassi istinti della natura umana in nome del Califfato Islamico: si può fare un’esibizione di teste tagliate, si può ergere in cima a una picca la testa di un bambino, ci si può giocare a calcio, si possono mettere in fila perversi gruppi di condannati a morte per le più varie ragioni, dal 4 fatto che siano sciiti al fatto che siano yazidi, oppure che siano semplicemente abitanti di un villaggio che si vuole conquistare e si può tagliare loro le teste una dopo l’altra in serie, vantandosi poi sui social network di averlo fatto con una spada arrugginita perché il condannato soffrisse di più il fatto di essere un infedele. Si possono mettere in fila i prigionieri innocenti davanti a un fiume e ucciderli col colpo in testa mentre con un calcio li si butta nell’acqua. Si possono rapire, uccidere, torturare, stuprare, vendere al mercato le donne di un villaggio nemico, e incaricare le proprie donne di diventare le kapò e le tenutarie dei bordelli in cui le schiave vengono utilizzate. Si può anche uccidere senza pietà i propri stessi compagni solo che si lamentino dopo essersi resi conto che il loro viaggio in Siria o in Iraq per unirsi all’armata dei mostri non è esattamente come se lo immaginavano. Anche i pentiti sono vittime di stragi immediate. In secondo luogo, l’Isis è diverso perché oltre alla fortissima scelta ideologico-religiosa, ha un piano di guerra molto preciso. Nato in Iraq sulle rovine di Saddam Hussein, impossessatosi dei suoi uomini e delle sue armi e poi avendo conquistato quelle che gli americani avevano conferito all’esercito iracheno, ha scelto innanzitutto di distruggere il confine con la Siria, è infiltrato ormai in Egitto, in Libia, in Libano... con varie alleanze come quella con una parte di Jabat al Nusra muove verso la Giordania e Israele, insomma disegna non solo sulla carta geografica ma nella realtà un nuovo spazio territoriale in suo potere, destinato ad allargarsi. Il suo esercito è in grado di combattere con armi avanzate e pesanti, mezzi corazzati, auto blindate, radar, kalashnikov. In terzo luogo, sanno come trovare soldi, molti soldi, tramite i pozzi di petrolio occupati, le banche rapinate, i contributi dei sostenitori, i ricatti per i rapiti. I loro stipendi sono abbastanza alti rispetto alla zona, il loro esercito, molto bene organizzato, non va mai all’attacco con meno di 500 uomini, ed è in parte mercenario e in parte volontario, e qui viene la quarta differenza: Isis può contare su volontari da tutto il mondo, i suoi uomini sono spesso giovani di Parigi, Londra, Roma, Boston, Ottawa, Sidney, figli di immigrati che si sentono esclusi, fanatici alla ricerca di una causa, convertiti all’Islam imbambolati dal lavaggio del cervello nelle moschee, nelle madrasse, nei caffè dotati di narghilé, e sui social networks, e anche ragazze che vedono un assassino travestito da eroe e partono per l’avventura della loro vita, magari per sposarsi. Ogni idiota, ogni persona fragile di mente, isolata, in una situazione sociale incerta, può diventare un assassino dell’Isis. E poi tornano da noi e compiono attentati nelle nostre strade, fra le nostre mura e questo aspetto diventerà sempre più importante, come si vede dall’intensificarsi degli attacchi al grido di Allah hu Akbar a Parigi o a Sidney. E qui viene un altro elemento che differenzia questo terrorismo dagli altri. Nel passato, gli attacchi erano, per così dire, molto più complessi: si trattava in genere di un piano, il sequestro di un aereo, di una nave, di una scolaresca, si pensava l’attacco per un evento specifico, un personaggio determinato. Adesso, il social network pieno di filmetti che definirei pornografici seguita a ripetere, fra una bandiera nera e l’altra, di attaccare il nemico dovunque ti trovi con qualsiasi arma. E così se hai un’automobile, un coltello, una bottiglia di varechina sei invitato a usarli per la gloria dello Stato islamico. Questo naturalmente rende molto larga la platea dei Sar tor ia cosiddetti “lupi solitari” che non sono identificabili per un piano che possa essere rivelato, scoperto, individuato dalla polizia o dai servizi segreti. Un ulteriore problema, gradissimo, è che noi non vogliamo ammettere ciò che vediamo, che abbiamo paura di essere accusati di islamofobia se solo qualcuno decide di prendere in considerazione il fatto che tutti gli attentatori si dichiarano in guerra per la conquista del mondo al califfato. I politici si affrettano a dichiararli degli squilibrati, dei mentecatti isolati, e quindi non cercano e non agiscono nel modo giusto. Senza contare, che fino ad oggi le leggi contro il loro rientro nel Paese di cui possiedono un passaporto da poco usato per andare a combattere in Iraq o in Siria sono molto lasche, e prima di accusare qualcuno di terrorismo da noi ci vogliono prove che non hanno niente a che fare col garantismo, sempre sacrosanto, ma solo col politically correct, sempre sbagliato. Dell’Iran abbiamo parlato molto volte: qui mi limiterò a dire che niente può essere più sbagliato della scelta di Obama di affidare a un eventuale Iran pacificato un compito di stabilizzazione del Medio Oriente. L'Iran è il patron di Assad, degli hezbollah, di Hamas, del nuovo Yemen conquistato dai suoi, è stata la forza che con la persecuzione dei sunniti in Iraq ha di fatto spinto avanti la formazione dell’Isis. E’ un paese che ha appena lapidato una ragazza, che era stata stuprata, per adulterio, che impicca gli omosessuali, che perseguita i dissidenti e che persegue una politica genocida nei confronti di Israele. Niente, proprio niente potrà trasformare la sua politica imperialista in una forza di stabilizzazione. Dobbiamo cavarcela da soli, con questi e con quelli, il califfato o lo stato islamico degli ayatollah hanno programmi di conquista opposti e simili. Buon 2015. FIAMMA NIRENSTEIN Via Ver o ne · · Parochet kippot ricami sartoria SERVICE DI CAMBIO ETICHETTE CONTO TERZI Riparazioni sartoriali e piccola tappezzeria PERSONALIZZAZIONE ABITI DA LAVORO Via Giuseppe Veronese, 60/68 - Roma Tel. 06.5594137 www.ricamiepersonalizzazioni.com · SARTORIA VIA VERONESE GENNAIO 2015 • TEVET 5775 · se 5 COPERTINA L’illusione di chi crede che Israele sia un Paese riconosciuto dal mondo Non vi è ‘amore’ per la causa palestinese, ma una fortissima antipatia della comunità internazionale per lo Stato ebraico, accusato e spesso isolato come nessuna altra democrazia GENNAIO 2015 • TEVET 5775 I 6 l primo sentimento nel mondo ebraico e fra gli amici di Israele di fronte alle sconfitte diplomatiche degli ultimi mesi (le mozioni a favore del riconoscimento di un’inesistente “Stato di Palestina”, la sentenza della Corte di Giustizia europea che mette in dubbio il carattere terrorista di Hamas e in fondo legittima l’organizzazione islamista, l’appoggio europeo all’”intifada dell’Onu” di Abbas, eccetera), è stata certamente la sorpresa. In molti settori del mondo ebraico quel che è seguito non è l’indignazione, esplosa in Israele e fra i suoi amici, ma la rimozione, il tentativo di dimenticare e di non considerare. Nessuna meraviglia, dato che altrettanto era successo con l’antisemitismo fascista e comunista (sempre esistiti, sempre dichiarati, sotto sotto sempre praticati, ma pubblicamente esposti solo in certi periodi) e perfino con quello nazista, che a lungo non fu preso sul serio da parti importanti del mondo ebraico. Perfino di fronte alle prove chiarissime della Shoà, circolate largamente nel mondo libero a partire dal 1943, il vertice del grande ambiente ebraico americano scelse di tacere, di non porre la questione. Abbiamo fatto polemica sul silenzio del Vaticano di fronte al genocidio; dovremmo farlo anche per il silenzio del New York Times (di proprietà ebraica, allora come oggi) e della parte più “progressista” della comunità ebraica americana. Sistematicamente il NYT dava le informazioni sui Lager nelle pagine interne, sommerse in articoli con notizie varie sulla guerra. I vertici comunitari americani evitarono in tutti i modi di mettere Roosevelt di fronte alla tragedia dello sterminio. Per non metterlo in difficoltà, spiegarono poi, col suggerire che la guerra dovesse servire a salvare gli ebrei. Il che la dice lunga. Al di là del giudizio morale - che bisogna pur dare - sulla viltà storica di buona parte della sinistra ebraica americana (e non solo e non solo d’allora), sulla scelta comune ai “progressisti” di allora e di oggi di privilegiare l’appartenenza politica alla lealtà al popolo ebraico, bisogna innanzitutto chiedersi come mai la valutazione della situazione politica internazionale da parte di molti degli osservatori che si richiamano al mondo ebraico sia così poco lucida. Bisogna cioè chiedersi non solo ragione della rimozione e della sottovalutazione, ma anche della sorpresa, dato che in fondo questa ragione è la stessa, è una forma di illusione. L’illusione è che il mondo abbia un atteggiamento normale nei confronti di Israele, che abbia accettato la sua esistenza e naturalmente abbia superato ogni forma di antisemitismo (a parte qualche isolato reazionario) e che quindi l’atteggiamento politico nei confronti di Israele dipenda esclusivamente dal suo modo di agire: se si “comporta bene”, in particolare naturalmente “facendo la pace” coi “palestinesi” e rinunciando all’ “occupazione” dei “territori palestinesi”, Israele sarà premiato, se non lo fa e quindi “si comporta male”, in particolare difendendosi dalle aggressioni, allora e solo allora sarà punito. Lo stesso giusto criterio si applicherebbe, secondo questa illusione, a tutti gli altri paesi del mondo. Si tratta, lo ripeto ancora, di un’illusione. L’Europa e le organizzazioni internazionali vogliono certamente che Israele “si comporti bene” rinunciando completamente ai territori conquistati nella guerra difensiva del 1967, vogliono che ceda all’Autorità Palestinese Giudea e Samaria, senza chiederle in cambio né di riconoscere la legittimità di uno stato ebraico su un territorio conquistato a suo tempo dall’Islam (che è la ragione teologica profonda della guerra ormai secolare che gli islamici fanno contro Israele), né di smilitarizzarsi, né di sancire la fine della vertenza con Israele e dunque di rinunciare a ogni altra pretesa - come per esempio l’Italia ottenne con l’Austria a proposito dell’Alto Adige. Ma tutto questo non basta. L’amministrazione Obama sta facendo una dura battaglia legale, iniziata in realtà già sotto Bush, per impedire che sul passaporto di un bambino di cittadinanza americana nato a Gerusalemme (per chiarire, anche se la distinzione ai miei occhi non ha senso: a Gerusalemme Ovest, al di qua della “linea verde”) sia segnato come paese di nascita Israele. Ciò significa non solo che il governo americano non intende riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, seguito in questo da tutti i paesi del mondo che rifiutano di collocare le loro ambasciate a Gerusalemme anche al di qua delle vecchie linee armistiziali, e dai giornali che ostinatamente mentono parlando di “governo di Tel Aviv” o con la classica figura retorica della sineddoche che “Tel Aviv ha fatto questo o quest’altro” per indicare Israele. Vuol dire anche che gli Stati Uniti non sono disposti a sottoscrivere nessun documento, neppure amministrativo come un passaporto, in cui si affermi che Gerusalemme, qualunque parte di Gerusalemme, anche la sede della Knesset o della Presidenza della Repubblica, siano parte di Israele. Appena si chiudesse un riconoscimento dello “Stato della Palestina”, verrebbe fuori la contestazione della legittimità dell’Israele del ‘49, i cui limiti, come quelli successivi al ‘67 sono il risultato di una guerra difensiva vinta. In realtà la simpatia della comunità internazionale, o almeno delle sue classi dirigenti politiche, per Israele è molto scarsa; lo dimostrano non solo incidenti di percorso come la conversazione registrata per caso o fatta trapelare apposta qualche anno fa fra Obama e Sarkozy con toni ingiuriosi; ma anche le votazioni all’Onu e in altri organismi internazionali, che finiscono regolarmente in una quasi unanimità contro Israele, con i paesi occidentali schierati sistematicamente (salvo Usa, Australia e Canada) contro Israele e dalla parte araba. La diplomazia internazionale, più in generale l’élite politica europea e i “progressisti” di tutto il mondo preferirebbero che Israele non ci fosse, lo considera una fonte di fastidi e di problemi, non hanno nessuna particolare ammirazione per la sua democrazia o per il suo successo economico e tecnologico. E l’Europa sarebbe ben felice di ripetere il gesto del ‘73, quando rifiutò il transito agli aerei americani che portavano rifornimenti vitali per la sopravvivenza militare di Israele. Se si rifacesse oggi la votazione che ha istituito lo stato di Israele nel ‘47 senza dubbio lo stato ebraico perderebbe la partita non solo con i paesi del Terzo Mondo, ma anche con quelli europei. Questo spiega la sorpresa e l’illusione. Come gli ebrei occidentali fra l’emancipazione e la Shoà credettero in buona parte di essere integrati e al sicuro da sentimenti medievali come l’anti- semitismo e come in fondo molti credono ancora questo dopo e nonostante la Shoà, impegnandosi a essere buoni cittadini, impegnati e di successo, con l’illusione che i loro meriti politici e sociali, la loro rispettabilità sociale, il loro contributo economico li mettano al sicuro dall’odio, così molti pensano che lo stesso valga per Israele. Non fosse che per quei fanatici che continuano a occuparsi del Tempio o vogliono insediarsi nelle terre degli avi, tutto sarebbe facile, si potrebbe abbracciarsi con gli arabi che riconoscerebbero certamente la generosità e il carattere pacifico di uno stato “progressista” e sarebbero ben contenti di dividere i “dividendi della pace”, come dicevano i collaboratori di Rabin trent’anni fa. E’ un bel sogno, peccato che la realtà l’abbia smentito: per i cittadini europei “di religione mosaica”, discriminati e uccisi nonostante la loro buona volontà e rispettabilità e per Israele che si è dovuto salvare da solo e ancora lo deve fare dall’odio che lo circonda, con pochissimi amici veri nel mondo. Dobbiamo aspettarci altri gesti “simbolici” come quelli dei parlamenti europei e della Corte di giustizia dei mesi scorsi e anche che questi gesti diventino atti politici reali: non per amore ai “palestinesi” o per “senso di giustizia” ma per odio verso Israele (e sullo sfondo non confessato, per antisemitismo). Solo una grande capacità politica e una sicura considerazione dei pericoli e degli obiettivi da parte del governo israeliano, non l’illusione pacifista o il “pensiero desiderante” del “volemose bene” potrà impedire che seri danni ne seguano. 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La prima e più evidente è che è mancata la presa di distanza dal terrorismo da parte della società musulmana nel suo insieme. Ne conosciamo le ragioni, che però ci aiutano solo in parte a capire perché questo distacco non si è verificato. Nei viene invece presentato quale oppressore dei propri nemici, accusato persino di 'occupare' territori nei quali non esiste nemmeno l'ombra di un ebreo - Gaza, per esempio - sempre presentata non per quello che invece è: una entità che ha nel proprio statuto la distruzione di Israele. Gli attentati che avvengono spesso nelle città israeliane, per bene che vada, sono attribuiti a 'lupi solitari', che agiscono non in base a un programma politico organizzato, ma spinti dalla rabbia che gli attentatori provano per vivere in uno Stato che li opprime. Così il cerchio si chiude, con la sola Israele nella parte del responsabile. Che dietro a questi crimini ci sia una ideologia che si richiama al Corano viene sempre ignorato, così come non viene mai fatto notare il grido di Allah Uakbar che accompagna il crimine. Urlava Allah Uakbar anche il musulmano che il mese scorso ha investito con la propria auto a Digione undici persone che aspettavano il bus a una fermata (identico a quello avvenuto a Gerusalemme). Sui nostri quotidiani è stato definito 'squilibrato', una definizione che avrebbe potuto essere accettabile solo se preceduta da 'criminale islamico'. Invece no, ecco un 'lupo solitario' che agisce da solo, quindi non rappresenta un vero pericolo, non paesi arabo-islamici la pratica del dissenso - tipica dei regimi democratici - è pressoché sconosciuta, chi osa contestare la politica del proprio governo mette a rischio sicuro la libertà personale, a volte anche la vita. Non solo il governo, questo vale anche per la religione, quando si identifica con lo Stato, il che avviene in tutti i Paesi musulmani. Il silenzio che ne segue cancella le buone intenzioni di chi distingue nelle società musulmane la moderazione dall'estremismo, al quale segue evidentemente il terrorismo come azione politica. Se esiste un islam moderato, ripetiamo, se esiste, esso scompare per lasciare evidente solo il suo lato estremo. Questa premessa aiuta a capire perché non ha alcun senso, nel mondo occidentale, l'uso della parola "islamofobia", in quanto l'unico islam che ci è dato conoscere è quello che contrassegna i gruppi terroristi che insanguinano il mondo, e, paradossalmente, ma neanche troppo, gli stati islamici innanzi tutto. Che poi queste guerre fratricide avvengano sotto il segno della rivalità sciita-sunnita - una spiegazione storicamente ineccepibile - nulla tolgono all'obiettivo proclamato da entrambe le componenti terroriste: l'attacco ai valori dell'Occidente, primo fra tutti la democrazia. Un terrorismo che viene regolarmente sottovaluto - se non ignorato quando colpisce Israele. Lo Stato ebraico, vittima del terrorismo, dobbiamo preoccuparcene più di tanto. Non dobbiamo nemmeno porci domande, perché potremmo venire catalogati come "islamofobi", perché, in base a questa etichetta, vedremmo nell'islam un programma di asservimento, di sottomissione, mentre si tratterebbe di una religione, anzi, come ci viene ricordato, una 'religione di pace', malgrado il suo testo sacro - il Corano - venga regolarmente brandito a mo' di machete dai tagliagole quando 'giustiziano' quei malcapitati finiti nelle loro mani insanguinate. Nel caso dell'islam, la fobia è più che giustificata, soltanto un non vedente potrebbe sostenere il contrario. Fino a quando il terrorismo islamico non verrà sconfitto - ma dopo la recente cancellazione di Hamas dalla lista dei movimenti terroristi da parte del Tribunale Europeo, ci appare un obiettivo lontano nel tempo - essere islamofobi è l'unica reazione sensata per fermare chi vuole distruggere quei valori di libertà e giustizia che sono alla base della democrazia. Se Israele è in prima linea, subito dopo toccherà all'Europa, di segnali ce ne sono già stati in gran numero, ma non sufficienti. A difendere la pace e la democrazia non sarà la resa a chi urla Allah Uakbar prima di ucciderci. ANGELO PEZZANA È la giusta reazione di fronte al silenzio dell’islam ‘moderato’ che non critica il terrorismo e il fanatismo islamico GENNAIO 2015 • TEVET 5775 F 8 Yom Kippur: per l’Onu non è una festività religiosa Gli uffici dell’Organizzazione mondiale chiudono per le grandi ricorrenze cristiane e islamiche, ma non per il giorno più solenne dell’ebraismo. Una vergognosa discriminazione che deve finire New York Times ha fatto sua la causa, invitando l’Onu alla coerenza: “non scordiamoci che il suo emblema mostra il pianeta unito nell’abbraccio di due ramoscelli d’olivo”, ha sottolineato, “mentre il suo statuto afferma, almeno sulla carta, uguali diritti per tutte le nazioni grandi e piccole”. Il mese prima, mentre infuriava la guerra di Gaza e le proteste globali contro Israele infuocavano le piazze, 32 ambasciatori di altrettanti paesi (tra cui Argentina, Uruguay, Canada, Etiopia, Ruanda e Guatemala) hanno inviato senza troppa fanfara una lettera all’Assemblea Generale dell’Onu, esortandola a riconoscere Yom Kippur tra le feste ufficiali dell’organizzazione. All’appello mancava l’Italia, solidale con le cancellerie degli altri paesi UE. “La proposta è all’attenzione della Quinta Commissione dell’Assemblea Generale che si occupa delle questioni budgetarie-finanziarie del sistema ONU, e l’Italia partecipa al negoziato all’interno del gruppo dei 28 dell’Unione Europea”, spiega il Consigliere dell’Ambasciata italiana Giovanni Davoli. “Oltre allo Yom Kippur, sono all’esame altre 3 proposte di nuove festività ONU. Non siamo contrari a nessuna delle 4 proposte”, precisa Davoli, “tuttavia, insieme ai partner della UE, riteniamo che sarà comunque necessario mantenere l’attuale numero di 10 festività previste per il sistema ONU nel corso dell’anno solare”. Quindi se entra lo Yom Kippur deve uscire qualche altra festività? “L’Unione Europea non propone l’esclusione di nessuna ricorrenza in particolare”, ribatte il funzionario italiano, “negoziamo con spirito aperto e speriamo di trovare una soluzione accettabile per tutti”. L’equilibrismo – o meglio l’ambiguità - dell’Unione Europea non sorprende i leader delle organizzazioni ebraiche americane, che da anni denunciano l’accanimento anti-ebraico e anti-israeliano delle Nazioni Unite. “Data la tradizionale ostilità dell’Onu contro Israele e l’aumento dell’antisemitismo e degli sforzi per delegittimare lo stato ebraico”, punta il dito Malcolm Hoenlein, capo della importante Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, “riconoscere Yom Kippur sarebbe un passo nella direzione giusta”. “Il verdetto finale dell’assemblea generale sarà la vera cartina al tornasole di come l’Onu vede i suoi ebrei”, gli fa eco Daniel S. Mariaschin, vicepresidente esecutivo della B’nai B’rith International. La maggior parte dei quali, va ricordato, non ha certo in tasca un passaporto israeliano. ALESSANDRA FARKAS Nella foto in alto: l’ambasciatore israeliano all’Onu Ron Prosor GENNAIO 2015 • TEVET 5775 N EW YORK – Yom Kippur festa ufficiale delle Nazioni Unite? L’idea, a dir poco temeraria in un’organizzazione che, a detta del suo ex Segretario Generale Kofi Annan, “è al servizio di tutti tranne che degli ebrei”, è partita lo scorso maggio dall’ambasciatore israeliano all’Onu Ron Prosor. “Delle tre religioni monoteiste, soltanto due sono riconosciute dal calendario dell’Onu”, ha scritto Prosor in una lettera indirizzata agli ambasciatori dei 193 stati membri. “Questa discriminazione”, ha aggiunto, “deve finire”. Delle 10 festività ufficiali oggi riconosciute al Palazzo di Vetro, sei sono ricorrenze federali americane, quattro sono feste religiose. Di queste, due le cristiane (Natale e Venerdì Santo) e due quelle mussulmane (Eid al-Fitr e Eid al-Adh). Inserite nel 1998, queste ultime, in seguito ad una risoluzione dell’Assemblea Generale: lo stesso organo chiamato a legiferare in merito allo Yom Kippur. Ma mentre tutti gli uffici Onu rimangono chiusi e i lavori si fermano durante queste quattro ricorrenze religiose, lo stesso non accade per il giorno più solenne del calendario ebraico. Anzi, quasi tutti gli anni esaso coincide con l’avvio dei lavori dell’Assemblea Generale, quando i leader mondiali convergono a New York, costringendo delegati e funzionari ebrei a dover scegliere tra obblighi professionali, fede e famiglia. “Crediamo che il calendario delle Nazioni Unite debba riflettere i suoi principi ispiratori di coesistenza, giustizia e rispetto reciproco”, ha tuonato Prosor, “è ora che i numerosissimi dipendenti ebrei dell’Onu non siano più obbligati a lavorare a Yom Kippur”. “Milioni di ebrei che vivono in oltre 120 paesi del pianeta”, ha aggiunto, “si sentirebbero finalmente benvenuti nella grande famiglia delle nazioni”. Per Yoram Goren, primo segretario della missione israeliana all’Onu incaricato del dossier, “si tratta di un tema squisitamente di natura religioso-culturale”. “Israele e la politica qui non c’entrano affatto”, assicura, definendo la mobilitazione “una questione che può colmare le distanze e avvicinare le parti perché Yom Kippur si appella ai valori universali di riconciliazione, perdono e tolleranza”. In un appello pubblicato a fine agosto, il PERIZIE E VINTAGE RESTYLING 9 ISRAELE Elezioni: un referendum su “King Bibi” Dopo due anni gli israeliani tornano alle urne, per un voto che suona come un referendum sulle politiche del premier Benjamin Netanyahu GENNAIO 2015 • TEVET 5775 N 10 on è durata a lungo la grande coalizione messa insieme per guidare Israele dopo le elezioni del gennaio 2013. Dopo meno di due anni, la maggioranza si è sfaldata di fronte a un progetto di legge costituzionale, appoggiato dal Premier Benjamin Netanyahu, che avrebbe definito Israele uno Stato ebraico senza riaffermarne le caratteristiche democratiche o garantire i diritti delle minoranze. Ma non è stato solamente il controverso progetto di legge a spingere i partiti centristi guidati dal ministro delle Finanze Yair Lapid e dal ministro della Giustizia Tzipi Livni a uscire dalla coalizione. Dietro la fine della loro breve alleanza con Netanyahu ci sono mesi di disaccordi sulle politiche economiche, la fine del negoziato con i palestinesi, l’esito incerto della guerra contro Hamas a Gaza, e il crescente strapotere della minoranza dei coloni a scapito delle politiche moderate nel governo e a detrimento della difficile posizione internazionale d’Israele. Quello che tornerà alle urne il 17 marzo è un paese profondamente diviso tra destra e sinistra, tra seguaci del leader del partito Likud e oppositori convinti che sia ora di mandare a casa il primo ministro che dal 2009 è il re incontrastato della politica israeliana: “King Bibi” - come lo ha definito il settimanale americano Time. Ma è un paese anche confuso e incerto sulle prospettive politiche future, come dimostra un sondaggio commissionato dal quotidiano Haaretz, secondo cui il 54 percento degli elettori non vuole che Netanyahu mantenga la poltrona di primo ministro, ma allo stesso tempo una maggioranza relativa continua a considerarlo il candidato più credibile. Questa confusione nasce in parte dall’apparente assenza di una leadership all’opposizione in grado di rimpiazzare Bibi. Ma esiste un’alternativa a Netanyahu? Riuscirà il centro-sinistra a strappare la maggioranza alle destre e formare un governo stabile? E chi guiderebbe il paese in questo caso? L’alternativa principale è quella rappresentata dall’alleanza tra il leader laburista Isaac Herzog con Tzipi Livni e il suo partito Hatnuah. I due hanno siglato un’intesa per unire le loro liste elettorali, promettendo di alternarsi dopo due anni, a metà mandato, sulla poltrona di primo ministro. L’alleanza tra il partito più grande della sinistra e il piccolo movimento di Livni ha suscitato perplessità tra gli osservatori politici. Alcuni, soprattutto a sinistra, hanno visto nella generosità di Herzog un segno di debolezza, un prezzo troppo alto pagato per un’unione con una leader ormai “bruciata” agli occhi dei tradizionali elettori dell’opposizione per la sua alleanza con Netanyahu. I commentatori più moderati vedono invece nella mossa di Herzog un cambiamento di rotta dei laburisti, che ora guarderebbero più verso il centro piuttosto che alla propria sinistra per cercare maggiori consensi. Herzog potrebbe aver cercato anche di aggiungere alla sua squadra una personalità di rilievo come la Livni, ex ministro degli Esteri e pupilla del defunto Ariel Sharon, poiché il leader laburista soffre di un deficit di carisma ed esperienza agli occhi del pubblico israeliano. Figlio del presidente Chaim Herzog, il cinquantaquattrenne Buji ha occupato qualche dicastero di secondo piano in precedenti governi, guadagnandosi la fama di grigio ed efficiente burocrate ma non certo quella di grande leader. I sondaggi danno la nuova lista di centro-sinistra più o meno a pari merito con il Likud, quindi l’esito elettorale dipenderà in gran parte, come spesso accade in Israele, dal numero di seggi vinti dai piccoli partiti di centro e dalle scelte che questi ultimi faranno in fatto di alleanze subito dopo il voto. L’innalzamento della soglia di sbarramento dal 2 al 3,25 percento dovrebbe portare una certa riduzione del frazionamento causato dal sistema elettorale proporzionale, ma il mosaico politico israeliano continuerà a essere variegato, con tanti piccoli partiti spesso in grado di fungere da ago della bilancia per decidere chi governerà il paese. In questo panorama, si prevede un crollo per Yesh Atid (C’è Un Futuro), il partito di Lapid, il giornalista televisivo sceso in campo con promesse di riforme economiche sull’onda delle proteste contro il carovita. Quello che era stato il volto nuovo delle ultime elezioni, portando Yesh Atid a diventare il secondo partito del paese dopo il Likud, sembra ora destinato a perdere più della metà dei suoi seggi, complice la delusione degli elettori per gli scarsi risultati ottenuti nei due anni passati da Lapid al dicastero delle Finanze. Per queste elezioni, la “new entry” si chiama Moshe Kahlon, leader del nuovo partito Kulanu (Tutti Noi). Ex membro del Likud, per il quale è stato ministro delle Telecomunicazioni e del Welfare, Kahlon è apprezzato dal pubblico israeliano soprattutto per aver portato avanti una riforma del mercato della telefonia mobile che ha introdotto nuovi operatori, portando a una riduzione dei prezzi per i consumatori. Kahlon, che promette di proporre la sua “Rivoluzione dei cellulari” nei tanti altri settori dell’economia israeliana in cui i prezzi sono tenuti artificialmente alti da scarsa concorrenza, tasse e barriere legislative, potrebbe unirsi a Lapid e insieme formare il gruppo parlamentare più grande alla Knesset, decisivo per qualunque maggioranza. Gli altri arbitri importanti della vita politica israeliana sono i partiti religiosi. Lasciati fuori dall’attuale governo, cercano ora la rivincita ma Shas, il principale partito cui fanno riferimento gli ebrei ortodossi, ha subito una scissione tra l’ala più moderata guidata dal leader Arieh Deri e quella più vicina alle destre guidata dall’ex ministro dell’Interno Eli Yishai, che ha deciso di fondare un suo movimento. Questo divorzio potrebbe ridurre la presenza in parlamento dei religiosi e il loro peso politico. Ma il fatto che persino un elettorato solitamente compatto come quello ortodosso si sia spaccato è anche un segno della forte polarizzazione politica che attraversa oggi Israele - un paese diviso tra destra e sinistra, tra chi ama e chi odia “King Bibi”. ARIEL DAVID In alto: Moshe Kahlon, in basso Isaac Herzog con Tzipi Livni Israele, è allarme povertà U na vecchia canzone yiddish raccontava di una cugina bellissima, piacente e giovanile che si tramuta, con gli anni, in una vecchia arpia. La metafora del motivetto nascondeva la frustrazione dei nuovi immigrati ebrei negli Stati Uniti che partivano per il paese d’oro e si ritrovavano nella “terra di Colombo che vada al diavolo!”, come amaramente terminava il motivetto. In questi giorni, in Israele, stiamo provando a capire se anche questa nostra cugina sia bella e giovanile o meno, visto che gli ultimi dati pubblicati dopo le ricerche di alcune organizzazioni umanitarie come Latet hanno raccontato una realtà sociale allarmante. Secondo i dati resi pubblici da Latet sarebbero più di 2.600.000 gli israeliani che vivono in condizioni di povertà e di questi 932.000 sarebbero bambini. Le ricerche dell'istituto del Bituach Leumi, della previdenza sociale, confuta questi dati ed afferma invece che gli israeliani che vivono in condizione di povertà siano 1.600.000. I ricercatori di Latet sostengono che le ricerche ufficiali dello Stato hanno tenuto conto solo dei dati del 2013 e non riflettono i dati del 2014 con i relativi tagli agli stipendi, agli aiuti economici per le famiglie con bambini, così come dell'aumento delle imposte. Le critiche ai dati pubblicati da Latet sono sostenute dal fatto che questi non hanno avuto riscontro nel mondo accademico e sono basati solo sulle ricerche della stessa fondazione e su elementi soggettivi legati al suo lavoro, mentre i dati pubblicati dalle ricerche di Stato si basano su oggettivi calcoli tra entrate ed uscite. Di fatto fuori la porta di organizzazioni come Latet e come Patchon Lev ogni settimana ci sono centinaia di persone in attesa della distribuzione di cibo gratuito: pensionati che hanno dovuto affrontare operazioni chirurgiche con relative spese straordinarie che hanno depauperato i loro pochi risparmi, nuovi immigrati che non hanno maturato anni di pensione nei loro paesi d'origine e che sono immigrati già troppo anziani per poter ottenere una adegua- ta pensione in Israele, giovani che non riescono ad inserirsi nel mondo del lavoro e sono costretti a vivere con i propri genitori, famiglie che a mala pena riescono a dare ai loro figli un livello di nutrimento sufficiente. Una delle donne in attesa del proprio turno per ricevere cibo nella sede di Patchon Lev nei pressi di Tel Aviv, intervistata ha raccontato la sua vita attenta ad ogni spicciolo e si è chiesta: "Qui a Tel Aviv vedo torri alte con penthouse in vendita e non capiscono per chi siano visto che incontro sempre più israeliani che chiedono cibo in luoghi come questo." Le reazioni del mondo politico di Israele alla pubblicazione di questi dati sono state unanimi ed allarmate, la deputata Miri Reghev ha affermato che bisognerebbe aumentare immediatamente lo stipendio minimo sindacale, mentre Ghila Gamliel ha approfittato dei tragici dati pubblicati per criticare l’operato dell’attuale governo ed in special modo del partito Yesh Atid, mentre il deputato Izik Smoli ha usato i dati per criticare le politiche economiche del primo ministro Netanyahu. Di fatto la tensione politica e la differenza tra i dati governativi e quelli delle organizzazioni umanitarie non spiegano chiaramente all'israeliano medio se stiamo vivendo la prima parte della canzone yiddish, con una bella e giovane cugina o siamo già nella seconda strofa con la cugina imbruttita e senza alcun trucco che copra le rughe. Nissim Zioni, direttore amministrativo dell’organizzazione Patchon Lev, ha affermato: "Noi non abbiamo bisogno dei report governativi o meno per comprendere la dura realtà dei poveri di Israele. Già dal giovedì arrivano nei nostri centri di distribuzione centinaia di persone che chiedono aiuto ed i mezzi sono pochi per poter aiutare tutti. L'unica soluzione per una situazione del genere può essere data per via legale con la creazione di un dipartimento che si occupi a livello nazionale della povertà e che sviluppi politiche contro un livello di povertà che si accumula di anno in anno. Senza un serio approccio governativo la cura contro la povertà finirà in secondo piano". PIERPAOLO P. PUNTURELLO GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Cresce il numero delle persone che ricorrono settimanalmente alla distribuzione di cibo gratuito. Ma quanti sono i poveri? È guerra dei numeri tra organizzazioni umanitarie ed enti governativi 11 PENSIERO Heidegger e il problema dell’antisemitismo ‘metafisico’ Grazie al nuovo libro di Donatella di Cesare, si riapre il dibattito sul rapporto tra filosofia e ideologie razziste GENNAIO 2015 • TEVET 5775 I 12 l caso Heidegger è stato riaperto dalla pubblicazione dei “Quaderni neri” che non soltanto rafforzano la tesi dell’adesione del filosofo al nazismo ma gettano una luce inequivoca sul suo pensiero circa la questione ebraica. Per Heidegger la colpa dell’ebraismo è di essersi estraniato dall’Essere, per cui la questione ebraica «non è una questione razziale, bensì è la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’Essere il proprio compito nella storia del mondo». Come ha osservato assai giustamente Donatella di Cesare, la pubblicazione dei “Quaderni neri” ha alimentato la solita contrapposizione manichea tra chi, come in altre occasioni, tenta di chiudere il caso trovandovi una conferma che Heidegger non nutriva sentimenti razzisti ma poneva una questione puramente filosofica, e chi, all’opposto, trova argomenti per una condanna senza appello del filosofo. Come dice giustamente di Cesare, occorre evitare sia la condanna criminalizzante che la reticenza complice, sia la mera indignazione morale che la banalizzazione cinica. Occorre assumere un approccio di analisi razionale. La tentazione più semplice, che ha trovato già degli adepti, è di cercare nella vicenda dei “Quaderni neri” argomenti per proscrivere la filosofia stessa come fonte dell’aberrazione che ha condotto al nazismo e alla Shoah. È una tentazione sbagliata e pericolosa perché rischia di occultare i problemi autentici che hanno condotto a quell’aberrazione. Certo, la storia del pensiero filosofico tedesco esprime una incomprensione e un disagio così profondo nei confronti della presenza ebraica – per la difficoltà di definirla rispetto a un rigido principio di identità nazionale – da trasferire il problema sul terreno prettamente metafisico. Hegel, che si era prodotto in sconcertanti elucubrazioni circa l’Africa e gli africani, come un continente e una popolazione vissuti sempre fuori dalla storia e quindi non appartenenti di diritto all’“autentica” umanità, non poteva non emettere un editto altrettanto duro nei confronti degli ebrei, popolazione priva di stato e di territorio e quindi inesistente come tale e pericolosa, in quanto fattore di disgregazione dei valori dell’identità nazionale. La fenomenologia delle posizioni di questo tipo nel pensiero europeo, in particolare di area germanica o ad essa collegata, è vastissima e quindi non stupisce che Heidegger si collochi in questa corrente in cui la demarcazione razziale degli ebrei appare più come uno strumento, un mezzo, per definire l’emarginazione di questo popolo “pericoloso”, che non come una definizione della sua essenza “negativa” e dissolutiva. Ma se non vogliamo accettare un’analisi di tipo strettamente metafisico, e cioè collocarci all’interno della logica di questa stessa corrente – col rischio inerente a tutte le visioni ontologiche che finiscono direttamente nella filosofia della storia e nell’escatologia – lo strumento fondamentale è quello dell’analisi storica, l’approccio razionale per eccellenza. Non possiamo qui dipanare un discorso assai lungo e complesso, ma è sostanzialmente corretto dire che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, prende forma una reazione nei confronti di filosofie pragmatiste e positiviste, che hanno radici anche nel pensiero europeo continentale ma soprattutto sono di derivazione anglosassone. Il progressivo svuotamento del pensiero filosofico a favore di un approccio ispirato alla metodologia delle scienze esat- te è visto come un rischio enorme che mette in discussione una tradizione secolare che ricollega l’Occidente al pensiero greco, attraverso il recupero che ne ha fatto l’umanesimo rinascimentale e, nella prima fase, anche il pensiero scientifico del Seicento. L’identificazione degli ebrei come un fattore di disgregazione, si basa sulla credenza che questo popolo sia entrato nella società europea senza aderire in modo incondizionato alle identità nazionali e miri al cosmopolitismo, a una visione astratta dell’uomo, al predominio – per dirla con Heidegger – di una «vuota razionalità e abilità di calcolo». Per chi conosca la storia della scienza, sa che questa tematica è diffusa molto oltre il mondo filosofico, e sarà un cavallo di battaglia della “Deutsche Wissenschaft” contro la scienza astratta e cosmopolita degli ebrei calcolatori e formalisti, alla maniera di un Einstein. Ma proprio qui si è innestata la più tragica mistificazione. Nel mondo filosofico, tra le figure più autorevoli che hanno combattuto il pragmatismo e lo scientismo, difendendo la “missione” filosofica europea come essenza fondativa della civiltà del continente, sono stati il francese Henri Bergson e il tedesco Edmund Husserl, entrambi di origine ebraica. È capitato di sentire qualcuno avanzare contro di loro l’accusa aberrante di aver coltivato forme di irrazionalismo antiscientifico che avrebbero dato alimento al nazismo… Il discorso si amplia al mondo scientifico, in cui tanti scienziati ebrei erano collocati sul fronte anti-formalista e anti-pragmatista, e la stessa imputazione ad Einstein di essere un fisico astratto e matematizzante in rottura con la tradizione è difficile da sostenere, ove si pensi alle sue resistenze nei confronti della meccanica quantistica di cui erano sostenitori fisici nazisti come Heisenberg. Pertanto, l’imputazione agli ebrei di essere il fattore di disgregazione di una tradizione fondante della civiltà europea era un mero pretesto nel genere della ricerca del capro espiatorio, alimentato da prevenzioni antigiudaiche di radice millenaria. Ma la complessità del fronte che sosteneva i valori di quella tradizione, in opposizione al pragmatismo scientista, deve essere considerata con attenzione e può rivelare le ragioni profonde dell’adesione di tanti intellettuali tedeschi, e non solo tedeschi, al manifesto ideologico del nazismo. Questo è l’aspetto da studiare in modo non manicheo, altrimenti non riusciremmo a capire l’atteggiamento di tanti personaggi, come il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, che dimostrò la sua sostanziale estraneità al nazismo e alla Shoah, e tuttavia non riuscì mai a emigrare perché non sentiva di poter conservare il legame con una sensibilità classicista della musica: nel dopoguerra si rese conto di poterlo fare. Oggi l’Europa appare scossa da un’altra drammatica crisi in cui una parte consistente delle sue popolazioni non riesce ad accettare l’idea di una gestione puramente tecnocratica e quantitativa: aveva ragione Husserl a sostenere che l’Europa ha una tradizione “filosofica” con radici molto più profonde di quanto appaia a prima vista. La mancata comprensione delle ragioni di questo rigetto e la loro semplicistica condanna come un mero fenomeno “populista” e neofascista non è meno superficiale e irresponsabile del lisciare il pelo ai movimenti che lo strumentalizzano e lo incanalano verso forme di estremismo. Oltretutto, con l’esito evidente che sia ancora una volta la componente ebraica a farne le spese. La storia si ripete, anche se in forme diverse, e purtroppo non sempre in farsa. GIORGIO ISRAEL l primo giorno del 2015 coincideva con il 10 di Tevet 5775. Il digiuno dedicato al ricordo dell’assedio babilonese di Gerusalemme e del primo esilio è ormai da molti anni anche digiuno in memoria delle vittime della Shoah. Dal 1939 al 1945 la Seconda guerra mondiale segnò in Europa lo sterminio degli ebrei. Anni dell’Era Cristiana, così come il 1933, anno di sventura che vide l’inizio dei 12 del Reich di Adolf Hitler. L’Occidente, che fa muovere il mondo al ritmo del proprio calendario, aveva prodotto il nazismo ma seppe anche trovare i mezzi e la forza necessari per distruggerlo. Il generale Dwight Eisenhower guidò gli alleati vittoriosi fino al cuore della Germania, e volle intitolare Crusade in Europe le sue memorie di guerra. Per due mandati fu poi Presidente degli Stati Uniti. Il 2015 ha un inizio davvero in memoriam, occasione di silenzio per gli ebrei nel mondo e in Israele. Chi ha voluto, ha partecipato al capodanno civile dell’Occidente. C’è comunque poco da festeggiare, e per averne consapevolezza non c’è bisogno della quotidiana valanga mediatica. Ma tutti saremo chiamati a festeggiare, forse senza clamori e con intima riconoscenza, i 70 anni trascorsi dall’ottavo giorno di maggio 1945: Victory Day in Europa. Il 25 aprile i soldati americani e sovietici si erano abbracciati sul fiume Elba a Torgau, mentre l’Armata Rossa conquistava Berlino. L’Italia è ferma al 25 Aprile della Resistenza, ed è bene così. Forse però è arrivato il momento di aggiungere al calendario delle celebrazioni nazionali quell’Otto di Maggio che i giovani, anche ebrei, continuano serenamente ad ignorare. E questo ci porta al senso profondo del 27 gennaio. Anche la condizione esistenziale degli ebrei appare profondamente mutata. Esiste uno Stato Ebraico, e nessuno si azzarda ormai a parlare di “doppia lealtà” nel mondo globale delle molteplici identità ammissibili e possibili. E’ arrivato il tempo di aggiornare l’agenda della memoria. Sono trascorsi 70 anni dal giorno nel quale i soldati di Stalin raggiunsero il “sistema” concentrazionario di Auschwitz e salvarono i superstiti del campo di sterminio di Birkenau. La logica nazista non corrisponde a quella della normale umanità. Infatti soltanto gli abili a camminare erano stati avviati alla marcia della morte verso Bergen Belsen. Dopo l’inverno crudele del 1945, sul fronte opposto accanitamente presidiato dalla Wehrmacht e dalle SS, gli internati di Dachau dovettero attendere la liberazione fino al 29 aprile, tra sofferenze spaventevoli e ancora decine di migliaia di vittime. La Settima Armata USA di George S. Patton “generale d’acciaio” con tre divisioni del generale di Henning Linden mostrò immediatamente al mondo intero - e soprattutto ai tedeschi che si fingevano ignari - le prime immagini di un KZ Lager nazionalsocialista. Anche la logica dei negazionisti e del revisionismo non può ottenere cittadinanza sui mezzi d’informazione e nel dibattito storiografico. Purtroppo non è così, ma sono in pochi a scandalizzarsi. La memoria acquista un senso soltanto se si libera dall’ipocrisia, se non si rifugia nelle formule rassicuranti, nel rito e nella liturgia delle commemorazioni. Che certamente sono e saranno indispensabili, ma devono finalmente fare i conti con l’eredità malefica del Terzo Reich. Non si deve dimenticare che Reich in tedesco significa “Stato” e Recht si traduce con “diritto”. Il Reich che Hitler voleva millenario fu uno Stato di diritto: ebbe in Carl Schmitt il giurista tuttora considerato un maestro per le relazioni internazionali, trovò con Martin Heidegger il proprio filosofo (e finalmente Donatella di Cesare ha analizzato a fondo il suo lascito inquinante, come spiega Giorgio Israel in questo stesso numero di Shalom), e la fisica quantistica che si cita normalmente a sproposito sui grandi quotidiani - chi può dimenticare la particel- la di Dio individuata al CERN di Ginevra?- ha un padre di nome Werner Heisenberg, il quale fu per 5 anni a capo del progetto atomico nazista e non ottenne il risultato in quanto gli era proibito di servirsi della “fisica giudaica” di Albert Einstein. I meccanismi della memoria non possono fermarsi all’emotività e alla commozione. Si deve sapere che molto di ciò che consideriamo utile e normale ha avuto un prezzo, e il prezzo lo hanno pagato i deportati. Sui prigionieri dei lager si sperimentarono farmaci che troviamo nelle farmacie, la pressurizzazione dei jet sui quali voliamo e che derivano tutti dal Messerschmitt 262, i margini di intervento per le ipotermie mortali. Nelle fabbriche lavoravano e morivano gli schiavi del Reich, sotto la gestione attenta di Albert Speer, uno dei pochi nazisti, peraltro, che ha conosciuto il carcere: 20 anni a Spandau, 1946-1966. Le sue memorie sono un best-seller. Grazie all’Operazione Paperclip del Presidente Truman e all’Operazione Osoaviakhim di Josip Stalin gli specialisti di Hitler furono utilizzati per la Guerra Fredda, anche quelli della Gestapo. Il tunnel delle V2 a Dora Mittelbau era una delle fabbriche più letali del Reich, sotto la direzione di Wernher von Braun e Walter Dornberger. Il missile V3 che avrebbe dovuto distruggere New York ha invece ricevuto il nome di Saturn 5 e ha portato la nostra specie sulla Luna, e forse è questa la ragione vera per la quale il prossimo grande passo dell’umanità lo dovremo probabilmente alla Cina o all’India. Raccontano che quando le SS riferirono a Hitler che Ernst Junger era coinvolto nell’attentato del 20 luglio 1944, la risposta fu questa: “Junger non si tocca, è il migliore di noi.”. Junger è stato uno dei massimi scrittori del XX secolo, con il nazismo non volle mai compromettersi. Ma la sua scrittura è nella sostanza una inquietante mistica del guerriero. I Diari di quest’uomo contraddittorio, eroe della Grande Guerra e poi semplice capitano nella Wehrmacht hitleriana fino al 1945, contengono l’unica menzione dello sterminio degli ebrei con i gas fatta da un intellettuale tedesco in tempo di guerra. Intoccabile lui, la vendetta fu trasversale. Il figlio Ernstel, sottoposto alla corte marziale e assegnato a un battaglione di disciplina, morì in combattimento presso Carrara nel novembre del 1944. Onorato e rispettato dalla sinistra forse più ancora che dalle destre, Junger morì nel 1998 all’età di 103 anni. Merita considerazione, non ammirazione. I conti veri della memoria, comunque, sono ancora aperti. PIERO DI NEPI GENNAIO 2015 • TEVET 5775 I 27 GENNAIO 2015: forse è tempo di aggiornare l’agenda 13 PENSIERO Elogio della normalità Se anche uno su mille ce la fa, gli altri 999 possono essere delle persone altrettanto straordinarie T utti pensiamo a quello che ce l’ha fatta. Ci identifichiamo col vincitore, immaginiamo la sua gioia, la soddisfazione, le gratificazioni, in qualunque settore si sia uno su mille, le gratificazioni non mancano. Il quarto d’ora di celebrità che non si nega a nessuno, etc. etc. Io faccio una proposta controcorrente: immaginiamo cosa succede invece ai 999 che non ce la fanno. A quei ragazzi che tornano a casa e saranno gregari, forse mediani. Termini che restituiscono dimensioni di mediocrità, parola con cui si indica ciò che può essere oggetto di dileggio se non di disprezzo. Io voglio fare l’elogio dei 999 che non tornano a casa dimessi e sconfitti, ma che trovano nella normalità la forza della loro dimensione umana. Quei 999 di cui difficilmente il mondo si interessa, che sono di tanto in tanto protagonisti di qualche format, come figure di contorno e di supporto all’uno che ce l’ha fatta. Un esempio su tutti il programma “Boss in incognito”. All’inizio si vuol dare la sensazione che il capo di una azienda (meglio se medio grande) è uno come gli altri, può fare i mestieri che portano la sua società a regime, ma successivamente nelle varie vicende che passano sullo schermo, ci si rende conto che chi è nato per fare il Boss non solo ha una marcia in più, ma non riesce (quasi) a fare altro. La scena conclusiva dei premi ai tutor che l’hanno supportato nell’esplorare i diversi ruoli e luoghi che costituiscono le basi del suo trionfo economico e/o commerciale, ricorda Cenerentola, ovvero anche nella normalità devi aspirare ad essere il primo, il più normale, perché all’improvviso arriva la zucca che si trasforma in carrozza. Ma che legittimità hanno coloro che non si sentono uno ma che, forse, nei 999 stanno addirittura a loro agio? Un paese normale lo costruiscono persone normali, che pensano e lavorano normalmente. Quella di cui voglio parlare non è la normalità del grigiore, della ipocrisia e della rassegnazione, ma una sintesi fatta di buon senso, di pace, di onestà nei rapporti, di lavoro dignitoso, di nonviolenza, di solidarietà attiva e non parolaia. È quella fase della vita che si raggiunge quando i fattori conflittuali sono ridotti ad un livello fisiologico. È quella vita nella quale tutte le componenti esterne ANNGIGLI LAB RE - INVENT YOURSELF GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Bat Mitzvà 14 ANNGIGLI LAB ROMA - Via Cola Di Rienzo, 267 - Tel. 06 3210220 raggiungono un equilibrio interiore pronto a ricomporsi ad ogni scossone. E’ quella normalità che fa andare i 999 a lavorare mentre intorno decine di persone coinvolte nei più disgustosi traffici, vengono accusate e arrestate. Ciò che misura la virtù di un uomo non sono gli sforzi, ma la normalità (Blaise Pascal). Una delle probabili cause dei disordini e degli eccessi del mondo contemporaneo è la competizione: bisogna essere dei vincenti. Devi essere il numero uno in una società nella quale la competizione mira al successo materiale. Per i Greci, che pure erano molto competitivi, si trattava di ricercare un certo ideale; oggi, la competitività coincide con la paura di non essere il migliore e dunque di non valere niente. Avere i soldi per pagare il mutuo e comprare del cibo, per educare i nostri figli e garantire alla famiglia una vita decorosa, è di gran lunga un obiettivo difficile e faticoso, che certamente ci distrae dall’uno che ce la fa. I 999, spesso, vanno verso un ritorno alla normalità, intrisa anche di quella positiva mediocrità che contraddistingue l’uomo “normale”, che non ha grandi aspirazioni, fatto di molti difetti, ma che ha lo sguardo rivolto verso l’essenziale: le persone a cui vuol bene e che rispetta. Obiettivi che potrà avere anche l’uno su mille che ce la fa, ma certamente si corre il rischio che la corsa verso la competizione ti privi di questi due beni fondamentali. CLELIA PIPERNO Una fuga silenziosa S ono nato e cresciuto in un paese arabo che ho lasciato per sempre dopo un sanguinoso pogrom, il terzo nella storia della mia famiglia in poco più di vent'anni. Lungo l'arco di due decenni, centinaia di migliaia di ebrei hanno forzatamente abbandonato le loro case e i loro averi in ogni area del mondo arabo e islamico. Le minoranze ebraiche non avevano partecipato alla guerra di distruzione scatenata dagli eserciti della Lega araba contro il nascente Stato di Israele e non costituivano un pericolo per nessuno. La loro fuga fu silenziosa, ignorata dalla stampa internazionale. Spariti gli ebrei dal mondo arabo, è toccato ai resti delle antiche civiltà che avevano popolato il Vicino Oriente prima delle invasioni arabe. La centralità della Shoah nel dibattito sulla legittimità dell'esistenza di Israele ha fatto sì che la memoria delle sofferenze degli ebrei del mondo arabo fosse occultata per lungo tempo agli occhi anche degli israeliani. Solo di recente in Israele e nelle comunità ebraiche del mondo, è stata compresa l'enorme valenza simbolica dell'esodo ebraico dal mondo arabo, per controbattere le false equazioni che fanno da sfondo a un nuovo antisemitismo. I profughi ci sono stati da entrambe le parti con una differenza. Nel caso degli ebrei si trattava di comunità indifese e lontane dal teatro di guerra, mentre i palestinesi erano componente attiva di una guerra voluta dal mondo arabo. Gli abitati ebraici caduti in mano agli eserciti arabi vennero cancellati dalla faccia della terra, le persone furono uccise, messe in fuga, o fatte prigioniere. All'interno di Israele una parte consistente della popolazione araba è rimasta o è potuta tornare alle sue case. La società israeliana ha accolto i suoi esuli con una tensione morale incomparabilmente alta. L'arrivo degli immigrati fu considerato un valore in sé oltre che una necessità per non soccombere alla sfida demografica. Pur con le difficoltà dei primi anni, la vita nelle baracche e un senso d'insoddisfazione e di alienazione venuto a galla nei decenni successivi, gli ebrei di origine afroasiatica furono considerati e si consideravano parte di un processo di rinascita nazionale e di riscatto dopo secoli di umiliazioni. Diversa è la situazione alla quale sono andati incontro i palestinesi. Per una scelta politica degli Stati arabi, la loro condizione di profughi divenne ontologica. Anche se il mondo arabo era immenso e lo spostamento era stato in alcuni casi limitato a qualche chilometro dagli antichi villaggi, l'idea di una loro integrazione nei paesi arabi circostanti o lontani fu violentemente osteggiata. Il verdetto religioso e nazionalista era ineluttabile: la creazione di una patria ebraica nel cuore della nazione araba e dell'umma islamica era una violazione degli ordinamenti divini e terreni. Chi avesse tentato un accordo, era un traditore da eliminare. Aver considerato l'esistenza di Israele un'onta che poteva essere lavata solo tornando allo status quo ante, è stata la grande colpa morale e politica del nazionalismo arabo, il segno di un'immaturità politica, l'origine di un fallimento più generale. La questione dei profughi poteva essere vista come uno dei tanti dolorosi scambi fra popolazioni avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale. Come è del resto accaduto per le popolazioni tedesche in Polonia, per le popolazioni greche e turche nella guerra fra turchi e greci, per gli indù e i musulmani al momento dell'indipendenza del Pakistan e dell'India. O per l'Italia, con i profughi dall'Istria trasformati per decenni in fantasmi, privati di uno spazio condiviso per il dolore. Demonizzando Israele, le classi dirigenti arabe hanno evitato di fare i conti con due fatti per loro psicologicamente inquietanti. A vincere nelle guerre che hanno scandito periodicamente la recente storia del Vicino Oriente, non erano stati gli eserciti coloniali e imperiali. Una buona metà dei soldati che travolsero le armate egiziane, siriane e giordane nella guerra del giugno 1967 era composta dai figli delle mellah e delle hara, oggetto di disprezzo e di umiliazioni, considerati dalla cultura araba "inadatti" alla guerra, che potevano al più aspirare a essere «protetti» in cambio di un atto di sottomissione. Non essere riusciti a «risolvere» il problema israeliano con i «metodi» adottati dai turchi contro gli armeni quarant'anni prima, era la fonte di "un'infelicità" che nel delirio ha finito per trasformare i crimini tentati in «olocausti subiti». Fin quando fu possibile spiegare l'umiliazione del 1948 con la corruzione e il tradimento delle vecchie classi dirigenti, e quella del 1956 con l'aggressione congiunta israeliana e anglo-francese, l'autoinganno poté conservare una parvenza di realtà. La ferita narcisistica diventava più sopportabile, l'onore arabo rinnovato dalla promessa che in futuro le cose sarebbero andate diversamente. Quando alla prova dei fatti, nella guerra del 1967, gli eserciti arabi uscirono sconfitti in pochi giorni, la fuga dalla realtà fu completa. Israele diventò l'incarnazione del male. La campana a morte per i regimi nazionalisti fu ritardata dal sostegno massiccio profuso dall'Unione Sovietica nel rimettere in piedi l'esercito egiziano e siriano dopo la sconfitta del 1967, e nel sostegno dato al conflitto del 1973 attraverso il quale l'Egitto riconquistò «l'onore perduto». La crisi del nazionalismo panarabo spianava la strada al fondamentalismo e alla rilettura del conflitto arabo-israeliano nei termini di uno scontro più vasto fra l'Occidente cristiano e l'Islam, con Israele nel ruolo di «Stato crociato» e di «piccolo Satana» al servizio del «grande Satana». Nella logica islamista la jihad dei palestinesi «non riguarda solo i palestinesi ma tutto l'Islam». «L'onta della Naqba», un'idea che nel mondo arabo si afferma dopo la Prima guerra mondiale in risposta alle spartizioni coloniali europee, è assurta a simbolo di una sequenza più ampia che conduce a ritroso agli albori della civiltà islamica. In questa logica perversa e criminale, che salda l'antisemitismo più antico con quello più recente, lo stato nato per offrire un rifugio agli ebrei, diventa "l'ebreo degli Stati". DAVID MEGHNAGI GENNAIO 2015 • TEVET 5775 L'espulsione e la fuga degli ebrei dai Paesi arabi sono state una tragedia che ha cambiato una parte della diaspora e ha modificato il tessuto sociale 15 MONDO Risvolti ebraici nel disgelo tra Stati Uniti e Cuba La storia dell’ebreo americano Alan Gross, liberato dopo una lunga detenzione nelle carceri cubane E ffetti di tipo economico, sociale, politico e strategico; ma il disgelo promosso da Obama nei confronti di Cuba ha avuto un risvolto importante anche per Alan Gross, ebreo americano arrestato nel 2009. Lavorava come operatore delle telecomunicazioni in Paesi con difficoltà nell’accesso ad internet: nella sua missione a Cuba, dove aveva l’obiettivo di aiutare la comunità ebraica locale a collegarsi col web in qualità di contractor dell’USAID, l’agenzia americana per lo sviluppo internazionale, distribuì dei telefoni satellitari e altro materiale tecnologico proibito sull’isola e, accusato di aver costituito una rete illegale per conto dei servizi segreti americani, fu condannato per “voler distruggere la rivoluzione”; la pena di 15 anni fu obbligato a scontarla in condizioni inumane. La sua detenzione è stata uno dei principali motivi del contendere nei negoziati che hanno portato al ripristino delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti: le trattative per la sua liberazione e più in generale per la ripresa dei legami con Cuba avevano preso il via circa un anno e mezzo prima, ma sin dal 2009 Obama coltivava questo progetto. Hillary Clinton, durante il primo mandato di Obama, si era impegnata in questa causa e la sua mancata riso- Dal 1982 operiamo con successo nel settore dei traslochi e dei trasporti nazionali e internazionali DIVISIONE TRASLOCHI Trasporti su tutto il territorio nazionale e internazionale PARCO AUTOMEZZI ATTREZZATURE SPECIALI Scale telescopiche fino a 15 piani braccio-gru semovente GENNAIO 2015 • TEVET 5775 DIVISIONE DEPOSITO MERCI 16 Magazzino di 18.000 mq coperti 60.000 mq scoperti DIVISIONE ARCHIVI Catalogazione e gestione di archivi cartacei ed elettronici in ambienti sicuri ed idonei DIVISIONE AMBIENTE Gestione dei rifiuti, disinfestazioni, disinfezioni, derattizzazione sicurezza degli alimenti www.devellis.it - [email protected] SEDE DI ROMA: Via Volturno, 7 - Tel. 06.86321958 SEDE DI FROSINONE: Via ASI, 4 Tel. 0775.89881 - Fax 0775.8988211 luzione costituì per lei un grande rammarico, cosicché si raccomandò che questa eredità fosse presa con cura dal suo successore. Anche numerosi senatori, come il repubblicano Marco Rubio o il democratico Robert Menendez, hanno fatto della liberazione di Gross una priorità, ravvisando nella sua detenzione una violazione dei diritti umani. Come rivela un articolo del New York Times, infatti, gli americani temevano che le condizioni di salute di Gross stessero peggiorando, tanto che il Segretario di Stato John Kerry aveva avvertito il ministro degli Esteri cubano Bruno Rodríguez Parrilla che se Gross fosse morto durante la sua prigionia, tutti gli sforzi effettuati per la riapertura delle relazioni sarebbero stati azzerati. Anche le associazioni ebraiche americane si sono impegnate per aiutare Gross a tornare un uomo libero. Il Jewish Community Relations Council in questi anni aveva elaborato una duplice strategia per tenere viva la causa di Gross: da un lato aveva creato un collegio elettorale per prendersi cura della questione presso le istituzioni, mentre dall’altro sosteneva la famiglia. Eticamente e moralmente non poteva essere dimenticato un membro della comunità: è stato così tenuto alto il morale di Gross durante la sua detenzione ed è stato profuso il massimo impegno per contribuire alla sua liberazione. Il suo rilascio è così divenuto uno degli aspetti più rilevanti della ripresa del dialogo tra Washington e L’Avana. Al momento della liberazione, Gross ha avuto parole di sentito ringraziamento nei confronti di Obama e della comunità ebraica statunitense: “che benedizione che è essere cittadino degli Stati Uniti d’America” sono state le parole che ha pronunciato. Anche dall’altra parte c’è stata profonda soddisfazione: subito dopo il rilascio di Gross, Steve Rackitt, l’amministratore delegato della Jewish Federation di Washington, ha detto al Jerusalem Post: “Siamo grati di celebrare questo miracolo di Chanukkà con la moglie di Alan, Judy, le sue figlie e l’intera comunità ebraica di Washington”. Lo stesso Obama ha esternato la sua soddisfazione richiamando il miracolo avvenuto proprio in occasione di chanukkà ed ha evocato la mitzvà che è stata compiuta con la sua liberazione, il pidyon shvuyim, il rilascio dei prigionieri. DANIELE TOSCANO Piccola radiografia dell’ebraismo cubano È prevalentemente sefardita e distribuito in diverse città A si stabilirono per ragioni commerciali, provenendo soprattutto dai porti di Amsterdam e di Amburgo. Fu dopo il 1898, con la sconfitta spagnola nella guerra contro gli Stati Uniti, che gli ebrei si stanziarono stabilmente sull’isola senza il rischio di nuove persecuzioni. Nel 1906, un gruppo di ebrei americani fondò la prima sinagoga cubana. Gli ebrei cubani furono presto coinvolti nella vita sociale ed economica dell’isola, grazie anche alla loro abilità nel commercio. Nei flussi migratori diretti verso gli Stati Uniti, molti decisero di trattenersi sull’isola: i limiti restrittivi posti da Washington, il basso tasso di antisemitismo ed il clima gradevole erano motivi convincenti. Nel 1924, a Cuba c’erano circa 24mila ebrei; L’Avana aveva cinque sinagoghe, un ristorante kasher, scuole ebraiche elementari e superiori. Le migrazioni dall’Europa naturalmente si intensificarono con l’avanzata del nazismo. Il felice soggiorno degli ebrei sull’isola si interruppe però dopo la rivoluzione che nel 1959 rovesciò il dittatore Fulgencio Batista e portò al potere Fidel Castro: circa il 90% degli ebrei cubani lasciò l’isola, non tanto perché perseguitati, ma perché le restrizioni economiche colpirono soprattutto la classe media di cui gli ebrei erano parte; i pochi rimasti erano soprattutto i più poveri o i più vecchi e dovettero subire le stesse discriminazioni a cui erano sottoposti gli altri gruppi religiosi, finendo per avere un accesso ristretto alle università e al mondo del lavoro, senza contare l’appoggio dato dal regime alle campagne contro Israele. Nonostante le sofferenze, la vita ebraica a Cuba riuscì a sopravvivere. Dalla fine della Guerra fredda, le restrizioni si sono allentate e gli ebrei cubani hanno potuto beneficiare del sostegno di numerose organizzazioni americane che si sono attivate con azioni semplici, come l’invio di rabbini per insegnare i precetti basilari o servire cene gratuite di Shabbat. Anche in precedenza, il regime castrista non ha ostacolato le organizzazioni nordamericane che fornivano gli ebrei cubani di cibo kasher o materiale scolastico. I cambiamenti epocali di Cuba dell’ultimo decennio, durante il quale il Lider Maximo Fidel Castro a causa di problemi di salute si è dimesso prima dalla Presidenza del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri e poi anche dalla carica di Segretario del Partito Comunista Cubano, hanno prodotto profondi effetti sulla società, favorendo una ripresa della vita religiosa. Oggi a L’Avana sono attive tre sinagoghe ogni Shabbat e nelle principali festività. Nelle altre città la vita ebraica non è organizzata come nella capitale, ma anche nei piccoli centri gli ebrei sono molto attivi, come a Santa Clara, dove sono riusciti a comprare una casa e a renderla una sinagoga. DANIELE TOSCANO GENNAIO 2015 • TEVET 5775 chi si rivolgeva Alan Gross nella sua missione cubana quando fu arrestato nel dicembre 2009? A Cuba gli ebrei sono circa 1400, prevalentemente sefarditi, concentrati soprattutto nella capitale, L’Avana, ma ci sono altre piccole comunità a Camaguey, Cienfuegos, Guantanamo, Sancti Spiritus, Santa Clara e Santiago de Cuba. Si ritiene che i primi ebrei giunsero poco dopo il 1492, con la cacciata dalla Spagna e la scoperta dell’America. Ma le informazioni sono poche e frammentate fino all’800, quando si intensificò l’arrivo di ebrei: alcuni giungevano dal Brasile, dove erano stati perseguitati nei secoli precedenti sotto il dominio portoghese; altri vi 17 FOCUS Quando la bandiera di Israele sventola (qualche volta) negli stadi Q Merito di pochi coraggiosi tifosi e di qualche raro giocatore ualche settimana fa, il servizio d’ordine del Santiago Bernabeu ha redarguito tre israeliani andati a vedere una partita del Real Madrid per aver esposto una bandiera di Israele. “E’ la politica del club” hanno spiegato gli agenti della sicurezza. Una grossa delusione per i tre cugini, che speravano di poter esporre il loro vessillo in uno dei templi del calcio. Eppure, la bandiera con il Maghen David ha fatto importanti apparizioni negli stadi. Sicuramente inaspettata è stata la sua comparsa al mondiale tedesco del 2006, sventolata dal calciatore ghanese John Pantsil: per festeggiare le due reti e la vittoria finale contro la Repubblica Ceca, il centrocampista africano tirò fuori dal calzettone e sventolò proprio una bandiera dello Stato ebraico, considerato da lui come una patria adottiva. Giocava infatti in quel periodo all’Hapoel Tel Aviv, dopo aver militato due anni anche nel Maccabi. Le bandiere israeliane negli stadi europei si vedono però soprattutto al White Hart Lane di Londra e all’Amsterdam Arena, le tane rispettivamente di Tottenham e Ajax, due squadre che si identificano con il mondo ebraico. Nel caso dell’Ajax, come spiega un articolo dell’edizione internazionale dello Spiegel, l’associazione non è casuale: Amsterdam era chiamata la Gerusalemme dell’Occidente prima della Seconda Guerra Mondiale; circa 80mila ebrei vivevano in città e molti erano tifosi GENNAIO 2015 • TEVET 5775 infoline>06.43251954 18 edasitalia.com dell’Ajax. Il De Meer Stadium, campo di gioco fino agli anni ’90, era nella parte est della città, dove risiedevano numerosi ebrei. Il giornalista Simon Kuper ha analizzato il tema nel suo libro “Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la Shoah”, rilevando che durante il secondo conflitto mondiale proprio lo stadio dell’Ajax era il luogo di incontro tra ebrei e non ebrei. La vicinanza dell’Ajax agli ebrei, secondo Kuper, emerse però nel dopoguerra, grazie ai massicci investimenti di Jaap van Praag e di altri soci ebrei. Lo stesso Van Praag fu presidente, così come suo figlio Michael. Gli stessi calciatori iniziarono ad essere considerati ebrei anche se non lo erano, mentre i dirigenti e soprattutto i tifosi individuarono in questa identificazione un motivo d’orgoglio, una sfida, fino a renderla una componente essenziale della loro identità, pur non essendoci spesso legami con la religione. Oggi questa identificazione capita che sia esasperata, come quando i tifosi avversari la usano per insultare l’Ajax: “Hamas! Hamas! Jews to the gas” intonano ad esempio spesso i rivali del Feyenoord di Rotterdam, ma anche da parte dei tifosi dell’Ajax si usa questo motivo in funzione del tifo, come quando, nel 2004, in una partita contro una squadra tedesca, fu mostrato uno striscione che diceva “gli ebrei si prendono la vendetta per il ’40-‘45”, con chiara allusione alla Shoah. Le medesime prassi si verificano durante le partite del Tottenham. Molti cori degli avversari sono a sfondo antisemita: “Tottenham a bunch of Yids!”, branco d’ebrei, è tra i più frequenti, ma anche il sibilo del gas dei campi di concentramento o il classico “Hey, Jew” sulle note dei Beatles. Anche durante le partite degli Spurs è frequente l’esposizione di bandiere di Israele. La storia è simile a quella dei tifosi olandesi e si ricollega alla componente ebraica stanziata nella parte nord di Londra, che poteva raggiungere facilmente lo stadio. Anche qui, i tifosi ne hanno fatto una parte della loro identità e ne vanno orgogliosi. “Yid Army”, esercito ebraico, è il nome che si è data la curva del Tottenham; non senza polemiche, visto che il termine “Yid” è molto discusso in quanto epiteto usato per indicare gli ebrei con disprezzo. Restano stereotipi, ma il calcio spesso crea un senso di appartenenza per cui, nonostante i diffusi episodi di antisemitismo, l’identificazione con gli ebrei e la bandiera di Israele possono diventare elementi fondanti della propria identità. DANIELE TOSCANO n principio fu Ronny Rosenthal. Era il 1989 quando l’attaccante arrivò in Italia per vestire la maglia dell’Udinese, ma quella casacca non l’ha mai indossata perché fu rispedito a casa prima di firmare il contratto. Ufficialmente perché non superò le visite mediche. Voci di corridoio, invece, sostengono che la decisione fu presa dopo che sui muri della città friulana furono trovate scritte antisemite. In Inghilterra, al contrario, non ebbe nessun problema e vestì le maglie di Liverpool, Tottenham e Watford. Avrebbe potuto essere il primo israeliano a giocare nel campionato italiano ed invece questo record spetta a Tal Banin, che arrivò nel nostro paese nel 1997. A volerlo nelle proprie fila fu il Brescia, che in quella stagione arrivava in serie A da neo promossa. Il trequartista non ebbe dubbi perché il calcio italiano in quel periodo era paragonabile all’NBA per il basket. Nessun pregiudizio questa volta, perché non ha contato la sua religione. Lui ricorda di aver trascorso anni bellissimi e solo un certo Roberto Baggio lo convinse a tornare in Israele perché la posizione di trequartista non sarebbe più stata sua di diritto. Adesso Tal allena il Maccabi Netanya segno evidente che il calcio continua ad essere tutta la sua vita. Passano gli anni e cambiano le squadre, ma c’è chi ha voglia di scommettere su calciatori israeliani. Nel 2007 il presidente del Palermo, Zamparini, decide di puntare su Eran Zahavi, esterno d’attacco che ci mette poco ad entrare nel cuore dei tifosi rosanero. Venti secondi per la precisione. Tanto gli ci è voluto per segnare il suo primo gol italiano. Anche nel suo caso nessun Prima tifavano Italia, ora Israele Storie di tifosi che hanno fatto l’aliya M inuto 36 la palla finisce alle spalle del portiere e scoppia il boato. Urla, salti sul divano e abbracci collettivi. Non c’è il derby tra Roma e Lazio vissuto da lontano dai tanti italiani che hanno scelto di fare l’aliya, ma la sfida tra Israele e Bosnia, valevole per le qualificazioni agli Europei del 2016. Una sfida che fino a qualche tempo fa veniva seguita distrattamente e se alla fine la nazionale aveva vinto si era tutti più contenti. Adesso che sono cambiate le prospettive di vita, anche il tifo calcistico ne risente. A Raanana nel momento in cui Vermouth ha portato in vantaggio la sua squadra ai danni della Bosnia l’esultanza è stata incontenibile. Grandi e piccini problema di ambientamento né tantomeno pregiudizi. Anche lui è tornato in patria al Maccabi Tel Aviv ed è una colonna portante della sua nazionale. Fino ad oggi sono pochi i calciatori israeliani che sono arrivati nel nostro paese, come del resto in giro per i massimi campionati. Colpa di un calcio che sta sbocciando solo ora, ma anche delle difficoltà che ci sono ad organizzare incontri a causa delle tensioni che continuano ad esserci. La vetrina internazionale per molti giocatori non esiste, anche se i talenti ci sono. Unica eccezione la sta facendo la nazionale che al momento guida il girone di qualificazione per gli Europei del 2016. La strada è ancora lunga, ma le aspettative sono tante. Sarebbe un fatto storico se riuscisse a centrare l’obiettivo e per farlo si affida ai gol di Omer Damari. Con cinque reti, è il capocannoniere delle qualificazioni assieme a Danny Welbeck. Il bomber di Rishon Le Zion, che milita nell’Austria Vienna, ha messo il suo sigillo contro Cipro a Nicosia, poi tre reti contro Andorra ad Andorra La Vella e una in casa, nell’importantissima sfida contro la Bosnia. Degli altri nazionali Ben Haim gioca in Inghilterra nel Charlton, Natko nel CSKA di Mosca, Gershon nel Gent, Hemed nell’Almeria, Rafaelov nel Bruges, Shechter nel Nantes, Sahar nel Wilelm in Olanda. Gli altri calpestano i campi in patria nell’attesa del salto di qualità. Sfogliando gli almanacchi del passato ci si accorge che in giro per l’Europa non sono mancati altri talenti che hanno avuto maggior fortuna. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta Avi Cohen ha vestito la maglia del Liverpool, mentre Eyal Berkovic ha girato tra Southampton, West Ham, Celtic Blackburn, Manchester City e Portsmouth. Più recente è l’avventura di Yosef Benayoun attualmente al Maccabi Haifa, ma con un passato tra Liverpool, Chelsea e Arsenal, tra le altre. Senza dimenticare Eyal Golasa, ventitreenne in forza al Paok Salonicco e giovane speranza del calcio israeliano. NATHANYA DI PORTO Nella foto: Eran Zahavi hanno iniziato a festeggiare, anche se non gli sembrava vero. La piccola Israele che fa la partita e mette in difficoltà la più blasonata squadra di Susic. Manca ancora un’eternità alla fine della gara, ma il refrain non cambia. Quando allo scadere Damari raddoppia la gioia è incontenibile e per le strade si è già pronti a fare festa. La soddisfazione è totale alla terza rete di Zahavi. “Ho provato le stesse emozioni di quando vince la mia Roma - ci racconta Alessandro Astrologo - non avrei mai pensato di provare una sensazione del genere. Io e mio figlio Edoardo ci siamo abbracciati quasi avessimo vinto una finale. Qui ci sono tante squadre, ma il calcio che seguiamo da lontano è quello italiano. Eppure la nazionale israeliana ci sta appassionando. Vi racconto un retroscena. Alla fine della gara talmente eravamo contenti che volevamo comprare il biglietto per assistere alla prossima sfida. Quando abbiamo chiesto il tagliando ci hanno presi per matti. La partita contro il Galles si giocherà a marzo ed era inconcepibile voler acquistare fin da ora un posto per tifare Israele”. N.D.P. GENNAIO 2015 • TEVET 5775 I Sono pochi i calciatori israeliani che militano nei campionati europei 19 FOCUS Un piccolo grande arbitro Se la nazionale israeliana non ha mai riscosso grandi successi, non si può dire lo stesso di Abraham Klein, l’arbitro israeliano che diresse persino la celebre partita Italia-Brasile GENNAIO 2015 • TEVET 5775 A 20 rbitro per caso. Salvo poi diventare uno dei migliori a livello internazionale. È la storia di Abraham Klein, direttore di gara israeliano, che ha saputo superare le discriminazioni andando sui campi di gioco sempre a testa alta. Purtroppo in qualche circostanza sono state l’ignoranza e l'odio razziale a negargli gioie immense come dirigere una finale, ma lui è stato contento lo stesso, perché qualche soddisfazione se l’è tolta. Non è un caso se è stato considerato uno dei migliori arbitri internazionali tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Nacque a Timisoara nel 1934, in un periodo in cui in Ungheria, come in molte altre città in Europa, essere ebrei significava doversi nascondere per sfuggire all’antisemitismo dilagante in quegli anni. Il papà riuscì a scappare prima che scoppiasse la guerra, mentre lui rimase con la mamma e sopravvisse a quegli anni di orrore. Alla fine del conflitto la fame e la discriminazione erano sue compagne di vita, ma ebbe la fortuna di essere spedito a Apeldoorn, in Olanda, dove visse in una sorta di collegio, accudito e sfamato. Come ogni bambino che si rispetti il suo sogno era quello di giocare a calcio. Proprio come faceva il suo papà nell'MTK di Budapest. Abraham ci ha provato, ma con scarsi risultati. Il pallone, tuttavia, era nel suo destino. Erano gli anni del servizio militare, che lui ha svolto in Israele, e aveva necessità di un paio di pantaloni nuovi. Così durante una pausa andò dal sarto. Il caso ha voluto che quel giorno l’uomo dovesse assentarsi per dirigere un incontro di calcio e Abraham lo seguì. Durante la sfida l’arbitro si infortunò e chiese proprio a Klein di sostituirlo. Il ragazzo non aveva idea di quali fossero le regole, ma ci mise poco a capire come funzionasse il gioco. E ne fu talmente affascinato che decise di prendere la licenza per arbitrare. In poco tempo divenne il miglior direttore di gara del campionato nazionale e iniziarono le partite importanti: nel 1958 diresse il primo incontro tra una squadra israeliana, l’Hapoel Nahariya, e una selezione dei dilettanti della Germania Occidentale. Aveva solo 24 anni. Carattere e grinta non gli mancavano. Sei anni dopo divenne arbitro internazionale e fu chiamato a dirigere Italia-Polonia del 1965, match valido per le qualificazioni ai Mondiali dell’anno successivo. Prima di allora era stato in stadi piccoli dove al massimo potevano esserci ventimila persone. Con una sfida del genere e ottantamila sugli spalti dell’Olimpico di Roma non voleva sbagliare nulla. Così per abituarsi alla grande folla una settimana prima del suo esordio decise di pagarsi da solo il viaggio in Italia e il biglietto per la gara tra Napoli e Roma. Studiò al meglio la partita che stava per sancire il suo ingresso a pieni gradi nell’élite degli arbitri. Gli azzurri vinsero per 6-1 e Klein si dimostrò all’altezza della situazione. Carisma, preparazione fisica e intellettuale lo aiutarono ad imporsi, tant’è che lo vollero come arbitro nella sfida tra Brasile e Inghilterra ai Mondiali messicani del 1970. “E’ come mandare un boy scout in Vietnam” scrissero i giornali inglesi. Per nulla intimorito diresse al meglio la sfida negando con autorevolezza un rigore a Pelé. Dopo l’attacco terroristico di “Settembre nero” alla delegazione israeliana alle Olimpiadi del 1972, gli fu impedito per ragioni di sicurezza di partecipare ai Mondiali del 1974 in Germania, ma la sua fama non ne risentì. Infatti venne designato per dirigere di nuovo l’Italia nel match di qualificazioni per i Mondiali argentini del 1978 contro l’Inghilterra e ancora una volta sorrise ai colori azzurri che si imposero per 2-0. Nessun favoritismo e alla fine ricevette anche i complimenti del delegato FIFA. Proprio in Sudamerica incrociò l’Italia in una delle sfide più calde, quella contro i padroni di casa. Risultato 1-0 con gol di Bettega, con Klein vero portafortuna. Proprio quella gara, benché diretta al meglio, gli costò la finale perché gli argentini pretesero un arbitro meno integerrimo. Abraham si consolò con la sfida per il terzo e quarto posto tra l’Italia (ancora lei) e il Brasile. Le origini ebraiche rischiarono di compromettere la sua carriera, ma la FIFA non poteva rinunciare ad un arbitro come lui, quindi resistette alle intimidazioni della stampa araba quando, con Kuwait e Algeria qualificate alla fase finale dei Mondiali spagnoli, minacciarono di boicottare la rassegna se a Klein fosse stato permesso di scendere in campo. L’organismo internazionale non poteva sottomettersi a queste pressioni e concesse solo di non far apparire il nome del fischietto nelle trasmissioni arabe. In quel periodo, però, l’attentato all'ambasciatore israeliano in Inghilterra, Schlomo Argov da parte di terroristi palestinesi scatenò la guerra in Libano ed il figlio di Abraham fu mandato a combattere in prima linea. In queste condizioni Klein non se la sentiva di arbitrare, ma fece comunque il guardalinee assieme al tedesco Eschweiler in Italia-Perù del 18 giugno. Una carriera del genere non poteva finire sul più bello. Il destino ancora una volta ha girato dalla sua parte. Fu proprio il figlio Amit a chiamarlo per tranquillizzarlo e incitarlo a tornare ad arbitrare. Al secondo turno c’era Brasile-Italia e toccò di nuovo a Klein. Si aspettava una sfida facile con i verdeoro favoriti alla vigilia, ma non aveva fatto i conti con Paolo Rossi, che segnò il 2-1. Solo allora si rese conto che “Quella sarebbe stata una partita storica”. Così la definì il piccolo (era alto solo 170 cm) grande arbitro. Anche in quella sfida nulla da eccepire. Sul punteggio di 1-1 annullò un gol a Zico per fuorigioco e spedì il calciatore negli spogliatoi prima del tempo per le continue proteste. Il pareggio di Falcao illuse i brasiliani, ma ci pensò di nuovo "Pablito" a ristabilire le distanze. Per Klein una sola macchia: aver annullato il 4-2 di Antognoni per un’errata segnalazione del guardalinee. Si è riscattato nel finale. A 48 anni era ancora in una forma eccellente e questo gli permise di essere nella posizione giusta nel momento opportuno. All’ultimo minuto della gara riuscì a vedere al meglio la parata di Zoff sulla linea su colpo di testa di Oscar. A passare il turno furono gli azzurri che poi sconfissero la Polonia in semifinale e si aggiudicarono la finale. In molti si aspettavano che la partita clou di quel Mondiale fosse assegnata ad Abraham, ma con la Germania Ovest protagonista la Commissione arbitrale decise inspiegabilmente di non creare imbarazzi con i tedeschi legati ai fatti storici del passato. Klein fu scelto come uno dei guardalinee. Israele non fu membro dell’Uefa fino al 1990 per questo Klein non poté arbitrare alcun Europeo. Inoltre agli israeliani non era ammesso dirigere nei paesi dell’Est europeo, ma arbitrò due volte la Russia e Cuba-Polonia nella gara di apertura delle Olimpiadi di Montreal. Klein si ritirò nel 1984, a 50 anni. Divenne presidente della commissione arbitri in Israele e istruttore FIFA. NATHANYA DI PORTO Arpad Weisz, il grande allenatore dell’Inter na delle figure di religione ebraica più leggendarie nella storia del calcio italiano è quella di Arpad Weisz. Ungherese di nascita, dopo aver calcato il terreno di gioco per diversi anni come ala sinistra, fu allenatore in Italia negli anni Trenta vincendo tre scudetti: prima con l’Ambrosiana Inter (1929-30) e poi con il Bologna (1935-36 e 1936-37) stabilendo il record, ancora imbattuto, di essere il più giovane tecnico a conquistare il tricolore. Durante la sua esperienza meneghina scoprì Giuseppe Meazza. Nel 1930 scrisse insieme a Aldo Molinari il manuale “Il giuoco del calcio” in cui tracciò la sua rivoluzione calcistica destinata a fare proseliti e scuola per i futuri allenatori, in cui valorizzava la disposizione tattica dei giocatori in campo, dando maggiore importanza alla preparazione atletica e arretrando la posizione dei centrocampisti fino ad allora troppo sbilanciati in avanti. In questo modo si deve a lui il ruolo di mediano sulla difensiva. Fu un allenatore all’avanguardia che influenzò con le sue idee anche Vittorio Pozzo che allenava l’Italia mondiale dell’epoca. Lo si ricorda anche per essere stato il primo tecnico a scendere in campo di gioco per dirigere gli allenamenti. Con l’emanazione delle leggi razziali, Arpad Weisz dovette lasciare il Paese e trovare rifugio insieme alla famiglia prima a Parigi e poi nel piccolo paese olandese di Dordecht. Dopo aver perso la moglie e i figli catturati e sterminati dalle SS, fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz dove morì nel gennaio del 1944. Nell’ultimo decennio, dopo un oblio durato a lungo, la figura del leggendario allenatore è stata rievocata e pubblicizzata con diverse iniziative in Italia. Grazie all’opera di Matteo Marani, direttore del Guerin Sportivo, che ha scritto un volume “Dallo scudetto ad Auschwitz” si è venuti a conoscenza di tanti aneddoti inediti della sua vita. E negli stadi del Bologna e del Novara e nel salone del Meazza è possibile visionare le targhe, affisse recentemente, che ne ricordano le gesta. Da qualche anno è intitolato a suo nome un torneo calcistico annuale della memoria, cui partecipano squadre dilettantistiche di molte regioni italiane. JONATAN DELLA ROCCA GENNAIO 2015 • TEVET 5775 U Eccellente tecnico, fu catturato e deportato ad Auschwitz 21 FOCUS Quando gli ultras parlano ebraico Purtroppo anche nel calcio israeliano vi sono manifestazioni di violenza e di razzismo, duramente punite A GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Roma ci fu il Gruppo Anti Manfredonia per contestare la scelta di tesserare l’ex laziale nel 1987; nel 2000, nel primo match da ex con la maglia del Real Madrid, i tifosi del Barcellona lanciarono una testa di maiale a Luis Figo; la scorsa estate, i fan dell’Arsenal hanno bruciato la maglietta di Fabregas al momento del suo trasferimento dal Barcellona al Chelsea, dopo che il giocatore aveva promesso che non sarebbe mai andato in altre squadre inglesi. Anche in Israele si è verificato un “tradimento”: Eran Zahavi, oggi trequartista del Maccabi Tel Aviv, è un nome noto a molti intenditori, in quanto titolare della nazionale israeliana nonché ex del Palermo. Prima di trascorrere le due stagioni in Sicilia, però, giocava proprio nell’Hapoel, l’altra squadra di Tel Aviv dove era cresciuto. La scelta di tornare in patria ma sull’altra sponda non è stata presa bene dai suoi vecchi supporter, che hanno dimostrato il loro disappunto nel derby dello scorso novembre, in cui si è giunti alla sospensione del match pochi minuti prima della fine del primo tempo. Al 32’ un tifoso dell’Hapoel è riuscito a entrare in campo e ha aggredito Zahavi, il quale si è difeso sferrando il calcio da cui è nata la rissa: la parte di campo intorno al lato corto dell’area di rigore è diventata una sorta di ring, dove l’arbitro e gli altri giocatori sono presto intervenuti per separare i due. Tuttavia, l’allontanamento di questo tifoso non ha impedito che la situazione degenerasse: l’arbitro ha espulso Zahavi e a quel punto il general manager del Maccabi Jordi Cruyff (figlio del grande Johan) ha minacciato il ritiro dei suoi, mentre altri tifosi invadevano il campo e attaccavano giocatori e steward. Dodici arresti il bilancio finale. A seguito di questa vicenda, il ministro della Giustizia Tzipi Livni ha lanciato l’allarme sul pericolo violenza nello sport. Tuttavia, l’episodio di Tel Aviv non rappresenta l’unico caso di violenza del calcio israeliano, che si trova sempre più spesso a vivere problemi analoghi al resto del mondo. Il tema più noto è quello dei tifosi del 22 Beitar Gerusalemme e in particolare delle sue frange più estremiste, rappresentate da “la Familia”, il gruppo nato nel 2005 che oggi conta circa 5mila persone. “Ultranazionalisti e razzisti” secondo un articolo di Libération; “di estrema destra” e “islamofobi” per il Washington Post. Il Beitar, nato nel 1936, è da sempre legato al Likud e alla destra israeliana, ma negli ultimi anni questa tendenza si è accentuata notevolmente. Come raccontato da un articolo del New York Times di gennaio 2013, alcuni di questi ultras sono stati protagonisti di episodi di violenza nei confronti di alcuni lavoratori arabi. Il caso più eclatante si è però verificato all’inizio del 2013, quando i tifosi hanno protestato in modo molto acceso contro il proprietario – l’uomo d’affari israelo-russo Arkadi Gaidamamk – reo di aver ingaggiato due calciatori del Tarek Grozny, originari della Cecenia e musulmani. In Israele la presenza in squadra di giocatori arabi è una prassi, ma non nel Beitar, unica eccezione tra le 30 squadre professioniste israeliane. Allo stadio è stato esposto lo striscione “Beitar puro per sempre”: un tifoso è stato arrestato, altri cinquanta sono stati bloccati, mentre lo stesso club è stato multato. L’allora Presidente israeliano Peres, ma anche il premier Netanyahu e il suo predecessore Ehud Olmert, questi ultimi grandi sostenitori del Beitar, hanno espresso pubblicamente il loro disappunto per quanto accaduto. Inevitabili, a novembre scorso, i timori per il delicato scontro tra il Beitar e il Bnei Sakhnin, l’unica squadra araba del campionato israeliano, che, peraltro, alcuni mesi prima era stata multata per aver reso omaggio sul terreno di gioco a Azmi Bishara, ex deputato arabo israeliano accusato di aver collaborato con Hezbollah. Tanta tensione a inizio partita, ma alla fine, grazie anche alle imponenti misure di sicurezza prese preventivamente, le cronache hanno riportato solo la vittoria a sorpresa per 1-0 degli arabi: la dimostrazione di come anche nel calcio emerga il carattere democratico di Israele, che tuttavia si trova a fare i conti con la violenza negli stadi, proprio come tanti altri Paesi. DANIELE TOSCANO Israele sogna Francia 2016 Shalom ha incontrato Eli Guttman, l’allenatore della nazionale israeliana Sono una persona forte, ma sono anche un essere umano sensibile. Quali sono i valori in cui credi? Metodo, professionalità, responsabilità. Ma anche rispetto, onestà e fedeltà. Queste sono le cose in cui io credo. Come affronti i momenti di insuccesso nel tuo lavoro? Per come la vedo io quel che è successo è successo, fa parte del passato e non si può cambiare. Ma dobbiamo sfruttare gli errori per non ripeterli e poter migliorare il nostro lavoro senza perdere fiducia. Riflettere sugli sbagli di una partita ci servirà per non farli di nuovo. Quale allenatore ti piace? C’è un allenatore particolare che ogni volta mi incuriosisce e mi appassiona a tal punto che la sua filosofia del calcio, per me, è un modello da studiare. È Josep Guardiola, l’allenatore del Bayern Monaco. Qualche volta chiami i giocatori, “i miei figli”. Non è eccessivo? Se un allenatore non ha intelligenza sentimentale, non può avere successo. Così io li sento, perché ho tre figli di 17, 24 e 29 anni, e questa è anche l’età dei giocatori. Se devo essere duro con loro, sono duro, ma se hanno bisogno di una carezza gliela do. Perché gli voglio bene, gli voglio trasmettere sicurezza e guidarli nella loro strada, esattamente come faccio con i miei figli. Tu sei figlio di genitori sopravvissuti alla Shoa ed alleni la nazionale di Israele. Senti una responsabilità in più? Penso che dobbiamo dare tutta l’attenzione e tutto il rispetto possibili ai sopravvissuti, e non dimenticare questa generazione perché il progetto sionistico può esistere solo grazie a loro. Siamo alla fine dell’intervista, dacci in consiglio: compriamo il biglietto per vedere la nazionale israeliana per Francia 2016? Posso promettere una cosa: ce la metterò tutta per riuscirci! YAARIT RAHAMIM SALMONì OFFICINA SPECIALIZZATA VIA GALVANI 51C/D/E - 00153 ROMA ORARIO NO STOP 8,30 - 18,00 CHIUSO IL SABATO ELETTRAUTO AUTO DIAGNOSI MECCANICA GENERALE DIESEL E BENZINA INIEZIONE BENZINA E DIESEL FRENI ABS - ESP ASSISTENZA SCOOTER AMMORTIZZATORI ALZACRISTALLI ELETTRICI SERVIZIO CARRO ATTREZZI TAGLIANDI PROGRAMMATI E AUTORIZZATI DALLE CASE COSTRUTTRICI GENNAIO 2015 • TEVET 5775 M ordechai Shitenberg si trovava di fronte a un plotone d'esecuzione nazista con sua moglie Roza e sua figlia Ester. A pochi istanti dalla morte quando qualcuno ha chiesto: “ci sono qui farmacisti o medici?”, Mordechai ha risposto: “Io sono farmacista ma non vengo senza mia moglie e mia figlia”. E così sono sopravvissuti all’Olocausto. Settant’anni dopo suo nipote Eli Guttman è l’allenatore della nazionale di calcio israeliana che ha contribuito ai successi della squadra di questi ultimi mesi e sta dando la speranza che la nazionale di calcio d’Israele possa partecipare – dopo un’assenza di decenni - a una competizione importante internazionale, come i campionati europei di calcio che si terranno in Francia nel 2016. L’ultima uscita internazionale della squadra nazionale risale infatti al 1970 quando partecipò ai mondiali di calcio in Messico. Eli Guttman è nato e cresciuto ad Haifa, e ha iniziato la sua carriera di allenatore nel 1985. E’ stato anche allenatore a Cipro delle squadre: Enosis Neon Paralimniou e AEL Limassol e in Israele ha allenato le squadre Maccabi Haifa, Hapoel Be’er Sheva, Beitar Gerusalemme, Hapoel Haifa e altre. Con lui per la prima volta la squadra Hapoel Tel Aviv nella stagione 2009/2010 è arrivata alla Champions League. Nel settembre 2000 ha vinto con il Beitar Gerusalemme la Coppa per la pace a Roma. Finora ha vinto come assistant coach un campionato israeliano e una Coppa d’Israele, e come allenatore titolare tre coppe e due campionati in Israele. Nel 2011 è stato nominato l’allenatore della squadra nazionale israeliana. Shalom lo ha incontrato il mese scorso nella sua città natale. Qual è il segreto del successo dell'attuale nazionale? Cosa la distingue dalla squadra in cui ad esempio giocarono campioni come Haim Revivo, Alon Mizrahi e Eyal Berkovic? In questa squadra c’è una cosa particolare, speciale, cioè lo spirito della squadra. Ognuno dei giocatori prende il suo “ego” e lo mette al servizio della squadra e questa è la cosa più importante. Sono molto orgoglioso di essere l’allenatore di una squadra così, di ragazzi intelligenti, seri, che capiscono l’importanza del gioco di squadra, ed è questo che fa la differenza. Israele riuscirà a qualificarsi per Francia 2016? La strada è ancora molto lunga. Abbiamo ancora altre partite difficili e non voglio cantare vittoria prima del tempo. Penso che queste tre partite che abbiamo vinto ci diano la spinta di cui abbiamo bisogno per proseguire nella nostra strada. Cosa significa allenare una nazionale? Quando sento l’inno, quando ho sentito l’“Hatikvah” nell’ultima partita, quando 31 mila tifosi hanno cantato insieme l’“Hatikvah” ho sentito i brividi. Non ci sono paragoni tra l’allenare la squadra nazionale e le altre squadre. Allenare la nazionale significa rappresentare Israele, e quindi vedere la realizzazione di un sogno, arrivare al top della carriera. Allenare una squadra durante il campionato significa incontrare e lavorare con i giocatori ogni giorno. Se provi uno schema di gioco e ti rendi conto che non funziona, hai tutto il tempo di cambiare, invece nella squadra nazionale no. Il lavoro è tutto molto concentrato, in quattro-cinque giorni devi fare tutto e nel miglior modo possibile. In poco tempo dobbiamo studiare le nostre tattiche di gioco ma anche l’avversario. Facciamo una preparazione molto precisa. E' come giocare un campionato di dieci partite che dura un anno e mezzo, e ogni partita è come se fosse una finale di coppa. Sei definito uno “Yeki”, riservato, introverso, ma in più di qualche occasioni ti sei emozionato e hai pianto. Non è una contraddizione? Tel. 06.5741137 Cell. 3394510504 - [email protected] 23 EBRAISMO Benigni, i Dieci Comandamenti e le fonti ebraiche Quando la religione diventa uno spettacolo di successo N ei giorni seguenti l’evento televisivo “I dieci comandamenti” abbiamo letto commenti da parte ebraica che hanno elogiato quasi unanimemente la bravura artistica di Roberto Benigni, ma altresì alcuni hanno lamentato che l’attore toscano non abbia citato le fonti ebraiche dei suoi commenti, eccetto qualche rara volta. Non è la prima volta che con l’attore toscano il mondo ebraico si trova in questa situazione: compiacimento per l’estetica e l’esibizione artistica ma discussione sul modo di confrontarsi alle fonti e alla natura dell’evento. Già il film Oscar “La vita è bella” aveva diviso il pubblico. Come allora si tratta di una libertà di osservazione e di critica che tocca il rapporto tra verità storica e l’arte. Innanzitutto è bene capire i meccanismi che dietro le quinte animano la messa a punto di una trasmissione di successo, e quali scelte possano essere state compiute dall’artista su temi delicati che toccano il mistero biblico con un’infinità di implicazioni teologiche, riuscendo a far presa su una vasta platea, su temi che difficilmente vengono proposti dai canali di Stato nella prima serata. Questo non vuole essere dietrologia, ma penso che valga la pena mettere per iscritto certe osservazioni. Va ricordato che la Rai ha investito sul progetto due serate di prime time, di forte appeal pubblicitario, proprio nella settimana che ha preceduto le festività natalizie, su un tema tanto caro alla coscienza popolare. Si è trattato di un programma, diviso in due puntate, che ha registrato un’audience inferiore solo al festival di Sanremo e alla partite di calcio. Il canale sul quale è stato trasmesso il programma è stato RaiUno, la rete legata da sempre al mondo cattolico. E’ logico pensare che lo spettacolo, sebbene sia stato preparato da lungo tempo, non abbia subito pressioni nei contenuti, lasciando a Benigni l’assoluta libertà artistica. Però, altresì, è lecito dedurre che il protagonista, lautamente compensato, e consapevole di essere ormai la star della rete, avendo già presentato la Divina Commedia, la costituzione italiana e altri one man show di successo, non se la sia sentita di riportare le fonti rabbiniche e midrashiche di quasi tutti i suoi commenti, lasciando poi a mani vuote l’altra parte. Non poteva Benigni commettere più di uno sgarbo al committente e a una rete a lui tanto cara. E poi, a credito dell’artista, va sottolineata la valenza artistica del programma: si è trattato di uno spettacolo, punto e basta; né storico documentaristico, né tantomeno di una trasmissione dal carattere religioso. Con il merito di viaggiare a ritroso nel tempo di tremilatrecento anni come un saltimbanco tra umorismo, competenza ed ironia, divulgando l’eternità e l’universalità del messaggio divino. JONATAN DELLA ROCCA IMPRONTE VIAGGI E TURISMO ארגון רומאי חברים של ישראל Associazione Romana Amici d’Israele PRESENTA GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Se lo vorrete non sarà un sogno 24 da Yom HaShoah a Yom HaAzmaut 15 – 23 APRILE 2015 (9 giorni, 8 notti) Alla scoperta di Israele con una guida d’eccezione: Angela Polacco In programma incontri istituzionali biglietteria aerea nazionale ed internazionale biglietteria ferroviaria e marittima Quotazione p.p. € 2.000,00 Supp. singola p.p. € 650,00 itinerari in Israele su misura Per il programma completo: www.impronteviaggi.it - www.federazioneitaliaisraele.it pacchetti turistici vacanze e benessere Via S. Croce in Gerusalemme, 77 / 77A - 00185 Roma - Tel. 06.7001906-909 [email protected] l grande maestro della scuola di Mussar Israel Salanter osservò che non tutto quello che si pensa va raccontato, non tutto quello che si racconta va scritto e non tutto quello che è scritto va pubblicato. Questa osservazione va di pari passo con il detto dei maestri nei Pirkè Avòt (Massime dei Padri) che insegnano: "Chi è forte? Colui che sa controllare i propri istinti". Steven Oppenheimer in un articolo scritto nel 2001 sul Journal of Halacha and Contemporary Society (n. 41) di New York osservava: "I giornali hanno una funzione vitale nella società, informando e guidando il pubblico durante le crisi economiche, sociali e politiche. Il pubblico si aspetta dai giornali informazioni oneste e veritiere. I giornalisti hanno quindi un enorme potere perché tante persone si basano su di loro per le informazioni che ricevono nella vita di ogni giorno”. Il giornalista deve quindi sapersi controllare e cercare per quanto possibile di riportare le notizie in modo onesto senza farsi trascinare dalle passioni o dai pregiudizi. È chiaro quanto sia difficile riuscire a seguire questa linea di condotta al cento per cento, tuttavia la Torà è stata scritta per esseri umani che sono di natura proni ad errori e non per esseri perfetti come gli angeli. Con tutto ciò, data questa responsabilità, è imperativo che l'ebreo che desidera fare il giornalista sia cosciente del fatto che nell'espletare le sue responsabilità può incorrere in un grande numero di trasgressioni. Si racconta di uno shochet che andò dal suo Rebbe e gli disse che era spaventato dalla responsabilità che aveva e temeva che se avesse commesso un errore, avrebbe potuto causare un enorme danno alla comunità facendo consumare carne non kasher. Desiderava pertanto cambiare mestiere e darsi al commercio. Il Rebbe lo convinse a continuare a fare lo shochet, dicendogli che proprio il fatto che avesse timore di commettere errori significava che era la persona adatta a fare lo shochet e che se avesse voluto cambiare mestiere e fare il commerciante, come egli aveva prospettato in alternativa alla sua occupazione attuale, avrebbe avuto un numero molto più grande di trasgressioni di cui preoccuparsi. È più che probabile che facendo il giornalista il numero di possibili trasgressioni sia superiore a quello di chi si dà al commercio. Oppenheimer scrisse: "È cosa normale per un giornale chiedere l'opinione del proprio legale prima di pubblicare un articolo importante. Questo viene fatto per evitare di essere citati in tribunale per avere usato espressioni improprie o per asserzioni non sostenute dai fatti. La redazione vuole sapere dal proprio legale fino a quale punto può riportare certi dettagli perché ci sono alcuni limiti che redattori e reporter sanno di non poter oltrepassare. [...] Nello stesso modo i redattori dei giornali ebraici devono consultare le autorità halachiche [...] per essere certi che quello che viene pubblicato non esce dai limiti del consentito". Tra le regole halachiche da prendere in considerazione nella conduzione degli affari di un giornale, queste che seguono sono probabilmente le più importanti: 1. Gli articoli devono essere informativi e devono evitare di creare inutili dissidi e di incoraggiare polemiche distruttive che creano o alimentano discordie. Questo lo impariamo dal dissidio generato da Korach e dai suoi seguaci che non seppero trattenersi dal proseguire nella ribellione fino alla loro tragica fine (Bemidbàr 16:25). In quella occasione Moshè nostro maestro andò di persona da Datan e Aviram che si erano ribellati, cercando di far cessare il dissidio. I Maestri imparano da qui che è proibito persistere nelle discordie (Sanhedrin, 110a). 2. La Torà proibisce di parlare male del prossimo perché è scritto "Non andare a sparlare del prossimo" (Vaykrà, 19:16). R. Israel Meir Kagan alla fine dell'Ottocento scrisse l'opera Chafetz Chaim, un'espressione presa dal versetto dei Salmi (34:13) "Chi è l'uomo che desidera vivere", per presentare al pubblico una raccolta ed elencazione completa delle regole della maldicenza. Egli spiegò che maldicenza significa dire del male del prossimo anche quando si dice la verità. Se non si dice la verità si cade nella trasgressione ancora più grave di diffamazione. Se è proibito sparlare del prossimo nei colloqui personali a maggior ragione bisogna guardarsi dal farlo in un giornale con il quale, diffondendo la notizia dappertutto, si rovina la reputazione del prossimo. Ci sono tuttavia situazioni nelle quali non solo è permesso ma anche doveroso esporre le malefatte del prossimo. Un esempio attuale è quello di un marito al quale il Bet Din ha dato ordine di dare il ghet (documento di divorzio) alla moglie e costui ha rifiutato. In tale caso si può pubblicare sul giornale che il tal dei tali ha disobbedito a un ordine del Bet Din. Ci sono altre situazioni analoghe nelle quali è permesso pubblicare articoli sulle trasgressioni di alcuni individui per cercare di farli desistere o per lo meno per far sì che il pubblico venga avvertito del fatto e prenda le distanze dai trasgressori. 3. Il giornalista di un giornale ebraico deve stare particolarmente attento a presentare tutte le notizie tenendo conto del fatto che la Torà comprende mitzvòt prescrittive che ci impongono di agire in un certo modo, mitzvòt proscrittive che ci proibiscono di agire in un altro modo e "Hilchot De'ot ve Chovòt Halevavòt", ovvero "regole delle opinioni e dei doveri del cuore", come le denominò Rav Itzchak Hutner. I redattori dei giornali non sono responsabili solo per le opinioni della redazione ma anche per qualunque articolo pubblicato sul loro giornale che può condurre i lettori a pensare che un'azione o un'opinione proibita sia invece permessa. Cosi facendo trasgredirebbero la mitzvà di "Non porre un inciampo davanti a un cieco" (Vaykrà, 19:14). Quest'ultimo punto è particolarmente delicato. Tutti sanno che è proibito rubare e quindi un articolo che riporta la notizia di un furto a un negozio di una gioielleria di Via Veneto non ha bisogno di ulteriori commenti. Ci sono invece notizie alle quali, se riportate in giornale, è doveroso aggiungere che si tratta di comportamenti proibiti dal momento che può non essere chiaro a tutti se lo siano o meno. Un esempio recente è quello di alcuni ebrei di Gerusalemme che, credendo di fare del bene, avevano accettato di partecipare a un evento organizzato nell'ottobre 2014 dalla International Christian Embassy di Gerusalemme nel quadro del quale era prevista una preghiera comune tra ebrei e cristiani vicino al Muro meridionale del Monte del Tempio. Entrambi i rabbini capi dello Stato d'Israele dichiararono che la cosa era proibita. In un caso del genere, nel riportare l'avvenimento è cruciale che il giornalista che desidera scrivere un articolo abbia cura di indicare nel suo scritto che la preghiera comune tra ebrei e membri di altre religioni è stata proibita dal rabbinato. Senza una tale indicazione il pubblico dei lettori avrebbe potuto pensare che pregare tutti insieme fosse un esempio di fratellanza umana. È quindi responsabilità di ogni giornalista ebreo studiare a fondo le halachòt pertinenti alla loro occupazione e nei casi di dubbio rivolgersi al rav della comunità. Di conseguenza, è responsabilità dei dirigenti delle comunità far sì che i giornali che dipendono dalle comunità si attengano a una condotta in linea con quello che la Torà ci prescrive. DONATO GROSSER GENNAIO 2015 • TEVET 5775 I Le responsabilità dei giornalisti secondo la Torà 25 CULTURA Tel Aviv, un laboratorio culturale per le nuove idee e tendenze La città israeliana inserita dall’Unesco nel Creative Cities Network N el dicembre scorso, ventotto nuove città, da Torino a Praga, da Granada a Coritiba, sono state inserite dall’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) come nuovi membri del Creative Cities Network. Sono così divenute 69 le città che hanno individuato nella cultura e nella creatività una guida strategica per uno sviluppo urbano e sostenibile. Tra le new entry, figura anche Tel Aviv. Il riconoscimento ufficiale è giunto alla città israeliana dieci anni dopo essere stata nominata patrimonio mondiale dell’umanità per la sua straordinaria collezione di più di 4mila edifici originali Bauhaus sparpagliati nella città. Il Network delle Città Creative è un progetto lanciato nel 2004 con lo scopo di favorire la cooperazione internazionale tra città mediante l’inclusione sociale e un aumento dell’influenza della cultura nel mondo. Entrando a far parte di questa rete, le città si impegnano a collaborare e a sviluppare delle partnership con i fini di promuovere laboratori culturali, condividere le tradizioni, rafforzare la partecipazione alla vita culturale e integrare la cultura nei progetti di sviluppo economico e sociale. Il Network copre sette aree tematiche: artigianato e arti popolari, design, cinema, gastronomia, letteratura, arti multimediali e musica. Tel Aviv è stata inserita nella categoria delle arti multimediali, cui appartengono città dove la tecnologia digitale è sviluppata e implementata con successo nel miglioramento della vita urbana. Il florido panorama high-tech di Tel Aviv e le numerose imprese tecnologiche hanno contribuito a far raggiungere alla città israeliana questo traguardo. Attualmente a Tel Aviv ci sono più di 700 start-up nella loro fase iniziale: una città con poco più di 400.000 abitanti, che però è seconda al mondo per il maggior numero di start-up, mentre ne ha il più alto numero per abitante. L’inserimento di Tel Aviv nella Creative Cities Network è un grande onore per la città e rafforzerà lo sviluppo di attività, progetti e iniziative nel campo delle arti multimediali nel mondo accademico, nel settore degli affari, nell’industria, nelle istituzioni culturali. Al fine di mantenere il titolo, Tel Aviv presenterà annualmente all’organizzazione le iniziative attuate in città e la cooperazione sviluppata a livello internazionale. Commentando questo risultato, il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai ha detto: “L’ingresso di Tel Aviv nel Creative Cities Network dell’UNESCO riflette il riconoscimento del mondo del contributo dato dalla città al presente e al futuro – un riconoscimento che attribuisce a Tel Aviv il ruolo di un vivace centro di creazione culturale e di tecnologia all’avanguardia, con imprese creative e iniziative originali e innovative”. L’appuntamento per i rappresentanti di Tel Aviv è per maggio 2015, quando si terrà il prossimo vertice del Creative Cities Network a Kanazawa, in Giappone. DANIELE TOSCANO La Menorah di Anticoli ad Eva Fischer Il riconoscimento consegnato in occasione della Giornata europea della cultura ebraica GENNAIO 2015 • TEVET 5775 I 26 l premio “Menorah di Anticoli” 2014, che si assegna a Fiuggi nella ricorrenza della Giornata Europea della Cultura Ebraica, è stato attribuito alla pittrice Eva Fischer. La manifestazione, promossa dalla Fondazione Giuseppe Levi Pelloni e dalla Biblioteca della Shoah di Fiuggi, è giunta al suo secondo anno di vita ed è dedicata a figure ed istituzioni del mondo ebraico internazionale. L’anno scorso l’ambito riconoscimento, una copia dell’antica Menorah di Anticoli riprodotta su pietra dal maestro Luigi Severa, è toccato alla Fondazione Keren Keyemet LeIsrael per il suo secolare impegno profuso nel campo dell’ecologia. L’opera artistica di Eva Fischer è stata presentata da Pino Pelloni e Daniel Benjamin Morello ed illustrata da Alan David Baumann. L’artista, oggi ultra novantenne, ha inviato al pubblico di Fiuggi un suo commosso saluto videoregistrato che ha riscosso lunghissimi e calorosi applausi. Eva Fischer è nata a Daruvar (Ex Jugoslavia), nel 1920. Il padre Leopoldo, Rabbino Capo ed eccellente talmudista venne deportato dai nazisti. Sono più di trenta i familiari di Eva scomparsi nei lager. Negli anni precedenti la guerra, Eva Fischer si diplomò all’Accademia di Belle Arti di Lione e fece ritorno a Belgrado dove subì i vandalici bombardamenti nazisti sulla città (1941). Ebbe così inizio un periodo travagliato fatto di fughe e costellato da privazioni e duri sacrifici che l’ha portata infine a vivere a Roma, dove entrò immediatamente a far parte del gruppo di artisti di Via Margutta coi quali contrasse indelebili amicizie. Di quel periodo sono gli incontri con Mafai e Guttuso, Tot, Campigli, Fazzini, Carlo Levi, Capogrossi, Corrado Alvaro e tanti di quella generazione di artisti che avevano maturato idee luminose entro il buio della dittatura. Intensa fu l’amicizia con De Chirico, Mirko, Sandro Penna e Franco Ferrara allora già brillante direttore d’orchestra; venne così il tempo di lunghe e notturne passeggiate romane anche con Jacopo Recupero, Cagli, Avenali, Giuseppe Berto e Alfonso Gatto nonché Maurice Druon. Fu in quel tempo che Dalì vide e s’innamorò dei mercati di Eva mentre lo stesso Ehrenburg scrisse sulle “umili e orgogliose biciclette”. Con Picasso s’incontrarono nella bella casa di Luchino Visconti. Poi vennero gli anni del vagabondare tra Parigi, Madrid e Londra. Gli anni delle mostre e della sua fama internazionale. DAVID SPAGNOLETTO Nella foto: il figlio di Eva Fischer, Alan David Baumann ritira il premio STORIA Prima di tutto italiani. Gli ebrei romani e la Grande Guerra ell’anno del centenario della Prima Guerra Mondiale, il Museo ebraico di Roma ha inaugurato la mostra “Prima di tutto italiani: gli ebrei romani e la Grande Guerra” che racconta il contributo ebraico alla Prima Guerra Mondiale, attraverso foto, lettere dal fronte, libri, medaglie, tefillot, elenco dei morti in guerra; reperti che raccontano di persone che hanno lottato per la difesa della propria patria, per poi venire colpiti dalle Leggi Razziali del 1938 e deportati nei campi di sterminio. La mostra è stata realizzata grazie ai prestiti di Paola Bonfiglioli, Orietta Citoni, Esther Di Porto, Rosa Piperno, al contributo dell'Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, e al contributo dell'attore cinematografico Silvio Muccino all'interno del video-documentario dell'esposizione. La mostra è stata inaugurata il 16 Dicembre, alla presenza del presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, del Ministro della Difesa Roberta Pinotti, del Rabbino Capo Di Segni, del'Assessore alla Cultura Gianni Ascarelli, della direttrice del museo Alessandra Di Castro e di Lia Toaff, curatrice della mostra. "Nella realizzazione della mostra è stato importante il contributo della famiglia Anticoli - ha spiegato la curatrice della mostra Lia Toaff - infatti ci hanno consegnato una serie di lettere scritte durante la guerra da cui emergeva l'italianità dei soldati senza trascurare l'aspetto religioso; nel 1915 fu infatti istituito il Rabbinato Militare, che permetteva ai rabbini di seguire le truppe al fronte. Inoltre da queste lettere emerge il desiderio dei soldati di rispettare le tradizioni ebraiche; ci sono infatti richieste di permesso durante la Pasqua Ebraica, o richieste di fornitura del pane azzimo al fronte". Storie di uomini sulla linea di confine, di rabbinati militari e di ebrei italiani che tornati dal fronte per difendere la patria saranno poi declassati dalle leggi “razziste” e deportati nei campi di sterminio nazisti. All’inizio del conflitto l’identità patriottica degli ebrei era pari a quella di qualsiasi italiano. La Prima Guerra Mondiale rappresentò l’occasione per legittimare la partecipazione alla vita sociale, visto che per la prima volta gli ebrei furono messi sullo stesso piano dei cittadini italiani. Il richiamo alle armi rap- I presentava, infatti, una spinta verso l’emancipazione e smentiva coloro che identificavano l’ebraismo con la codardia e l’ostilità verso la patria di adozione. La mostra è un viaggio nel conflitto del 1915 e nella comunità ebraica in Italia. All’epoca la popolazione di ebrei ammontava a circa 35.000 persone su un totale di circa 38 milioni di italiani. Molti di quegli ebrei accettarono l’entrata in guerra in virtù del patriottismo e dell’attaccamento alla dinastia dei Savoia. Cinquemila furono quanti partirono per il fronte, nel 50% dei casi ricoprirono il grado di ufficiali. Perché un ebreo potesse essere nominato ufficiale era necessario che avesse conseguito almeno il diploma di studi superiori. Ma gli ebrei romani rappresentano un’eccezione rispetto alla popolazione ebraica italiana che aveva un’istruzione di gran lunga superiore a quella della media nazionale. Lungo la storia, a loro erano stati permessi solo mestieri poveri e durante gli anni di ‘reclusione’ nel ghetto si erano occupati principalmente di commercio, così la loro posizione socio-culturale non era avanzata. Ricoprirono, dunque, principalmente il ruolo di militari di truppa, gli ufficiali rappresentavano una minoranza. La regione italiana che ebbe il maggior numero di ufficiali ebrei combattenti (circa 500) fu il Piemonte seguita dalla Toscana (circa 400), dal Veneto e dall’Emilia Romagna (circa 350 ciascuna). Durante i combattimenti fu garantita l’assistenza religiosa. Per gli ebrei venne istituito nel giugno 1915 il Rabbinato Militare. Molti ebrei al fronte, invece, volevano evitare di distinguersi per religione. Solo con il tempo divennero consapevoli e fieri del proprio essere ebrei e italiani allo stesso tempo. I caduti ebrei durante la guerra furono all’incirca 420 e si suppone che in totale ne vennero decorati circa 700. Era di 1.600 il numero di ufficiali ebrei in vita quando in Italia calò l’ombra delle leggi razziali. In virtù del loro contributo alla patria, molti combattenti chiesero di essere “discriminati”. Non si registrarono però tanti casi in cui queste “discriminazioni” vennero concesse e molti di coloro che per l’Italia avevano combattuto, caddero in mano nazista e furono uccisi tra il 1943 e il 1945 nei campi di sterminio. GIORGIA CALÒ Le testimonianze e le lettere inviate dalle trincee l pomeriggio del 2 settembre 1967 un autista dell’autobus 31, al capolinea di piazzale Clodio, mise involontariamente fine alla vita di Gabriele Anticoli, in arte Hello Gabry, definito sui giornali dell’epoca anziano commediografo, molto noto negli ambienti artistici della città. All’epoca io avevo soltanto 6 mesi, ma familiarizzai presto col personaggio, dal momento che le sue foto e i suoi ritratti erano esposti nel soggiorno della casa di mia nonna, a Monteverde. Il suo pseudonimo, che mi appariva stravagante, era una delle prime apparizioni domenicali, quando, con mia madre, mia nonna e mia sorella, si andava al cimitero del Verano a visitarne la tomba. Della famiglia Anticoli, dagli archivi della Comunità Ebraica, si sa che ha un origine sefardita, di Scola castigliana, la cui presenza a Roma è documentata dalla fine del ‘700. Del padre, Prospero, sappiamo che con Flaminia aveva generato ben tredici figli. Precedentemente agli scavi archeologici che ne rappresentano l’attuale sistemazione, esercitava la professione di pasticcere in un chiosco a largo Argentina. Dichiarava di essere l’inventore della bibita “cocco fresco”, che sosteneva che gli fosse stata successivamente copiata e venduta da altri nel chiosco di via del Tempio. La famiglia risiedette tra via dei Giubbonari, piazza Santa Maria in Trastevere, e Piazza Ippolito Nievo, sempre poco lontano dal ghetto in cui gli ebrei romani erano stati costretti a vivere per quattrocento anni e da cui non si allontanavano volentieri. Nel 1915 tutti i figli erano nati e la minore, Graziella, aveva circa due anni. Coccolata dai fratelli, nel tempo Graziella si era ritrovata in casa scatole contenenti documenti e oggetti (ne sono dimostrazione le dediche su foto e libri) affidatele da Gabriele, che non aveva avuto figli e che era di 24 anni più grande. Probabilmente mia nonna aveva un’attitudine alla conservazione, visto che nel grande armadio a muro e nel mobile del soggiorno custodiva le testimonianze della sua vita. GENNAIO 2015 • TEVET 5775 N Al Museo ebraico la mostra sulla partecipazione ebraica alla Prima Guerra Mondiale 27 GENNAIO 2015 • TEVET 5775 STORIA 28 Tra i ricordi più cari della mia infanzia ci sono quegli oggetti, di cui saprei riconoscere ancora il profumo: carta, tessuti, abiti, borse. Nei lunghi pomeriggi invernali, in cui i miei genitori erano impegnati nel negozio ”in piazza”, io e mia sorella entravamo nell’armadio per esplorare quei tesori. Quel meraviglioso armadio occupa ancora oggi i miei sogni. A casa di mia nonna c’erano anche lettere, ritagli di giornale e foto, che avevano come oggetto, soprattutto, le guerre e i parenti deportati. Le lettere e le cartoline, che zio Gabry le aveva affidato, erano contenute in un sacchetto di stoffa verde, in dotazione ai soldati, e risalivano alla Prima Guerra Mondiale. Qualche volta, con tono di scherno, ne avevo sentito parlare da mia madre. Il sentimento prevalente era di bonaria derisione nei confronti di contenuti riguardanti invii di cibo, abiti caldi e denaro. Per mia madre, l’ardore patriottico appariva del tutto immotivato, se non ridicolo. Nella comprensione di questo punto di vista, devo sottolineare l’amarezza data dalla consapevolezza che tanto patriottismo e la riprovevole adesione al fascismo “della prima ora”, non aveva salvato una generazione dall’obbrobrio delle leggi razziali e delle deportazioni. La tragica ironia di un destino (o meglio, di un regime fascista) aveva infatti, dapprima premiato con sussidi la famiglia, in quanto numerosa, per poi escluderla dalla vita attiva e trascinarne 15 componenti nell’orrore, da cui ritornò una sola persona. A distanza di tanti anni, e grazie alle possibilità che la tecnologia consente, ho recuperato questo materiale, l’ho trascritto e letto attentamente, ricostruendo luoghi e tempi, recandomi personalmente nelle località menzionate, tra Alto Adige e Veneto. Infine ho riconsiderato i contenuti con una diversa sensibilità. Le date dei documenti vanno dal giugno al settembre 1915. La posta proveniente da Roma è inviata dal padre Prospero e, in misura minore, da altri familiari e conoscenti, mentre la posta proveniente dal fronte è inviata da Adolfo e Crescenzo Giorgio, gli altri due fratelli contemporaneamente in guerra, rispettivamente sull’Isonzo e sul Col di Lana. I testi delle lettere sono toccanti, sia dal punto di vista della quotidianità romana che della vita al fronte. Se ne può apprezzare la cura nel lessico, la compiutezza, la correttezza ortografica e la grafia curata, nonostante la provenienza da un tessuto sociale senza preparazione scolastica. Tra gli ebrei romani, anche nelle fasce sociali più svantaggiate, in cui si svolgevano professioni come “fazzolettaio” e “facchino”, come testimoniano gli Archivi, l’alfabetizzazione era elevata rispetto al resto del Paese. Tornando ai contenuti, sono rilevanti la preoccupazione del padre di far sentire vicini (e di sentire lui stesso) i propri figli al fronte, la costanza nell’inviare indumenti caldi, cibo, lamette e pastine dissetanti, nonostante le difficoltà economiche più volte riferite (13 figli, di cui 3 al fronte, alcuni molto piccoli ed altri impegnati in attività commerciali poco redditizie in quel momento storico). Colpiscono i racconti sulla povertà, le chiamate a Sefer, la speranza di ottenere dei sussidi, il matrimonio di Bellina e Prospero, l’apertura del chiosco delle bibite, la presenza delle care zie che tanto contribuivano al sostentamento, i piccoli sotterfugi nei confronti degli ignari mariti e nell’utilizzo che Prospero faceva del denaro ricevuto. E ancora, le sigarette che Prospero teneva per sé, le notizie che rimandava ai figli, incrociando le informazioni che man mano riceve- va dagli altri. In una lettera egli si riferisce ad una persona che sono tanti giorni “che non si spoglia”. E’ noto come in trincea si restasse con gli stessi indumenti a lungo, tra pidocchi, topi ed escrementi. “Noi tutti stiamo bene, se non fosse quella maledetta cosa che si chiama Migragna, che sto vedendo sta diventando cronica, non andrà sempre così Iddio provvederà. Ho fatto tante domande per avere il sussidio, avendo 3 figli sotto le Armi, ma non avendo raggiunto 60 anni d’età, non mi danno nulla”. “Dunque oggi le Zie Rosa e Gemma mi hanno dato lire Trenta per dartene lire 10 a te, lire 10 a Crescenzo e dieci ad Adolfo e siccome, che, tanto tu che i tuoi fratelli mi avete scritto che denari non avete bisogno, così le 30 lire me ne servo per uso di famiglia, salvo a restituirli alla 1a Occasione, però vorrei un favore da te, spero non vorrai negarmelo, che quando mi rispondi, o che dovessi scrivere ad essi, dirgli che io ti ò spedito le Dieci lire. Capirai caro Gabriele, che da quando ho messo il Banco delle Bibite non fà che piovere continuamente, e quando non piove il tempo e nuvoloso, capirai non è questo il tempo che ci vuole per me”. “Mi dimenticavo dirti che Zia Rosa un giorno mi dette lire Cinque per te, gli dissi che l’avrei consegnato ad un soldato le 5 lire invece presero la via del Fornaio, spero avrai tutto compreso, e vedi di salvarmi l’apparenza”. “Di già scrissi in un altra mia, che quando scrivi alle Zie, non mandare a ringraziare di quello che vi mandano Tante volte potrebbe non fare piacere ai mariti che vi mandano spesso denari e altro. Quando mi scrivi a me, allora dirai ò ricevuto questo ò quest’altro, e siccome essi quando io ricevo vostre lettere, vogliono assolutamente leggerle, e così essi sapranno che tu ai ricevuto quanto essi ti hanno mandato, se vuoi ringraziali, ringraziali pure, ma nelle lettere che scrivi a me, spero avrai Capito?!” “Sappi che Zia Rosa, volle che tua Madre io e Zia Fortunata con Rosina e Gemmetta, fossimo state alle nozze, per mezzi, pensò essa, e così io feci il regalo, e feci le mie buone figure, credi passammo una bellissima giornata, zio Davidino fece pace con la Famiglia di Prospero, e fece un bellissimo regalo, così anche la famiglia di Zia Gemma erano alle nozze, e tutte è andato per la meglio mentre noi passavamo una bella giornata, (inutile dirti che il nostro pensiero era rivolto a voi tre al fronte), dunque dicevo mentre noi stavamo in divertimento a Casa nostra Adelina, con gli altri miei figli rimasti (Peppe Renato Giulio Ettore Mario e Graziella) fecero anche essi la festa in Onore dei Sposi, oltre quello che per solito lascio in casa la mattina, misero essi un tanto per uno, e ci fecero uscire Bistecche, pesce fritto, vino frutta e Caffè, i dolci ce l’avevano del Cavodde di loro che l’aveva dato la sera Zia Rosa fecero due pasti, uno all’una, e la sera alle 9 quando tornammo dal Pasto alle ore 10 a Casa, esse stavano facendo i Brindisi, la nostra camera da pranzo era illuminata a Giorno, avevano acceso tutte le lampadine. Iddio faccia che noi possiamo raccontare cose belle!”. Da parte di tutti si rilevano la costante fiducia in Dio e la volontà di festeggiare le festività ebraiche, anche in contesti tanto avversi. “Ti scrissi una lettera dicendoti che mi ero fatto chiamare a Sefere, e ringraziato Iddio pel tuo scampato pericolo, e stamani sono stato nuovamente al Tempio, mi sono fatto chiamare nuovamente a Se- fere, ed è stato suonato il Sciofaire, ci vuole un mese a Monghedd”. questa avanzata che sarà la più pericolosa e faticosa”. “Oggi ò ricevuto lettera di Crescenzo, dove fra le altre cose mi dice, che farà Monghedde a Belluno, forse la vi sarà il nostro Moreno”. All’inizio era diffusa la convinzione che la guerra sarebbe stata breve. Rapidamente si percepì che non sarebbe stato così e il clima emotivo mutò. Nei testi delle lettere, col passare dei mesi iniziarono infatti a comparire termini riferiti alla noia, alla censura, alla morte, a comportamenti repressivi degli ufficiali e al timore dei rigori invernali. “Il Kippur l’ho passato ottimamente insieme a Cesare di zio Consiglio a Donato Della Riccia, ad Arnaldo Spizzichino figlio di Amedeo volontario al 52° Fant. e tanti altri. Anch’io ho appreso con dolore la notizia della condanna a 20 anni di Tranquillo Spizzichino il quale comandato insieme ad altri per mettere 5(?) chilometri di filo telegrafico, ne metteva soltanto 2 addormentandosi sotto gli alberi”. Da parte dei figli, traspare la costante intenzione di rassicurare i parenti a Roma, il desiderio di mostrarsi valorosi, la condivisione degli aspetti bellici, fino alla giovanile e allegra inconsapevolezza nei confronti del battesimo del fuoco. Gabry, Adolfo e Crescenzo Giorgio partirono per il fronte nel giugno 1915, a guerra appena iniziata, e furono destinati tutti e tre al fronte italiano orientale, in zone poco distanti tra loro. L’entusiasmo e i sentimenti interventisti erano molto forti. A Roma, il Risorgimento, la chiusura definitiva e lo smantellamento del ghetto avevano determinato un’attiva partecipazione degli ebrei alla vita politica del paese. “Credo che anche tu sei in territorio austriaco, e avrai avuto il battesimo di fuoco, come l’ho avuto io, tempo fa, e non dubitare, che ho saputo fare il mio dovere, come lo farò sempre”. “Voglio sperare che anche tu come noi ti trovi già in territorio Austriaco e possa al più presto fortunatamente sostenere il battesimo del fuoco, io come pure il nostro caro fratello Adolfo saprò comportarmi da vero Italiano facendomi onore come più le mie forze permettono la Patria in questo momento è in pericolo e noi chiamati, dobbiamo difenderla fino all’estremo sacrificando le nostre forze e le nostre vite per la nostra cara Italia la quale dovrà essere unita e completa. Sii forte come io lo sono in questo momento, fatti coraggio e sii valoroso ed eroico pel bene della nostra Patria e dei nostri fratelli. Viva l’Italia, viva Roma nostra città natale”. “Io sono sopra un monte 1900, nell’Isonzo, a pochi passi dal nemico, e lavoro continuamente a fare trincee, mestiere molto faticoso per me essendo non abituato, di più la notte si va a prendere il rancio giù a basso, e ci piovono spesso a dosso delle grosse caramelle, che spesso qualcuno ne assaggia il sapore”. “Alla nostra destra abbiamo l’81° con ½ battaglione di Alpini, alla sinistra il 59° e il 3° Bersaglieri e tutti in catena dobbiamo avanzare simultaneamente, il nostro reggimento in questi sei giorni ha avuto qualche lieve ferita dovuta più che altro allo scoppio di qualche shrapnels nemico. Speriamo di riuscire vittoriosi in “Non posso credere come mi ha fatto impressione la notizia di Gai, che speriamo non sia vero. Come già ti scrissi Peperone, è morto, e l’ho riconosciuto proprio io, a 10 passi da dove ero di guardia, con una pallottola alla testa, e volevo, prenderlo per sotterarlo, ma non ho potuto, essendo un punto scoperto, e si fossi uscito mi avrebbero subito tirato. Brandi credo sia ferito leggermente ma non sono bene sicuro, e così sono restato solo”. “Qui comincia a farsi sentire il freddo, il nostro più grande nemico. Persone competenti affermano che nell’inverno la neve raggiunge la bellezza di 5 e 6 metri d’altezza; sai che consolazione stare nella completa immobilità tra la neve!”. “Ti prego non preoccuparti del trattamento che lì viene usato dai superiori, fa sempre il tuo dovere, e fa che l’animo tuo stia tranquillo di non far male a nessuno. Iddio punirà chi fa male agli inermi, del resto anche qui adottano quei sistemi che nella tua sono enumerati, pensare che biasimiamo i Tedeschi! Basta non parliamo di questo e tiriamo avanti”. “Oggi mi scrive Angelo che ha ti trovato stanco, abbattuto ed un poco dimagrito, e di ciò ne ho dispiacere. Cerca più che puoi caro Gabriele di farti coraggio e cerca di vivere più lietamente che ti è possibile lo sconforto e lo scoraggiamento a nulla valgono in tali circostanze e anzi nel tuo caso, sappi che vince il più forte”. Le lettere si interrompono verso il venti settembre. Probabilmente in altri sacchetti andati perduti, o conservati da altri fu conservato il resto del carteggio. Di Adolfo è disponibile una foto che lo ritrae prigioniero degli austriaci, assieme ad un altro fratello (Renato), ancora nel 1918. Durante l’occupazione nazista, Adolfo fu deportato ad Auschwitz, da cui non fece ritorno. Due anni fa ho messo a disposizione del Museo Ebraico di Roma le lettere e gli altri documenti di cui ero in possesso. A luglio scorso, il Museo mi ha comunicato l’intenzione di allestire una mostra sulla partecipazione degli ebrei alla Grande Guerra, ed ho dato immediatamente il consenso all’utilizzo dei documenti. La mostra è stata curata da Lia Toaff, il cui approccio ha coinciso con l’idea che avevo in mente, per cui la ringrazio fortemente. La mia personale opinione è che l’esposizione renda il giusto riconoscimento agli appartenenti alle Comunità Ebraiche che hanno tanto dato e sofferto per questo Paese, tra il Risorgimento e la Liberazione e a cento anni esatti dall’inizio del primo conflitto mondiale. L’inaugurazione è stata una giornata molto intensa, anche per gli altri familiari, che ho avuto modo di rivedere a distanza di decenni. Mentre scrivo, mio marito mi ricorda che attualmente la libreria del soggiorno di mia nonna, che ha custodito per decenni i documenti, arreda la sala comune della Casa di Riposo Ebraica di Roma. Un cerchio si chiude. ESTHER DI PORTO GENNAIO 2015 • TEVET 5775 “Oggi vigilia del santo giorno di Kippur, che auguro possa passarlo bene unito ai tuoi cari fratelli al fronte. Sappi che sino da Lunedi scorso, scrissi ad Udine una bellissima lettera al nostro Moreno Signor Angelo Sacerdoti, che si trova a Udine, gli raccommandavo che avesse fatto le pratiche, per farti avere il permesso per festeggiare il Kippur, e aggiunsi se era possibile riunirvi tutte e tre a Udine, lo pregavo caldamente volersene interessare, speriamo se ne sia interessato, e che quando riceverai la presente, possa annunciarmi che ai passato con i tuoi fratelli il santo Kippur. Iddio Benedetto lo volesse, così dopo tante peripezie, potervi abbracciarvi, e stare insieme un giorno”. 29 LIBRI Italiani in guerra senza se, e con qualche ma Prima devoti alla scelta di Mussolini, poi antifascisti dell’ultima ora: gli italiani raccontati nell’ultimo libro di Avagliano e Palmieri “I GENNAIO 2015 • TEVET 5775 nutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia... E se le cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe per molta gente un grand’uomo”. Così, con la sua abituale (e ironica) franchezza, Gaetano Salvemini scriveva, il 10 agosto 1946, ad Ernesto Rossi e Leo Valiani, commentando per il futuro i precedenti 6 anni della storia nazionale. E prevedeva quello che effettivamente sarebbe stato, nel dopoguerra, l’orientamento prevalente nell’opinione pubblica e in gran parte degli storici, compiacenti nei soliti “veli pietosi” sulla nostra storia: la favola autoassolutoria d’una partecipazione alla Seconda guerra mondiale voluta solo dalla classe dirigente (e nemmeno tutta), e imposta a un popolo - diversamente che per la patriottica “grande guerra” del ‘15 - decisamente riluttante, se non apertamente contrario. A far giustizia di questo comodo mito avevano già iniziato a provvedere i lavori degli storici più obiettivi degli ultimi decenni (come anzitutto Renzo De Felice): ora si aggiunge, sul piano anche della sociologia politica e della comunicazione, quest’approfondito saggio “Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940- 1943”, di Mario Avagliano e Marco Palmieri, ambedue giornalisti e storici, il primo direttore del Centro studi sulla Resistenza dell’ANPI di Roma. Nel dopoguerra, rilevano gli Autori nell’Introduzione, si è assistito “a uno schiaccia- 30 mento della memoria sul dissenso diffuso verso il fascismo dopo il 25 luglio e dopo l’8 settembre del 1943, che ha finito per far passare in secondo piano la lunga fase di partecipazione attiva, e perfino entusiastica alle politiche fasciste, comprese quelle militari e guerrafondaie”. Partecipazione che gli Autori hanno ricostruito con uno studio minuzioso, fatto per anni su una pluralità di fonti del periodo 1940-43: come diari personali, corrispondenza dei militari italiani con le proprie famiglie (tratta da archivi privati o dalle periodiche relazioni della censura), rapporti delle autorità militari e di polizia sullo spirito delle truppe e note dei fiduciari del regime. Ne emerge una storia “emotiva”, ma anche politica e ideologica, di quegli anni, che focalizza la “lunga marcia”degli italiani in guerra. Una marcia dal consenso “attivo e operante” con le politiche fasciste, compresi repressione (a volte addirittura più spietata che da parte degli stessi nazisti) delle varie Resistenze nazionali, specie in Grecia e in Jugoslavia, razzismo, antisemitismo e persino partecipazione alla Shoah, all’emergere dei primi dubbi sul regime, e al maturare (nel corso del ‘43) del dissenso. Che per molti sfocerà nella partecipazione alla Resistenza: in patria o mediante l’unione (specie nei Balcani) a formazioni delle varie Resistenze nazionali. L’esame dei tanti documenti raccolti dagli Autori dimostra una volta per tutte che, durante la guerra, gran parte dei combat- tenti italiani fu perfettamente al corrente delle atrocità commesse dai nazisti occupanti l’Europa, a danno specialmente degli ebrei. Accanto ai tanti episodi di compartecipazione italiana alla Shoah (in molte città italiane ci furono episodi di violenza, assalti alle sinagoghe e diffusione di manifesti antisemiti), le fonti attestano, però, anche gli importanti atti di solidarietà coi perseguitati compiuti, anche in via ufficiale, da tanti italiani. Soprattutto il rifiuto, da parte di diplomatici o militari, di consegnare gli ebrei ai nazisti (anche se manifestato più per difendere la propria autonomia decisionale nei territori occupati dall’ Italia che per scopi umanitari): che si verificò soprattutto nel sud della Francia, in Croazia e in Grecia. Mentre, sempre in Croazia, i documenti attestano l’esistenza, nel ‘41-’42, del cosiddetto “canale fiumano”, rete di contatti segreti (ramificata sin nella stessa burocrazia dei ministeri romani) che aiutò parecchi ebrei croati a rifugiarsi in Italia. Episodio culmine di quest’ incredibile storia (sinora, in complesso, poco analizzata dagli storici), è quella vera e propria “Sigonella del ‘42” che, in una stazione ferroviaria del norditalia, ai confini con la Croazia, vide un duro confronto tra italiani e alleati tedeschi, decisi a impossessarsi d’un treno, appena entrato in territorio italiano, che ospitava un gruppo di studenti ebrei croati fatti passare per ustascia (l’episodio, chiusosi con l’insuccesso dei nazisti, è stato ricostruito nello sceneggiato RAI del 2004 “La fuga degli innocenti”). Un saggio pregevole, che aggiunge altri tasselli al mosaico di quegli anni di ferro, di sangue e di vergogna. FABRIZIO FEDERICI M. AVAGLIANO, M. PALMIERI “Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943” pp. 376, €. 25,00. Un libro di memorie sull’attività dell’Adei a Venezia T utto è cominciato da un quaderno nero scritto in bella calligrafia, il punto di arrivo invece è un libro bello e ricco; ricco di memoria, di storia, di fotografie, di affetti, di rievocazioni di momenti lieti e tragici e di testimonianza di un lavoro ininterrotto durato decenni sul fronte della zedakkà, della formazione ebraica, di un lavoro pacato e robusto compiuto dalle donne ebree a sostegno delle donne ebree e non solo, della loro dignità e della loro formazione. “Le signore del thé delle cinque - i primi anni dell’Adei a Venezia (1928 – 1945) tra tzedakà e cultura ebraica” (Stamperia Cetid, Venezia) , risale ad un paio di anni fa ma, come spesso accade con il lavoro dell’ Adei – Associazione donne ebree d’Italia –, un prodotto a lievitazione lenta che cresce con il trascorrere del tempo. Il volume è a cura della veneziana Lia Erminia Tagliacozzo, omonima di chi scrive, con la collaborazione di Gadi Luzzatto Voghera. Così se le celebrazioni per l’85° anniversario della nascita dell’Associazione sono state occasione di riflessione e confronto “sull’identità e le ragioni di un movimento ebraico femminile” come scrive la presidente Ester Silvana Israel nella presentazione, il libro è ancora tutto da godere e il ricavato della vendita viene devoluto per le attività dell’Adei. Tra le carte ritrovate il “quaderno con la copertina nera, scritto fitto con scrittura accurata” conteneva i verbali di tutte le riunioni di apertura e chiusura degli anni sociali dal 1928 al 1941, insieme alle relazioni della Presidente dell’Adei veneziana, l’insostituibile Amelia Fiano, fino al 1946. La storia di un mondo, quello del lato femminile di una borghesia abbiente, colta e liberale e del lavoro svolto tra beneficenza, intesa nell’ebraico ristabilimento della giustizia, e lavori di ago, raccolte di francobolli da vendere, preparazione di pasti per i bambini meno abbienti e allestimenti di scuole, corsi professionali per ragazze, soggiorni estivi, cultura ebraica per bambini e adolescenti. “Non possiamo fare a meno di notare - scrive Tagliacozzo - che queste donne, col loro solerte ed attento lavoro, hanno contribuito a migliorare se stesse attraverso la socializzazione e l’attività culturale e materiale, ad educare all’ebraismo i bambini che erano più soggetti all’assimilare i propri comportamenti e la propria cultura all’ambiente cattolico circostante (…) e ad alleviare le condizioni dei correligionari più poveri e, più tardi, dei perseguitati” . Lia Erminia Tagliacozzo tesse così l’evolversi della Adei veneziana nel corso dei decenni facendo robusto ricorso ai materiali originali senza mai dimenticare il contesto di riferimento: così, negli anni di attuazioni della riforma Gentile che nel 1923 introduce l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, il lavoro delle adeine parte dalla constatazione della sua presidente Amelia Fiano: “Io non so se mi inganno: certo, io penso che se per tutti l’ignoranza è la rovina, per gli Ebrei l’ignoranza è la morte (…) E oggi – è scritto nella relazione del maggio del 1929 – che la scuola d’ Italia è come permeata da un senso di cattolicesimo (…) urge più che mai (…) che nell’educazione dei nostri bambini diamo consistenza a quei valori etici che visse e vivrà l’ebraismo”. L’Adei è una realtà che va dai “gruppi dell’ago” alla richiesta di voto attivo e passivo per le donne nelle istituzioni ebraiche (che per le ebree italiane giungerà nel 1968!), dal lavoro di concerto alle Comunità ebraiche a quello con altre organizzazioni femminili. Completa il volume il bel ricordo di Amelia Fiano firmato da Laura Voghera, e due saggi di grande interesse: di Maria Teresa Sega “Cambiare se stesse, cambiare la società. Il movimento emancipazionista tra mobilitazione politica e impegno pratico” e, di Monica Miniati, “Donne ebree impegnate. Il ruolo formativo e culturale dell’Adei dal dopoguerra ad oggi e l’ impegno pratico”. Spiace non poter riportare nella loro interezza le straordinarie parole con le quali Amelia Fiano il 10 ottobre del 1945 esorta le amiche a riprendere il lavoro: “(...) E oggi, dopo due anni e più, anni che contano e incidono nella vita più di dieci, ci guardiamo negli occhi ancora smarrite e quasi stupite di ritrovarci vive, di rivederci, di risentire i nostri cuori pulsare insieme di dolore, di terrore. Ma pur anche di amore per i presenti, per i lontani, per i caduti, vittime innocenti di un odio scellerato”. E più avanti le esorta: “ma è tempo oramai di non più attardarci sul tremendo passato: il presente e l’avvenire urgono da presso”. LIA TAGLIACOZZO LA TOP TEN DELLA LIBRERIA KIRYAT SEFER 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 MASCHIO E FEMMINA DIO LI CREÒ di AA.VV. ed. Sovera LA RAGAZZA CHE SOGNAVA IL CIOCCOLATO di Roberto Olla ed. La Compagnia del Libro NON VI HO DIMENTICATI di Alberto Israel ed. Anpi COMPENDIO DI GRAMMATICA DELLA LINGUA EBRAICA di Baruch Spinoza ed. Olschki LE CHAJIM di Roberto Fiorentini ed. Graphofeel FORSE ESTHER di Katja Petrowskaja ed. Adelphi APPLAUSI A SCENA VUOTA di David Grossman ed. Mondadori HO DORMITO NELLA CAMERA DI HITLER di Tuvia Tenenbon ed .Bollati Boringhieri STORIA DELL’EBREO CHE VOLEVA ESSERE EROE di Vittorio Dan Segre ed. Bollati Boringhieri LA VIA DI FUGA di Renzo Fubini ed. Mondadori GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Quelle signore del thé delle cinque 31 LIBRI Per non dimenticare la signora del cioccolato e dei marron glacé Il giornalista Rai Roberto Olla autore di una emozionante biografia dedicata ad Ida Marcheria, scomparsa tre anni fa “B ellissima donna in tutte le età della sua vita”: con queste parole Piero Terracina ricorda Ida Marcheria nel libro di Roberto Olla “La ragazza che sognava il cioccolato” e così la ricordano in tanti, la signora del cioccolato e dei marron glacé, nel laboratorio del quartiere africano a Roma. A tre anni dalla sua scomparsa Roberto Olla, giornalista Rai che molto si è occupato della Seconda guerra mondiale e della Shoah, le ha dedicato una biografia rigorosa, risultato di una lunga amicizia e di molte interviste in cui Ida raccontava la sua esperienza di deportata. Nata a Trieste Ida Marcheria viene catturata con tutta la famiglia e condotta ad Auschwitz. Liberata dai sovietici dopo la terribile marcia con cui i nazisti evacuarono il campo, tornò in Italia con la sorella Stella che con lei aveva condiviso i due anni in campo di sterminio. Olla alterna con sensibilità le parole di Ida Marcheria alla narrazione. Nel volume - edito da La compagnia del libro e con una postfazione di Donatella Di Cesare - colpisce l’attenzione alla vita La Spalato ebraica che non c’è più La presenza degli ebrei in Dalmazia nei ricordi e nelle fotografie di Luciano Morpurgo GENNAIO 2015 • TEVET 5775 L 32 uciano Morpurgo (Spalato1886 - Roma 1971) è stato fotografo, editore della Casa editrice Dalmatia e scrittore. Il suo terzo libro, Cuore di Israele, rappresenta un importante documento descrittivo della vita della comunità ebraica di Spalato, tra l’Otto e il Novecento. Il volume appena pubblicato dalla figlia Anna, e grazie all’interessamento di Carlo Cipriani, della Società Dalmata, ci offre la ricostruzione della grande vitalità di questa comunità, i suoi usi, le relazioni famigliari. L’inserimento in appendice di una scelta fotografica ci permette di immaginare le atmosfere suggestive che non ci sono più, scomparse con la naturale evoluzione di una città e con l’epilogo sfortunato di una comunità molto speciale. Sin dalle prime pagine traspare un profondo sentimento sia per la fede ebraica che per la sua famiglia, con la quale ha un legame tenero e rispettoso. Viceversa colpisce la lucidità con la quale descrive consapevolmente i sentimenti di ostilità latente che serpeggiavano in Italia e che lui avvertiva, sia pure celata da espressioni di ammirazione. Queste sgradevoli sensazioni sono vissute sia a scuola che da adulto, quando un commento in più fa prevedere un qualche pensie- intera di questa donna esile e volitiva: l’infanzia, la cattura, lo sbigottimento all’ingresso ad Auschwitz - ‘inebetita’ dice di sé. Ma parte integrante del racconto è anche il ‘dopo’: “Mio figlio mi sgrida. Dice che non sono mai uscita da Auschwitz. Dice che gli ho trasmesso tutte le mie angosce”. Una vita in cui l’impegno di testimone prende corpo in uno sguardo vigile sul presente: “Arrabbiata?” - si interroga Olla nelle prime righe del volume - Si, e pure molto, con l’Italia in cui viveva, con la sciatteria delle strade sporche e dei soldi facili, con le svastiche ignorate e ignoranti sui muri, con le lapidi oltraggiate al cimitero ebraico, con le parole razziste che riuscivano persino a penetrare nell’aria densa, satura di cioccolato, del suo laboratorio”. Il volume ha una dimensione corale, insieme ad Ida vi sono spesso Piero Terracina e Shlomo Venezia: le testimonianze dei tre ex deportati si incontrano nelle valutazioni sul presente, nei rapporti di amicizia, nella capacità di intendersi senza parlare e nelle discussioni appassionate. Un rigoroso ‘lei’ ha accompagnato gli anni di amicizia di Ida Marcheria e Roberto Olla: “Tutto ciò con la coscienza che una parte della storia non sarebbe mai passata da lei a me. Tuttavia Ida voleva che mi confrontassi con la sua storia e che, scrivendo, invitassi tutti voi ad un confronto. Perché così lei intendeva la memoria. Come vita”. L.T. ro diffidente con sfumature negative. I capitoli scorrono gradevolmente spiegando in modo semplice sia la genesi di questo volume, che i riti ebraici, le sensazioni provate in seno alla famiglia in queste circostanze, le festività solenni, le preghiere. Con tratti commoventi descrive l’umanità della balia che si finge santa Lucia per non farlo sentire un bambino diverso dagli altri, e sfatare la diceria che chi non riceve doni è cattivo e brucerà all’inferno, favole di cui sono infarciti e terrorizzati i bambini cristiani. E quanta tenerezza nel ricordo della dolcissima marmellata di Rosh Ha shanà, in apertura del pasto serale per l’augurio di un anno dolce, nonostante tutto intorno gli ebrei fossero travolti dalla bufera. Ai fanciulli vengono date giustificazioni a trarre profitto dal rispetto delle festività religiose, in considerazione del fatto che nei tempi oscuri che spesso gli ebrei debbono affrontare, è opportuno celebrare l’aiuto divino che ci ha sempre assistito. Infine ci colpisce l’atmosfera di coabitazione tra più fedi: scopriamo che il padre teneva chiuso il negozio al tramonto del venerdì per il riposo sabbatico, ma anche la domenica in omaggio alla festa cattolica. Soltanto pochi anni dopo questa libertà di esistere sarebbe stata negata. A corredo di queste riflessioni il volume offre una ricca collezione di immagini tratte dall’Archivio fotografico del Fondo Morpurgo dell’ICCD, acquisito nel 1969, contenente circa 24.000 fotografie catalogate su 85.000 fototipi. Morpurgo, grande viaggiatore, fu uno tra i primi ideatori delle cartoline illustrate, cogliendo con la sua sensibilità gli aspetti di tutte le città che aveva visitato e offrendo, grazie all’uso novecentesco di scambiarsi i saluti postali, la possibilità di immaginare luoghi lontani e collezionarli. GISÈLE LÉVY Dedicata alle figure di Vittorio Castiglioni, Angelo Sacerdoti e David Prato, l’ultima Rassegna Mensile di Israel T re rabbini che guidarono la Comunità ebraica di Roma nella prima metà del Novecento sono il tema di approfondimento dell'ultimo numero della Rassegna Mensile di Israel dell'Ucei, curato da Rav David Gianfranco Di Segni e da Laura Quercioli Mincer. Grazie a questa ricerca, che raccoglie anche i lavori di convegni degli anni scorsi, vengono per la prima volta sistematizzate per iscritto le figure di Vittorio Castiglioni, Angelo Sacerdoti e David Prato. Si tratta di un enorme lavoro scientifico che si avvale di alcuni dei maggiori esperti del settore e grazie anche alla pubblicazione inedita proveniente da carteggi privati aiuta a capire meglio un periodo di storia lungo e travagliato che ha caratterizzato l'ebraismo non solo locale, di quattro fasi salienti del secolo scorso: l'emancipazione e l'integrazione nel tessuto sociale nazionale dopo trent'anni dall'abbattimento del ghetto; il vissuto del pensiero sionistico nella capitale; il rapporto conflittuale con il fascismo; il dramma dell'esclusione con le leggi razziali, con la tragedia della Shoah e i primi anni della ricostruzione dalle macerie. Nel volume si evidenzia come questo sia stato un cinquantennio di identità ebraica romana attiva nelle vicende sociali del periodo che trova la massima visibilità attraverso le esperienze di queste figure rabbiniche, ognuna diversa per estrazione e formazione. C'è da sottolineare che ogni rabbinato dei tre merita un discorso a parte: Castiglioni guidò la Comunità nei primi anni del Novecento, forte di un curriculum di educatore e rappresentò una figura rilevante (curò l'unica completa traduzione in italiano della Mishnà tuttora esistente) ma di transizione a causa anche all'età. Con Sacerdoti e Prato assistiamo a una gestione religiosa e politica dell'ebraismo romano e anche nazionale vera e propria che lasciò il segno nelle istituzioni, con ripercussioni sia all'interno del rabbinato italiano e sia nelle relazioni esterne. Si sfata il mito di una marginalità del rabbinato romano che per decenni è stata favoleggiata sui libri di storia: i continui colloqui di ambedue con il Duce, i rapporti frequenti con il rabbinato della Palestina di allora, il ruolo strategico d'interazione con le comunità mediterranee e le relazioni con il Vaticano per perorare le diverse cause dell'ebraismo europeo fanno si che il rabbinato romano fosse sempre coinvolto, direttamente, in numerose relazioni e controversie internazionali. Questo volume ha il pregio di illustrare ai lettori un impegno rabbinico di significativa importanza che si è sviluppato nel solco di un'ortodossia moderata e tradizionale, nel segno prioritario dell'unità interna, giocando un ruolo decisivo per la crescita sociale e religiosa, dando un impulso significativo al contributo italiano alla causa sionista. J. D. R. Il grande circo delle idee Miki Bencnaan La Giuntina, p. 414 €18 “L’anzianità di una persona riduce il valore della sua morte. Solo pochi si rattristeranno per la perdita delle sue intuizioni. I parenti…torneranno in fretta alle proprie esistenze, sottomessi alle leggi di natura e all’andamento del mondo”. Nel libro non solo la morte di due anziane non lascia indifferenti, ma innesca il disvelamento del mistero celato dietro il loro buffo aspetto al momento del decesso: un costume da elefante ed uno da bambola indosso. Miki Bencnaan, scrittrice israeliana e animatrice del celebre Teatro Habima, per condurci lungo i sentieri dolorosi della memoria, sceglie il tocco lieve e vivace della fantasia, del gioco, della creatività. Un esempio di come la storia di ciascuno non si chiuda mai del tutto grazie alla volontà di reiventarsi, di proporsi in altri ruoli, diversi, fantastici, magici. E così, mentre un coro canta… Poetica lettura a tutti! La Matriarca G.B.Stern Sorzogno, p.320 €16 Questa è la storia della famiglia Rakoniz, ebrei cosmopoliti senza fissa dimora fino a quando approdarono a Londra per sfuggire all’assedio di Parigi nel 1870. Protagonista indiscussa è Anastasia, la Matriarca, intorno alla quale ruotano gli innumerevoli zii, zie, cugini, parenti a Parigi, Sanremo e Vienna. E’ lei che comanda, che decide sul destino dei fratelli, dei figli e delle sventurate nuore. Una famiglia benestante, acculturata, non molto osservante, che rispecchia quell’entusiasmo vitale degli ebrei all’indomani dell’emancipazione. Nel romanzo spiccano inoltre le figure dei cugini Danny e Toni: il primo sempre intento a godersi la vita, la seconda invece devota verso la famiglia, che sarà, volente o nolente, la futura matriarca. Ironico. Il mondo senza sonno Stefan Zweig Skira, p. 98 € 12 “In ogni paese della sconfinata Europa, in ogni città, via, casa, stanza, il respiro quieto è sopito, è più corto, agitato: (…) questo nostro tempo arroventato incendia le notti e confonde i sensi… Più breve è ora il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni”. Struggenti le emozioni che suscita questa raccolta di racconti di Stefan Zweig. Lo scrittore, classe 1881, esule in Brasile e suicida nel ’42, descrive un’umanità sconvolta dalle atrocità della prima guerra mondiale. L’intensità della sua scrittura, amplificata dagli studi sulla psicoanalisi, propone al lettore riflessioni mai scontate. Così come la società, anche l’individuo lotta con sé stesso, con le sue paure, i suoi limiti, l’estraneità a sé stesso. Ho dormito nella camera di Hitler Tuvia Tenenbom Bollati Boringhieri, p.293 € 18,50 Paragonato a Sacha Baron Cohen e a Woody Allen, Tuvia Tenenbom, ci catapulta con il suo provocatorio reportage nella realtà tedesca. L’autore, nato a Tel Aviv da una famiglia di ultraortodossi sopravvissuti alla Shoah, si trasferisce a New York a 24 anni da laico convinto. Qui, fonda il Jewish Theater, si occupa di giornalismo e diventa famoso per le sue posizioni caustiche e irriverenti. Nel 2010 gli viene proposto di passare 6 mesi in Germania per scrivere le sue esperienze. Dal viaggio nasce questo libro, un amaro resoconto farcito da un’inquietante ironia su quanto antisemitismo sia diffuso in Germania. Da stupefatto provocatore fa molti incontri: gente comune, rabbini, manager, studenti, giornalisti, neonazisti, radicali di sinistra e di destra, professori e celebrità come l’ex cancelliere Schmidt…. A cura di JACQUELINE SERMONETA GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Grandi rabbini del Novecento 33 LIBRI EDITORIA PER RAGAZZI Raccontare la Memoria, raccontare la Storia GENNAIO 2015 • TEVET 5775 I 34 l 27 gennaio, ‘giorno della memoria’, è entrato nel calendario civile, impossibile quindi non dedicarvi attenzione, anche perché i ragazzi sono spesso i protagonisti delle celebrazioni. Il primo motivo è che la legge istitutiva fa esplicito riferimento alle scuole ‘di ogni ordine e grado’ che hanno accolto l’indicazione di parlare della Shoah con interesse anche se non sempre con il rigore dovuto. Inoltre, più di altre categorie, i giovani sono fruitori di fiction, film e iniziative di maggior o minore serietà che inondano in questo periodo media e social network. Ma, prima di proporre libri adatti a bambini e ragazzi, è indispensabile una considerazione preliminare: è impossibile affrontare questi temi in una sola giornata di studio, in un solo film, in un solo libro. Ne servono molti. E non solo: il 27 gennaio, il giorno - nel 1945 - dell’arrivo dei soldati sovietici ad Auschwitz, è una data che appartiene alla storia. E, a settanta anni dalla liberazione del più grande campo di sterminio, è più che mai necessario, per i bambini e per noi tutti, toglierlo dal terreno esclusivo della memoria e collocarlo correttamente nella storia. I libri che seguono quindi raccontano di Shoah per proseguire, per associazione di contenuti, parlando di altre storie, di altre lotte, di altre liberazioni. Sono tornati a lavorare insieme la scrittrice Irène Cohen-Janca e Maurizio A.C. Quarello in un libro edito anche questa volta da Orecchio acerbo per “L’ultimo viaggio - Il dottor Korczak e i suoi bambini”. Un album dalle illustrazioni struggenti - di cui ci sarà presto una mostra - ripercorre la vicenda della ‘Casa dell’Orfano’ a Varsavia. Janus Korczak pedagogo e medico polacco, ebbe pratiche innovative nell’educazione rendendo i bambini protagonisti del processo educativo. Le sue ultime settimane di vita le trascorse nel ghetto di Varsavia, il suo ultimo viaggio fu verso il campo di stermino di Treblinka. “La sua impronta, insieme a quella dei suoi bambini - spiegano le righe conclusive del libro – resta, indelebile, nella Carta dei diritti dell’infanzia, approvata dall’Onu a New York , il 20 novembre 1989”. I due autori avevano già lavorato insieme ne “L’albero di Anne”, la storia raccontata dall’ippocastano di fronte al nascondiglio di Anne Frank ad Amesterdam e che Anne descrive nel suo celebre diario. La storia di quegli anni è tragica e complicata, le scelte diverse: a darne conto è l’ultimo racconto della raccolta di grafic novel “Cattive ragazze - storie di donne audaci e creative”, edito da Sinnos. Lì si racconta, tra molte storie di donne coraggiose, di Onorina Brambilla “una ragazza che voleva essere felice e libera e che aveva dentro così tanta rabbia da scegliere di lottare”: fu staffetta partigiana, torturata dalle Ss, e detenuta nel campo di Bolzano. Un libro per ragazzi più grandi, che non parla di Shoah ma di storia italiana, è “Ciao, vi dirò che la storia siamo noi” di Maria Luisa Pozzi, edito da Memori: una vicenda ricostruita da racconti e diari originali di cui conserva il linguaggio vivo e aspro. Lisetta è piccina quando i partigiani le passano per casa, la sua amica più grande fa la staffetta ma il racconto prosegue, e parla della vita del ‘dopo’: l’invasione dell'Ungheria, le manifestazioni contro il governo Tambroni: è storia, è vita. Ed è complicata: a liberare l’Italia dall’occupazione nazista vi erano anche afroamericani. Tanti e neri che, una volta tornati negli Stati Uniti non avevano diritti civili. A ricordare la loro storia c’è un altro libro illustrato di Orecchio Acerbo: “L’autobus di Rosa” di Fabrizio Silei e Maurizio A. C. Quarelli: la storia di una donna che si rifiutò di scendere da un autobus. Lei si chiamava Rosa Parks, era una sarta di 42 anni, nera, che nel 1955 a Montgomery rifiutò di cedere il proprio posto sull’autobus ad un bianco. Per questo venne condotta in carcere e condannata ma il suo gesto divenne uno dei simboli della lotta per i diritti civili degli afromaericani negli Stati Uniti. PASSAPORTO PER LA GUERRA Un libro strano e un po’ inquietante è “Immagina di essere in guerra”. Scritto Janne Teller per Feltrinelli kids e illustrato da Helle Viebke Jensen, sembra un passaporto e inizia così: “Se oggi in Italia ci fosse la guerra... tu dove andresti?”. Immagina, rivolgendosi al giovane lettore - ma forse anche ad uno adulto - cosa accadrebbe ad un giovane adolescente italiano costretto a fuggire e a trovare rifugio in un altro paese. Il risultato del capovolgimento di prospettiva fa riflettere. Molto. Ed anche questo è il significato del Giorno della Memoria. A CURA DI LIA TAGLIACOZZO ROMA EBRAICA La Comunità ebraica lancia la campagna #bringbackourmarò Iniziativa per sensibilizzare l'opinione pubblica sul caso dei nostri Marò “L a Comunità Ebraica di Roma esprime forte preoccupazione per la vicenda che da due anni coinvolge i due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Le ultime decisioni dell’India, che allontanano il ritorno dei due marò in Italia, non possono lasciarci indifferenti. Siamo vicini al Governo Italiano di Matteo Renzi, al ministro dell’Interno Roberta Pinotti e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che si stanno prodigando affinché la crisi porti a una soluzione positiva. Da ebrei italiani sentiamo di dover dare ogni contributo possibile per tenere alta l’attenzione mediatica e sensibilizzare il maggior numero di persone. Noi tutti rivogliamo i nostri marò qui in Italia”. Lo ha spiegato il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici. “La Giunta della Comunità Ebraica di Roma ha deciso di essere in prima linea e lanciare la campagna #bringbackourmarò sui social network e in tutta la Rete per chiedere al mondo di non lasciare soli Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Ci impegneremo a promuovere iniziative fino al giorno in cui li rivedremo tornare a Roma dalle loro famiglie”. Per sostenere l'iniziativa, dalla metà dello scorso dicembre le gigantografie dei due Marò - insieme a quella del pilota israeliano Ron Arad - sono state poste all'ingresso del Museo Ebraico di Roma, in via del Tempio. Buon compleanno alla scuola elementare Polacco Celebrati i 90 anni dalla sua fondazione lante. Cosa è più adatto in effetti di una festa che celebra la rinascita e la speranza? C'è inoltre un ringraziamento particolare che mi sento di fare e lo rivolgo alle moroth ed i morim, gli insegnanti che da 90 anni si spendono per questa scuola e per la formazione culturale della nostra comunità". L'importanza del ruolo di una scuola ebraica per il futuro di qualsiasi comunità, come per il futuro di ogni singolo ragazzo ebreo, è stata espressa chiaramente dall'ambasciatore israeliano Gilon:"la scuola ebraica è fondamentale per mantenere viva la propria identità e non perdersi nell'assimilazione; esattamente come la storia di Chanukkah ci insegna simbolicamente attraverso le vicende dei Maccabei". Tutti insieme hanno partecipato con il rabbino capo all’accensionne della lampada la cui festa, ha ricordato rav Di Segni cade il 25 del mese di Kislev che nel libro di Bereshit corrisponde come 25ma parola al termine ‘luce’. La festa è poi proseguita con i canti, i balli e le musiche eseguite dai Radicanto e da Raiz. DANIELE TOSCANO GENNAIO 2015 • TEVET 5775 U na piramide di sufganioth, sulla quale svettano 90 candeline, rappresenta anche visivamente la celebrazione della festa che si è denuta, nei giorni di Channukka, per i 90 anni di fondazione della scuola ebraica elementare di Roma “Vittorio Polacco”. A fare gli onori di casa, la direttrice della “Vittorio Polacco” Milena Pavoncello: "Festeggiamo durante Chanukkah, perché proprio nella radice di questa parola si ritrova il termine 'educazione' ma anche 'inaugurazione'. Con la scuola elementare i bambini inaugurano ed attivano il ruolo che poi svolgeranno nella società. Nata nel 1924, ha da sempre lo scopo di formare buoni ebrei e buoni cittadini. Polacco, da cui prende il nome, fu un giurista, socio dell'Accademia dei Lincei e senatore di altissimo livello". “Festeggiare questo anniversario importante a Chanukkah – ha sottolineato il presidente Pacifici - è stata una intuizione bril- 35 ROMA EBRAICA Grande successo per il festival del vino kasher Kosher Wine Festival, per far conoscere il meglio dell’enologia israeliana e italiana L GENNAIO 2015 • TEVET 5775 o scorso 15 dicembre, è stato presentato a Roma il Kosher Wine Festival, evento dedicato all'incontro tra l'Italia e i vini kasher principalmente israeliani, ma anche italiani. La manifestazione enogastronomica, promossa dalla Camera di Commercio di Roma e realizzata dalla Azienda Romana Mercati, ha preso luogo presso la Città dell'Altra Economia a Testaccio e si è svolta durante tutto l'arco della giornata, scandita da conferenze e degustazioni. Scopo dell'evento è stato quello di lanciare e far conoscere i prodotti delle più note cantine israeliane, sia in maniera concreta attraverso gli assaggi, che teoricamente, spiegando agli ospiti le caratteristiche e le lavorazioni che rendono il vino adatto o meno al consumo di un pubblico ebraico. Benché il vino kasher sia stato considerato da molti, per lungo tempo un vino di qualità inferiore rispetto al vino non kasher, ad oggi si può confermare con fierezza che, grazie all'impegno e alle nuove tecniche di lavorazione delle aziende israeliane, tali miti sono stati sfatati, tanto da rendere questo prodotto tra i cavalli di battaglia del mercato israeliano all'estero e da meritare alcuni tra i più alti riconoscimenti del settore internazionale. Molte tra le etichette presentate, pian piano si stanno guadagnando un importante spazio nel mercato di nicchia enologico, tra queste Dalton, Barkan, Domaine du Castel, Segal e tante altre. A prendere la parola nei diversi convegni sono intervenuti Sandro Di Castro, il noto chef Laura Ravaioli, Mosè Silvera e Daniele Della Seta, imprenditori del settore. Inoltre, a metà giornata è stata allestita una degustazione dei prodotti con presentazione delle relative aziende. Particolare attenzione è stata data anche alla tradizione culinaria ebraica e all'importanza che viene attribuita al consumo e uso del vino anche nell'ambito religioso ebraico. YAEL DI CONSIGLIO 36 Allestimenti eventi con buffet dolci e salati Dolci per shabbath • Kiddushim per i Templi Torte e pasticceria tradizionale e monoporzioni Torte artistiche • Wedding cakes Via Michelangelo Pinto 10/16 - Tel. 06.6531328 Via del Portico d’Ottavia 1A - Tel. 06.69309396 www.koshercakes.it - cell. 393.8598192 Israele si prepara all’Expo 2015 L Presentato il padiglione che accoglierà la tecnologia e le scoperte dello Stato ebraico o Stato di Israele ha esposto per diverse settimane presso il terminal 3 dell’aeroporto di Fiumicino un’anteprima dello spazio con cui sarà presente all’Expo 2015 di Milano a partire da maggio prossimo. Il padiglione israeliano sarà articolato in diverse aree tematiche ambientali: paesaggistiche, agricole e tecnologiche. Insieme al direttore Sviluppo Marketing Aviation di Aeroporti di Roma, Fausto Palombelli, e all’assessore alle politiche del Commercio di Roma Capitale, Marta Leonori, è intervenuto l’ambasciatore d’Israele in Italia, Naor Gilon che ha inaugurato la mostra, ponendo l’accento “sull’esperienza accumulata da Israele che serve oggi da modello per una produzione alimentare con metodi sostenibili, che rispettano l’ambiente e le risorse naturali. Grazie alle sperimentazioni abbiamo ottime produzioni di uva, orzo, grano, fichi, ulivi. Saremo presenti all’Expo 2015 con il nostro know-how agricolo e organizzeremo degustazioni, eventi e conferenze in linea con il tema dell’Expo” In questo contesto l’area, progettata dall’architetto David Knafo e realizzata da AVS, che sarà confinante con il Padiglione Italia, mostrerà al pubblico mondiale il contributo di Israele alla sicurezza alimentare globale, attraverso le capacità scientifiche del Paese. Nella struttura, costruita completamente da materiali riciclati, secondo i principi della bioarchitettura, prenderanno posto degli spazi multimediali che racconteranno la storia dell’agricoltura dello stato ebraico dalla fondazione ad oggi. Un percorso che si è caratterizzato, data la scarsità di risorse naturali del suolo, dallo sviluppo di tecnologie e strumenti di avanguardia applicata all’agricoltura che è divenuto con gli anni un esempio di successo di come possa essere trasformata una terra arida in un terreno fertile. Oltre alle immagini in 3D che illustreranno il programma di rimboschimento ad opera del Keren Kayemet LeIsrael, organizzazione operativa da prima della nascita dello Stato ebraico, uno spazio sarà dedicato alle attività del gruppo “Netafim” azienda leader israeliana dell’irrigazione a goccia, che rappresenta il paradigma del successo israeliano nel settore idrico. Inoltre nel padiglione troverà posto anche un ristorante con cucina multietnica espressione della eterogeneità della popolazione israeliana e del pubblico che parteciperà in massa all’evento internazionale. J. D. R. Uova, zucchero e farina: bimbi in cucina A cura del Dipartimento Educativo Giovani della Cer, un calendario di appuntamenti per i più piccoli, per imparare a cucinare divertendosi I n questi mesi il Dipartimento Educativo Giovani della Comunità Ebraica di Roma sta portando avanti un’iniziativa tanto utile quanto divertente. Stiamo parlando dei sette incontri che si stanno svolgendo mensilmente a partire da ottobre in cui i bambini della nostra Comunità possono partecipare ad un corso di pasticceria, il tutto organizzato e supervisionato da Lidia Calò. Muffin, salame di cioccolato, sufganiòt, biscotti da thè, macarons, orecchie di Aman, e mini pancakes preparati dai ragazzi con l’aiuto di Giorgia Perugia, un’esperta pasticcera e Cake Designer, la quale oltre a possedere numerosi attestati, dal classico diploma di pasticceria del Gambero Rosso, alla certificazione per la lavorazione dell’isomalto (un tipo particolare di zucchero usato per le decorazioni e che permette di creare delle vere e proprie sculture simili al vetro o al cristallo), si è anche messa in proprio da poco mettendo su la “Gio’s Art Sugar Fantasies”. Le richieste giunte per la partecipazione dei ragazzi alla scuola di pasticceria sono state davvero molte, e la lista di attesa si è allungata perché si è dovuto mantenere il numero di venti bambini per incontro per rendere più coinvolgente l’esperienza. Dott. ELISABETTA PEROSINO Insieme a Giorgia lavora un team di volontari, Samuel Terracina, un vero e proprio talento per la cucina, Martina Terracina, studentessa universitaria di Scienze della Formazione, Vittorio Piperno, studente dell’Istituto Alberghiero Regina Margherita, Sharon Di Segni, anche lei studentessa ma del liceo Renzo Levi, e Debora Gerbi, che sta studiando per diventare assistente sociale. Gli obiettivi sono davvero tanti, ovviamente imparare nuove ricette e sfruttare l’aiuto di una bravissima pasticcera, ma è anche un’attività indicata per sviluppare delle esperienze sensoriali del tutto nuove per i più giovani, una collaborazione per avvicinarsi ancora di più al mondo ebraico attraverso la Kasherut, attraverso anche la preparazione di alcune ricette tipiche delle festività ebraiche. Per l’occasione alcune delle stanze del Bnei Akiva sono state allestite come una vera e propria cucina, arricchite con una serie di stoviglie, forni, pentole ed utensili per rendere l’ambiente davvero ad hoc. La particolarità di questo corso, come ci spiegano sia Lidia che Giorgia, è l’entusiasmo dei bambini, l’attenzione e la partecipazione, un vero e proprio impegno in cui si sono messi in gioco senza remore né dubbi. Si ringraziano Samuel Terracina per il logo e la grafica, ovviamente il Ristorante Yotvatà, che sta fornendo tutti gli “Ingredienti” con cui i bambini stanno lavorando cosi assiduamente e tutti i collaboratori che hanno reso possibile lo svolgimento di questi “gustosi” incontri. REBECCA MIELI Prof. Silvestro Lucchese Chirurgo specialista CHIRURGIA ANO-RETTALE • CHIRURGIA DELLE ERNIE IN DAY HOSPITAL CHIRURGIA DEFINITIVA DEL PROLASSO EMORROIDARIO IN 1 GIORNO SENZA MEDICAZIONI - DOLORE E DISAGIO MINIMI Casa di Cura “Sanatrix” - Via di Trasone, 61 - Tel. 06.86.32.19.81 (24h) www.silvestrolucchese.com GENNAIO 2015 • TEVET 5775 RIPRESA DELLA FUNZIONE INTESTINALE IMMEDIATA ED INDOLORE URGENZE: 336.786113 / 347.2698480 / 06.86321981 37 Dermatologia Oncologia Dermatologica Chirurgia e Laser Chirurgia Dermatologia Plastica Via Cesare Pavese 300 - 00144 Roma Tel. 06.5003315-06.5001283-06.5000636 E-mail: [email protected] ROMA EBRAICA Quel luogo di culto ricco di storie Fra le cose più apprezzate nel percorso offerto dal Museo Ebraico, vi è la visita alla Sinagoga Maggiore U no dei momenti preferiti dai tanti turisti che ogni giorno percorrono incuriositi le diverse sale del museo è quando le professionali guide del Museo Ebraico di Roma li conducono nel Tempio Maggiore, il ‘Tempio Grande’. Una domenica, nel corso di una visita guidata al Museo Ebraico di Roma, Giacomo Moscati, il Vice presidente della Comunità ebraica di Roma, ha raccontato con grande passione al gruppo del Benè Berith Giovani la storia del Tempio. Una storia piena di aneddoti della nostra comunità e ricca di aspetti storico-artistici di grande interesse. Tornata a casa, ho subito raccontato entusiasta la visita (anche se non era la prima volta che prendevo parte ad un tour guidato del museo e del Tempio, la trovo ogni volta diversa e sorprendente) e parlando proprio del Tempio Grande ho scoperto che mia Zia Ester Segrè fece parte della gioiosa folla presente alla riapertura del Tempio Maggiore dopo la fine seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista, nel giugno del 1944 quando il Tempio fu liberato dalle truppe americane. Anche se tutti i membri della comunità ebraica romana conoscono il Tempio Mag- Stranezze americane: Chrismukkah! AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA Una festività ‘mista’ che scontenta tutti L’“Associazione Daniela Di Castro Amici del Museo Ebraico di Roma” è nata per aiutare il Museo Ebraico di Roma nella tutela, conservazione, GENNAIO 2015 • TEVET 5775 resto invece destinato al giardino. Nel luglio del 1889 l’Università israelitica indisse “un programma di concorso per il progetto di un Tempio Israelitico con accessori ed altri locali annessi da erigersi in Roma”. Uno degli obiettivi che si voleva conseguire era la costruzione di un edificio maestoso ma soprattutto “monumentale e ASSOCIAZIONE D.A.N.I.E.L.A DI CASTRO 38 giore, forse, a volte si dimentica l’importanza storica che ha avuto per la nostra comunità sia in tempi felici che in circostanze purtroppo più tristi. Il Tempio fu inaugurato nel luglio del 1904 e divenne presto uno dei simboli dell’emancipazione della comunità ebraica romana dopo demolizione del ghetto e l’Unità di Italia. Nel 1897 l’Università Israelitica e il Comune di Roma raggiunsero un accordo per l’edificazione della Sinagoga con l’acquisto di un’area di 3.373 mq al prezzo di L.167.000 con 1.260 mq di superficie coperta ed il promozione, diffusione e sviluppo della ricchezza del suo patrimonio. PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI: www.associazionedanieladicastro.org [email protected] Tel. 334 8265285 D ite la verità: quanti di voi hanno sentito nominare il “Chrismukkah”? Molti di voi lo ricorderanno perché sentito nominare dal popolarissimo telefilm americano “Grey’s Anatomy” o, prima ancora, da “The O.C.” dove il personaggio di Seth Cohen, figlio di matrimonio misto, cercava un modo per unire le fedi di entrambi i genitori e da qui nasce la “sua creazione”... il Chrismukkah: “otto giorni di regali, più un giorno di super regali!”, mostrando il tipico albero natalizio affiancato dalla Chanukkia. In realtà, però, non è stato lui ad inventare questo termine! Si tratta, infatti, di un neologismo della cultura popolare che indica l’unione, appunto, della festività cristiana severo”. Al concorso parteciparono ventisei gruppi di ingegneri e architetti i cui progetti sono conservati presso l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma. Inizialmente furono considerati artisticamente meritevoli i progetti dell’ingegner Muggia e quello dell’ingegnere Vincenzo Costa e dell’architetto Osvaldo Armanni e fu dunque indetta una seconda prova per i due gruppi di concorrenti. Il progetto fu poi affidato a Costa e Armanni dopo a rinuncia di Muggia. Il Tempio fu requisito durante l’occupazione nazista e riaperto dalle truppe americane nel 1944. E’ un luogo simbolo della comunità ebraica, un luogo legato ad eventi di grande portata storica come la visita di Papa Giovanni Paolo II ma purtroppo anche di momenti tragici della nostra storia come l’attentato del piccolo Stefano Gaj Tachè a Sheminì Azzeret nel 1982. Architettonicamente il Tempio Maggiore presenta una pianta a croce greca orientata verso Gerusalemme, grandi colonne e raffinate decorazioni parietali di Bruschi e Brugnoli e vetrate di Vincenzo Picchiarini. Ai due lati della teva’ dove si trova il matroneo vi sono due diversi e preziosissimi Aron Ha-Kodesh. Giacomo Moscati durante la visita ha raccontato che questi erano utilizzati spesso per i matrimoni delle donne incinte. Gli aneddoti sulla storia della comunità ebraica e del tempio sono veramente numerosi. Per ascoltarli tutti, non si può non consigliare una visita guidata al Museo ebraico di Roma SARAH TAGLIACOZZO con la festività ebraica. Una festa creata per essere celebrata dalle famiglie miste, ma che poi viene celebrata da molti americani come festività alternativa, diventata famosa grazie al grande uso che i Vip internazionali ne fanno. Popolarità che ha portato una coppia ebreo-cristiana di Bozeman (Montana) a lanciare nel 2004 il sito internet chrismukkah.com in cui vengono dispensati curiosità riguardanti la festività. Il sito, però, ricevette numerose critiche da parte della Lega Cattolica newyorkese che assieme al Consiglio dei Rabbini condannò questa festa come un “insulto” alle culture cristiane ed ebraiche. Il fondatore della piattaforma, però, non si diede per vinto e nel 2005, assieme a Kathy Stark, scrisse un libro umoristico di ricette intitolato Chrismukkah! The Merry Mish-Mash Holiday Cookbook. Lapidario il giudizio che ne ha dato il quotidiano Usa Today: «La nuova falsa festività che le aziende sfruttano per guadagnare qualche dollaro in questa stagione». MIRIAM SPIZZICHINO Tanto a mi ‘un me tocca Collezionista di opere buone Nasce una nuova formula di spettacolo teatrale che unirà il talk-show, l'intrattenimento del pubblico e la commedia, tutto all'insegna del giudaico-romanesco Gianfranco Moscati ha festeggiato 90 anni attualizzandolo, dimostrando che sbaglia chi pensa che certi argomenti e alcune tematiche che tratteremo non lo riguardano, da cui il titolo provocatorio “Tanto a mi ‘un me tocca”. Non trattandosi più di una tradizionale 'commedia', l'originalità della formula ha richiesto il contributo e l'aiuto di molte organizzazioni che insieme stanno lavorando alla struttura definitiva di ogni serata. Oltre alla Compagnia Quasi Stabile (con Bruno Pavoncello 'Brumbella', Silvana Moscati, Alberto Di Porto 'Omopiccolo', Angelo Sabatello, Sara Moscati, Stefania Della Rocca, Fabio Gatti, Chiara Benassi, Antonio Rizzuti e il tecnico Claudio D'Onofrio), partecipano alla realizzazione del progetto: il Centro di Cultura, il Dipartimento Educativo Giovani, l'Ufficio della Sicurezza Cer, il giornale Shalom, la Golda International Eventi e la Scuola Statale I.I.S. di via dei Papareschi (che da anni è gemellata con la Comunità ebraica). “Si tratta – spiega Miriam Haiun, direttore del Centro di Cultura – di una vera e propria condivisione del lavoro con una redazione impegnata sulla pianificazione del talk-show e sulla risoluzione delle diverse esigenze organizzative. E’ un’iniziativa importante anche dal punto di visto aggregativo, metteremo infatti insieme un pubblico diverso e vario riuscendo a raggiungere fasce diverse rispetto al pubblico abituale. Crediamo molto nel successo di questa iniziativa che nasce dalla sinergia dei diversi servizi comunitari e anche dalla voglia di partecipazione di tante persone”. Alberto Pavoncello condurrà la serata, ma il compito di maggiore responsabilità spetterà a Dario Coen che passando attraverso il pubblico stuzzicherà commenti e battute, provocherà risposte e solleciterà interventi e domande. Tutti gli incassi saranno devoluti in beneficienza. che ho vissuto da bambino, come i documenti riguardanti la razza e ciò che caratterizzava il periodo fascista, come le date scritte in numeri romani. Durante questi anni il suo lavoro ha contribuito a sostenere diverse organizzazioni, ci vuole raccontare? A seguito della scomparsa di mio fratello, ho voluto dedicarmi a svolgere un'attività che potesse aiutare gli altri. Una delle prime esperienze è stata quella con l'Ospedale pediatrico Alyn di Gerusalemme durante uno dei miei viaggi in Israele. Lì ho avuto l'opportunità di contribuire ad aiutare la struttura che ospita bambini disabili e ho adottato come Guardian Angel una bambina che all'epoca aveva 3 anni, Galit. Sempre in Israele, ho contribuito ad aiutare il museo dei bambini deportati "Yad Layeled", dove ho dedicato una targa all'ospitalità della Svizzera, che mi ha accolto come rifugiato durante gli anni della guerra, dal settembre del '43 all'aprile del '45. In oltre mi sono dedicato ad aiutare dei bambini con disagi economici del quartiere San Giovanni a Teduccio a Napoli, dove ho vissuto per molti anni. Tutto questo è stato possibile grazie al ricavato ottenuto dall'esposizione delle mie raccolte e alla vendita di alcuni miei cataloghi. YAEL DI CONSIGLIO GENNAIO 2015 • TEVET 5775 A ddio tradizionale teatro giudaico-romanesco, nascerà nelle prossime settimane un modo nuovo di divertirsi a teatro che avrà per protagonisti non solo gli attori sul palco, ma soprattutto il pubblico in sala. L'idea nasce dal vulcanico Alberto Pavoncello (il professore) che ha elaborato una formula che prevede, nella stessa serata, tre diversi momenti: si presenta l'argomento attraverso la testimonianza e i suggerimenti degli esperti; poi si passa alla rappresentazione teatrale; quindi si apre il dibattito con il pubblico che verrà sollecitato con domande e racconti. Il tutto per una serata che vuole essere all'insegna del divertimento, che non supererà mai le due ore e che avrà come filo conduttore delle diverse serate il titolo: "Tanto a mi 'un me tocca". Si inizia a metà febbraio con il tema "la comunicazione su internet e l'uso dei social network" e si proseguirà fino a giugno, con altre tematiche. “La sfida – spiega Pavoncello – sarà quella di affrontare ogni volta un argomento di attualità, di interesse generale, prima illustrandolo attraverso alcuni specialisti, poi con la rappresentazione teatrale, quindi lasciando uno spazio dove l'improvvisazione del pubblico sarà fondamentale. Il tutto recuperando il giudaico-romanesco ed I n occasione dei suoi 90 anni, che ha compiuto 30 dicembre, Gianfranco Moscati, noto collezionista di ogni genere di documentazione e oggettistica riguardante l'ebraismo, ci ha concesso un'intervista. Una breve carrellata sulla sua attività che da anni, oltre a dimostrarsi culturalmente e storicamente preziosa, si è rivelata essere un lodevole mezzo per aiutare diversi enti. Da quanto tempo raccoglie documentazioni riguardanti l’ebraismo? Ho cominciato a collezionare francobolli da quando avevo sei anni. Le raccolte riguardanti l'ebraismo sono iniziate dopo. Avendo vissuto il periodo delle leggi razziali e della guerra, gran parte delle mie raccolte è occupata da questo "repertorio storico". Inoltre mia moglie era imparentata a ferventi sionisti e questo ha contribuito ad ampliare la mia collezione. Il collezionare oggetti è nato come passione personale o con l’intento di lasciare delle testimonianze? Tutto è nato con lo shock delle leggi razziali. E' stata una missione quella di raccontare il periodo storico e di farlo conoscere alle generazioni future; come è riportato nel libro di Joel "Raccontatelo ai vostri figli e i figli vostri ai loro figli e i loro figli alla generazione seguente." Qual è il pezzo della sua collezione a cui è più "affezionato"? Ce ne sono tanti. Di certo quelli che riguardano gli anni della guerra 39 DOVE E QUANDO GENNAIO 13 17.30 Centro di Cultura Ebraica Libreria Kiryat Sefer, M A R T E D I via del Tempio, 2 15 GIOVEDI 18 Presentazione del libro Quale è la via del vento? Appunti su Isidoro Moshè Kahn (1934 – 2004) di Paolo Orsucci. Ne discutono con l’autore: Vittorio Della Rocca, Gianfranco Di Segni, Guido Guastalla e Giacomo Kahn ----------------------------------------------- 20.00 IL Pitigliani Fatti un maestro trovati un compagno: lezioni di Talmud Rav Benedetto Carucci Viterbi ----------------------------------------------- 17.00 Le Palme 22 18.00 Centro di Cultura Ebraica Centro di Cultura Ebraica - ore 18.00 Libreria Kiryat Sefer, via del GIOVEDI Tempio, 2 Lezione con Yarona Pinhas Le lettere del cielo: l’alfabeto ebraico e la creazione. Lezione a pagamento. Posti limitati. Prenotazione obbligatoria. Info: 0645596107 ----------------------------------------------- 25 21.00 IL Pitigliani 27 FEBBRAIO 02 Chassidismo e modernità L U N E D I alla scoperta dell’individuo. Nuovo incontro con Gavriel Levi L U N E D I Al di là delle mitzvot: gioia e tristezza ----------------------------------------------- 21.00 IL Pitigliani Con le radici in terra e la chioma in cielo. Il significato di Tu Bishvat con rav Gianfranco Di Segni ----------------------------------------------- SHABAT SHALOM Parashà: Va’erà Venerdì 16 GENNAIO Nerot Shabath: h. 16:47 Sabato 17 GENNAIO Parashà: Beshallach Venerdì 30 GENNAIO Nerot Shabath: h. 17.04 Sabato 31 GENNAIO Mozè Shabath: h. 17:51 --------------------------------------------------Parashà: Bo Mozè Shabath: h. 18.09 --------------------------------------------------Parashà: Ytrò Venerdì 23 GENNAIO Venerdì 6 FEBBRAIO Nerot Shabath: h. 16.56 Sabato 24 GENNAIO Mozè Shabath: h. 18.00 MARTEDI 17.00 Le Palme 17.00 Le Palme Nerot Shabath: h. 17.13 Sabato 7 FEBBRAIO Mozè Shabath: h. 18.18 Seder di Tu Bishvat 12.00 Pitigliani I giovani si mostrano: esposizione DOMRNICA di opere di artisti under 35 Memorie di famiglia IV edizione: DOMENICA i giovani tramandano le storie dei nonni Tombolata a premi ----------------------------------------------- 17.30 Le Palme MERCOLEDI ----------------------------------------------- 10.30 IL Pitigliani Per non dimenticare! Scaldiamo gennaio: M A R T E D I Pensieri e parole DOMENICA Il miracolo della musica: musica ----------------------------------------------dal vivo con Alberto Mieli, con la partecipazione di Silvana Moscati ----------------------------------------------- 19 04 08 10 15 ----------------------------------------------- 17.30 Le Palme In cucina: la pizza! 20.30 IL Pitigliani Apparire o non apparire? Questo è un dilemma ebraico Conducono la serata Hamos Guetta e David Parenzo, con loro tanti altri ospiti – degustazione cibi romani tripolini ----------------------------------------------- 17.30 Le Palme Pomeriggio di giochi DOMENICA NOTES ADEI WIZO Proseguono ogni lunedì alle ore 15.00 in sede gli incontri di burraco e il corso di burraco per principianti con insegnante. IL PITIGLIANI Seminario metodo Feldenkrais con Irene Habib. Domenica 18 gennaio dalle 10.00 alle 14.00 “Peso, respiro e postura dinamica” essere in forma attraverso la consapevolezza corporea Domenica 8 febbraio dalle 10.00 alle 14.00 Liberarsi da rigidità articolari e vertebrali: “La magia del metodo Feldenkrais” Info: [email protected] 3403680717 Metodo Feuerstein Domenica 8 febbraio inizio corso adattamento tattile Domenica 15 febbraio inizio corso PAS basic Info: Sarah [email protected] - www. pitigliani.it GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Gruppo Ghimel tutti i giovedì dalle 16.30 con Davide Spagnoletto ed Elisabetta Anticoli Moscati 40 Programmi educativi Domeniche di ebraismo: attività divertenti su feste, tradizioni e lingua ebraica. Dalle 10 alle 15.30 domenica 11 e 25 gennaio e 15 febbraio. Info: Roberta [email protected] Nuovi corsi per bambini e ragazzi al Pitigliani English Through Art e Krav Kids Lunedì e/o mercoledì a partire dalle 16.00 Info e prenotazioni: Giorgia Di Veroli [email protected] Aspettando Purim: grande festa di Purim per adulti e famiglie. SAVE THE DATE sabato 7 marzo … non perdere tutte le anteprime NASCITE Nathan Meir, Emanuel Di Segni di Angelo e Luly Dadusc Samuel Dan Di Segni di Massimo e Giordana Emma Terracina David Jehosua Di Veroli di Roberto e Batia Miriam Sermoneta Ginevra, Ruth Efrati di Alberto e Veronica Di Segni Ruben, Israel Moscati di Simone e Alexandra Sonnino Asher, Jeuda Veneziano di Fabrizio e Valentina Mieli BAR-BAT MIZVÀ Edmond Sasson di Alan Iosef e Tania Hannuna Alessandra Efrati di Fabio e Ambra Citoni Filippo Astrologo di Fabrizio e Alessia Moretti Emanuela Tabolacci di Fabio e Raffaella Ciampa Zoe Levy di Pierre e Tiziana Corazza Samuel Dureghello di Emanuel e Miriam Limentani AUGURI I migliori auguri a Massimo Di Segni e Giordana Terracina, insegnante della scuola elementare ebraica, per la nascita di Samuel Dan. Mazal tov a Roberto Di Veroli, rabbino della CER e a Batia Miriam Sermoneta per la nascita di David Jehosua. Lo scorso 16 dicembre si è tenuta la milá di Daniel Bonnani, figlio di Andrea e di Luisa Moscato. Un sentito ringraziamento da parte del nonno 'Lupone' e dai genitori al moel Davide Pavoncello che ha assistito con molto scrupolo il bambino. SCUOLA ELEMENTARE VITTORIO POLACCO La Scuola Elementare Vittorio Polacco sentitamente ringrazia Ariel Bahbout della Ditta Kosher Cake, Alberto Ouazana delle Macellerie Kosher Deligth e Giovanni Terracina di Le Bon Ton per avere offerto il proprio contributo per la realizzazione della festa dei 90 anni della Scuola. Internet e i nostri figli Ricerca filmati degli anni ‘30 e ‘40 Mi chiamo Tamar Tal Anati e sono la nuora di Ruben (Bubi) Anati (Gnagnatti), fratello di Gabriele (Dade), David Andrea, e Emmanuel, figli di Ugo Gnagnatti e di Elsa Castelnuovo, fuggiti da Firenze e immigrati in Eretz Israel dopo la guerra. Sono regista di documentari. Forse qualcuno ha visto il mio documentario Hatzalmaniya-Life in Stills. Negli ultimi due anni sto lavorando tra l’altro ad un documentario sulla famiglia Gnagnatti e la sua fuga nei boschi della Toscana durante la Seconda Guerra Mondiale. Attraverso la storia di questa famiglia il film documenterà la storia di un grande numero di ebrei in Italia. Sto cercando dei filmini fatti in casa del periodo prebellico, intorno agli anni ‘30, ‘40. Filmati di vita quotidiana, feste, vacanze ecc… di famiglie ebraiche, al fine di incorporarli nel film e di presentare un panorama delle comunità ebraiche italiane alla vigilia della guerra. Se qualcuno ha nastri 8 o 16 millimetri girati in Italia prima della guerra, mi piacerebbe vederli. Potrei anche convertirli in formato digitale e quindi assicurarne la conservazione. Vi ringrazio per il vostro aiuto. Tamar Tal Anati 052-3879377 - [email protected] Stage retribuiti a New York in marketing/economia Per laureati in economia, marketing, o statistica, con un anno di esperienza complessivo anche presso diversi datori di lavoro, interessati a stage settore consulenza marketing/economia in USA, D. Grosser and Associates offre stage di 18 mesi a New York con visto J-1 a partire da maggio 2015. Indispensabile buona conoscenza lingua inglese. Stipendio iniziale 2200 dollari/ mese. Per informazioni e invio cv si prega contattare: [email protected], tel 001 212 6610435 Su iniziativa della Scuola Media ebraica 'A. Sacerdoti' e dell'Ufficio della Sicurezza della Comunità, in collaborazione con la Polizia Postale, il 19 gennaio alle ore 9.00 si terrà un importante incontro nell'Aula Magna che avrà per tema i pericolo della Rete e sull'uso corretto di Internet. All’incontro parteciperanno gli esperti delle Forze dell’ordine in materia di sicurezza, che insegneranno ai genitori semplici tecniche per mettere i propri figli nella condizione di un uso sicuro e responsabile dei social networks, della rete in genere e per evitare tentativi di adescamento, di cyberbullismo, ecc. L’evento si rivolge quindi a tutti i genitori che sono invitati a partecipare. La redazione di Shalom partecipa commossa al grave lutto che ha colpito Lidia Calò – direttore del Dipartimento Educativo Giovani – per la scomparsa della mamma Franca Naomi Astrologo CI HANNO LASCIATO Gemma Pia Coen in Solomon 26/06/1930 – 10/12/2014 Prospero Di Veroli 22/07/1935 – 19/12/2014 Leda Piperno ved. Di Nepi 26/12/1925 – 17/12/2014 Loredana Rossi 21/05/1948 – 01/12/2014 Raffaele Sadun 22/04/1946 – 13/12/2014 Angelo Sonnino 03/08/1935 – 06/12/2014 Alvaro Zarfati 11/02/1920 – 16/12/2014 IFI 00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 A TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55 GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Gli Asili Israelitici “Rav Elio Toaff” e il Centro di Cultura Ebraica vi invitano alla presentazione del libro “Il mondo delle tefillot” Le preghiere spiegate ai bambini. A cura di Asili Israelitici “Rav Elio Toaff” La semplicità e il valore della preghiera, come slancio universale dell’animo umano, in un testo illustrato, per trasmettere anche ai bambini la riflessione sulla bellezza del Creato e sulla forza della vita. Domenica 18 gennaio ore 17.30 Asili Israelitici “Rav Elio Toaff”, Lungotevere Sanzio, 14 Info: 065897589 – [email protected] Il 19 gennaio incontro nella Scuola ‘Sacerdoti’ della Polizia Postale con i genitori per insegnare un uso responsabile dei Social Network 41 ROMA EBRAICA Berto l’edicolante Il Colonnello B erto non esitava a riconoscerlo: era un meteoropatico in piena regola. Pioggia e maltempo lo mettevano di cattivo umore e oggi aveva davvero la luna di traverso. Scrutò il cielo e non ci lesse niente di buono, mentre folate di vento agitavano già le locandine appese in mostra. Uscì dal suo pertugio e tirò giù le tende e i teli per mettere al riparo giornali e mercanzie dalla burrasca in arrivo. Intendiamoci: lui chiamava burrasca perfino un acquazzone estivo ma tant’è, la pioggia non la sopportava. “Posso darti una mano?” Il Colonnello era di fronte a lui, pieno di buona volontà. “Beh, tira da quella parte, grazie... Ecco, così, ora fissala al gancio. E adesso la tenda... Si, bene, perfetto...” Brigarono ancora un po’ ma quando cominciarono a cadere i primi goccioloni Berto era già dentro alla sua edicola. “Vieni dentro che sta arrivando un nubifragio.” Il Colonnello gli andava a genio. In una vita precedente quello era stato un ufficiale dei carabinieri e, sebbene lui non ne parlasse, Berto se lo immaginava come una specie di spia, qua e là in giro per il mondo. Di certo era fissato con la politica internazionale ed era di buona compagnia. Chiacchierare con lui era un antidoto alla noia. “Hai sentito di quel vecchio diavolo di Shi- mon Peres?” chiese il Colonnello “E’ di nuovo a Roma... O meglio è di nuovo in Vaticano a convegno col Papa.” “Quello l’ha stregato il Papa.” “O forse il Papa ha stregato lui...” “La verità” disse Berto “ è che sembran fatti l’uno per l’altro. L’unica realtà che concepiscono è l’utopia. Li senti parlare e sembra che la pace sia dietro l’angolo. Che il bene debba trionfare sul male e la ragio- ne sul fanatismo…” “Beh, uno che parla di pace anche nel frastuono della guerra l’utopia della speranza ce l’ha nel sangue. Peres dipinge scenari di benessere, sviluppo e fratellanza anche mentre i missili gli piovono addosso…” “Per questo il Papa lo adora… Davanti alle teste mozzate non bastano perdono e cristiana rassegnazione. Serve una visione. Una strategia. Una sovversione ideale…” “Appunto, un’utopia… Peres è portatore di una religione laica che si adatta come un guanto alla misericordia cristiana.” Berto sorrise scettico. “Non esagerare. A quanto dicono è stato lui l’artefice dell’atomica israeliana.” “Già… E quando l’ha concepita non era un’utopia anche quella?” Rimasero qualche istante a rimuginare in silenzio mentre la pioggia batteva forte sulle tende e ne scorreva in rivoli impetuosi. “Adesso” riprese il Colonnello “ha proposto al Papa l’ONU delle religioni… Questa di tutte le sue utopie è la più audace e visionaria.” “O forse la più bislacca e stravagante” replicò Berto con una smorfia. “Te lo vedi un consesso di religiosi al palazzo di vetro? Ebrei, cattolici, ortodossi, luterani, buddisti, confuciani, animisti… E poi arrivano i musulmani e per prima cosa si mettono a discutere di quale sia il vero Islam. E’ una religione di pace, gridano da una parte. Morte agli infedeli gridano dall’altra e magari gettano sul tavolo una testa mozzata, tanto per spiegarsi meglio. Poi arrivano quelli moderati e dicono che i tagliagola sono fratelli che sbagliano ma che bisogna capirli… E’ solo che interpretano male il Corano… Non funzionerebbe te lo dico io… “Eppure…” “Eppure niente, non funzionerebbe!” ripeté Berto deciso. “Ce n’è già una di ONU ed è un bordello… Figuriamoci se ne fai un’altra e ci butti dentro dogmi, misteri e fideismi.” Scosse la testa con un sorriso. “Qualcuno l’ha già detto. Meglio lasciare a Dio ciò che è di Dio.” MARIO PACIFICI Gan Eden Agenzia di Onoranze Funebri ebraica GENNAIO 2015 • TEVET 5775 Siamo Kosher nei modi e nei prezzi Massimo rispetto per i defunti e per gli avelim Assistenza legale e cimiteriale 42 Via Casilina 1854/c - Roma Tel. 327/8181818 (24 ore su 24) [email protected] - www.ganeden.eu LETTERE AL DIRETTORE voce lettori La dei Museo della Shoah di Roma: i motivi di una lunga sceneggiata Caro direttore, come ben sai non è mio costume rilasciare dichiarazioni pubbliche quotidiane né polemizzare sui giornali con chi la pensa diversamente da me. In tutta la recente vicenda della possibile delocalizzazione del Museo della Shoah da Villa Torlonia all’Eur sono intervenuto solo due volte, la prima per fare presente che tutta l’operazione era stata impostata e quasi portata a termine a totale mia insaputa, la seconda per stigmatizzare la strumentalizzazione che alcuni hanno voluto fare delle giustissime aspettative di alcuni sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, illudendoli cinicamente che cambiando sede si potesse realizzare un Museo della Shoah in tre mesi. Ho letto ora la lettera di alcuni figli e nipoti di reduci pubblicata nell’ultimo numero del tuo giornale. Ne condivido appieno la loro grande amarezza anche se i toni, a volte, mi sono parsi eccessivi. Vorrei però ricordare che a parte la farraginosità delle procedure burocratiche vigenti per l'approvazione di un progetto di un'opera pubblica e la sua successiva effettiva realizzazione, il vero motivo di questa lunga sceneggiata, come definita dai firmatari della lettera succitata, non risiede tanto né nella burocrazia né nelle difficoltà finanziarie sopraggiunte negli ultimi anni ma superate già ai tempi del governo Monti, quanto piuttosto, come da almeno due anni ho più volte lamentato, nella mancanza di volontà politica di realizzare il Museo della Shoah da parte di tutti i Soci Fondatori, sia degli enti pubblici sia di quelli ebraici. Credo che Mino Di Porto, che ha partecipato a tutte le riunioni del Collegio dei Fondatori e del Consiglio d'Amministrazione della Fondazione Museo della Shoah me ne darà atto. Concludo, facendo presente, a scanso di equivoci, che da quando ho accettato, più di sei anni fa, di presiedere la Fondazione, io non percepisco alcun compenso - anzi ci rimetto un po’ anche di tasca mia - e mi sono impegnato quotidianamente, quasi a tempo pieno, a titolo totalmente volontario. Shalom e Hag Hanukkah sameah. LEONE PASERMAN, Presidente Fondazione Museo della Shoah Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel segno di uno humor che non vuole offendere nessuno, ma sorridere di tutto. Hanno mezzi finanziari illimitati, è già tutto pronto, e non solo per il Mondiale di calcio / Allora il futuro del calcio è a Dubai? / Forse non soltanto il futuro del calcio… Questo acutissimo, puntuto scambio di battute l’abbiamo ascoltato durante una popolare trasmissione sportiva di Radio RAI del mattino. Le condizioni dei lavoratori nei cantieri dell’Emirato, quasi tutti stranieri ingaggiati nei paesi più poveri dell’Asia e dell’Africa, fanno rimpiangere quelle degli ebrei in schiavitù a Pitom e Ramesses (Esodo 1, 11). Gli incidenti mortali sono quotidiani e non fanno notizia. Se questo è il futuro, arruolatevi in Interstellar e cambiate pianeta. Smokéd SHALOMשלום EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA Giacomo Kahn Direttore responsabile Ariel David Fiamma Nirenstein Jonatan Della Rocca Mario Pacifici Yael Di Consiglio Angelo Pezzana Piero Di Nepi Clelia Piperno Esther Di Porto Pierpaolo P. Punturello Nathanya Di Porto Yaarit Rahamim Alessandra Farkas Jacqueline Sermoneta Jacqueline Segretaria diSermoneta redazione Fabrizio Federici David Spagnoletto Ghidon Fiano Miriam Spizzichino Donato Grosser Lia Tagliacozzo Giorgio Israel Sarah Tagliacozzo Gisèle Lévy Francesca Tardella David Meghnagi Daniele Toscano Rebecca Mieli Ugo Volli [email protected] Cell. 392.9395910 DIREZIONE, REDAZIONE Lungotevere Sanzio, 14 - 00153 Roma Tel. 06.87450205/6 - Fax 06.87450214 E-mail: [email protected] [email protected] - www.shalom.it Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposto a riconoscerne il giusto compenso. 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GENNAIO 2015 • TEVET 5775 PER LA VOSTRA PUBBLICITÀ 43 PASCARELLA CARNI KASHER love kosher meat Pascarella carni kasher since 2001 Roma - Via C. Pascarella, 24-26-28 Tel. +39 06/58.81.698