Incontro con il Sig. Enrico Vanzini ed il Dott. Roberto Brumat In occasione delle celebrazioni per la “Giornata della Memoria”, martedì 28 gli alunni delle classi terze della scuola “P. Caliari” hanno incontrato il Sig. Enrico Vanzini (classe 1922). Assieme a lui, il giornalista del Corriere della Sera, Dott. Roberto Brumat, che ha raccolto le sue testimonianze nel libro “L’ultimo Sonkerkommando italiano”. Per la prima volta ospite a Verona, il Sig. Vanzini si è presentato agli alunni parlando della sua giovinezza. Era un ragazzo spensierato di 18 anni a cui piaceva suonare il pianoforte e la fisarmonica nelle balere del varesino. Tutto, però, cambiò quando fu chiamato a combattere al fronte. «Ero destinato a partire per la campagna di Russia, ma un attacco di appendicite mi salvò da quella esperienza. Così fui inviato ad occupare la Grecia». Ricorda con piacere la permanenza ad Atene, fino all’8 settembre del 1943 quando, dopo l’armistizio di Badoglio, per l’esercito tedesco gli italiani divennero dei traditori. Per undici giorni riuscì a nascondersi da loro, ma il 19 settembre venne catturato e, assieme ai suoi compagni d'armi, deportato in Germania. «Ci hanno caricato in sessanta su un vagone. Più forte della fame era la sofferenza di non poter bere». Giunto a Monaco l’11 ottobre del ’43 fu condotto nella cittadina di Ingolstadt, dove lavorò in una fabbrica di chassis per panzer, lì vi rimase fino al luglio del ‘44. «Durante i bombardamenti dovevamo rifugiarci assieme ai soldati tedeschi in una pineta nelle vicinanze della fabbrica». Un giorno, però, una fortuita intuizione lo portò a cercare riparo, assieme ad altri due commilitoni italiani, in una campagna poco distante. Quella mattina la pineta venne bombardata. Fu così che i tre decisero di fuggire. «Seguimmo il corso del fiume con la speranza di giungere a Monaco». Una sera stremati dagli stenti e dalla fame decisero di chiedere ospitalità in una casa lungo il cammino. Una giovane ragazza italiana fece credere loro di volerli aiutare, ma in realtà li consegnò in cambio di denaro, agli agenti delle SS. Accusati di evasione e di sabotaggio furono trasferiti a Buchenwald. Lì il comandante, Hermann Pister, fu categorico: alle 04:00 sarebbero stati fucilati! «Ci scortarono in un bunker sotterraneo. Chiusi lì dentro al freddo, attendevamo la morte». Una telefonata, però, giunta al campo spiegò la dinamica dei fatti ed annullò l’esecuzione. La mattina seguente i tre furono condotti in campi di concentramento diversi «A me toccò Dachau. Conclusa la guerra cercai di rintracciarli, ma di loro non seppi più nulla». Giunto al lager su una camionetta della Gestapo, appena varcò il cancello «Le prime cose che vidi furono degli scheletri umani in marcia, un carro pieno di cadaveri e la recinzione elettrificata». Fu condotto negli uffici delle SS dove sul polso sinistro gli fu impresso un numero a sei cifre «Non ero più Enrico Vanzini, ma il numero 123343». Gli dettero una divisa lacera di cotone, sulla quale apposero il triangolo rosso con la sigla “PI”(Prigioniero -di guerra- Italiano) e degli scomodi zoccoli di legno. Non ebbe neanche la possibilità di tenere addosso la biancheria intima che indossava e, rasato, lo condussero in quella che per sette mesi sarebbe stata la sua baracca, la numero 8. «È iniziato l’inferno! Ci trattavano senza alcun briciolo di umanità, facendoci lavorare sotto le intemperie dall’alba al tramonto». Lui fu destinato a riparare i binari della stazione, che erano stati bombardati. «Dovevo sollevare pesanti traversine e rotaie di metallo ghiacciato. È così che mi sono rovinato irrimediabilmente le mani... Non ho più potuto suonare». I sette mesi trascorsi nel campo di concentramento lo fecero ammalare. Non ricevette alcun aiuto da parte degli infermieri del campo a cui si era rivolto, ma sempre e solo bastonate. Fu un giovane internato russo che, rischiando la propria vita, curò quelle ferite sottraendo dalle cucine dove lavorava, dei batuffoli di cotone che imbeveva nello spirito «Grazie a lui, dopo otto giorni ho iniziato a stare meglio». Il racconto è proseguito tra mille divagazioni che l’affannarsi dei ricordi inevitabilmente ha comportato. Così, il sig. Vanzini si è soffermato sugli esperimenti compiuti all’interno del lager; sulla solitudine provata perché l’unico italiano giunto al campo, con cui dopo lunghi mesi poteva parlare, venne ucciso dopo pochi giorni; sui convogli carichi di ebrei che giunsero a Dachau e sulla tremenda sorte che toccò a quella povere persone; sulla povera vecchietta che fu uccisa per dargli un tozzo di pane che lui non mangiò mai e che, al suo rientro, la madre diede alla parrocchia del paese come dono votivo; sulla disperazione che spingeva i detenuti a gettarsi sul filo dell’alta tensione per porre fine a quelle sofferenze, mentre lui non perse mai la speranza «Signore, dicevo, fai che possa riabbracciare la mia mamma!». Fino a giungere alla tremenda mattina quando anziché essere mandato a lavorare in stazione, assieme ad un detenuto francese, fu costretto a gettare i corpi degli internati morti, nei forni crematori. «Allora non lo sapevo, ma chi come me veniva assegnato a quelle tremende mansioni, faceva parte di quelli che i nazisti chiamavano Sonderkommando. Da quando il 1° ottobre del 2012 è morto Shlomo Bruno Venezia, sono l’ultimo italiano di quelle unità speciali rimasto in vita». Seppe, nel corso degli anni, che in altri campi di concentramento, chi svolgeva quella terribile mansione veniva trattato meglio degli altri internati, ricevendo più razioni di cibo. Allo stesso tempo apprese che le SS, per paura che all’interno del campo si potesse sapere cosa accadeva in quelle stanze a cui solo a loro era consentito l’accesso, li uccidevano. «A me non toccò alcun vantaggio, ebbi tuttavia l’inspiegabile fortuna di essere risparmiato». Vanzini lavorò per 15 giorni come Sonderkommando. «C’erano quattro forni, io ero addetto a quello di destra, quello di sinistra era destinato agli ebrei, ma era quasi sempre chiuso, mentre, quello centrale doppio era di competenza del mio compagno francese. Lui, prima di abbandonare quei cadaveri alle fiamme, sulla loro fronte faceva il segno della croce». Lo strazio di quei ricordi lo ha portato a parlare delle camere a gas «Qualcuno dice che a Dachau la camera a gas non venne mai usata. Io li ho visti i morti soffocati. Li ho staccati a fatica gli uni dagli altri». Furono giorni durissimi in cui la notte, il pensiero di ciò che aveva commesso durante il giorno, dava spazio solo a terribili incubi. Ormai, però, quell’inferno stava per concludersi. Il 29 aprile del 1945 gli americani entrarono a Dachau, salvando oltre trentamila persone. «Io non avevo più la forza di stare in piedi, mi trascinavo sulle ginocchia ormai spellate. Il sangue malato non circolava bene e se avessero tardato ancora un po’ sarei morto». Gli americani provvidero a rifocillare, curare e vestire gli internati «Avevo per la prima volta: calze, mutande, maglia, pantaloni, giacca, stivaletti e guanti». Dopo qualche settimana di quarantena, senza alcun preavviso gli dissero che sarebbe ritornato a casa. Ricorda con emozione la mattina che rivide i suoi genitori: «Mia madre mi guardò e mi disse: “Ma tu sei veramente mio figlio? Io non ti riconosco”. Quando i tedeschi mi avevano arrestato pesavo ottantasei chili. Lasciai Dachau che ne pesavo trenta». Dopo il suo rientro, i genitori furono costretti a vendere ciò che possedevano per permettergli le lunghe ed interminabili cure a Varese per farlo riabilitare e per dargli la possibilità di eliminare quell’orribile marchio dal suo polso. Vanzini non parlò con nessuno di quella terribile esperienza. «Quando nel ’45 tornai a casa, raccontai solo di essere stato in un campo di concentramento tedesco, governato da aguzzini che mi avevano fatto sentire all’inferno. Niente di più, faceva troppo male». Non ne fece parola neanche quando per il diciottesimo compleanno del figlio si ritrovò a Dachau. La sua storia emerse per caso, dopo sessant’anni, a causa di una confidenza fatta ad una signora che andava a casa sua a fargli delle iniezioni. Da allora i giornali se ne sono interessati e lui, da nove anni, porta i suoi ricordi nelle scuole. «Inizialmente parlarne significava sopportare che quelle immagini si riaffacciassero alla memoria. Adesso riesco a farlo perché voi mi fate capire quanto sia importante la mia testimonianza. Lo vedo nella vostra attenzione e lo percepisco dai vostri occhi». Ricordando agli alunni l’importanza di mantenere viva la memoria storica di quello che è stato, perché non si ripeta mai più, ha tenuto a sottolineare: «Sette mesi a Dachau sono stati per me come trent’anni di vita. Però, se mi mettessero davanti qualcuna di quelle SS, qualcuno dei miei aguzzini, non proverei desiderio di vendetta. So che non agivano con la loro testa, erano imbottiti delle idee di quel pazzo di Hitler». Rivolgendosi poi a tutti i presenti, ha spiegato quanto sia importante rispettare il prossimo e riuscire a coltivare il seme del perdono. Infine, ha concluso il suo intervento rispondendo alle domande degli alunni. Si ringraziano tutti i colleghi che hanno collaborato alla buona riuscita dell’evento, in particolare i professori: C. Albertini, P. Battistella, M. Zanetti. La responsabile del progetto Prof.ssa Stefania Lombardo