Anno VIII
ISSN 1970-741X
PROFESSIONE: CHIRURGO
TRA STRESS E CONTENZIOSO
SIGASCOT: IL PUNTO SUL
TRATTAMENTO DEL MENISCO
Numero 4/2013
EVIDENZE SCIENTIFICHE
SUGLI INTEGRATORI ALIMENTARI
L
EDITORIALE
Poste Italiane Spa - Sped. in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. I comma I, DCB Milano Taxe Perçue
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ORTHOVIEWS
LA RICERCA NEL MONDO
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L ’ i n t e r v i s t a
Universalità del sistema
e partnership con il privato
Secondo i dati di un’indagine del Censis presentata
recentemente, oltre il 38% degli italiani negli ultimi due
anni ha fatto ricorso almeno una volta alla sanità privata
per visite mediche, esami, analisi o interventi. È stato
sostenuto che il motivo principale sarebbe da ricercare
nelle lunghe liste d'attesa, punto sempre dolente del
Servizio sanitario nazionale. Ma io credo che siano
anche altri, e più importanti, i motivi che hanno spinto i
pazienti verso le strutture di cura private: i costi anzitutto.
Quanto costa curarsi in tempo di crisi? Sempre di più. Al
punto che molti italiani rinunciano. Il superticket di
Tremonti, la spending review di Monti, le varie leggi
finanziarie hanno ampliato la "compartecipazione" del
cittadino alla sanità pubblica, con il risultato che il check
up si accantona o rimanda a tempi migliori, a meno che
non sia imprescindibile, e molto spesso si opta per la
struttura convenzionata, con una lista d'attesa accettabile, talvolta meno costosa di ospedali e ambulatori
pubblici.
Insomma, a livello politico sembra che una visione generale di insostenibilità del servizio pubblico stia diventando un pretesto per non cercare risposte efficienti a
invertire la rotta, e che quindi non vengano messe in
campo tutte le risorse necessarie per potere garantire il
suo funzionamento e i livelli essenziali di assistenza. Ma
in questo modo nell’opinione pubblica, che non troverà
più risposte nel Ssn, si determina la convinzione che il
Ssn sia finito.
E sul fronte dei medici? Molti optano per il privato per
scelta, altri per necessità: assenza di concorsi e contrat-
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3
Augusto Palermo
Il chirurgo ortopedico
nell’ospedalità privata
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IL QUESITO DIAGNOSTICO
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FACTS&NEWS
Dal pubblico al privato
ma le criticità non mancano
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LE PRIORITÀ DELLA SICOOP
Medici sempre più in fuga verso il settore privato. Il rischio è che
le condizioni contrattuali gli chiedano di raggiungere solo numeri
e budget, mettendo da parte tutti gli aspetti deontologici della professione
Il tredicesimo congresso della Sicoop (Società italiana chirurghi ortopedici dell’ospedalità privata) è alle porte. Si terrà
a Genova il 21 e 22 giugno e sarà presieduto da Augusto
Palermo.
Forte di un’esperienza di quasi 5.000 impianti fra protesi
d'anca e di ginocchio da primo operatore, il dottor Palermo
esercita attività chirurgica e ambulatoriale, occupandosi di
chirurgia protesica ricostruttiva dell'anca e del ginocchio
presso diverse strutture private. Ha inoltre fondato il Goa,
Gruppo ortopedici associati, al fine di offrire ai pazienti una
consulenza chirurgica superspecialistica per le diverse
patologie ortopediche. È dunque l’interlocutore più adatto
per affrontare per Tabloid di Ortopedia il tema dell’ospedalità privata nei tempi di crisi in cui ci troviamo a vivere e
lavorare.
Dottor Palermo, qual è la
situazione dell’ospedalità
privata e quali conseguenze
hanno avuto i tagli imposti
dalle Regioni in nome della
spending review?
L'ospedalità privata riveste
oggi un ruolo di primissimo
piano nel panorama chirurgico e non solo della sanità italiana.
La qualità crescente e l'ottimizzazione dei servizi erogati
al paziente hanno fatto sì che
le strutture private, accreditate con il sistema sanitario
nazionale, abbiano assunto
un ruolo chiave nella risoluzione del grave problema
delle liste di attesa, che le
strutture pubbliche non sempre sono in grado di risolvere.
I tagli imposti alle Regioni
dalla spending review hanno
purtroppo generato un grande problema e diventa sempre
più difficile ottenere le risorse
necessarie al veloce flusso dell'attività, in special modo chirurgica. L'abbattimento dei
budget regionali ha rallentato
molto questo valore aggiunto
delle strutture private.
In alcune Regioni si parla
anche di un rischio di chiusura di certe strutture.
In molte Regioni si è creato
effettivamente l'allarme chiusura di molti ospedali e case
di cura privati, poiché il
decreto Balduzzi minacciava
proprio la sospensione di attività delle strutture che avessero meno di 80 posti letto.
La ragione del rischio non è
stata solo questa ma anche,
come dicevo prima, il drastico
abbattimento del budget
disponibile; questo ha mandato profondamente in crisi
molte cliniche “isolate”, favo-
rendo invece la sopravvivenza
dei grandi gruppi sanitari, per
ovvie ragioni di maggior solidità economica.
Com’è cambiato negli ultimi
tempi il rapporto con le
aziende del settore?
Il rapporto con le aziende del
settore è entrato in alcune
realtà in profonda crisi, proprio perché le strutture private, nel tentativo di contenere i
costi, hanno avuto la necessità
di richiedere un forte abbattimento dei prezzi (per esempio delle protesi articolari).
In questi anni abbiamo assistito alla crescita imponente
dei corsi di formazione,
masterclass dedicati, orthoforum e incontri scientifici di
alto livello organizzati dalle
aziende fornitrici con i loro
stessi mezzi. Metterle in crisi
significa rischiare di porre a
serio repentaglio anche la formazione. Non dimentichiamo che oggi tutti i congressi
sono supportati economicamente dalle aziende fornitrici.
Il mio timore è che tagliare le
gambe alle aziende possa
abbattere l'unica fonte reale di
sostentamento per la formazione, purtroppo sempre più
affidata all'iniziativa dei singoli pubblici e privati, senza
un adeguato sistema di controllo.
Sarebbe auspicabile che, in
una logica di ridimensionamento dei posti letto e di
riduzione della spesa del
Servizio sanitario nazionale,
si stabilisse una forte integrazione tra pubblico e privato.
Quali sono i problemi più
scottanti che deve affrontare
il chirurgo ortopedico che
opera in un ospedale privato?
Il più grande problema che
l'ortopedico deve affrontare
in un ospedale privato è spesso il rapporto con la proprietà di quell'ospedale.
Oggi i gruppi sanitari forti
possono garantire mezzi,
sicurezza e qualità, ma il chirurgo non deve assolutamente scendere a patti solo e unicamente per assicurare
numeri e budget.
Non dimentichiamo la centralità del paziente! Ecco perché un chirurgo con forte
potere contrattuale deve
assolutamente farsi garantire
mezzi di qualità, sicurezza
per il paziente e sicurezza per
se stesso.
Molto spesso il sistema sanitario privato attuale rischia di
inghiottire in questa spirale
perversa il singolo chirurgo
ed è per questo che sostengo
da alcuni anni che i chirurghi
ortopedici hanno il dovere di
associarsi per difendersi.
L'unione fa la forza, lo sappiamo bene. E avere un mag-
gior potere contrattuale permette di ottenere un rapporto più equilibrato con la proprietà della struttura privata.
Sostengo personalmente con
forza questa idea, tanto da
aver fondato tre anni fa il
Gruppo ortopedici associati,
con la finalità di accorpare
più specializzazioni chirurgiche nell'ambito dell'ortopedia, e proprio per ottenere un
supporto reciproco chirurgico ma anche logistico su più
strutture private. È profondamente diverso discutere il
proprio contratto con le cliniche in qualità di gruppo
piuttosto che da singolo chirurgo.
Lavorare nel privato oggi
impone di essere anche un
manager, occupandosi di
lavorare in modo lungimirante e costruttivo anche
verso il futuro.
La Sicoop, nella fattispecie,
avrà certamente un grande
futuro, proprio per l'imponente crescita dell'attività a
favore dei giovani nel post
specializzazione e per il supporto delle eccellenze che trasmigrano dal pubblico al privato.
Che tipo di contratti si stipulano tra ortopedici e
ospedali privati?
I contratti che si stipulano
con gli ospedali privati possono essere di tipo libero professionale oppure di dipendenza o formule miste.
Personalmente ritengo che, se
si è capaci di essere buon
manager di se stessi, sia da
preferire un rapporto libero
professionale, purché si
rimanga nelle regole dell’etica professionale.
Ringraziando il dottor Palermo per il saluto e l'augurio
formulato nella sua intervista, vengo a descrivere le
priorità della nostra società scientifica.
Essere riconosciuti come terzo componente attivo nel
panorama dell’ortopedia nazionale farà sì che venga
riconosciuta quantitativamente e qualitativamente l'attività degli ortopedici operanti nelle strutture private. È
vero infatti che le nostre strutture sanitarie hanno sede
in molte città in cui esistono centri universitari e quindi
esiste una collaborazione stretta anche in campo didattico tra il pubblico e il privato.
Lo sviluppo e l'espansione dei grandi gruppi privati
nazionali sostituisce spesso la carenza di assunzioni
dei nuovi specialisti ortopedici da parte delle strutture
pubbliche. Infatti è noto come molte associazioni di giovani ortopedici siano insediate in strutture private
accreditate offrendo qualità e quantità nel nostro campo
specialistico.
Come accennato dal dottor Palermo, nelle nostre strutture transitano spesso ortopedici in quiescenza dal servizio nazionale per continuare la propria attività. Con
loro si trasferisce un grande bagaglio di esperienza
nelle nostre strutture.
Abbiamo intrapreso il colloquio con la Siot nazionale,
propensa ad ascoltare la voce dell'ospedalità privata,
con la quale è auspicabile concertare un protocollo di
collaborazione in un unico fronte per un sistema di controllo sulla formazione e sull'eticità.
Mario Sbardella
Presidente Sicoop
La qualità della chirurgia
effettuata varia molto da
una struttura all’altra?
La qualità in molte strutture
è davvero molto alta ma ci
sono anche cliniche private
in cui è difficile mantenere
uno standard qualitativo
idoneo.
Come incidono le controversie legali sull’attività di
un ortopedico?
Questo è oggi purtroppo il
grande limite dell'attività di
un chirurgo in Italia, sia che
lavori nel pubblico che nel
privato. La grave “sottooccupazione” degli avvocati
e il loro numero davvero
SICOOP: NUOVO FORMAT PER IL CONGRESSO DI GENOVA
“Relive surgery: approccio multidisciplinare e innovativo
alla patologia ortopedica”: il titolo del congresso nazionale
della Sicoop (Genova, 21 e 22 giugno) dice già molto. Altro
ancora aggiunge il presidente Augusto Palermo: «c'è bisogno di uno svecchiamento sia della professione, per migliorare la qualità chirurgica, che della modalità di fare congressi. Il congresso nazionale Sicoop di Genova sarà un
congresso giovane e pensato all'insegna dell’interdisciplinarietà».
Il presidente del congresso spiega poi che, in ogni sessione – anca, ginocchio, spalla, rachide, mano e piede – i temi
saranno trattati prima dal radiologo per la diagnosi, con le
novità sulle tecniche di imaging, poi dal reumatologo per
l'approccio internistico alla patologia, poi dall'anestesista
che parlerà delle tecniche anestesiologiche e quindi sarà la
volta delle relazioni ortopediche. Ogni relazione ortopedica
dovrà contenere un video (ecco perché si parla di “relive
surgery”): sarà dunque maggiormente esplicativa. Infine, le
sessioni saranno chiuse dagli infermieri professionali per le
tecniche di strumentazione e dai fisioterapisti e fisiatri per la
guida alla riabilitazione del paziente operato.
La sede avrà la sua importanza, poiché il Palazzo Ducale di
Genova (che ospita la Fondazione per la cultura) è senza
dubbio di grande prestigio.
«Desidero ringraziare il consiglio direttivo della Sicoop per
avermi offerto l'opportunità di organizzare questa edizione
del congresso e in particolare auguro al nostro presidente,
il dottor Mario Sbardella, di poter traghettare questa società al posto che le compete nel panorama scientifico nazionale» ha concluso Augusto Palermo.
importante porta spesso a
risvegliare nel paziente la
volontà di fare richieste di
risarcimento. Mi rendo
conto di fare un’affermazione forte, ma questa è la realtà. Spesso i pazienti sono
incentivati dagli avvocati,
che promettono loro di non
farsi retribuire se non a
causa vinta.
Nonostante le problematiche che ha esposto, molti
chirurghi ortopedici si
orientano verso strutture
private. Per quali ragioni?
Il trattamento che le strutture pubbliche riservano a un
chirurgo di qualità è spesso
deprimente, anche se non è
così ovviamente in tutte le
realtà.
Purtroppo molti primari
ospedalieri e rettori di cattedre sono vessati dalla burocrazia, che oggi si impone
nella gestione di un reparto
ospedaliero. Questa burocrazia porta via un tempo
enorme all’attività chirurgica, assistenziale e scientifica
di un primario, a fronte di
guadagni spesso davvero
troppo bassi. È questo il
motivo per cui oggi chirurghi di grande spessore professionale fuggono verso il
privato.
Renato Torlaschi
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FOCUS ON
Sala operatoria: lo stress
della chirurgia ortopedica
Lo stress psicofisico del chirurgo è paragonabile a quello degli sportivi
durante una competizione. Una strategia potrebbe essere quella
di “allenare” psicologicamente i chirurghi per resistere meglio allo stress
o stress del chirurgo, e in
particolare del chirurgo
ortopedico, non è argomento da prima pagina: tante
visite, tante ore di sala, posizioni di lavoro non certo
“ortopediche”, stress emotivo,
per non parlare del rischio di
contenzioso medico-legale, la
spada di Damocle che penzola (e spesso cade) sugli ortopedici, a ruota dietro ginecologi
e medici di pronto soccorso.
Nella letteratura medica si
trovano diversi articoli sullo
sforzo psicofisico indotto dall’attività chirurgica ma
pochissimi si occupano di
quella ortopedica in particolare. Le conclusioni sono piut-
L
tosto variabili: alcuni definiscono la chirurgia un'attività
che provoca esaurimento, altri
la giudicano invece non particolarmente faticosa. Variabile
anche la qualità degli studi:
alcuni non specificano quali
interventi eseguivano i chirurghi e, nel complesso, il campione esaminato era molto
piccolo (in media otto soggetti). Uno di questi, invece, è
particolarmente interessante
perché, oltre a prendere in
esame soltanto l'ortopedia,
fornisce anche una misura
quantitativa grazie alla rilevazione dei parametri cardiovascolari mediante monitoraggio Holter.
STRUTTURE OSPEDALIERE
SEMPRE PIÙ SOTTODIMENSIONATE
“Otto ore di attesa per un polso fratturato” titolava qualche
mese fa un quotidiano locale della città di Como.
Nell’articolo, per la verità, non si leggevano le solite giaculatorie sulla malasanità: il cronista si limitava correttamente
a raccogliere lo sfogo della malcapitata paziente e a registrare le risposte del personale sanitario. Anche la signora
dimostrava comprensione e riferiva: «lo stesso medico mi
ha detto che era dispiaciuto per la mia lunga attesa ma purtroppo era l’unico specialista di turno sia per il reparto sia
per il pronto soccorso».
Episodi come questo sono sempre più frequenti: da nord a
sud, da piccole città a metropoli, da Como a Napoli. Dello
stesso periodo è lo sfogo del direttore generale dell’ospedale Cardarelli, il più grande non solo di Napoli ma di tutto
il sud Italia, dove negli ultimi tre anni non sono stati rimpiazzati 600 tra medici e infermieri. «Così non si può più andare avanti – ha scritto in una lettera aperta – in ospedale ci
sono gravi carenze di personale non colmabili con gli straordinari, causati dall’irrisolto nodo del blocco del turnover.
La situazione è particolarmente critica in ortopedia, oncologia e chirurgia».
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SEGUE DA PAGINA
Cuore non sempre a ritmo
Lo studio, pubblicato pochi
anni fa (Bergovec M, Orlic D.
Clin Orthop Relat Res 2008
Feb;466(2):411-6), è stato condotto su un campione di 29
specialisti di una clinica universitaria durante interventi
di artroprotesi dell’anca,
un’operazione che rappresenta quasi un terzo dell’attività
specialistica e, inoltre, avviene
con protocolli ben definiti che
non variano molto da un chirurgo all’altro. Questo tipo di
intervento è notoriamente
uno dei più faticosi per l'équipe chirurgica, sia per la sua
durata sia per lo sforzo fisico
richiesto (vedi box a destra).
L’età dei partecipanti andava
da 28 a 65 anni e pertanto
sono stati divisi in tre gruppi
(minori di 35, maggiori di 51,
intermedi); un’ulteriore suddivisione in tre gruppi è stata
fatta in base all’esperienza
lavorativa.
I pazienti operati durante
l’esecuzione del test di Holter
erano stati selezionati per rappresentare un caso di normale
difficoltà e inseriti al primo
posto nella lista del giorno. Il
monitoraggio del chirurgo
registrava pressione arteriosa,
frequenza cardiaca, il prodotto “frequenza” per “pressione
sistolica”, eventuali aritmie e
segni di ischemia; al monitoraggio veniva associata anche
la fase operatoria in cui si trovava l'operatore, in modo da
documentare eventuali picchi
di stress con i momenti più
impegnativi dell’intervento
1
ti scadenti spingono a una scelta che talvolta è obbligata. Così, molte professionalità
d’eccellenza migrano nel privato, con il rischio che si creino (come in Usa) due sanità,
una per ricchi e una per poveri.
Il privato e i fondi integrativi possono andare benissimo, ma è evidente che occorre
individuare una logica di reale integrazione pubblico-privato, nella quale entrambe le
parti operino in sinergia perseguendo la soddisfazione del cittadino-utente e il rispetto dei limiti di spesa.
Servono tagli che siano potature e non amputazioni: riqualificare i servizi per ottenere
risparmi, spostare alcune prestazioni dall’ospedale al territorio, realizzare non un conflitto ma una vera partnership tra pubblico e privato, che concorrono in modo coordinato a colmare i bisogni di salute.
Certamente andare verso il privato significa minore burocratizzazione, maggiore flessibilità nelle scelte e negli investimenti in nuove tecnologie e in risorse umane, e
soprattutto nessuna ingerenza politica dei partiti. D’altro canto, però, è più esposto alla
vulnerabilità economica. Attenzione all’aspetto deontologico, è la base stessa dell’assistenza al malato: in questo senso alcuni istituti privati no profit, che per statuto reinvestono gli eventuali utili in ricerca e quindi non seguono una logica di profitto, hanno
un profilo interessante.
E proprio la coesistenza e l’integrazione di pubblico, privato accreditato e privato no profit è la caratteristica che rende eccellente il modello di sanità lombarda.
(Paolo Pegoraro)
(ad esempio la preparazione
dell’acetabolo, l'inserimento
della protesi ecc.).
In media le misurazioni
hanno mostrato un aumento
dei parametri cardiovascolari
con un picco al momento dell’inserimento della protesi; dal
punto di vista energetico questo tipo di intervento – nelle
sue fasi meno impegnative –
risultava pari a un lavoro di
intensità moderata, come
camminare a passo lento;
nelle sue fasi più faticose invece eguagliava una partita a
ping-pong o quattro piani di
scale. Nel complesso lo stress
psicofisico in sala operatoria
era paragonabile, secondo gli
autori, a quello degli sportivi
durante una competizione.
Il confronto dei dati per
anzianità di servizio ha rivelato una cosa interessante e,
forse, inattesa: l’esperienza
non riduce lo stress cardiova-
CHIRURGIA MAGGIORE
UN LAVORO PER DURI
L’ortopedia ha il primato poco invidiabile di essere la disciplina chirurgica fisicamente più faticosa: è necessaria una
buona dose di forza e l’uso di strumenti che richiedono una
mano non solo ferma ma pure forte, come ci racconta
Sabine, che ha lavorato per 10 anni in un ospedale svizzero: «lo stress fisico in sala operatoria si potrebbe paragonare, quanto ad intensità, a quello di un duro allenamento
in palestra per rinforzare i muscoli, soprattutto durante i
cambi delle protesi: questi possono infatti durare anche
diverse ore. Io me la cavavo abbastanza bene grazie ai
miei 174 cm di statura che mi permettevano di sfruttare le
lunghe leve. Si tratta di un notevole esercizio fisico, specialmente per le protesi d'anca (un po’ meno per quelle del
ginocchio): mantenere la gamba del paziente immobile
nella giusta posizione, soprattutto quando si tratta degli
ormai frequenti sovrappeso, richiede molte energie e
prima di entrare in sala bisogna nutrirsi bene. Quando poi
se ne fanno 3 o 4 al giorno, alla sera si é fisicamente molto
stanchi. I dolori muscolari? Per noi sono routine».
Le fa eco Mario, da vent’anni in servizio presso un piccolo
ma affollato ospedale del nord Italia: «la chirurgia ortopedica implica interventi con durata media di una-due ore, spesso con posture di ortostasi prolungata, con atteggiamento
del rachide scorretto ed esposizione agli arti inferiori di insufficienze venose croniche. La chirurgia ortopedica predispone anche a tendinopatie croniche alle spalle e alle mani (nel
sesso femminile non sono infrequenti rizoartrosi e cisti artrogene del polso). La lunga carriera, visto il procrastinarsi dell'agognata età pensionabile, inevitabilmente ci espone ad
artrosi del rachide (in particolare cervicale) e delle mani. Col
tempo il nostro lavoro si è considerevole affinato nei gesti e
nelle tipologie di intervento, con logorio psico-fisico e ricerca quotidiana degli aggiornamenti sulle più moderne tecniche chirurgiche. Tutto ciò causa uno stress lavorativo
costante, con insorgenza negli anni di patologie cardiocircolatorie e spesso nevrotiche, che solo un sano ambiente familiare riescono a calmierare».
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FACTS&NEWS
scolare; forse, dicono gli autori, i più anziani subiscono
meno stress psichico ma faticano di più fisicamente rispetto ai colleghi più giovani.
Altrettanto inattese le aritmie
registrate in sette medici
(extrasistoli sopraventricolari
e ventricolari), che in un caso
erano così frequenti da consigliare un approfondimento
diagnostico. Fortunatamente
assenti, invece, i segni ischemici.
Medico, cura anche te stesso
Nelle loro conclusioni gli
autori fanno presenti alcune
limitazioni della loro ricerca:
la prima è che non è possibile
distinguere gli effetti cardiovascolari del lavoro fisico
richiesto durante l’intervento
da quelli dello stress psichico.
Inoltre, non sono stati rilevate
le risposte individuali ad altre
attività fisiche e le misurazioni
sono state prese durante un
intervento di media difficoltà
a inizio giornata.
È chiaro che la routine ospedaliera, specialmente in tempi
come quelli attuali, è tutt’altro
che tranquilla e lo stress che
risulta non fa certo bene,
come dimostrano precedenti
ricerche sulla mortalità dei
chirurghi. Una di queste, eseguita in Svezia nel 1988, rivelò
una notevole differenza a sfavore dei chirurghi rispetto ai
medici generici nell’incidenza
di cardiopatia ischemica;
un’altra, svolta in Finlandia
nel medesimo periodo, scoprì
che, ad eccezione dei tumori,
il tasso di mortalità dei medici
in generale (non solo dei chirurghi) era pari o superiore a
quello degli uomini di altre
categorie lavorative ma il tasso
di suicidi era addirittura doppio. Insomma, un po’ di stress
è come il sale: dà un po’ di
sapore alla vita ma, come
sempre, il troppo storpia.
Lo stress logora
Interessante a questo proposito una ricerca pubblicata tre
anni fa negli Usa (Saleh et al.
Clin Orthop Relat Res 2009;
467:558–565) su circa 200
responsabili di dipartimenti
universitari di ortopedia. Il
carico di lavoro era di tipo
cinese, con una media di 68.3
ore settimanali, di cui più
della metà dedicate ai pazienti. Altissimo lo stress riportato
nei questionari.
Le cause riferite? ai primi
posti l’eccesso di lavoro, i
problemi di bilancio, i rapporti con l’apparato amministrativo che causano difficoltà
non solo nel lavoro ma anche
in
ambito
familiare.
L’indagine si è basata sull’analisi delle risposte al Mbi
(Maslach
Burnout
Inventory), il classico questionario dello stress, dalle
quali è risultato che il livello
di esaurimento percepito era
basso nel 22% dei casi, moderato nel 39% e alto nel 38%.
Di pari passo con questo
valore crescevano irritabilità,
tensione nei rapporti coniugali e familiari. I ricercatori
hanno anche indagato sul
ruolo di sostegno che la famiglia può svolgere, concluden-
do che sono proprio i legami
affettivi gli antidoti migliori
contro l’esaurimento emotivo, anche se sarebbe necessario indagare direttamente lo
stress riportato dai familiari.
Com’è logico aspettarsi, il
ruolo principale di “cuscinetto” tocca al coniuge che, dall’analisi dei questionari, esce
promosso a pieni voti dimostrandosi
disponibile
all’ascolto. Purtroppo, come
capita spesso negli stati di
stress e nelle dipendenze, il
soggetto colpito tende a
negare il problema e la necessità di aiuto, una reazione
che, alla lunga, può mettere
in crisi coppia e famiglia.
Individuato il problema, bisogna anche fare qualcosa che,
per Saleh e colleghi, significa
puntare soprattutto sulla
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modificazione della risposta
individuale allo stress, prendendo ad esempio le esperienze di altre professioni ad alto
rischio come controllori di
volo, sportivi professionisti e
astronauti, che vengono allenati psicologicamente per
resistere allo stress. Migliorare
la capacità di risposta può
migliorare anche le doti di leadership. In secondo luogo,
non basta allenare l’ortopedico: bisogna rinforzare anche il
coniuge con programmi
mirati; infine, la parte forse
più difficile in tempi come
quelli che stiamo vivendo:
migliorare l’organizzazione
del lavoro per aumentare efficienza e produttività riducendo il carico individuale.
Cosma Capobianco
Riceviamo e pubblichiamo la lettera della dottoressa Mirka Cocconcelli, chirurgo ortopedico
Ridurre il contenzioso medico-legale per
recuperare il rapporto fiduciario medico-paziente
Nell’ambito della nostra categoria c’è molta rabbia, impotenza e
frustrazione. Noi chirurghi ci sentiamo attaccati da più fronti,
come hanno ribadito i presidenti delle tre maggiori specialità chirurgiche (ortopedia, chirurgia e ginecologia: Sic, Siot e Sigo).
Dal 1994 il contenzioso medico-legale è cresciuto del 225% e a
fronte di 20 milioni di interventi fatti in Italia le denunce superano
quota 40.000. L’Amami stima che oltre l’85% dei chirurghi in attività abbia ricevuto o riceverà almeno una richiesta di risarcimento o un avviso di garanzia per presunta malpractice; solo una
denuncia su 100, in ambito sanitario, si traduce in condanna
effettiva. Inoltre, come scrive il quotidiano La Stampa, su oltre
50.000 procedimenti per lesioni colpose il 98,8% si conclude con
l'archiviazione, come attestato dalla commissione d'inchiesta
parlamentare sugli errori sanitari.
Parlo a nome di tanti chirurghi per illustrare il forte disagio della
nostra categoria e cerco di individuare iniziative idonee a ridare
serenità al lavoro dei camici bianchi, sempre più ingabbiati nel
cappio della paura delle denunce ingiuste.
I pazienti in tempi di crisi ci considerano il loro ammortizzatore
sociale e pretendono di essere guariti e non curati e tutto questo
anche per colpa nostra, che abbiamo fatto credere che la medicina sia onnipotente. Così oggi il paziente vuole essere guarito e
non curato: la malattia deve essere guarita ad ogni costo, non
esistono le complicanze e deve comunque essere trovato un colpevole anche quando il colpevole non esiste. Spesso si denuncia il medico con la speranza di fare un po' di soldi con la sua
assicurazione, tanto la causa non costa niente e, se va male, il
giudice decide comunque per la compensazione fra le parti.
Attorno al mondo della sanità circolano troppi avvoltoi che hanno
fiutato l’affare e propongono ai pazienti la denuncia del medico
anche quando non ci sono basi ragionevoli per una causa. Solo
il motore economico muove questo perverso meccanismo e la
vicenda giudiziaria danneggia irrimediabilmente, sia moralmente
che economicamente, il chirurgo accusato (spesso a torto), tanto
da modificarne l’approccio con il malato e minarne la serenità in
sede di intervento.
Nelle cause giudiziarie civili e penali (ricordo che il penale esiste solo in Italia, Messico e Polonia!) il medico, anche se viene
assolto, perde sempre e comunque; non solo per lo stress psicologico, ma anche per i danni economici che subisce. Invece
le assicurazioni, le infortunistiche, l’apparato legale in genere
ci guadagnano sempre: la causa vinta la paga il perdente e
quella persa il querelante.
Specialista in ortopedia e
traumatologia, la dottoressa
Mirka Cocconcelli ha controdenunciato un paziente per
l’articolo 96 del codice di procedura civile (lite temeraria)
>
La lotta è impari: il chirurgo è sempre più solo e modifica il suo
approccio diagnostico/terapeutico, orientandosi verso una medicina sempre più difensiva, in cui ci perdono tutti gli attori di questo triste teatrino.
Il chirurgo si trova accerchiato da sei fuochi:
1) il paziente che è preda della sindrome risarcitoria e/o da
indennizzo;
2) l’amministrazione ospedaliera, che fa i suoi interessi e difende
se stessa, scaricando sul chirurgo gli oneri giudiziari. Così il chirurgo paga anche per colpe non sue, come le carenze organizzative, strutturalie e di organico;
3) la Corte dei Conti che adesso ci condanna a pagare per
danno erariale (siamo alla beffa);
4) le assicurazioni, che non tutelano gli interessi del medico: se
conviene transare, transano, indipendentemente dal fatto che il
chirurgo sia colpevole o meno. Inoltre, le assicurazioni considerano e conteggiano come sinistri anche le semplici richieste di
risarcimento, le informazioni di garanzia e le denunce senza
alcun seguito;
5) i media, che non vedono l’ora di trovare il capro espiatorio e di
sbattere il mostro in prima pagina ed enfatizzano il vittimismo dei
pazienti e dei loro congiunti;
6) la magistratura, che considera il paziente, sempre e comunque, l’anello debole della catena, quando così non è.
Mi chiedo perché i medici debbano risarcire personalmente i
danni ai cittadini e per i magistrati questa regola non valga e
debba pagare lo Stato, cioè i cittadini stessi. È indispensabile
depenalizzare l’atto medico. L’atto medico persegue il bene dell’individuo e non è esente da rischi. Quindi se il chirurgo deve
operare in serenità, deve avere le stesse tutele e garanzie che ha
il magistrato quando giudica o il politico quando amministra.
Noi chirurghi siamo stanchi nel fisico e nella psiche e viviamo un
profondo disagio, che nasce da un equivoco di fondo: curare non
significa guarire. Oggi si vuole negare l'idea stessa della complicanza e della morte, insita nella malattia stessa;da sempre negli
ospedali si nasce, ci si ammala e si muore per cause del tutto
naturali o per complicanze insite nella patologia stessa.
La medicina non è una scienza esatta, non poggia su basi di solido granito, ma su ben più traballanti palafitte. Non voglio giustificare l'errore che, quando c'è ed è comprovato, va perseguito
nelle sedi opportune, ma è indispensabile recuperare il rapporto
fiduciario medico-paziente prima che sia troppo tardi.
Ricordiamoci che l’80% dei chirurghi viene assolto, ma dopo
l'evento il chirurgo non è più quello di prima!
Tra pochi anni avverrà come in Svezia o negli Usa, dove i pazienti più problematici vengono rifiutati e alcuni tipi di interventi non
verranno più eseguiti. Tutto questo per il rischio di denunce. I giovani medici già adesso si stanno allontanando dalle scuole di
specialità a rischio, leggasi ortopedia e ginecologia.
Anche i media sono colpevoli di questa situazione in quanto per
fare lo scoop enfatizzano il vittimismo dei pazienti e dei loro congiunti.
Il chirurgo non è infallibile e il chirurgo più bravo è quello che,
nonostante l’esperienza, sbaglia meno. Non è più accettabile che
il nostro lavoro sia considerato a rischio zero. La mancata guarigione non sempre è imputabile a un colpevole ed è vano e inutile cercare l'errore laddove questo non esiste.
16 aprile, Milano
CORTE DEI CONTI: PER GLI
ERRORI CLINICI PAGANO I MEDICI
E adesso l'Erario pesca direttamente nelle tasche dei
medici. Costretti a risarcire con i propri soldi i casi di malpractice. È quanto appena successo a cinque professionisti del San Paolo: tre già in pensione, mentre due addirittura morti. Il provvedimento della Corte dei Conti è arrivato, infatti, dieci anni dopo la denuncia.
È una delle prime cause per danno erariale in cui ci si
rivale direttamente sui professionisti, chiamati a rimborsare la franchigia all'ospedale. Nel caso specifico il rimborso è di settemila euro a testa. Ma tutta la categoria dei
medici ora comincia a tremare: ci sono infatti ospedali
con franchigie che arrivano al milione di euro, altri che
hanno addirittura smesso di assicurarsi per gli eccessivi
costi delle polizze imposti dalle compagnie (dopo il
boom di denunce), altri ancora con assicurazioni sempre
più riluttanti a farsi carico degli errori medici e che si
appellano a mille cavilli per non pagare i danni da malasanità. Così il medico rischia sempre più spesso di dovere pagare di tasca propria cifre da capogiro.
Fonte: Corriere della Sera (milano.corriere.it)
Quali potrebbero essere le soluzioni?
1) Depenalizzare l'atto medico. Nel nostro Paese la giurisdizione
in campo medico risale al codice Rocco (1930) e manca di adeguata specificità. Nel codice penale l’errore medico è paragonato a un atto di delinquenza comune, mentre così non è. Va meglio
definito che cosa si intende per atto medico e per colpa grave e
lieve. Inoltre chi stabilisce se la colpa è grave o lieve? Il giudice,
le linee guida, il Ctu? Il Parlamento si deve far carico del problema, sbloccando la legge 50 che fissa nuove regole assicurative.
2) Limitare i risarcimenti attraverso parametri economici equi e
uniformi, come avviene in altri paesi europei. È necessario stabilire un tetto ai risarcimenti: è previsto per i magistrati, per i notai,
perfino per gli albergatori. Per noi medici no! Inoltre, se un aereo
cade, l’indennizzo agli eredi è limitato dalla Convenzione di
Varsavia; se un treno deraglia, l’indennizzo è limitato dal regolamento delle ferrovie. Perché per le cause mediche non c’è limite
all’indennizzo?
3) Definire dei protocolli operativi e linee guida validati dalle nostre
società scientifiche, ma realmente chiari ed efficaci.
4) Dov’è la copertura assicurativa efficace e garantita per il medico, quando la mia assicurazione non mi tutela e fa esclusivamente i propri interessi? Le tutele assicurative devono essere complete e devono prevedere la postuma.
5) Dov’è il fondo di garanzia istituito dal Dl Balduzzi per rifondere
le vittime da malpractice? È indispensabile istituire quanto prima
un fondo simile al fondo vittime della strada che liquidi i danni
arrecati al paziente o un fondo vittime dell'alea terapeutica, come
esiste in Francia, che liquidi i danni arrecati al paziente per le
complicanze imprevedibili e imprevenibili.
6) Controdenunciare i pazienti che ci citano in giudizio arbitrariamente, in base all’articolo 96 del codice di procedura civile (lite
temeraria).
Dr.ssa Mirka Cocconcelli
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CORSI E CONGRESSI
6
L’offerta formativa
della società dell’anca
Al via il programma formativo della Sida, che si riunirà in dicembre per il
suo congresso nazionale. I corsi monotematici sono sulla chirurgia protesica
e non; il congresso affronta il tema della displasia congenita dell’anca
n attesa del congresso
nazionale, la Società italiana dell’anca (Sida www.chirurgiaanca.com) prosegue con le attività formative.
Si segnalano in particolare
due eventi. Si è appena concluso (il 31 maggio) a Sesto
Fiorentino il corso sulla protesizzazione primaria dell'anca
con il sistema Cfp e, anche in
questo caso, sono stati eseguiti interventi chirurgici in live
surgery.
Il responsabile scientifico del
corso era il presidente della
Società italiana dell’anca Piero
Garosi, che ci ha spiegato
come il sistema Cfp sia un
sistema protesico non cementato che presenta caratteristiche uniche: «è composto dalla
componente
acetabolare
(cotile Top) e dalla componente femorale (stelo Cfp). Il
cotile Top è in tilastan, lega in
titanio, rivestimento in idros-
I
siapatite e presenta al suo
interno un inserto in polietilene Uhmw biequatoriale che,
se impiantato con inclinazione di 55 gradi (angolo fisiologico) è perpendicolare alla
direzione del carico; questo
comporta una riduzione dell’usura del polietilene e quindi
un allungamento della vita
della protesi».
Lo stelo Cfp conserva, a differenza degli altri steli femorali,
il collo del femore. «Il design
dello stelo – continua Garosi
– è anatomico con colletto di
appoggio sull'osteotomia del
collo femorale, è rimovibile e
adattabile. L'insieme del
sistema garantisce dal punto
di vista biomeccanico una
fisiologica trasmissione dei
carichi che comporta una
riduzione dell'usura del
polietilene, una maggiore
escursione articolare e la sensazione del paziente di avere
ancora "la sua anca"».
Inoltre con i nuovi strumentari dedicati si può intervenire
con una invasività ridotta al
minimo: «in pazienti selezionati (non obesi) si può eseguire l'impianto della protesi, con
una incisione di 8-9 centimetri. Infine si deve sottolineare
che, essendo lo stelo femorale
corto e avendo conservato il
collo del femore, una eventuale sostituzione dello stelo protesico sarà un intervento agevole e consentirà l'impianto di
una nuova protesi da primo
impianto e non da revisione».
Il prossimo corso monotematico si svolgerà il 21 giugno a
Bologna, dove
Sandro
Giannini farà un approfondimento sulla via anteriore
mininvasiva nella chirurgia
protesica dell’anca. La tecnica
chirurgica con l’ausilio del
sistema Amis extension table
potrà essere seguita step by
step. Verranno esaminati i
vantaggi e gli svantaggi dell’accesso mininvasivo anteriore e in particolare il trattamento delle fratture mediali
del collo del femore.
In dicembre a Bari
il congresso nazionale Sida
Intanto arrivano le prime
anticipazioni del congresso
nazionale. Si terrà a Bari dal 6
al 7 dicembre e il tema principale sarà la displasia congenita
dell’anca. «Tale scelta – ha
dichiarato Biagio Moretti, che
presiederà l’evento – è stata
dettata soprattutto dalla considerazione che nella nostra
attività didattica spesso non
riusciamo a trasmettere notizie aggiornate su questo argomento, a differenza di ciò che
accade per altri temi nella
nostra disciplina; ciò significa
che questa patologia, sebbene
ancora presente nella nostra
>
pratica quotidiana, non è stata
oggetto di aggiornamenti
scientifici e ricerche cliniche in
grado di condurre a un update clinico-strumentale e terapeutico. Il nostro territorio di
appartenenza, endemico per
questa patologia, ha rappresentato sicuramente una ulteriore motivazione alla scelta
dell’argomento congressuale».
L’impronta del congresso sarà
spiccatamente multidisciplinare. «Lo scopo – chiarisce
Moretti – sarà quello di riunire figure professionali di varia
estrazione
(epidemiologi,
genetisti, ortopedici e fisiatri)
per un confronto su temi di
carattere
epidemiologico,
patogenetico, clinico, diagnostico e terapeutico, relativamente alle varie fasi anatomopatologiche dell’evoluzione
della malattia, allo scopo di
fornire ai partecipanti prospettive terapeutiche e linee
Piero Garosi, presidente Sida
guida di trattamento aggiornate. Saranno esposte, attraverso letture magistrali, relazioni sul tema, simposi e corsi
di istruzione, le più attuali
linee di ricerca, confrontandole e integrandole con quelle
tradizionali, in modo da poter
conciliare biologia, scienza di
base, progresso tecnologico e
biotecnologie. Una tavola
rotonda sarà dedicata al trattamento farmacologico preventivo e delle complicanze
della chirurgia dell’anca, come
Tvp, osteopenie distrettuali,
osteointegrazione, infezioni,
ossificazioni eterotopiche ecc.
Un’intera sessione sarà dedicata a infermieri e fisioterapisti. Ampio spazio, infine, sarà
dedicato alle comunicazioni
libere che, spero, rappresentino un ulteriore punto di forza
di questo congresso».
Renato Torlaschi
7
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CORSI E CONGRESSI
Menisco: gold standard
sarà la riparazione
Il menisco è forse la struttura più importante del ginocchio. Le evidenze
sono chiare: in caso di rottura, se non si interviene, l’artrosi è scontata.
Oltre i sessant’anni invece non c’è mai l’indicazione all’intervento
Professor Marcacci, di cosa
si tratterà nella tappa bolognese del corso?
Iniziamo con l’inquadramento generale dello stato
dell’arte, mentre i corsi successivi effettueranno ulteriori approfondimenti nella
ricerca e nella clinica avanzata.
Il corso è rivolto a ortopedici ma anche a fisiatri e medici dello sport. Per questi
ultimi è importante avere
chiara la situazione della
ricerca e dell’evoluzione clinica e conoscere quali sono
le indicazioni, in modo che
possano collaborare con
l’ortopedico nel chiarire al
paziente cosa deve fare e che
cosa si può aspettare.
Perché si è sentita la necessità di un corso base sul
trattamento del menisco?
Il menisco è una struttura di
fondamentale importanza
nel ginocchio. Quasi più
importante dei legamenti,
della cartilagine e di tutto il
resto, perché è una struttura
che assorbe il carico per
quasi il 60% in molte situazioni funzionali. L’integrità
comporta la possibilità di
avere una pressione sinoviale negativa, che è uno degli
elementi più importanti per
l’omeostasi articolare.
La rottura del menisco comporta l’interruzione di questo grande equilibrio, e
quindi nel tempo porta
all’artrosi. Questo avviene
sempre: lo sviluppo automatico della rottura del
menisco è l’artrosi.
Come vengono trattate
oggi queste lesioni?
All’inizio, tanti anni fa, il trattamento consisteva nella
rimozione di tutto il menisco
– perché il menisco rotto fa
anche male – poi si è passati
alla rimozione di una sola
parte del menisco in artro-
scopia, quindi con metodi
endoscopici. Comunque il
problema fondamentale non
è se levarne tanto o poco, ma
il fatto che il menisco rotto
crea problemi funzionali.
Ricordiamo che una cosa è
la cartilagine e una è il
menisco: i due trattamenti
sono diversi. Il menisco
serve per evitare che la cartilagine si danneggi. Quando
un paziente ha una cartilagine degenerata, ossia comincia ad avere un danno articolare, se ha anche un danno
meniscale bisogna ricostruire il menisco e poi trattare la
cartilagine. Oggi anche nel
trattamento della cartilagine
si iniziano a ottenere dei
risultati.
Le recenti acquisizioni a
livello funzionale e biomeccanico hanno cambiato
l’approccio negli ultimi
anni?
L’idea della ricostruzione del
menisco si è affermata nel
tempo per la necessità di
evitare l’evoluzione del quadro clinico con lesione
meniscale verso l’artrosi del
ginocchio. Prima si è tentata
la via della riparazione e poi
si è affermata la tecnica della
sostituzione con protesi biotecnologiche o con dei
menischi da donatore.
Si utilizzano sia i materiali
bioingegnerizzati che i tessuti da donatore. I primi servono per le lesioni meniscali
parziali, mentre il trapianto
da donatore è indicato per le
lesioni totali.
La ricostruzione è ormai un
intervento che si fa normalmente. O almeno da noi, al
Rizzoli di Bologna, si fa con
una notevole serenità. Se si
osservano le linee di tendenza del trattamento del menisco, è probabile che questa
tecnica diventi in futuro
quella prevalente.
Qual è il decorso post-operatorio?
Bisogna aspettare il tempo
necessario perché si consolidi la struttura e l’inglobamento; la struttura sarà sottoposta a carichi parziali per
circa un mese e il paziente
potrà riprendere l’attività
sportiva dopo tre o quattro
mesi. Il discorso vale sia per
atleti che svolgono attività
agonistica che per chi pratica sport a livello amatoriale;
anzi, questi ultimi hanno
più rischi di artrosi degli
atleti professionisti che, in
un’elevata percentuale di
casi, potranno riprendere lo
sport agonistico.
Come influisce l’età del
paziente e la possibilità di
evoluzione artrosica?
È importante ricordare che
stiamo parlando di lesioni
traumatiche: persone con
un’articolazione sana, che
subiscono un trauma e rompono il menisco (o che danneggiano la cartilagine). In
questi casi, l’aspettativa di
guarigione è abbastanza elevata. C’è ormai l’evidenza
che la sostituzione meniscale rallenta l’evoluzione verso
l’artrosi.
Se invece un paziente ha già
un’artrosi, un’articolazione
degenerata, oppure se ha
una certa età – al di sopra
dei sessant’anni – e il menisco appare lesionato nelle
immagini ottenute tramite
la risonanza magnetica o
altre indagini, non si deve
curare, perché andrebbe
incontro a una degenerazione spontanea di tutta l’articolazione.
Superati i sessant’anni, non
c’è indicazione al trattamento del menisco come
non c’è indicazione alla
ricostruzione cartilaginea
perché ormai l’articolazione
è andata incontro all’artrosi. È importante ribadirlo,
perché molte persone di
una certa età si aspettano
dei risultati che non possono essere ottenuti e rimangono delusi quando il medico li informa della realtà dei
fatti.
Maurilio Marcacci
Professor Marcacci, grazie
a cosa sono arrivati i notevoli progressi raggiunti in
questi anni?
Ha contribuito l’evoluzione
delle nostre conoscenze di
biomeccanica e si sono ottenuti notevoli miglioramenti
tecnologici nell’ideazione e
realizzazione di nuovi tessuti, nel trattamento e nella
conservazione del materiale,
nel prelievo da donatore.
Insomma, c’è una base biomeccanica e tanta tecnologia in evoluzione.
Renato Torlaschi
NEURO NORM
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Studio sull’associazione delle 2 molecole sull’edema
indotto da carragenina
B
A
Volume dell’edema (ml)
“Meniscus pathology: remove, repair, replace”: è il titolo di
un corso itinerante che si svolgerà in tre step. A organizzarlo è la Sigascot (Società italiana di chirurgia del ginocchio,
artroscopia, sport, cartilagine e tecnologie ortopediche).
Il primo appuntamento è a Bologna il primo luglio presso
l’Istituto Ortopedico Rizzoli e a presiederlo sarà il professor
Maurilio Marcacci, direttore della III clinica ortopedica e
traumatologica dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna.
Dopo una relazione sull’anatomia dei menischi si passerà
alla biomeccanica e alla classificazione delle lesioni meniscali, con qualche consiglio per una corretta valutazione
alla risonanza magnetica. Verranno poi ampiamente
discusse le indicazioni al trattamento conservativo e quelle
all’intervento chirurgico, con attenzione anche al periodo
post-operatorio.
>
1.2
1.0
0.8
0.6
0.4
Controllo
DHA
6
ALA
DHA + ALA
3
0.2
0
0
0
1 2
3 4
5 6
Tempo dopo la somministrazione di carragenina (h)
Rossoni G., Stankov B. M., 2010.
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9
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FOCUS ON
I reali vantaggi (e i rischi)
degli integratori alimentari
Con un panel di esperti di primo piano abbiamo realizzato
un'inchiesta sull'efficacia della supplementazione alimentare.
Mentre il mercato è in crescita, si moltiplicano gli studi scientifici
ercato che sembra
non conoscere flessione anche in
tempi di contrazione economica, produzione ad alto
tasso di rinnovamento, comparto dell'offerta “salutistica”
che prospera ormai più di
quello dei farmaci da banco: il
settore ampio e variegato dei
prodotti complessivamente
detti nutraceutici – formulati
come integratori alimentari o
come estratti vegetali piuttosto che come alimenti funzionali – è da diversi anni in
espansione e può contare su
un costante incremento della
domanda a dispetto della
generale crisi dei consumi
(vedi box in questa pagina).
Un fenomeno apparentemente paradossale, che invece
probabilmente ha più di una
spiegazione.
Forse il fatto che fino alla definizione di un suo specifico
inquadramento legislativo
(vedi box in questa pagina) ha
incontrato sul suo cammino
pochi ostacoli disciplinari.
Forse il fatto che sembra corrispondere alle aspettative di
M
consumatori che, dando adesione, in modo consapevole o
meno, alla moderna concezione sistemica della salute,
vanno oltre l'esigenza occasionale della cura ed esplicitano anche quella, quotidiana e
di lungo termine, della conservazione di una condizione
di benessere e di buon “funzionamento”. Forse il fatto che
anche la scienza medica
mostra da qualche tempo
uno specifico interesse per le
proprietà biodinamiche, e
potenzialmente profilattiche e
terapeutiche, dei composti
nutrienti e in generale delle
sostanze attive contenute
negli alimenti, con particolare
attenzione per quelli di origine vegetale.
Per gli italiani
l'alimentazione non basta
Per quanto riguarda l'aspetto
più strettamente culturale del
fenomeno, l'uso di integratori, e in particolare la supplementazione con micronutrienti, sembra essere fondamentalmente legato alla dif-
LE DIMENSIONI DEL MERCATO
DELLA SUPPLEMENTAZIONE
Quale che sia la ragione del successo commerciale
della supplementazione dietetica, i numeri sono eloquenti. I dati di recente presentati dalla Società italiana
di nutraceutica e dall'Associazione nazionale dei produttori di prodotti salutistici Federsalus nei rispettivi convegni annuali descrivono per il 2012 un trend di crescita
che, seppure di entità leggermente inferiore a quello
degli anni passati, a metà anno si attestava sull'8% a
valore a sul 5% a volume; l'immissione in commercio di
quasi 1.200 nuovi prodotti su un totale di circa 14.000
referenze; un valore complessivo del mercato di poco
meno di 2 miliardi di euro.
Per quanto riguarda i canali di vendita, del fatturato totale la farmacia detiene una quota superiore all'80% con
oltre 90 milioni di confezioni vendute all'anno (su un totale di 120 milioni), seguita a distanza dalle parafarmacie,
dalla grande distribuzione e dalle erboristerie. A questa
realtà “ufficiale” si deve aggiungere il sommerso dell'ecommerce, che secondo alcune fonti rappresenterebbe
un'altra fetta cospicua del mercato.
Nel repertorio, ormai articolatissimo, delle referenze la
graduatoria delle vendite vede ai primi posti nei canali
del settore farmaceutico e nelle erboristerie i probiotici e
i complessi multivitaminici e di sali minerali seguiti dai
preparati contenenti sostanze antiossidanti e dai composti con funzioni specifiche (per l'apparato digerente,
le infezioni urinarie, il sistema circolatorio, il controllo del
peso, la regolazione del sonno, ecc.), mentre nella grande distribuzione prevalgono gli integratori energetici e i
cosiddetti adattogeni.
M. O.
fusa percezione che l'apporto
di tali sostanze non possa
essere garantito dall'alimentazione abituale – vuoi a causa
di un'intrinseca povertà
nutrizionale dei cibi “moderni”, vuoi a causa della difficoltà a operare nella vita quotidiana scelte dietetiche corrette – o, in alternativa, che per
mantenere un livello accettabile di funzionamento psicofisico nelle condizioni di vita
attuali ne servano di più.
Tali convinzioni di fondo
devono avere un peso rilevante se è vero, come è risultato
da un'indagine condotta nel
2008 da AC Nielsen per
Federsalus (“Gli italiani e gli
integratori”), che il ricorso a
supplementi dietetici – che sia
saltuario, stagionale o continuo, “autoprescritto” oppure
consigliato dal medico –
riguarda quasi un terzo
(32%) della popolazione ed è
motivato dal desiderio di
mantenere uno stato di
benessere generale (46,1%)
ancor più che dall'esigenza di
risolvere specifici problemi di
salute (42,8%).
Come ben si sa, nel creare e
nutrire bisogni la pubblicità
commerciale fa la sua parte;
nel caso particolare degli integratori alimentari il messaggio promozionale ha sicuramente fatto leva su un'attesa
preesistente del pubblico,
relativa alla dimensione della
qualità di vita oltre che a quella della salute, creando tuttavia anche i presupposti per un
abuso o un uso improprio di
prodotti che, impiegati in
modo oculato, possono invece essere di sostanziale utilità
sul piano sanitario.
Si moltiplicano
le evidenze scientifiche
Escludendo la possibilità che,
almeno nei paesi occidentali,
l'apporto alimentare di
nutrienti sia diffusamente
deficitario nella popolazione
generale, è pur noto che stati
carenziali specifici, legati a
precise determinanti patologiche o para-fisiologiche o a
stili di vita, sussistono, in particolare in alcuni gruppi o in
alcune fasce di età.
D'altro canto, si vanno ormai
accumulando anche le prove
scientifiche, di tipo epidemiologico e clinico, degli
effetti protettivi per la salute
di taluni composti bioattivi
di origine alimentare, il cui
apporto non è sempre assicurato dagli stili dietetici più
comunemente adottati.
Vitamina D, calcio, vitamina
C, acidi grassi omega-3,
antiossidanti di origine vegetale sono le sostanze sulle
quali si concentra oggi l'attenzione per il loro potenziale ruolo preventivo nei confronti di alcune patologie
osteoarticolari e muscolari,
malattie neurodegenerative,
patologie cardiovascolari,
sindromi dismetaboliche e
tumori.
Il panorama è estremamente
articolato: a fronte di indicazioni evidence-based ormai
consolidate vi sono aree di
incertezza dovute da un lato
all'ancora insufficiente mole
di dati e dall'altro alla difficoltà di isolare gli effetti delle
diverse sostanze all'interno di
una relazione, quella tra alimentazione e salute, che è
ben più complessa della semplice somma delle azioni biochimiche dei singoli nutrienti o composti attivi introdotti
con la dieta e che, oltretutto,
include l'azione modulatrice
di molte altre variabili, fisiologiche e ambientali.
Monica Oldani
I PRINCIPALI RIFERIMENTI
NORMATIVI
La normativa comunitaria
Per quanto riguarda gli elenchi di vitamine e minerali
e le loro forme che possono essere aggiunti agli alimenti e presenti negli integratori alimentari:
Regolamento CE n.1170/2009 che modifica la
direttiva 2002/46/CE per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative agli integratori alimentari e il regolamento CE n.1925/2006 sull'aggiunta di vitamine e minerali e di talune altre sostanze agli
alimenti.
Per quanto riguarda l'indicazione in etichetta e nella
pubblicità commerciale delle specifiche proprietà nutritive e degli effetti sulla salute (i cosiddetti “claims”):
Regolamento CE n.1924/2006 relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari.
La normativa nazionale
D.L. n.169 del 21.5.2004 relativo a “Attuazione
della direttiva 2002/46/CE relativa agli integratori alimentari” e successive integrazioni.
Circolare del 5.11.2009 del ministero del Lavoro,
della Salute e delle Politiche sociali relativa a “Linee
di demarcazione tra integratori alimentari, prodotti
destinati ad una alimentazione particolare e alimenti
addizionati di vitamine e minerali. Criteri di composizione e di etichettatura di alcune categorie di prodotti destinati a una alimentazione particolare”.
D.M. del 16.10.2008 del ministero del Lavoro, della
Salute e delle Politiche sociali relativo a “Elenco degli
stabilimenti autorizzati alla produzione e al confezionamento di alimenti destinati ad una alimentazione particolare e di alimenti arricchiti e integratori alimentari”.
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FOCUS ON
10
IL PARERE DEGLI ESPERTI/1 GLI INTEGRATORI TRA CREDENZE ED EVIDENZE
Impegnato nella sua attività di ricerca sul fronte della sicurezza alimentare e del rapporto tra nutrizione e salute,
Fabio Galvano, biologo specialista in scienze dalla nutrizione umana, professore associato di scienze e tecniche
dietetiche applicate presso l'Università di Catania, risponde sul tema dei rischi e benefici degli integratori in relazione anche al livello di informazione della popolazione e
della classe medica sulla loro effettiva utilità e all'educazione al loro uso.
Professor Galvano, è possibile che all'origine del successo degli integratori alimentari vi sia anche una
responsabilità, nel bene o
nel male, della classe medica?
Come è noto gli integratori
sono prodotti da banco
acquistabili senza prescrizione medica.
Ne consegue che, nell’analisi
del fenomeno integratori,
certamente i medici giocano
un ruolo importante sebbene non sia facile distinguerne il contributo rispetto a
quello dato dal marketing
pubblicitario, dal “fai da te”
del consumatore e anche dai
farmacisti.
Tuttavia è pur vero che il
medico, più che ogni altra
figura, dovrebbe rigorosamente attenersi alle evidenze
scientifiche.
A suo parere la regolamentazione del settore secondo
la normativa comunitaria e
le disposizioni nazionali
vigenti è sufficientemente
tutelante per gli aspetti
sanitari?
Direi di sì.
A livello nazionale, nelle
linee guida ministeriali sugli
integratori alimentari sono
elencate disposizioni sugli
apporti di vitamine, minerali, aminoacidi, acidi grassi,
fibra alimentare, probiotici.
A livello comunitario è tuttora in corso la definizione
dei livelli di apporto ammessi per le vitamine e i minerali, mentre non vi sono ancora riferimenti armonizzati
per quanto concerne l’impiego degli altri nutrienti e
delle sostanze di altro tipo.
Bisogna tuttavia ricordare
che la regolamentazione è
finalizzata a verificare la
sicurezza dell'uso dell'integratore ma non attesta la sua
efficacia. In altre parole, è
sufficiente che un composto
non faccia male, ma ciò non
significa in modo automatico che faccia bene.
Qual è il livello di informazione della popolazione
generale riguardo ai prodotti destinati alla supplementazione dietetica?
È purtroppo opinione diffusa che i cibi “moderni” siano
carenti di principi nutritivi e
che, quindi, sia necessario
integrarli. In realtà, i dati
epidemiologici sull’obesità
ci descrivono una popolazione marcatamente ipernutrita, il che rende molto
improbabile il rischio di
carenze.
Discorso a parte va fatto per
quanto riguarda gli integratori che promettono effetti
miracolistici per il dimagri-
ORTOPEDICI E INTEGRATORI:
DA PRESCRITTORI A UTILIZZATORI
Una recente indagine statunitense ha esplorato l'atteggiamento di alcune categorie di specialisti – nella fattispecie cardiologi, dermatologi e ortopedici – nei confronti degli integratori alimentari, in qualità sia di utilizzatori che di prescrittori, e
le relative motivazioni. Il “Life... supplemented” Healthcare
Professionals Impact Study è stato in realtà condotto dal
Council for Responsible Nutrition di Washington, un'associazione di categoria rappresentante dell'industria del settore.
Dal campione sono stati esclusi i professionisti con conflitti di
interesse in merito.
Sul totale di 900 medici intervistati (300 per ogni categoria) il
75% dei dermatologi, il 73% degli ortopedici e il 57% dei cardiologi ha dichiarato di far uso occasionalmente, ciclicamente o regolarmente di integratori. Anche in termini di consumo
abituale sono risultati al primo posto i dermatologi (59%),
seguiti dagli ortopedici (50%) e dai cardiologi (37%).
Tra le ragioni addotte per giustificare il ricorso alla supplementazione hanno prevalso in tutti e tre i gruppi i riferimenti a
“salute/benessere generale”, accompagnati da alcune indi-
mento. Ovviamente non esistono prodotti in grado di
produrre tali effetti, tuttavia
l’attrattiva di questo tipo di
promozione sul consumatore è grande perché ne accarezza ad arte la parte “pigra”,
quella cioè che vorrebbe
dimagrire senza fare sacrifici
a tavola e in palestra.
Non va infatti sottovalutato
l’aspetto psicologico legato
all’autoprescrizione di integratori: i sensi di colpa e la
ricerca di facili scorciatoie
per compensarli, basata sulla
convinzione di poter ottenere da un pillola qualcosa che
possa annullare o ridurre i
guasti di uno stile di vita
errato (fumo, sedentarietà,
eccessi alimentari). Ne sono
un esempio quei fumatori
che essendo a conoscenza del
fatto che il fumo aumenta il
fabbisogno di vitamina C, la
assumono sotto forma di
integratore invece di smettere di fumare.
A tale proposito, in questo
settore esistono strumenti
di controllo dell'informazione a tutela dei consumatori?
I messaggi pubblicitari
ingannevoli sono regolarmente sanzionati dal garante per la pubblicità. Tuttavia
si ha l’impressione che per la
loro entità tali sanzioni non
siano particolarmente efficaci e che vengano considerate dalle aziende quasi alla
stregua di un costo di produzione ripagato dal ritorno
economico in termini di
acquisti.
Quali sono i rischi prevedibili o accertati di un'eventuale utilizzo inappropriato di tali prodotti?
I rischi da sovradosaggio
acuto sono relativamente
bassi.
Per quanto riguarda i rischi
di sovradosaggi cronici nel
2007 ha fatto molto scalpore
uno studio americano pubblicato su Jama che ha evidenziato, non senza una
certa sorpresa, un’associazione tra l’integrazione di
vitamina A, vitamina E e
betacarotene a dosi alte e un
leggero aumento della mortalità.
È vero che negli Stati Uniti
c'è una propensione al consumo di integratori che non
è paragonabile a quella italiana, tuttavia lo studio
segnala che l’integrazione
vitaminica – particolarmente quella di vitamine liposolubili – non è sempre e
comunque una pratica
innocua. E le esagerazioni in
termini di dosaggio non
sono impossibili: il consumatore medio può facilmente credere che se una
compressa fa bene, due
fanno meglio e tre fanno
benissimo.
Rispetto a quali condizioni
cliniche la supplementazione di micronutrienti e/o
altri composti bioattivi può
rivestire un ruolo importante come strumento di
prevenzione?
L’integrazione di folati e
ferro in gravidanza rappresenta un esempio di consolidata efficacia.
In quali condizioni patologiche la supplementazione
di micronutrienti e/o altri
composti bioattivi può
essere parte integrante dell'approccio terapeutico?
Generalmente in tutte le
cazioni per così dire “specialty-related”: la salute osteoarticolare, quella cardiovascolare, la protezione dermatologica e
anti-aging. Quanto ai tipi di integratori utilizzati, in larga parte
si tratta di complessi multivitaminici, seguiti da acidi grassi
omega-3, estratti vegetali e preparati a base di glucosamina/condroitin solfato.
Anche nel ruolo di prescrittori i medici di questo studio sembrano riporre fiducia negli integratori: il 91% degli ortopedici,
il 72% dei cardiologi e il 66% dei dermatologi li raccomanda
ai propri pazienti (a volte dietro richiesta degli stessi), con
motivazioni in questo caso più strettamente legate al rispettivo ambito specialistico.
Complessivamente i professionisti intervistati hanno affermato di utilizzare come fonte di informazione sulla supplementazione dietetica la letteratura scientifica e di essere interessati
a ricevere una formazione continua sul tema, che ne approfondisca gli aspetti farmacodinamici, clinici, educativi e
anche medico-legali.
Monica Oldani
Dickinson A et al. Use of dietary supplements by cardiologists, dermatologists and orthopedists. Nutr J 2011;10:20.
condizioni di malassorbimento, come nella celiachia,
oppure di aumentato fabbisogno, come nelle degenze
prolungate, e poi nei casi di
malnutrizione per difetto,
come nell’anoressia.
Oppure, per fare un esempio più specifico, nei casi di
ipertrigliceridemia,
ove
l’approccio dietetico non
fosse sufficiente, può essere
utile un’integrazione di
acidi grassi omega-3.
Tra le fasce di popolazione
per le quali viene spesso
consigliata una qualche
forma di supplementazione
(micronutrienti, antiossidanti, condroprotettori
ecc.) vi sono gli anziani, in
particolare in relazione alla
prevenzione e cura di
disturbi cardiovascolari,
malattie neurodegenerative
e problemi osteoarticolari.
In quali casi questo è, a suo
parere, un approccio corretto?
In generale, l'approccio corretto dovrebbe prevedere
innanzitutto un intervento
di tipo dietetico.
Ciò premesso, l’anziano è
effettivamente un soggetto
potenzialmente a rischio di
carenze, anche per problemi
di malnutrizione per difetto, dovuti a ridotta possibilità di scelta degli alimenti, a
disfagia e/o difficoltà di
masticazione; ma dovrà
essere il medico, previa
anamnesi alimentare, a
valutare nello specifico le
possibili carenze.
Quali forme di supplementazione possono rivestire
un ruolo preventivo o terapeutico in ambito ortopedico?
>
Fabio Galvano
Nel trattamento della sarcopenia nell’anziano è di una
certa efficacia l’integrazione
di leucina se associata a
esercizi con i pesi.
Sempre nell’anziano si
riscontrano frequentemente
condizioni di ipovitaminosi
D, anche a causa di un’insufficiente esposizione alla
luce solare per condizioni di
ridotta mobilità.
Integrazioni di vitamina D
e calcio potrebbero essere
utili, previo accertamento
dei livelli ematici di 25idrossicolecalciferolo e della
calcemia, anche nelle donne
in menopausa, tenendo
conto del fatto che in realtà
tale problema è diffuso nei
paesi di maggiore latitudine
piuttosto che nei paesi
mediterranei.
Infine, anche se resta da
chiarirne i meccanismi,
nelle donne in menopausa
l’integrazione a base di isoflavoni della soia sembrerebbe essere di aiuto nel
migliorare la densità ossea.
Al contrario, un integratore
a base di olio di pesce che
prometteva effetti salutari
sulle articolazioni, è stato
recentemente sanzionato
dalle autorità per pubblicità
ingannevole.
Monica Oldani
11
<< <<
FOCUS ON
IL PARERE DEGLI ESPERTI/2 CONTRO IL CANCRO MEGLIO PUNTARE SULLA DIETA
A illustrare il rapporto tra sostanze di origine alimentare,
integratori e malattia tumorale allo stato delle conoscenze è
Vittorio Krogh, responsabile della Struttura complessa di
epidemiologia e prevenzione dell'Istituto nazionale dei
tumori di Milano, la cui attività di ricerca è dedicata a studi
osservazionali e di intervento sulla relazione tra esposizioni
ambientali, inclusa la dieta, e sviluppo di malattie cronicodegenerative.
Dottor Krogh, in quale
direzione si sviluppa
attualmente la ricerca sull'alimentazione come fattore di rischio oncologico?
Negli ultimi anni la ricerca
epidemiologica sulla relazione tra dieta e malattie
cronico-degenerative, tra
cui quelle oncologiche, si sta
sempre più indirizzando
verso un approccio olistico,
nel quale gli stili alimentari
vengono studiati in relazione al loro possibile ruolo
protettivo o di rischio, e sta
abbandonando il tradizionale approccio meccanicistico, nel quale singoli componenti vengono messi in
rapporto con eventi o stati
patologici.
Tipico esempio è la dieta
mediterranea, caratterizzata
da una prevalenza di alimenti di origine vegetale,
che si è ripetutamente
dimostrata protettiva nei
confronti di varie patologie
cronico-degenerative
e
tumorali, in contrasto con
la cosiddetta dieta occidentale, ricca in prodotti di origine animale e zuccheri raffinati, risultata a rischio per
tutte le patologie cronicodegenerative, incluse quelle
tumorali.
Nella patologia tumorale è
riconoscibile un ruolo dell'alimentazione
anche
come fattore prognostico?
Sono sempre più forti le
indicazioni che i fattori
ambientali, tra i quali la
dieta, che influenzano il
rischio di sviluppare un
tumore sono importanti
anche come fattori influenzanti la prognosi. Rimane
però il fatto che la ricerca in
questo campo è ancora ai
primi stadi e quindi le evidenze a tutt’oggi non sono
ancora conclusive.
Tra le misure che più frequentemente sono state
considerate efficaci nel
migliorare la prognosi e la
qualità della vita nella
malattia tumorale vi sono
quelle collegate al controllo
del peso corporeo, ottenibile sia tramite un’attività fisica regolare che tramite una
lieve restrizione calorica, in
modo da avere un apporto
non eccedente il dispendio.
Non vi sono invece prove a
supporto di un qualche
ruolo protettivo della supplementazione ad alte dosi
di alcuni microelementi
(vitamine e oligoelementi)
nella prognosi della patologia tumorale.
Fitoterapia e integratori
per la salute delle donne
Nell’ambito di “Pianeta nutrizione & integrazione”, forum multidisciplinare sui temi della
nutrizione che si è tenuto a Parma il mese
scorso, la Società italiana di fitoterapia e
integratori in ostetricia e ginecologia (Sifiog)
si è riunita per mettere in luce le novità del
settore e dare un significato clinico alle
ricerche riguardanti i prodotti disponibili,
ponendo l’accento sulla possibilità che
anche gli integratori possano usufruire delle
nuove tecnologie per veicolare le sostanze
attive all’interno dell’organismo. Obiettivo di
Sifiog è quello di fornire un punto di riferimento in grado di valutare le evidenze
scientifiche disponibili e incoraggiare la
ricerca con gli stessi criteri utilizzati per il
farmaco etico.
«Esistono molte condizioni sia ostetriche sia
ginecologiche in cui l’impiego di integratori e
fitoterapici si è dimostrato efficace sia nella
prevenzione che nel trattamento di numerosi
disturbi – spiegano gli esperti della società
scientifica –. In ambito ostetrico un esempio
su tutti è quello dell’acido folico (vitamina
B9), che dovrebbe essere assunto al dosaggio di 0.4 mg da tutte le donne che programmano una gravidanza, dal periodo preconcezionale fino al termine della 12° settimana
di gestazione. L’assunzione di questo integratore è infatti fondamentale per la prevenzione di alcuni difetti congeniti dello sviluppo
del sistema nervoso centrale fetale».
Secondo Sifiog un'altra integrazione altrettanto valida e supportata dalla letteratura è
quella per il trattamento dell’anemia indotta
dalla gravidanza con integratori a base di
ferro. Una valida alternativa all’assunzione
di ferro, che spesso è associata a numerosi
effetti collaterali, sarebbe l’utilizzo della lattoferrina, molecola che di recente è stata
introdotta nella pratica clinica per il trattamento dell’anemia correlata alla gravidanza.
L’azione di questa molecola non è attribuita
solo alla quantità di ferro apportato, peraltro
molto inferiore a quella somministrata con
altri integratori, ma a un più complesso meccanismo che coinvolge i fattori dell’omeostasi sistemica del ferro.
Novità assoluta è quella che riguarda l’impiego del myo-inositolo: nell’ultimo decennio numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia di questi integratori nel trattamento della
sindrome dell’ovaio policistico, patologia
molto complessa caratterizzata da alterazioni endocrinologiche e metaboliche.
Sono in corso numerosi studi che hanno
l’obiettivo di confermare i dati incoraggianti
riguardo all’utilizzo di probiotici somministrati per via orale nelle donne con vaginosi
batterica, un disturbo molto diffuso sia al di
fuori che durante la gravidanza. La somministrazione di questi preparati agisce a livello vaginale migliorando le difese locali e
favorendo l’instaurarsi di un ambiente sfavorevole alla proliferazione di agenti patogeni.
Un capitolo molto ampio riguarda poi l’impiego dei fitoestrogeni, soprattutto nel trattamento dei sintomi correlati alla menopausa.
Secondo la Società italiana di fitoterapia e
integratori in ostetricia e ginecologia il ruolo
protettivo dei fitoestrogeni nella comparsa
dell'osteoporosi è in attesa di conferme cliniche, ma gode già di ottimi presupposti
epidemiologici e sperimentali.
Allo stato attuale delle
conoscenze quali micronutrienti o altri composti bioattivi di origine alimentare
hanno dimostrato un effetto protettivo nei confronti
della patologia tumorale?
Sono molte le componenti
bioattive che sono state via
via considerate come
potenzialmente dotate di
un effetto protettivo nella
patologia tumorale (vitamine, oligoelementi ecc).
Sulla spinta di queste osservazioni sono iniziate molte
sperimentazioni di intervento con supplementi alimentari nell’uomo. Basta
qui ricordare il Caret
(Carotenoid and Retinol
Efficacy
Trial),
l’Atbc
(Alpha-Tocopherol betaCarotene Cancer Prevention
Study), il Select (Selenium
and Vitamin E Cancer
Prevention Trial), i cui risultati sono tuttavia stati sempre deludenti. Anche nel
senso che se in alcuni casi si
aveva una modesta efficacia
protettiva per alcune patologie questa risultava poi completamente annullata da
aumentati rischi per altre
patologie.
Ci sono casi in cui una supplementazione di tali composti può essere utile ai fini
della prevenzione primaria
o terziaria in ambito oncologico?
Negli anni Ottanta diversi
studi sperimentali di intervento sull’uomo hanno studiato gli effetti sulla salute di
vari integratori alimentari,
in generale cocktail di vitamine antiossidanti e sali
minerali: con piccole eccezioni, in genere su popolazioni con dieta povera e
ripetitiva, non si sono evidenziati vantaggi su nessuna
delle patologie in studio in
confronto ai benefici garantiti da una dieta equilibrata e
ricca di vegetali freschi.
Al contrario, si sono evidenziati possibili rischi per la
salute che in alcuni casi
hanno fatto sospendere precipitosamente queste sperimentazioni: ne sono un
esempio la supplementazione
con alte dosi di beta-carotene
>
Vittorio Krogh
e quella con alte dosi di vitamina E, che hanno portato a
un aumento della mortalità
in generale, e in particolare
nel caso del beta-carotene a
un aumento dell’incidenza di
tumore al polmone nei
fumatori.
Per le persone in buona salute rimane valida la raccomandazione di consumare
un’ampia varietà di cibi, possibilmente non sottoposti a
tecniche di cottura e di conservazione che ne impoveriscono il contenuto in vitamine e sali minerali.
M. O.
Sport e attività fisica: Adi critica
l’utilizzo di integratori ed energy drink
L’Associazione italiana di dietetica e nutrizione clinica (Adi) ribadisce la propria
linea di intransigenza e «ferma condanna
all’utilizzo di integratori e alla loro diffusione spesso superficiale e poco consapevole, specialmente alla luce dei dati pubblicati recentemente dall'Harvard School of
Public Health di Boston». Nell’ambito di
questa ricerca riguardo le bibite zuccherate – spiegano gli esperti dell’Adi – è stato
rilevato che queste contribuirebbero
all'eccesso di peso e rientrerebbero tra le
cause dell'aumento del rischio di sviluppare patologie croniche come il diabete e le
malattie cardiovascolari. Tra i prodotti analizzati, responsabili dei suddetti effetti dannosi, compaiono appunto gli integratori
idrosalini (bevande sportive) e gli energy
drink.
«L’abuso di integratori dietetici comporta
una serie di potenziali controindicazioni –
si legge nella nota diffusa dall’Adi –; la
stessa Wada (Agenzia mondiale antidoping) si è espressa con preoccupazione
sui possibili rischi e sull’eventuale tossicità
di questa tipologia di prodotti.
«Quelle che si assumono con gli integratori sono sostanze presenti normalmente
negli alimenti: carboidrati, proteine, aminoacidi, creatina, L-carnitina, carnosina,
lipidi, vitamine, minerali, caffeina, ecc.,
che sono commercializzate come “estratti”
o sintetizzate industrialmente. La differenza principale tra gli integratori e le stesse
sostanze assunte con l’alimentazione
comune sta nei dosaggi: spesso quando
assunte sotto forma di integratori sono
“superdosi”, sulla cui innocuità a lungo termine esistono pareri discordanti».
Secondo quanto affermato da Adi – una
onlus che opera senza fini di lucro nell’ambito della scienza della alimentazione –,
l’adozione di abitudini alimentari corrette,
ispirate ai semplici e salutari principi del
“modello alimentare mediterraneo”, è sufficiente a coprire per intero i fabbisogni
nutrizionali della quasi totalità degli sportivi. L’eccezione è costituita da atleti di altissimo livello che praticano alcune particolari discipline, ma che possono avvalersi
della consulenza di specialisti che evitano
il pericoloso “fai da te”.
In base ad uno studio condotto da Adi è
emerso che gli integratori alimentari diffusi
in commercio e le bevande energetiche
possono essere efficacemente sostituiti
con semplici preparati domestici a base di
alimenti comuni: questo eviterebbe l’assunzione di coloranti e zuccheri in eccesso. Le diffusissime bevande finalizzate a
reintegrare le perdite idro-saline dovute
all’attività sportiva, per esempio, hanno le
stesse proprietà di una semplice bevanda
fatta in casa: 750 ml di acqua, 250 ml di
succo di frutta (meglio se albicocca per la
maggior presenza di potassio), sale da
cucina (1 grammo, massimo 2), preoccupandosi soltanto di far sì che la quantità
totale di zuccheri sia compresa tra 30 e 60
g/l. Per quanto riguarda gli integratori
energetici si può ottenere lo stesso risultato consumando cibi comuni (biscotti secchi, fette biscottate con miele e marmellata, frutta fresca o essiccata, dolci da forno
senza farciture e creme).
<< <<
FOCUS ON
12
IL PARERE DEGLI ESPERTI/3 DIRE ANTIOSSIDANTI NON BASTA
Popolari come non mai per le proprietà antiossidanti ampiamente dimostrate negli studi in vitro – capaci di eliminare Ros
e Rns e di modulare l'azione dei sistemi enzimatici antiossidanti e dei fattori di trascrizione redox-sensibili a livello cellulare – i polifenoli sono in questo momento i composti antiossidanti di origine alimentare ai quali maggiormente si dedicano
anche gli studi di intervento nell'uomo.
Rappresentano anche uno degli argomenti di interesse di
Mauro Serafini, biologo, ricercatore presso l'Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione (Inran) di Roma,
dove si occupa dei meccanismi di difesa dell’organismo nei
confronti di stress esogeni ossidativi e infiammatori e del
ruolo della modulazione redox e antinfiammatoria di alimenti,
nutrienti, micronutrienti e fitochimici. Autore, con alcuni colleghi del Laboratorio di ricerca sugli antiossidanti dell'Inran, di
un lavoro di revisione degli studi clinici sulle proprietà antiossidanti dei polifenoli vegetali che lo scorso anno ha avuto
molta risonanza, avendo evidenziato – in opposizione alle
diffuse interpretazioni semplicistiche – la complessità dei
meccanismi attraverso i quali l'azione di questi composti si
esplica in vivo. Complessità che, in realtà, sembra caratterizzare l'interazione dell'organismo con tutti i composti bioattivi
di origine alimentare.
Dottor Serafini, oggi la
medicina preventiva dedica
molta attenzione al ruolo
protettivo di specifici alimenti, grazie alle loro proprietà antiossidanti. Quali
sono i più efficaci da questo
punto di vista?
Tra gli alimenti potenzialmente più efficaci nella prevenzione, per esempio delle
malattie cardiovascolari,
abbiamo il tè, il mirtillo, i
broccoli.
Una novità degli ultimi anni
è sicuramente il cacao e di
conseguenza il cioccolato,
purché fondente, che svolge
un effetto importante e
scientificamente validato
nell’uomo come antiossidante, riducendo la pressione sanguigna, l’aggregazione piastrinica e potenziando
la funzionalità dell’endotelio.
Ma di fondo, direi che è
complessivamente protettivo un regime alimentare di
origine vegetale.
Allo stato attuale delle
conoscenze quali sono i
composti bioattivi più
“promettenti”?
A dire il vero, ci troviamo in
un momento in cui, dopo
dieci anni di ricerche sui flavonoidi, composti polifenolici che sono metaboliti
secondari presenti nei vegetali, non abbiamo neppure
la certezza che siano loro a
svolgere un effetto preventivo. O meglio, ci troviamo a
interrogarci su quale sia il
loro meccanismo di azione,
data la loro bassa biodisponibilità e la profonda metabolizzazione che subiscono
nell’organismo, finalizzata
alla loro escrezione.
Quindi, sebbene ogni giorno si trovino sui media
notizie relative alle proprietà curative di singoli composti, le evidenze scientifiche non sono altrettanto
incoraggianti quanto lo
sono per gli alimenti nella
loro totalità.
Quanto contano le combinazioni tra diversi micronutrienti e altri composti
bioattivi di origine alimentare nel determinarne le
proprietà funzionali?
L’aspetto delle associazioni
alimentari è, a mio avviso,
fondamentale per capire se
l'alimento o il singolo
nutriente possono svolgere
una funzione nell’uomo,
dato che noi assumiamo i
vari composti nell’ambito
di un pasto e quindi sempre
in associazione con altri.
Noi siamo molto attenti a
questo aspetto: siamo stati i
primi a mettere in evidenza
circa dieci anni fa l’effetto
negativo che l’associazione
tra latte e tè aveva sulle proprietà antiossidanti di quest’ultimo, riducendole. Un
effetto che si riscontra
anche per il cioccolato e il
mirtillo, che se ingeriti con
il latte perdono le loro proprietà antiossidanti.
Da ciò è facile immaginare
che per alcuni composti
antiossidanti, principalmente i flavonoidi, dotati di
una spiccata affinità per le
proteine, con le quali stabiliscono legami secondari
abbastanza forti, si possano
verificare fenomeni di interferenza che in un pasto normale, normalmente ricco di
proteine, ne riducono l'assorbimento.
Molto spesso questi fenomeni non vengono studiati
perché si preferisce verificare l'effetto del singolo
nutriente o del singolo alimento piuttosto che delle
eventuali associazioni. La
comprensione di queste
ultime, invece, è essenziale
per poter fornire suggerimenti concreti alla popolazione sull’ottimizzazione
dell’apporto antiossidante.
A mio parere, bisognerebbe
effettuare una ricerca sperimentale più vicina alla realtà dell'assunzione dei vari
composti attraverso la dieta.
In effetti, nella review da lei
di recente pubblicata sulle
proprietà antiossidanti dei
polifenoli di origine vegetale emerge che i risultati
degli studi in vivo sono
molto sensibili, oltre che
all'effetto dei possibili fattori di confondimento,
anche alle caratteristiche
del disegno sperimentale.
Quali sono le principali difficoltà che si incontrano nel
condurre studi di efficacia
in questo settore?
Il disegno sperimentale è
fondamentale per poter
comprendere i risultati ottenuti, se lo studio si basa su
un singolo giorno di supplementazione
(acuto)
avremo un modello sperimentale pulito e scevro da
variabili, come la modulazione omeostatica o l'attività fisica, che invece sono
variabili importanti per gli
studi in cronico. Entrambi i
modelli sono in realtà validi, ma mentre il primo serve
per avere una risposta rapida sulle potenzialità dell'alimento, il secondo è quello
che può dare le risposte
definitive e più attendibili
sugli effetti reali.
In entrambi i casi comunque la scelta dei criteri di
inclusione ed esclusione dei
soggetti è fondamentale per
ridurre la variabilità e
aumentare la forza statistica
dello studio.
Se da un lato studi epidemiologici e sperimentali
depongono a favore dell'effetto protettivo di alcuni
micronutrienti e altri composti bioattivi di origine
alimentare rispetto alle
principali malattie degenerative, dall'altro non è sempre confermata l'efficacia
della supplementazione dei
medesimi composti sotto
forma di integratori. Quale
indicazione di comportamento si può trarre da questa evidente discrepanza?
Il concetto dell’integratore
come pillola magica che
sostituisce alcuni alimenti
riproducendone le proprietà – e magari donandoci la
vita eterna – deve essere
POLIFENOLI AL BANCO DI PROVA
>
Mauro Serafini
assolutamente abbandonato.
Le evidenze sperimentali ed
epidemiologiche sono a
favore di un effetto protettivo esercitato dagli alimenti
di origine vegetale e non
dalla supplementazione con
alcune delle sostanze in essi
contenute. Anzi, l’utilizzo di
alcune molecole (ne è un
esempio il beta-carotene)
per lunghi periodi e a dosi
molto più alte di quelle raccomandate è stato visto
avere un effetto decisamente
negativo.
Questo fatto può essere
imputabile al fatto che,
come dicevo, nell’alimento
abbiamo una combinazione
ottimale di molecole biofunzionali, nonché di altri
componenti (fibra, minerali
ecc.), che conferiscono
all'alimento uno spettro
d’azione ampio; mentre
estrarre un singolo composto da somministrare,
magari in sovradosaggio,
può essere controproducente poiché altera i meccanismi omeostatici di controllo
dell’organismo.
È evidente che in stati
carenziali specifici, che non
sia possibile o indicato correggere con la dieta, si può
pensare di utilizzare gli integratori, ma senza mai eccedere con le dosi.
Monica Oldani
Si tratta della prima revisione sistematica degli studi di
intervento nell'uomo finalizzati a valutare l'espressione
delle proprietà antiossidanti dei polifenoli in vivo. Ha
incluso 158 lavori per un totale di 227 interventi di somministrazione di polifenoli da fonti alimentari (frutti e
succhi di frutta, ortaggi, tè, vino, prodotti a base di
cacao, altri derivati vegetali) o da estratti vegetali, nei
quali sono state misurate nel plasma le variazioni della
capacità antiossidante non enzimatica (Neac) in seguito a intervento dietetico/supplementazione e in rapporto alle concentrazioni di polifenoli.
Nonostante l'eterogeneità metodologica degli studi
considerati, la revisione di Mauro Serafini e colleghi ha
fatto emergere alcuni elementi di grande interesse.
In primo luogo, la diversa risposta ottenuta nei trial con
singola somministrazione, che hanno ottenuto un effetto chiaramente positivo sui livelli di Neac nel 65% degli
interventi, rispetto ai trial con somministrazione prolungata, che hanno rilevato variazioni significative della
Neac nel 50% degli interventi; a dimostrazione del peso
delle variabili che possono interferire con l'azione degli
antiossidanti nell'organismo sul lungo periodo.
In secondo luogo, la forte discrepanza tra l'entità
degli aumenti della Neac e le concentrazioni di polifenoli circolanti, la quale, unitamente alla loro apparentemente scarsa biodisponibilità e all'alto tasso di trasformazione metabolica cui sono soggetti, fa supporre che il contributo di questi composti esogeni alla
difesa antiossidante endogena non sia diretto come si
pensava, ma possibilmente legato a interazioni sinergiche con altri meccanismi redox o all'azione di alcuni dei loro metaboliti.
In terzo luogo, la diversa efficacia degli interventi nell'aumentare i livelli di Neac a seconda dello stato di
salute dei soggetti, con un effetto relativamente scarso
negli individui sani (dove il 58% degli interventi non ha
prodotto variazioni della Neac) e decisamente maggiore (con innalzamento della Neac nel 70% degli interventi) negli individui con un alto grado di stress ossidativo
(per esempio per la presenza di fattori di rischio cardiovascolare come fumo, ipercolesterolemia, sindrome
metabolica, ipertensione, ecc) – cioè in quelli che presumibilmente più necessitano di un supporto esogeno
ai sistemi antiossidanti endogeni.
M. O.
Serafini M, Miglio C, Peluso I, Petrosino T. Modulation of
plasma Non Enzimatic Antioxidant Capacity (NEAC) by
plant foods: the role of polyphenol. Curr Top Med Chem
2011;11:1821-46.
Scacco
ai sintomi dell’artrosi
in un’unica mossa
Un trattamento
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c un’efficacia
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www.monovisc.it
98° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
SOCIETÀ ITALIANA DI ORTOPEDIA
E TRAUMATOLOGIA
SIOT2013
Presidenti: Francesco Franchin, Federico Santolini
La ricostruzione articolare
Il ritardo di consolidazione delle fratture
Genova 26-29 ottobre 2013
Centro Congressi Magazzini del Cotone
Segreteria Organizzativa
Comitato Scientifico
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Viale Tiziano, 19 00196 Roma
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Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia
Via Nicola Martelli, 3 00197 Roma
t. +39 06 80691593 f. +39 06 80687266
[email protected]
www.siot.it
ORTHOviews
Review della letteratura internazionale
RICERCA
COLONNA
Un film bioattivo per
migliorare l’adesione
tra osso e impianto
Meccanomiografia,
tecnica per aiutare
la decompressione discale
Un team di ricercatori della
North Carolina State
University ha reso nota sul
Journal of Biomedical
Materials Research un’importante scoperta che
potrebbe migliorare in
maniera sensibile il tasso di
successo degli impianti
polimerici, frequentemente
utilizzati in chirurgia spinale, tramite l’applicazione
di un sottile rivestimento in
materiale bioattivo.
In questo tipo di impianti
viene comunemente utilizzato il polyetheretherketone (PEEK), un polimero ad
alte prestazioni che, nonostante presenti dei vantaggi
rispetto ai biomateriali
metallici utilizzati per
applicazioni in impianti
spinali, tuttavia fatica a
legare bene con l’osso o
altri tessuti del corpo.
Questo suo comportamento genera uno sfregamento
dell'impianto contro i tessuti circostanti che può
evolvere in complicazioni
mediche o rendere necessari ulteriori interventi chirurgici. «Volevamo applicare un rivestimento bioattivo che permettesse agli
impianti polimerici di legare con i tessuti circostanti»
ha spiegato Afsaneh Rabiei,
professore associato di
ingegneria meccanica e
aerospaziale presso la
North Carolina State
University e autore della
ricerca. «La sfida era che
questi rivestimenti devono
essere riscaldati a 500°C,
ma il polimero fonde a
300°C. Noi abbiamo finalmente risolto il problema».
Il primo passo della nuova
tecnica messa a punto dai
ricercatori consiste nel
ricoprire l'impianto con un
sottile strato di ossido di
zirconia stabilizzata con
ittrio (YSZ), al quale viene
poi applicato un rivestimento di idrossiapatite
(HA), un fosfato di calcio
che si lega bene con l’osso.
Un piccolo studio ha preso
in esame un sistema ancora poco noto ma che promette di fornire un aiuto
importante agli specialisti
di chirurgia vertebrale.
Si chiama meccanomiografia (o, in breve, Mmg) e
permette di individuare
l’attività meccanica che
avviene durante la contrazione dei muscoli in seguito a una stimolazione nervosa, fornendo informazioni con un alto livello di
accuratezza
utilizzabili
nelle procedure in cui i
nervi motori sono a
rischio. Per esempio, in
questo modo i chirurghi
possono determinare se la
chirurgia è stata efficace
per allentare la pressione
sui nervi compressi, situazione molto comune che si
associa a sciatalgia e debolezza muscolare.
Uno studio sulla Mmg è
stato presentato al congresso che lo scorso marzo
ha riunito i chirurghi ortopedici americani dell’Aaos
(American academy of
orthoapedic surgeons).
L’autore è Stephen Bartol,
che ha dimostrato l’efficacia della meccanomiografia nel misurare la funzionalità nervosa e nel determinare se i nervi sono sottoposti a compressione. Il
vantaggio concreto è che
questa tecnica può fornire
informazioni in tempo
reale durante l’esecuzione
dell’intervento di chirurgia
spinale, riducendo in tal
modo il rischio di errori e
la necessità di interventi
successivi.
Con il perfezionamento
delle procedure di chirurgia mininvasiva, si è resa
sempre più manifesta la
necessità di disporre di
strumenti in grado di
monitorare la funzionalità
del nervo durante l’intervento. Solitamente i chirurghi controllano la
decompressione del nervo
Successivamente lo strato
di idrossiapatite viene
riscaldato mediante microonde. Lo strato di YSZ
funge da schermo termico,
impedendo la fusione del
PEEK. Nel frattempo il
calore conferisce all'idrossiapatite una struttura cristallina che la rende più
stabile all’interno del corpo
e di conseguenza il fosfato
di calcio si scioglie più lentamente, favorendo l’adesione all'osso circostante.
L'immagine del microscopio elettronico a scansione
(b) mostra una sezione trasversale del rivestimento
bioattivo in idrossiapatite/YSZ senza trattamento
termico,
evidenziando
come i due strati siano
distinti. Nell'immagine in
basso (f ), che mostra il
>
rivestimento dopo il trattamento termico, si nota
invece come gli strati siano
ben integrati.
La ricerca è solo agli inizi
ma i ricercatori americani
sembrano crederci molto, e
non sono i soli: «abbiamo
ricevuto finanziamenti dal
National Institutes of
Health per procedere con la
sperimentazione su animali
e mettere a punto questa
tecnica – conferma il professor Rabiei –. Poi passeremo alla sperimentazione
clinica».
Rachele Villa
Rabiei A, Sandukas S.
Processing and evaluation of
bioactive coatings on polymeric implants. J Biomed
Mater Res A. 2013 Feb 15.
Sezioni trasversali del rivestimento bioattivo
> Stephen Bartol, l’autore dello
studio, esercita la sua attività di
chirurgo ortopedico all’Henry
Ford Hospital di Detroit
attraverso la visualizzazione diretta oppure servendosi
della
leva
di
Woodson, metodi che
Bartol definisce “puramente soggettivi”. Un’altra
tecnica, l’elettromiografia
(Emg), è in grado di rilevare la risposta elettrica del
muscolo, ma non è affidabile a causa delle interferenze elettriche nella sala
operatoria, che rendono
difficile quantificare la
risposta dei nervi.
«Tradizionalmente – spiega il chirurgo americano –
quando intervenivamo su
qualcuno che presentava
una compressione del
nervo, non sapevamo se
avevamo fatto abbastanza;
si trattava di aspettare e
osservare il paziente dopo
l’intervento. Invece l’Mmg
ci permette di distinguere
tra nervi compressi e normali e misurare la gravità
della compressione».
Nella
sperimentazione
illustrata al congresso
Aaos, il team di Bartol ha
utilizzato la meccanomiografia per controllare la
soglia di stimolazione di
64 nervi, in 41 pazienti
ricoverati all’Henry Ford
Hospital di Detroit.
L’operazione è stata ripetuta prima e dopo la
decompressione, durante
la quale una piccola porzione di osso è stata rimossa in corrispondenza del
nervo, permettendo alla
radice nervosa di guarire.
La stimolazione è iniziata
con una corrente elettrica
di 1 mA, che è stata poi
aumentata fino all’intensità in cui si otteneva una
risposta dell’apparecchiatura di Mmg.
Prima della decompressione, l’89% dei nervi presentava una soglia media di
4,89 mA, che è scesa, dopo
l’azione del chirurgo, a
2,08 e, nel 70% dei casi,
fino al valore normale di 1
mA. Inoltre, il 98% dei
nervi ha fatto registrare
una diminuzione della
soglia almeno pari a 1 mA.
Secondo l’autore dello studio, i risultati dimostrano
che la tecnologia Mmg
«permette al chirurgo di
prendere decisioni migliori in sala operatoria; dopo
una decompressione inadeguata il paziente continuerà a sentire dolore,
mentre un migliore controllo dei nervi si dovrebbe
tradurre in outcome clinici
più soddisfacenti».
L’esperto spiega comunque
che sono necessari ulteriori trial clinici per approfondire le conoscenze su
questa tecnica e confermare i buoni risultati ottenuti
da questo studio.
Renato Torlaschi
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suddivisa in 27 capitoli: dalla classificazione, alle lesioni
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17
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ORTHOviews
Review della letteratura internazionale
LAVORO ORIGINALE
L’alternativa alle teste di grandi
dimensioni: il cotile a doppia mobilità
Franco Parente, Pierantonio Gardelin, Simone Gatti, Andrea Milella, Andrea Parente
Istituto Clinico S. Siro, Milano
L’idea della doppia mobilità –
una testina femorale articolata in modo stabile dentro un
inserto in polietilene a sua
volta capace di muoversi liberamente all’interno di un
cotile metallico – fu concepita dal professor Gilles
Bousquet nel 1975 con l’intento di associare i vantaggi
della bassa usura secondo i
concetti della “low friction
arthroplasty” espressi da
John Charnely, con la grande
stabilità delle teste di grande
diametro a quel tempo proposte da McKee Farrar.
L’impianto di Charnely (stelo
monoblocco in acciaio con
testina da 22,2 mm articolante in un cotile in polietilene
ad alto peso molecolare)
aveva rivoluzionato la protesica d’anca garantendo a questa pratica chirurgica una
riproducibilità e una affidabilità prima sconosciute, ma
conservava un elevato rischio
di lussazioni. D’altro canto
l’esperienza di McKee Farrar
(teste di grande diametro con
accoppiamento
metallometallo), se da un lato risolveva il problema della instabilità, dall’altro conservava
importanti problemi tribologici. Nel 1979 il professor
Bousquet perfezionò la sua
idea arrivando al disegno di
un impianto che già si avvicinava ai concetti attuali. Infatti
si trattava di un cotile non
cementato (il cotile Novae)
con la superficie interna lucidata a specchio su cui si articolava un inserto in polietilene ritentivo che ospitava una
testina da 22,2 mm. In questo
modo veniva rispettato il
principio della “low friction
arthroplasty” e al contempo
si diminuivano notevolmente
le possibilità di lussazione, sia
nel caso di impianti primari
che di revisione.
Secondo il concetto elaborato
da Bousquet la maggior parte
del movimento ha luogo fra
la testina metallica e l’inserto
in polietilene (articolazione
“interna”), mentre ai gradi
estremi dell’escursione articolare (l’area dove può avvenire la lussazione negli
impianti tradizionali) subentra l’articolazione “esterna”,
cioè quella fra l’inserto mobile in polietilene e la coppa
acetabolare (fig. 1).
Razionale e tecnica
chirurgica
Quali sono oggi i vantaggi di
un sistema di questo tipo
rispetto ad uno tradizionale?
Sicuramente la doppia mobilità permette un aumento sia
della stabilità articolare che
del range of motion (Rom).
Infatti l’aumento del diametro della testa aumenta l’opposizione alla lussazione,
facendo arrivare la testa più
tardi alla perdita di contatto.
Oggi sappiamo anche che
l’aumento del diametro della
testa migliora il Rom (fig. 2).
Per esempio il passaggio da
una testina da 28 mm a una
da 40 mm permette di
aumentare l’arco di movimento di più di 29°.
Oggi la richiesta funzionale
del paziente, anche in età
avanzata, è sempre maggiore
e molti pazienti chiedono al
chirurgo di poter continuare
a svolgere, dopo l’intervento,
l'attività sportiva abituale. Per
questo necessitano della più
ampia escursione articolare
possibile. Anche le più banali
attività quotidiane richiedono comunque ampi archi di
movimento. Ad esempio per
potersi infilare le scarpe
occorrono 125° di flessione,
21° di adduzione e 15° di
rotazione interna. Nella
tabella sono mostrate le
escursioni articolari necessarie per eseguire una serie di
comuni movimenti.
Molti chirurghi potrebbero
essere perplessi riguardo alla
possibile usura dell’inserto
mobile in polietilene all’interno del cotile a doppia
mobilità. A questo proposito
dobbiamo ricordare che grazie alla particolare catena
cinematica di questo impianto la maggior parte del movimento ha luogo tra la testa
metallica (da 22 o da 28 mm)
e l’inserto plastico. Solo le
posizioni estreme dell’escursione articolare portano al
movimento tra inserto e
metal back. Da un’analisi
cinematica relativa ai gradi di
movimento richiesti per le
varie attività fisiche è emerso
come approssimativamente
l’80% del movimento resti a
carico
dell’articolazione
“interna”, mentre solo il 20%
è espletato da quella “esterna”.
Questo concetto cinematico è
supportato anche da pubblicazioni con risultati clinici a
> Fig. 1: il meccanismo cinematico del cotile a doppia mobilità. Quando l’articolazione interna giunge “a fine
corsa” il collo dello stelo si appoggia sull’inserto mobile e attiva l’articolazione esterna
Flessione
Salire le scale
67°
Scendere le scale
36°
Sedersi
103°
Infilarsi le scarpe
125°
Guidare l’auto
108°
Camminare
24°
Estensione
Abduzione
Adduzione
lungo termine. Ad esempio il
dottor Farizon e altri pubblicarono nel 1997 su
International Orthopaedics i
risultati di una revisione critica su 135 impianti con 12
anni di follow up, con una
sopravvivenza dell'impianto
del 95,4% (1).
L'usura può essere ulteriormente ridotta utilizzando
particolari tipi di polietilene,
cioè ricorrendo al polietilene
reticolato o a quello arricchito con vitamina E. Per tutto
questo oggi questo sistema
protesico può essere paragonato al "rotating platform"
per il ginocchio.
I vantaggi della doppia mobilità non prescindono, ovviamente, dalle regole di un corretto posizionamento delle
componenti
protesiche.
Un'eventuale lussazione con
questa tecnica risulta di difficile riduzione incruenta.
Comunque la percentuale di
lussazioni riportata in letteratura è dello 0,09%, pari a 1
caso su 1.100 (2).
Casistica personale
La nostra esperienza con
questo tipo di impianto parte
nel 2006. Fino ad oggi abbiamo utilizzato 400 cotili di
questo tipo ripartiti fra due
tipologie commericali: Polar
Cup (Smith & Nephew) e
Dmx (Adler Ortho) (fig. 3). Il
60% della popolazione è
costituito da donne, mentre il
40% da maschi. L'età media
dei pazienti era di 71,55 anni.
In 11 casi questa tipologia di
cotile è stata impiantata in
pazienti più giovani, di sesso
femminile, con acetaboli
molto piccoli.
Abbiamo valutato i primi 140
casi con follow-up massimo
di 4 anni. In questo gruppo
non abbiamo verificato alcun
problema di lussazione.
Abbiamo per contro riscontrato in questi pazienti una
mobilità articolare aumentata rispetto a quelli con
impianto tradizionale, con
Rot. interna
19°
21°
Escursioni articolari dell’anca necessarie per eseguire le più comuni attività giornaliere
> Fig. 4: impianto con
coppa a doppia mobilità Dmx e stelo mininvasivo Pulchra.
L’indagine strumentale
non evidenzia segni di
usura del polietilene
aumento della flessione (flessione media 105°) e dell'abduzione (35°). La soddisfazione del paziente è stata
sempre elevata, con una
ripresa funzionale precoce.
Alle radiografie di controllo
non si evidenziavano segni di
usura del polietilene (fig. 4).
Discussione
Questo impianto fino ad
alcuni anni fa era dichiarato
elettivo in alcune tipologie di
pazienti. Infatti veniva raccomandato in pazienti con
problematiche neurologiche
o con ipotrofia muscolare
oltre che in pazienti con storia di lussazione recidivante
di artroprotesi d'anca. Visto
però il positivo feedback clinicamente dimostrato, riteniamo possa essere un
impianto acetabolare da utilizzare sistematicamente nei
pazienti oltre la settima
decade di età e nei casi con
acetabolo di piccola dimensione.
Riteniamo infine che questa
tipologia di impianto possa
rappresentare una buona
alternativa alle grandi teste
metallo-metallo date le problematiche recentemente
riscontrate con questo tipo
particolare di soluzione.
Bibliografia
1. Farizon F et al. Results with
a cementless alumina-coated
cup with dual mobility. A
twelve-year follow-up study.
Int Orthop 1998;22(4):21924.
2. Leclercq S et al. Traitement
de la luxation récidivante de
prothèse totale de hanche par
le cotyle de Bousquet. A propos
de 13 cas. Rev Chir Orthop,
81, 1995, 389-394.
3. Meek RM et al.
Epidemiology of dislocation
after total hip arthroplasty.
Clin Orthop Relat Res 2006
Jun;447:9-18.
4. Padgett DE, Warashina H.
The unstable total hip replacement. Clin Orthop Relat Res
2004 Mar;(420):72-9.
5. Jolles BM et al. Factors predisposing to dislocation after
primary total hip arthroplasty: a multivariate analysis. J
Arthroplasty 2002 Apr;
17(3):282-8.
Rot. esterna
14°
37°
15°
> Fig. 3: il cotile a doppia mobilità Dmx (Adler Ortho, Milano). Oggi
questo impianto potrebbe essere una valida alternativa alle teste di grande diametro con accopiamenti ceramica-ceramica e metallo-metallo,
soprattutto in pazienti anziani con alta richiesta funzionale
15°
24°
8°
5°
24°
Fig. 2: un impianto con testina più piccola (rosso) ha un Rom ridotto rispetto a un impianto con testa più grande (blu)
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Presidente
Maurilio Marcacci
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Sport, Cartilagine e
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Comitato Scientifico
Maurilio Marcacci
Stefano Zaffagnini
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President / Presidente
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Tecnologie
Presidente Comitato Scientifico
Luigi Pederzini
SEGRETERIA
ORGANIZZATIVA
Presidente del Congresso
Giuseppe Sessa
Presidenti del Programma Scientifico
Claudio Zorzi
Fabio Catani
Segreteria Scientifica
Fabio Nicoletta
Mauro Prandini
Massimo Tosi
Informazioni generali:
[email protected]
Viale Giacomo Matteotti, 7
50121 Firenze
Tel. 055 50351
Per mostra e sponsorizzazioni:
[email protected]
19
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ORTHOviews
Review della letteratura internazionale
LAVORO ORIGINALE
Diagnosi differenziale in fisioterapia:
caso di dolore non specifico all'arto inferiore
Dott. Filippo Zanella, fisioterapista e docente di terapia manuale (www.studiozanellafisioterapia.com)
Dott. Giovanni Carrossa, fisioterapista
Il case report è un’evidenza
aneddotica. Come tale, essa è
meno scientificamente rigorosa di studi clinici controllati. Esso però ha valore all'interno del metodo scientifico
poiché permette la scoperta
di nuove malattie e gli effetti
inattesi (negativi o positivi),
così come lo studio dei meccanismi, e gioca un ruolo
importante nella formazione
sanitaria (1).
In questo articolo verrà
descritto un case report di un
paziente il cui quadro sintomatologico ha fuorviato la
diagnosi medica, causando il
non recupero del paziente
dalla patologia; secondariamente, dopo attenta valutazione fisioterapica, è stato
possibile individuare la causa
e indirizzare il paziente a un
recupero con successo.
Anamnesi
Paziente maschio, caucasico
di 59 anni, praticante ciclismo amatoriale. Nessuna
segnalazione particolare nella
storia clinica recente del
paziente.
Da circa 15 giorni lamenta
lieve dolore (Vas = 2) in sede
coscia posteriore sinistra, ad
altezza del primo terzo distale della coscia, paramediana
interna. La sintomatologia
algica è insorta a seguito di
leggera attività fisica (ascesa
rapida delle scale) ed è andata ingravescendosi nei giorni
successivi. Non si segnala
alcun traumatismo recente.
Nei tre giorni successivi il
paziente si è rivolto al suo
medico di base che, dato il
quadro clinico, ha ipotizzato
la presenza di uno strappo
muscolare di lieve entità.
Pertanto il medico prescrive
esame ecografico dell’area
dolente e successiva vista specialista dall’ortopedico.
Esame ecografico
All'esame ecografico risulta
una “area ipoecogena da
lesione focale a 2,5 cm dall’inserzione del capo lungo
del bicipite femorale” (fig.1).
Non sono apprezzabili presenze
di
versamenti.
L'ecografista conferma la diagnosi del medico di base di
strappo muscolare di primo
grado, ove non è presente
rottura di fibre muscolari e/o
riguarda fino al 5% del
muscolo (2).
Consulto ortopedico
Il referto, presentato allo specialista ortopedico insieme al
quadro eziologico del paziente, porta alla conferma della
diagnosi. Di conseguenza
vengono prescritti riposo
relativo; assunzione di
Diclofenac sodico in cpr da
100 mg tre volte al giorno per
7 giorni; un ciclo (5 sedute)
di diatermia a trasferimento
energetico capacitivo e resistivo sull'area dolorosa.
Trascorsi 15 giorni, al termine del trattamento, il sintomo algico è aumentato, per
cui reputando non completamente efficace la terapia
effettuata, il paziente si rivolge al fisioterapista per una
valutazione complementare.
Valutazione fisioterapica
Nella prima seduta viene eseguita la diagnosi funzionale e
l’indagine
anamnestica,
durante la quale, oltre a
riportare i dati finora presentati, il paziente riferisce anche
Fig.1: ecografia nell’area dolente del paziente, la freccia indica la
sospetta lesione focale
>
nella sua anamnesi remota la
presenza di un'operazione
chirurgica a cui è stato sottoposto 43 anni prima per correggere un atteggiamento di
"piede cavo bilaterale pronunciato”. Tale operazione,
consistente in una tripla
artrodesi del gruppo astragalo-scafoide-cuboide con viti,
era una procedura abbastanza diffusa per la correzione
chirurgica del piede cavo (3).
Ciò ha provocato un blocco
completo dei movimenti dell’arco plantare, con una diminuzione del range of motion
(Rom) in dorsi-flessione di
caviglia, in parte compensata
dal gruppo osseo metatarsale.
La serendipità, nel caso clinico esaminato, è stata la rilevazione del fatto che tutta la
catena posteriore del paziente
fosse fortemente retratta,
data la limitazione alla dorsiflessione delle caviglie indotta
dall’operazione chirurgica
subita, che ne impediva uno
stretch adeguato e causava un
sovraccarico a livello della
muscolatura paravertebrale.
Il paziente non ha mai notato
tale insufficienza, data la giovane età alla quale si è sottoposto all’intervento e all’assenza di deficit funzionali
nelle normali attività quotidiane o nello sport (cammino, bici).
Registrando tale dato disfunzionale, il fisioterapista ha
osservato la cute del paziente
senza notare né alterazioni
morfologiche cutanee di
alcun tipo nell’area del
sospetto strappo, né segni di
ematomi, emorragie o ecchimosi, spesso associate a questo tipo di problematiche.
Assenti anche alla palpazione
eventuali tessuti cicatriziali,
che spesso si formano una
settimana dopo lo strappo
parziale del muscolo (4). La
palpazione leggera della
sospetta area traumatica non
produce dolore, che invece si
manifesta in forma lieve a
una pressione maggiore (Vas
= 3). Viene effettuato un test
della forza muscolare in ortostatismo secondo Kendall, dal
quale non si evidenzia alcuna
asimmetria o diminuzione di
forza rispetto all’arto controlaterale; il dolore si esacerba
in modo lieve solo se il
muscolo viene testato con
paziente in posizione prona,
senza che però vi sia cambiamento della performance
muscolare e nel Rom. Viene
quindi eseguito un test di
Lasegue, che risulta positivo,
con comparsa di dolore nella
presunta zona lesionale. La
positività di questo test è frequente nelle radicolopatie
L5-S1 (5). Per differenziare
viene effettuato anche uno
Slump test che risulta parzialmente positivo (il test provoca impingement della dura,
del midollo spinale o delle
radici nervose) (6). Se il
paziente viene sistemato
prono il dolore all’arto inferiore comincia a comparire
come fastidio, per poi
aumentare d’intensità. Se il
paziente effettua delle estensioni del tronco da prono il
dolore aumenta (test d’iperestensione lombare: positivo
per disfunzioni segmentali)
(5).
Data la positività dei test, si
ipotizza la presenza di una
patologia radicolare legata a
una problematica di protrusione discale, legata forse al
sovraccarico tensionale della
componente paravertebrale
lombare: vengono pertanto
effettuate manovre di scarico
del rachide, quali pompage
cervicale, pompage del sacro
e pompage lombare in flessione passiva degli arti inferiori, durante le quali il
paziente riferisce un lieve
miglioramento della sintomatologia. Quanto rilevato
conferma pertanto l’ipotesi
di una radicolopatia di origine discale.
Per confermare la diagnosi, al
paziente viene consigliato di
sottoporsi a una risonanza
magnetica del rachide lombare (fig. 2), nella quale si
apprezza un “prolasso del
disco intraforaminale a sinistra L3-L4”. La radice nervosa
in quel segmento è direttamente interessata (in questo
caso, è la radice L3 sinistra): il
disco sposta la radice nervosa
L3 leggermente rostralmente
e posteriormente. Oltre a
quanto rilevato in sede diagnostica, è statisticamente
anche provato che il prolasso
discale a livello L3-L4 è il più
comune (7).
Trattamento
Il paziente viene pertanto
rimandato dal medico di
base, che prescrive una terapia infiltratoria in regione
L3-L4. Parallelamente, il
paziente effettua delle sedute
di terapia di scarico del rachide attraverso pompages ed
esercizi di scarico in flessione
del rachide da supino di tipo
McKenzie. Al cessare della
sintomatologia, agli esercizi
in flessione vengono addizionati esercizi in estensione da
supino e sedute di rieducazione posturale globale.
Dopo circa 45 giorni di trattamento il paziente non
avverte più dolore e riprende
senza problemi l'attività
sportiva, con la raccomandazione di continuare gli esercizi di mantenimento.
Conclusioni
La diagnosi funzionale del
fisioterapista è una sezione
fondamentale della presa in
carico e della cura di qualunque paziente. Essa costituisce
parte non solo della seduta
fisioterapica, ma bensì di
tutto il percorso clinico, valutativo e terapeutico della persona, inteso nella sua più
completa accezione di multi-
disciplinarietà di figure professionali agenti e interagenti.
La funzione sostanziale della
diagnosi differenziale in
fisioterapia è quella di indirizzare a un trattamento riabilitativo corretto e di evitare
terapie non funzionali
oppure dannose. Il fisioterapista può combinare le sue
capacità diagnostiche con
quelle di altri specialisti e/o
con tecniche di imaging per
ottenere i risultati clinici
migliori e terapeuticamente
più efficaci.
Bibliografia
1. Kidd M, Hubbard C.
Introducing journal of medical
case reports. J Med Case Rep
2007 Feb 2;1:1.
2. Takebayashi S, Takasawa H,
Banzai Y, Miki H, Sasaki R,
Itoh Y, Matsubara S.
Sonographic findings in muscle
strain injury: clinical and MR
imaging
correlation.
J
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Med
1995
Dec;14(12):899-905.
3. McCluskey WP et al. The
cavovarus foot deformity.
Etiology and management.
Clin Orthop Relat Res 1989
Oct;(247):27-37.
4. Macintosh BR et al. Skeletal
muscle: form and function.
Champaign, IL: Human
Kinetics, 1996.
5. Buckup K. Clinical tests for
the musculoskeletal system:
examinations, signs, phenomena. Thieme, 2008.
6. Butler D, Gifford L. Adverse
mechanical tensions in the
nervous system. Physiotherapy
1989; 75: 622–629.
7. Wetzel FT, Hanley EN. Spine
surgery: a practical atlas. New
York, NY: McGraw Hill; 2001.
> Fig. 2: risonanza magnetica pesata in T2 del tratto lombare del paziente. Si noti il prolasso del disco intraforaminale indicato dalla freccia
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?
QUESITO
DIAGNOSTICO
FORMAZIONE CONTINUA
LA SOLUZIONE A PAGINA
22
A CURA DI
GIORGIO CASTELLAZZI
Franca è una signora di 65 anni che vive a Milano e
lavora con soddisfazione come dirigente in un’azienda di comunicazione.
Da qualche mese lamenta algia all’arto superiore di
destra, irradiata a braccio e mano omolaterali: il
medico di famiglia, pensando si potesse trattare di
una problematica legata al rachide cervicale, ha fatto
eseguire una radiografia mirata al collo, risultata
negativa, e anche una risonanza magnetica, senza
reperti di rilievo.
ESAMI DI LABORATORIO
E STRUMENTALI
I trattamenti antidolorifici si sono rivelati di scarso
beneficio, per cui è stata richiesta anche una radiografia di spalla e omero destri (1): essa ha portato alla
luce una grossolana lesione litica che interessa il tratto meta-diafisario prossimale dell’omero stesso, senza
calcificazioni.
Sono stati subito eseguiti esami a tappeto del sangue
riportanti solo lieve anemia microcitica, banda oligoclonale all’elettroforesi e glicosuria.
La risonanza magnetica (2), giustamente richiesta
come esame di secondo livello, ha confermato tessuto patologico endo-osseo al tratto meta-diafisario
prossimale dell’omero, che erode la corticale e invade
i tessuti molli adiacenti.
>
RX (1) omero, pr. frontale
>
RM (2) coronale, T2
>
RM (2) assiale, T1
>
RM (2), coronale, SPAIR
>
RM (2) sagittale, T1
>
RM (2) assiale, T2 FFE
IPOTESI DIAGNOSTICHE
Presa visione dell’iconografia a disposizione, qual è
l’ipotesi più plausibile?
•
•
•
•
Metastasi
Mieloma
Condrosarcoma
Sarcoma di Ewing
<< <<
CORSI E CONGRESSI
22
L’ A g e n d a d e l l ’ O r t o p e d i c o
14 giugno
XVII Congresso Regionale ACOTO
Le fratture articolare: lo stato dell'arte
Napoli, Hotel Royal Continental
Segreteria Organizzativa: Ad Arte srl
Tel. 051.19936160 - Fax 051.19936700
[email protected] - www.adarteventi.com
14-15 giugno
141° Riunione della Società Emiliano-RomagnolaTriveneta di Ortopedia e Traumatologia (SERTOT)
Fratture estremo prossimale dell'omero
Revisione delle protesi d'anca
Trieste
Segreteria Organizzativa: MV Congressi
Tel. 0521.290191 - Fax 0521.291314
[email protected] - www.mvcongressi.com
15 giugno
Artroscopia e medicina rigenerativa: nuove
prospettive. La ricostruzione del difetto condrale
La riparazione della lesione massiva della cuffia
dei rotatori
Roma, Aula Magna - Ospedale Forlanini
Segreteria Organizzativa: Balestra Congressi
Tel. 06.2148068 - [email protected]
21 giugno
Corso SIdA. La via anteriore mininvasiva
nella chirurgia protesica dell’anca
Bologna, Istituto Ortopedico Rizzoli
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.chirurgiaanca.com
Tabloid di Ortopedia Anno VIII - numero 4 maggio 2013
Mensile di informazione, cultura, attualità
Direttore responsabile
Paolo Pegoraro [email protected]
Redazione
Andrea Peren [email protected]
Rachele Villa [email protected]
Segreteria di redazione e traffico
Maria Camillo [email protected]
Tel. 031.789085 - Fax 031.6853110
Grafica e impaginazione
Minù Art • boutique creativa - www.minuart.it
Hanno collaborato in questo numero: Cosma Capobianco,
Giorgio Castellazzi, Monica Oldani, Renato Torlaschi
PUBBLICITÀ
Direttore commerciale
Giuseppe Roccucci [email protected]
Vendite
Stefania Bianchi [email protected]
Sergio Hefti (Agente) [email protected]
Manuela Pavan (Agente) [email protected]
TIRATURA DI QUESTO NUMERO: 8.000 copie
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21-22 giugno
XIII Congresso SICOOP
Relive surgery: approccio multidisciplinare e
innovativo alla patologia ortopedica
Genova, Palazzo Ducale Fondazione Cultura
Segreteria Organizzativa: Balestra Congressi
Tel. 06.2148068 - Fax 06.62277364
[email protected]
1 luglio
1° Corso base sul trattamento meniscale
"Meniscus pathology: remove, repair, replace"
Bologna, Istituto Ortopedico Rizzoli
Segreteria Organizzativa: OIC srl
Tel. 055.50351 - Fax 055.5001912 - [email protected]
11-14 luglio
Annual Meeting of the American Orthopaedic
Society for Sports Medicine (AOSSM)
Chicago, Usa, Sheraton Hotel and Towers
www.sportsmed.org
11-13 settembre
17th meeting ISOLS
International Society of Limb Salvage
"Common language for the new century”
Bologna, Palazzo Re Enzo
Segreteria Organizzativa: Ad Arte srl
Tel. 051.19936160 - Fax 051.19936700
[email protected] - www.isols2013.org
19-20 settembre
3rd Current Concept SIGASCOT "Le Gonartrosi"
Catania, Sheraton Catania & Conference Center
Segreteria Organizzativa: OIC srl
Tel. 055.50351 - Fax 055.5001912 - [email protected]
26-28 settembre
6° Trauma Meeting
Innovazioni in traumatologia - Le fratture esposte
Riccione (RN), Palazzo dei Congressi
Segreteria Organizzativa: Ad Arte srl
Tel. 051.19936160 - Fax 051.19936700
[email protected]
2-4 ottobre
XXI Congresso Nazionale della Società Italiana di
Artroscopia (SIA)
Artroscopia e Sport
Pesaro, Adriatic Arena
Segreteria Organizzativa: Dynamicom srl
Fiorella Mortara - [email protected]
Tel. 02.89693750 - Fax 02.201176
3-5 ottobre
51° Congresso Nazionale SICM
"Artroscopia e artroplastica del polso: metodiche
a confronto"
10° Congresso Nazionale GIS RASM-AIRM
"Il trattamento conservativo in riabilitazione della
mano e dell’arto superiore"
Rimini
Segreteria Organizzativa: PLS Educational
Tel 055.24621 - Fax 055.2462270
[email protected] - www.sicm.it
ORTORISPOSTA
RISPOSTA AL QUESITO DIAGNOSTICO
La diagnosi correttà è quella di metastasi, come da risultato bioptico. La paziente infatti, alcuni anni orsono, è stata
sottoposta a nefrectomia destra per carcinoma, finora
senza segni di ripresa di malattia.
Le altre ipotesi diagnostiche sono poco probabili.
Mieloma: normalmente di tratta di lesioni plurime, mentre
questa è singola; normalmente sono lesioni tondeggianti,
mentre questa è irregolare; normalmente la corticale è
dentellata, non francamente erosa.
Condrosarcoma: anch’esso si sviluppa principalmente
nella IV e VI decade di vita, ma in genere presenta calcificazioni nel contesto (anche se non sempre).
Sarcoma di Ewing: non è compatibile con l’età avanzata.
3-5 ottobre
International symposium intra articular treatment
Barcellona, Spagna
Segreteria Organizzativa: Dynamicom srl
Valentina Arena - Fiorella Mortara
Tel. 02.89693762 - Fax 02.201176
[email protected]
[email protected]
www.isiat.it
5 ottobre
La riprotesizzazione di anca e ginocchio,
l'esperienza dei giovani ortopedici
Campi Bisenzio, Hotel 500 Firenze
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected]
5 ottobre
50° Congresso ALOTO
Il ginocchio varo: dalla fisiopatologia ai trattamenti
Roma, Aula della Biblioteca Alessandrina
Segreteria Organizzativa: Balestra Congressi
Tel. 06.2148068 - [email protected]
10-12 ottobre
62° Congresso Nazionale SINch
Palermo, San Paolo Palace Hotel
Segreteria Organizzativa: CSR Congressi srl
Tel. 051.765357 - Fax 051.765195
[email protected] - www.sinch.it
12 ottobre
XIV Congresso Regionale APLOTO
Alterazioni morfologiche e meccaniche dell'arto
inferiore. Diagnosi e terapia
Martina Franca (TA)
Segreteria Organizzativa: Ad Arte srl
Tel. 051.19936160 - Fax 051.19936700
[email protected] - www.adarteventi.com
13-16 ottobre
8th Combined Meeting of Orthopaedic Research
Societies (CORS)
San Servolo, Venezia
Segreteria Organizzativa: OIC Congressi
Tel. 055.50351 - Fax 055.5001912
[email protected] - www.cors2013.org
Riunione Sertot
A Trieste il 14 e 15 giugno alla 141esima riunione della
Società emiliano-romagnola-triveneta di ortopedia e traumatologia (Sertot) si discuterà delle problematiche relative
alla diagnosi precoce e al trattamento delle patologie in due
ambiti strettamente ortopedici: le fratture estremo prossimale dell’omero e le revisioni delle protesi d’anca.
«Le fratture dell’estremo prossimale dell’omero sono sempre
in aumento in quanto le persone anziane, spesso affette da
osteoporosi, sono obbligate a muoversi e quindi è più frequente che nelle cadute riportino traumi che coinvolgono
molto spesso l’arto superiore nei tentativi di difesa, per evitare danni più gravi – ci ha spiegato il professor Giovanni
Fancellu, direttore della clinica ortopedica traumatologica
dell’Università di Trieste –. Per quanto riguarda la revisione
di protesi d’anca anche queste sono in aumento visto che
negli anni precedenti sono state impiantate un numero
importante di protesi delle quali alcune, alla luce degli studi
attuali, non erano certamente le più adatte – spiega il chirurgo, che traccia la rotta per il futuro: «le generazioni attuali di
protesi, se ben posizionate, si spera avranno una durata maggiore e soprattutto siano meno dolorose».
Il prossimo appuntamento con la Sertot è il corso autunnale
di Piacenza, organizzato da Pietro Maniscalco, Giuseppe
Leddi e Luigi Bisogno sul tema delle fratture articolari dell’arto superiore.
Per informazioni
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