Gershom Scholem La cabala INTRODUZIONE. Note generali. "Cabala" è il termine tradizionale più comunemente usato per indicare il patrimonio degli insegnamenti esoterici del Giudaismo e del misticismo giudaico, in particolare le forme che quest'ultimo assunse durante il Medioevo a partire dal secolo XII. Nel suo senso più ampio, indica tutti i successivi movimenti esoterici nell'ambito del Giudaismo che si evolvettero dalla fine del periodo del Secondo Tempio e divennero fattori attivi della storia ebraica. La Cabala è un fenomeno assolutamente unico, e non deve essere ritenuta identica a ciò che nella storia della religione viene chiamato "misticismo". E' misticismo, in pratica; ma nel contempo è anche esoterismo e teosofia. Il senso in cui può venire chiamata misticismo dipende dalla definizione del termine, che è oggetto di controversia tra gli specialisti. Se il termine viene circoscritto alla profonda aspirazione ad una diretta comunione umana con Dio attraverso l'annientamento dell'individualità (bittul ha-yesh nella terminologia hassidica), allora soltanto alcune manifestazioni della Cabala possono venire designate come tali, poiché furono pochi i cabalisti che ricercarono tale finalità, e ancora meno furono coloro che la formularono apertamente quale loro scopo finale. Tuttavia, la Cabala può venire considerata misticismo in quanto ricerca una percezione di Dio e della creazione i cui elementi intrinseci trascendono la portata dell'intelletto, benché raramente quest'ultimo venga sminuito o respinto dai cabalisti. Essenzialmente, questi elementi venivano percepiti mediante la contemplazione e l'illuminazione, che spesso sono rappresentate nella Cabala come la trasmissione di una rivelazione primeva relativa alla natura della Torah e ad altri argomenti religiosi. Nella sua essenza, tuttavia, la Cabala si allontana dall'approccio razionale e intellettuale alla religione. Ciò accadeva persino tra quei cabalisti i quali ritenevano che fondamentalmente la religione fosse soggetta all'indagine razionale, o che, almeno, esistesse un accordo tra la via della percezione intellettuale e lo sviluppo della prospettiva mistica nei confronti della creazione. Per alcuni cabalisti, lo stesso intelletto divenne un fenomeno mistico. Quindi, noi troviamo nella Cabala un'insistenza paradossale sulla congruenza tra intuizione e tradizione. È questa insistenza, unita all'associazione storica già accennata nello stesso termine "kabbalah" (qualcosa trasmesso per tradizione), che indica le differenze basilari tra la Cabala e altre varietà di misticismo religioso identificate in modo meno stretto con la storia di un popolo. Tuttavia, tra la Cabala e il misticismo greco e cristiano vi sono elementi comuni, e persino legami storici. Come altri tipi di misticismo, anche la Cabala attinge alla coscienza mistica della trascendenza di Dio e della Sua immanenza nella vera vita religiosa, ogni aspetto della quale è una rivelazione di Dio, sebbene Dio stesso sia chiaramente percepito tramite l'introspezione dell'uomo. Questa esperienza duale e apparentemente contraddittoria di Dio che si cela e si rivela determina la sfera essenziale del misticismo, e nel contempo ostacola altre concezioni religiose. Il secondo elemento nella Cabala è quello della teosofia, che si propone di rivelare i misteri della vita occulta di Dio e le relazioni tra la vita divina da una parte e la vita dell'uomo e della creazione dall'altra. Questo tipo di speculazioni occupa un'area vasta e cospicua nell'insegnamento cabalistico. Talora il loro nesso con il piano mistico diventa piuttosto tenue e viene superato da una vena interpretativa e omiletica che occasionalmente produce addirittura una sorta di casistica (pilpul) cabalistica. Nella forma, la Cabala divenne in larga misura una dottrina esoterica. Elementi mistici ed esoterici coesistono nella Cabala in un modo suscettibile di far insorgere confusioni. Per sua stessa natura, il misticismo è conoscenza che non può essere comunicata direttamente, ma può essere espressa soltanto per mezzo di simboli e metafore. La conoscenza esoterica, tuttavia, in teoria può essere trasmessa; ma coloro che la possiedono hanno la proibizione di trasmetterla, oppure non vogliono farlo. I cabalisti posero in risalto questo aspetto esoterico imponendo ogni sorta di limitazioni alla propagazione dei loro insegnamenti, sia per quanto riguardava l'età degli iniziati, le qualità morali loro richieste, o il numero degli studenti dinanzi ai quali potevano venire esposti tali insegnamenti. Un esempio tipico è la descrizione delle condizioni per gli iniziati della Cabala, che si trova in Or Ne'erav di Moses Cordovero. Spesso tali limitazioni venivano in pratica ignorate, nonostante le proteste di molti cabalisti. La pubblicazione di opere cabalistiche e l'influenza della Cabala su ambienti sempre più vasti disgregarono queste restrizioni, soprattutto per quanto concerneva gli insegnamenti su Dio e l'uomo. Tuttavia, rimasero diversi campi in cui queste limitazioni venivano ancora più o meno rispettate: per esempio, nelle meditazioni sulle combinazioni di lettere (hokhmat ha-zeruf) e nella Cabala pratica. Molti cabalisti negavano l'esistenza di un qualunque sviluppo storico nella Cabala. La vedevano come una sorta di rivelazione primordiale che era stata concessa ad Adamo o alle prime generazioni, e che permaneva, sebbene nuove rivelazioni venissero fatte di tempo in tempo, in particolare quando la tradizione era stata dimenticata o interrotta. Questa nozione della natura della sapienza esoterica venne espressa in opere apocrife come il Libro di Enoch, fu posta ancora in risalto nello Zohar, e servì quale base per la disseminazione dell'insegnamento cabalistico in Sefer ha-Emunot di Shem Tov b. Shem Tov (c. 1400) e in Avodat ha-Kodesh di Meir b. Gabbai (1567). Venne largamente accettata la nozione che la Cabala fosse la parte esoterica della Legge Orale data a Mosè sul Sinai. Molte genealogie della tradizione, che appaiono nella letteratura cabalistica e che avevano lo scopo di suffragare l'idea della continuità della tradizione segreta, sono errate e mal concepite, in quanto prive di ogni valore storico. In effetti, furono gli stessi cabalisti che in diversi casi diedero esempi dello sviluppo storico delle loro idee, poiché affermano che esse sono deteriorate in una certa misura rispetto alla tradizione originale, che trovò la sua espressione nell'incremento dei sistemi cabalistici, oppure le vedono come parte di un progredire graduale verso la rivelazione completa della sapienza segreta. Raramente i cabalisti cercano di acquisire un orientamento storico, ma alcuni esempi di questa metodologia si possono trovare in Emunat Hakhamim di Solomon Avi'ad Sar-Shalom Basilea (1730) e in Diurei Soferim di Zadok ha-Kohen di Lublino (1913). Fin dall'inizio del suo sviluppo, la Cabala abbracciò un esoterismo strettamente affine allo spirito dello gnosticismo, che non si limitava a impartire insegnamenti sulla via mistica, ma includeva anche idee sulla cosmologia, l'angelologia e la magia. Soltanto in seguito, e in conseguenza del contatto con la filosofia giudaica medievale, la Cabala divenne una "teologia mistica" giudaica, elaborata più o meno sistematicamente. Questo processo portò a una separazione degli elementi mistici e speculativi rispetto agli elementi occulti e specialmente magici, una divergenza che talora era molto netta, ma mai totale. Questo trova espressione nell'uso separato dei termini Kabbalah iyyunit (Cabala speculativa) e Kabbalah ma'asit (Cabala pratica), evidente a partire dall'inizio del secolo XIV, che era semplicemente un'imitazione della divisione della filosofia in "speculativa" e "pratica" operata da Maimonide nel capitolo 14 di Millot ha-Higgayon. Non vi è dubbio che alcuni ambienti cabalistici (inclusi quelli di Gerusalemme fino ai tempi moderni) conservarono entrambi gli elementi nella loro dottrina segreta, che poteva venire acquisita mediante la rivelazione o i riti iniziatici. Quando il Giudaismo rabbinico si fu cristallizzato nella halakhah, la maggior parte delle forze creative suscitate dai nuovi stimoli religiosi, che non avevano né l'aspirazione né il potere di mutare la forma esteriore di un Giudaismo halakhico saldamente stabilito, trovarono espressione nel movimento cabalistico. Generalmente parlando, tali forze operavano dall'interno, cercando di fare della Torah tradizionale e della vita condotta secondo i suoi dettami un'esperienza interiore più profonda. La tendenza generale appare evidente sin da una data molto remota; il suo scopo era di ampliare le dimensioni della Torah e di mutare questa legge del popolo d'Israele nella segreta legge interiore dell'universo, trasformando nel contempo il hasid o zaddik ebreo in un uomo con un ruolo vitale nel mondo. I cabalisti furono i principali simbolisti del Giudaismo rabbinico. Per la Cabala, il Giudaismo in tutti i suoi aspetti era un sistema di simboli mistici che rispecchiava il mistero di Dio e dell'universo, e il fine dei cabalisti consisteva nello scoprire e inventare chiavi per la comprensione di questo simbolismo. A questa finalità è dovuta l'enorme influenza della Cabala quale forza storica, che determinò i lineamenti del Giudaismo per molti secoli; ma può anche spiegare i pericoli, le rivolte e le contraddizioni interni ed esterni che la realizzazione di tale fine portò nella sua scia. I termini usati per Cabala Inizialmente, la parola "kabbalah" non denotava in particolare una tradizione mistica o esoterica. Nel Talmud è usata per indicare le parti extra-Pentateuco della Bibbia, e nella letteratura post-talmudica la Legge Orale viene chiamata anche "kabbalah". Negli scritti di Eleazar di Worms (inizio del secolo XIII), le tradizioni esoteriche (relative ai nomi degli angeli e ai magici Nomi di Dio) vengono indicate come "kabbalah", per esempio nella sua opera Hilkhot ha-Kisse (in Merkabah Shelemah, 1921) e in Sefer ha-Shem. Nel suo commento al Sefer Yezirah (c. 1130), dove discute la creazione dello Spirito Santo, cioè la Shekhinah, Judah b. Barzillai afferma che i saggi "usavano trasmettere affermazioni di questo genere ai loro discepoli ed ad altri saggi, privatamente e in un sussurro, tramite la kabbalah". Tutto ciò dimostra che il termine "kabbalah" non veniva ancora usato per indicare un settore particolare. Il nuovo uso preciso ebbe origine nella cerchia di Isaac il Cieco (1200), e venne adottato da tutti i suoi discepoli. Kabbalah è soltanto uno dei numerosi termini usati, durante un periodo superiore ai millecinquecento anni, per designare il movimento mistico, il suo insegnamento o i suoi seguaci. Il Talmud parla di sitrei torah e razei torah ("segreti della Torah"), e alcune parti della tradizione segreta vengono chiamate ma'aseh bereshit (letteralmente "l'opera della creazione") e ma'aseh merkabah ("l'opera del carro"). Almeno uno dei gruppi mistici si chiamava yoredei merkabah ("coloro che discendono al carro"), un'espressione straordinaria il cui significato ci sfugge (forse allude a coloro che discendono in se stessi per percepire il carro). Nella letteratura mistica, a partire dalla fine del periodo talmudico, ricorrono già i termini ba'alei ha-sod ("signori del mistero") ed anshei emunah ("uomini di fede"), e quest'ultimo appare già nel Libro di Enoch slavo. Nel periodo dei cabalisti provenzali e spagnoli, la Cabala viene chiamata anche hokhmah penimit ("sapienza interiore"), forse una frase presa a prestito dall'arabo; i cabalisti vengono chiamati spesso maskilim ("coloro che comprendono"), con riferimento a Daniele 12:10, oppure doreshei reshumot ("coloro che interpretano i testi"), un'espressione talmudica per "allegoristi". Nello stesso modo in cui la parola "kabbalah" venne limitata nel significato alla tradizione mistica o esoterica, all'inizio del secolo XIII, le parole emet ("verità"), emunah ("fede") e hokhmah ("sapienza") vennero usate per designare la verità mistica o interiore. Da qui l'uso diffusissimo di hokhmat ha-emet ("la scienza della verità") e derekh ha-emet ("la via della verità"). Si trova inoltre l'espressione hakhmei lev ("dal cuore saggio"), da Esodo 28:3. I cabalisti vengono chiamati inoltre ba'alei ha-yedi'ah ("i signori della conoscenza gnostici) oppure ha-yode'im ("coloro che sanno"), a partire da Nahmanides. Nahmanides, inoltre, coniò la frase yode'ei hen ("coloro che conoscono la grazia") da Ecclesiaste 9:11, dove hen è usato come abbreviazione per hokhmah nistarah ("sapienza segreta"). L'autore dello Zohar usa termini come benei meheimnuta ("figli della fede"), benei heikhala de-malka ("figli del palazzo del re"), yade'ei hokhmeta ("coloro che conoscono la sapienza"), yade'ei middim ("coloro che mietono il campo"), e inon de-allu unefaku ("coloro che sono entrati e usciti", cioè "indenni"), da Hagigah 14b. Numerosi autori chiamano i cabalisti ba'alei ha-avodah ("signori del servizio"), cioè coloro che conoscono la vera via interiore al servizio di Dio. Nella parte principale dello Zohar il termine Kabbalah non viene menzionato; ma è usato negli strati posteriori, nella Ra'aya Meheimna e nel Sefer ha-Tikkunim. Dall'inizio del secolo XIV, il nome Kabbalah si sostituì quasi completamente a tutte le altre designazioni. L'EVOLUZIONE STORICA DELLA CABALA Gli inizi del misticismo e dell'esoterismo L'evoluzione della Cabala ha le sue fonti nelle correnti esoteriche e teosofiche esistenti tra gli ebrei in Palestina e in Egitto nell'era che vide la nascita del Cristianesimo. Queste correnti sono legate alla storia della religione ellenistica e sincretista, alla conclusione dell'evo antico. Gli studiosi sono concordi circa la misura dell'influenza esercitata da queste tendenze, e inoltre dalla religione persiana, sulle forme iniziali del misticismo ebraico. Alcuni sottolineano l'influenza iraniana sullo sviluppo generale del Giudaismo durante il periodo del Secondo Tempio, in particolare su certi movimenti come quello apocalittico ebraico: un'opinione, questa, suffragata da molti esperti delle diverse forme di gnosticismo, come R. Reitzenstein e G. Widegren. L'esistenza di una notevole influenza greca su quelle correnti viene affermata da un buon numero di studiosi, e per spiegarla sono state avanzate varie teorie. Molti specialisti dello Gnosticismo dei primi tre secoli dell'era comune lo considerano fondamentalmente un fenomeno greco o ellenistico, certi aspetti del quale apparvero in ambienti ebraici, in particolare nelle sette periferiche del Giudaismo rabbinico, ha-minim. La posizione di Filone d'Alessandria e la sua relazione con il Giudaismo palestinese ha uno speciale peso in queste controversie. Contrariamente ad alcuni studiosi come Harry Wolfson, che vedono Filone come un filosofo greco in vesti ebraiche, altri, come Hans Lewy ed Erwin Goodenough, lo interpretano come un teosofo o addirittura un mistico. L opera dl Filone, secondo il loro giudizio, deve essere veduta come un tentativo di spiegare la fede d'Israele nei termini del misticismo ellenistico, il cui coronamento era l'estasi. Nella sua opera monumentale, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period (13 voll. 1953-68), Goodenough afferma che, in contrasto con il Giudaismo palestinese, che trovò espressioni nella halakhah e nell'aggadah e nelle idee esoteriche che erano sviluppi autoctoni, il Giudaismo della Diaspora presentava scarsi indizi dell'influenza palestinese. Invece, egli sostiene, aveva una spiritualità specifica basata su un simbolismo che non soltanto ha radici nella halakhah, ma è dotato di un contenuto immaginativo dal significato più o meno mistico. Egli ritiene che le testimonianze letterarie, come gli scritti di Filone e del Giudaismo ellenistico, offrano chiavi estremamente utili per la comprensione della documentazione archeologica e pittorica da lui raccolta con tanta abbondanza. Sebbene siano stati sollevati considerevoli dubbi sulle teorie basilari di Goodenough, nella sua grande opera c'è materiale sufficiente per stimolare un'indagine su aspetti del Giudaismo in precedenza trascurati e su prove sinora esaminate in modo insufficiente. La sua argomentazione sul significato fondamentalmente mistico dei simboli pittorici è inaccettabile; tuttavia egli è riuscito a stabilire un nesso tra certe testimonianze letterarie greche, copte e armene, e gli insegnamenti esoterici prevalenti del Giudaismo palestinese. Anche Yitzhak Baer ha suggerito un nesso molto simile tra le idee di Filone e il punto di vista dell'aggadah, incluso l'aggadah dei mistici. Il libro di Filone, De vita contemplativa, menziona l'esistenza di una comunità settaria di "adoratori di Dio" (therapeutes) i quali avevano già formulato un'interpretazione decisamente mistica della Torah quale corpo vivente; e questo spianava la strada a un'esegesi mistica della Scrittura. Un elemento importante, comune al Giudaismo alessandrino e a quello palestinese, è la speculazione sulla Sapienza Divina, che ha le sue radici scritturali in Proverbi 8 e Giobbe 28. Qui la sapienza è vista come una forza intermediaria, per mezzo della quale Dio crea il mondo. Ciò appare nell'apocrifa Sapienza di Salomone (7:25) come "un soffio del potere di Dio, e un chiaro fulgore della gloria dell'Onnipotente, poiché essa è un fulgore della luce eterna e uno specchio immacolato dell'opera di Dio, e un'immagine della Sua bontà" (Charles). Nel Libro di Enoch slavo, Dio comanda alla Sua Sapienza di creare l'uomo. La Sapienza è qui il primo attributo di Dio al quale venga data forma concreta quale emanazione della Gloria Divina. In molti ambienti, questa Sapienza divenne ben presto la stessa Torah, la "parola di Dio", la forma d'espressione della Potenza Divina. Queste interpretazioni del mistero della Sapienza dimostrano come poteva avvenire un'evoluzione parallela, da una parte tramite l'esegesi rabbinica delle parole della Scrittura, e dall'altra attraverso l'influenza delle speculazioni filosofiche greche sul Logos. Va ricordato che non esistono prove inconfutabili che gli scritti di Filone avessero un'effettiva influenza diretta sul Giudaismo rabbinico nel periodo post-tannaitico, e il tentativo di provare che il Midrash ha-Ne'lam dello Zohar non è altro che un Midrash ellenistico (S. Belkin in: Sura, 3 (1958), 25-92) non è riuscito. Tuttavia, il fatto che il karaita Kirkisani (X secolo) conoscesse certe citazioni tratte dagli scritti di Filone dimostra che alcune delle idee pervennero, forse tramite canali cristiano-arabi, ai membri delle sette ebraiche del Vicino Oriente. Ma da ciò non si deve dedurre che vi fosse un'influenza continua fino a quel periodo, e tanto meno fino al tempo della formulazione della Cabala durante il Medioevo. I paralleli specifici tra l'esegesi di Filone e quella cabalistica vanno attribuiti alla similarità del metodo esegetico, che naturalmente produce, di tanto in tanto, risultati identici. Le teorie riguardanti le influenze persiane e greche tendono a trascurare il dinamismo interiore dell'evoluzione che stava avvenendo nel Giudaismo palestinese, e che era di per sé capace di produrre movimenti di carattere mistico ed esoterico. Questo tipo di sviluppo si può osservare anche negli ambienti la cui influenza storica fu importantissima e decisiva per il futuro del Giudaismo, ad esempio tra i farisei, i tannaim e gli amoraim, vale a dire nel cuore stesso del Giudaismo rabbinico. Inoltre, vi erano tendenze simili in altre sfere, al di fuori della corrente principale, in quelle la cui influenza sul Giudaismo dei periodi successivi è oggetto di controversia: gli esseni, la setta di Qumran (se pure non si tratta della stessa cosa), e le diverse sette gnostiche alla periferia dell'Ebraismo, la cui esistenza è attestata dagli scritti dei Padri della Chiesa. Alcuni hanno pensato di dimostrare l'esistenza di tendenze mistiche già in tempi biblici (Hertz, Horodezky, Lindblom, Montefiore), ma è quasi certo che i fenomeni collegati da questi autori al misticismo, come la profezia e la pietas di certi salmi, appartengono ad altri filoni della storia della religione. Storicamente parlando, l'esistenza di società chiuse e organizzate di mistici è dimostrata soltanto a partire dalla conclusione dell'era del Secondo Tempio: questo è chiaramente attestato dalla lotta in corso in quel periodo tra diverse forze religiose e dalla tendenza, allora corrente, di scavare più a fondo nella speculazione religiosa originale. Esoterismo apocalittico e misticismo della Merkabah Dal punto di vista cronologico, è nella letteratura apocalittica che vediamo apparire per la prima volta idee di carattere specificamente mistico, riservate agli eletti. Gli studiosi non sono d'accordo nel ritenere se le origini di questa letteratura siano da ricercare tra i farisei e i loro discepoli o tra gli esseni, ed è possibile che tendenze apocalittiche apparissero negli uni e negli altri. Sappiamo da Giuseppe che gli esseni possedevano una letteratura di contenuto tanto magico quanto angelologico. Il suo silenzio per quanto concerne le loro idee apocalittiche può essere interpretato come desiderio di nascondere ai lettori pagani questo aspetto dell'ebraismo contemporaneo. La scoperta delle testimonianze letterarie della setta di Qumran dimostra che queste idee vi avevano trovato ricetto. Essi possedevano il Libro di Enoch originale, sia in ebraico che in aramaico, benché molto probabilmente fosse stato composto nel periodo antecedente alla scissione tra i farisei e i membri della setta di Qumran. In effetti, tradizioni simili a quelle incorporate nel Libro di Enoch pervennero al Giudaismo rabbinico al tempo dei tannaim e degli amoraim, ed è impossibile accertare con precisione il terreno di coltura di questo tipo di tradizione, fino a quando i problemi presentati dalla scoperta degli scritti di Qumran non saranno stati risolti. Il Libro di Enoch fu seguito da testi apocalittici fino al tempo dei tannaim e, in modi diversi, anche più tardi. La conoscenza esoterica contenuta in questi libri riguardava non soltanto la rivelazione della fine del tempo e dei suoi terrori, ma anche la struttura del mondo occulto e i suoi abitatori: il cielo, il Giardino dell'Eden, e Gehinnom, gli angeli e gli spiriti maligni, e il fato delle anime in questo mondo occulto. Vi sono poi rivelazioni relative al Trono di Gloria e al suo Occupante, che dovrebbero venire apparentemente identificate con "i meravigliosi segreti" di Dio, menzionati dai Rotoli del Mar Morto. Qui è possibile stabilire un nesso tra questa letteratura e le tradizioni assai più tarde relative al ma'aseh bereshir e al ma'aseh merkabah. Non soltanto il contenuto di queste idee è considerato esoterico: anche i loro autori nascondono la propria individualità e i propri nomi, celandosi dietro personaggi biblici come Enoch, Noè, Abramo, Mosè, Baruch, Daniele, Ezra ed altri. Questa operazione, perfettamente riuscita, ha reso estremamente difficile per noi determinare l'ambiente storico e sociale degli autori. Tale modello pseudoepigrafico continuò nella tradizione mistica durante i secoli successivi. La chiara tendenza all'ascetismo quale mezzo per prepararsi alla ricezione della tradizione mistica, già attestata nell'ultimo capitolo del Libro di Enoch, diviene un principio fondamentale per gli apocalittici, gli esseni, e la cerchia dei mistici della Merkabah che li seguirono. Fin dall'inizio, questo ascetismo pietista suscitò un'opposizione attiva che portò ad abusi e persecuzioni divenuti in seguito fattori caratteristici dell'intera evoluzione storica delle tendenze pietiste (hasidut) nel Giudaismo rabbinico. I misteri del Trono costituiscono qui un tema particolarmente elevato che, in larga misura, stabilì il modello delle prime forme del misticismo ebraico. Questo non aspirava alla comprensione della vera natura di Dio, ma a una percezione del fenomeno del Trono sul suo Carro, quale è descritto nel primo capitolo di Ezechiele, intitolato tradizionalmente ma'aseh merkabah. I misteri del mondo del Trono, insieme a quelli della Gloria Divina che vi sono rivelati, sono, nella tradizione esoterica ebraica, paralleli alle rivelazioni sul regno del divino nello Gnosticismo. Il XIV capitolo del Libro di Enoch, che contiene l'esempio più antico di questo tipo di descrizione letteraria, fu la fonte di una lunga tradizione visionaria della descrizione del mondo del Trono e dell'ascesa visionaria ad esso, che troviamo nei libri dei mistici della Merkabah. Oltre alle interpretazioni, alle visioni e alle speculazioni basate sul ma'aseh merkabah, altre tradizioni esoteriche cominciarono a cristallizzarsi intorno al primo capitolo della Genesi, che era chiamato ma'aseh bereshit. Questi due termini furono successivamente usati per descrivere tali argomenti. Misnah e Talmud (Hag. 2:1, e la corrispondente Gemara nel Talmud babilonese e in quello di Gerusalemme) mostrano che, nel primo secolo dell'era comune, in queste aree esistevano tradizioni esoteriche, e vi erano limiti severi alla discussione pubblica di questi argomenti: "La storia della creazione non deve essere esposta dinanzi a due persone, né il capitolo sul Carro dinanzi a una persona, a meno che questi sia un saggio e già abbia una comprensione dell'argomento". Le indicazioni esistenti della partecipazione di Johanan b. Zakkai e dei suoi discepoli a questa sorta di esposizione provano che questo esoterismo poteva crescere nel centro stesso del Giudaismo rabbinico in fase di sviluppo, e che di conseguenza questo Giudaismo aveva fin dall'inizio un aspetto esoterico particolare. D'altra parte, è possibile che la nascita delle speculazioni gnostiche, non accettate dai rabbini, inducesse molti di loro a procedere con grande cautela e ad adottare un atteggiamento polemico. Tale atteggiamento è espresso nella continuazione della Misnah citata più sopra: "Chiunque ponderi su quattro cose, meglio sarebbe per lui che non fosse mai venuto al mondo: ciò che vi è sopra, ciò che vi è sotto, ciò che vi era prima del tempo, ciò che vi sarà dopo". Abbiamo qui la proibizione delle stesse speculazioni che sono caratteristiche dello Gnosticismo, così come è definito negli "Estratti dagli scritti dello gnostico Teodoto" (Extraits de Thédote, a cura di F. Sagnard, 1948, para. 78). In realtà, questa proibizione veniva largamente ignorata, a quanto si può giudicare dalle molte affermazioni di tannaim ed amoraim riguardanti tali argomento e sparse nel Talmud e nei Midrashim. In un'epoca di risveglio spirituale e di profondi rivolgimenti religiosi, sorse nel Giudaismo un gran numero di sette con idee eterodosse, risultanti da una mescolanza di pulsioni interiori e di influenze esterne. Che esistessero o meno sette gnostiche alla periferia dell'Ebraismo prima dell'avvento del Cristianesimo è oggetto di congetture (si veda più sotto); ma non vi è dubbio che esistevano minim ("eretici") nel periodo tannaitico e soprattutto nel terzo e nel quarto secolo. In questo periodo una setta gnostica ebraica con nette tendenze antinomistiche era attiva a Sepphoris. Vi erano inoltre, ovviamente, gruppi intermedi, dai quali i membri di queste sette acquisivano una vasta conoscenza del materiale teologico sul ma'aseh bereshit e sul ma'aseh merkabah, e tra questi devono essere inclusi gli ofiti (adoratori del serpente) che erano sostanzialmente più ebrei che cristiani. Da questa fonte, una massa considerevole di tradizioni esoteriche venne trasmessa agli gnostici al di fuori del Giudaismo, i cui libri, molti dei quali sono stati scoperti nel nostro tempo, sono pieni di tale materiale, che si trova non soltanto in testi greci e copti del II e del III secolo, ma anche negli strati più antichi della letteratura mandaica, scritta in aramaico colloquiale. Nonostante tutte le profonde differenze nel punto di vista teologico, lo sviluppo del misticismo della Markabah tra i rabbini costituisce una concomitante ebraica alla Gnosi, e può venire chiamato "Gnosticismo ebraico e rabbinico". In questi ambienti, le idee teosofiche e le rivelazioni ad esse collegate si ramificano in molte direzioni, e quindi è impossibile parlare di un unico sistema. Fu creata inoltre una particolare terminologia mistica. In parte, essa si riflette nelle fonti dei Midrashim "normali", mentre in parte è limitata alle fonti letterarie dei mistici: la letteratura dei heikhalot e del ma'aseh bereshit. Verbi come histakkel, zafah, iyyen, e higgi's hanno significati specifici, e così pure sostantivi come ha-kavod, ha-kavod hagadol, ha-kavod ha-nistar, mara di-revuta, yozer bereshit, heikhalot, hadrei merkabah e altri. Particolarmente importante è l'uso consacrato del termine Kavod ("gloria"), quale nome per indicare Dio come oggetto d'una profonda ricerca mistica, nonché l'area generale della ricerca teosofica. Questo termine acquisisce un significato specifico, distinto dal suo uso scritturale, già nel Libro di Tobit e alla fine del Libro di Enoch, e continua a venire usato in questo modo nella letteratura apocalittica. Per contrasto, l'usò della parola sod ("mistero") in questo contesto era relativamente raro, e divenne generale soltanto nel Medioevo, mentre nei testi antecedenti viene usato più spesso raz ("segreto"). La terminologia della Merkabah si trova in un frammento d'inno nei Rotoli del Mar Morto, dove gli angeli lodano "l'immagine del Trono del Carro" (Strugnell). I membri della setta univano idee relative al canto degli angeli che stanno dinanzi al Carro, ad altre idee sui nomi e sui doveri degli angeli: e tutto questo è comune alla setta di Qumran e alle successive tradizioni del ma'aseh merkabah. Fin dall'inizio, queste tradizioni erano circonfuse da un alone di particolare santità. L'aggadah talmudica collega l'esposizione della Merkabah alla discesa del fuoco dal cielo, che circonda colui che effettua l'esposizione. Nella letteratura dei heikhalot sono usate altre espressioni più ardite per descrivere il carattere emotivo ed estatico di queste esperienze. Distinta dall'esposizione della Merkabah, che i rabbini davano durante la permanenza sulla terra, vi era la contemplazione estatica della Merkabah, un'esperienza compiuta come in un'ascesa ai cieli, cioè la "discesa alla Merkabah", tramite l'entrata nel pardes ("paradiso"). Questa non era soggetta all'esposizione e all'interpretazione, bensì alla visione e all'esperienza personale. La transizione, che ancora una volta collega la rivelazione della Merkabah alla tradizione apocalittica, è menzionata dal Talmud accanto alle tradizioni esegetiche (Hag. 14b). Riguarda i quattro saggi che "entrarono nelpardes". Il loro fato dimostra che qui ci troviamo di fronte ad esperienze spirituali raggiunte mediante la contemplazione e l'estasi. Simeon b. Azzai "guardò e morì"; Ben Zoma "guardò e fu colpito" (mentalmente); Elisha b. Avuyah, chiamato aher ("altro"), dimenticò il Giudaismo rabbinico e "tagliò i germogli", diventando apparentemente uno gnostico dualista; solo R. Akiva "entrò in pace e discese in pace", oppure, secondo un'altra lettura, "ascese in pace e discese in pace". Quindi R. Akiva, una figura centrale nel mondo del Giudaismo rabbinico, è anche il legittimo rappresentante di un misticismo nell'ambito dei suoi confini. Apparentemente, è per questo che Akiva e Ishmael, che era il suo compagno ed anche il suo avversario nelle questioni halakhiche, furono le colonne centrali e i principali portavoce nella successiva letteratura pseudoepigrafica dedicata ai misteri della Merkabah. Inoltre, il sorprendente carattere halakhico di questa letteratura dimostra che i suoi autori avevano solide radici nella tradizione halakhica e non nutrivano opinioni eterodosse. Negli ambienti mistici furono stabilite particolari condizioni per coloro che venivano ritenuti idonei ad essere iniziati alle dottrine e alle attività incluse in questi campi. Gli insegnamenti fondamentali venivano comunicati "in un sussurro" (Hag. 13b; Bereshit Rabbah, a cura di Theodor Albeck (1965), 19-20). Le condizioni più antiche che governavano la scelta degli idonei erano di due tipi. Nella Gemara (Hag. 13b) venivano formulate condizioni sostanzialmente intellettuali, oltre ai limiti di età ("allo stadio mediano della vita"); e nella prima parte di Heikhalot Rabbati sono enumerate certe qualità morali richieste nell'iniziato. Oltre a questo, a partire dal III e IV secolo, secondo Sherira Gaon (Ozar ha-Ge'onim a Hagigah (1931), Teshuvot, n. 12, p. 8) vengono usati metodi esteriori di valutazione, basati sulla fisiognomica e sulla chiromanzia (hakkarat panim ve-sidrei sirtutin). Seder Eliyahu Rabbah, capitolo 29, cita una baraita aramaica dei mistici della Merkabah sull'argomento della fisiognomica. Il frammento di un'altra baraita, scritta in ebraico con il nome di R. Ishmael, è stato conservato, e non vi è dubbio che facesse parte della letteratura della Merkabah. Lo stile e il contenuto provano che risale a una data antica (un altro frammento della Genizah fu pubblicato da I. Gruenwald) . La letteratura esoterica: i Heikhalot, il Ma'aseh Bereshit e la letteratura della magia La letteratura occupa un posto di importanza estrema nell'evoluzione dell'esoterismo e del misticismo. Ha innumerevoli connessioni con le tradizioni al di fuori dei suoi confini nel Talmud e nei Midrashim, e queste tradizioni talvolta si spiegano reciprocamente. Inoltre, la letteratura esoterica contiene una grande ricchezza di materiale che non si incontra altrove. Molti studiosi, inclusi Zunz, Graetz e P. Bloch, hanno tentato di dimostrare che una distanza immensa, in fatto di tempo e di tematica, separa le prime idee della Merkabah da quelle incorporate nel Talmud e nel Midrash, e hanno attribuito la composizione della letteratura della Merkabah all'era geonica. Per quanto sia possibile che alcuni dei testi non venissero pubblicati prima di tale periodo, non c'è dubbio che ampie sezioni ebbero origine in tempi talmudici, e che le idee centrali, oltre a molti dettagli, risalgono addirittura al I e al II secolo. Molti dei testi sono brevi, e in vari manoscritti vi è una quantità considerevole di materiale fondamentale privo di abbellimenti letterari. (Per un elenco di libri appartenenti a questa letteratura, si veda "Misticismo della Merkabah" a p. 375.) Le tradizioni qui raccolte non sono tutte dello stesso tipo, e indicano tendenze diverse esistenti tra i mistici. Troviamo qui descrizioni dettagliate del mondo del Carro, dell'ascesa estatica a quel mondo, e della tecnica usata per compiere tale ascesa. Come nella letteratura gnostica non ebraica, la tecnica dell'ascesa ha un aspetto magico e teurgico, e vi sono fortissimi legami tra la letteratura della Merkabah e la letteratura teurgica ebraica ed aramaica di questo periodo e del periodo geonico. Lo strato più antico dei heikhalot pone in forte risalto l'aspetto magico, che nell'applicazione pratica dei suoi insegnamenti è connesso al conseguimento della "contemplazione del Carro". È molto simile a numerosi testi importanti conservati tra i papiri magici greci e alla letteratura gnostica del tipo Pistis Sophia, che ebbe origine nel II e nel III secolo dell'era comune. La letteratura si riferisce a personaggi storici, la cui connessione con i misteri del Carro è attestata da Talmud e Midrash. L'ascesa dei suoi eroi al Carro (che nei Heikhalot Rabbati è volutamente chiamata "discesa") viene dopo un certo numero di esercizi preparatori di carattere estremamente ascetico. L'aspirante poneva la testa tra le ginocchia, una posizione fisica che può indurre stati alterati di coscienza e autoipnosi. Nel contempo, recitava inni di carattere estatico, i cui testi sono pervenuti fino a noi in diverse fonti, in particolare i Heikhalot Rabbati. Queste poesie, che sono tra i più antichi piyyutim a noi noti, indicano che gli "inni del Carro" come questi erano noti in Palestina già nel III secolo. Alcuni sono presentati come i cantici delle creature sante (hayyot) che sorreggono il Trono di Gloria, e il cui canto è già ricordato nella letteratura apocalittica. Le poesie hanno un loro stile specifico che corrisponde allo spirito della "liturgia celeste" ed hanno un'affinità linguistica con simili frammenti liturgici negli scritti della setta di Qumran. Quasi tutti si concludono con la kedushah ("santificazione") di Isaia 6:3, che viene usata come ritornello fisso. Isaac Nappaha, un amora palestinese del III secolo, mette una poesia simile sulla bocca delle giovenche che trasportarono l'Arca dell'Alleanza ( I Sam. 6:12) nella sua interpretazione di: "E le giovenche presero la via diritta" (va-yisharnah, inteso come "cantarono"; Av. Zar. 24b), perché egli scorge un parallelo tra le giovenche che trasportarono l'arca cantando e le creature sante che portano il Trono di Gloria con un canto di letizia. Questi inni mostrano chiaramente la concezione che i loro autori hanno di Dio. Egli è il Re santo, circondato da "maestà, timore e reverenza" nei "palazzi del silenzio". Sovranità, maestà e santità sono i Suoi attributi che più colpiscono. Non è un Dio vicino, bensì un Dio lontano dal campo della comprensione dell'uomo, sebbene la Sua gloria arcana possa venir rivelata all'uomo dal Trono. I mistici della Merkabah si occupano di tutti i dettagli del mondo superno, ce si estende nei sette palazzi del firmamento delle aravot (tra i sette firmamenti, il superiore); delle schiere angeliche che popolano i palazzi (heikhalot); dei fiumi di fuoco che scorrono dinanzi al Carro e dei ponti che li valicano; dell'ofan e del hashmal e di tutti gli altri dettagli del Carro descritti da Ezechiele. Ma il fine principale dell'ascesa è la visione di Colui che siede sul Trono, "un sembiante come il sembiante di un uomo su di esso" (Ezech. 1:26). Questa apparizione della Gloria nella forma d'uomo superno è il contenuto della parte più recondita del misticismo, chiamata Shi 'ur Komah ("misura del corpo"). L'insegnamento sulla "misura del corpo" del Creatore costituisce un grande enigma. Alcuni frammenti compaiono in diversi passi della letteratura del ma'aseh merkabah, mentre altri sono stati conservati separatamente. Essi enumerano le misure fantastiche di parti della testa, nonché di alcune membra. Inoltre, trasmettono "i nomi segreti" di tali membra, che sono tutti combinazioni inintelligibili di lettere. Sono pervenute fino a noi versioni diverse delle combinazioni di numeri e lettere, e perciò non possono essere considerate attendibili; e nel complesso non ci è chiaro il loro scopo (letterale o simbolico). Tuttavia, il versetto che racchiude la chiave dell'enumerazione è Salmi 147:5: "Grande è il nostro Signore, e possente di forza", che viene interpretato come significante che all'estensione del corpo o della misura di "nostro Signore" si allude nelle parole verav ko'ah ("e possente di forza"), che in gematria corrisponde a 236. Questo numero (236 x 10.000 leghe, e per giunta leghe non terrestri bensì celesti) è la misura fondamentale su cui si basano tutti i calcoli. Non è chiaro se vi sia una relazione tra le speculazioni sulla "grandezza del Signore del mondo" e il titolo mara di-revuta ("Signore della grandezza"), uno dei predicati di Dio che si trovano nella Genesi Apocrifa (p. 2, riga 4). Il termine gedullah ("grandezza"; per esempio nella frase "ofan [ruota] di grandezza") e gevurah ("potenza") ricorrono come nomi di Dio in numerosi testi dei mistici della Merkabah. Non possiamo escludere la possibilità di un flusso continuo di idee specifiche dalla setta di Qumran ai mistici della Merkabah e agli ambienti rabbinici nel caso dello Shi 'ur Komah e in altri campi. Il paradosso sta nel fatto che la visione dello Shi 'ur Komah è in realtà celata "alla vista di ogni creatura, e celata agli angeli ministri", ma "fu rivelata a R. Akiva nel ma' aseh merkabah" (Heikhalot Zutrati). Il mistico, quindi, afferra un segreto che neppure gli angeli possono comprendere. Nella seconda metà del II secolo una versione ellenizzata di questa speculazione si trova nella descrizione del "corpo della verità" data dallo gnostico Markos. Esistono anche numerose gemme gnostiche che, come i frammenti ebraici dello Shi'ur Komah, portano la figura di un uomo le cui membra sono iscritte con combinazioni magiche di lettere, ovviamente corrispondenti ai loro nomi segreti (cfr. C. Bonner, Hesperia, 23 (1954), 151). Un chiaro riferimento a questa dottrina si trova già nel Libro di Enoch slavo (13:8) : "Io ho veduto la misura dell'altezza del Signore, senza dimensione e senza forma, che non ha fine". Il passo rispecchia l'esatta terminologia ebraica. Almeno due versioni di questa dottrina erano correnti nei tempi talmudici e post-talmudici, una attribuita a R. Akiva ed una a R. Ishmael (entrambe pubblicate nella collezione Merkabah Shelemah Gerusalemme (1922), fol. 32-43). Due manoscritti del secolo X e XI (Oxford Hebr. C. 65, e Sassoon 522) contengono i testi più antichi a noi accessibili; ma anche questi sono più o meno corrotti. Secondo la testimonianza di Origene ( III secolo) non era permesso studiare il Cantico dei Cantici, negli ambienti ebraici, prima di aver raggiunto la piena maturità, evidentemente a causa di insegnamenti esoterici come la dottrina dello Shi ur Komah ad esso connessa. I Midrashim sul Cantico dei Cantici rispecchiano questa interpretazione esoterica in molti passi. I frammenti di Shi'ur Komah erano noti nel VI secolo, se non prima, al poeta Eleazar ha-Kallir. Il provocatorio antropomorfismo di questi passi sconcertava molti rabbini, e fu oggetto di attacchi da parte dei karaiti, al punto che persino Maimonide, il quale all'inizio considerava lo Shi'ur Komah un testo autorevole da interpretare (nel manoscritto originale del suo commento al Mishnah, Sanh. 10), più tardi lo ripudiò, ritenendolo una tarda falsificazione (Teshuvot ha-Rambam (1934), n. 117). In effetti, invece, lo Shi'ur Komah era una parte antica e autentica dell'insegnamento mistico dei tempi dei tannaim. La teoria non implica che Dio possieda forma fisica, ma soltanto che una forma di questo tipo può essere attribuita alla "Gloria", che in certi passi è chiamata guf ha-Shekhinah ("il corpo della Presenza Divina"). Lo Shi'ur Komah è basato sulle descrizioni dell'amata nel Cantico dei Cantici (5:11-16) e apparentemente divenne parte dell'interpretazione esoterica di questo libro. Forse l'idea della "tunica" e della veste di Dio apparteneva anch'essa allo Shi'ur Komah. Questa "tunica" è molto importante nel ma'aseh bereshit dei Heikhalot Rabbati, ed echi di questa idea si possono reperire nelle aggadot rabbiniche relative alla veste di luce in cui il Santo, sia benedetto, si avvolse al momento della creazione. L'ascesa e il passaggio attraverso i primi sei palazzi sono descritti per esteso nei Heikhalot Rabbati, con dettagli di tutti i mezzi tecnici e magici che assistono lo spirito nell'ascesa e lo salvano dai pericoli in agguato. Tali pericoli vengono posti in particolare risalto in tutte le tradizioni della Merkabah. Visioni ingannevoli appaiono all'anima che ascende, e gli angeli della distruzione cercano di disorientarla. Alle porte di tutti i palazzi, deve mostrare ai guardiani "i sigilli", che sono i Nomi segreti di Dio, o immagini sature di potere magico (alcune esistono tuttora nella Pistis Sophia gnostica), e che la proteggono dagli assalti. I pericoli divengono più numerosi soprattutto all'entrata del sesto palazzo, dove al mistico della Merkabah sembra che "cento milioni di onde si riversino, eppure non vi è una sola goccia d'acqua, ma soltanto lo splendore delle pure lastre di marmo che pavimentano il palazzo". È a questo pericolo dell'ascesa estatica che si riferiscono le parole di R. Akiva nella storia dei quattro che entrarono nel pardes: "quando giungi al luogo dalle lastre di marmo puro, non dire 'acqua, acqua"'. I testi menzionano inoltre un "fuoco che procede dal suo corpo e lo consuma". Talvolta il fuoco è visto come un pericolo (Merkabah Shelemah (1921), lb) e altre volte come un'esperienza estatica che accompagna l'ingresso nel primo palazzo: "Le mie mani erano arse, e io stavo diritto senza mani né piedi" (Manoscritto Neubauer, Oxford 1531, 45b). Ilpardes nel quale entrarono R. Akiva e i suoi compagni è il mondo del celestiale Giardino dell'Eden, o il regno dei palazzi celesti, e l'ascesa o "rapimento" è comune ad altre apocalissi ebraiche, ed è ricordata da Paolo (II Cor. 12: 2-4) come qualcosa che non ha bisogno di essere spiegata ai suoi lettori d'origine ebraica. In contrasto ai pericoli che attendono quanti, pur non essendo idonei, si dedicano a queste cose e alla scienza magica della teurgia, viene grandemente posta in risalto l'illuminazione che perviene a coloro i quali ricevono le rivelazioni: "Nel mio cuore vi era luce, come una folgore", oppure "il mondo si trasmutò in purezza intorno a me, e nel mio cuore sentii di essere entrato in un nuovo mondo" (Merkabah Shelemah la, 4b). Un antico brano enumerante i temi fondamentali del mistero del Carro si trova nel Midrash a Proverbi 10 e, in una versione diversa, in Perush ha-Aggadot di Azriel (a cura di Tishby (1946), 62). I temi menzionati sono il hashmal, la folgore, il cherubino, il Trono di Gloria, i ponti nella Merkabah e la misura delle membra "dalle unghie dei miei piedi al sommo della mia testa". Altri temi che hanno grande importanza di numerose fonti non vengono menzionati. Tra essi vi sono idee riguardanti il pargod ("cortina" o "velo") che separa Colui che siede sul Trono dalle altre parti del Carro, e su cui sono ricamati gli archetipi di tutto ciò che è creato. Vi sono tradizioni diverse e molto pittoresche riguardo al pargod. Alcune l'interpretano come una cortina che impedisce agli angeli ministri di vedere la Gloria (Targ. di Giobbe 26:9), mentre altre sostengono che "i sette angeli creati per primi" continuano il loro ministero all'interno del pargod (Massekhet Heikhalot, fine del cap. 7). In altra forma, questo concetto del pargod fu assimilato dagli gnostici non ebrei del II secolo. Non vi era un'angelologia fissa; e sono state conservate concezioni diverse, anzi diversi sistemi completi, a partire da quelli che si trovano nel Libro di Enoch etiopico fino all'Enoch ebraico, nella letteratura dei heikhalot. Queste idee occupano uno spazio considerevole nella letteratura della Merkabah pervenuta sino a noi e, com'è prevedibile, ricompaiono in diverse forme dal carattere pratico negli incantesimi e nella letteratura teurgica. La conoscenza dei nomi degli angeli faceva già parte del misticismo degli esseni, e si sviluppò negli ambienti rabbinici ed eterodossi sino al termine del periodo geonico. Insieme al concetto dei quattro o sette angeli-chiave (arcangeli), si sviluppò (verso la fine del I secolo o l'inizio del II) una nuova dottrina relativa all'angelo Metatron (sar ha-panim, "il principe della Presenza"). (Vedere i dettagli nella sezione dedicata a Metatron, p. 379.) Nella letteratura della Merkabah i nomi degli angeli si mescolano facilmente con i Nomi segreti di Dio, molti dei quali sono menzionati nei frammenti di questa letteratura pervenuti fino a noi. Poiché molti di tali nomi non sono stati completamente spiegati, non è stato ancora possibile accertare se intendono esprimere una specifica idea teologica # per esempio, porre in risalto un aspetto particolare della rivelazione o dell'attività di Dio # o se hanno altre funzioni che non possiamo sviscerare. Vari frammenti della letteratura dei keikhalot menzionano nomi come Adiriron, Zoharariel, Zavodiel, Ta'zash, Akhtriel (che si trova anche in una baraita proveniente da questa cerchia in Bar. 7a). La formula "il Signore, Dio d'Israele" viene spesso aggiunta a questo nome particolare, tuttavia la si trova anche aggiunta ai nomi di molti angeli principali (per esempio, nell'Enoch ebraico), quindi è impossibile dedurne se la frase si riferisca al nome di un angelo o al nome di Dio. Talora, lo stesso nome serve a designare tanto Dio quanto un angelo. Un esempio è Azbogah ("un nome ottuplo") in cui ogni paio di lettere, attraverso la gematria, sommato dà il numero otto. Questo nome "ottuplo" rispecchia il concetto gnostico dell'ogdoade; l'ottavo firmamento al di sopra dei sette firmamenti, dove dimora la Sapienza Divina. Nei Heikhalot Zutrati è definito come "un nome di potere" (gevurah), cioè uno dei nomi della Gloria Divina, mentre nel capitolo 18 dell'Enoch ebraico diviene il nome d'uno dei principi angelici; il suo significato numerico viene dimenticato, e viene assoggettato alla consueta interpretazione aggadica dei nomi. Lo stesso vale per il termine ziva rabba, che da una parte non è altro che una traduzione aramaica di ha-kavod hagadol ("la grande gloria") che si trova nelle apocalissi e anche in fonti samaritane come descrizione del Dio rivelato. Tuttavia, ricorre anche negli elenchi dei nomi misteriosi dell'angelo Metatron, e si trova con un significato simile nella letteratura mandaica. Come gli gnostici non ebrei usavano talvolta formule aramaiche nei loro scritti greci, formule ed elementi greci penetrarono nella letteratura della Merkabah. Il dialogo tra il mistico e l'angelo Dumiel alla porta del sesto palazzo nei Heikhalot Rabbati si svolge in greco. Uno dei nomi di Dio in questa letteratura è Totrossiah, che indica il tetras delle quattro lettere del nome YHWH. Il parallelo inverso è rappresentato dal nome Arbatiao, che si trova frequentemente nei papiri magici di quel periodo. Le tendenze diverse del misticismo della Merkabah stabilivano modi di contemplare l'ascesa ai cieli, modi che venivano intesi nel senso letterale. La loro concezione di base non dipendeva dall'interpretazione scritturale, ma assumeva una forma letteraria propria. L'elemento magico era forte soltanto nelle prime fasi della letteratura dei heikhalot; e divenne più debole nelle redazioni più tarde. A partire dal III secolo appaiono interpretazioni che spogliano il tema del Carro del suo significato letterale e introducono un elemento etico. Talvolta i diversi palazzi corrispondono alla scala dell'ascesa che passa attraverso le virtù ; e talvolta l'intera tematica del Carro perde completamente il suo significato letterale. Questo tipo d'interpretazione è soprattutto evidente nella straordinaria affermazione mistica dell'amora del m secolo, Simeon b. Lakish: "i patriarchi sono il Carro" (Gen. Rabbah,475 793, 983, in riferimento ad Abramo, Isacco e Giacobbe). Affermazioni come questa aprirono la porta al tipo d'interpretazione simbolica che fiorì successivamente nella letteratura cabalistica. Il primo centro di questo tipo di misticismo fu in Palestina, dove fu scritta gran parte della letteratura dei heikhalot. Le idee mistiche pervennero a Babilonia già ai tempi di Rav (metà del III secolo) e la loro influenza è riconoscibile, tra l'altro, negli incantesimi magici iscritti sulle ciotole per assicurare "protezione" contro gli spiriti maligni e i demoni, e che rispecchiano l'ebraismo popolare babilonese dalla fine del periodo talmudico fino al tempo dei geonim. In Babilonia, apparentemente, fu composto un numero rilevante di preghiere magiche, oltre a trattati sulla magia, come Harba de-Moshe (a cura di Gaster, 1896), Sefer ha-Malbush (manoscritto Sassoon 290, pp. 306-11), Sefer ha-Yashar (British Museum, manoscritto Margoliouth 752, fol. 91 segg.), Sefer ha-Ma'alot, Havdalah deR. Akiva (manoscritto Vaticano 228), Pishra de R. Hanina b. Dosa (manoscritto Vaticano 219, fol. 4-6), e altri, alcuni dei quali furono scritti in aramaico babilonese. In tutti questi l'influenza delle idee della Merkabah era molto forte. In Palestina, forse alla fine del periodo talmudico, fu composto il Sefer ha-Razim, che contiene descrizioni dei firmamenti notevolmente influenzate dalla letteratura dei heikhalot, mentre la parte "pratica", riguardante gli incantesimi, ha uno stile diverso, in parte ripreso testualmente da fonti greche. Da ambienti come questi derivò l'uso pratico della Torah e dei Salmi a fini pratici. Questa consuetudine era basata sulla teoria che questi libri erano formati essenzialmente dai Nomi Sacri di Dio e dei Suoi angeli, un'idea apparsa per la prima volta nella prefazione a Shimmushei Torah; solo l'introduzione midrashica, con il titolo Ma' yan ha-Hokhmah, è stata stampata (Jellinek, Beit ha-Midrash, parte 1 (1938), 5861), ma l'intera opera esiste in forma manoscritta. Dello stesso tipo è il libro Shimmushei Tehillim, che è stato stampato molte volte in ebraico ed esiste inoltre manoscritto in una versione aramaica. Il contenuto poetico della letteratura del ma'aseh merkabah e del ma'aseh bereshit è sorprendente: abbiamo già notato gli inni cantati dalle hayyot e dagli angeli ministri in lode del loro Creatore. Seguendo lo schema di molti Salmi, si sviluppò la nozione che l'intero creato, secondo la sua natura e il suo ordine, cantasse inni di lode. Venne fondata un'innologia nelle varie versioni del Perek Shirah, che senza alcun dubbio deriva dagli ambienti mistici del periodo talmudico. A questo elemento poetico è connessa l'influenza che i mistici della Merkabah ebbero sullo sviluppo di parti specifiche dell'ordine di preghiera, in particolare sulla kedushah del mattino, e successivamente sui piyyutim che furono scritti per tali parti (silluk, ofan, kedushah). La Gnosi ebraica e il Sefer Yezirah In queste fasi del misticismo giudaico, le descrizioni del Carro e del suo mondo occupano un posto che, nello Gnosticismo non giudaico, è preso dalla teoria degli "eoni", i poteri ed emanazioni di Dio che colmano la pleroma, la "pienezza" divina. Il mondo in cui certe middot, o qualità di Dio, come sapienza, comprensione, conoscenza, verità, fedeltà, rettitudine, eccetera, divennero gli "eoni" degli gnostici ha un parallelo nella tradizione del ma'aseh bereshit, sebbene questa non compenetrasse le fasi fondamentali del misticismo della Merkabah. Le dieci frasi con cui fu creato il mondo (Avot 5:1) divennero qualità divine secondo Rav (Hag 12a). Vi è anche una tradizione, secondo la quale queste middot "servono dinanzi al Trono di Gloria" (ARN 37), prendendo così il posto occupato dalle hayyot e dagli angeli ministri nel sistema della Merkabah. Le speculazioni semimitologiche degli gnostici che consideravano le qualità come "eoni" non furono accolte nella tradizione rabbinica del Talmud o dei Midrashim; tuttavia trovarono un posto nelle sette più o meno eterodosse dei minim o hizzonim. La misura in cui lo sviluppo delle tendenze gnostiche nello stesso Giudaismo precedette la loro evoluzione nel protocristianesimo è a tutt'oggi oggetto di una vivace controversia tra gli studiosi. Peterson, Haenchen e Quispel in particolare, insieme a diversi esperti dei Rotoli del Mar Morto, hanno tentato di provare che forme ebraiche di Gnosi, le quali conservavano la fede nell'unità di Dio e respingevano ogni nozione dualistica, furono poste in essere prima della formazione del Cristianesimo, ed erano incentrate particolarmente intorno all'idea dell'uomo primordiale (seguendo la speculazione su Gen. 1:26; "Adam Kadmon"). L'immagine del Messia, caratteristica degli gnostici cristiani, qui era assente. Questi studiosi hanno interpretato parecchi dei primi documenti della letteratura gnostica come Midrashim gnostici sulla cosmogonia; e in particolare Haenchen ha sostenuto che il loro fondamentale carattere ebraico è chiaramente riconoscibile in un'analisi dell'insegnamento di Simon Mago, apparentemente capo della Gnosi samaritana, un ebraismo eterodosso del I secolo. Prima ancora, M. Friedlaender aveva ipotizzato che le tendenze gnostiche antinomiche (le quali sminuivano il valore dei Comandamenti) si fossero sviluppate anch'esse nell'ambito del Giudaismo prima della nascita del Cristianesimo. Benché un buon numero di queste idee sia basato su ipotesi discutibili, vi è tuttavia in esse una considerevole misura di verità. Esse indicano l'assenza di elementi iranici nelle fonti più antiche della Gnosi, che sono stati esagerati da moltissimi studiosi delle ultime due generazioni, i cui argomenti poggiano su tesi non meno ipotetiche. La teoria dei "due principi" potrebbe essere stata il risultato di un'evoluzione interna, una relazione mitologica nell'ambito dello stesso Giudaismo, oppure, con la stessa facilità, un riflesso dell'influenza iranica. L'apostasia del tanna Elishe b. Avuyah, passato a un dualismo gnostico di questo tipo, è connessa nella tradizione della Merkabah alla visione di Metatron, assiso sul Trono come Dio. La letteratura mandaica contiene anch'essa filoni di carattere gnostico monoteistico, non cristiano, che molti ritengono avesse avuto origine in una setta ebraica eterodossa della Transgiordania, i cui membri emigrarono in Babilonia nel I o nel II secolo. La cosmogonia di alcuni dei più importanti gruppi gnostici, persino di quelli di carattere antinomico, dipende non soltanto dagli elementi biblici, ma in larga misura anche da elementi ebraici aggadici ed esoterici. I primi strati del Sefer ha-Bahir, provenienti dall'Oriente, provano l'esistenza di idee decisamente gnostiche in un ambiente di ebrei credenti in Babilonia o in Siria, che collegavano la teoria della Merkabah a quella degli "eoni". Queste fonti antiche sono parzialmente connesse con il libro Raza Rabba, conosciuto come opera antica alla fine del periodo geonico; vari frammenti si possono trovare negli scritti dei Hasidei Ashkenaz (vedasi più sotto). I concetti che non avevano avuto origine esclusivamente nel misticismo ebraico, come l'idea della Shekhinah e le ipostasi del giudizio severo e della compassione, potevano essere facilmente interpretati secondo la teoria degli "eoni" e incorporati con idee gnostiche. L'"esilio della Shekhinah" che originariamente era un idea aggadica, fu assimilato negli ambienti ebraici, in una particolare fase, all'idea gnostica della scintilla divina in esilio nel mondo terrestre, e inoltre con la mistica interpretazione del concetto ebraico della keneset Yisrael ("la comunità di Israele") come un'entità celeste che rappresenta la comunità storica di Israele. Nell'elaborazione di tali motivi, è possibile che elementi gnostici si aggiungessero alle teorie rabbiniche della Merkabah e alle Idee degli ambienti giudaici che avevano deboli legami con il rabbinismo. Il Sefer Yezirah La speculazione sul ma'aseh bereshit ricevette una forma assolutamente unica in un libro dalle dimensioni modeste ma dall'influenza enorme, il Sefer Yezirah ( 'Libro della Creazione"), il più antico testo ebraico tuttora esistente di pensiero sistematico, speculativo. La sua brevità (meno di 2000 parole complessive nella versione più lunga), il suo stile oscuro e nel contempo laconico ed enigmatico, la sua terminologia, non trovano paralleli in altre opere su temi affini. Il risultato di tutti questi fattori fu che per oltre un millennio il libro fu spiegato in moltissimi modi diversi, e neppure le indagini scientifiche svolte durante il XIX e il XX secolo sono riuscite a pervenire a risultati definitivi e privi di ambiguità. Il Sefer Yezirah ci è pervenuto in due versioni: una più breve che appare in moltissime edizioni come il libro stesso, in contrapposizione a una versione più lunga che talvolta viene pubblicata come appendice "'. Entrambe le versioni esistevano già nel X secolo e lasciarono la loro impronta sui diversi tipi dei numerosi manoscritti, il più antico dei quali (del secolo XI?) fu trovato nella Genizah del Cairo e pubblicato da A.M. Habermann (1947). In entrambe le versioni, il libro è suddiviso in sei capitoli di mishnayot o halakhot, composti di brevi affermazioni che presentano l'argomentazione dell'autore in modo dogmatico, senza alcuna spiegazione o convalida. Il primo capitolo, in particolare, impiega un vocabolario sonoro e solenne, affine a quello della letteratura della Merkabah. Vi sono citati pochi versetti biblici. Anche quando l'enunciazione è identica, la diversa disposizione delle mishnayot nelle due versioni e la relazione reciproca, che così risulta alterata, colorano la valutazione teorica delle idee. Il tema centrale del Sefer Yezirah è uno stringato discorso sulla cosmologia e la cosmogonia (una sorta di ma'aseh bereshit, "atto di creazione in forma speculativa), eccezionale per il suo carattere chiaramente mistico. Non hanno fondamento i tentativi, da parte di parecchi studiosi, di presentarlo come una sorta di testo per scolari, o come la prima composizione sulla grammatica e l'ortografia ebraica (secondo P. Mordell). Il forte legame tra il libro e le speculazioni ebraiche sulla sapienza divina (hokhmah) è evidente fin dall'inizio, con la dichiarazione che Dio creò il mondo per mezzo di "32 vie segrete della sapienza". Queste 32 vie, definite come "dieci Sefirot beli mah" e le "22 lettere elementari" dell'alfabeto ebraico, sono presentate come le fondamenta dell'intera creazione. Il capitolo 1 tratta delle Sefirot e gli altri cinque capitoli della funzione delle lettere. Apparentemente, il termine Sefirot è usato nel senso esclusivo di numeri", benché, impiegando un termine nuovo (sefirot anziché misparim), l'autore sembri alludere a principi metafisici o a fasi della creazione del mondo. L'uso del termine Sefirot nel Sefer Yezirah fu spiegato più tardi soprattutto nella letteratura della Cabala - quale riferimento a una teoria dell'emanazione, sebbene il libro non menzioni che la prima Sefirah emanasse da Dio e non fosse da Lui creata quale azione indipendente. L'autore pone in risalto, per quanto ambiguamente, il carattere mistico delle Sefirot, descrivendole dettagliatamente e discutendo il loro ordine gerarchico Almeno le prime quattro Sefirot emanano l'una dall'altra. La prima è lo "spirito (ru'ah) del Dio Vivente" (il libro continua a usare la parola ru'ah nel duplice significato di spirito astratto oppure aria o etere). Dalla prima Sefirah promana, mediante la condensazione, "uno Spirito da un altro"; cioè, prima è l'elemento primordiale dell'aria, e da esso, procedendo l'una dall'altra quale terza e quarta Sefirah, acqua e fuoco. Dall'aria primordiale Dio creò, o "incise" su di essa, le 22 lettere, dalle acque primordiali, il caos cosmico; e dal fuoco primordiale, il Trono di Gloria e le schiere angeliche. La natura della creazione secondaria non è sufficientemente chiara, a causa del preciso significato terminologico dei verbi impiegati dall'autore - per esempio, inciso, scolpito, creato - può essere interpretato in vari modi. Le ultime sei Sefirot hanno una natura completamente diversa, in quanto rappresentano le sei dimensioni (nel linguaggio del libro, i kezavot, "estremità") dello spazio, benché non sia detto espressamente che furono create dagli elementi precedenti. Comunque, viene sottolineato che le dieci Sefirot costituiscono un'unità chiusa, perché ''la loro fine è nel loro principio, e il loro principio nella loro fine", ed esse ruotano l'una nell'altra; cioè, questi dieci principi fondamentali costituiscono un'unità chiusa - per quanto la sua natura non sia sufficientemente definita - che non è considerata identica alla divinità, se non in quanto il primo stadio della sua creazione esprime le vie della divina sapienza. L'autore, senza dubbio intenzionalmente, impiega espressioni prese a prestito dalla descrizione delle hayyot ("creature viventi") che portano il Trono di Gloria nel carro (merkavah; Ezech. 1), e sembra stabilire una certa correlazione tra gli "esseri viventi" e le Sefirot, descrivendo queste ultime come le serve del re che obbediscono ai suoi comandi e si prosternano davanti al suo trono. Nel contempo, esse sono anche le dimensioni (amakim) di tutta l'esistenza, del bene e persino del male. Il fatto che la teoria del significato delle 22 lettere quale fondamento di tutta la creazione nel capitolo 2 contraddica in parte il capitolo 1 ha indotto molti studiosi ad attribuire all'autore la concezione di una duplice creazione: l'una ideale e pura, compiuta per mezzo delle Sefirot, che sono concepite in modo interamente ideale e astratto; e l'altra reale, operata mediante l'interconnessione dei fonemi del linguaggio, che sono le lettere. Secondo alcune opinioni, l'oscura parola "belimah", che accompagna sempre la parola Sefirot, è semplicemente un composto, beli mah: senza nulla, senza attualità, ideale. Tuttavia, a giudicare dal significato letterale, sembra che dovrebbe essere intesa come "chiuso", cioè chiuso in se stesso. Il testo non offre spiegazioni più dettagliate della relazione tra le Sefirot e le lettere, e non vi sono altri riferimenti alle Sefirot. Alcuni studiosi hanno ritenuto che due distinte dottrine cosmogoniche sostanzialmente diverse vennero fuse nel libro, e furono unite da un metodo simile alla teoria neopitagorica molto diffusa nel II e nel III secolo prima dell'era comune. Tutti gli esseri reali nei tre strati del cosmo, nel mondo, nel tempo e nel corpo dell'uomo (secondo il linguaggio del libro: mondo, anno, anima) furono posti in esistenza tramite l'interconnessione delle 22 lettere, e soprattutto mediante le "231 porte", cioè le combinazioni delle lettere in gruppi di due, rappresentanti forse le radici del verbo ebraico (sembra che l'autore ritenesse che il verbo ebraico sia basato su due consonanti; ma si veda N. Aloni). Il numero logico di 221 combinazioni non compare nei manoscritti più antichi, che fissavano 221 porte o combinazioni, enumerate in diversi manoscritti. ogni cosa esistente contiene in qualche modo questi elementi linguistici ed esiste grazie al loro potere, il cui fondamento è un nome, cioè il Tetragrammaton, o forse l'ordine alfabetico che, nella sua totalità, è considerato un unico nome mistico. Il processo cosmico è essenzialmente linguistico, basato sulle combinazioni illimitate delle lettere. Nei capitoli 35, le 22 lettere base sono divise in tre gruppi, secondo lo speciale sistema fonetico dell'autore. Il primo contiene le tre matrici - immot o ummot (che Significano elementi, nel linguaggio della Mishnah) - alef, mem, shin che a loro volta rappresentano la fonte dei tre elementi menzionati in un contesto diverso nel capitolo 1 - aria, fuoco, acqua - e dalle quali derivò tutto il resto. Queste tre lettere hanno inoltre un parallelo nelle tre stagioni dell'anno (secondo un sistema che si trova in diversi autori greci ed ellenistici) e nelle tre parti del corpo: la testa, il torace e lo stomaco. Il secondo gruppo consiste di sette lettere doppie", cioè le consonanti che hanno un suono duro o dolce a seconda che vengano scritte con o senza dagesh (bet, gimmel, dalet e kaf, pe, resh, tav). La presenza della lettera resh in questo gruppo ha dato origine a varie teorie. Per mezzo delle lettere "doppie" furono creati i sette pianeti, i sette cieli, i sette giorni della settimana e i sette orifizi del corpo (occhi, orecchi, narici, bocca); inoltre, esse alludono agli opposti fondamentali (temurot) nella vita dell'uomo. Le 12 rimanenti lettere "semplici" (ha-peshutot) corrispondono a quelle che l'autore considera come le principali attività dell'uomo: i 12 segni dello zodiaco nella sfera celeste, i 12 mesi, e le 12 principali membra del corpo (ha-manhigim). Inoltre, egli dà anche una divisione fonetica delle lettere completamente diversa, a seconda dei cinque punti della bocca in cui vengono articolate (gutturali, labiali, velari, dentali e sibilanti). È il primo caso in cui tale divisione appare nella storia della linguistica ebraica, e forse non era inclusa nella prima versione del libro. La combinazione di queste "lettere basiche" contiene le radici di tutte le cose e inoltre il contrasto tra bene e male (oneg ve-nega). C'è un nesso evidente tra questa cosmogonia linguistico-mistica che ha Stretti paralleli nella speculazione astrologica, e una magia basata sul magico potere creativo delle lettere e delle parole. Anzi, si potrebbe affermare che il Sefer Yezirah parla delle "lettere in cui furono creati il cielo e la terra"; come, secondo il Talmud, Bezalel, l'architetto del tabernacolo, possedeva la conoscenza delle loro combinazioni (Berakhot 55a). Da questo punto scaturiscono le idee connesse alla creazione del golem mediante una recitazione ordinata di tutte le possibili combinazioni di lettere creative. Che il Sefer Yezirah mirasse inizialmente a idee magiche di questo tipo è oggetto di opinioni divergenti; ma non è impossibile. Secondo una leggenda talmudica (Sanh. 65b), R. Hanina e R. Hoshaiah (IV secolo) si occupavano del Sefer Yezirah o - come afferma un'antica variante - delle Hilkhot Yezirah; con questo mezzo fu creato per loro un ''vitello di tre anni" che essi mangiarono. Per il momento è impossibile stabilire se le Hilkhot Yezirah siano semplicemente il libro in questione, o una versione anteriore, ma si deve ricordare che i testi più antichi del Sefer Yezirah erano accompagnati da capitoli introduttivi che ponevano in risalto pratiche magiche, presentate come una sorta di rituale festivo da compiersi al completamento dello studio del libro (commento di Judah b. Barzillai, 103-268). Epoca della composizione Zunz, Graetz nelle sue opere più tarde, Bacher, Block ed altri erano dell'opinione che il Sefer Yezirah fosse stato composto nel periodo dei geonim, intorno all'VIII secolo. Questa datazione era in armonia con la tendenza generale di questi studiosi che li spingeva ad assegnare una data tarda alla composizione delle opere mistiche sui misteri della creazione e sulla Merkabah, una tendenza che la filologia moderna non può più suffragare. Inoltre, essi parlavano di un'ipotetica influenza araba (che in realtà non venne mai provata). Nella sua opera giovanile su Gnosticismo e Giudaismo (1846), Graetz tendeva a correlare l'epoca della sua composizione a quella della Mishnah o all'inizio del periodo del Talmud, e questa opinione era condivisa da Abraham Epstein, Louis Ginzberg ed altri, che ne datavano la composizione fra il III e il VI secolo. Leo Baeck tentò di provare che il Sefer Yezirah era stato scritto sotto l'influenza neoplatonica di Proclo forse nel VI secolo. Lo stile ebraico, tuttavia, indica un periodo antecedente. Epstein ne provò l'affinità con il linguaggio della Mishnah, ed è possibile aggiungere alle sue altre prove linguistiche. Il libro non contiene nessuna forma linguistica che non possa venire ascritta all'ebraico del II e del III secolo. Inoltre, numerose connessioni con la dottrina della divina sapienza e con varie visioni gnostiche e sincretiste indicano un periodo anteriore; e Graetz osservò analogie tra il Sefer Yezirah e le idee di Markos lo gnostico. La dottrina delle Sefirot e il sistema linguistico fanno pensare a influenze neopitagoriche e stoiche. Stoica è l'insistenza sulla doppia pronuncia di "bagad kafat". Alcuni dei termini impiegati nel libro erano evidentemente tradotti dal greco, dove il termine stoikeia indica tanto "elementi" quanto "lettere"; questa dualità trova espressione nel termine ebraico otiyyot yesod ("lettere elementari"), cioè lettere che sono anche elementi. Il materiale che F. Dornsieff raccolse dal misticimo linguistico del sincretismo greco contiene molti paralleli con il Sefer Yezirah. Illuminante, a questo proposito, è il concetto - nel Sefer Yezirah - di "sigillare" le sei estremità del mondo con le sei diverse combinazioni del nome YHW che, diversamente dalla Bibbia, qui ricorre come un Nome di Dio indipendente e fondamentale, e fa la parte del corrispondente nome nella tradizione greca iao, che è estremamente frequente nei documenti degli gnostici e nel sincretismo magico e religioso. L'idea che ogni atto della creazione tosse suggellata con il nome di Dio è uno degli assiomi più antichi del misticismo della Merkabah, e si trova già nei Heikhalot Rabbati (cap. 9); nei sistemi gnostici e in alcuni che sono vicini alla Gnosi, questo nome ha la funzione di instaurare il cosmo e di definire confini fissi per il mondo. Combinazioni di questo nome, che in greco consiste di vocali anziché di consonanti, appaiono di frequente nei papiri magici greci. L'autore del Sefer Yezirah non conosceva ancora i simboli per le vocali ebraiche e in luogo delle vocali greche impiegava le consonanti, che sono tanto lettere vocaliche quanto componenti del Tetragrammaton. Vi è qui un terreno comune tra le speculazioni del Sefer Yezirah e le proiezioni gnostiche o semignostiche sulla periferia del Giudaismo o al di fuori di esso durante i primi secoli dell'Era Comune. È difficile decidere se le dieci Sefirot o le regole delle 32 vie debbano essere spiegate o intese nello spirito della dottrina gnostica degli eoni o in quello della scuola pitagorica, poiché entrambe le interpretazioni sono possibili. La funzione delle lettere dell'alfabeto ebraico nella costruzione del mondo è menzionata in un antico frammento di Midrash Tanhuma che tratta della creazione: "Il Santissimo, che sia benedetto, disse: 'Mi necessitano operai'. La Torah Gli disse: "Io pongo a tua disposizione 22 operai, cioè le 22 lettere che sono nella Torah, e do a ciascuno il suo". Questa leggenda è estremamente vicina all'idea basilare espressa nel Sefer Yezirah, capitolo 2, ed è impossibile stabilire quale sia anteriore. Per riassumere, si può postulare che la parte principale del Sefer Yezirah, benché contenga aggiunte post-talmudiche, fu scritta fra il III e il VI secolo, apparentemente in Palestina, da un ebreo devoto con tendenze al misticismo, il cui scopo era più speculativo e magico che estatico. L'autore, che si sforzò di "giudaizzare" speculazioni non ebraiche in armonia con il suo spirito, presenta una linea parallela all'esoterismo ebraico della letteratura dei Heikhalot, che ha le sue radici nello stesso periodo. Questa 'giudaizzazione' è evidente inoltre alla conclusione del libro, che presenta Abramo, il primo che credette all'unicità di Dio, come colui che per primo studiò le idee espresse nel libro e le mise in pratica: forse un'allusione all'uso della magia menzionata più sopra. Da questo derivò la tarda convinzione che vedeva in Abramo l'autore del libro, chiamato in parecchi manoscritti Otiyyot de-Avraham Avinu. L'attribuzione del Sefer, Yezirah a R. Akiva appare nella letteratura della Cabala a partire dal secolo XIII, senza dubbio sulla scia del tardo Midrash Otiyyot de-Rabbi Akiva. Commenti sul Sefer Yezirah ll più antico riferimento al Sefer Yezirah appare nel Baraita di-Shemu'el e nelle poesie di Eleazar ha-Kallir (c. VI secolo). In seguito, il libro ebbe un importanza grandissima sia per lo sviluppo della filosofia giudaica prima di Maimonide, sia per la Cabala, e su di essi furono scritte decine di commenti. Saadiah Gaon spiegò il libro (all'inizio del X secolo) come un antico testo autorevole. Sulla base della versione più lunga che aveva a disposizione, egli introdusse cambiamenti e nuove divisioni. Il testo arabo, con una traduzione francese di M. Lambert, fu pubblicato a Parigi nel 1891 e da Joseph Kafih a Gerusalemme nel 1972, con una traduzione ebraica. Il commento di Saadiah fu tradotto in ebraico parecchie volte, a partire dall'XI secolo, ed ebbe una diffusione considerevole. Nel 955-6 fu scritto a Kairouan il commento di Abu Sahl Dunash ibn Tamin sulla versione breve. Parti di questo originale arabo furono scoperte nella Genizah del Cairo; esso fu conservato in varie edizioni, derivanti da una revisione più tarda e da una forma abbreviata della versione originale, soprattutto in diverse traduzioni ebraiche. Una di esse fu pubblicata da M. Grossberg nel 1902. Il commento era apparentemente basato sulle lezioni di Isaac Israeli, il maestro di Abu Sahl. G. Vajda fece uno studio dettagliato di questo commento. Un terzo commento risalente al X secolo fu scritto nell'Italia meridionale da Shabbetai Donnolo e fu pubblicato da D. Castelli nel 1880, con un'esauriente introduzione. Il più importante di tutti i commenti letterali è quello composto all'inizio del XII secolo da Judah b. Barzillai di Barcellona, e pubblicato da S.Z.H. Halberstamm (Berlino 1885). Judah Halevi scrisse commenti su molte parti del Sefer Yezirah nel suo Kuzari (4:25). Il commento di Abraham ibn Ezra sul primo capitolo, che era noto ad Abraham Abulafia, andò perduto, come pure altri commenti dell'XI e XII secolo, incluso uno dei rabbini di Narbona. Nell'XI secolo furono addirittura composte poesie sulle dottrine del Sefer Yezirah, per esempio da Ibn Gabirol e da Zahallal b. Nethanel Gaon. Molti commenti sul Sefer Yezirah furono scritti negli ambienti dei Hasidei Ashkenaz: tra gli altri, quello di Eleazar b. Judah di Worms, che fu pubblicato integralmente a Przemysl nel 1889, ed uno successivo, attribuito a Saadiah Uaon (dell'inizio del secolo XIII), del quale soltanto una parte è pubblicata nelle edizioni usuali; degno di nota è anche il commento di Ehlanan b. Yakar di Londra (c. 1240), pubblicato a cura di G. Vajda (in Kovez al Yad, 6 (1966), 145-97). Il numero dei commenti scritti nello spirito della Cabala e secondo la concezione cabalistica della dottrina delle Sefirot si avvicina a cinquanta. Il più antico, quello di Isaac il Cieco, è anche uno dei documenti più difficili e importanti esistenti dall'inizio della Cabala (si veda più avanti, p. 49). Il commento dell'allievo di Isaac, Ariel b. Menahem di Gerona, appare nelle edizioni a stampa come opera di Nahmanides. Il vero commento di Nahmanides (solo sul primo capitolo) fu pubblicato da G. Scholem. Quasi tutto il commento di Abraham Abulafia (manoscritto 58 di Monaco) è contenuto nel Sefer ha-Peli ah (Korets, 1784, foll. 50-56). Questo cabalista, in una delle sue opere, enumera 12 commenti da lui studiati in Spagna (Jellinek, Beit ha-Midrash, 3 (1855), 42). Dal XIV secolo provengono l'ampio commento di Joseph b. Shalom Ashkenazi, scritto in Spagna ed erroneamente attribuito a R. Abraham b. David nelle edizioni a stampa; il commento di Meir b. Solomon ibn Sahula del 1331 (Roma, Biblioteca Angelica, Ms. Or. 45); e così pure Meshovev Netiuot (manoscritto di Oxford) di Samuel ibn Motot. Intorno al 1405, Moses Botarel scrisse un commento in cui riportò un numero considerevole di false citazioni dei suoi predecessori. Numerosi commenti furono composti a Safed: tra questi, uno di Moses b. Jacob Cordovero (manoscritto di Gerusalemme) e uno di Solomon Toriel (manoscritto di Gerusalemme). A partire da quel periodo proliferarono i commenti nello spirito di Isaac Luria; per esempio, quelli di Samuel b. Elisha Portaleone (manoscritto del Jews' College, Londra), di David Habillo (manoscritto della comunità di Varsavia); tra essi, furono stampati il commento di Elijah b. Solomon, il Gaon di Vilna (1874) e il libro Otot u-Mo'adim di Joshua Eisenbach di Prystik (pol. Przystyk, 1903). Edizioni a stampa e traduzioni Il Sefer Yezirah fu stampato per la prima volta a Mantova nel 1562 con l aggiunta di alcuni commenti, e in seguito è stato ristampato molte volte con e senza commenti. Nell'edizione di Varsavia del 1884 - la più popolare - il testo di alcuni commenti è dato in forma considerevolmente svisata. Il Sefer Yezirah fu tradotto in latino dal mistico cristiano G. Postel e stampato in data addirittura anteriore all'edizione ebraica (Parigi, 1552). Un'altra edizione latina, con commenti, fu pubblicata da S. Rittangel nel 1652. Traduzioni in inglese, quasi tutte con commenti, furono pubblicate da I. Kalisch (18733, A. Edersheim (1883), P. Davidson (1896), W. Westcott (1911), K. Stenring (1923), Akiva ben Joseph (The Book of Formation 1970); in tedesco da J.F. von Meyer (1830), L. Goldschmidt (1894, che infondatamente sostiene di dare il testo critico ebraico), E. Bischoff (1913); in francese da Papus (1888), dalla duchessa C. de Cimara (1913), Carlo Suarès (1968); in italiano, da S. Savini (1923); in ungherese da B. Tennen (1931) e in ceco da O. Griese (1921). Il misticismo nel periodo geonico Il periodo mishnaico e quello talmudico furono periodi di insopprimibile creatività nel campo del misticismo e dell'indagine esoterica. Nell'era geonica (dal VII all'XI secolo) emerse ben poco che fosse sostanzialmente originale, e le varie correnti già ricordate continuarono ad esistere e a mescolarsi. Il centro dell'attività mistica si spostò in Babilonia, sebbene la continuità della sua influenza in Palestina risulti evidente in parecchi capitoli della successiva letteratura midrashica e in particolare in Pirkei de-R. Eliezer. Le poesie di Eleazar Kallir, che sono influenzate dalla letteratura della Merkabah e dallo Shi'ur Komah, appartengono alla fine del periodo precedente, o furono composte tra le due ere. Il poeta non cercò di nascondere le idee che erano state trasmesse tramite le vecchie teorie esoteriche. Sviluppandosi durante questo periodo, in Palestina e in Babilonia, il misticismo seguì il modello del periodo precedente. Gli scritti apocalittici continuarono con grande slancio: sono giunti fino a noi esempi dal tempo degli amoraim fino a quello delle Crociate, e sono stati raccolti nella grande antologia di Judah Even-Shemuel, Midrashei Ge'ullah (1954): quasi tutti appartengono al periodo geonico. Essi presentano una spiccata connessione con la tradizione della Merkabah e parecchi sono stati conservati nei manoscritti di opere di mistici. Appare qui per la prima volta Simeon b. Yohai, a fianco di R. Ishmael, portatore della tradizione apocalittica (in Nistarot de-R. Shimon b. Yohai). Vi erano inoltre varie apocalissi attribuite ai profeti Elia, Zerubbabel e Daniele. All'estremo opposto, si diffusero e prosperarono in questi ambienti un'angelologia e una teurgia che produssero una letteratura ricchissima, in gran parte tuttora esistente. In luogo della contemplazione del Carro, o in aggiunta ad essa, questa presenta una magia pratica dai numerosi aspetti, associata al principe o ai principi della Torah, i cui nomi variano. Molti incantesimi rivolti all'angelo Yofiel e ai suoi compagni, quali principi della sapienza e della Torah, si trovano in un gran numero di manoscritti di manuali magici che continuano la tradizione dei precedenti papiri magici. Vi era inoltre la consuetudine di invocare questi principi, particolarmente alla vigilia del Giorno dell'Espiazione, o addirittura la notte stessa di tale giorno. Formule per finalità più terrene, inoltre, sono state conservate in molti incantesimi scritti in aramaico babilonese da "Maestri del Nome" ebrei e non sempre per conto esclusivo di clienti ebrei. (Vedasi Baal Shem p. 310). Può darsi che questo avesse qualcosa a che fare con l'origine dello stereotipo medievale dell'ebreo visto come mago e incantatore. Vari concetti dell'ambiente mistico della Merkabah, oltre a idee mitologiche e aggadiche talune ignote a tutte le altre fonti - si infiltrarono in gruppi effettivamente molto lontani dal misticismo e molto più vicini alla magia. Inoltre, a fianco dell'angelologia, crebbe anche una demonologia estremamente ricca di dettagli. Molti esempi (pubblicati da Montgomery C. Gordon e da altri) furono trovati su ciotole d'argilla che venivano sepolte, secondo la consuetudine, sotto la soglia delle case. Hanno paralleli importanti tra gli incantesimi trasmessi attraverso la tradizione letteraria nei frammenti della Genizah e nel materiale che pervenne addirittura ai Hasidei Ashkenaz (per esempio in Havdalah de-R. Akiva). La teologia e l'angelologia degli incantesimi non furono sempre spiegate correttamente dai curatori, che vedevano in esse una teologia eterodossa. Fu del pari in Babilonia, a quanto sembra, che venne composto il libro Raza Rabba ("Il Grande Mistero"). Attaccato dai karaiti quale opera di stregoneria, il libro in realtà contiene materiale magico, ma i frammenti pervenuti fino a noi mostrano che ha anche un contenuto della Merkabah, sotto forma di un dialogo tra R. Akiva e R. Ishmael. Poiché l'angelologia di questi frammenti non ha paralleli in altre fonti, sembra che l'opera sia una cristallizzazione di una antica forma di una teoria degli "eoni' e di speculazioni di carattere gnostico. Lo stile, molto diverso da quello dei heikhalot, indica uno stadio molto più tardo. I frammenti sono stati pubblicati da G. Scholem in Reshit ka-Kabbalah (1948), 220-38. Gli inizi delle nuove tendenze di questo periodo si possono discernere in tre aree: Le enunciazioni impiegate nella creazione del mondo erano concepite come forze entro il Carro o come "eoni", middot, o ipostasi. Non è del tutto chiaro in quale misura questa speculazione sia associata con la visione delle dieci Sefirot nel Sefer Yezirah. È evidente, tuttavia, che negli ambienti gnostici ebraici il concetto della Shekninah occupava una posizione completamente nuova. Nelle prime fonti, "Shekhinah" è un'espressione usata per denotare la presenza di Dio nel mondo, e non è altro che un nome di tale presenza; più tardi diviene un'ipostasi distinta da Dio, una distinzione che appare per la prima volta nel tardo Midrash ai Proverbi (Mid. Prov. 47a: "la Shekhinah stette davanti al Santissimo, che sia benedetto, e Gli disse"). In contrasto con questa separazione di Dio e della sua Shekhinah, nacque un altro concetto originale: l'identificazione della Shekhinah con keneset Yisrael ("la comunità di Israele"). In questa tipologia chiaramente gnostica, le allegorie usate dal Midrash per descrivere la relazione tra il Santissimo, che sia benedetto, e la comunità di Israele, vengono trasmutate in questo concetto gnostico della Shekhinah o "la figlia" nelle fonti orientali che sono incorporate nel Sefer ha-Bahir. Le interpretazioni gnostiche di altri termini, come sapienza, e di varie similitudini talmudiche nello spirito del simbolismo gnostico, possono essere intese come risalenti alle prime fonti del Sefer ha-Bahir (ibid. 78-107). Molte delle similitudini contenute nel libro possono essere comprese solo se inquadrate su uno sfondo orientale, e in particolare babilonese, come ad esempio le affermazioni relative alla palma da dattero e al suo significato simbolico. L'ascesa del pentimento per raggiungere il Trono di Gloria è interpretata da un tardo Midrash (Pesikta Rabbati 185a) come una effettiva ascesa del peccatore pentito attraverso tutti i firmamenti, e perciò il processo del pentimento è qui strettamente connesso al processo dell'ascesa al Carro. 2) In questo periodo, in vari ambienti orientali mise inoltre radici l'idea della trasmigrazione delle anime (gilgul). Accettata da Anan b. Uavid e dai suoi seguaci (fino al X secolo), sebbene più tardi respinta dai karaiti, fu adottala anche in quegli ambienti al cui patrimonio letterario attinsero i redattori del Sefer ha-Bahir. Per Anan (che compose un libro su questo argomento) e i suoi seguaci, l'idea, che a quanto sembra ebbe origine tra le sette persiane e, mutaziliti islamici, non aveva aspetti mistici. É evidente, tuttavia, che l'idea della trasmigrazione accettata dai mistici attingeva ad altre fonti, perché nelle fonti del Sefer ha-Bahir appare come un grande mistero, allude solo mediante l'allegoria, e basato su versetti scritturali molto diversi da quelli citati dalla setta di Anan e ripetuti da Kirkisani nel suo Kitab al-Anwar, "Libro delle Luci". 3) All'idea dei Nomi Sacri e degli angeli tu aggiunto un elemento nuovo, che occupava una posizione preminente nella teoria della Merkabah. Era un tentativo di scoprire legami numelologici, tramite la gematria, tra i divelsi tipi di nomi e versetti scritturali, preghiere e altri scritti. I "segreti" numerologici, sodot, avevano due scopi. In primo luogo, assicuravano che i nomi venissero scritti esattamente come i compositori di gematriot li ricevevano dalle fonti orali e scritte, anche se il sistema non li salvava completamente dalle mutilazioni e dalle variazioni, come è chiaramente privato dagli scritti mistici dei Hasidei Ashkenaz. In secondo luogo, con questo mezzo era possibile assegnare significati mistici e "intenzioni" (kavvanot) a questi nomi, che servivano d'incentivo a una meditazione più profonda, soprattutto perché molti di quei nomi erano privi di qualunque significato. Questo processo sembra legato a un declino dell'uso pratico di questo materiale durante la preparazione per l'ascesa estatica dell'anima al cielo. I nomi che avevano origine dall'intensa esaltazione emotiva dei contemplativi e dei visionari venivano spogliati del loro significato quale aiuto tecnico per la pratica estatica, e perciò richiedevano interpretazioni e significati su un nuovo livello di kavvanah. Tutti i nomi, di qualunque specie, hanno quindi un contenuto contemplativo; non che in questo periodo scomparisse completamente l'ascesa alla Merkabah, perché i vari trattati contenuti in molti manoscritti sui metodi di preparazione a tale ascesa attestano la continuità della loro applicazione pratica. Tuttavia e chiaro che questo elemento divenne a poco a poco meno significativo. A questo si deve aggiungere un altro fattore: l'interpretazione delle preghiere regolari, alla ricerca di kavvanot di questo tipo numerico. É possibile determinare con certezza, in base alle testimonianze pervenute fino a noi, dove fecero la loro prima apparizione i segreti dei nomi e i misteri della preghiera secondo questo sistema di gematria. Le nuove interpretazioni della preghiera collegano le parole del frasario liturgico, in generale, con nomi tratti dalla tradizione della Merkabah e dall'angelologia. Forse questo legame venne formulato per la prima volta in Babilonia; ma è del pari possibile che crescesse in Italia, dove i misteri della Merkabah e tutto il materiale associato si diffusero non più tardi del il secolo. La tradizione giudaica italiana, particolarmente nelle forme popolari assunte nella Megillat Ahima az di Ahima az d'Oria, mostra chiaramente che i rabbini erano ben versati nelle questioni della Merkabah. Inoltre, ci parla dell'attività miracolosa di uno dei mistici della Merkahah emigrato da Baghdad, Abu Aharon (Aaron di Baghdad), il quale operò meraviglie grazie al potete dei Nomi sacri durante i brevi anni del suo soggiorno italiano. La successiva tradizione dei Hasidei Ashkenaz (XII secolo) affermò che questi nuovi misteri furono trasmessi intorno all'anno 870 a R. Moses b. Kalonymus, a Lucca, dallo stesso Aby Aharol, figlio di R. Samuel ha-Nazi di Baghdad. successivamente, R. Moses si recò in Germania, dove gettò le fondamenta della tradizione mistica dei Hasidei Ashkenaz, che crebbe intorno a questo nuovo elemento. La personalità di Abu Aharon rimane oscura in tutte queste tradizioni. e i recenti tentativi (in numerosi saggi di Israel Weinstock) di vederlo come una figura centrale nell'intera evoluzione della Cabala e come autore e curatore di molte opere mistiche, inclusi la letteratura dei heikhalot e il Sefer ha-Bahir, sono basati su un uso estremo di gematriot e ipotesi dubbie. Comunque non c'è dubbio che al termine del periodo geonico il misticismo si diffuse in Italia, nella forma della letteratura della Merkabah e forse anche in quella della citata teoria dei nomi, che servì da anello di congiunzione tra l'oriente e i successivi sviluppi in Germania e in Francia. Queste idee pervennero in Italia attraverso vari canali. Gli elementi magico-teurgici si posero in primo piano, mentre l'assetto speculativo si indebolì. Quest'ultimo fu rappresentato nel complesso dal commento del medico Shabbetai Donnolo (913-c.984) al Sefer Yezirah, indiscutibilmente influenzato dal commento di Saadiah b. Joseph (882-942) alla stessa opera. É impossibile dire in quale misura passassero attraverso gli stessi canali anche Scritti teosofici di carattere gnostico, in ebraico o in aramaico: ma si tratta d'una possibilità che non può essere negata. Dai numerosi testi della letteratura mistica pervenuti fino a noi dal periodo talmudico e da quello geonico si può dedurre che questi tipi di idee e di mentalità erano diffusi in molti ambienti, ed erano interamente o parzialmente riservati agli iniziati. Solo in rarissime occasioni è possibile stabilire con certezza l'identità personale e sociale di questi ambienti. Non c'è dubbio che, a parte i singoli tannaim ed amoraim, il cui attaccamento agli studi mistici e attestato da prove attendibili, ve ne erano molti, i cui nomi restano sconosciuti, che si dedicavano al misticismo o ne facevano addirittura il loro interesse principale. Oltre ai rabbini che sono già stati ricordati. R. Meir, R. Isaac, R. Levi, R. Joshua b. Levi, R. Hoshaya e R. Invani b. Sasson (o Sisi) furono legati a idee mistiche. L'identità di coloro che studiavano teurgia (e che erano chiamati, in aramaico, "usatori del Nome", ba'alei ha-Shem) è completamente sconosciuta; e molti di loro, ovviamente, non provenivano dagli ambienti rabbinici. La nostra conoscenza degli esponenti dei misticismo e dell'esoterismo nel periodo geonico è ancora più limitata. I responsa geonici rivelano che queste tradizioni s'erano diffuse nelle principali accademie, ma non c'è prova che i più importanti geonim fossero versati in questi insegnamenti, o che li praticassero. Il materiale relativo alle tradizioni della Merkabah nei responsa e nei commenti dei geonim si segnala per l'estrema cautela, e talvolta per la tolleranza. Il tentativo più importante di collegare le teorie del Sefer Yezirah alle idee filosofiche e teologiche contemporanee fu compiuto da Saadiah Gaon, il quale scrisse il primo commento estensivo al libro. Egli si astenne dal trattare dettagliatamente la tematica della Merkabah e dello Shi'ur Komah, ma nel contempo non la rinnegò, nonostante gli attacchi dei karati. In numerosi casi, sherira b. Hanina Gaon e Hai Gaon discussero argomenti in questo campo, ma senza collegare le loro spiegazioni alle idee filosofiche espresse altrove nei loro scritti. L'opinione di Hai Gaon, nel suo responsum riguardante i Nomi Sacri, come il Nome di 42 e 72x3 lettere indusse altri ad attribuirgli commenti più dettagliati su questi argomenti, e alcuni di essi pervennero ai Hasidei Ashkenaz. Le parole che Hai Gaon rivolse ai rabbini di Kairouan mostrano che l'insegnamento esoterico sui nomi ebbe un'influenza anche sulla Diaspora più lontana; ma dimostrano del pari che non vi era una tradizione, e c'era una scarsa diffusione testuale dei trattati dei heikhalot, di cui il gaon dice: "colui che li vede ne è atterrito". In Italia questa letteratura si diffuse particolarmente tra i rabbini e i poeti (paytanim), e un'importante sezione dell'opera di Amittai b. Shephatiah (IX secolo) consiste di poesie sulla Merkabah. Via via che queste tradizioni si sparsero in Europa, alcuni circoli di eruditi rabbinici divennero ancora una volta gli esponenti principali, ma non gli unici, dell'insegnamento mistico. In questo periodo furono scritti anche aggadot e Midrashim con tendenze angelologiche ed esoteriche. Il Midrash Avkir. che era ancora conosciuto in Germania fino alla fine del Medioevo, conteneva materiale ricco di elementi mitici, altrimenti ignoti, a proposito degli angeli e dei nomi. Le parti che appaiono in Likkutim mi-Midrash Avkir furono raccolte da S. Buber nel 1883. Anche varie parti di Pesikta Rabbati rispecchiano le idee dei mistici Il Midrash Konen è formato di elementi diversi; la prima parte dell'opera include diverse versioni dell'angelologia e una versione di ma'aseh bereshit. Vi appare inoltre un elemento di gematria. A giudicare dalle parole greche nella prima parte, il resto pervenuto fino a noi venne curato in Palestina o nell'Italia meridionale. Nella tradizione dei Hasidei Ashkenaz (manoscritto del British Museum 752, fol. 132b) sopravvive un frammento di un Midrash relativo agli angeli attivi durante l'Esodo dall'Egitto, basato in larga misura sull'esegesi delle gematriot; e sembrerebbe che vi fossero altri Midrashim di questo tipo, la cui origine è ignota. Sebbene nella letteratura della Merkabah siano espresse o sottintese molte idee riguardanti Dio e la Sua manifestazione, in queste prime fasi del misticismo non viene dedicata un'attenzione particolare all'insegnamento sull'uomo. I mitici della Merkabah ponevano in risalto l'aspetto estatico e contemplativo, e l'uomo li interessava solo in quanto riceveva la visione e la velava a Israele. Le loro speculazioni non contengono una specifica teoria teorica né nuove concezioni della natura dell'uomo. I movimenti hasidici in Europa e in Egitto Nel Giudaismo del Medioevo si svilupparono, in luoghi diversi e con vari mezzi, impulsi religiosi mistici, in quanto coinvolgevano il potente desiderio da parte dell'uomo di una più intima comunione con Dio e di una vita religiosa connessa con questa; non tutti sono associati esclusivamente con la Cabala. Queste tendenze furono il risultato di una fusione tra impulsi interni e l'influenza esterna dei movimenti religiosi presenti negli ambienti non ebrei. Poiché i loro proponenti non trovavano la soluzione per tutte le loro esigenze nel materiale talmudico e midrashico che affermava di legare più strettamente l'uomo a Dio - sebbene essi lo utilizzassero per quanto possibile, e talora basassero su di esso interpretazioni forzate - essi attingevano abbondantemente dalla letteratura dei sufi, i mistici dell'Islam, e alla tradizione ascetica cristiana. La mescolanza di queste tradizioni con quella del Giudaismo produsse tendenze che venivano considerate come una sorta di continuazione dell'opera dei Hasidei (pietisti) del periodo tannaitico, ed essi esaltavano il valore del hasidut quale mezzo per portare l'uomo più vicino al deuekut ("comunione" con Dio) sebbene questo termine non venisse ancora usato per designare il culmine del hasidut. L'estremismo nel comportamento etico e religioso, che nei detti e nella letteratura dei rabbini caratterizzava il termine "hasid" ("pio") in contrapposizione a zaddik (virtuoso"), divenne la norma centrale di queste nuove tendenze. Queste trovarono la loro classica espressione letteraria, dapprima e soprattutto, nella Spagna dell'XI secolo, nei Hovot ha-Levavot ("Doveri del cuore'') di Bahya ibn Paquda, scritti originariamente in arabo. Il materiale che tratta della vita dedita alla comunione del vero "servo" - il quale non è altro che il hasid agognante alla vita mistica - è tratto da fonti sufiche, e l'intenzione dell'autore era di produrre un manuale di pietismo giudaico culminante in un intento mistico. Una traduzione in ebraico dei Houot ha-Levavot fu effettuata nel 1160 per iniziativa di Meshullam ben Jacob e dalla cerchia dei cabalisti di Lunel. Il grande successo del libro, soprattutto nella versione ebraica, mostra quanto rispondesse alle esigenze religiose del popolo, anche al di fuori dei confini della Cabala. L'ovvio nesso con la tradizione talmudica, che serviva da punto di partenza per spiegazioni di straordinario intento spirituale, era una caratteristica distintiva in opere di questo tipo, che rivelano inoltre chiaramente elementi filosofici neoplatonici. Tali elementi facilitavano formulazioni di carattere mistico, e questa filosofia divenne uno dei più potenti mezzi d'espressione. Molte poesie di Solom ibn Gabirol, contemporaneo più anziano di Bahya, provano questa tendenza a una spiritualità mistica, espressa particolarmente nei concetti della sua grande opera filosofica. Mekor Hayyim, satura dello spirito del neoplatanismo. La misura in cui le sue poesie rispecchiano esperienze mistiche individuali è controversa. In Spagna, dopo un secolo o più, queste tendenze si mescolano con l'emergente Cabala, dove qua e là si possono riconoscere tracce di Gabirol, soprattutto negli scritti di Isaac b. Latif. Parallelamente, vi fu la crescita di un hasidut di tendenze mistiche in Egitto, ai tempi di Maimonide e di suo figlio Abraham b. Moses b. Maimon; questo tuttavia non trovò eco nella Cabala, e rimase un caso indipendente di sufismo giudaico, documentato ancora nel XIV o persino nel XV secolo. L'epitelo "hasid" non era un semplice modo di dire: era la descrizione di un uomo che seguiva un particolare modo di vita, e veniva aggiunto ai nomi di parecchi rabbini a partire dall'XI secolo, nei documenti letterari e personali sopravvissuti nella Genizah. La tendenza egizia del hasidut si trasformò in un misticismo a orientamento etico' (S.D. Goitein); particolarmente nelle produzione letteraria di Abraham b. Moses b.Maimon (m. 1237). L'aspetto mistico del suo libro Kifayat al-'Abidin è interamente basato su fonti sufiche e non attesta tradizioni giudaiche affini note all'autore. L'ambiente dei Hasidim cresciuto intorno a lui poneva in risalto l'aspetto esoterico del loro insegnamento (S.D. Goitein), e anche suo figlio Obadiah seguì la stessa strada. Un'opera molto più tarda dello stesso tipo fu discussa da F. Rosenthal. Ciò che rimane di questa letteratura è scritto in arabo, il che può spiegare perché non trovò posto negli scritti dei cabalisti spagnoli moltissimi dei quali non conoscevano tale lingua. Un movimento religioso essenzialmente simile crebbe in Francia e in Germania a partire dall'XI secolo. Raggiunse il culmine nella seconda metà del XII e del XIII secolo, ma continuò ad avere ripercussioni per molto tempo, soprattutto nel Giudaismo del mondo ashkenazi. Questo movimento conosciuto come Hasidei Ashkenaz, ha due aspetti: quello etico e quello esoterico-filosofico. Sul piano etico, si sviluppò un nuovo ideale di estremo hasidut, collegato a un adeguato modo di vita, descritto particolarmente nel Sefer Hasidim di Judah b. Samuel he-Hasid, pervenuto fino a noi in due versioni, una breve e l'altra lunga. Oltre alle specifiche consuetudini pietiste, si sviluppò un metodo particolare di penitenza che, straordinario per il suo estremismo, ebbe una spiccata influenza sull'insegnamento etico e sul comportamento, Il fattore comune di tutti i movimenti hasidici di Spagna Egitto e Germania fu l'opposizione violenta che suscitavano, attestata dagli stessi hasidim. Un Hasidismo che non destasse l'opposizione della comunità non poteva, secondo la loro stessa definizione, essere considerato autentico. Equanimità di spirito, indifferenza alla persecuzione e all'ignominia: questi erano i tratti caratteristici del hasid, a qualunque cerchia particolare egli appartenesse. Sebbene i Hasidei Ashkenaz rispecchiassero in una certa misura l'ascetismo cristiano contemporaneo, si svilupparono soprattutto entro la struttura di una chiara tradizione talmudica, e spesso i principi fondamentali erano identici ai principi della tradizione. Tutti questi movimenti ebbero fin dall'inizio un significato sociale, rivolto a "far rivivere i cuori''. I Hasidei Ashkenaz non ponevano in grande risalto, relativamente parlando, l'elemento mistico associato all'ideale hasidico. Nonostante il paradosso insito della situazione, cercavano per quanto era possibile di integrare il hasid, chiaramente un fenomeno innaturale, nella generale comunità giudaica e di renderlo responsabile in pratica nei confronti della comunità stessa. Il hasid che rinunciava ai suoi impulsi naturali e agiva sempre "oltre il limite della stessa giustizia" era la vera incarnazione del timore e dell'amore di Dio nella loro essenza più pura. Molti di questi hasidim raggiungevano i più alti livelli spirituali , ed erano considerati maestri dello spirito santo, o addirittura profeti, un termine usato in riferimento a molti uomini noti per la loro attività negli ambienti tosafisti, ad esempio R.Ezra ha-Navi (il profeta) di Montcontour, e ad altri che sono per il resto del tutto sconosciuti, ad esempio R. Nehemiah ha-Navi e R. Troeslin ha-Navi di Erfurt. Il conseguimento di tali vertici spirituali era connesso non soltanto al loro comportamento sul piano etico, ma anche alla distinzione da essi raggiunta nel regno della filosofia esoterica. A quest'ultima veniva assegnata una posizione importante: in essa tutte le tendenze precedenti venivano mantenute e fuse con nuove forze. Poiché rimaneva l'oggetto principale della ricerca, e addirittura una guida pratica all'ascesa del cielo, l'insegnamento della Merkabah finì per intrecciarsi al misticismo dei numeri e alle speculazioni che si basavano su di esso. Oltre all'ascesa al cielo estatica o visionaria, si sviluppò una tendenza alla meditazione profonda, alla preghiera e ai misteri della preghiera che venivano comunicati oralmente. La filosofia introdusse un nuovo elemento, soprattutto tramite il commento di Saadiah Goan al Sefer Yezirah ( che era stato tradotto in ebraico già nell'XI secolo) e tramite la prima tradizione dei suoi Emunot ve-De'ot in uno stile che ricordava i piyyutim della scuola dei Kallir. Fu questa la fonte della teoria del Kavod ("Gloria"), trasmessa attraverso la letteratura hasidica, che vedeva la Gloria Divina come la prima entità creata, sebbene i mistici osassero parlarne solo con tremebondo timore. Nonostante questa distinzione tra Dio e il Kavod, chiamato anche Shekinah, essi continuarono a riferirsi alla Shekinah secondo la concezione talmudica e midrashica che la vedeva come attributo di Dio. Un fattore addizionale a partire dal XII secolo fu l'influenza dei rabbini della scuola neoplatonica, specialmente Abraham ibn Ezra e Abraham b. Hiyya. Forse i viaggi di Ibn Ezra in Francia e i suoi contatti personali contribuirono a tale influenza non meno dei suoi libri. In tutta la letteratura ereditata da Saadiah e dai rabbini spagnoli, i hasidim si concentrarono sulla parte che era più vicina al loro pensiero, trasformando praticamente quegli autori in teosofi. Poiché non pervennero a una sistemazione unificata di questi elementi disparati e contraddittori, nel formulare le loro idee si accontentarono di presentazioni eclettiche. Le idee della Merkahab e dello Shi'ur Komah erano già conosciute in Francia all'inizio del IX secolo, come è attestato dagli attacchi sferrati da Agobardo, vescovo di Lione. Qua e là, barlumi di queste tradizioni appaiono negli scritti di Rashi e dei tosafisti del XII e del XIII secolo. Lo studio del Sefer Yezirah era considerato una disciplina esoterica, consistente sia di rivelazioni relative alla creazione e ai misteri del mondo, sia di una profonda conoscenza dei misteri del linguaggio e dei Nomi Sacri. Tradizioni di questo tipo ci sono state lasciate da Jacob b. Meir Tam, Isaac di Dampierre, Elhanan di Corbeil ed Ezra di Montcontour. Quest'ultimo, affermando di aver ricevuto rivelazioni divine, suscitò slanci messianici in Francia e altrove nel secondo decennio del XIII secolo. A queste tradizioni fu data forma scritta in Francia nel Sefer ha-Hayyim (Gerusalemme, 1973), scritto intorno al 1200. Tuttavia, seguendo Ibn Ezra, la sua dottrina fondamentale assimilò altri elementi teosofici relativi ai divini attributi e al loro posto nel Kauod e sotto il Trono, di cui è evidente l'affinità con la prospettiva cabalistica. In tutti gli aspetti, incluso quello esoterico, il movimento raggiunse il culmine in Germania, dapprima nell'ambito della famiglia Kalonymus a partire dall'XI secolo. A Worms, Speyer e Mainz, e successivamente a Regensburg, si conoscono i principali sostenitori della tradizione: Samuel b. Kalonymus, Judah b. Kalonymus di Mainz, e suo figlio, Eleazar di Worms; il suo maestro, Judah b. Samuel he-Hasid (m. 1217); Judah b. Kalonvmus di Speyer (autore di Sefer Yihusei Tanna'im ue-Amora'im) e i discendenti di Judah he-Hasid che erano sparsi in tutte le città tedesche del XIII secolo. L'ostolo ed i loro allievi diedero un'influente espressione popolare al movimento, e molti di loro scrissero libri di vasta portata che incorporavano una parte cospicua delle loro tradizioni e delle loro idee. Oltre al Sefer Hasidirn, Judah he-Hasid, la figura centrale del movimento in Germania, scrisse altri libri che ci sono noti solo attraverso citazioni di altre opere soprattutto il Sefer ha-Kavod. secondo J. Dan, egli fu anche l'autore di una voluminosa opera pervenuta fino a noi nel manoscritto 1567 di Oxford. Il suo discepolo, Eleazar di Worms, incluse in opere più o meno voluminose (molte delle quali sono state conservate in manoscritto) la maggior parte del materiale da lui ricevuto, relativo agli insegnamenti del ma'aseh merkabah, del ma'aseh bereshit e della dottrina dei Nomi. Sono un miscuglio di mitologia e di teologia, di Midrash e di speculazioni da una parte, e di teurgia dall'altra. Tutte le tendenze menzionate qui sopra trovano espressione nella sua opera, e coesistono fianco a fianco, come in Sodei Razayya (di cui furono pubblicate parti considerevoli nel Sefer Razi'el, e che esiste tuttora nella versione integrale del manoscritto Margoliouth 737 del British Museum) oppure nei testi ordinati nella forma di halakhot: Hilkhot ha-Malahim, Hilkhot ha-Kisse, Hilkhot ha-Kavod, flilkhot ha-Nevu'ah (pubblicato con il titolo di Sodei Razayya, 1936), e inoltre in molti altri tuttora inediti. Questa letteratura ha una portata molto vasta, e contiene alcuni frammenti di tradizioni inconsuete di carattere gnostico, che apparentemente giunsero dall'Oriente attraverso l'Italia. I misteri della preghiera e l'interpretazione estensiva della scrittura mediante il misticismo dei numeri furono ulteriormente sviluppati in Germania, in parte tramite la catena della tradizione della famiglia Kalonymus e in parte tramite altri sviluppi, così ampi che la ricerca delle associazioni mediante le gematriot venne considerata da Jacob b. Asher (Tur OH 113) il fattore più caratteristico dei Hasidei Ashkenaz. Nel XIII secolo fiorì una letteratura ricchissima, basata sui diversi aspetti della tradizione hasidica, ma tuttavia indipendente dalla letteratura cabalistica che si sviluppò nello stesso periodo. In queste fonti, molte delle quali manoscritte, sono conservati i nomi di numerosi rabbini che percorsero la via della teosofia hasidica. Molti dei loro detti sono incorporati nel commento di Eleazar Hirz Treves alla liturgia (in Siddur ha-Tefillah, 1560) e in Arugat ha-Bosem di Abraham b. Azriel, un commento dell'inizio del XIII secolo al piyyutim del mahzor del rito ashkenazi. In questo ambiente, il Sefer Yezirah veniva quasi sempre interpretato alla maniera di Saadiah e di Shabbetai Donnolo, con in più la tendenza a vedere il libro come una guida tanto per i mistici quanto per gli adepti della magia. Lo studio dell'opera era considerato riuscito quando il mistico conseguiva la visione del golem, connessa a uno specifico rituale di carattere straordinariamente estatico. Solo in tempi più tardi questa esperienza interiore assunse forme più tangibili nella leggenda popolare. Le concezioni teologiche dei hasidim sono riassunte in Hilkhot ha-Kauod e in Sha'arei ha-Sod ue-ha-Yihud ue-ha-Emunah e nelle varie versioni di Sod ha-Yihud, da Judah he-Hasid a Moses Azriel alla fine del XIII secolo. Oltre alla versione hasidica del concetto del Kauod, si sviluppò in un particolare ambiente dell'XI o XII secolo un'altra concezione, che non è menzionata negli scritti di Judah he-Hasid e della sua scuola. É l'idea del keruu meyuhad ("il cherubino speciale") o ha-keruu ha-kadosh ("il santo cherubino"). Secondo questa concezione, non è il Kauod puro e semplice ad essere assiso sul Trono, bensì una manifestazione speciale nella forma di un angelo o di un cherubino, al quale alludono i misteri dello Shi'ur Komah. Negli scritti di Judah he-Hasid e di Eleazar di Worms e nel Sefer ha-Hayyim, vi sono numerose variazioni sul tema del Kauod e vari modi di presentare l'idea. Talvolta viene fatta una distinzione tra il Kauod celato e il rivelato, e così via. Il cherubino speciale appare come un'emanazione del grande fuoco della Shekhinah o del Kauod occulto, che non ha forma. In questo ambiente, i due attributi divini fondamentali sono contrapposti l'uno all'altro: la "santità" di Dio, che denota la presenza della Shekhinah in tutte le cose e il Kavod occulto, e la "grandezza" o "sovranità" di Dio, che ha forma e dimensioni. Questa idea ricorda in un certo senso le speculazioni delle sette orientali, come in quella di Benjamin b. Moses Nahawendi, il quale riteneva che il mondo fosse stato creato tramite un intermediario angelico (un concetto che aveva avuto precedenti anche tra le prime sette eterodosse (durante l'evoluzione della Gnosi). Questa idea appare tra i hasidim nel testo pseudo epigrafico chiamato Baraita di Joseph b. Uzziel, che a giudicare dall'evidenza linguistica sembra scritto in Europa. Joseph b. Uzziel viene ritenuto il nipote di Ben Sira. La baraita si trova in parecchi manoscritti e fu pubblicata in parte da A. Epstein. Questa idea venne accettata da numerosi rabbini, inclusi Avigdor ha-Zarefati (XII secolo?); L'autore di Pesak ha-Yir'ah ve-ha-Emunah, che fu erroneamente combinato da A. Jellinek con Sha'arei ha-Sod ue-ha- Yihud; l'autore anonimo del commento al Sefèr Yezirah, composto apparentemente in Francia nel secolo XIII e stampato sotto il nome di Saadiah Gaon in varie edizioni del Sefer Yezirah, e infine Elhanan b. Yakar di Londra, nella prima metà del XIII secolo. Con l'andar del tempo queste idee, in particolare quella del cherubino speciale, si fusero e si confusero con la (Cabala spagnola; e in Germania, nel secolo XIV, furono composti parecchi testi che rispecchiano questa fusione, alcuni sono pervenuti fino a noi. L ideologia hasidica, particolarmente nelle sue manifestazioni francesi e nella forma conferitale da Elhanan di Londra, adottò la teoria dei cinque mondi. Menzionata da Abraham b. Hiyya in Megillat ha-Megalleh, e nata tra I neoplatonici islamici in Spagna, questa teoria enumera nell'ordine i mondi della luce, del divino, dell'intelletto, dell'anima e della natura. Talvolta, gli Scritti di questo ambiente incorporavano materiale che in origine proveniva dalla letteratura cristiana latina, come dimostrò G. Vajda a proposito di Elhanan di Londra. Le concezioni dei hasidim si rispecchiavano in notevole misura nelle loro preghiere speciali, composte nello stile associato al concetto del Kavod di Saadiah (per esempio in Shir ha-Yihud, un inno che forse fu scritto da Judah he-Hasid o addirittura prima), oppure basata frequentemente sui Nomi Segreti, cui si allude nell'acronimo. Molte sono pervenute fino a noi negli scritti di Eleazar di Wolms, in particolare nei manoscritti del suo commento al Sefer Yezirah. Vi sono inoltre preghiere e poesie che nelle intenzioni dei loro autori rappresentavano i cantici degli esseri celestiali, una sorta di continuazione degli inni dei heikhalot, i cantici delle sante hayyot. In generale, a queste preghiere non era assegnato un posto fisso nella liturgia; erano apparentemente riservate a pochi eletti. In tempi assai posteriori furono incluse in antologie liturgiche in Italia e in Germania, raccolte dai cabalisti nel periodo Safed, e molte furono finalmente pubblicate in Sha'arei Ziyyon da Hannover (cap. 3). Parecchie erano attribuite nei manoscritti a cabalisti spagnoli, ad esempio Jacob hahohen, che in effetti ebbe legami personali con i Hasidei Ashkenaz di Solomon Alkabez. Eleazar di Worms riconobbe chiaramente il carattere esoterico dei temi che meritavano uno studio speciale; ed egli enumera con alcune varianti i relativi campi: "Il mistero del Carro, il mistero della Creazione e il mistero dell'Unità (Sod ha-Yihud, un concetto nuovo) non devono essere comunicati se non durante un digiuno" (Hokhmat ha-Nefesh (1876), 3c. Egli definisce la scienza dell'anima" cui dedica una delle sue opere principali, quale mezzo e porta del "mistero dell'Unità", che apparentemente egli considerava come la radice della teologia mistica. In Sodei Razayya enumera "tre tipi di mistero", quelli del Carro, della Creazione e dei Comandamenti. La questione se i comandamenti abbiano anche una finalità esoterica è discussa anche nel Sefer Hasidim (a cura di Wistinetzki (1891), n. 1477). Questo libro (n. 984) menziona "la profondità della pietà (hasidut), la profondità delle leggi del Creatore, e la profondità della Sua Gloria (Kavod)"; e l'iniziazione a questi temi dipende dall'adempimento delle condizioni stabilite dal Talmud in relazione al ma'aseh merkabah. I mistici (hakhmei ha-hidot) sono "nutriti" in questo mondo dal sapore di alcuni dei misteri che hanno origine nell'accademia celestiale, molti dei quali sono serbati ai giusti nel mondo a venire (n. 1056). Associato all'affinità hasidica per il misticismo era il desiderio di sintetizzare il materiale più antico, inclusi gli elementi antropomorfici, con l'interpretazione spirituale che nega tali elementi. Scosso da questo compromesso, Moses Taku (scrivendo all'inizio del XIII secolo) smentì i principi saadiani e difese un punto di vista corporeo. Il suo attacco fu incluso in Ketav Tammim, di cui sopravvivono due ampi frammenti (OzarNehmad, 3 (1860), 54-99, e Arugat ha-Bosem, vol. 1, 263-8). Vedendo nelle nuove tendenze "una nuova religione" in odore d'eresia, egli denunciò inoltre l'attenzione che i hasidim tributavano ai misteri della preghiera, e in particolare la disseminazione di tali misteri nei loro libri. Con questo attacco, egli mostra quanto fossero diffuse nel suo tempo le idee e la letteratura dei hasidim. Fondazione della Cabala in Provenza Contemporaneamente alla diffusione del hasidut in Francia e in Germania, emersero nella Francia meridionale le prime fasi storiche della Cabala, benché non vi sia dubbio che vi furono stadi precedenti della sua evoluzione che oggi è impossibile discernere. Questi primi stadi furono connessi all'esistenza di una tradizione gnostica giudaica, associata in particolari ambienti orientali con il misticismo della Merkabah. I residui principali furono incorporati nelle parti più antiche del Sefer ha-Bahir (cfr. p. 312) e in alcuni scritti dei Hasidei Ashkenaz. Sefer ha-Bahir, ostensibilmente un antico Midrash, apparve in Provenza tra il 1150 e il 1200, ma non prima; fu evidentemente ricavato da un certo numero di trattati provenienti dalla Germania o direttamente dall'Oriente. Un'analisi dell'opera non lascia dubbi circa il fatto che non fu redatta originariamente in Provenza, e conferma in larga misura la tradizione cabalistica della metà del XIII secolo circa la storia del libro e delle sue fonti prima che pervenisse ai primi mistici provenzali in forma mutilata. Il fatto che il libro rispecchi opinioni non correnti in Provenza e in Spagna è dimostrato in modo assai chiaro dal commento al Sefer Yezirah di Judah b. Barzillai, scritto nel primo terzo del secolo XII, e contenente tutto ciò che l'autore conosceva delle tradizioni del ma aseh bereshit e soprattutto del ma'aseh merkabah. Nelle sue interpretazioni delle dieci Sefirot del Sefer Yezirah non vi è menzione di esbe quali "eoni" o attributi divini, o quali poteri nella Merkabah, come appaiono nel Bahir. Il suo commento è totalmente impregnato dello spirito di Saadiah Gaon, ben diverso da quello del Bahir, che non si occupa affatto di idee filosofiche né tenta di riconciliare la filosofia con i concetti propugnati. Redatto in forma di interpretazioni di versetti scritturali, in particolare passi di carattere mitologico, il Bahir trasforma la tradizione della Merkabah in una tradizione gnostica riguardante i poteri di Dio situati entro la Gloria Divina (Kavod), alla cui attività nella creazione si allude tramite l'interpretazione simbolica della Bibbia e l'aggadah. Sono conservate reliquie di una terminologia e di un simbolismo chiaramente gnostici, benché tramite una redazione giudaica, che connette i simboli con motivi già ben noti grazie all'aggadah. Questo avviene in particolare nei confronti di tutto ciò che riguarda la keneset Yisrael, identificata con la Shekhinah, con il Kavod e con la bat ("figlia"), la quale comprende tutte le vie della sapienza. Negli scritti di Eleazar di Worms vi sono indicazioni che anch'egli conoscesse questa terminologia, precisamente in rapporto con il simbolismo della Shekhinah. La teoria delle Sefirot non fu formulata definitivamente nel Sefer ha-Bahir, e molte delle affermazioni contenute nel libro non furono comprese neppure dai primi cabalisti dell'Europa occidentale. L'insegnamento del Bahir è introdotto come ma'aseh merkabah; il termine "Kabbalah" non viene ancora usato. La teoria della trasmigrazione è presentata come un mistero, un'idea che si spiega da sé e non richiede giustificazioni filosofiche, nonostante l'opposizione dei filosofi giudaici a partire dal tempo di Saadiah. Il libro Raza Rabba può essere identificato come una delle fonti del Bahir ma non vi è dubbio che vi furono altre fonti, oggi sconosciute. I primi segni dall'apparizione della tradizione gnostica e del simbolismo religioso costruito su di essa, si trovano nella metà del XII secolo e successivamente nell'ambiente più importante dei rabbini provenzali: Abraham b. Isaac di Narbona, l'autore di Sefer ha-Eshkol, suo genero Abraham b. David (Rabad), l'autore delle "animadversiones" (glosse) al Mishneh Torah di Maimonide, e Jacob Nazir di Lunel. Le loro opere non trattavano specificamente il tema del misticismo; tuttavia frammenti delle loro opinioni, sparse qua e là, provano la loro associazione con concezioni cabalistiche e con il simbolismo cabalistico. Oltre a questo, secondo l'attendibile testimonianza dei cabalisti spagnoli, essi venivano considerati come uomini ispirati dall'alto, che conseguivano "una rivelazione di Elia", cioè un esperienza mistica di risveglio spirituale, per il cui tramite veniva rivelato qualcosa di nuovo. Poiché molti punti della teoria delle Sefirot nella sua formulazione teosofica sono già contenuti nel Sefer ha-Bahir, questa non può essere considerata come il contenuto fondamentale di queste rivelazioni; apparentemente, erano connesse con un'idea nuova della finalità mistica della preghiera, basata non sulle gematriot e i Nomi Segreti, bensì sulla contemplazione delle Sefirot quale mezzo per concentrarsi sulla kauuanah ("meditazione") nella preghiera. All'interno di questa cerchia, Jacob Nazir apparteneva ad un gruppo speciale chiamato dei perushim nel linguaggio rabbinico e dei "naziriti" nella terminologia biblica - i cui membri non praticavano il commercio, ma venivano mantenuti dalle comunità, affinché potessero dedicare tutto il loro tempo alla Torah. Per sua stessa natura, questo gruppo era affine ai hasidim, ed è provato che molti di loro conducevano una vita hasidica. All'interno del gruppo poteva evolversi una vita contemplativa, in cui era facile che nascessero aspirazioni mistiche. I rabbini ricordati più sopra non avevano in comune un sistema coerente di Pensiero: vi sono parecchie tendenze diverse e contrastanti nei loro scritti. L'idea del Kauod, nel suo chiaro significato saadiano, non veniva considerata particolarmente come un mistero, ma le interpretazioni nello spirito della teoria delle Sefirot nel Bahir erano ritenute "il grande mistero". Nella scuola di Abraham b. David, le trasmissioni di questo tipo venivano trasmesse oralmente, e i misteri relativi alle profondità del Divino furono aggiunti alla nuova teoria relativa alla mistica kavvanah durante la preghiera. Questa cerchia dei primi cabalisti provenzali operava in un ambiente religioso e culturale particolare. La cultura rabbinica aveva raggiunto in quella zona uno stadio elevatissimo di sviluppo, e persino Maimonide riteneva che quegli esperti della halakhah fossero grandi esponenti della Torah. Le loro menti erano aperte alle tendenze filosofiche del tempo. Judah ibn Tibbon, capo della famosa famiglia di traduttori, operò in questa cerchia e tradusse per i suoi colleghi molti dei più grandi testi filosofici, tra cui opere di tendenza nettamente neoplatonica. Egli tradusse inoltre dall'arabo il Kuzari di Judah Halevi, e la profonda influenza di quest'opera derivò da questa sua cerchia. I primi cabalisti assorbirono le idee del Kuzari relative alla natura di Israel, la profezia, il Tetragrammaton, il Sefer Yezirah e il suo significato, nello stesso modo in cui assimilarono gli scritti di Abraham ibn Ezra e Abraham b. Hiyya, con la loro tendenza al neoplatonismo. Le versioni ebraiche delle teorie neoplatoniche del Logos e della Volontà Divina, dell'emanazione e dell'anima, ebbero l'effetto di uno stimolo potente. Ma le teorie filosofiche relative all'Intelletto Attivo come forza cosmica, con la quale i profeti e pochi eletti potevano conseguire l'associazione, penetrarono anch'esse in questi ambienti. La stretta affinità tra questa teoria e il misticismo spicca chiaramente nella storia del misticismo islamico e cristiano medievale, e non è sorprendente che costituisca un importante anello nella catena che unisce molti cabalisti alle idee di Maimonide. L'influenza dell'ascetismo di Hovot ha-Levavot è già stata ricordata; e continuò ad avere un ruolo attivo nell'etica della Cabala e nella sua teoria della comunione mistica. Nell'ultimo trentennio del XII secolo, la Cabala si diffuse al di fuori della cerchia di Abraham b. David di Posquières. L'incontro. fra la tradizione gnostica contenuta nel Bahir e le idee platoniche riguardanti Dio, la Sua emanazione e il posto dell'uomo nel mondo, fu estremamente fecondo, e portò alla penetrazione di queste idee nelle teorie mistiche preesistenti. La Cabala, nel suo significato storico, può essere definita come il prodotto dell'interpenetrazione dello gnosticismo giudaico e del neoplatonismo. Inoltre, in quegli anni la Provenza fu teatro di un possente rivolgimento religioso nel mondo cristiano, quando la setta dei catari assunse il controllo su una vasta parte della Linguadoca, dove si trovavano i primi centri della Cabala. Non è ancora chiaro se vi fu un nesso tra il nuovo movimento nel Giudaismo, negli ambienti dei perushim e dei hasidim, e il profondo sconvolgimento che, nel Cristianesimo, trovò espressione nel movimento dei catari. Per quanto riguarda l'ideologia, non vi è praticamente nulla in comune tra le idee dei cabalisti e quelle dei catari, esclusa la teoria della trasmigrazione, che in effetti i cabalisti trassero dalle fonti orientali del Sefer ha-Bahir. La teologia dualistica dei catari era chiaramente opposta alla concezione ebraica; resta tuttavia la possibilità che vi fossero alcuni contatti oggi non più rintracciabili, tra i diversi gruppi, uniti da un profondo ed emotivo risveglio religioso. Vi sono alcuni indizi che gli ebrei della Provenza fossero a conoscenza dell'esistenza e del credo della setta già nei primi decenni del XIII secolo. I punti dei possibili contatti dottrinali tra il Bahir e il catarismo circa la natura del male sono stati discussi da Sh. Shachar. Frammenti della tradizione cabalistica familiare ad Abraham b. David e Jacob Nazir si trovano negli scritti dei cabalisti, e le chiare contraddizioni di questi e le idee più tarde, circa l'insegnamento su Dio o la questione della kavvanah, attestano la loro autenticità. L'affermazione di Abraham b. David nella sua critica di Maimonide (Hilkhot Teshuvah) in cui difende coloro che credono nella corporeità di Dio, diviene chiara se la si considera sullo sfondo delle sue concezioni cabalistiche, che distinguono la "Causa delle Cause" dal Creatore, il quale è il soggetto dello Shiur Komah nelle più antiche baraita. La sua interpretazione dell'aggadah in Eruvim 18a, secondo cui Adamo fu inizialmente creato con due facce, rispecchia egualmente la speculazione cabalistica sui divini attributi: le Sefirot. Il figlio di Abraham b. David, Isaac il Cieco (m.c. 1235), che visse a Narbona e nei pressi, fu il primo cabalista che dedicò interamente la propria opera al misticismo. Ebbe molti discepoli in Provenza e in Catalogna, i quali diffusero le idee cabalistiche nella forma in cui le avevano ricevute da lui; e m vita fu considerato la figura centrale della Cabala. I suoi seguaci in Spagna hanno lasciato alcune documentazioni dei suoi detti e delle sue abitudini, e sono pervenuti fino a noi anche alcuni trattati e lettere scritti sotto la sua dettatura il loro stile è molto diverso da quello di tutti i suoi discepoli da noi conosciuti. In generale, egli esprimeva le sue idee in modo ellittico e oscuro, e usava una terminologia caratteristica. In parte, le sue opinioni si possono conoscere tramite gli elementi comuni negli scritti dei suoi discepoli. Comunque, egli è il primo cabalista di cui emergano chiaramente la personalità storica e le idee fondamentali. Affidando i propri scritti solo a pochi individui selezionati, si oppose decisamente alla disseminazione pubblica della Cabala, poiché vedeva in essa una fonte pericolosa dl equivoci e di distorsioni. Verso la fine della sua vita protestò, in una lettera a Nahmanides e Jonah Gerondi, contro questo tipo di divulgazione in atto in Spagna, nella quale erano impegnati numerosi suoi discepoli. Quando i cabalisti spagnoli del XIII secolo parlano del "Hasid", si riferiscono a Isaac il Cieco. Egli sviluppò un misticismo contemplativo che portava alla comunione con Dio mediante la meditazione sulle Sefirot e le essenze celesti (havayot). Da lui vennero le più antiche istruzioni su meditazioni dettagliate associate alle preghiere fondamentali, secondo il concetto delle Sefirot quali fasi della vita occulta di Dio. Non c'è dubbio che egli ereditò alcune delle sue idee fondamentali dal padre, al quale si richiamava talvolta; ma aveva riconosciuto anche il valore del Sefer ha-Bahir, e costruì partendo dal suo simbolismo. Il suo commento al Sefer Yezirah è la prima opera che spiega il testo alla luce di una sistematica teoria delle Sefirot nello spirito della Cabala. A capo del mondo delle qualità divine egli pone il "pensiero" (mahashavah), dal quale emersero enunciazioni divine, le "parole" per cui mezzo fu creato il mondo. Al di sopra del "pensiero" vi è il Dio Celato, chiamato per la prima volta con il nome di Ein-Sof ("L'Infinito"; si veda più sotto). Il pensiero dell'uomo ascende mediante la meditazione mistica fino a quando raggiunse il "Pensiero" Divino, e viene da questo assorbito. A fianco di questa teoria delle Sefirot, egli sviluppò il concetto del misticismo del linguaggio. La favella degli uomini è connessa alla favella divina, e ogni linguaggio, celeste o umano, deriva da un'unica fonte: il Nome Divino. Profonde speculazioni sulla natura della Torah si trovano in un lungo frammento del commento di Isaac all'inizio del Midrash Konen. Il carattere neoplatonico delle sue idee è sorprendente, e le distingue completamente dal Bahir. Vi furono altri ambienti, in Provenza, che diffusero la tradizione cabalistica sulla base di materiale forse giunto loro direttamente da anonime fonti orientali. Da una parte, essi continuano la tendenza neoplatonica, speculativa di Isaac il Cieco, soprattutto nel suo commento al Sefer Yezirah, e dall'altra collegano la sua tendenza a idee nuove relative al mondo della Merkabah e ai poteri spirituali di cui è composta. Vi è una spiccata tendenza a particolarizzare questi poteri e a dare loro un nome, e la teoria delle Sefirot occupa solo un posto incidentale tra altri tentativi di delineare il mondo dell'emanazione e le forze che lo costituiscono. Mentre Isaac il Cieco e i suoi discepoli rivelarono le loro identità e si astennero dallo scrivere testi pseudoepigrafici, gli appartenenti a quella cerchia nascosero il più possibile la loro identità, sia in Provenza che in Spagna, e produssero una ricca pseudoepigrafia cabalistica imitando le forme letterarie usate nella letteratura della Merkabah e nel Sefer ha-Bahir. Una parte di questa letteratura pseudoepigrafica ha carattere neoplatonico e speculativo mentre un'altra parte è angelologica, demonologica e teurgica. Quest'ultima tendenza in particolare mise radici in alcune comunità castigliane, per esempio Burgos e Toledo. Fra i primi cabalisti di Toledo sono menzionati il hasid Judah ibn Ziza, Joseph ibn Mazah e Meir b. Todros Abulafia. In quale modo e in quali circostanze vi giungesse la Cabala intorno all'anno 1200 non è noto, ma vi sono indizi che collegano i cabalisti provenzali ai cittadini di Toledo. L'erudito provenzale Samuel ben Mordecai ricorda come fonti le tradizioni dei maestri provenzali Abraham b. David e suo suocero, hasidim della Germania, e Judah ibn Ziza di Toledo. La letteratura pseudoepigrafica usò nomi dal tempo di Mosè fino ai geonim e ai hasidim della Germania. La Provenza fu indubbiamente il luogo dove fu composto il Sefer ha-Iyyun, attribuito a Rav Hamai Gaon, il Ma'yan ha-Hokhmah, che fu comunicato da un angelo a Mosè, il Midrash Shimon ha-Zaddik, e altri testi, mentre la patria di gran parte degli scritti attribuibili alla cerchia del Sefer ha-Iyyun potrebbe essere stata la Provenza o la Castiglia. Si conoscono più di 30 testi di questo tipo, quasi tutti molto brevi. Nuove interpretazioni delle dieci Sefirot si trovano a fianco di note ed esposizioni delle "32 vie della sapienza", il Tetragrammaton e il Nome di Dio a 42 lettere, oltre a varie speculazioni cosmogoniche. Vi sono intessute tendenze platoniche e gnostiche. La conoscenza delle "luci intellettuali" che prendono il posto precedentemente occupato dal Carro, appare in competizione con teorie delle dieci Sefirot e dei nomi mistici. Gli autori di queste opere avevano una loro terminologia, astratta e solenne; ma i termini ricevono interpretazioni diverse a seconda della loro collocazione. L'ordine di emanazione varia di tanto in tanto, ed è evidente che queste speculazioni non avevano ancora raggiunto lo stadio finale. Vi erano considerevoli divergenze d'opinione all'interno di questa cerchia, e ogni singolo autore, a quanto sembra, cercava di definire il contenuto del mondo dell'emanazione così come veniva rivelato nella sua visione o nella sua contemplazione. Anche dove veniva accettata, la teoria delle Sefirot subiva notevoli mutamenti. Un gruppo di testi interpreta i 13 attributi della misericordia divina come la somma dei poteri che saturano il mondo dell'emanazione, e alcuni autori aggiungono tre poteri al termine dell'elenco delle Sefirot, mentre in altri testi i tre poteri sono aggiunti all'inizio, oppure vengono considerati come luci intellettuali che risplendono entro la prima Sefirah. Questa concezione, che stimolò molte speculazioni via via che continuava l'evoluzione della Cabala, ricorre nei responsi attribuiti a Hai Gaon sulla relazione tra le dieci Sefirot e i 13 attributi. Vi sono chiare connessioni che portano dalla teoria del Kavod di Saadiah e dal suo concetto dell'"etere che non può essere afferrato", esposto nel suo commento al Sefer Yezirah, fino al suo circolo, che fece uso delle sue idee tramite la prima traduzione di Emunot ve-De'ot. Sembra che il circolo utilizzasse assai poco il Sefer ha-Bahir. Il risalto dato al misticismo delle luci dell'intelletto è vicino nello spirito, anche se non in dettaglio, alla successiva letteratura neoplatonica, ad esempio il "Libro delle Cinque Sostanze dello Pseudo-Empedocle" (della scuola di Ibn Masarra in Spagna). Ad esempio, le essenze superne che sono rivelate, secondo il Sefer ha-Iyyun e diversi altri testi, dal "più alto mistero occulto" o dalla "tenebra primeva", sono: la sapienza primeva, la luce meravigliosa, il hashmal, la nebbia (arafel), il trono di luce, la ruota (ofan) della grandezza, il cherubino, la ruota del Carro, l'etere circostante, il velo, il trono di gloria, il luogo delle anime, e il luogo eterno della santità. Questo miscuglio di termini provenienti da campi molto diversi è caratteristico della mescolanza delle fonti e di un ordinamento gerarchico che non dipende dalla teoria delle Sefirot, sebbene anch'esso incorpori alcuni scritti di questo circolo. Inoltre, appare una tendenza teurgica, a fianco del desiderio di abbandonarsi a speculazioni filosofiche sui Nomi Sacri. Oltre all'influenza del neoplatonismo arabo, vi sono indicazioni di alcuni legami con la tradizione platonica cristiana, trasmessa tramite De Divisione Naturae di Giovanni Scoto Eriugena: ma la questione richiede ulteriori ricerche. Il centro cabalista di Gerona Sotto l'influenza dei primi cabalisti le loro idee si diffusero dalla Provenza alla Spagna, ove trovarono una particolare accoglienza nell'ambiente rabbinico di Gerona, in Catalogna, tra i Pirenei e Barcellona. Qui, dall'inizio del XIII secolo, si formò un centro di grande importanza, che svolse un ruolo essenziale nell'affermazione della Cabala in Spagna e nell'evoluzione della letteratura cabalistica. Per la prima volta, qui furono scritti testi che, nonostante il risalto attribuito all'aspetto esoterico della Cabala, cercavano di diffonderne le idee fondamentali presso un pubblico più vasto. Talvolta si trovano allusioni a queste idee in opere che non sono sostanzialmente cabalistiche ad esempio, opere di halakhah, esegesi, etica od omiletica ma vi furono numerosi libri dedicati interamente o prevalentemente alla Cabala. Numerose lettere scritte da appartenenti a questo gruppo e pervenute fino a noi contengono testimonianze importanti dei loro sentimenti e della loro partecipazione alle dispute e alle discussioni contemporanee. Le principali figure di questo gruppo furono un misterioso personaggio che porta il nome (o pseudonimo?) di Ben Belimah; Judah b. Yakar, maestro di Nahmanides e per diverso tempo dayyan in Barcellona (1215), il cui commento alla liturgia contiene affermazioni cabalistiche; Ezra b. Solomon e Azriel; Moses b. Nahman (Nahmanides), Abraham b Isaac Gerondi, il hazzan della comunità; Jacob b. Sheshet Gerondi; e il poeta Meshullam b. Solomon Da Piera (le sue poesie furono raccolte in Yedi'ot ha-Makhon le-Hekerha-Shirah 4, 1938). Inoltre, si devono includere anche i loro discepoli, sebbene molti di loro si fossero sparsi nella comunità aragonese. Un legame personale e letterario tra i cabalisti della Provenza e quelli di Gerona si può vedere in Asher b. David, un nipote di Isaac il Cieco. Numerose sue opere furono diffuse ampiamente in forma manoscritta. Per contenuto, i suoi testi sono molto simili a quelli di Ezra ed Azriel, che furono apparentemente tra i primi a scrivere opere dedicate interamente alla Cabala e composte quasi tutte nel primo trentennio del XIII secolo. Ezra scrisse un commento al Cantico dei Cantici (che fu pubblicato sotto il nome di Nahmanides), interpretò le aggadot confrontandole a parecchi trattati del Talmud, quando riusciva a collegarle con la Cabala, e riassunse tradizioni che per la maggior parte derivavano indubbiamente dai cabalisti provenzali. Il suo compagno più giovane, Azriel, scrisse un'esposizione indipendente della sua interpretazione delle aggadot (a cura di Tishby, 1943), un commento sulla liturgia (Perush ha-Tefillot; traduzione francese di G. Séd 1973) secondo la teoria delle kavvanot, un commento al Sefer Yezirah pubblicato in diverse edizioni di quest'opera sotto il nome di Nahmanides, e due brevi opere sulla natura di Dio, Beur Eser Sefirot (intitolato anche Sha'ar ha-Sho'el) e Derekh he-Emunah ve-Derekh ha-Kefirah. Questi due cabalisti, inoltre, lasciarono "misteri" su diversi argomenti (ad esempio, "il mistero dei sacrifici"), e lettere su questioni cabalistiche, inclusa una lunga lettera di Azriel ai cabalisti di Burgos. Azriel spicca tra gli altri membri del gruppo grazie alla natura sistematica del suo pensiero e alla profondità del suo intelletto É l'unico del gruppo la cui opera sia connessa per stile e contenuto agli scritti del circolo del Sefer ha-Iyyun ricordato più sopra. Nei suoi libri, l'interpretazione degli elementi neoplatonici e gnostici raggiunse il primo culmine. L'elemento neoplatonico derivava soprattutto dagli scritti di Isaac b. Solomon Israeli, alcuni dei quali erano indubbiamente conosciuti a Gerona. Jacob b. Sheshet, nella sua opera polemica contro Samuel ibn Tibbon, Meshiv Deuarim Nekhohim (a cura di Vajda, 1968), univa l'indagine filosofica alla speculazione cabalistica. Due dei suoi libri sono dedicati a quest'ultima: Sefer ha-Emunah ve-ha-Bitahon, in seguito attribuito a Nahmanides e pubblicato sotto il suo nome, e Sha-ar ha-Shamayim, un sommario in rima di idee cabalistiche (Ozar Nehmad, 3 (1860), 133-65). C'è da chiedersi se questi cabalisti, che erano noti solo a una cerchia ristretta, e che non composero opere al di fuori del campo della Cabala avrebbero avuto la grande influenza che ebbero se non fosse stato per la statura del loro collega Nahmanides (c. 1194-1270), la più alta autorità legale e religiosa del suo tempo in Spagna. Il fatto che egli entrasse nei ranghi dei cabalisti da giovane spianò la strada all'accettazione della Cabala in Spagna, come la personalità di Abraham b. David l'aveva spianata in Provenza. I nomi di questi due uomini rappresentavano per gran parte dei loro contemporanei la garanzia che, nonostante la loro novità, le idee cabalistiche non deviavano dalla fede accettata e dalla tradizione rabbinica. Il loro incontestato carattere conservatore proteggeva i cabalisti dalle accuse di deviazionismo rispetto al rigoroso monoteismo e di eresia. Accuse di questo genere vi furono, provocate soprattutto dalla vasta pubblicità data alle prime opere della Cabala e alla loro propagazione orale in numerose comunità. Isaac il Cieco accenna a polemiche tra i cabalisti e i loro avversari, in Spagna, e la prova di simili controversie in Provenza (fra il 1235 e il 1245) permane nelle accuse di Meir b. Simeon di Narbona, una risposta alle quali, in difesa della Cabala, è inclusa nelle opere di Asher b. David. Fin dall'inizio appaiono tra i cabalisti due tendenze opposte; la prima cerca di limitare la Cabala a circolo chiusi, quale sistema decisamente esoterico, mentre la seconda aspira a diffonderne l'influenza tra la popolazione in generale. In tutta la storia della Cabala, fino a tempi recenti, queste due tendenze sono sempre state in conflitto. Parallelamente a queste, dal tempo dell'apparizione della Cabala a Gerona, si svilupparono due prese di posizione riguardo ai rapporti tra i portatori della cultura rabbinica e la Cabala stessa. I cabalisti venivano accettati come i proponenti di un'ideologia conservatrice e come i pubblici difensori della tradizione e della consuetudine, ma nel contempo numerosi rabbini e saggi li sospettavano di avere tendenze non giudaiche e di essere innovatori le cui attività dovevano venire frenate appena era possibile. Anche moltissimi cabalisti vedevano il loro ruolo nella prospettiva della conservazione della tradizione, e infatti la loro prima apparizione pubblica si ebbe quando si schierarono a fianco dei tradizionalisti nella controversia sugli scritti di Maimonide e sullo studio della filosofia nel XIII secolo. In queste dispute, la Cabala degli eruditi di Gerona appariva come un'interpretazione simbolica del mondo del Giudaismo e del suo modo di vita, basata su una teosofia che insegnava i segreti occulti della Divinità rivelata e sul rifiuto delle interpretazioni razionaliste della Torah e dei Comandamenti. Tuttavia, non si può ignorare che il sistema di pensiero elaborato da un uomo come Azriel non invalidava l'insegnamento filosofico del suo tempo, ma vi aggiungeva piuttosto una dimensione nuova, quella della teosofia, quale gloria suprema. In particolare, questa scuola diede una nuova dimensione spirituale all'esegesi di Genesi I, uno degli argomenti principali del pensiero filosofico giudaico. In diverse sue opere, Nahmanides concede spazio alla Cabala, particolarmente nel suo commento alla Torah, dove le numerose allusioni velate e inspiegate a interpretazioni "secondo la vera via" avevano lo scopo di destare la curiosità dei lettori che non avevano mai sentito parlare di quella "via". Inoltre, egli usò il simbolismo cabalistico in alcuni dei suoi piyyutim. E le sue opinioni sul fato dell'anima dopo la morte e sulla natura del mondo a venire, espresse in Sha'ar ha-Gemul alla fine della sua opera halakhica Toledot Adam, rappresentano le idee della sua cerchia e sono in contrasto con le opinioni di Maimonide sull'argomento. Il suo commento al libro di Giobbe è basato sulla teoria della trasmigrazione (pur senza menzionare il termine Gilgul) e sulle concezioni del suo compagno Ezra, circa la Sefirah Hokhamah Nahmanides non scrisse opere specificamente sulla Cabala, a parte un commento al primo capitolo del Sefer Yezirah, e, cosa piuttosto sorprendente, un sermone in occasione di un matrimonio. A partire dal XIV secolo, numerosi libri di altri autori furono attribuiti a lui. Negli scritti dei cabalisti di Gerona vi è una struttura simbolica definita e solida, relata soprattutto alla teorie delle Sefirot e al modo in cui questa teoria interpreta versetti scritturali e omelie riguardanti gli atti di Dio. Questo simbolismo divenne la base principale dello sviluppo della Cabala in questo gruppo, e numerosi cabalisti anonimi di questo periodo e di altri successivi provvidero a redigere elenchi e tavole, per lo più brevi, dell'ordine delle Sefirot, e della nomenclatura nella Scrittura e nell'aggadah che vi si addicevano. Per quanto concerneva i dettagli, in pratica ogni cabalista aveva un sistema suo, ma sui fattori fondamentali vi era un'ampia concordanza. Vi furono contatti tra i cabalisti spagnoli e i Hasidei Ashkenaz, sia tramite singoli hasidim che visitavano la Spagna, sia mediante i libri che vi venivano introdotti, ad esempio le opere di Eleazar di Worms. Abraham Axelrod di Colonia, che viaggiò nelle comunità spagnole approssimativamente tra il 1260 e il 1275, scrisse Keter Shem Tov, che tratta del Tetragrammaton e della teoria delle Sefirot. L'opera esiste in varie versioni, una delle quali fu pubblicata in Ginzei Hokhmat ha-Kabbalah (1853), mentre un'altra dà come nome dell'autore quello di Menahem, un discepolo di Eleazar di Worms. Questa combinazione della teoria dei Nomi Sacri e le speculazioni che usavano i metodi della gematria con la teoria delle Sefirot dei cabalisti di Gerona contiene, almeno in una terza versione del testo, un potente rinnovamento delle tendenze estatiche, che assunse la nuova forma della "Cabala profetica". Anche altri cabalisti della Castiglia stabilirono contatti con uno dei discepoli di Eleazar di Worms, che visse a Narbona alla metà del XIII secolo. É quasi certo che un anonimo cabalista del circolo di Gerona, o uno dei cabalisti provenzali, fu l'autore del libro Temunah (scritto prima del 1250), che diverse generazioni più tardi fu attribuito a R. Ishmael, il sommo sacerdote. Lo stile dell'opera è molto difficile, e il suo contenuto è oscuro in molti punti. É un'interpretazione dell'"immagine di Dio" mediante le forme delle lettere ebraiche e divenne la base di parecchi altri testi, composti in modo simile e forse addirittura dallo stesso autore; ad esempio interpretazioni del Nome Segreto di Dio di 72 lettere menzionato nella letteratura mistica del periodo geonico. L'importanza del libro sta nella sua spiegazione, dettagliata anche se enigmatica, della teoria delle shemittot (vedasi più avanti), alla quale i cabalisti di Gerona alludevano senza chiarimenti. Lo stile difficile della Temunah era delucidato in qualche misura da un vecchio commento, anch'esso anonimo (pubblicato insieme al libro stesso nel 1892), che fu scritto sul finire del XIII secolo. La Temunah ebbe una netta influenza sulla Cabala fino al XVI secolo. Altre correnti nella Cabala spagnola del XIII secolo La combinazione di elementi teosofico-gnostici e neoplatonico-filosofici, che trovò espressione in, Provenza e a Gerona, portò alla supremazia relativa, o talora esagerata, di un elemento rispetto all'altro in altre correnti a partire dal 1230. Da una parte vi era un'estrema tendenza mistica, espressa in termini filosofici, che creava un proprio simbolismo non basato sulla teoria o sulla nomenclatura delle Sefirot riscontrate fra i cabalisti di Gerona. Pur confutando alcune delle supposizioni di questi ultimi (ad esempio, la teoria della trasmigrazione), si considerava tuttavia come una vera "scienza della Cabala". Il suo primo e più importante esponente fu Isaac ibn Latif, i cui libri furono scritti (forse a Toledo) tra il 1230 e il 1270. "Egli teneva un piede dentro [la Cabala] e un piede fuori [nella filosofia]'' come disse di lui Judah Hayyat (prefazione a Minhat Yehudah su Ma'arekhet ha-Elohut). Divenendo una specie di mistico indipendente, egli attinse l'ispirazione filosofica dagli scritti arabi ed ebraici sui neoplatonici, e soprattutto da Mekor Hayyim di Ibn Gabirol e dalle opere di Abraham ibn Ezra, sebbene talvolta ne trasformasse completamente il significato. La sua opera principale, Sha'ar ha-Shamayim (scritta nel 1238), voleva essere, in una vena mistica speculativa, tanto una continuazione quanto un surrogato della Guida per i perplessi di Maimonide. Come moltissimi cabalisti di Gerona, egli riconosceva il posto più alto alla Volontà Primeva, vedendo in essa la fonte di tutte le emanazioni. La teoria del Logos Divino, che egli prese dalla tradizione neoplatonica araba, venne divisa nella Volontà - che rimaneva completamente entro il Divino ed era identificata con la Parola Divina (Logos) che generava tutte le cose - e nella "prima cosa creata", il Supremo Intelletto che sta al culmine della gerarchia di tutti gli esseri, e che era presentato in simboli altrove pertinenti al Logos stesso. Ma Ibn Latif non è coerente nel suo uso estremamente personale del simbolismo, e spesso contraddice se stesso, anche su punti importanti. Dalla "prima cosa creata" (niura rishon) emanarono tutte le altre fasi, chiamate simbolicamente luce, fuoco, etere e acqua. Ognuna di esse è competenza di un ramo della sapienza: misticismo, metafisica, astronomia e fisica. Ibn Latif creò un sistema ricco e completo dell'universo, basando le sue concezioni su un'interpretazione un pò forzata della Scrittura, sebbene egli fosse contrario agli allegoristi estremisti che vedevano nell'allegoria un surrogato dell'interpretazione letterale e non semplicemente un'aggiunta a questa. Le sue idee sulla preghiera e sulla vera comprensione hanno una colorazione nettamente mistica, e sotto questo aspetto travalicano la teoria della kavuanah e della meditazione prevalente tra i cabalisti di Gerona. L'influenza di Ibn Gabirol è notevole soprattutto nel suo Zurat ha-Olam (1860) che contiene critiche specifiche della teosofia cabalistica. Tuttavia Ibn Latif considera la Cabala superiore alla filosofia, sia per natura che per efficacia, in particolare perché afferra la verità che ha natura temporale, mentre la verità filosofica è atemporale (Rav Pe'alim (1885), n.39). Ibn Latif ebbe rapporti personali con esponenti della Cabala dalle concezioni completamente opposte alle sue, e dedicò Zeror ha-Mor a Todros Abulafia di Toledo, uno dei maggiori esponenti della tendenza gnostica della Cabala. I suoi libri venivano letti tanto da cabalisti quanto da filosofi, per esempio il filosofo Isaac Albalag (manoscritto Vaticano 254, fol. 97b), che criticò il suo Zurat ha-Olam. Secondo Ibn Latif, la più alta comprensione intellettuale raggiunge solo il "dorso" del Divino, mentre un'immagine della "faccia" si rivela soltanto in un'estasi supra-intellettuale, che comporta un'esperienza superiore persino a quella della profezia (Ginzei ha-Melekh, cap. 37 e 41). Egli chiama questa percezione "la beatitudine della comunione suprema". La vera preghiera porta l'intelletto umano in comunione con l'Intelletto Attivo "come un bacio"; ma di qui esso ascende fino all'unione con la "prima cosa creata"; al di là di questa unione, conseguita mediante le parole, vi è l'unione mediante il puro pensiero che aspira a raggiungere la Prima Causa, cioè la Volontà Primeva, e infine a giungere dinanzi a Dio stesso (Zeror haMor, cap. 5). Il secondo esponente delle tendenze mistico-filosofiche distinte dalla Cabala teosofica della scuola di Gerona e aspiranti a una Cabala estatica fu Abraham Abulafia (1240 - post 1292). L'immagine straordinaria di quest'uomo deriva dalla sua personalità eccezionale. Egli entrò in contatto con un gruppo, la cui tecnica di combinazione delle lettere e del misticismo dei numeri stimolarono le sue esperienze estatiche. Almeno in parte, la sua ispirazione derivata dai Hasidei Ashkenaz della Germania, e forse anche attraverso l'influenza degli ambienti sufici, da lui conosciuti durante i viaggi compiuti in Oriente nella sua gioventù. Il maestro di Abulafia fu il hazzan Barukh Togarmi (a Barcellona?) il quale, a giudicare dal nome, proveniva dall'Oriente. Da lui, Abulafia apprese gli insegnamenti fondamentali della Cabala profetica, alla cui diffusione dedicò tutta la vita, dopo aver conseguito l'illuminazione a Barcellona nel 1271. Le sue affermazioni profetiche e forse anche messianiche suscitarono forte opposizione tanto in Spagna quanto in Italia; ma i suoi libri furono molto letti a partire dalla fine del XIII secolo, soprattutto quelli in cui egli esponeva il suo sistema della Cabala come guida all'ascesa degli interessi filosofici del tipo di quelli di Maimonide fino alla profezia e alle esperienze mistiche che, secondo lui, partecipavano della natura della profezia. Abulafia, inoltre, prendeva abbondantemente a prestito le idee cabalistiche, quando le giudicava pertinenti, ma si opponeva fin quasi al ridicolo a quegli aspetti che erano estranei alla sua natura. Appassionato ammiratore di Maimonide, era convinto che il proprio sistema fosse soltanto una continuazione e un'elaborazione dell'insegnamento della Guida per i perplessi. A differenza di Maimonide, che si dissociava dalla possibilità della profezia nel suo tempo, Abulafia difendeva tale prospettiva, trovando nella "via dei Nomi", cioè una tecnica specifica chiamata anche "scienza della combinazione", hokhmat ha-zeruf, un mezzo per realizzare e incorporare le aspirazioni umane alla profezia. Così ispirato, egli, scrisse 26 libri profetici dei quali uno soltanto, Sefer ha-Ot, è giunto fino a noi. Derekh ha-Sefirot ("la via delle Sefirot") era da lui ritenuto utile per i principianti, ma ha poco valore in confronto con Derekh ha-Shemot ("la via dei Nomi"), che si apre solo dopo un profondo studio del Sefer Yezirah e delle tecniche cui allude. Abulafia vedeva quindi la sua Cabala come un altro strato che veniva ad aggiungersi alla Cabala preesistente, che non contraddiceva opere importanti come il Bahir, la Temunah e gli scritti di Nahmanides. La sua promessa di spiegare una via che avrebbe portato a ciò che egli chiamava "profezia" e la sua applicazione pratica dei principi cabalistici trovarono una notevole eco nella Cabala a partire dal XIV secolo, prima in Italia e successivamente in altri paesi. I suoi grandi manuali (Sefer ha-Zeruf, Or ha-Sekhel e soprattutto Hayyei ha-Olam ha-Ba, ed altri), che sono stati copiati fino a tempi recenti, sono testi di meditazione, i cui oggetti sono i Nomi Sacri e le lettere dell'alfabeto e le loro combinazioni, comprensibili e incomprensibili. Era esattamente questo tipo di manuale che era mancato nel tipo consueto di letteratura cabalistica, il quale si era limitato alle descrizioni simboliche e si era astenuto dall'esporre per iscritto le tecniche dell'esperienza mistica. L'opera di Abulafia colmò questa lacuna, e le accanite critiche nei suoi confronti che si levarono qua e là non impedirono che venisse assimilata e acquisisse grande influenza. Uno dei discepoli di Abulafia scrisse (forse a Hebron) alla fine del 1294 un breve libro sulla Cabala profetica, Sha'arei Zedek, che include un'importante descrizione autobiografica dei suoi studi con il maestro, e delle sue esperienze mistiche. All'estremità opposta di questo duplice sviluppo della Cabala vi era una scuola di cabalisti che erano più attratti dalle tradizioni gnostiche, più o meno autentiche, e che si occupavano dell'elemento gnostico e mitologico più che di quello filosofico. Gli esponenti di questa tendenza si accinsero a recuperare e a radunare frammenti di documenti e di tradizioni orali, e vi fecero aggiunte cospicue, fino a che i loro libri divennero un sorprendente miscuglio di pseudoepigrafie con i commentari degli stessi autori. In contrasto con la Cabala di Gerona, l'elemento pseudoepigrafico era molto forte in questa branca, benché non sia assolutamente certo che fossero gli autori stessi di quei libri a inventare le fonti da loro citate. Questa scuola, che può essere appropriatamente chiamata "la reazione gnostica", include i fratelli Jacob e Isaac, figli di Jacob ha-Kohen di Soria, che viaggiarono in Spagna e in Provenza (c. 1260-80) e incontrarono i loro predecessori cabalisti più anziani: Moses b. Simeon, loro discepolo e successore, rabbino di Burgos; e Todros b. Joseph Abulafia di Burgos e Toledo, uno dei capi dei giudei castigliani del suo tempo. Le loro opere principali appartengono alla seconda metà del XIII secolo. Negli ambienti cabalistici, Moses di Burgos era generalmente ritenuto dotato di particolare autorità, e inoltre fu il maestro di Isaac ibn Sahula, autore di Mashal ha-Kadmoni. É straordinario che un razionalista devoto all'indagine filosofica come Isaac Albalag potesse vedere tre membri di questa scuola come i veri esponenti della Cabala nei suoi tempi, con Moses di Burgos alla loro testa: "Il suo nome si è diffuso in tutto il paese: Moses ha ricevuto [kibbel] la tradizione cabalista [autentica]. L'aspetto speculativo non è del tutto assente in questa scuola, e alcuni frammenti di uno dei libri di Isaac ha-Kohen in particolare mostrano qualche relazione tra lui e Ibn Latif; ma le sue vere caratteristiche sono molto diverse. Egli sviluppò i dettagli della teoria dell'emanazione di sinistra, demonica, le cui dieci Sefirot sono le esatte controparti delle Sefirot Sante. Una simile emanazione demonica è già menzionata negli scritti del gruppo del Sefer ha-Iyyun e nelle opere di Nahmanides, ed è possibile che le sue origini avessero radici in Oriente. Nella documentazione pervenuta fino a noi, questa teoria apparve in testi pseudoepigrafici ed ebbe radici soprattutto in Provenza e in Castiglia. Da queste tradizioni nacque la teoria zoharica della sitra ahra ("l'altra parte"). Vi è qui, inoltre, una forte tendenza a disporre lunghi elenchi di esseri nel mondo, al di sotto del regno delle Sefirot - che ricevono nomi specifici - e perciò a stabilire un'angelologia completamente nuova. Queste emanazioni del secondo rango vengono presentate in parte come "veli" (pargodim) davanti alle emanazioni delle Sefirot, e come "corpi" e "vesti" per le anime interiori, che sono le Sefirot. Questa molteplicità di emanazioni personificate e la loro elencazione ricordano tendenze simili negli sviluppi più tardi di parecchi sistemi gnostici, e in particolare il libro Pistis Sophia. Per tutto ciò che esiste nel mondo inferiore vi è una forza corrispondente nel mondo superiore, e in tal modo viene creata una specie di strana mitologia che non ha precedenti in altre fonti. Questo tema pervade tutti gli scritti di Isaac b. Jacob ha-Kohen e alcune delle opere del fratello maggiore, Jacob. La novità dei nomi di queste forze e della loro descrizione è ovvia, e alcuni dei dettagli delle Sefirot e la loro nomenclatura assumono talvolta una forma diversa da quella contenuta nella Cabala di Gerona. Negli scritti di Todros Abulafia, ai cabalisti che sono esponenti della tendenza gnostica viene dato il nome specifico di ma'amikim ("coloro che scavano profondamente"), per distinguerli dagli altri. I cabalisti spagnoli del XIV secolo praticarono un'ulteriore distinzione tra la Cabala dei cabalisti castigliani, appartenenti alla scuola gnostica, e quella dei cabalisti catalani. In questo ambiente possiamo osservare con chiarezza la crescita dell'elemento magico e la tendenza a preservare tradizioni teurgiche di cui non vi è traccia nella scuola di Gerona. Questa nuova tendenza gnostica non si arrestò all'esperienza mistica o visionaria individuale. I due elementi stanno fianco a fianco nelle opere di Jacob ha-Kohen, il quale scrisse il voluminoso Sefer ha-Orah, che non ha legami con la precedente tradizione cabalistica, ma è basato interamente su visioni che "gli furono accordate" in cielo. La Cabala di queste visioni è completamente diversa dalla parte tradizionalista degli altri suoi scritti, e non viene ripresa altrove nella storia della Cabala. É basata su una forma nuova dell'idea del Logos, che assume qui l'immagine del Metatron. La teoria dell'emanazione, inoltre, acquisisce un'altra veste, e l'interesse per le Sefirot cede il passo a speculazioni sulle "sante sfere" (ha-galgalim hakedoshim) per il cui tramite il potere dell'Emanatore è disperso invisibilmente fino a quando raggiunge la sfera del Metatron, che è la forza cosmica centrale. Questa teosofia personalissima, nutrita e ispirata dalla visione, non ha relazioni con la teosofia dei cabalisti di Gerona, ma ha qualche rapporto con i Hasidei Ashkenaz. Jacob ha-Kohen fu il primo cabalista spagnolo a costruire sulle gematriot tutti i suoi insegnamenti relativi alle ragioni dei comandamenti e ad altri argomenti. Il Metatron, ovviamente, fu creato, ma venne posto in essere simultaneamente all'emanazione delle sfere celesti interiori, e il versetto "Sia fatta la luce" allude alla "formazione della luce dell'intelletto" in forma del Metatron. Non vi è quasi dubbio che Jacob ha-Kohen conoscesse l'arte della "combinazione" quale prerequisito della percezione mistica; ma non aveva conoscenza dei misteri derivanti da essa tramite l'interpretazione razionalista, caratteristica di Abraham Abulafia. Il Sefer ha-Orah non ci è stato tramandato integralmente, ma ne esistono parti cospicue in vari manoscritti (Milano 62, Vaticano 428, eccetera). A parte gli scritti di Ibn Latif, è l'esempio più sorprendente di come potesse venire creata una Cabala completamente nuova a fianco della preesistente; ed è come se ognuna di esse parlasse su un piano diverso. Nel suo Ozar ha-Kauod sulle leggende del Talmud (1879) e nel suo Sha-ar ha-Razim sul Salmo 19 (Monaco, manoscritto 209), Todros Abulafia si sforzò di combinare la Cabala di Gerona con la Cabala degli gnostici, ma non alluse mai alle rivelazioni accordate a Jacob ha-Kohen. Lo Zohar La mescolanza delle due tendenze emananti dalla scuola di Gerona e dalla scuola degli gnostici trova in una certa misura un parallelo nel prodotto principale della Cabala spagnola. Si tratta del Sefer ha-Zohar, scritto tra il 1280 e il 1286 da Moses b. Shem Tov de Leon a Guadalajara, una cittadina a nord-est di Madrid. In questa città vivevano anche due fratelli cabalisti, Isaac e Meir b. Solomon ibn Sahula, ed è nei libri di Isaac che si trovano le prime citazioni tratte dal primo strato dello Zohar, risalente al 1281. Molti cabalisti erano attivi in quel tempo nelle piccole comunità intorno a Toledo, e vi sono testimonianze di esperienze mistiche anche tra persone non colte. Un esempio è l'apparizione come profeta ad Avila, nel 1295, di Nissim b. Abraham, un artigiano ignorante, al quale un angelo rivelò un'opera cabalistica, Pil'ot ha-Hokhmah, e che ebbe come oppositore Solomon b. Abraham Adret (Responsa di Solomon b. Adret, n. 548). Fu in questa comunità che Moses de Leon trascorse gli ultimi anni della sua vita (m. 1305). Lo Zohar è la prova più evidente dell'affiorare di uno spirito mitico del Giudaismo medievale. L'origine del libro, il suo carattere letterario e religioso, e il ruolo che esso ha avuto nella storia del Giudaismo, sono stati oggetto di lunghe discussioni tra gli studiosi durante gli ultimi 130 anni; ma in gran parte il dibattito non era basato su analisi storiche e linguistiche. In un'analisi di quest'ultimo tipo, possiamo assegnare un posto preciso allo Zohar nell'evoluzione della Cabala spagnola, che ha apposto il suo sigillo al libro. Così facendo, dobbiamo resistere ai continui tentativi apologetici di antedatare la composizione trasformando le sue tarde fonti letterarie in prove dell'esistenza antecedente del libro, o proclamando la presenza in esso di strati antichi, della cui presenza non esiste alcuna conferma (J.L. Zlotnik, Belkin, Finel, Reuben Margaliot, Chavel, M. Kasher e altri). La mescolanza di queste due correnti - la Cabala di Gerona e la Cabala degli "gnostici" di Castiglia - divenne nella mente di Moses de Leon un incontro creativo che determinò il carattere basilare dello Zohar. Invece delle brevi allusioni e interpretazioni dei suoi predecessori, egli presenta un vasto quadro di interpretazioni e di omiletica che copre l'intero mondo del Giudaismo quale appariva ai suoi occhi. Egli è molto lontano dalla teologia sistematica, e anzi vi sono problemi fondamentali del pensiero giudaico contemporaneo che non appaiono affatto nella sua opera, come il significato della profezia e le questioni della predestinazione e della provvidenza; tuttavia, egli rispecchia l'effettiva situazione religiosa, e la espone mediante l'interpretazione cabalistica. In un testo pseudoepigrafico attribuito a Simeon b. Yohai e ai suoi amici, Moses de Leon presentò la sua interpretazione del Giudaismo in una veste arcaica, in forma di Midrashim lunghi e brevi della Torah e dei tre libri, Cantico dei Cantici, Ruth e Lamentazioni. Le spiegazioni contenute nel libro ruotano intorno a due poli uno consistente dei misteri del mondo delle Sefirot che costituiscono la vita del divino, la quale è inoltre riflessa in molti simboli nel mondo creato; e l'altro consistente nella situazione dell'ebreo e del suo fato, tanto in questo mondo quanto nel mondo delle anime. L'approfondirsi e l'ampliarsi di una visione simbolica del Giudaismo erano molto arditi in un'epoca in cui i cabalisti conservavano ancora, in una certa misura, il carattere esoterico delle loro idee. L'apparizione di quello che affermava di essere un antico Midrash e rispecchiava i punti di vista fondamentali dei cabalisti spagnoli e li esprimeva in un'imponente sintesi letteraria, scatenò innumerevoli dibattiti tra i cabalisti di quel tempo. Tuttavia, servì anche a diffondere la conoscenza della Cabala e ad assicurarne l'accettazione. Il punto di vista dell'autore progrediva da una tendenza alla filosofia e all'interpretazione allegorica verso la Cabala e le sue idee simboliche. Le fasi di questo progresso si possono riconoscere ancora oggi nelle differenze tra il Midrash ha-Ne'lam, la parte dello Zohar redatta per prima, e il resto dell'opera. Non vi è dubbio che il fine del libro era di attaccare la concezione letterale del Giudaismo e la negligenza del compito delle mizvot; e ciò venne realizzato sottolineando il valore supremo e il significato segreto di ogni parola e di ogni comandamento della Torah. Come in moltissimi grandi testi mistici, la percezione interiore e la via della "comunione" sono connesse alla conservazione della struttura tradizionale, il cui valore è accresciuto sette volte. Il punto di vista mistico servì a rafforzare la tradizione e anzi divenne un fattore consciamente conservatore. D'altra parte, l'autore dello Zohar si concentrava frequentemente su speculazioni sulle profondità della natura della Divinità, su cui altri cabalisti non osavano soffermarsi, e il suo ardimento fu un contributo importante al rinnovato sviluppo della Cabala diverse generazioni più tardi. Quando apparve lo Zohar, pochi cabalisti rivolsero l'attenzione su questo aspetto originale. Essi usarono invece lo Zohar come un aiuto per rafforzare i loro fini conservatori. Nei suoi libri in ebraico scritti negli anni successivi al 1286, dopo che ebbe concluso il suo lavoro nello Zohar, lo stesso Moses de Leon nascose molte delle sue speculazioni più ardite (e a questo serviva benissimo l'oscura veste aramaica). D'altra parte, in esse pose in risalto i principi del simbolismo delle Sefirot, con il suo valore per la comprensione della Torah e della preghiera, e inoltre l'elemento omiletico e morale dello Zohar. I suoi libri in ebraico ampliavano, qua e là, temi che erano adombrati per la prima volta nello Zohar, con qualche variazione. Queste opere sono state conservate, e alcune furono copiate molte volte; ma una soltanto è stata pubblicata prima dei tempi moderni (Sefer ha-Mishkal, chiamato anche Sefer ha-Nefesh ha Hakhamah, 1608). É difficile dire in che misura Moses si aspettasse che la sua opera inserita nello Zohar venisse accettata come un Midrash antico e autorevole, e fino a che punto egli intendesse creare un compendio della Cabala in un'adeguata forma letteraria perfettamente chiara per il lettore dotato di discernimento. Molti cabalisti della generazione venuta dopo di lui usarono forme assai simili e scrissero imitazioni dello Zohar. Moses de Leon era senza dubbio strettamente legato a un altro cabalista, che era stato discepolo di Abraham Abulafia, Joseph Gikatilla, il quale scrisse Ginnat Egoz nel 1274, e successivamente numerose altre opere sotto l'ispirazione del suo primo maestro. Tuttavia, quando era ancora giovane si legò ad ambienti gnostici e in seguito fece amicizia con Moses de Leon, e ciascuno risentì dell'influenza dell'altro. Distogliendo l'attenzione dai misteri delle lettere, delle vocali e dei nomi, Gikatilla intraprese uno studio profondo della teosofia del sistema delle Sefirot, e i suoi libri costituiscono un parallelo indipendente e prezioso degli scritti di Moses de Leon. Sha'arei Orah, scritto intorno al 1290, mostra già l'influenza di certe parti dello Zohar, sebbene non lo nomini mai. Questo libro, che è un importante compendio e un'introduzione all'interpretazione del simbolismo delle Sefirot, divenne una delle opere principali della Cabala spagnola. Vale la pena di notare che nella mente di Gikatilla si incontrarono e si conciliarono tre correnti diverse, la Cabala di Gerona, la Cabala dello Zohar e la Cabala di Abulafia, un caso molto raro per quel periodo. Il suo Ginnat Egoz è, a quanto ne sappiamo, la fonte più recente utilizzata dall'autore dello Zohar. Due opere scritte nell'ultimo decennio del XIII secolo o nei primi anni del XIV, Ra'aya Meheimna e Sefer ha-Tikkunim, rappresentano un compromesso fra i filoni più recenti della letteratura zoharica. Sono opera di un cabalista ignoto, il quale conosceva bene la parte principale dello Zohar, e scrisse i suoi libri come una sorta di continuazione, benché con qualche cambiamento nello stile letterario e nella struttura. I libri contengono un'interpretazione nuova dei primi capitoli della Genesi e una spiegazione tabulata delle ragioni dei Comandamenti. Esaltando l'importanza dello Zohar quale rivelazione finale dei misteri, queste due opere collegavano la sua apparizione all'inizio della redenzione: "Grazie ai meriti dello Zohar, essi lasceranno l'esilio in misericordia", cioè senza le temute sofferenze della redenzione (Zohar 3:124b). L'autore, esagerando, fonde l'immagine del Mosè biblico con Moses, il rivelatore dello Zohar alla vigilia della redenzione finale. É possibile che fosse molto vicino al circolo di Moses de Leon, e forse anch'egli si chiamava Moses. Questi libri sono i primi di tutta una serie di opere cabalistiche scritte nello stile pseudo-aramaico dello Zohar e come continuazione di questo testo. Alcuni autori scrissero in ebraico, aggiungendo interpretazioni nominalmente di carattere zoharico, ma che in realtà rispecchiavano le loro idee. In questa categoria va ricordato Mar'ot ha-Zove'ot (manoscritto Sassoon 978) di David b. Judah he-Hasid, conosciuto attraverso altri suoi scritti come nipote di Nahmanides (Ohel David, 1001-06); e Livnat ha-Sappir (su Gen., 1914; su Lev., British Museum, manoscritto 767) di Joseph Angelino, scritto nel 1326-27 ed erroneamente attribuito da parecchi cabalisti a David b. Judah Hasid. Questi fu il primo a comporre una confusa traduzione ebraica e un'elaborazione delle speculazioni contenute nell'Idra Rabba dello Zohar, chiamata Sefer ha-Gevul (manoscritto di Gerusalemme). Scrisse inoltre un lungo commento, Or Zaru'a, sulla liturgia, e parecchi altri libri. Un importante pseudoepigrafo scritto al tempo dell'apparizione dello Zohar fu Sod Darkhei ha-Shemot, "Il mistero dei Nomi, delle Lettere e delle Vocali, e il Potere delle Operazioni [Magiche], secondo i saggi di Lunel", che si trova in numerosi manoscritti sotto nomi diversi (manoscritto Vaticano 441). Attribuito alla cerchia di Abraham b. David, il libro è in effetti basato sulle opere di Gikatilla e di Moses de Leon, e collega le speculazioni sulle lettere, le vocali e i Nomi Sacri alla teoria della Cabala pratica. Il suo autore, che diede alle parole dei cabalisti del tardo XIII secolo una nuova cornice pseudoepigrafica, compilò inoltre l'antologia cabalista Sefer ha-Ne'lam (manoscritto di Parigi 817), usando fonti assai simili. Una figura oscura nell'imitazione zoharica è Joseph "che venne dalla città di Shushan" (cioè da Hamadan in Persia). Forse si tratta di un nome completamente fittizio e cela un cabalista spagnolo che visse intorno al 1300 o poco più tardi, e scrisse una lunga opera sulla sezione della Torah di Terumah, il Cantico dei Cantici e Kohelet, che è composta soprattutto nello stile dello Zohar e sviluppa le idee dell'Idra zoharico a proposito dello Shi'ur Komah. L'opera è pervenuta fino a noi (manoscritto British Museum 464) ed era diffusa ancora in tempi relativamente tardi. É piena di idee strane, che non si incontrano in altri testi cabalistici, e l'autore presenta opinioni del tutto estranee allo Zohar, sebbene esposte nel suo stile. Secondo A. Altmann, egli va identificato con l'anonimo autore del Sefer Ta'amei ha-Mizvot, che fu usato come fonte di un plagio letterario da Isaac ibn Farhi, nel XVI secolo. Questo autore scrisse inoltre la vasta opera Toledot Adam, parzialmente stampata sotto il titolo erroneo Sefer ha-Malkhut. Il terzo libro di questa categoria è Sefer ha-She'arim o She'elot la-Zaken (manoscritto di Oxford 2396) del primo quarto del XIV secolo. Il vecchio (zaken) che risponde alle domande dei suoi discepoli non è altro che lo stesso Mosè. Gran parte del testo è scritta in ebraico, e solo una sezione è in stile zoharico. É un'opera anch'essa completamente indipendente, e si affida soprattutto alle allusioni senza spiegare pienamente le proprie idee. La Cabala nel secolo XIV sino all'espulsione dalla Spagna Il secolo XIV fu un periodo di sviluppo intellettuale che produsse una letteratura estremamente ricca. La Cabala si diffuse in quasi tutte le comunità della Spagna e anche altrove, soprattutto in Italia e in Oriente. Quando le porte si spalancarono grazie ai libri che rivelavano idee mistiche, tutte le tendenze antecedenti trovarono continuatori e interpreti; con questa espansione, tutte le varie tendenze si fusero in una certa misura l'una con l'altra, e vennero compiuti tentativi di trovare un compromesso. La Cabala di Gerona continuò grazie alla prolifica attività letteraria dei discepoli degli allievi di Nahmanides, istruiti da Solomon b. Abraham Adret (Rashba) e da Isaac b. Todros, autore di un commento al mahzor secondo la Cabala (Parigi, manoscritto 839). Diversi appartenenti a questa scuola, che non amavano il diffuso stile pseudoepigrafico, produssero molti libri che si riproponevano di chiarire i passi cabalistici del commento di Nahmanides alla Torah. Un autore ignoto compose all'inizio del XIV secolo Ma'arekhet ha-Elohut (1588), un compendio che espandeva la dottrina della Cabala in modo conciso e sistematico. Il libro fu molto letto, specialmente in Italia, e la sua influenza si fece sentire sino al XVI secolo. Sebbene Solomon b. Abraham Adret fosse molto cauto nel trattare argomenti cabalistici, spesso vi alluse nel suo commento alle aggadot (manoscritto Vaticano 295), e compose inoltre una lunga preghiera alla maniera cabalistica. I suoi allievi, comunque, assegnarono alla Cabala un posto centrale. A questa scuola appartengono: Bahya b. Asher di Saragozza, il cui commento alla Torah contribuì notevolmente alla diffusione della Cabala e fu il primo testo cabalistico che venne stampato integralmente (1492); Joshua ibn Shu'ayb di Tudela, autore delle importanti Derashot (omelie) sulla Torah (1523), il primo libro di questo genere che assegni un posto centrale alla Cabala, e inoltre vero autore di Be'ur Sodot ha-Ramban ("Spiegazione dei segreti [cabalistici] del Commento di Nahmanides") che venne stampato (1875) sotto il nome del suo allievo, Meir b. Solomon Ibn Sahula; Hayyim b. Samuel di Lerida, autore di Zeror ha-Hayyim, che contiene un'esposizione cabalistica di argomenti halakhici (manoscritto Musajoff); Shem Tov b. Abraham ibn Gaon di Soria, che iniziò una vasta attività letteraria sulla Cabala tra il 1315 e il 1325, emigrò in Erez Israel con l'amico Elhanan b. Abraham ibn Eskira, e si stabilì a Safed. Yesod Olam (manoscritto Guenzburg 607) di Elhanan, scritto parzialmente in arabo, fonde la tradizione di Gerona con la Cabala filosofica neoplatonica. Nella scuola di Solomon Adret fu raccolta una grande quantità di materiale grezzo, che è stato conservato in collectanea di considerevole valore (manoscritto Vaticano 202, manoscritti di Parma 68 e 1221, e altri). Allo stesso modo sono stati conservati parecchi testi anonimi che interpretano i significati occulti nell'opera di Nahmanides. Il serbatoio principale di tutte le tradizioni di questa scuola è Me'irat Einaim, di Isaac b. Samuel di Acri, che in altri libri trattò a lungo aspetti completamente diversi della Cabala, sotto la duplice influenza dello Zohar e della scuola di Abraham Abulafia. In contrasto con i tentativi di cercare un compromesso tra Cabala e filosofia, egli sostenne l'indipendenza e il supremo valore della teosofia cabalista. Alcune parti della raccolta di rivelazioni accordategli in vari modi furono riunite in Ozar ha-Hayyim (manoscritto Guenzburg 775); diverse parti sono state copiate frequentemente. Isaac b. Samuel era in rapporti con molti cabalisti suoi contemporanei, e fu il primo di questa cerchia a scrivere un'autobiografia, andata tuttavia perduta. Un altro cabalista che emigrò in Spagna e conobbe la Cabala locale fu Joseph b. Shalom Ashkenazi, autore di un vasto commento al Sefer Yezirah (che è stato stampato in diverse edizioni del libro sotto il nome di Abraham b. David). Egli scrisse inoltre un commento alla sezione bereshit del Midrash Genesis Rabbah (KS, 4 (1928), 236-302), sotto il titolo Parashat Bereshit. Il primo libro citato fu già usato nelle opere di David b. Judah Hasid. Queste opere sviluppano la teoria delle Sefirot fino all'estremo, assegnando a ogni cosa un posto preciso nel mondo delle Sefirot. Joseph b. Shalom intraprese una critica cabalistica della filosofia, ma ne interpretò i principi cabalisticamente, in modo molto ardito. Come moltissimi cabalisti del suo tempo, abbracciò l'idea delle shemittot, che guadagnò molto terreno in quel periodo. Tra le versioni più importanti di questa teoria figura quella esposta lucidamente in Sod Ilan ha-Azilut da R. Isaac. Joseph b. Shalom espose una concezione estremista della teoria della trasmigrazione delle anime, trasformandola in una legge cosmica comportante un cambiamento di forma che influiva su ogni parte della creazione dalla Sefirah di Hokhmah fino all'infimo grado degli oggetti inanimati. Insieme all'influenza dello Zohar e alla scuola di Solomon Adret, la Cabala spagnola cominciò a diffondersi in Italia, grazie soprattutto agli scritti di Menahem Recanati il quale, all'inizio del XIV secolo, compose un commento "secondo la via della verità" sulla Torah (1523) e un'opera sulle ragioni mistiche dei comandamenti (ed. completa 1963). Ma v'era poca indipendenza nella Cabala italiana, che per lungo tempo consistette semplicemente in compilazioni e interpretazioni, seguendo lo Zohar e Ma'arekhet ha-Elohut, e in misura ancora più vasta che nella stessa Spagna gli scritti di Abraham Abulafia. Un'eccezione è rappresentata da Iggeret Purim, il cui autore dà un'insolita interpretazione simbolica della teoria delle Sefirot. Il principale cabalista italiano del XIV secolo fu Reuben Zarfati. Anche in Germania vi fu scarsa creatività indipendente nella Cabala. I cabalisti tedeschi si accontentarono di fondere Zohar e Ma'arekhet con la tradizione dei Hasidei Ashkenaz. Avigdor Kara (m. 1439), che raggiunse fama come cabalista, scrisse Kodesh Hillulim su1 Salmo 150 (manoscritto di Zurigo 102). Nella seconda metà del XIV secolo, Menahem Ziyyoni di Colonia scrisse Sefer Ziyyoni, sulla Torah, e Yom Tov Lipmann Muelhausen dedicò parte della sua attività letteraria alla Cabala, ad esempio Sefer ha-Eshkol (a cura di Judah Even-Shemuel (Kaufmann), 1927). A partire dall'inizio del XIV secolo, la Cabala si diffuse anche in Oriente. In Persia, Isaiah b. Joseph di Tabriz scrisse Hayyei ha-Nefesh (1324; manoscritto di Gerusalemme 8° 544; pubblicato in parte nel 1891); e a Costantinopoli Nathan b. Moses Kilkis, che afferma di avere studiato in Spagna, scrisse il voluminoso Even Sappir (1368-70; manoscritto di Parigi 727-8). Questi due libri appartengono al filone che cercò di fondere Cabala e filosofia in modi più o meno radicali. Questi tentativi, che ebbero origine soprattutto tra i cabalisti spagnoli del periodo, divennero molto frequenti; e i loro proponenti attaccarono la tendenza opposta, che mirava a porre in risalto le differenze tra le due parti. La linea inequivocabilmente neoplatonica di Ibn Latif fu continuata (intorno al 1300) da David b. Abraham ha-Lavan nel suo Masoret ha-Berit. Joseph b. Shalom, già ricordato più sopra, collegò la Cabala con la metafisica aristotelica e con la filosofia naturale, mostrando come fosse possibile dare un contenuto mistico anche a concetti filosofici astratti. Ovviamente, alcuni propendevano per una visione più filosofica, mentre altri si concentravano sugli aspetti più propriamente cabalistici. Due dei principali esponenti di queste tendenze scrissero in arabo, un caso di estrema rarità nella letteratura cabalistica. Uno di loro fu Judah b. Nissim ibn Malka di Fez, che scrisse nel 1365; le sue opere sono state analizzate da G. Vajda (1954), che ha svolto vastissime ricerche sulla relazione tra Cabala e filosofia in questo periodo. L'altro, vissuto una generazione prima, fu Joseph b. Abraham ibn Waqar di Toledo. Nella sua lunga opera intitolata al-Maqala al-Jami'a bayna al-Falsafa waash-Shar'i'a ("Sintesi di filosofia e Cabala"), egli espose le opinioni dei filosofi, dei cabalisti e degli astrologi, valutò le loro idee secondo i meriti, e cercò di stabilire una base comune a tutti. Il suo libro include inoltre un lessico del simbolismo delle Sefirot, che venne tradotto in ebraico ed ebbe larga diffusione. L'autore doveva molto a Nah manides e a Todros Abulafia, tuttavia egli avverte che "molti errori si sono insinuati" nello Zohar. Ibn Waqar scrisse poesie sulla Cabala. Suo amico personale fu Moses Narboni, che sostanzialmente propendeva per la filosofia; tuttavia, in Iggeret al Shi'ur Komah e in altri suoi scritti, in un accostamento positivo anche se un po' riluttante alla Cabala, Narboni tenta di spiegare varie affermazioni cabalistiche come se fossero in armonia con la filosofia. Un tentativo di fare pendere la bilancia in favore della Cabala trovò espressione nella critica all'opera di Judah ibn Malka attribuita a Isaac di Acri. Samuel b. Saadiah Motot di Guadalajara (c.1370) seguì anch'egli Ibn Waqar nel commento al Sefer Yezirah intitolato Meshovev Netivot, e nel commento alla Torah, Megalleh Amukot (a Es., manoscritto di Oxford 286, e Lev. a Deut., Gerusalemme, Biblioteca Nazionale, manoscritto 8° 552). Ma lo Zohar ebbe su di lui una forte influenza. Nelle discussioni dei cabalisti filosofici veniva dedicata grande attenzione al problema della relazione tra la teoria teosofica delle Sefirot, la teoria filosofica delle intelligenze separate e l'idea neoplatonica dell'anima cosmica. Furono effettuati tentativi di spiegare la Guida per i perplessi in modo cabalistico, o almeno di chiarire certi problemi in essa contenuti dal punto di vista della Cabala, usando metodi diversi da quello di Abraham Abulafia; ad esempio, nella critica attribuita a Joseph Gikatilla, o in Tish'ah Perakim mi-Yihud, attribuito a Maimonide. Seguendo Abulafia, la tendenza a fare di Maimonide un cabalista portò alla leggenda che egli avesse cambiato idea alla fine della sua vita e si fosse convertito alla Cabala, una leggenda che era divenuta corrente a partire dall'anno 1300 e che appare in varie versioni. In questo periodo fu scritto anche Megillat Setarim, presentato come una lettera di Maimonide sull'argomento della Cabala. In totale contrasto con queste tendenze al compromesso vi furono due fenomeni importanti, assolutamente opposti al mondo della filosofia. Il primo è connesso con la crescita dei movimenti meditativi miranti alla contemplazione, sia del mondo interiore delle Sefirot e delle innumerevoli luci occulte in esso celate, sia del mondo interiore dei Nomi Sacri, che celano anch'essi luci mistiche. Di regola, questa contemplazione segue i metodi della Cabala profetica, ma modificandola e portandola nel regno della teosofia gnostica. La teoria delle Sefirot prevalente nel secolo XIII è subordinata alla contemplazione delle luci dell'intelletto, che ebbe origine negli scritti della scuola del Sefer ha-Iyyun e produsse una voluminosa letteratura ondeggiante tra la pura contemplazione interiore e la magia. Non vi è dubbio che Isaac d'Acri fu molto portato verso questa tendenza. In pratica, tutta la letteratura è ancora nascosta in forma manoscritta, senza dubbio a causa della censura dei cabalisti, i quali la consideravano la parte veramente esoterica della Cabala. Un esempio caratteristico, tuttavia, venne stampato; si tratta per l'esattezza di Berit Menuhah (1648), che risale alla seconda metà del secolo XIV, e che venne erroneamente attribuito ad Abraham b. Isaac di Granada: tratta a lungo della meditazione sulle luci interiori scaturite dalle varie vocalizzazioni del Tetragrammaton. Questa letteratura rappresenta una continuazione della "scienza della combinazione" di Abulafia, con l'aggiunta della teoria della havvanah della Cabala teosofica. Il Sefer ha-Malkhut, che è anch'esso un trattato sulle combinazioni delle lettere, fu scritto intorno al 1400 dal cabalista David ha-Levi di Siviglia (stampato nella raccolta Ma'or va-Shemesh, 1839). Il secondo fenomeno è connesso alla composizione di due opere pseudoepigrafiche: il Sefer ha-Peli'ah (1784) sulla prima sezione della Torah, e il Sefer ha-Kanah (1786) sul significato dei Comandamenti. L'autore, che scrisse fra il 1350 e il 1390, si presenta come il nipote di R. Nehunya b. haKanah, il presunto autore del Sefer ha-Bahir. In realtà, gran parte del primo libro consiste di un'antologia della preesistente letteratura cabalistica. L'autore, che era un notevole talmudista, adattò quelle fonti e vi aggiunse molto di suo. Il suo fine principale consisteva nel provare, mediante il ricorso ad argomenti talmudici, che la halakhah non ha significato letterale, bensì un esclusivo significato mistico, e che il vero significato letterale è mistico. Con travolgente entusiasmo, queste opere si spingono ben oltre lo Zohar nel sostenere che il Giudaismo non ha alcun vero significato al di fuori del mondo della Cabala, e rappresentano quindi il culmine dell'estremismo cabalistico. Chiaramente, in un simile caso non vi è spazio per un approccio filosofico. La linea antifilosofica fu continuata dalle opere di Shem Tov b. Shem Tov, il quale scrisse due libri sistematici sulla Cabala intorno al 1400. Il suo Sefer ha-Emunot (1556) dimostra che lo Zohar, un secolo dopo la sua apparizione, era ormai completamente accettato come l'opera centrale della Cabala. Una parte cospicua del secondo libro, dal titolo sconosciuto, è pervenuta fino a noi (British Museum, manoscritto 771). In quest'opera la tendenza antifilosofica, che forse fu influenzata da eventi contemporanei e dalla persecuzione del 1391, è espressa molto chiaramente: non vi è più spazio per il compromesso tra il misticismo e le esigenze del pensiero razionalista. Non si può tuttavia sostenere che questo punto di vista dominasse la Cabala nella sua totalità, perché negli anni che seguirono, fino all'inizio del XVI secolo, vi furono vari tentativi di conciliazione, notevoli soprattutto tra i cabalisti italiani. In contrasto con la direzione chiara seguita dalla pseudoepigrafia del Sefer ha-Peli'ah, non vi è una finalità evidente nella voluminosa attività pseudoepigrafica del cabalista provenzale Moses b. Isaac Botarel. Egli scrisse un gran numero di libri intorno al 1400, incluso un lungo commento sul Sefer Yezirah, e li riempì di citazioni inventate dalle opere di cabalisti e di altri autori, personaggi storici o immaginari. Questo metodo, tuttavia, non era affatto simile a quello dello Zohar; e inoltre, egli coltivò un atteggiamento conciliante verso la filosofia, in completo contrasto con Shem Tov b. Shem Tov. Mentre l'autore di Sefer ha-Peli'ah e Sefer ha-Kanah, presentava la Cabala come l'unica interpretazione che poteva salvare il Giudaismo dal deterioramento e dalla disgregazione, in altri ambienti, imbevuti di un netto spirito talmudico ed etico, la si considerava un elemento complementare, ponendone in risalto le idee morali e ascetiche. É evidente che la Cabala aveva già acquisito una posizione consolidata agli occhi del pubblico, e inequivocabili elementi cabalistici avevano incominciato a fare la loro apparizione nella letteratura etica del XIV e del XV secolo. A questo proposito Menorat ha-Ma'or di Israel al-Nakawa di Toledo (m. 1391) ha una grande importanza. É un'opera esauriente sul Giudaismo, con un saldo punto di vista halakhico. Ogni volta che in questo libro (destinato a un vasto pubblico) vengono discusse questioni etiche, si citano affermazioni tratte dallo Zohar (in ebraico, sotto il nome di Midrash Yehi Or) e da altre opere cabalistiche, incluso specificamente Hibbur ha-Adam im Ishto, un trattato sul matrimonio e la sessualità scritto da un cabalista anonimo (forse Joseph di Hamadan) alla fine del XIII secolo e attribuito a Nahmanides sotto il titolo Iggeret ha-Kodesh. La letteratura degli stessi cabalisti attesta l'esistenza continua, in vari circoli, di una forte opposizione alla Cabala e alle sue affermazioni, da parte di halakhisisti, letteralisti e filosofi. A partire dalla polemica di Meir b. Simeon di Narbona (1250) questa opposizione continuò a venire espressa, en passant come nel caso di Isaac Polkar e Menahem Meiri, oppure in opere specifiche; ad esempio in Alilot Devarim di Joseph b. Meshullam (?) che scrisse in Italia nel 1468 (Ozar Nehmad, 4 (1763), 179-214) e in parecchi scritti di Moses b. Samuel Ashkenazi di Candia, 1460 (nel manoscritto Vaticano 254). Anche con la diffusione della Cabala in ambienti assai più vasti, queste voci non furono messe a tacere, soprattutto in Italia. In Spagna, la creatività cabalistica diminuì considerevolmente nel XV secolo. Lo stimolo originale della Cabala aveva già raggiunto la sua espressione più piena. Vi furono molti altri cabalisti in Spagna, e i numerosi manoscritti che vi furono redatti attestano quanti fossero coloro che se ne occupavano, ma le loro opere presentano scarsissima originalità. Nel 1482, Joseph Alcastiel di Jativa scrisse responsa a 18 quesiti su vari argomenti cabalistici, che gli erano stati rivolti da Judah Hayyat, e in essi adottò un punto di vista molto indipendente. Joshua b. Samuel ibn Nahmias, nel suo libro Migdol Yeshu'ot (manoscritto Musajoff), Shalom b. Saadiah ibn Zaytun di Saragozza e gli allievi di Isaac Canpanton, che occupò una posizione centrale nel Giudaismo della Castiglia alla metà del secolo XV, furono tra i principali esponenti della Cabala. Molti cabalisti si erano trasferiti in Italia prima ancora dell'espulsione dalla Spagna, per esempio Isaac Mar-Hayyim, che scrisse nel 1491, durante il viaggio verso Erez Israel, due lunghe lettere su problemi relativi al principio dell'emanazione. Joseph ibn Shraga (m. 1508-9), che ai suoi tempi venne chiamato "il cabalista di Argenta", e Judah Hayyat, autore di un lungo commento, Minhat Yehu,dah, su Ma'arekhet ha-Elohut (1558), furono anch'essi tra i principali protagonisti della trasmissione della Cabala spagnola all'Italia. Il libro Ohel Mo'ed (manoscritto di Cambridge) fu scritto da un cabalista sconosciuto prima del 1500, in Italia o forse ancora in Spagna, per difendere la Cabala contro i detrattori. Abraham b. Eliezer ha-Levi e Joseph Taitazak, incominciarono anch'essi la loro attività cabalistica quando ancora erano in Spagna. Il libro rivelazioni del secondo, Sefer ha-Meshiv, in cui si dice che chi parla è Dio stesso, venne forse composto prima dell'espulsione. L'attività degli emigranti rafforzò la Cabala, che acquisì molti aderenti in Italia nel XIV e nel XV secolo. Reuben Zarfati interpretò la teoria delle Sefirot; Jonathan Alemano, che unì la Cabala alla filosofia, scrisse un commento alla Torah in Einei ha-Edah (manoscritto di Parigi), e ai Cantico dei Cantici in Heshek Shelomo; inoltre, compilò una vasta antologia di miscellanee cabalistiche (manoscritto di Oxford). Inoltre, compose un'opera senza titolo sulla Cabala. Solo l'introduzione del suo commento al Cantico dei Cantici è stata pubblicata (1790). Judah b. Jehiel Messer Leon di Mantova si oppose alle tendenze dei tardi cabalisti e difese la convinzione che i principi cabalistici fossero in armonia con le idee platoniche. Questo risalto attribuito al platonismo cabalistico si confaceva indubbiamente al temperamento spirituale degli umanisti della cerchia di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola. Il poeta Moses Rieti dedicò parte della sua opera poetica Mikdash Me'at a un discorso in rima su idee cabalistiche, ed Elijah Hayyim di Gennazano scrisse un'introduzione alla Cabala intitolata Iggeret Hamudot (1912). La Cabala dopo l'espulsione dalla Spagna e il nuovo centro a Safed L'espulsione dalla Spagna, avvenuta nel 1492, produsse un mutamento d'enorme rilievo nella storia della Cabala. Il profondo sconvolgimento causato nella coscienza giudaica da questa catastrofe fece sì che la Cabala divenisse proprietà comune. Sebbene si fosse diffusa nelle generazioni precedenti, restava tuttora patrimonio esclusivo di circoli relativamente chiusi, che solo di tanto in tanto uscivano dal loro isolamento aristocratico. I fini di certi personaggi, come l'autore dello Zohar o del Sefer ha-Peli ah, che intendevano creare un'opera di importanza storica e sociale, si realizzarono solo nel XVI secolo. Solo in questo periodo, inoltre, l'atmosfera escatologica prevalente in particolari personalità spagnole si combinò con gli stimoli più fondamentali della Cabala. Con l'espulsione, il messianesimo divenne parte del nucleo stesso della Cabala. Le generazioni precedenti incentravano il, loro pensiero sul ritorno dell'uomo alla fonte della sua vita, tramite la contemplazione dei mondi superni, e sull'istruzione nel metodo del ritorno mediante la comunione mistica con la fonte originale. Era un ideale che si poteva realizzare in qualunque luogo e in qualunque momento, e la comunione mistica non dipendeva da una struttura messianica. Ora, invece, si combinò con le tendenze messianiche e apocalittiche, che attribuivano al cammino dell'uomo verso la redenzione un'importanza maggiore che non al futuro ritorno alla fonte di ogni esistenza di Dio. Questa combinazione al misticismo e di messianesimo apocalittico trasformò la Cabala in una forza storica di straordinario dinamismo. I suoi insegnamenti restavano tuttora profondi, astrusi, di difficile comprensione per le masse; ma i suoi fini si prestavano facilmente alla divulgazione, e molti cabalisti cercarono di estenderne l'influenza in tutta la comunità. La Cabala penetrò in molte aree della fede e delle consuetudini popolari, vincendo l'opposizione irriducibile di certuni. Si deve notare che lo sviluppo estremamente originale della Cabala dopo l'espulsione non ebbe inizio in Italia, benché questo paese fosse un centro di fiorente cultura giudaica, e vi si svolgesse una feconda attività cabalistica. La vera forza creativa venne dal nuovo centro, creato in Erez Israel circa 40 anni dopo l'espulsione. Il movimento religioso che ebbe origine a Safed, e che si manifestò in un rinnovamento della Cabala in tutta la sua intensità, è particolarmente importante perché fu l'ultimo movimento del Giudaismo ad avere una portata tanto vasta e un'influenza così decisiva e continua sulla Diaspora nel suo complesso, in Europa, in Asia e nell'Africa settentrionale. Questa influenza si mantenne anche dopo la dispersione del movimento shabbateo, e questo attesta in quale misura si fosse radicata nella coscienza nazionale. Un nesso tra l'apparizione di nuovi aspetti della Cabala e la sua rapida diffusione, e l'imminente redenzione di Israele era stato già stabilito da alcuni cabalisti spagnoli, come l'autore di Ra'aya Meheimna e l'autore di Sefer ha-Peli'ah. Ma solo dopo l'espulsione questa divenne una forza dinamica e onnicomprensiva. Una chiara indicazione si trova nell'affermazione di un cabalista sconosciuto: "Il decreto dall'alto che non si discutesse l'insegnamento cabalistico in pubblico fu stabilito per durare soltanto un tempo limitato, fino al 1490. Noi siamo quindi entrati nel periodo chiamato 'l'ultima generazione', e allora il decreto è stato abrogato, e il permesso è stato accordato, e a partire dal 1540 la più importante mizvah sarà per tutti di studiarlo in pubblico, per vecchi e giovani, poiché questo e null'altro porterà la venuta del Messia" (citato nell'introduzione di Abraham Azulai al suo Or ha-Hammah sullo Zohar). Gli esuli studiavano la Cabala soprattutto nelle sue forme più antiche, ma cercavano di rispondere all'interesse che la Cabala stessa suscitava in Italia, nell'Africa settentrionale e in Turchia per mezzo di esposizioni sistematiche e complete, che tuttavia in quest'epoca non contenevano nuovi punti di vista. I principali esponenti della Cabala furono Judah Hayyat, nel suo ampio commento a Ma'arekhet ha-Elohut, che fu plagiato da parecchi cabalisti italiani; Abraham Saba e Joseph Alashkar, nei loro commenti alla Scrittura e alla Mishnah; Abraham Adrutiel in un'antologia di tradizioni preesistenti intitolata Aunei Zikkaron, e soprattutto Meir b. Gabbai, nella sua esauriente esposizione in Avodat ha-Kodesh (1568), che fu forse la più splendida esposizione della speculazione cabalistica prima della rinascita della Cabala a Safed. Vi fu un'intensa attività lungo le linee tradizionali, soprattutto in Italia e in Turchia. Tra coloro che furono attivi in Italia figurano Elijah Menahem Halfan di Venezia, Berakhiel b. Meshullam Cafman di Mantova (Lev Adam, 1538, nel manoscritto Kaufmann 218), Jacob Israel Finzi di Recanati (commento alla liturgia, manoscritto di Cambridge), Abraham b. Solomon Treves ha-Zarfati (n. 1470) che visse a Ferrara ed ebbe "una rivelazione di Elia", e Mordecai b. Jacob Rossillo (Sha arei Hayyim, manoscritto di Monaco 49). Una visione panteistica della relazione tra Dio e il mondo venne formulata chiaramente in Iggeret ha-Ziyyurim da un cabalista sconosciuto nella prima metà del XVI secolo in Italia (manoscritto JTS). Un centro importante si formò a Salonicco, quindi in Turchia Tra i principali esponenti vi furono: Joseph Taitazak; Hayyim b. Jacob Obadiah de Bosal (Be'er Mayim Hayyim, 1546); Isaac Shani (Me'ah She'arim, 1543); e Isaac b. Abraham Farhi, che diffuse a proprio nome l'anonimo Ta'amei ha-Mizvot, scritto in realtà intorno al 1300. Il filosofo cabalista David b. Judah Messer Leon lasciò l'Italia per operare a Salonicco, ma il suo libro Magen David (manoscritto 290 del London Jews' College) sui principi filosofici della Cabala fu scritto apparentemente a Mantova; quest'opera influenzò parecchi cabalisti venuti dopo di lui, inclusi Meir ibn Gabbai e Moses Cordovero. Anche Solomon Alkabez cominciò a operare in questo ambiente, prima di trasferirsi a Safed. Inoltre, sappiamo che vi fu una considerevole attività cabalistica in Marocco. Zeror ha-Mor (1523) di Abraham Sabba, scritto tra il 1498 e il 1501 a Fez, divenne un classico dell'esegesi cabalistica della Torah. Joseph Alashkar scrisse quasi tutti i suoi libri a Tlamcen (Zofenat Pa'eah, 1529, manoscritto di Gerusalemme 2° 154; e parecchi altri libri nel Katalog der Handschriften... E. Carmoly, 1876), ma il centro principale in quest'area era Dra (o Dar'a), i cui cabalisti erano famosi. La Mordecai Buzaglo scrisse M'ayenot ha-Hokhmah, che venne nascosto dai cabalisti (manoscritto Goldschmidt, Copenhagen), e un commento alla liturgia (Malkhei Rabbanan (1931), 86-87). Era questo l'ambiente in cui fu scritto il Ginnat Bitan, un'introduzione alla teoria delle Sefirot, opera di Isaac b. Abraham Cohen (manoscritto Gaster 720). Quest'opera non deve essere confusa con il Ginnat ha-Bitan, che ha due commenti attribuiti ai cabalisti spagnoli Jacob b. Todros e Shem Tov ibn Gaon (manoscritto Gaster 1398) e che, dall'inizio alla fine (come è stato dimostrato da E. Gottlieb), è un falso del tardo XVI secolo, basato su Ma'arekhet ha-Elohut e sul commento di Judah Hayyat alla stessa opera. Il libro più importante prodotto dai cabalisti marocchini in questo periodo fu Ketem Paz di Simeon ibn Labi di Fez, l'unico commento allo Zohar che non fosse scritto sotto l'influenza della nuova Cabala di Safed. Di conseguenza, spesso è più vicino al significato primario del testo (la parte sulla Genesi fu stampata nel 1795). Numerosi cabalisti operavano a Gerusalemme e a Damasco. Alcuni erano emigrati dalla Spagna, altri erano musta'rabin. Tra gli emigrati dal Portogallo vi era Judah b. Moses Albotini (m. 1520) che scrisse un'introduzione alla Cabala profetica, e dedicò alla Cabala molti capitoli del suo libro Yesod Mishneh Torah su Maimonide. A Damasco, alla metà del secolo, Judah Haleywa, membro d'una famiglia spagnola, scrisse il Sefer ha-Kauod (manoscritto di Gerusalemme 8° 3731). Tuttavia, questo fu soprattutto il centro dell'attività di Joseph b. Abraham ibn Zayyah, uno dei musta'rabin che visse per parecchi anni a Gerusalemme e nel 1538 vi scrisse Euen ha-Shoham, nel 1549 She'erit Yosef (manoscritto della comunità di Vienna, catalogo Schwarz 260), e numerose altre opere cabalistiche. Notevoli per le loro speculazioni teoriche su dettagli del sistema delle Sefirot e per la profonda meditazione sul misticismo del numero infinito di luminari che risplendono nelle Sefirot, i suoi libri rappresentano il culmine di una certa visione dell'argomento e nel contempo rivelano una forte tendenza verso la Cabala pratica e le questioni riguardanti la sitra ahra. I libri scritti dagli ashkenazim dopo l'espulsione dalla Spagna furono soprattutto di tipo antologico: come Shoshan Sodot di Moses b. Jacob di Kiev (stampato parzialmente nel 1784, e pervenuto nella forma integrale del manoscritto di Oxford 1656); Sefer ha-Miknah di Joseph (Josselmann) di Rosheim (1546, parzialmente edito nel 1970); e il commento alla liturgia di Naphtali Hirz Treves (1560). Gli scritti di Eliezer b. Abraham Eilenburg sulla Cabala e la filosofia mostrano come campi molto diversi si intrecciano nella mente di un cabalista tedesco che studiò in Italia e viaggiò in parecchi paesi. Eilenburg curò i libri dei primi cabalisti, aggiungendovi materiale suo, in parte autobiografico. La Cabala mise radici in Germania molto tempo prima di giungere in Polonia, dove penetrò solo nella seconda metà del secolo, attraverso l'opera di Mattathias Delacrut, David Darshan e Mordecai Yaffe. La pubblicazione a stampa di parecchie opere classiche contribuì moltissimo alla diffusione della Cabala, soprattutto alla metà del XVI secolo. All'inizio non vi fu opposizione - né quando il libro di Recanati fu pubblicato a Venezia (1523), né quando parecchi altri libri uscirono a Salonicco e Costantinopoli sebbene tali opere non ricevessero la haskamah ("approvazione") delle autorità rabbiniche. Tuttavia, quando si cominciò a pensare di stampare lo stesso Zohar e il Ma'arekhet ha-Elohut (1558), il progetto diede origine ad accanite discussioni tra i rabbini italiani; alcuni dei cabalisti più importanti si opposero violentemente, proclamando il loro timore che tali opere inducessero all'errore. L'ordine di papa Giulio III, che fece bruciare il Talmud in Italia (1553), ebbe una parte in questa controversia, poiché alcuni temevano che la diffusione delle opere cabalistiche tendesse a stimolare l'attività missionaria. Alcuni cabalisti che inizialmente s'erano opposti all'idea divennero in seguito i protagonisti principali della stampa dello Zohar, ad esempio Isaac de Lattes, autore di una decisione in favore della pubblicazione del testo che appare all'inizio dell'edizione di Mantova. Alla fine, i favorevoli ebbero la meglio, e la pubblicazione di altre opere della Cabala in Italia, Germania, Polonia e Turchia non incontrò ulteriore opposizione. Oltre alla Cabala tradizionale, durante i quarant'anni immediatamente successivi all'espulsione dalla Spagna, sorse uno straordinario movimento apocalittico, i cui principali esponenti tra gli emigrati erano attivi in Palestina e in Italia. Abraham b. Eliezer ha-Levi, che viaggiò in molti paesi e si stabilì a Gerusalemme intorno al 1515, dedicò quasi interamente le sue energie alla diffusione di un'apocalittica cabalistica che suscitò molto scalpore. Alcuni anni dopo l'espulsione, apparve un libro che costituisce una prova clamorosa di tale movimento: intitolato Kaf ha-Ketoret (manoscritto di Parigi 845) è un'interpretazione dei Salmi intesi come inni di battaglia per la guerra alla fine del tempo, e fu apparentemente scritto in Italia. In questo periodo, inoltre, movimenti messianici sorsero tra i marranos in Spagna, ed emersero in Italia intorno al cabalista Asher Lemlein di Reutlingen (1502). Fu inoltre l'epoca del primo resoconto del tentativo compiuto dal cabalista spagnolo Joseph della Reina (c. 1470) per operare la redenzione finale a mezzo della Cabala pratica. In seguito, la vicenda subì molti adattamenti e fu ampiamente divulgata. Anche il commentatore Isaac Abrababel rivolse la sua attenzione alla propagazione delle concezioni apocalittiche i cui aderenti fissarono variamente la data della redenzione per il 1503, il 1512 e il 1541. La ripercussione più seria fu l'agitazione che contrassegnò l'apparizione di David Reuveni e del suo sostenitore Solomon Molcho, le cui esposizioni cabalistiche (Sefer ha-Mefo'ar, 1529) furono accolte favorevolmente dai cabalisti di Salonicco. Le visioni e i discorsi di Molcho erano un miscuglio di Cabala e di incitamenti all'attività politica a fini messianici tra i cristiani. Con il suo martirio (1532), egli venne finalmente riconosciuto dalla comunità giudaica come uno dei "santi" della Cabala. Per gli apocalittici, l'avvento di Martin Lutero fu un altro portento un presagio della disgregazione della chiesa e dell'approssimarsi della fine dei giorni. Dopo il fallimento come movimento propagandistico, il risveglio apocalittico penetrò a livelli spirituali più profondi. Tanto gli apocalittici cristiani quanto quelli giudaici incominciarono a percepire che alla vigilia della redenzione la luce sarebbe stata rivelata mediante la rivelazione di misteri in precedenza celati. L'espressione più profonda di questo nuovo movimento fu che Erez Israel divenne il centro della Cabala. Prima Gerusalemme e poi, dal 1530 in poi, Safed furono per decenni i luoghi d'incontro di molti cabalisti provenienti da ogni parte della Diaspora: essi divennero le guide del risveglio religioso che elevò Safed alla posizione di centro spirituale della nazione per due generazioni. Qui il vecchio e il nuovo si fondevano: le antiche tradizioni insieme all'aspirazione di raggiungere nuovi vertici della speculazione, che trascendeva quasi completamente le forme più antiche della Cabala e che ebbe inoltre un'influenza profonda sulla condotta di vita dei cabalisti e sui costumi popolari. Persino grandi autorità halakhiche come Jacob Berab e Joseph Caro avevano profonde radici nella Cabala, e non vi è dubbio che le loro attese messianiche spianarono la via alla grande controversia sulla reintroduzione dell'ordinazione, che Jacob Berab volle organizzare nel 1538 quando Safed era già un centro riconosciuto. Sephardim, ashkenazim e musta'rabin contribuirono tutti, in varia misura, a questo movimento, che attirò simpatizzanti da terre lontane e fu anche la causa di una grande innovazione nella Diaspora, dove moltissime comunità accettavano la suprema autorità religiosa dei saggi di Safed. La diffusione di un modo di vita pietista fu un'espressione pratica del movimento, e preparò il terreno alle colorite leggende che crebbero ben presto intorno ai principali cabalisti di Safed. Come era avvenuto con l'inizio della Cabala in Provenza, anche qui le speculazioni razionali troppo profonde si combinavano con rivelazioni sgorgate da altre fonti, e assunsero (soprattutto dopo l'espulsione dalla Spagna) la forma delle rivelazioni dei maggidim: angeli o anime sante che parlavano attraverso le labbra dei cabalisti e li spingevano a scrivere le loro rivelazioni. Lungi dall'essere semplicemente un artificio letterario, questa era una specifica esperienza rituale, come è indicato da Sefer ha-Meshiv di Joseph Taitazak(forse la prima opera di questo tipo) e da Maggid Mesharim di Joseph Caro. Ancora una volta, come agli albori della Cabala in Provenza e in Spagna, anche qui vi erano due tendenze opposte, una di natura filosofica e teoretica, l'altra di natura mitica e antropomorfica. Le forme più antiche della Cabala furono rappresentate da David b. Solomon ibn Zimra (conosciuto come Radbaz. m. 1573), dapprima in Egitto e successivamente a Safed, in Magen David (1713) sulla forma delle lettere, in Migdal David (1883) sul Cantico dei Cantici, in Mezudat David (1862) sul significato dei Comandamenti, e inoltre nella composizione poetica Keter Malkhut, che è un'imitazione cabalistica della famosa poesia di Solomon ibn Gabirol (nella raccolta Or Kadmon, 1703). Per contrasto, un sistema nuovo fu esposto da Solomon b. Moses Alkabez., che emigrò in Erez. Israel da Salonicco, e dal suo allievo e cognato Moses b. Jacob Cordovero (conosciuto come Remak, 1522-70). In Cordovero, Safed produsse il principale esponente della Cabala e il suo pensatore più importante. Combinando un pensiero religioso intensivo con la capacità di esporlo e di spiegarlo, egli fu il principale teologo sistematico della Cabala. La sua filosofia teoretica era basata su quella di Alkabez., ed era completamente diversa dalla Cabala dei primi tempi, soprattutto per quanto riguardava la teoria delle Sefirot. Inoltre, questa filosofia si sviluppò grandemente tra la sua prima opera importante, Pardes Rimmonim, scritta nel 1548, e la seconda, Elimah Rabbati, composta 19 anni più tardi; quest'ultima venne dopo il suo lungo commento allo Zohar, Or Yakar, che interpretava il libro alla luce del suo sistema. Cordovero interpreta la teoria delle Sefirot dal punto di vista di una dialettica immanente che agisce sul processo di emanazione, da lui visto come un processo causativo. Secondo la sua concezione, vi è un principio formativo, soggetto a una dialettica, che determina tutti gli stadi della rivelazione del Divino (Ein So) tramite l'emanazione. Il Divino, così come si rivela quando emerge dalle profondità del proprio essere, agisce come un organismo vivente. Queste e altre idee conferiscono al suo sistema un aspetto diverso da quello adottato in Avodat ha-Kodesh di Gabbai, che fu scritto (1531) poco prima della creazione del centro di Safed, sebbene entrambi siano basati sullo Zohar. Sembrerebbe che l'esposizione sistematica di Alkabez sia stata scritta solo dopo Pardes Rimmonim (Likkutei Hakdamot le-Hokhmat ha-Kabbalah, manoscritto di Oxford 1663). Cordovero fu seguito dai suoi discepoli, Abraham ha-Levi Berukhim, Abraham Galante, Samuel Gallico e Mordecai Dato, il quale introdusse la Cabala del suo maestro in Italia, suo luogo di nascita e teatro della sua prolifica attività cabalistica. Eliezer Azikri ed Elijah de Vidas, entrambi allievi di Cordovero, scrissero a Safed le sue opere classiche sull'etica cabalistica che erano destinate ad avere un pubblico numeroso tra gli studiosi della Torah: Sefer Haredim e Reshit Hokhman. Questi libri non ebbero soltanto una grande influenza in se stessi, ma aprirono la strada a un intero genere letterario di opere sull'etica e il comportamento nella maniera cabalistica apparse nel XVII e nel XVIII secolo e divenute molto popolari. Questa letteratura contribuì alla diffusione di massa della Cabala più dei libri che trattavano della Cabala in senso più stretto, e il cui contenuto mistico era comprensibile solo a pochi. Un testo che non dipende dalla Cabala di Cordovero, ma che è saturo dell'atmosfera di Safed, dove l'idea della trasmigrazione aveva un posto importante, è Gallei Razayya, di autore ignoto. Attribuito con molti dubbi ad Abraham ha-Levi Berukhim, questo libro fu scritto nel 1552-53, e la sezione più importante è dedicata alla teoria dell'anima e delle sue trasmigrazioni. Particolarmente sorprendente è il tentativo di spiegare le vite degli eroi biblici, soprattutto le loro azioni più reprensibili e i loro rapporti con donne straniere, in termini di trasmigrazione delle anime. Il libro è una delle creazioni più originali della Cabala: è stato stampato (1812) solo in parte, sebbene sia pervenuto fino a noi nel testo integrale (manoscritto di Oxford 1820). La sua ardita psicologia divenne un precedente dell'approccio paradossale degli shabbatei nell'interpretazione dei peccati dei personaggi biblici. Abbastanza stranamente, non risulta che suscitasse opposizioni di sorta. Per il magnetismo della sua personalità e la profonda impressione che fece su tutti, Isaac Luria Ashkenazi, l'"Ari" (1534-72), fu più grande di Cordovero (cfr. p. 422). Figura centrale della nuova Cabala, egli fu il più importante mistico cabalista dopo l'espulsione. Sebbene operasse a Safed solo durante gli ultimi due o tre anni della sua vita, ebbe una profonda influenza sulla cerchia ristretta dei suoi discepoli - alcuni dei quali erano grandi eruditi che dopo la sua morte propagarono e interpretarono varie versioni delle sue idee e del suo modo di vita, soprattutto a partire dalla fine del XVI secolo. Immediatamente dopo la sua morte, intorno a lui vennero intessute numerose leggende, in cui la realtà storica si mescolava alla fantasia. La potenza di Luria come pensatore non può essere paragonata a quella di Cordovero, con il quale studiò per un breve periodo nel 1570; ma la sua influenza personale e storica fu molto più profonda, e in tutta la storia della Cabala solo quella dello Zohar si può paragonare alla sua. Sviluppato partendo da speculazioni di carattere mitico sullo Zohar, in generale il suo sistema dipendeva da Cordovero più di quanto si ritenesse in precedenza, sebbene egli operasse una sorte di rimitizzazione dei concetti teoretici di questi. In particolare le interpretazioni date da Cordovero alle idee espresse nell'Idra dello Zohar, espresse nella sua Elimah Rabbati ebbero una netta influenza su Luria, il quale basò i dettagli del suo sistema soprattutto sulle Idrot, In Luria, queste idee sono legate al suo interesse per le combinazioni delle lettere quali mezzi di meditazione. Una vasta area del suo sistema non si presta a una completa penetrazione intellettuale, e in molti casi può essere raggiunta solo mediante la meditazione individuale. Anche nella sua teoria della creazione (si veda più sotto), che fin dall'inizio è associata all'estremo misticismo del linguaggio e ai Nomi Sacri in cui è concentrato il potere divino, arriviamo rapidamente al punto - i dettagli dell'idea del tikkun haparzufim ("la restaurazione dei volti [di Dio]") - che trascende la portata della percezione intellettuale. Abbiamo a che fare, qui, con un caso estremo di reazione gnostica nella Cabala, che trova espressione nella collocazione di innumerevoli stadi tra i gradi di emanazione e delle luci che risplendono in essi. Questa reazione gnostica, e con essa la tendenza mistica nella Cabala, raggiunsero il punto più alto in Luria, mentre la sua relazione con le tendenze filosofiche della Cabala spagnola e il Cordovero era più esile. I brani che sono comprensibili e che sono relati all'origine del processo della creazione sono molto dissimili dai punti di partenza dei neoplatonici, ma hanno una grande importanza per la storia del misticismo, e la loro influenza storica fu sorprendente. È appunto in queste sezioni che troviamo importanti differenze nelle varie versioni della Cabala lurianica. Alcune nascondevano certe parti di queste speculazioni, come fece Moses Jonah con l'intera teoria dello zimzum ("contrazione" ) nel suo Kanfei Yonah, e Hayyim Vital (cfr. p. 445) con il problema del berur ha-dinim, la progressiva rimozione dei poteri del rigore e della severità dall'Ein-Sof nel processo di contrazione ed emanazione. Alcuni aggiunsero idee nuove, come Israel Sarug, nella sua teoria del malbush ("veste") che è formato dal movimento linguistico interiore dell'Ein Sof ed è il punto d'origine, precedente anche allo zimzum. Gli aspetti originali dell'opera di Luria, in generale come in particolare, erano nel contempo profondi ed estremi, e nonostante il fatto che erano radicati in idee precedenti, diedero alla Cabala un aspetto completamente nuovo. Una nuova terminologia e un nuovo simbolismo più complesso sono le caratteristiche principali della letteratura di questa scuola. Vi era molta originalità nelle idee relative al zimzum che precedeva l'intero processo dell'emanazione e della rivelazione divina; la natura duale dell'evoluzione del mondo mediante il hitpashetut ("egresso") e il histallekut ("regresso") delle forze divine, che introdusse un elemento dialettico fondamentale nella teoria dell'emanazione (già apparsa in Cordovero); i cinque parzufim ("configurazioni") quali unità principali del mondo interiore, che sono semplicemente configurazioni delle Sefirot nel nuovo ordinamento, di fronte al quale le dieci Sefirot perdono la precedente indipendenza - La crescita del mondo dalla necessaria catastrofe che sopraffece Adamo; e il lento tikkun ("restaurazione") delle luci spirituali cadute sotto la dominazione delle kelippot ("gusti, bucce"; forze del male). Il carattere gnostico di queste idee, che costituiscono una nuova mitologia nel Giudaismo, è indubitabile. Parallelamente al dramma cosmogonico esiste un dramma psicologico, altrettanto complesso, riguardante la natura del peccato originale e la restaurazione delle anime condannate alla trasmigrazione a causa di tale peccato. La teoria della preghiera e della kavvanah ("intenzione") mistica diviene ancora una volta centrale nella Cabala, e il risalto che riceve supera di gran lunga quello accordato in precedenza all'argomento. Questo misticismo della preghiera si rivelò come il fattore più importante della nuova Cabala, grazie allo stimolo costante che dava all'attività contemplativa. Nella cabala lurianica esisteva uno splendido equilibrio tra le speculazioni teoriche e questa attività pratica. L'elemento messianico è qui assai più notevole che in altri sistemi cabalistici, perché la teoria del tikkun confermava l'intero significato del Giudaismo quale acuta tensione messianica. Questa tensione proruppe finalmente nel movimento messianico shabbateo, il cui fascino particolare e la cui forza storica si possono spiegare con la combinazione tra messianesimo e Cabala. Un'esplosione messianica come questa era inevitabile in un periodo in cui le tendenze apocalittiche potevano venire facilmente risuscitate in vasti strati del pubblico grazie al predominio della Cabala lurianica. Non che questa forma di Cabala fosse distinta da altre correnti, nella sua tendenza all'applicazione pratica e nella sua associazione con la magia. Questi due elementi esistevano anche in altri sistemi, persino in quello di Cordovero. La teoria della kavuanah nella preghiera e nel compimento delle mizvot conteneva indubbiamente un forte elemento magico mirante a influenzare l'io interiore. Gli yihudim, esercizi di meditazione basati sulla concentrazione mentale sulle combinazioni dei Nomi Sacri, che Luria assegnava ai suoi discepoli, contenevano tale elemento di magia, come contenevano altri mezzi per raggiungere lo spirito santo. I discepoli di Luria lo vedevano come il Messia, figlio di Joseph, che doveva preparare la via alle successive rivelazioni del Messia, figlio di David, ma per un'intera generazione dopo la sua morte, rimasero riuniti in gruppi esoterici e fecero poco per diffondere tra il popolo la loro fede. Solo occasionalmente scritti frammentari e antologie o sommari degli insegnamenti di Luria si diffusero al di fuori di Erez Israel. Nel frattempo, proprio in Erez Israel, nacque una letteratura completa di "scritti lurianici" originata nei circoli dei suoi discepoli e degli allievi di questi. Solo una minima parte di tali opere proveniva dagli scritti dello stesso Luria. Oltre ai discepoli ricordati più sopra, anche Joseph ibn Tabul, Judah Mishan ed altri parteciparono a questa attività, ma nessuno di loro divenne propagandista, o fu attivo al di fuori di Erez Israel. Questo ebbe inizio solo alla fine del XVI secolo con il viaggio di Israel Sarug in Italia e in Polonia, e quindi per il tramite di uno studioso che, nonostante le sue affermazioni non era stato uno degli allievi di Luria, a Safed, ma soltanto un suo discepolo in senso spirituale. Fin verso il 1620 la Cabala rimase soprattutto sotto l'influenza degli altri cabalisti di Safed, in particolare Cordovero. Quando la Cabala incominciò ad irradiarsi da Safed alla Diaspora, fu accompagnata da una grande ondata di esaltazione religiosa, soprattutto in Turchia, Italia e Polonia. In Italia ebbe un'importanza particolare l'opera di Mordecai Dato, che si dedicò anche alla propaganda messianica letteraria intorno all'anno 1575, considerato da molti l'anno della redenzione. Altrettanto importante fu il suo allievo Menahem Azariah Fano (m. 1623) che per molti anni fu considerato il più eminente cabalista d'Italia e produsse un considerevole numero di opere, seguendo inizialmente Cordovero e quindi la Cabala lurianica nella versione diffusa da Sarug. Egli e i suoi discepoli, particolarmente Aaron Berachiah b. Moses di Modena (m 1639) e Samuel b. Elisha Portaleone, fecero dell'Italia uno dei centri più importanti della Cabala. In Italia e in Polonia i predicatori cominciarono a parlare in pubblico di argomenti cabalistici, e la fraseologia cabalistica divenne patrimonio generale. Furono inoltre compiuti alcuni tentativi di spiegare le idee cabalistiche senza ricorrere al linguaggio tecnico: lo si può osservare particolarmente negli scritti di Judah Loew b. Bezalel (Maharal di Praga) e nel Bet Mo'ed di Menahem Rava di Padova (1608). La diffusione della Cabala portò inoltre con sé una mescolanza di fede popolare e di speculazione mistica che ebbe vasti risultati. Le nuove consuetudini dei cabalisti di Safed si comunicarono a un pubblico più ampio, specialmente dopo l'apparizione di Seder ha-Yom di Moses ibn Makhir di Safed (1599). Manuali penitenziali basati sulle pratiche dei cabalisti di Safed e nuove preghiere e costumi si diffusero in Italia, e più tardi anche in altre terre; e gruppi speciali furono istituiti per la loro propagazione. Non c'è da stupirsi se il momento portò anche alla rinascita della poesia religiosa, radicata nel mondo della Cabala. Iniziata anch'essa a Safed, dove i suoi esponenti principali erano Eliezer Azikri Israel Najara, Abraham Maimin e Menahem Lonzano, questa poesia giunse in Italia, dove fu esemplificata dalle opere di Mordecai Dato, Aaron Berechiah Modena e Joseph Jedidiah Carmi; negli anni che seguirono ebbe echi vastissimi. Molti poeti ebbero nella Cabala un potente stimolo creativo, soprattutto il grande poeta yemenita Shalom (Salim) Shabbazi, Moses Zacuto e Moses Hayyim Luzzatto. Nelle loro opere, essi rivelarono il valore immaginativo e poetico dei simboli cabalistici, e molte delle loro poesie trovano posto nei libri di preghiere, tanto della comunità quanto dei singoli. Fino a quando Hayyim Vital, il principale discepolo di Luria, rifiutò di lasciar pubblicizzare i suoi scritti - un processo che iniziò veramente solo dopo la morte di Vital (1620) - la conoscenza dettagliata della Cabala lurianica pervenne alla Diaspora dapprima tramite le versioni di Moses Jonah e Israel Sarug. Quasi tutte le opere della Cabala dedicate alla diffusione di queste idee attraverso la stampa nella prima metà del XVII secolo recano l'impronta di Sarug. Ma nel suo libro Shefa Tal (1612) Shabbetai Sheftel Horowitz di Praga basò il tentativo di conciliare la teoria lurianica dello zimzum con la Cabala di Cordovero sugli scritti di doseph ibn Tabul. Abraham Herrera, un allievo di Sarug che collegò l'insegnamento del suo maestro alla filosofia neoplatonica, scrisse Puerto del Cielo, l'unica opera cabalistica originariamente scritta in spagnolo, che fu conosciuta da molti studiosi europei tramite la traduzione in ebraico (1655) e quella (parziale) in latino (1684). All'inizio, le idee lurianiche apparvero in stampa solo in una forma abbreviata, come nell'Appiryorl Shelomo di Abraham Sasson (Venezia, 1608), ma nel 1629-31 furono pubblicati i due volumi di Joseph Solomon Delmedigo, Ta'alumot Hokhmah e Novelot Hokhmah, che includevano anche materiale tratto dagli scritti di Sarug e dei suoi discepoli. L'ultimo volume comprende anche i lunghi studi di Delmedigo su queste idee e numerosi tentativi di spiegarle filosoficamente. In questi anni si diffusero i manoscritti degli insegnamenti di Vital, e nel 1648 apparve ad Amsterdam l'Emek ha-Melekh di Naphtali Bacharach (cfr. p. 396), che conteneva un'esposizione estremamente dettagliata della dottrina lurianica, basata su una mescolanza delle due tradizioni di Vital e Sarug. Ebbe un'influenza enorme, benché suscitasse anche proteste e critiche. Fu seguito dalla pubblicazione di altre fonti che cercavano d'interpretare il nuovo insegnamento; ad esempio, Hathalat ha-Hokhmah della scuola di Sarug, pubblicato da un cabalista polacco, Abraham Kalmanks di Lublino, il quale si presentò come l'autore del libro sotto il titolo Ma'ayan ha-Hokhmah (Amsterdam, 1652). Tuttavia, i libri pubblicati nel campo della Cabala, che continuarono ad aumentare di numero durante il XVII secolo, rispecchiano solo parzialmente le grandi ondate della Cabala che investivano tanto l'Oriente quanto l'Occidente. Da Erez Israel e dall'Egitto si diffuse una grande varietà di diverse edizioni e redazioni di ogni tipo di insegnamenti lurianici, che conquistarono quanti avevano tendenze mistiche. In gran parte, questa produzione fu opera di uomini attivi nel centro creato a Gerusalemme tra il 1630 e il 1660, i cui principali esponenti, Jacob Zemah, Nathan b. Reuben Spiro e Meir Poppers, lavorarono instancabilmente per curare gli scritti di Vital e per comporre opere nuove. Tra queste, solo i libri di Nathan Spiro, che trascorse in Italia alcuni anni verso la conclusione della sua vita, vennero stampati (Tuv ha-Arez, 1655, Yayin ha-Meshummar, 1660, e Mazzat Shimmurim tutti a Venezia). Il mondo in cui la Cabala penetrava ogni aspetto della vita si può vedere non soltanto nel lungo elenco di opere omiletiche di carattere completamente cabalistico e di opere etiche scritte sotto la sua influenza (soprattutto Shenei Luhot ha-Berit di Isaiah Horowitz), ma anche nell'interpretazione di dettagli giuridici e halakhici basati su principi cabalistici. Hayyim b. Abraham ha-Kohen di Aleppo si distinse particolarmente in questo campo e il suo libro Mekor Hayyim, con le sue varie parti, spianò la strada a un nuovo tipo di letteratura cabalistica. L'ascesa della Cabala e il suo completo predominio in molti ambienti furono accompagnati da diverse reazioni ostili. È vero, naturalmente, che l'appoggio dato alla Cabala da uomini di indiscutibile autorità rabbinica prevenne attacchi vituperosi e soprattutto aperte accuse di eresia, ma molti intellettuali dallo spirito più conservatore guardavano con sospetto la Cabala; e alcuni arrivarono ad esprimere apertamente tale ostilità nei loro libri. Tra questi devono essere menzionati Elijah Delmedigo nel suo Behinat ha-Dat, e Mordecai Corcos in un'opera speciale, oggi perduta. Un accanito attacco contro la Cabala fu sferrato da Moses b. Samuel Ashkenazi di Candia (c.1460) in numerosi scritti preservati nel manoscritto Vaticano 254. Un'opera anonima, Ohel Mo'ed (del periodo dell'espulsione dalla Spagna; manoscritto di Gerusalemme), fu scritta per rispondere ai rabbini che disprezzavano o deridevano la Cabala. Quando la Cabala si diffuse più ampiamente nella comunità, Leone (Judah Aryeh) Modena di Venezia (intorno al 1625) scrisse la classica opera polemica contro di essa (Ari Nohem), tuttavia non osò pubblicarla (a cura di N. Libowitz, 1929). Tuttavia il suo libro, ampiamente diffuso in manoscritto, provocò numerose reazioni. Joseph Solomon Delmedigo, a sua volta, criticò severamente la Cabala in Iggeret Ahuz, un'opera che circolò anch'essa soltanto in forma manoscritta (pubblicata da Abraham Geiger in Melo Chofnajim, Berlino, 1840). Nella sua continua avanzata, la Cabala giunse in Polonia a partire dalla seconda metà del XVI secolo. L'entusiasmo pubblico raggiunse tali proporzioni che "chi solleva obiezioni alla scienza della Cabala" veniva considerato "suscettibile di scomunica" (R. Joel Sirkes nei suoi responsa, prima serie (1834), n. 5). Dapprima prevalse il punto di vista di Cordovero, ma dall'inizio del XVII secolo cominciò a dominare la Cabala di Luria. Tuttavia, prima del 1648 le idee sistematiche della Cabala ebbero scarsa influenza, a quanto è possibile giudicare dagli scritti di Aryeh Loeb Priluk (commenti allo Zohar), Abraham Kohen Rappaport di Ostrog (nelle sue omelie alla conclusione della raccolta di responsa Eitan ha-Ezrahi), Nathan b Solomon Spira di Cracovia (Megalleh Amukot, 1637), Abraham Chajes (in Holekh Tamim, Cracovia 1634) e altri. Anche qui, i primi a circolare furono gli scritti della scuola di Sarug; apparentemente la visita compiuta dallo stesso Sarug in Polonia poco dopo il 1600, e documentata in modo convincente, lasciò il segno. Si poneva particolarmente in risalto la guerra contro il potere della sitra ahra cristallizzato nelle kelippot, distaccata dall'associazione con l'idea lurianica del tikkun e trattata come un principio fondamentale a sé stante. La tendenza a personificare questi poteri in varie forme demonologiche è evidente in particolare nell'opera di Samson b. Pesah Ostropoler, il quale, dopo la sua morte (fu ucciso nei massacri di Chmielnicki del 1648) fu considerato uno dei più grandi cabalisti polacchi. Il tentativo di creare una completa mitologia demonologica diede un carattere unico a questa particolare corrente della Cabala. In una certa misura, era basata su scritti falsamente attribuiti a Isaac Luria, ma in realtà composti in Polonia. La Cabala nei tempi successivi Una generazione dopo che la Cabala lurianica si era diffusa ampiamente, la tensione messianica in essa racchiusa esplose nel movimento shabbateo. Sebbene vi fossero naturalmente vari fattori locali, nella misura in cui le menti erano aperte all'annuncio della venuta del Messia, il crescente predominio della Cabala nella coscienza popolare del tempo, in particolare tra i più ferventi devoti, deve essere vista come lo sfondo generale che rese possibile il movimento e ne determinò il modo d'espressione. Il profondo rivolgimento che l'esperienza messianica portò nella sua scia apri la via a grandi mutamenti nel mondo della Cabala tradizionale, o nella Cabala considerata tradizionale dalle generazioni precedenti allo Shabbateanismo. Quando cospicui gruppi continuarono ad aggrapparsi alla loro fede nelle rivendicazioni messianiche di Shabbetai Zevi anche dopo la sua apostasia, due fattori contribuirono a creare un'anomala e audace Cabala shabbatea che fu considerata eretica dai cabalisti più conservatori: 1) l'idea che l'inizio della redenzione già permettesse di vedere i mutamenti che la redenzione avrebbe apportato nella struttura del mondo è che il mistero della creazione potesse essere risolto in termini di rivelazioni visionarie che prima non erano possibili; 2) la necessità di fissare il posto del Messia in questo processo e di giustificare in questo modo la carriera personale di Shabbetai Zevi nonostante tutte le sue contraddizioni. Di conseguenza, è chiaro che tutta la Cabala shabbatea era nuova, piena di idee ardite che esercitavano un considerevole richiamo. L'originalità essenziale contenuta nella Cabala in tempi successivi è derivata soprattutto dalla Cabala degli Shabbatei, le cui idee principali erano creazione di Nathan di Gaza (m. 1680), il profeta di Shabbetai, e di Abraham Miguel Cardozo (m. 1706). Sebbene i loro libri non venissero stampati, erano copiati di frequente, e l'influenza delle loro idee su quanti aderivano in segreto allo Shabbateanismo è facilmente riconoscibile, anche nelle numerose opere che ebbero edizioni a stampa. Il fatto che taluni dei più grandi rabbini si contassero tra i fedeli shabbatei faceva sì che vi fosse una zona crepuscolare nelle loro opere pubblicate. Questa nuova Cabala mostrò la propria forza soprattutto nel periodo dal 1670 al 1730. Per contrasto, era limitata l'originalità dell'opera dei cabalisti rimasti fuori dal campo shabbateo. Più continuatori che pensatori originali, essi concentravano i loro sforzi in due direzioni: 1) proseguire sulla via che era emersa attraverso l'evoluzione della Cabala, dallo Zohar a Isaac Luria; esaminare e interpretare le opere degli autori precedenti; e in generale comportarsi come se non fosse accaduto nulla e come se l'esplosione shabbatea non vi fosse mai stata; 2) limitare la diffusione della Cabala tra la popolazione a causa delle conseguenze pericolose che, essi temevano, lo Shabbateanismo avrebbe avuto per il Giudaismo tradizionale; e restituire la Cabala alla sua posizione di un tempo, non come forza sociale bensì come insegnamento esoterico limitato a pochi privilegiati. Questo determinò il carattere prevalentemente conservatore della Cabala "ortodossa" a partire dal 1700. Attenti a non bruciarsi sui carboni ardenti del messianismo, i suoi aderenti sottolineavano piuttosto gli aspetti della meditazione, della preghiera con kavvanah, della teosofia e dell'insegnamento morale nello spirito della Cabala. Le nuove rivelazioni erano guardate con sospetto. Le differenze di punti di vista incominciarono a cristallizzarsi, soprattutto sull'esatto modo di intendere gli insegnamenti di Isaac Luria, come erano stati formulati nelle diverse scuole dei suoi discepoli o dei discepoli del discepoli. Qui c'era spazio per notevolissime divergenze di opinioni. V'erano addirittura alcuni cabalisti che, influenzati segretamente dallo Shabbateanismo, tracciavano una chiara linea di demarcazione tra la Cabala lurianica tradizionale e l'area delle nuove rivelazioni e delle nuove ricerche, che restava inaccessibile agli estranei. Era come se non vi fossero punti di contatto tra questi due campi, che riuscivano a permanere fianco a fianco entro lo stesso regno. Fu così, ad esempio, per Jacob Koppel Lifschuetz (uno degli shabbatei segreti) nel suo Sha'arei Gan Eden (Koretz, 1803) e, in modo diverso, per Moses Hayyim Luzzatto (m. 1747), il quale tentò di operare una distinzione tra i suoi studi sistematici della Cabala lurianica (in Pithei Hokhmah e Addir ha-Marom, ecc.) e gli studi basati sulle rivelazioni accordategli tramite il suo maggid. Molti di coloro che erano considerati i principali cabalisti si adoperarono per coltivare la tradizione lurianica, talora cercando di combinarla con il sistema di Cordovero. L'enorme produzione letteraria, della quale è stata stampata soltanto una frazione, rispecchia questa situazione. Oltre a questo, vennero realizzate selezioni o antologie, tra le quali spicca Yalkut Reuueni di Reuben Hoeshke, organizzata in due parti (Praga, 1600, e Wilmersdorf, 1681; si veda più avanti, p. 195). Questa raccolta della produzione aggadica dei cabalisti ebbe larga diffusione. Le antologie di questo tipo furono composte soprattutto dai rabbini sefarditi fino a tempi recenti, quasi sempre con l'aggiunta delle loro interpretazioni: ad esempio, il prezioso Midrash Talpiyyot di Elijah ha-Kohen ha-Itamari (Smirne, 1736). A parte le opere appartenenti alla Cabala nel senso preciso di partecipazione e di presentazione delle sue idee, una Cabala di carattere più popolare cominciò a diffondersi dalla fine del XVII secolo. Tesa a sottolineare soprattutto il fondamento etico e l'insegnamento relativo all'anima, questa Cabala popolare scelse poche idee generali da altri insegnamenti cabalistici e le ricamò con omelie aggadiche di carattere generale. L'influenza di questi libri non fu inferiore a quella delle opere della Cabala tecnica. Questo tipo di letteratura fu iniziato da grandi predicatori come Bezalel b. Solomon di Slutsk, Aaron Samuel Kaidanover e suo figlio Zevi Hirsch, autore di Kav ha-Yashar, e Berechiah Berakh Spira della Polonia. Tra i sefarditi vi furono Hayyim ha-Kohen di Aleppo con il suo Torat Hakham, Elijah ha-Kohen ha-Itamari di Smirne, Hayyim ibn Attar del Marocco con Or ha-Hayyim, e Sassoon ben Mordecai (Shandookh) (Davar be-Itto, 1862-64) di Baghdad. Si diffusero anche commenti di questa stessa vena sulla letteratura midrashica, ad esempio Nezer ha-Kodesh di Jehiel Mikhal b. Uzziel (su Gen. R., 1719) e Zikkukin de-Nura di Samuel b. Moses Heida (su Tanna de-Vai Eliyahu, Praga, 1676). Sotto l'influenza della Cabala, nel secolo XVII furono composti in Polonia i Midrashei ha-Peli'ah. Questi detti estremamente paradossali e sconcertanti, spesso presentati in un antico stile midrashico, possono venire compresi solo facendo ricorso a un miscuglio di allusioni cabalistiche e d'ingegnosità. Secondo Abraham, figlio del Gaon di Vilna (in Rav Pe'alim, 97), una raccolta di questo tipo, Midrashei Peli'ah, fu stampata a Venezia nel XVII secolo. Si conoscono altre raccolte del XIX secolo. In questo periodo vi furono importanti centri cabalistici in Marocco, dove venne prodotta una letteratura ricchissima, anche se in gran parte rimase manoscritta. La Cabala dominava in altri paesi dell'Africa settentrionale, e l'importanza maggiore veniva attribuita alla Cabala lurianica in tutte le sue ramificazioni. Una mescolanza di tutti i sistemi appare evidente tra i cabalisti dello Yemen e del Kurdistan, dove la Cabala mise radici molto profonde, soprattutto a partire dal XVII secolo. I più eminenti cabalisti yemeniti, entrambi di Sana, furono il poeta Shalom b. Joseph Shabbazi (XVII secolo), che fu anche autore del Midrash Hemdat Yamin sulla Torah (Gerusalemme, 1956) e Joseph Zalah (m. 1806), autore del commento Ez Hayyim sulla liturgia secondo il rito yemenita (Tikhlal,Gerusalemme, 1894). I cabalisti della famiglia Hariri furono attivi a Ruwandiz nel Kurdistan durante il XVII e il XVIII secolo, e molti dei loro manoscritti sono pervenuti fino a noi. In seguito si formarono centri ad Aleppo e Baghdad, i cui cabalisti avevano notevole fama. In tutte quelle zone, e anche in Italia, si sviluppò e si diffuse una poesia religiosa di carattere cabalistico. I poeti principali furono Moses Zacuto, Benjamin b. Eliezer ha-Kohen e Moses Hayyim Luzzatto in Italia, Jacob b. Zur in Marocco (Et le-Khol Hefez, Alessandria, 1893) Solomon Molcho (secondo) a Salonicco e Gerusalemme (m. 1788) e Mordecai Abadi ad Aleppo. In contrasto con questi centri regionali, una posizione particolare fu occupata dal nuovo centro fondato a Gerusalemme alla metà del XVIII secolo e guidato dal cabalista yemenita Shalom Mizrahi Sharabi (ha-Reshash; m. 1777), il cabalista più importante dell'Oriente e dell'Africa settentrionale. Si riteneva che egli fosse ispirato dall'alto, ed era circondato da un rispetto non inferiore a quello dello stesso Isaac Luria. Nella sua personalità e nella yeshivah Bet El che continuò la sua tradizione per quasi 200 anni nella Città Vecchia di Gerusalemme (venne distrutto nel 1927 da un terremoto), si cristallizzò un duplice sistema di approccio: 1) una concentrazione definita, quasi esclusiva sulla Cabala lurianica, basata sugli scritti di Vital, in particolare Shemonah She'arim e l'adozione della dottrina della kawanah e della contemplazione mistica durante la preghiera, considerata centrale per la Cabala nei suoi aspetti teorici non meno che pratici; 2) una completa rottura con l'attività sul piano sociale e un orientamento verso l'esoterismo di un'élite spirituale, che incarna la vita pietista ed esclusiva. Vi sono evidenti punti di similarità fra questa forma di Cabala e il tipo di misticismo musulmano (sufismo) predominante nelle terre dove Bet El trovava i suoi aderenti. Lo stesso Sharabi scrisse un libro di preghiere (stampato a Gerusalemme nel 1911) con elaborazioni dettagliate delle kavvanot ancora più numerose di quelle trasmesse nello Sha'ar ha-Kavvanot sotto il nome di Luria. La preparazione dei membri di questa cerchia, comunemente conosciuti come i Mekhavvenim, imponeva di trascorrere molti anni ad acquisire la padronanza spirituale di queste kavvanot, che ognuno di loro era tenuto a copiare integralmente. Delle prime due generazioni dopo la fondazione di Bet El è rimasto un cospicuo numero di shetarai hitkasherut ("atti di associazione") nei quali i firmatari si impegnavano a una vita di completa partecipazione spirituale tanto in questo mondo quanto nel mondo a venire. A parte Sharabi, gli esponenti principali del gruppo, nella prima generazione furono Yom Tov Algazi (1727-1802), Hayyim Joseph David Azulai (1724-1806) e Hayyim della Rosa (m.1786). Come era avvenuto con gli scritti di Isaac Luria, anche i libri di Sharabi diedero origine a un'abbondante letteratura esegetica e testuale. L'autorità suprema di questa cerchia quale vero centro della Cabala si stabilì rapidamente in tutti i paesi islamici, e la sua posizione divenne molto forte. Molte leggende cabalistiche nacquero intorno a Sharabi. Gli ultimi personaggi di rilievo di Bet El furono Mas'ud Kohen Alhadad (m. 1927), Ben-Zion H. azan (1877-1951) e Ovadiah Hadayah (1891-1969). Naturalmente, solo pochi individui scelti andavano al centro di Bet El. Tra i principali esponenti della Cabala che rimasero nei loro paesi in Oriente, vanno ricordati in particolare Abraham Azulai di Marrakesh (m. 1741), Abraham Tobiana di Algeri (m. 1793), Shalom Buzaglo di Marrakesh (m. 1780), Joseph Sadboon di Tunisi (XVIII secolo) e Jacob Abihazera (m. 1880). Sassoon b. Mordecai Shandookh (1747-1830) e Joseph Hayyim b. Elijah (m. 1909) furono i principali cabalisti di Baghdad. Parecchi cabalisti turchi e marocchini del XVIII secolo avevano posizioni incerte nei confronti dello Shabbateanismo, come Gedaliah Hayon di Gerusalemme, Meir Bikayam di Smirne, Joseph David e Abraham Miranda di Salonicco, e David di Medina di Aleppo. L'opera classica prodotta da questi circoli, che si attenevano a tutte le minuzie della tradizione ma nel contempo non spezzavano i legami con lo Shabbateanismo, fu Hemdat Yamim, di autore anonimo (Smirne, 1731-32), che ebbe un'enorme influenza in Oriente. Gli sviluppi successivi della Cabala in Polonia non portarono alla fondazione di un centro come Bet El; tuttavia un centro abbastanza simile esistette tra il 1740 e l'inizio del XIX secolo nel Klaus (kloiyz) di Brody. In quest'epoca gli Yoshevei ha-Klaus ("i Saggi del Klaus") costituirono un'istituzione organizzata di cabalisti che lavoravano insieme e ai quali veniva riconosciuta una particolare autorità. A capo di questo gruppo erano Hayyim b. Menahem Zanzer (m. 1783) e Moses b. Hillel Ostrer (da Ostrog; m. 1785). Quando il nuovo movimento hasidico si sviluppò in Podolia e divenne una fase addizionale e indipendente della crescita del misticismo giudaico e della più ampia divulgazione del messaggio cabalistico, i cabalisti del Klaus ne rimasero fuori, assumendo anzi una posizione distaccata. Anche in questo centro era attribuita grande importanza allo studio approfondito della Cabala lurianica. L'unico legame tra i due centri fu rappresentato da Abraham Gershon di Kuttow (Kuty), cognato di Israel b. Eliezer, il Ba'al Shem Tov, che fu dapprima membro del Klaus a Brody, quindi si trasferì in Erez Israel e nei suoi ultimi anni fu tra i cabalisti di Bet El, o almeno fu loro vicino in spirito. Molte delle opere cabalistiche pubblicate in Polonia nel XVIII secolo ricevettero l'approvazione ufficiale del gruppo del Klaus, ma anche prima della fondazione di questo centro lo studio della Cabala fiorì in molte località della Polonia, della Germania e delle terre degli Asburgo. A quel tempo, molti cabalisti vennero in particolare dalla Lituania, come Judah Leib Pohovitzer, alla fine del XVII secolo, e Israel Jaffe, l'autore di Or Yisrael (1701). Nel XVIII secolo i principali cabalisti lituani furono Aryeh Leib Epstein di Grodno (m. 1775) e R. Elijah, il Gaon di Vilna, che fornì l'orientamento a molti dei cabalisti lituani del XIX secolo. Particolarmente notevoli tra questi ultimi furono Isaac Eizik (Haver) Wildmann, autore di Pithei She'arim, e Solomon Eliashov (1841-1924), che scrisse Leshem Shevo ve-Ahlamah: entrambe le opere sono esposizioni sistematiche della Cabala lurianica. Molte opere cabalistiche apparvero in Polonia e in Germania a partire dalla fine del XVII secolo, e non meno numerosi furono i trattati morali basati su principi cabalistici. Tentativi di sistematizzazione si incontrano in Va-Yakhel Moshe di Moses b. Menahem Graf de Prague (Dessau, 1699) e in diversi libri di Eliezer Fischel b. Isaac di Stryzów. La letteratura che basava il suo fervore religioso sul potere della "rivelazione dall'alto" era generalmente sospettata, non senza ragione, di Shabbateanismo, ma libri del genere esistevano anche nella Cabala più conservatrice, ad esempio Sefer Berit Olam di Isaac b. Jacob Ashkenazi (Vol. I Vilna, 1802, vol. II Gerusaleinme,1937). Lo sviluppo in Polonia, durante il XVIII secolo, fu legato in gran parte all'influenza dei cabalisti italiani in particolare a Shomer Emunim di Joseph Ergas e Mishnat Hasidim e Yosher Levav di Immanuel Hai Ricchi, che presentavano diversi modi di intendere l'insegnamento lurianico. Le rivelazioni cabalistiche di David Moses Valle di Modena (m. 1777) rimasero un libro chiuso; ma copie degli scritti di Moses H. ayyim Luzzatto giunsero ai cabalisti lituani, e alcuni di essi erano noti ai primi hasidim, che ne sentirono l'influenza. Ergas fu seguito da Baruch di Kosov (Kosover) nelle sue varie introduzioni alla Cabala, che rimasero inedite fino a circa un secolo dopo la sua morte (Ammud ha-Auodah, 1854). Un'esposizione sistematica ortodossa fu fatta dal cabalista Jacob Meir Spielmann di Bucarest in Tal Orot (Leopoli, 1876-83).Furono compiuti nuovi tentativi di collegare la cabala agli studi filosofici, come in Ma'amar Efsharit ha-Tiv'it di Naphtali Hirsch Goslar, le prime opere di Solomon Maimon, che rimasero manoscritte, e soprattutto nel Sefer ha-Berit di Phinehas Elijah Horowitz di Vilna (Bruenn, 1897) e Imrei Binah di Isaac Satanow, uno dei primi maskilim di Berlino. In contrasto con questi tentativi di studiare la Cabala in modo più approfondito, il movimento hasidico ampliò il quadro e si sforzò di rendere più popolari le idee cabalistiche, spesso mediante un'interpretazione nuova e più letterale dei suoi principi. In questo movimento, il misticismo giudaico dimostrò ancora una volta d'essere una forza viva e un fenomeno sociale. Nel ramo habad del hasidismo fu creata una forma originale della Cabala, che aveva un chiaro obiettivo psicologico e che produsse una letteratura variegata: ma anche in campo hasidico vi erano correnti che ritornavano allo studio della Cabala lurianica. Questa Cabala rifiorì per un secolo, soprattutto nella scuola di Zevi Hirsch Eichenstein di Zhidachov (Zydaczów; m. 1831) che produsse una ricca letteratura. Gli esponenti principali di questa scuola furono Isaac Eizik Jehiel Safrin di Komarno (m. 1874), Isaac Eizil di Zhidachov (m. 1873) e Joseph Meir Weiss di Spinka (1838-1909). All'inizio del fermento nazionalista del XIX secolo furono attivi due cabalisti: Elijah Guttmacher a Graetz (1796-1874) e Judah Alkalai a Belgrado (1798-1878); gli scritti sionisti di quest'ultimo sono soffusi dello spirito della Cabala. Nell'Europa centrale e occidentale l'influenza della Cabala declinò rapidamente, soprattutto dopo il contrasto fra Jacob Emden e Jonathan Eybeschuetz a proposito dell'associazione di quest'ultimo con lo Shabbateanismo. Nathan Adler, a Francoforte (m. 1800) raccolse intorno a sé un circolo dalle forti tendenze cabalistiche, e il suo allievo Sekel Lob Wormser, "il Ba'al Shem di Michelstadt" (m. 1847), fu per qualche tempo rimosso dal rabbinato della sua città "per la sua superstiziosa fede cabalistica" apparentemente in seguito a intrighi dei maskilim. Mentre Phinehas Katzenelenbogen, il rabbino di Boskovice alla metà del secolo XVIII, catalogava le esperienze e i sogni cabalistici dei suoi familiari (manoscritto di Oxford 2315) e nel circolo di Nathan Adler, come nei circoli dei frankisti a Offenbach, si diceva venissero fatti sogni profetici, i rabbini si allontanavano sempre di più da ogni manifestazione di tendenze mistiche e di simpatie per la Cabala. Quando Elhanan Hillel Wechsler (m. 1894) pubblicò i suoi sogni riguardanti l'olocausto che stava per abbattersi sugli ebrei di Germania (1881), i più importanti rabbini ortodossi cercarono di impedirglielo, e le sue tendenze cabalistiche lo fecero perseguitare. L'ultimo libro di un cabalista tedesco che venne stampato fu Torei Zahav di Hirz Abraham Scheyer di Mainz (m. 1822), pubblicato a Mainz nel 1875. Tuttavia, varie espressioni della letteratura cabalistica continuarono a venire scritte nell'Europa orientale e nel Vicino Oriente fin quasi al tempo dell'Olocausto, e in Israele vengono scritti ancora oggi. La trasformazione delle idee cabalistiche nelle forme del pensiero moderno si può osservare negli scritti di pensatori del XX secolo come R. Abraham Isaac Kook (Orot ha-Kodesh, Arpilei Tohar, Reish Millin); nei libri ebraici di Hillel Zeitlin; e negli scritti in tedesco di Isaac Bernays (Der Bibil'sche Orient, 1821) e di Oscar Goldberg (Die Wirklichkeit de Hebraeer, Berlino, 1925). Il fervido attacco contro la Cabala da parte del movimento Haskalah nel XIX secolo limitò la sua profonda influenza nell'Europa orientale; ma non riuscì a spezzarla nei paesi orientali, dove la vita della comunità ebraica ne risentì l'influsso fino a tempi recenti. Un'eccezione fu il movimento anticabalistico dello Yemen, conosciuto come Dor De'ah ("Doerde"). Guidato da Yihya Kafah. (Kafih. ) di Sana (m. 1931), causò molti dissidi tra gli ebrei dello Yemen. A parte gli scritti accusatori e diffamatori a partire dal 1914, apparvero in rapporto a questa controversia Milhamot ha-Shem di Kafah. e la risposta dei rabbini yemeniti, scritta da Joseph Jacob Zabiri Emunat ha-Shem (Gerusalemme, 1931 e 1938). LE IDEE FONDAMENTALI DELLA CABALA Come risulta evidente dall'esposizione che precede, la Cabala non è un unico sistema con principi fondamentali che possano venire spiegati in modo semplice e diretto, ma consiste piuttosto di una molteplicità di sistemi di approccio diversi, ampiamente separati l'uno dall'altro e talora completamente contraddittori. Tuttavia, dalla data dell'apparizione del Sefer haBahir, la Cabala ebbe una gamma comune di simboli e di idee che i suoi seguaci accettarono come tradizione mistica, sebbene non concordassero circa l'interpretazione del preciso significato di tali simboli, delle implicazioni filosofiche in essi inerenti, e dei contesti speculativi attraverso i quali divenne possibile considerare questa struttura comune come una sorta di teologia mistica del Giudaismo. Ma anche all'interno di tale struttura, si devono differenziare due fasi: 1) la gamma dei simboli della Cabala primitiva fino al periodo di Safed incluso, cioè la teoria delle Sefirot come si cristallizzò in Gerona, nelle varie parti dello Zohar, e nelle opere dei cabalisti fino a Cordovero; 2) la gamma dei simboli creati dalla Cabala lurianica, che nel complesso dominò il pensiero cabalistico del XVII secolo fino a tempi recenti. Il sistema luriano va oltre la dottrina delle Sefirot, sebbene faccia un uso ampio e insistente dei suoi principi e sia basato sul simbolismo dei parzufim. Oltre a questo, si possono distinguere due tendenze fondamentali nell'insegnamento cabalistico. Una ha forte orientamento mistico, espresso in immagini e simboli la cui vicinanza interiore al regno del mito è spesso sorprendente. Il carattere dell'altra è speculativo, un tentativo di dare ai simboli un significato ideazionale più o meno definito. In notevole misura, questa concezione presenta la speculazione cabalistica come una continuazione della filosofia, una sorta di strato addizionale sovrapposto su di essa mediante una combinazione dei poteri del pensiero razionale e della contemplazione meditativa. Le esposizioni speculative dell'insegnamento cabalistico dipesero soprattutto dalle idee della filosofia neoplatonica e aristotelica, così come erano conosciute nel Medioevo, e furono presentate nella consueta terminologia di questi campi. Quindi, la cosmologia della Cabala è presa in prestito da queste filosofie e non è affatto originale, essendo espressa nella comune dottrina medievale degli intelletti separati e delle sfere. La sua vera originalità sta nei problemi che trascendono questa cosmologia. Come filosofia giudaica, la Cabala speculativa si moveva tra due grandi eredità, la Bibbia e il Giudaismo talmudico da una parte e la filosofia greca nelle sue diverse forme dall'altra. L'elemento originale e addizionale, tuttavia, fu il nuovo impulso religioso che cercava di integrarsi con queste tradizioni e di illuminarle dall'interno. Dio e la Creazione Tutti i sistemi cabalistici hanno origine in una distinzione fondamentale relativa al problema del Divino. In astratto, è possibile pensare a Dio sia come Dio stesso con riferimento alla Sua sola natura, sia come Dio nella Sua relazione con la Sua creazione. Tuttavia, tutti i cabalisti concordano nel ritenere che non è possibile acquisire una conoscenza religiosa di Dio, anche del tipo più alto, se non mediante la contemplazione della relazione tra Dio e la creazione. Dio in Se stesso, l'Essenza assoluta, trascende ogni comprensione speculativa e persino estatica. La posizione della Cabala nei confronti di Dio può essere definita come un agnosticismo mistico, formulato in modo più o meno estremo, e vicino al punto di vista del neoplatonismo. Per esprimere questo aspetto inconoscibile del Divino, i cabalisti della Provenza e della Spagna coniarono il termine Ein-Sof ("Infinito"). Questa espressione non si può far risalire a una tradizione di un termine filosofico latino o arabo. È piuttosto un'ipostatizzazione che, nei contesti relativi all'infinità di Dio o al Suo pensiero che "si estende senza fine" (le-ein sof o ad le-ein sof), tratta la relazione avverbiale come se fosse un sostantivo e lo usa come termine tecnico. Ein-Sof appare per la prima volta in questo senso negli scritti di Isaac il Cieco e dei suoi discepoli, particolarmente nelle opere di Azriel di Gerona, e più tardi nello Zohar, in Ma'arekhet ha-Elohut e negli scritti di quel periodo. Sebbene i cabalisti fossero consapevoli dell'origine del termine, non usarono con esso l'articolo determinativo, ma lo trattarono come se fosse un nome proprio; solo a partire dal 1300 incominciarono a parlare anche di ha-Ein-Sof, e a identificarlo generalmente con altri epiteti comuni del Divino. Questo uso più tardo, che si diffuse in tutta la letteratura, indica un concetto personale e teistico distinto, in contrasto con l'incertezza tra un'idea di questo tipo e un concetto neutro impersonale di Ein-Sof che si incontra in alcune delle fonti precedenti. Dapprima non fu chiaro se il termine Ein-Sof si riferisse a "Colui che non ha fine" o a "ciò che non ha fine". Quest'ultimo aspetto, un aspetto neutro, era sottolineato dal fatto che Ein-Sof non doveva essere qualificato da nessuno degli attributi o epiteti personali di Dio che si trovano nella Scrittura, né ad esso si dovevano aggiungere eulogie come Barukh Hu o Yitbarakh (che si trovano soltanto nella letteratura più tarda). In effetti, comunque, vi furono fin dall'inizio varie prese di posizione per quanto riguarda la natura di Ein-Sof: Azriel, ad esempio, tendeva a un'interpretazione impersonale del termine, mentre Asher b. David l'impiegava in modo nettamente personale e teistico. Ein-Sof è la perfezione assoluta, in cui non vi sono distinzioni e differenziazioni, e secondo alcuni non vi è neppure volizione. Non si rivela in un modo che renda possibile la conoscenza della sua natura, e non è accessibile neppure al pensiero più interiore (hirhur ha-leu) del contemplativo. Solo tramite la natura finita di ogni cosa esistente, tramite l'esistenza attuale della creazione stessa, è possibile dedurre l'esistenza di Ein-Sof quale prima causa infinita. L'autore di Ma'arekhet ha-Elohut propose la tesi estremistica (suscitando l'opposizione dei cabalisti più cauti) che l'intera rivelazione biblica, e così pure la Legge Orale, non contenessero alcun riferimento a Ein-Sof, e che soltanto i mistici ne avessero ricevuto qualche accenno. Perciò l'autore di questo trattato, seguito da parecchi altri scrittori, pervenne all'ardita conclusione che solo il Dio rivelato può in realtà essere chiamato "Dio", e non il "deus absconditus", che non può essere oggetto del pensiero religioso. Quando idee di questo tipo riapparvero in un periodo successivo nella Cabala shabbatea e quasi-shabbatea, tra il 1670 e il 1740, furono considerate eretiche. Altri termini o immagini significanti il regno del Dio celato, che sta al di là di ogni impulso verso la creazione, ricorrono negli scritti dei cabalisti di Gerona e nella letteratura della scuola speculativa. Esempi di questi termini sono mah she-ein ha-mahshavah masseget ("ciò che il pensiero non può raggiungere", usato talvolta anche per descrivere la prima emanazione), haor ha-mit'allem ("la luce nascosta"), seter ha-ta'alumah ("l'occultamento della segretezza"), yitron ("superfluità", apparentemente come tradizione del termine neoplatonico hyperousia), ha-ahdut ha-shavah ("unità indistinguibile", nel senso di un'unità in cui tutti gli opposti sono eguali, e in cui non vi è alcuna differenziazione), o anche semplicemente ha-mahut ("l'essenza"). Il fattore comune a tutti questi termini è che Ein-Sof e i suoi sinonimi sono al di sopra o al di là del pensiero. Una certa oscillazione fra il punto di vista personale e quello neutrale del concetto di Ein-Sof si può osservare anche nella parte principale dello Zohar, mentre nello strato più tardo, nel Ra'aya Meheimna e nei Tikkunim, predomina un concetto personale. EinSof viene spesso (ma non sempre) identificato con l'aristotelica "causa di tutte le cause" e, mediante l'uso cabalistico dell'espressione neoplatonica, con la "radice di tutte le radici". Sebbene tutte le definizioni che precedono abbiano un comune elemento negativo, talvolta nello Zohar vi è una straordinaria designazione positiva che assegna il nome Ein-Sof alle nove luci del pensiero che risplendono dal Pensiero Divino, sottraendo così EinSof al suo occultamento e portandolo a un più umile livello di emanazione (il contrasto fra i due concetti emerge attraverso il confronto tra vari passi, ad esempio 1:21a e 2:239a con 2:226a). Nel successivo sviluppo della Cabala lurianica, tuttavia, in netta opposizione alla concezione dei cabalisti precedenti, furono operate parecchie differenziazioni persino in Ein-Sof. Nella Cabala, quindi, Ein-Sof è la realtà assoluta, e non vi erano dubbi circa la sua natura spirituale e trascendente. Era così, in effetti, anche se la mancanza di chiarezza in alcune espressioni usate dai cabalisti nel parlare della relazione tra il Dio rivelato e la Sua creazione dà l'impressione che la sostanza stessa di Dio sia immanente nella creazione (si veda più sotto, a proposito di Cabala e panteismo). In tutti i sistemi cabalistici, il simbolismo della luce è usato comunemente per quanto riguarda Ein-Sof, sebbene si sottolinei che questo uso è puramente iperbolico, e nella Cabala dei tempi successivi venga effettuata talvolta una chiara distinzione fra Ein-Sof e "la luce di Ein-Sof'. Nella Cabala popolare, che trova espressione in scritti etici e nella letteratura hasidica, Ein-Sof è semplicemente un sinonimo del tradizionale Dio della religione, un uso semantico molto lontano da quello della Cabala classica, dove vi è evidenza della netta distinzione tra Ein-Sof e il Divino Creatore rivelato. Ciò si può osservare non soltanto nelle formulazioni dei primi cabalisti (ad esempio, Issac di Acri nel suo commento al Sefer Yezirah, in: KS 31 (1956), 391), ma anche tra quelli successivi; Baruch Kosover (c. 1770) scrive: "Ein-Sof non è il Suo vero nome ma una parola che significa il suo completo occultamento, e la nostra lingua sacra non ha una parola come queste due per significare il suo occultamento. E non è giusto dire 'Ein-Sof, che sia benedetto' o 'che Egli sia benedetto', perché Egli non può essere benedetto dalle nostre labbra" (Ammud ha-Avodah, 1863, 211d). L'intero problema della creazione, anche nei suoi aspetti più reconditi, è legato alla rivelazione del Dio celato e del Suo movimento esterno, sebbene "non vi sia nulla al di fuori di Lui" (Azriel), perché in ultima analisi "tutto proviene dall'Uno, e tutto ritorna all'Uno", secondo la formula neoplatonica adottata dai primi cabalisti. Nell'insegnamento cabalistico la transizione di Ein-Sof alla "manifestazione" o a ciò che si potrebbe chiamare "Dio Creatore" è connessa alla questione della prima emanazione e della sua definizione. Sebbene vi fossero punti di vista molto diversi sulla natura del primo passo dall'occultamento alla manifestazione, tutti sottolineavano che nessuna esposizione di tale processo poteva essere una descrizione oggettiva di un processo in Ein-Sof; non era più di quanto poteva venire congetturato dalla prospettiva degli esseri creati ed era espresso tramite le loro idee, che in realtà non possono essere affatto applicate a Dio. Perciò, le descrizioni di tali processi hanno soltanto un valore simbolico o, al massimo, approssimativo. Tuttavia, accanto a questa tesi, vi è una speculazione dettagliata che spesso attribuisce una realtà oggettiva al processo che descrive. È uno dei paradossi insiti nella Cabala, come in altri tentativi di spiegare il mondo in modo mistico. La decisione di emergere dall'occultamento nella manifestazione e nella creazione non è in nessun senso un processo che costituisca una conseguenza necessaria dell'essenza di Ein-Sof; è una libera decisione che rimane un mistero costante e impenetrabile (Cordovero, all'inizio di Elimah). Quindi, nella concezione di moltissimi cabalisti, la questione della motivazione suprema della creazione non è legittima, e l'asserzione, presente in molti libri, che Dio desiderasse rivelare la misura della Sua bontà è semplicemente un espediente che non viene mai sviluppato in modo sistematico. Questi primi passi verso l'esterno, in conseguenza dei quali la Divinità diviene accessibile ai sondaggi contemplativi del cabalista, avvengono in Dio stesso, e non "abbandonano la categoria del Divino" (Cordovero). Qui la Cabala si distacca da tutte le esposizioni razionalistiche della creazione e assume il carattere di dottrina teosofica, cioè interessata alla vita e ai processi interiori di Dio stesso. Una distinzione nelle fasi di questi processi nell'unità della Divinità può essere effettuata solo dall'astrazione umana, ma in realtà esse sono legate e unificate in un modo che trascende l'umana comprensione. Le differenze fondamentali nei vari sistemi cabalistici sono già evidenti per quanto riguarda il primo passo; e poiché tali idee erano presentate in modo oscuro e figurato nella letteratura classica, come il Bahir e lo Zohar, esponenti di opinioni diversissime poterono tutti cercare in essi l'autorità loro necessaria. Il primo problema, che fin dall'inizio ebbe risposte diverse, era se il primo passo era verso il mondo esteriore o non piuttosto un passo verso l'interno, un ritrarsi di EinSof nel profondo di se stesso. I primi cabalisti e Cordovero adottarono la prima concezione, che li portò a una teoria dell'emanazione vicina a quella platonica, sebbene non identica ad essa. Ma la Cabala lurianica, che assunse la seconda posizione, parla non soltanto di un ritorno delle cose create alla loro fonte in Dio, ma anche di un ritorno (regressus) di Dio nel profondo di Se stesso prima della creazione, un processo identificabile con quello dell'emanazione solo interpretandola come una figura del discorso. Tale interpretazione apparve ben presto (vedasi più sotto, la Cabala lurianica, p. 133). I concetti che ricorrono più di frequente nella descrizione di questo primo passo riguardano soprattutto la volontà, il pensiero, Ayin ("Nulla assoluto") e la radiazione interiore di Ein-Sof nelle luci superne chiamate "splendori" (zahzahot) che sono superiori a ogni altra emanazione. La volontà Se a Ein-Sof è negato ogni attributo, allora deve essere separato dalla Volontà Divina, per quanto quest'ultima sia esaltata e chiaramente connessa al suo possessore, che è Ein-Sof. I cabalisti di Gerona parlano frequentemente del Dio occulto che opera attraverso la Volontà Primeva che è circondata da Lui e unita a Lui. Questa, che è la più alta delle emanazioni, emanata dalla Sua essenza o celata nel Suo potere, costituisce il livello supremo al quale può giungere il pensiero. Si parla di "volontà infinita" (harazon ad ein-sof), "esaltazione infinita" (ha-rom ad ein-sof) o di "ciò che il pensiero non può mai raggiungere", e si fa riferimento a quella unità d'azione tra Ein-Sof e la sua prima emanazione, che è legata alla sua fonte e ritorna continuamente ad essa. In alcune opere, per esempio Perush ha-Aggadot di Azriel, non vi è quasi menzione di Ein-Sof; appare invece la Volontà Primeva, in espressioni che sono generalmente connesse con lo stesso Ein-Sof. Questa Volontà era coeterna con Ein-Sof, oppure ebbe origine solo al tempo della sua emanazione, così che è possibile pensare a una situazione in cui Ein-Sof esisteva senza la Volontà, cioè la volizione di creare o di manifestarsi? Molti dei cabalisti di Gerona e i loro seguaci tendevano a ritenere che la Volontà Primeva fosse eterna, e perciò fissavano l'inizio del processo di emanazione al secondo passo o Sefirah, che di conseguenza era chiamato reshit ("principio"), e identificato con la Divina Sapienza di Dio (si veda più sotto). Quasi tutte le affermazioni nella parte principale dello Zohar seguono questa concezione. Ciò che è chiamato "la Volontà infinita" nel senso dell'unità di Ein-Sof con la volontà e della loro manifestazione congiunta nella prima Sefirah, riceve il nome figurativo di Attika Kaddisha ("il Santo Antico") nello Zohar. Inoltre, nei paesi che parlano di Ein-Sof e dell'inizio dell'emanazione, questo inizio (reshit) è sempre relato alla seconda Sefirah, poiché non vi è menzione che quanto lo precedette prendesse a esistere nel tempo e non fosse stato emanato eternamente. Perciò in alcuni casi la prima emanazione è vista solo come un aspetto esterno di Ein-Sof: "È chiamato Ein-Sof internamente e Keter esternamente" (Tikkunei Zohar, fine del Tikkun 22). Tuttavia, questo ordinamento figura solo nei passi che discutono dettagliatamente il processo; in quelli che trattano il processo di emanazione in generale non vi è differenziazione tra lo status della prima Sefirah e quello delle altre Sefirot. Via via che la Cabala si sviluppò in Spagna prevalse la tendenza a operare una distinzione chiara tra Ein-Sof e l'emanazione, che ormai incominciava a venire considerata né eterna né preesistente. Tra i cabalisti di Safed, anzi, l'opinione contraria era considerata quasi eretica, poiché rendeva possibile l'identificazione di Ein-Sof con la prima Sefirah. In effetti, tale identificazione si trova in parecchie delle prime fonti cabalistiche, e l'autore anonimo di Sefer ha-Shem, erroneamente attribuito a Moses de Leon (c.1325, stampato in Heikhal ha-Shem, Venezia, 1601), critica per questo lo Zohar, affermando che è contrario alla "concezione dei più grandi cabalisti" ed è un errore reso possibile solo dal falso assunto che Ein-Sof e la prima emanazione siano una cosa sola. I primi cabalisti, particolarmente Azriel di Gerona e Asher b. David, consideravano la Volontà Divina come quell'aspetto della Divina Essenza che fu il solo attivo nella creazione, e che vi fu impiantato dal potere di EinSof. La comunione con la Volontà Suprema era lo scopo finale della preghiera, perché essa era "la fonte di tutta la vita", inclusa l'emanazione stessa. Questo concetto specifico della Volontà quale supremo Potere Divino che, secondo i cabalisti di Gerona e lo Zohar, ha la precedenza persino sul Pensiero Divino e il puro intelletto, contiene tracce dell'influenza diretta dell'idea centrale espressa da Solomon ibn Gabirol nel suo libro Mekor Hayyim? Una connessione storica sembra chiaramente apparente negli insegnamenti di Isaac ibn Latif (floruit 1230-60), che apparentemente visse a Toledo e che forse lesse il libro di Gabirol nell'originale arabo. La sua teoria è un miscuglio delle idee di Gabirol e di quelle della prima generazione della Cabala spagnola. La sua concezione della Volontà si può trovare soprattutto in Ginzei ha-Melekh e Zurat ha-Olam. "La Volontà primordiale (ha-hefez ha-kadmon) non è completamente identica con Dio, ma è una veste "che aderisce da ogni parte alla sostanza del portatore". Fu "la prima cosa ad essere emanata dal vero Essere preesistente" in un processo continuo che non ebbe un vero principio. Al di sopra della materia e della forma, questa Volontà unisce entrambe nella loro prima unione, ponendo cosi in essere ciò che Ibn Latif chiama "la prima cosa creata" (haniura ha-rishon). La sua descrizione dei dettagli del processo che ha luogo sotto il livello della Volontà differisce da quella degli altri cabalisti; non fu accertata e non ebbe alcuna influenza sulla teoria dell'emanazione che venne formulata successivamente nella Cabala. Via via che la tendenza a identificare Ein-Sof con la prima Sefirah divenne sempre meno pronunciata, la distinzione tra Ein-Sof e la Volontà fu accentuata in misura corrispondente, sebbene la questione se la Volontà fosse creata o eterna continuasse ad essere oggetto di controversie o venisse volutamente evitata. Il pensiero Un altro concetto fondamentale dell'intero problema della prima manifestazione di Ein-Sof è quello del "Pensiero" (mahshauah). Nel Sefer ha-Bahir e negli scritti di Isaac il Cieco non viene accordato uno status speciale alla Volontà, il cui posto è preso invece dal "Pensiero che non ha fine o finalità", e che esiste nello stato più alto, dal quale ogni altra cosa è emanata, senza essere designato esso stesso come un'emanazione. Perciò, la prima fonte di ogni emanazione è talora chiamata anche "puro Pensiero", un regno impenetrabile al mero pensiero umano. Secondo questa teoria, l'intero processo creativo dipende da un atto intellettuale più che volitivo, e la storia della Cabala è caratterizzata da una lotta tra queste due concezioni della creazione Sull'identità essenziale tra Volontà e Pensiero fu il solo Ibn Latif a insistere. Per moltissimi cabalisti, il Pensiero che pensa solo a se stesso e non ha altro contenuto venne retrocesso a un livello inferiore a quello della Volontà e si identificò con la Divina Saggezza, la quale procedette a contemplare non soltanto se stessa ma anche l'intero piano della creazione e il paradigma di tutto l'universo. Perciò i cabalisti di Gerona e l'autore dello Zohar parlano della "Volontà del Pensiero", cioè la Volontà che attiva il Pensiero, e non viceversa. L'aspetto più alto della hokhmah ("Sapienza") di cui tanto parlano i cabalisti di Gerona, è chiamato haskel (da Ger.9:23), un termine denotante la comprensione divina, l'attività del sekhel ("intelletto divino"), quale che sia il suo contenuto, e non, come avviene con la hokhmah, la sua cristallizzazione in un sistema di pensiero. Il concetto di haskel prese il posto della Volontà per coloro che non erano portati ad accettare la teoria o si sentivano perplessi, particolarmente nella scuola di Isaac il Cieco. Corrisponde al ruolo del divino intelligere negli insegnamenti di Meister Eckhart, cento anni più tardi. Il Nulla Più ardito è il concetto del primo passo nella manifestazione di Ein-Sof come ayin o afisah ("nulla", "niente"). Essenzialmente, questo nulla è la barriera che si oppone alla facoltà intellettuale umana quando raggiunge i limiti della sua capacità. In altre parole, è una dichiarazione soggettiva, affermante che vi è un regno che nessun essere creato può comprendere intellettualmente, e che perciò può essere definito solo come "nulla". Questa idea, inoltre, è associata con il concetto opposto; cioè, dato che in realtà non vi è differenziazione nel primo passo di Dio verso la manifestazione, tale passo non può essere definito in modo qualitativo e perciò può essere descritto solo come "nulla". Ein-Sof che si volge verso la creazione, quindi, si manifesta come ayin ha-gamur ("completo nulla"), o in altre parole, Dio che è chiamato Ein-Sof rispetto a Se stesso è chiamato Ayin rispetto alla Sua prima autorivelazione. Questo ardito simbolismo è associato a moltissime teorie mistiche concernenti una comprensione del Divino, e la sua particolare importanza si osserva nella radicale trasformazione della dottrina della creatio ex nihilo in una teoria mistica la quale afferma esattamente l'opposto di quel che sembra essere il significato letterale della frase. Da questo punto di vista, non fa nessun differenza se Ein-Sof sia la vera ayin o se questa ayin sia la prima emanazione di Ein-Sof. Da entrambi i punti di vista, la teoria monoteistica della creatio ex nihilo perde il significato originale e viene completamente rovesciata dal contenuto esoterico della formula. Poiché i primi cabalisti non concedevano alcuna interruzione della corrente di emanazione della prima Sefirah al suo consolidamento nei mondi noti alla cosmologia medievale, la creatio ex nihilo può essere interpretata come creazione dall'interno di Dio stesso. Questa concezione, tuttavia, rimase una credenza segreta, e venne nascosta dietro l'uso della formula ortodossa; persino un cabalista autorevole come Nahmanides poté parlare nel suo commento alla Torah di creatio ex nihilo nel senso letterale, quale libera creazione della materia primordiale dalla quale venne fatta ogni cosa, sottintendendo simultaneamente, come dimostrano l'uso della parola ayin nel suo commento a Giobbe 28:12 e le allusioni cabalistiche nel suo commento a Genesi 1, che il vero significato mistico del testo è l'emergenza di tutte le cose dal nulla assoluto di Dio. Basando le loro speculazioni filosofiche sul commento al Sefer Yezirah di Joseh Ashkenazi (attribuito nelle edizioni stampate ad Abraham b. David), i cabalisti che nutrivano una concezione indubbiamente teistica cercarono di recuperare il significato originale della formula definendo la prima Sefirah come il primo effetto, assolutamente separato dalla sua causa, come se la transizione da causa ad effetto comportasse un grande balzo da Ein-Sof ad ayin: una concezione che per la verità si conformava al quadro teologico tradizionale. Tuttavia, per sottrarsi alla logica interna della teoria più antica, alcuni cabalisti dei tempi successivi, a partire dal XVI secolo, tentarono di aggiungere un nuovo atto di creatio ex nihilo dopo l'emanazione delle Sefirot o ad ogni fase di emanazione e creazione. Dubbi di questo genere non esistevano nella Cabala spagnola, e neppure nelle opere di Cordovero, sebbene nella Elimah Rabbati egli faticasse a decidere tra un'interpretazione simbolica della formula ed una letterale. David b. Abraham ha-Lavan, in Masoret ha-Berit (fine del XIII secolo), definì l'ayin ("nulla") in questo modo: "ha più essere di ogni altro essere nel mondo, ma poiché è semplice, e tutte le altre cose semplici sono complesse se paragonate alla sua semplicità, in confronto è chiamato 'nulla'". Troviamo inoltre l'uso figurativo del termine imkei ha-ayin ("le profondità del nulla"), ed è detto che "se tutti i poteri ritornassero al nulla, il Primevo che è la causa di tutto rimarrebbe in eguale unità senza distinzioni nelle profondità del nulla". Le Tre Luci Un'altra idea connessa alla transizione dell'Emanatore all'emanato ebbe origine in un responsum (inizio del XIII secolo) attribuito a Hai Gaon, e successivamente diede l'avvio a molte speculazioni. Vi Si afferma che, al di sopra di tutti i poteri emanati, esistono nella "radice di tutte le radici" tre luci occulte che non hanno principio "perché esse sono il nome e l'essenza della radice di tutte le radici e trascendono la portata del pensiero". Quando la "luce interna primeva" si diffonde nella radice occulta, si accendono altre tre luci, chiamate or mezuhzah e or zah ("luce scintillante"). Viene sottolineato il fatto che queste tre luci costituiscono un'unica essenza e un'unica radice che è "infinitamente nascosta" (ne'lam ad le-ein sof), formando una sorta di trinità cabalistica che precede l'emanazione delle dieci Sefirot. Tuttavia, non è sufficientemente chiaro se si riferisca a tre luci e la prima emanazione, o a tre luci che si irradiano reciprocamente entro la sostanza dell'Emanatore stesso: è possibile infatti sostenere entrambe le possibilità. Nella terminologia della Cabala, queste tre luci sono chiamate zahzahot ("splendori") e sono considerate come le radici delle tre Sefirot superiori che da esse emanano (si veda Cordovero, Pardes Rimmonim, cap. 11). L'esigenza di postulare questa strana trinità è spiegata dall'esigenza di conformare le dieci Sefirot ai 13 attributi predicati di Dio. Non è sorprendente che in seguito i cristiani trovassero in questa teoria un'allusione alla loro dottrina della trinità, benché non contenga nessuna delle ipostasi personali caratteristiche della trinità cristiana. In ogni caso, l'ipotesi delle zahzahot portò a ulteriori complicazioni nella teoria dell'emanazione e alla predicazione di radici nell'essenza di Ein-Sof per tutto ciò che era emanato. Nella generazione successiva alla pubblicazione dello Zohar, David b. Judah Hasid, in Mar'ot ha-Zové ot, menziona dieci, zahzahot situate tra Ein-Sof e l'emanazione delle Sefirot. L'emanazione e il concetto delle Sefirot Da lungo tempo, gli studiosi discutono se la Cabala insegni o meno che l'emanazione è l'emergenza di tutte le cose da Dio stesso. In questa controversia vi è una considerevole confusione concettuale. A. Franck interpretò la Cabala come un puro sistema emanista, che egli considerava identico a un punto di vista chiaramente panteistico. Perciò egli riteneva che l'emanazione fosse un'attuale irradiazione della sostanza di Dio, e non semplicemente del potere dell'Emanatore. La sua interpretazione era basata sullo Zohar, e soprattutto sul più tardo insegnamento lurianico, benché nessuna di queste due fonti contenga riferimenti a una teoria diretta dell'emanazione sostanziale. In contrasto con Franck, D.H. Joel si propose di provare che lo Zohar e in generale la Cabala più antica non contenevano nulla della teoria dell'emanazione, che secondo lo stesso Joel era apparsa per la prima volta negli scritti dei "commentatori moderni" del XVI secolo, dove è il risultato di un'interpretazione errata. Secondo la sua opinione, non vi è alcuna differenza significativa tra "la teologia pura" dei pensatori del Giudaismo medievale e "la vera Cabala", il cui autentico fondamento è l'idea della libera creazione della sostanza primordiale ex nihilo, nel significato letterale del termine. Non vi è dubbio che Joel e Franck sbagliassero entrambi, e che entrambi errassero nell'interpretazione in termini panteistici il contenuto fondamentale della Cabala lurianica. Nella misura in cui, ai suoi inizi, la Cabala aveva bisogno di un fondamento teoretico fu fortemente influenzata dal neoplatonismo; e sebbene proponesse un sistema definito di emanazione - la teoria dell'emanazione delle Sefirot - questa era un'attività che aveva luogo entro lo stesso Divino. Il Dio che si manifesta nelle Sue Sefirot è lo stesso Dio della fede religiosa tradizionale, e di conseguenza, nonostante tutte le complessità che tale idea comporta, l'emanazione delle Sefirot è un processo che avviene in Dio stesso. Il Dio occulto nell'aspetto di Ein-Sof e il Dio manifestato nell'emanazione delle Sefirot sono lo stesso, visto da due punti diversi. Perciò vi è una chiara distinzione tra le fasi dell'emanazione nei sistemi neoplatonici, che non sono concepite come processi nella Divinità, e la concezione cabalistica. Nella Cabala, l'emanazione quale fase intermedia tra Dio e la creazione fu riassegnata al Divino, e il problema della continuazione di questo processo al di fuori della Divinità diede origine a varie interpretazioni. All'inizio non vi fu necessità di concludere che i mondi al di sotto del livello delle Sefirot, e lo stesso mondo corporeo, erano emanati anch'essi dalle Sefirot. Forse intenzionalmente, i cabalisti trattarono questo punto in modo estremamente oscuro, spesso lasciando la strada aperta alle interpretazioni più diverse. Le azioni di Dio al di fuori del regno delle Sefirot dell'emanazione portarono all'emergenza di esseri creati, che un abisso separava dalle Sefirot, benché alcuni cabalisti sostenessero senza ambiguità che il processo d'emanazione era giunto assolutamente alla fine con l'ultima Sefirah e che ciò che seguì costituiva un inizio completamente nuovo. I cabalisti dei primi tempi concordavano nell'affermare che tutte le creature inferiori alle Sefirot avevano una loro esistenza al di fuori del Divino, e si distinguevano da esso nella loro esistenza indipendente perché il loro stato era quello di esseri creati, sebbene avessero i loro archetipi nelle Sefirot. Anche riconoscendo che dal punto di vista di Dio essi hanno radice nel Suo essere, sono tuttavia, in se stessi, separati dalla Sua essenza, e possiedono una propria natura. Le distinzioni di questo genere sono comuni alla Cabala e ad altre teologie mistiche, come quelle dell'Islam e del Cristianesimo medievali, ma venivano generalmente trascurate in quasi tutte le discussioni cabalistiche dell'emanazione, con tutta la conseguente assenza di chiarezza che ciò comportava. Soprattutto in numerosi libri importanti, che non tentano di costruire le proprie dottrine su una salda base teorica, come il Bahir, lo Zohar e le opere di Isaac b. Jacob ha-Kohen, gli autori usano spesso termini estremamente ambigui e parlano di "creazione" anche quando intendono "emanazione". Questa ambiguità può essere spiegata alla luce della storia della Cabala, che inizialmente si occupò della descrizione di un'esperienza religiosa e contemplativa e non di questioni di sistematizzazione puramente teoretica. Inoltre, nella sua evoluzione la Cabala fu erede di un patrimonio gnostico, molto forte e tendente al mito, di speculazione sugli eoni (la cui natura era egualmente soggetta a molte interpretazioni teoriche). Perciò, quando il loro linguaggio figurativo e simbolico veniva sottoposto a un collaudo logico, fonti come quelle ricordate più sopra ricevevano molte interpretazioni teologiche e analitiche diverse. Quando la Cabala si sviluppò in Provenza e in Spagna e la tradizione gnostica si trovò a confronto con il neoplatonismo, fu scritta una quantità di brevi trattati, in cui si tentava di dare una descrizione indipendente dei processi d'emanazione. Molte di queste opere appartengono alla cerchia del Sefer ha-Iyyun (vedasi più sopra), e mostrano molto chiaramente che, a parte la teoria delle Sefirot, vi erano altri tipi di approccio a una descrizione del mondo spirituale, per esempio in termini di un mondo di poteri (kohot), luci o intelletti divini, cui talora venivano dati nomi identici, ma che ogni volta erano ordinati in modi molto diversi. Ovviamente, questi erano i primi avii brancolanti verso l'instaurazione di un ordine definitivo dei gradi e delle fasi d'emanazione. Tuttavia, poiché non corrispondevano al simbolo che era stato costruito in modo più o meno unificato dal tempo di Isaac il Cieco fino allo Zohar, venivano quasi completamente ignorati. A differenza di questi primi passi esitanti, la teoria dei Sefirot finì per diventare la spina dorsale dell'insegnamento cabalistico spagnolo e di quel fondamentale sistema di simbolismo mistico che ebbe ripercussioni tanto importanti sulla concezione dei cabalisti circa il significato del Giudaismo. Fin dall'inizio, le idee relative all'emanazione furono strettamente legate a una teoria del linguaggio. Da una parte, si è scritto molto sulla manifestazione del potere di Ein-Sof attraverso i vari stadi d'emanazione che sono chiamati Sefirot e non sono altro che i vari attributi di Dio, o descrizioni ed epiteti che si possono applicare a Lui. Tuttavia, nel contempo, lo stesso processo veniva descritto come una specie di rivelazione dei vari Nomi caratteristici di Dio nella Sua capacità di Creatore. Il Dio che si manifesta è il Dio che si esprime. Il Dio che "chiamò" i Suoi poteri perché si rivelassero diede loro nomi e, si potrebbe dire, chiamò anche Se stesso con nomi appropriati. Il processo con il quale il potere d'emanazione si manifesta dall'occultamento nella rivelazione ha un parallelo nella manifestazione della favella divina dalla sua essenza interiore nel pensiero, tramite il suono che ancora non può essere udito, nell'articolazione della favella. Grazie all'influenza del Sefer Yezirah, che parla dei "dieci Sefirot di belimah", il numero delle fasi di emanazione fu fissato a dieci, sebbene in quella prima opera il termine si riferisca soltanto ai numeri ideali che contengono le forze della creazione. Nell'uso cabalistico, d'altra parte, significa i dieci poteri che costituiscono le manifestazioni e le emanazioni di Dio. Poiché le Sefirot sono state intermediarie tra il primo Emanatore e tutte le cose che esistono separate da Dio, rappresentano anche le radici d'ogni esistenza in Dio Creatore. Che in questo concetto siano uniti o talora semplicemente mescolati molti temi è dimostrato dalla profusione di termini usati per descriverlo. Il termine Sefirah non è connesso con il greco ("sfera"), ma già nel Sefer ha-Bahir è relato all'ebraico sappir ("zaffiro"), perché è lo splendore di Dio che è simile a quello dello zaffiro. Il termine non viene fatto usato nella parte principale dello Zohar, e appare solo nello strato più tardi; ma anche altri cabalisti impiegano moltissimi sinonimi. Le Sefirot sono chiamate anche Ma'amarot e dibburim ("detti"), shemot ("nomi"), orot ("luci"), kohot ("poteri"), ketarirn ("corone", perché sono "le corone celesti del Santo Re"), middot nel senso di qualità, madregot ("stadi"), levushim ("vesti"), marot ("specchi"), neti'ot ("germogli"), mekorot ("fonti"), yamin elyonim o yemei kedem ("giorni superni o primordiali"), sitrin (cioè "aspetti": si trova soprattutto nello Zohar); ha-panim ha-penimiyyot ("le facce interne di Dio"). (Un lungo elenco di altre designazioni dei Sefirot si può trovare in Herrera, Sha'ar ha-Shamayim, 7 :4) . Termini come "le membra del Re" o "le membra dello Shi'ur Komah", l'immagine mistica di Dio, alludono al simbolismo dell'uomo superno, chiamato anche ha-adam ha-gadol, o uomo primordiale. Talora, questo termine è usato per una specifica Sefirah, ma spesso denota l'intero mondo dell'emanazione. Il termine ha-adam ha-kadmon ("uomo primordiale") ricorre per la prima volta in Sod Yedi 'at ha-Mezi'ut, un trattato della cerchia del Sefer ha-Iyyun. I diversi motivi delle Sefirot, che si esprimono in questa proliferazione di nomi, tendono a variare sia con il contesto specifico che con le inclinazioni generali del cabalista che ne fa uso. Non esistono definizioni canoniche riconosciute. Il nesso concettuale tra i ma'amarim o i ketarim, come erano chiamate le Sefirot nel Sefer ha-BahirJ e le sostanze intermedie tra l'infinito e il finito, l'uno e i molti del neoplatonismo, ebbe origine principalmente nell'opera di Azriel, il quale era deciso a spogliare l'idea delle Sefirot del suo carattere gnostico. Le sue definizioni, che appaiono in Perush Eser Sefirot e Derekh ha-Emurlah ve-Derekh ha-Kefirah, e quelle del suo compagno Asher b. David, contribuirono largamente a fissare il concetto delle Sefirot nella Cabala spagnola, sebbene la tendenza a presentarli come eoni gnostici non scomparisse interamente. Secondo Azriel, le cose furono create in un ordine specifico, poiché la creazione fu intenzionale, non accidentale. Quest'ordine, che determina tutti i processi di creazione e di generazione e degenerazione, è conosciuto come Sefirot, "il potere attivo di ogni cosa esistente numericamente definibile". Poiché tutte le cose create sono poste in essere tramite le Sefirot queste ultime contengono la radice di ogni cambiamento, sebbene emanino tutte dall'unico principio, Ein-Sof, "al di fuori del quale non vi è nulla". Per quanto riguarda la loro origine nell'Ein-Sof le Sefirot non sono differenziate, ma lo sono per ciò che concerne la loro attività entro il regno finito della creazione. A fianco di queste definizioni platoniche, esiste la concezione teosofica delle Sefirot quali forze dell'essenza o natura divina, per il cui tramite l'essere assoluto si rivela, perciò esse costituiscono il fondamento interiore e la radice di ogni essere creato, in un modo che in generale non è specificamente definito, ma non necessariamente come "intermediarie" nel senso filosofico. Il contrasto con il modello neoplatonico è chiaramente espresso in una dottrina, comune ai cabalisti di ogni epoca (persino ad Azriel), relativa alla dinamica di tali poteri. Sebbene vi sia una gerarchia specifica nell'ordine delle Sefirot, non è determinata ontologicamente; tutte sono egualmente vicine alla loro fonte nell'Emanatore (è già così nel Sefer ha-Bahirj. Esse possono congiungersi in unioni mistiche, e alcune si muovono verso l'alto e verso il basso entro la struttura della vita occulta di Dio (questi sono entrambi motivi gnostici), il che non collima con il punto di vista platonico. In altre parole, all'interno di un sistema concettuale platonico si pose in primo piano una concezione teosofica di Dio. La natura o essenza di queste Sefirot, cioè la relazione del mondo manifesto del Divino con il mondo creato e con l'essere occulto dell'Emanatore, era un argomento ampiamente discusso. Le Sefirot erano o no identiche a Dio, e se non lo erano, dove stava la differenza? All'inizio tale interrogativo non si pose, e le immagini usate per descrivere le Sefirot e la loro attività non miravano a una definizione precisa. La descrizione delle Sefirot quali contenitori dell'attività di Dio, l'Emanatore, che ad esempio ricorre fin da Asher b. David, non contraddice l'idea che in essenza esse siano identiche a Dio. Il termine ko'ah ("forza", "potere", "potenza"), che è comune nella letteratura cabalistica, non sempre indica una distinzione precisa tra "forza " ed "essenza" in senso aristotelico. È usato inoltre in riferimento all'esistenza indipendente di "potenze", ipostasi che emanano dalla loro fonte, senza alcuna indicazione precedente del fatto che questa emanazione sia un'espansione dell'essenza della fonte, o soltanto della sua radiazione che in precedenza era celata nella potenzialità ed ora è attuata. Nelle descrizioni puramente figurative del mondo delle Sefirot queste distinzioni filosofiche non si posero in primo piano; ma quando furono sollevati interrogativi di questo tipo divenne impossibile eluderli. Molti dei primi cabalisti erano più portati ad accettare la nozione che le Sefirot fossero effettivamente identiche alla sostanza o essenza di Dio. Questo viene affermato in molti documenti del XIII secolo, e successivamente posto in risalto nella scuola di R. Solomon b. Adret, e particolarmente in Ma'arekhet ha-Elohut, che fu seguito nel XVI secolo da David Messer Leon, Meir ibn Gabbai e Joseph Caro. Secondo questa concezione, le Sefirot non costituiscono "esseri intermedi", ma sono Dio stesso. "L'Emanazione è la Divinità", mentre Ein-Sof non può essere soggetto all'indagine religiosa, quale può concepire Dio soltanto nel Suo aspetto esterno. Anche la parte principale dello Zohar tende largamente verso questa opinione, e la esprime enfaticamente nell'identità intercambiabile di Dio con i Suoi Nomi o i Suoi Poteri: "Egli è Essi, ed Essi sono Lui" (Zohar, 3:11b, 70a). Nello strato più tardo, tuttavia, nel Ra'aya Meheimna e nei Tikkunim, e successivamente in Ta'amei ha-Mizvot di Menahem Recanati, le Sefirot non sono viste come l'essenza di Dio, ma solo come contenitori o strumenti; sebbene non siano né separate da Lui né situate al di fuori di Lui come gli utensili di un artigiano umano, non sono più che mezzi e strumenti che Egli usa nella Sua opera. Recanati afferma che in maggioranza i cabalisti del suo tempo non concordavano con questa concezione. Negli scritti di Joseph Ashkenazi (pseudo-Rabad), questa teoria è sviluppata all'estremo, tanto che le Sefirot, essendo intermediarie, pregano Dio e sono in realtà incapaci di percepire la natura del loro Emanatore, una concezione che fu esposta per la prima volta negli scritti di Moses di Burgos e che successivamente apparve in molte opere cabalistiche. Cordovero tentò di riconciliare queste due nozioni opposte e di accordare a ciascuna una certa misura di verità. Come in ogni essere vivente organico l'anima (l'essenza) non può essere distinta dal corpo (il contenitore), se non in abstracto, al punto che essi non possono venire separati quando operano insieme, così si può dire di Dio che Egli opera, per così dire, come un organismo vivente, e quindi le Sefirot hanno due aspetti, uno come "essenza" e l'altro come "contenitori". Questo organismo teosofico è dominato da un principio metabiologico di misura e di forma chiamato kav ha-middah (secondo affermazioni specifiche dello Zohar che usa questo termine per esprimere la natura e l'attività della prima Sefirah). Da questo punto di vista, le Sefirot sono nel contempo identiche all'essenza di Dio e da Lui separate (vedasi Pardes Rimmonim, cap. 4). Nella Cabala dei periodi successivi, questa concezione finì per predominare. Le Sefirot emanano da Ein-Sof in successione -"come se una candela venisse accesa da un'altra, senza che l'Emanatore ne sia in alcun modo diminuito" - e in ordine specifico. Tuttavia, in contrasto con il concetto di neoplatonico in cui gli intermediari stanno completamente al di fuori del regno dell'"Uno", esse non lasciano il regno divino. A questo flusso viene dato il nome hamshakhah ("trarre fuori"), vale a dire, l'entità che è emanata è tratta fuori dalla sua fonte, come la luce del sole o l'acqua da un pozzo. Secondo Nahmanides (nel suo commento a Num. 11:17) e la sua scuola, il secondo termine, azilut, esprime la particolare posizione di questa emanazione. Il termine è inteso come derivante da ezel ("vicino" o "con"), perché anche le cose che sono emanate rimangono "con Lui", e agiscono come potenze manifestanti l'unità dell'Emanatore. L'interpretazione antiemanista data da Nah. manides al termine azilut era apparentemente rivolta solo ai non iniziati, perché nei suoi scritti esoterici egli usa il termine hamshakhah (nel suo commento al Sefer Yezirah). Generalmente, viene posto in risalto il fatto che il Dio che si espresse nell'emanazione delle Sefirot è più grande della totalità delle Sefirot, tramite la quale Egli opera, e per il cui mezzo Egli passa dall'unità alla pluralità. La personalità di Dio trova espressione precisamente tramite la Sua manifestazione delle Sefirot. È quindi sorprendente che, negli ambienti vicini a Nahmanides, la natura dell'Emanatore che restava celata al di là di ogni emanazione venisse considerata una tradizione gelosamente custodita. Lo stesso Nahmanides la chiama "la materia celata alla sommità del Keter", della prima Sefirah, una designazione che la priva di ogni qualità personale (commento al Sefer Yezirah). Come si è notato più sopra, tuttavia, alcuni dei cabalisti suoi contemporanei, come Abraham di Colonia (1260-70) in Keter Shem Tou, respinsero completamente l'idea, negando un aspetto impersonale a Dio e identificando Ein-Sof con la prima Sefirah. La derivazione di azilut da ezel non comporta necessariamente che il processo d'emanazione sia esterno: significa semplicemente il contrasto tra i due regni: l'olam ha-yihud ("il mondo dell'unificazione") e l'olam ha-perud ("il mondo della separazione"). L'emanazione è il mondo dell'unificazione, non dell'unità statica di Ein Sof, bensì del processo che avviene in Dio, il quale è in Se stesso unificato nell'unità dinamica dei Suoi poteri ("come la fiamma è legata a un carbone ardente"). In contrasto con questo, "il mondo della separazione" si riferisce al regno che risulta dall'atto della creazione, la cui natura teosofica interiore è espressa nell'emanazione delle Sefirot. Ma questo processo d'emanazione delle Sefirot non è temporale, e non necessita alcun cambiamento in Dio stesso; è semplicemente l'emergenza dalla potenza all'atto di ciò che era celato nel potere del Creatore. Tuttavia, vi erano opinioni divergenti circa la questione dell'emanazione e del tempo. Azriel insegnò che la prima Sefirah era sempre entro la potenzialità di Ein-Sof, ma che altre Sefirot erano emanate solo nel senso intellettuale e avevano un inizio nel tempo; vi erano inoltre Sefirot che erano emanate soltanto "ora, vicino alla creazione del mondo". Altri sostenevano che il concetto di tempo non aveva applicazione nel processo d'emanazione, mentre Cordovero affermava che questo processo avveniva entro "un tempo non temporale", una dimensione del tempo che non comportava ancora una differenziazione in passato, presente e futuro. Una dimensione di questo tipo fu importante anche nel pensiero dei neoplatonici venuti più tardi, i quali parlavano di sempiternitas. Questo concetto supramondano del tempo era definito "come il batter di un occhio, senza alcun intervallo" tra i vari atti che erano parte dell'emanazione (così in Emek ha-Melekh e Va-Yakhel Moshe di Moses Graf). Joseph Solomon Delmedigo in Novelot Hokhmah e Jonathan Eybeschuetz in Shem Olam postularono anch'essi la coeternità delle Sefirot, ma in generale questa idea suscitò una notevole opposizione. Già nel XIII secolo fu formulata la controdottrina, secondo la quale "le essenze esistevano, ma l'emanazione fu posta in essere". Se le essenze precedettero le emanazioni, dovevano necessariamente essere esistite nella volontà o nel pensiero di Ein-Sof, ma erano rese manifeste da un atto che aveva qualcosa della natura della nuova creatività, anche se non nel solito senso di creatività nel tempo. Nella letteratura della Cabala, l'unità di Dio nelle Sue Sefirot e l'apparizione della pluralità nell'Uno sono espresse mediante un gran numero di immagini che ricorrono continuamente. Sono paragonate a una candela che brilla in mezzo a dieci specchi posti uno nell'altro, ognuno d'un colore diverso. La luce è riflessa in modo diverso, sebbene sia la stessa. L'ardita immagine delle Sefirot quali vesti è estremamente comune. Secondo il Midrash (Pesikta de-Rarv Kahana), alla creazione del mondo Dio si abbigliò di dieci indumenti, che nella Cabala sono identificati con le Sefirot, benché in essa non si faccia distinzione tra la veste e il corpo: "è come l'indumento della cavalletta, la cui veste è parte di se stessa", un'immagine tratta dal Midrash Genesis Rabbah. Gli indumenti permettono all'uomo di guardare la luce, che altrimenti sarebbe accecante. Abituandosi prima a guardare un indumento, l'uomo può guardare progressivamente quello successivo e così via, e in tal modo le Sefirot fungono da gradini della scala per ascendere verso la percezione di Dio (Asher b. David, Perush Shem ha-Meforash). La dottrina delle Sefirot fu il primo elemento che divise chiaramente la Cabala dalla filosofia ebraica. L'argomento della filosofia - la dottrina degli attributi divini e in particolare "gli attributi d'azione", distinti dagli "attributi essenziali" - venne trasformato nella Cabala nella concezione teosofica di una Divinità divisa in regni o "piani" che, almeno agli occhi del riguardante, esistevano come luci, potenze e intelligenze, ognuna di ricchezza e profondità illimitate, di cui l'uomo poteva studiare il contenuto cercando di penetrarle. Ognuna era "un mondo a sé", sebbene si rispecchiasse anche nella totalità delle altre. Già all'inizio del XIII secolo, dopo l'apparizione del Sefer ha-Bahir, venne propugnata la concezione che vi fossero processi dinamici non soltanto tra le Sefirot, ma anche entro ogni singola Sefirah. Questa tendenza verso una dottrina sempre più complessa delle Sefirot fu la caratteristica distintiva dello sviluppo della teoria cabalistica. Il numero dieci fornì la struttura per la crescita d'una molteplicità apparentemente infinita di luci e di processi. Nel circolo del Sefer ha-Iyyun, dove ebbe inizio questo sviluppo, troviamo un'enumerazione dei nomi delle luci e dei poteri intellettuali, che solo in parte corrisponde al simbolismo tradizionale delle Sefirot (si veda più sotto) e talora ne diverge notevolmente. Gli scritti del "circolo gnostico" della Castiglia ampliarono la struttura dell'emanazione e vi aggiunsero potenze dai nomi personali, che conferirono una colorazione unica al mondo delle Sefirot e a tutto ciò che esisteva al di fuori di esso. Questa tendenza fu continuata dall'autore dello Zohar, le cui descrizioni nell'Idra Rabba e nell'Idra Zuta riguardo le configurazioni delle forze dell'emanazione (chiamate Attika Kaddisha, Arikh Anpin e Ze'eir Anpin), sono molto diverse dal semplice concetto originale delle Sefirot. Vi è qui l'inizio del simbolismo anatomico e fisiologico dello Shi'ur Komah - una descrizione dell'immagine di Dio basata sull'analogia con la struttura umana che scosse le fondamenta stesse della dottrina delle Sefirot e vi introdusse nuove differenziazioni e combinazioni. Una complessità addizionale si ebbe quando la teoria delle Sefirot fu combinata con la Cabala profetica e "la scienza della combinazione" della scuola di Abraham Abulafia. Ogni diversa combinazione di lettere e vocali poteva essere vista nello splendore di quella luce intellettuale che appare in certe circostanze nelle meditazioni dei mistici. Interi libri come Berit Menuhah (seconda metà del XIV secolo), Toledot Adam (stampato in parte a Casablanca nel 1930 in Sefer ha-Malkhut), e Aunei Shoham di Joseph ibn Sayyah, rispecchiano questa concezione. Tali complessità nella dottrina delle Sefirot raggiunsero l'espressione estrema nell'Elimah Rabbati di Cordovero e, infine, nella teoria lurianica dei parzufim (si veda più sotto). Le Sefirot, individualmente e collettivamente, includono l'archetipo di ogni cosa creata al di fuori dal mondo dell'emanazione. Come esse sono contenute nella Divinità, impregnano ogni essere al di fuori di questa. Perciò la limitazione del loro numero a dieci comporta necessariamente la supposizione che ognuna di esse sia composta da un gran numero di tali archetipi. Dettagli della dottrina delle Sefirot e del loro simbolismo Punti di vista teosofici e teologici sono egualmente evidenti nella speculazione cabalistica sulle Sefirot in generale e sulla loro relazione con l'Emanatore in particolare. Quando si giunge allo sviluppo sequenziale delle Sefirot da una parte e alla funzione individuale di ciascuna, soprattutto dalla seconda Sefirah in poi, incomincia a predominare un forte elemento gnostico e mitico. I cabalisti sottolineavano di continuo il carattere soggettivo delle loro descrizioni: "tutto è visto dalla prospettiva di coloro che ricevono" (Ma'arekhet ha-Elohut); "tutto questo è detto solo dal nostro punto di vista, ed è tutto relativo alla nostra conoscenza" (Zohar 2: 176a). Tuttavia, ciò non impediva loro di abbandonarsi alle descrizioni più dettagliate, come se parlassero di una realtà in atto e di eventi oggettivi. Il movimento progressivo della vita occulta di Dio, che è espresso in una forma strutturale particolare, stabilì il ritmo dell'evoluzione dei mondi creati al di fuori del mondo dell'emanazione, in modo che quelle prime strutture più interne ricorrono in tutti i regni secondari. Vi è quindi una giustificazione fondamentale per un unico sistema simbolico comprensivo. Una realtà interiore che sfida la caratterizzazione o la descrizione perché trascende la nostra percezione può essere espressa solo simbolicamente. Le parole della Legge Scritta e di quella Orale non descrivono solo cose ed eventi terreni, situati nella storia e concernenti le relazioni tra Israele e il suo Dio, ma quando sono interpretate misticamente, parlano anche dell'interazione fra l'Emanatore e l'emanato, tra le stesse Sefirot, e tra le Sefirot e le attività degli uomini tramite la Torah e la preghiera. Ciò che, in senso letterale, è chiamato racconto della creazione, è in realtà un'allusione mistica al processo che ricorre entro il mondo dell'emanazione stessa e perciò può essere espresso solo simbolicamente. In generale, questo simbolismo interessava i cabalisti assai più di tutte le speculazioni teoriche sulla natura delle Sefirot, e per la maggior parte la letteratura cabalistica tratta questo aspetto e la sua applicazione dettagliata. Moltissimi commenti alla Torah, ai Salmi e alle aggadot, nonché la voluminosa letteratura sulle ragioni dei Comandamenti (ta'amei ha-mizvot) sono basati su questa ottica. Come si è notato più sopra, tuttavia, questo simbolismo non riguarda Ein-Sof, benché vi fossero comunque diversi cabalisti che attribuivano a quest'ultimo espressioni specifiche nella Scrittura o nel Sefer Yezirah. L'ordine comune delle Sefirot e i nomi usati generalmente per esse sono: 1) Keter Elyon ("corona suprema") o semplicemente Keter; 2) Hokhmah ("saggezza"); 3) Binah ("intelligenza"); 4) Gedullah ("grandezza"j o Hesed ("amore"); 5) Geuurah ("potere") o Din ("giudizio", o anche "rigorei'); 6) Tiferet ("bellezza") o Rahamim ("compassione"); 7) Nezah ("costanza"); 8) Hod ("maestà"); 9) Zaddik ("giusto, virtuoso") o Yesod Olam ("fondamento del mondo"); 10) Malkhut ("regno") o Atarah ("diadema"). Questa terminologia fu grandemente influenzata dal versetto in I Cronache 29:11, che era interpretato in riferimento all'ordine delle Sefirot . Benché le Sefirot siano emanate in ordine di successione dall'alto verso il basso, e ognuna di esse riveli uno stadio addizionale del processo divino, hanno anche una struttura formalizzata. Si trovano comunemente tre di questi raggruppamenti. Nella loro totalità le Sefirot formano "l'albero dell'emanazione" o "l'albero delle Sefirot", che a partire dal XIV secolo è raffigurato da un diagramma dettagliato elencante i simboli fondamentali appropriati a ogni Sefirah. L'albero cosmico cresce verso il basso dalla radice, la prima Sefirah, e si estende attraverso le Sefirot che costituiscono il tronco, fino a quelle che formano i rami principali o la chioma. Questa immagine s'incontra per la prima volta nel Sefer ha-Bahir: "Tutti i poteri divini del Santissimo, che sia benedetto, stanno uno sull'altro, e sono come un albero". Tuttavia, nel Bahir l'albero incomincia a crescere perché è bagnato dalle acque della Sapienza, e apparentemente include solo le Sefirot da Binah in giù. Accanto a questa immagine abbiamo quella più comune delle Sefirot in forma d'uomo. Mentre l'albero cresce con la chioma in basso, la forma umana ha la testa in alto, e talora è chiamata "l'albero inverso". Le prime Sefirot rappresentano la testa e, nello Zohar, le tre cavità del cervello; la quarta e la quinta, le braccia; la sesta, il tronco; la settima e l'ottava, le gambe; la nona, l'organo sessuale; e la decima è la totalità dell'immagine oppure, come nel Bahir, la femmina compagna del maschio, poiché entrambi sono necessari per costituire un uomo perfetto. Nella letteratura cabalistica questo simbolismo dell'Uomo primordiale in tutti i suoi dettagli è chiamato Shi'ur Komah. Lo schema più comune e: Keter Binah Geuurah Hod Hokhmah Gedullah Tiferet Yesod Nezah Maalkhut Talora le tre Sefirot Keter, Hokhmah e Binah non sono disposte a triangolo, bensì in linea retta, una sotto l'altra. Nel complesso, tuttavia, la struttura è formata da triangoli. Dalla fine del XIII secolo, una Sefirah complementare, chiamata Da'at ("conoscenza") apparve tra Hokhmah e Binah: è una specie di armonizzazione tra le due, e non era considerata una Sefirah separata, ma piuttosto "l'aspetto esterno di Keter". Questa aggiunta nacque dal desiderio di vedere ogni gruppo di tre Sefirot come un'unità comprendente attributi opposti e coma la sintesi che li risolveva. Tuttavia, questa non era la motivazione originale dello schema. Nel Sefer ha-Bahir e in parecchi testi dell'inizio del XIII secolo, la Sefirah Yesod era considerata la settima, e precedeva Nezah e Hod; soltanto a Gerona le fu assegnato il nono posto. Sul modello della gerarchia neoplatonica, secondo la quale la transizione dall'uno ai molti si compiva attraverso gli stadi di intelletto, anima universale e natura, molti cabalisti, in particolare Azriel, ritennero che anche le Sefirot comprendessero tali stadi (pur restando entro il regno della divinità). Keter, Hokhmah e Binah erano "intellettuali" (ha-muskal); Gedullah, Gevurah e Tiferet "psichiche" (ha-murgash); Nezah, Hod e Yesod erano "naturali" (ha-mutba). Apparentemente, si intendeva che questi tre stadi dovevano essere interpretati come le fonti dei regni indipendenti dell'intelletto, dell'anima e della natura, che erano pienamente attivi e sviluppati solo a un livello inferiore. È evidente che si trattava di un compromesso artificioso con l'ontologia neoplatonica. Poiché le Sefirot erano concepite come la manifestazione progressiva dei Nomi di Dio, fu stabilita una serie di equivalenze tra questi ultimi e i nomi delle Sefirot: Ehyeh YHWH Yah (vocalizzato come Elohim) Elohim El YHWH Elohim Zeva'ot YHWH Zeva'ot El Hai o Shaddai Adonai Secondo la Cabala, questi sono "i dieci nomi che non devono essere cancellati", sette dei quali sono menzionati nel Talmud (Shevu'ot, 35a), e in confronto ai quali tutti gli altri nomi sono soltanto epiteti. Lo Zohar designa Shaddai come il nome relato particolarmente alla Sefirah Yesod, mentre Joseph Gikatilla associa questa Sefirah a El Hai. La divisione delle Sefirot era determinata anche da altri criteri. Talora venivano divise in cinque e cinque, cioè le cinque Sefirot superiori corrispondenti alle cinque inferiori, mantenendo un equilibrio eguale tra celato e rivelato. Sulla base dell'affermazione in Pirkei de-R. Eliezer, "con dieci detti fu creato il mondo, e furono riassunti in tre", vennero anche divise in sette e tre. In questo caso c'era una differenziazione fra le tre Sefirot occulte e "le sette Sefirot della costruzione" che sono anche i sette giorni primordiali della creazione. Sei di queste ultime furono inoltre equiparate alle sei parti dello stadio nel Sefer Yezirah Non venne mai stabilito in modo preciso come queste sei fossero integrate dalla settima. Alcuni ritenevano che la settima fosse il sacro palazzo che stava al centro, come nel Sefer Yezlrah. Altri sostenevano che era rappresentata dal Pensiero Divino, mentre per altri ancora era un sabbath simbolico. La correlazione delle "Sefirot della costruzione" con i giorni della creazione divenne estremamente complessa. Molti cabalisti, incluso l'autore della parte principale dello Zohar, non potevano concordare con l'associazione automatica di ogni Sefirah ad una particolare giornata, e consideravano la creazione (che dal punto di vista mistico era il completamento della "costruzione" dell'emanazione) già completata il quarto giorno. Essi erano particolarmente perplessi per quanto riguardava il problema del sabbath, che molti interpretavano come un simbolo di Yesod, poiché era parallelo al settimo posto originale della Sefirah, mentre molti altri vi vedevano un'allusione all'ultima Sefirah, soprattutto perché con essa avevano fine i poteri. Come ogni giorno compiva un atto ad esso specifico, a parte il settimo, ogni Sefirah compiva le attività specifiche per le quali era caratterizzata, eccettuato l'ultima, che non aveva tale forza attiva, ma comprendeva la totalità di tutte le Sefirot, o il principio specifico che riceveva e univa le forze attive senza aggiungervi nulla di proprio. Al contrario, sono l'assenza di attività e la funzione della decima Sefirah quale entità onni-inclusiva che costituiscono la sua unicità. La divisione delle Sefirot in tre file o colonne aveva una particolare importanza; la colonna di destra include Hokhmah, Gedullah e Nezah; la colonna di sinistra include Binah, Gevurah e Hod; e la colonna centrale (kav emza'i) passa da Keter, attraverso Tiferet e Yesod, fino a Malkhut. Tutti questi raggruppamenti attestano la convinzione dei cabalisti che le Sefirot avessero una struttura definita, per quanto potessero essere grandi le possibilità di variazioni. Contrapposta a tutte queste, vi è un'altra disposizione che presenta le Sefirot come archi adiacenti di un unico cerchio che circonda l'Emanatore centrale, oppure come sfere concentriche (chiamate "cerchi") con il potere dell'emanazione che diminuisce via via che si allontana dal centro. Quest'ultimo concetto è relato all'immagine cosmologica medievale di un universo di dieci sfere, che poteva essere immaginato in termini di rotazioni verso l'esterno di tali cerchi spirituali. Il concetto circolare appare soprattutto a partire dal XIV secolo (Pseudo-Rabad al Sefer Yezirah, 1, 2). Nella Cabala lurianica, ognuna di queste disposizioni diagrammatiche, circolari o lineari, riceve un posto specifico nel piano dell'emanazione. Quando abbiamo a che fare con il simbolismo delle Sefirot, dobbiamo distinguere tra i sistemi simbolici generali pertinenti ai processi dell'emanazione nel suo complesso e il simbolismo relato a ogni singola Sefirah o a una particolare combinazione di Sefirot. I sistemi simbolici complessivi sono basati su immagini matematiche e organiche. Nel sistema che dipende da concetti matematici, che è talvolta legato a immagini di luce e fiumi, la prima Sefirah è il nulla, lo zero, e la seconda è la manifestazione del punto primordiale, che in questa fase non ha dimensioni ma contiene in sé la possibilità della misurazione e dell'espansione. Poiché tale punto è intermedio tra il nulla e l'essere, è chiamato hathalat ha-yeshut ("il principio dell'essere"). E poiché è un punto centrale, si espande in un cerchio nella terza Sefirah, oppure costruisce intorno a sé un "palazzo" che è la terza Sefirah. Quando questo punto è rappresentato con una fonte che sgorga dalle profondità del nulla, la terza Sefirah diviene il fiume che scorre dalla fonte e si divide in diversi rami, seguendo la struttura dell'emanazione, fino a quando tutti i suoi affluenti si gettano nel "grande mare" dell'ultima Sefirah. Il primo punto è stabilito da un atto della Divina Volontà, che muove il primo passo verso la creazione. Nello Zohar, l'apparizione del punto superno (che è chiamato reshit, "principio", parte della prima parola della Bibbia) è preceduto da un numero di atti che si compiono tra Ein-Sof e la prima Sefirah o all'interno della prima Sefirah. Oltre a essere il nulla (ayin) e la volontà di Dio, questa Sefirah è anche l'etere primordiale (avir kadmon)che circonda Ein-Sof come un'aura eterna. Dal mistero di Ein-Sof si accende una fiamma, ed entro la fiamma viene posto in essere un pozzo nascosto. Il punto primordiale risplende nell'essere quando il pozzo prorompe attraverso l'etere (1: 15a). È come se in questa descrizione venissero riunite tutte le immagini possibili.. Il simbolismo organico equipara il punto primordiale con il seme gettato nel grembo della "madre superna", che è Binah. "Il palazzo" è il grembo che giunge a dare frutto mediante la fecondazione del seme, e partorisce i figli, che sono le emanazioni. In un'altra immagine organica, Binah è paragonata alle radici di un albero innaffiato dalle acque di Hokhmah e si ramifica in sette Sefirot. In un altro schema simbolico, molto comune nel XIII secolo, e soprattutto nello Zohar, le prime tre Sefirot rappresentano il progresso dalla volontà al pensiero e dal pensiero all'intelletto, dove è più esattamente individuato il contenuto della sapienza o del pensiero. L'identificazione delle Sefirot seguenti come amore, giustizia e misericordia collega questa dottrina al concetto aggadico degli attributi divini. Riferimenti al maschio e alla femmina appaiono non soltanto nel simbolismo di padre e madre, figlio e figlia (Hokhmah e Binah, Tiferet e Malkhut), ma anche nel sorprendente uso di immagini sessuali, che è una caratteristica particolare dello Zohar e della Cabala lurianica. L'uso di queste immagini falliche e vaginali predomina specialmente nella descrizione delle relazioni fra Tiferet e Yesod da una parte e Malkhut dall'altra. Molti cabalisti fecero di tutto per sminuire l'effetto di questo simbolismo, che offriva ampio spazio a immagini mitiche e a interpretazioni ardite. I simboli menzionati finora formano solo una parte del ricco simbolismo che traeva materiale da ogni sfera. Spesso vi sono differenze nei dettagli della sua presentazione, e vi era una certa libertà nel modo in cui dati simboli erano connessi a una data Sefirah, ma per quanto riguardava i motivi fondamentali, vi era una notevole concordanza. Tuttavia furono scritte opere che spiegavano gli attributi delle Sefirot fin dal tempo dei cabalisti di Gerona, e non si possono minimizzare le differenze esistenti tra esse. Anche nello stesso Zohar vi sono molte variazioni, entro una cornice stabilita più o meno saldamente. Queste differenze si possono vedere anche tra il simbolismo di Moses de Leon e quello di Joseph Gikatilla. Le fonti migliori, per comprendere questo simbolismo, sono: Sha'arei Orah (1560; edizione migliore, Gerusalemme, 1970) e Sha'arei Zedek di Gikatilla; Shekel haKodesh (1911) di Moses de Leon; Sefer ha-Shem, scritto da un altro Moses non identificato; Sod Ilan ha-Azilut di R. Isaac (Kouez al-Yad, 68, 5 (1951), 65-102); Ma'arekhet ha-Elohut, cap. 3-7; Sefer ha-Shorasim di Joseph ibn Waqar (traduzione della sezione sul simbolismo nella sua opera araba, che si trova in molti manoscritti); Sha'ar Arkhei ha-Kunuyim in Pardes Rimmonim di Cordovero, cap. 23; Sefat Emet di Menahem Azariah Fano (Lobatschov, 1898); Arkhei ha-Kinuyim di Jehiel Heilprin (Dyhrenfurt, 1806); Kehillat Ya'akov di Jacob Zevi Jolles (Lemberg, 1870) e la sua seconda parte, intitolata Yashresh Ya'akov (Brooklyn, intorno al 1961). Gli attributi delle Sefirot secondo la Cabala lurianica sono descritti dettagliatamente in Me'orot Natan di Meir Poppers (testo) e Nathan Nata Mannheim (note) (Francoforte, 1709); Regal Yesharah di Zevi Elimelekh Shapira (Lemberg, 1858), Emet le-Ya'akov di Jacob Shealtiel Nino (Livorno, 1843); e Or Einayim di Eliezer Zevi Safrin (Parte 1, Premysl, 1882, Parte 2; Lemberg, 1886). A partire dal XIII secolo, incontriamo l'idea che ogni Sefirah comprenda tutte le altre in successione, in un riflettersi infinito delle Sefirot in se stesse. Questo metodo formale di descrivere la ricca dinamica esistente in ogni Sefirah veniva espresso anche in altri modi. Ad esempio, leggiamo delle 620 "colonne di luce" in Keter. delle 32 "vie" in Hokhmah, delle 50 "porte" in Binah, dei 72 "ponti" in Hesed, e così via (in Tefillat ha- Yihud, attribuito a R. Nehunya b. ha-Kanah), e di forze che vengono chiamate con nomi magici, il cui significato non può essere comunicato, ma che denotano le varie concentrazioni di potere che possono differenziarsi nell'emanazione. Già ai tempi di Moses di Burgos e di Joseph Gikatilla viene sottolineato che a ogni Sefirah sono sospesi mondi suoi, non facenti parte dell'ordine gerarchico dei mondi che seguono il mondo dell'emanazione. In altre parole, il potere totale di ogni Sefirah non può essere espresso semplicemente in riferimento alla creazione conosciuta. Vi sono aspetti che hanno altre finalità; mondi occulti d'amore, di giustizia e così via. Gikatilla parla di milioni di mondi. Nello Zohar, descrizioni di questo tipo ricorrono solo in relazione al mondo di Keter (Arikh Anpin, letteralmente "il volto lungo", cioè "il Dio paziente") e il mondo di Tiferet (Ze'eir Anpin, letteralmente "il volto breve", cioè "l'Impaziente") e assumono la forma di una descrizione dell'anatomia della "testa bianca", che mostra un'estrema tendenza all'antropomorfismo. Parti della "testa" simboleggiano i modi in cui agisce Dio: la fronte si riferisce ai Suoi atti di grazia, l'occhio alla Sua provvidenza, l'orecchio all'accettazione delle preghiere, la barba alle 13 sfaccettature della misericordia, e così via. Un'allegorizzazione dei concetti teologici nella dottrina degli attributi, un simbolismo che vede le proprie immagini come esatte allusioni a ciò che trascende ogni immagine, e un tentativo di riconciliare le dottrine apparentemente incompatibili delle Sefirot e del precedente Shi'ur Komah: tutto s'incontra in questi simboli delle Idrot dello Zohar. L'autore non afferma mai apertamente che le sue descrizioni comportano una collocazione di "Sefirot entro Sefirot" (che sono menzionate nella parte principale dello Zohar e inoltre negli scritti in ebraico di Moses de Leon, ma solo incidentalmente e senza dettagli). Apparentemente, egli non vedeva alcun motivo di proporre una teoria speculativa per giustificare l'uso di immagini corporee, tanto difficili da sondare razionalmente in ogni dettaglio. Il suo mondo era più simbolico che concettuale. Tuttavia i cabalisti, a partire dall'inizio del XIV secolo, diedero a queste "rivelazioni" un'interpretazione teoretica, incominciando con il Sefer ha-Gevul (basato sull'Idra Rabba nello Zohar) di David b. Judah he-Hasid e terminando con Elimah Rabbati di Cordovero e il suo commento allo Zohar. Una dottrina simile, inoltre, è evidente negli scritti di Joseph b. Shalom Ashkenazi. Nelle loro meditazioni su questi riflessi interni delle Sefirot, l'una dentro l'altra, alcuni cabalisti, come Joseph ibn Sayyah, si spinsero fino a descrivere dettagliatamente il gioco delle luci entro le Sefirot fino al quarto "grado", come, ad esempio, "Tiferet che è in Gedullah che è in Binah che è in Keter". Anche Cordovero si spinse più lontano, su questa strada, della maggioranza dei cabalisti. Negli insegnamenti di Cordovero, questa teoria delle Sefirot entro le Sefirot è connessa a un'altra, quella delle behinot, il numero infinito di aspetti che possono essere differenziati entro ogni Sefirah e il cui scopo principale consiste nello spiegare come ogni Sefirah è collegata a quella che la precede e a quella che la segue. Secondo Cordovero, vi sono complessivamente sei di questi aspetti in ogni Sefirah: 1) il suo aspetto celato prima della sua manifestazione nella Sefirah che la emana; 2) l'aspetto in cui essa è manifesto e apparente nella Sefirah emanante; 3) l'aspetto in cui si materializza nella corretta collocazione spirituale, vale a dire come Sefirah indipendente; 4) l'aspetto che permette alla Sefirah al di sopra di essa di instillarle il potere di emanare altre Sefirot; 5) l'aspetto mediante il quale acquisisce il potere di emanare le Sefirot celate in se stessa nella loro esistenza manifestata entro la propria essenza; e 6) l'aspetto mediante il quale la Sefirah seguente è emanata al suo posto, e di qui il ciclo ricomincia. Questa completa serie di behinot è vista come una relazione causale, in quanto ogni behinah causa il risveglio e la manifestazione della behinah seguente (Pardes Rimminim, cap. 5,5). Ma vi sono molti altri "aspetti" delle Sefirot, e la loro scoperta dipende dalla prospettiva di chi indaga. Ogni Sefirah "discende in se stessa", e il processo di questa discesa è infinito nei suoi riflessi interni. Nel contempo, tuttavia, è anche finito, in quanto genera o pone in essere dall'interno di se stessa un'altra Sefirah. Questo concetto richiede la premessa che le radici dell'emanazione abbiano un "aspetto" celato nello stesso Ein-Sof, e Cordovero interpreta le tre zahzahot menzionate più sopra come le tre behinot celate di Keter in Ein Sof e la prima Sefirah, nonostante il suo chiaro desiderio di stabilire una divisione così naturale. Perciò egli postula che le behinot di Keter entro Keter entro Keter e così via, sebbene potenzialmente continuino ad infinitum, in effetti non raggiungono un'identità con l'essenza dell'Emanatore, così che la propinquità di Ein-Sof e di Keter rimane asintotica. Tutto questo, naturalmente, è affermato dal punto di vista degli essere creati, perché anche il risveglio superno degli "aspetti" della Volontà entro la Volontà e così via non rivela Ein-Sof, e questo è il differenziale che comprende il balzo dall'essenza dell'Emanatore a quella dell'emanato. D'altra parte, l'abisso differenziale si chiude quando è considerato dal punto di vista dell'Emanatore. La dottrina delle behinot di Cordovero mostra quanto egli si avvicinasse a un modo di pensare chiaramente dialettico entro la cornice delle idee cabalistiche. Con Cordovero, le Sefirot sono più che emanazioni manifestanti gli attributi dell'Emanatore, sebbene siano anche questo. Esse divengono gli elementi strutturali di tutti gli esseri, anche del Dio auto-manifestantesi. La contraddizione sottintesa fra i processi dell'emanazione e della strutturazione non fu mai risolta completamente dallo stesso Cordovero, e appare persino nell'esposizione sistematica delle sue idee compiuta in Shefa Tal da Shabbetai Sheftel Horowitz. In opere come Elimah Rabbati e Shefa Tal, la Cabala zoharica subisce una trasformazione speculativa estremamente profonda, nella quale la teosofia rinuncia, nella misura del possibile, alle sue basi mitiche. Tuttavia, è evidente che questa tendenza speculativa non trasforma la Cabala in filosofia, e che il riconoscimento di una vita occulta nella divinità - il processo d'emanazione delle Sefirot - dipende in ultima analisi dall'intuizione mistica, poiché solo mediante questa è possibile comprendere tale regno. Nello Zohar, questa intuizione è chiamata "visione fuggevole [dell'eterno]" (istakluta le-fum sha'ata; 2:74b ZH 38c), e questo è l'elemento che il profeta e il cabalista hanno in comune (1:97a e b). Oltre al processo d'emanazione che avviene tra le Sefirot, vi sono due modi simbolici di esprimere la maniera in cui ogni Sefirah irradia sulle altre: 1) Luce riflessa. Ciò si basa sulla premessa che, oltre alla luce diretta che si diffonde da una Sefirah all'altra, vi è una luce che viene riflessa dalle Sefirot inferiori a quelle superiori. Le Sefirot possono essere viste sia come un mezzo per il trasferimento della luce dall'alto al basso sia come specchio che serve a riflettere la luce alla sua fonte. Questa luce riflessa può riascendere da qualunque Sefirah, particolarmente dall'ultima, fino alla prima, e sulla via del ritorno agisce quale stimolo addizionale che causa la differenziazione di altre behinot in ogni Sefirah. La luce riflessa, secondo Cordovero (Pardes, 15), svolge una grande funzione nel consolidamento delle potenze e delle behinot del giudizio (din) in ogni Sefirah, poiché funziona tramite un processo di contrazione restrittiva più che di libera espansione. Basata solo marginalmente sulla Cabala degli inizi - ad esempio le affermazioni contenute nello Zohar sulle relazioni tra le prime tre Sefirot questa dottrina fu sviluppata esclusivamente da Solomon Alkabez e da Cordovero, e formò un importante fattore del loro ragionamento dialettico. 2) Canali. Ciò si basa sulla premessa che Sefirot specifiche stiano in particolari relazioni di radiazione con altre Sefirot (benché non necessariamente con tutte). La faccia di una Sefirah si volge verso un'altra, e di conseguenza si sviluppa tra esse un "canale" (zinnor) d'influenza che non è identico all'emanazione vera e propria. Questi canali sono vie d'influenza reciproca tra le diverse Sefirot. Questo processo non è un influsso unidirezionale da causa a effetto: opera anche da effetto a causa, trasformando dialetticamente l'effetto in causa. Non è chiara la misura in cui esiste un'identità tra i simboli della luce riflessa e dei canali, e neppure, se tale identità non esiste, quale sia la loro relazione. Ogni interruzione del flusso di ritorno dal basso in alto è chiamata "rottura dei canali" (sheuirat ha-zinnorot; Gikatilla, Sha'arei Orah), un'idea che serve a spiegare le relazioni tra il mondo inferiore e quello superiore in occasione del peccato e della disapprovazione divina. A questi canali alludono i cabalisti di Gerona, Gikatilla, Joseph di Hamadam (Shushan haBirah), se questo è il vero nome dell'autore di un commento al Cantico delle Cantici, e allaparashah Terumah nel manoscritto Margoliouth 464 al British Museum, menzionato più sopra, oltre ad altri cabalisti del XIV e del XV secolo, e la dottrina è esposta dettagliatamente nel capitolo 7 di Pardes Rimmonim. Mondi precedenti, mondi inferiori e cicli cosmici (La dottrina delle Shemittot) L'emergere di Dio dalle profondità di Se stesso nella creazione, che costituisce il fondamento della dottrina delle Sefirot, non fu sempre inteso come un unico processo diretto e ininterrotto. In altre concezioni del processo d'emanazione e di creazione, un ruolo vitale lo ebbe la leggenda midrashica dei mondi che furono creati e distrutti prima della creazione del mondo presente. Una variazione importante di questa idea sta alla radice della dottrina delle Idrot nello Zohar, in cui il Midrash e altre simili aggadot sono connessi a una descrizione di come Dio entrò nella forma dell'Adam Kadmon o Uomo Primordiale, o nelle diverse configurazioni di questa forma. Abbiamo qui un motivo la cui origine non è in alcun modo compatibile con la formulazione classica della dottrina delle Sefirot, come si può vedere facilmente dal suo trattamento inverso del principio maschio-femmina. Diversamente dalla tradizione classica, il principio maschile è qui considerato il principio di din o del giudizio rigoroso, che deve essere attenuato e "addolcito" dal principio femminile. Una creazione dominata esclusivamente dalle forze del giudizio non potrebbe sopravvivere. L'esatta natura di tali creazioni precedenti e non riuscite - chiamate nello Zohar "i Re di Edom" o "i Re primordiali" (malkhei Edom o malkin Kadma'in) - non viene chiarita. Fu solo quando la forma dell'Uomo Primordiale venne foggiata perfettamente, con un equilibrio armonioso tra le forze maschili e quelle femminili, che la creazione fu in grado di sostenersi. Questo equilibrio è chiamato nello Zohar matkela ("la bilancia") e solo grazie al suo potere fu posto in essere il nostro mondo. L'elenco biblico dei re di Edom (Gen. 35:31 segg.) fu interpretato alla luce di questa dottrina, perché Edom veniva inteso come rappresentazione del principio del giudizio. L'autore dello Zohar espresse questa dottrina anche in altri modi. I mondi che precedettero il nostro e furono distrutti erano come le scintille che si disperdono e muoiono quando il fabbro batte il ferro con il maglio. Questa dottrina, in una versione completamente nuova, acquisì un posto centrale nella Cabala lurianica, mentre altri cabalisti cercarono di spogliarla del suo significato letterale a causa delle difficoltà teologiche che presentava. L'interpretazione di Cordovero la pose in relazione con l'emanazione delle stesse Sefirot, e con il processo dialettico entro ogni Sefirah: un'interpretazione in disaccordo con l'idea originale. Altri cabalisti del periodo dello Zohar, come Isaac ha-Kohen di Soria, espressero idee simili, che posero in relazione allo sviluppo di un'emanazione "di sinistra", cioè di un'emanazione delle forze del male. L'elemento comune in tutte queste dottrine è la supposizione che, durante i primi passi verso l'emanazione, ebbero luogo certi sviluppi abortiti che non ebbero effetti diretti sulla creazione dei mondi attuali, sebbene resti di quei mondi distrutti non scomparissero completamente, e qualcosa di essi aleggi tuttora disastrosamente tra noi. La Cabala spagnola concentrò il suo pensiero sull'emanazione e sulla struttura delle Sefirot, un argomento che non viene affatto trattato negli scritti dei filosofi. Per quanto riguarda la continuità di questo processo sotto il livello dell'ultima Sefirah, i cabalisti nel complesso furono profondamente influenzati dalla cosmologia filosofica medievale. In maggioranza, essi concordavano nel ritenere che non vi fosse alcuna rottura essenziale nella continuità del flusso dell'emanazione che portava allo sviluppo di altre aree della creazione, come il mondo dell'intelletto, il mondo delle sfere, e il mondo inferiore. Ma essi affermavano che ciò che aveva preceduto queste fasi secondarie faceva parte del regno divino, che essi ritraevano simbolicamente come una serie di eventi nel mondo dell'emanazione, mentre, a partire da questo punto, il movimento verso l'esterno partiva dal regno della Divinità e veniva ritenuto una creazione distinta dall'unità divina. Questa distinzione fondamentale tra "il mondo dell'unità" delle Sefirot e il mondo delle "intelligenze separate" che sta al di sotto di esse fu operata già all'inizio del XIII secolo. Quando i filosofi parlavano di "intelligenze separate", che essi identificavano con gli angeli, li consideravano tuttavia esseri immateriali rappresentanti la pura forma, mentre nel linguaggio cabalistico il termine si riferisce piuttosto a una separazione dall'unità sefirotica del regno divino. Via via che la Cabala si sviluppava, il mondo della Merkabah (vedasi più sopra, pag. l 8) descritto nella letteratura dei heikhalot divenne chiaramente distinto dal mondo del divino, al di sopra di esso. Il primo veniva spesso chiamato, ora, "il regno del Trono"; e intorno ad esso si sviluppò una ricca angelologia, solo parzialmente identica alla precedente angelologia della letteratura della Merkabah. Nella parte principale dello Zohar vi sono descrizioni dettagliate degli abitatori dei sette "palazzi" che stanno sotto la Sefirah Malkhut e sono i prodotti del suo influsso emanativo, e che hanno poco in comune con i heikhalot della letteratura precedente. Nei primi tempi della Cabala, non era stato stabilito un ordine gerarchico fisso per il mondo degli angeli, e gli scritti di vari cabalisti del XIII e del XIV secolo contengono sistemi angelologici molto diversi. Tali sistemi occupano un posto importante nelle opere di Isaac ha-Kohen, di suo fratello Jacob e del loro allievo Moses di Burgos, i quali parlarono tutti in dettaglio di emanazioni secondarie che servivano come vesti per le Sefirot ed erano situate addirittura più in alto degli angeli più eminenti nell'angelologia tradizionale, come Michael, Raphael, Gabriel e così via. Altri sistemi sono esposti nel Tikkunei Zohar, in Sod Darkhei ha-Nekuddot ve-ha-Otiyyot attribuito alla scuola di Abraham b. David di Posquières, nei libri di David b. Judah ha-Hasid e di Joseph di Hamadan. Talvolta veniva fatta una distinzione tra la Merkabah quale simbolo del mondo delle stesse Sefirot, e il mirkevet hamishneh o "secondo carro", rappresentante il regno che veniva dopo la Sefirah Malkhut, ed era a sua volta diviso in dieci Sefirot. Tutto ciò che sta al di sotto di quell'ultima Sefirah è soggetto al tempo ed è chiamato beri'ah ("creazione") poiché è al di fuori (le-var) della Divinità. Lo schema generale di un mondo della Divinità e delle Sefirot, e delle intelligenze e delle sfere, non impedì a molti cabalisti, come l'autore dello Zohar e Gikatilla, di supporre l'esistenza di un grandissimo numero di mondi secondari entro ognuno di questi mondi primari. L'espansione di una cornice cosmologica originariamente più ristretta è analoga a motivi assai simili nel pensiero indiano, sebbene non vi sia necessità di stabilire un diretto nesso storico tra i due. Ogni fase del processo della creazione è cristallizzata in un mondo specifico, dove il potere creativo del Creatore raggiunge la perfetta espressione d'uno dei suoi molti aspetti. Nel contempo, noi possiamo seguire lo sviluppo di una dottrina unificata d'una serie di mondi, dall'alto al basso, formante un vettore fondamentale lungo il quale la creazione passa dal suo punto primevo alla sua finalizzazione nel mondo materiale. Il risultato di questo sviluppo, nel quale si mescolavano principi giudaici, aristotelici e neoplatonici, fu una nuova dottrina di quattro mondi fondamentali, chiamati olam ha-azilut (il mondo dell'emanazione - le dieci Sefirot), olam ha-beriah (il mondo della creazione - il Trono e il Carro), olam ha-yezirah (il mondo della formazione - talora il mondo degli angeli raccolti intorno a Metatron) e olam ha-asiyyah (il mondo del fare o della struttura - che talora incluse l'intero sistema delle sfere e il mondo terrestre e talora soltanto quest'ultimo). Questo ordinamento, sebbene di solito privo della nomenclatura dei "mondi", è già menzionato da Moses de Leon e da alcune parti dello Zohar, particolarmente nei Tikkunei Zohar. Appare in forma di quattro mondi in Massekhet Azilut, un trattato pseudoepigrafico dell'inizio del XIV secolo (a cura di Jellinek in Answahl Kabbalistischer Mystik, 1853). Anche Isaac d'Acri fece uso frequente di questo ordinamento, e per la prima volta gli diede il nome abbreviato di abiya (azilut, beri'ah, yezirah, asiyyah). Tuttavia, la dottrina non venne sviluppata completamente fino al secolo XVI, quando i cabalisti di Safed approfondirono i dettagli anche dei mondi di beri'ah e yezirah, soprattutto Cordovero e la scuola di Isaac Luria. Nei Tikkunei Zohar il mondo di asiyyah veniva inteso come il regno del mondo materiale e degli spiriti maligni, mentre secondo il Massekhet Azilut includeva l'intera gamma della creazione, dagli angeli (conosciuti come ofannim), attraverso le dieci sfere fino al mondo della materia. Secondo la Cabala lurianica, tutti i mondi, incluso quello di asiyyah, erano in origine spirituali, ma in seguito alla "rottura dei vasi" il mondo di asiyyah, dopo la discesa dalla posizione precedente, si mescolò alle kelippot o "gusci" impuri, che in linea di principio sarebbero dovute rimanere completamente separate, e produsse un mondo di materia che non conteneva nulla di spirituale. Le dieci Sefirot sono attive in tutti i quattro mondi, secondo il loro adattamento a ognuno di essi, così che è possibile parlare delle Sefirot nel mondo di beri'ah, delle Sefirot nel mondo di yezirah e così via. Qualche concomitante delle Sefirot si può vedere anche nel mondo inferiore. Persino l'immagine di Adam Kadmon è riflessa in ognuno di questi mondi (adam di-ueriyah, adam de-azilut, ecc.), come negli scritti di Moses de Leon, in Ra'aya Meheimna e nei Tikkunim). Anche il mondo terrestre della natura può essere chiamato adam ha-gadol ("il grande uomo"; macroanthropos). In un'altra concezione cabalistica del periodo dell'espulsione dalla Spagna, la natura è definita come zel Shaddai, cioè l'ombra del Nome Divino. A partire dal XIII secolo, e soprattutto dal XV e dal XVII, i cabalisti tentarono di fare rappresentazioni pittoriali della struttura della creazione, come progredisce da Ein-Sof verso il basso. Tali diagrammi erano generalmente chiamati ilanot ("alberi") e le ovvie differenze tra essi rispecchiano le divergenze tra le varie dottrine e gli schemi del simbolismo. Disegni di questo genere si trovano in un gran numero di manoscritti. Una dettagliata rappresentazione pittoriale del sistema lurianico, chiamata ilan ha-gadol ("il grande albero"), che fu eseguita da Meir Poppers, è stata pubblicata, dapprima in forma di un lungo rotolo (Varsavia,1864) e più tardi in un libro (Varsavia, 1893). Un altro dettagliato "albero" (tabula) lurianico fu incluso da Knorr Von Rosenroth in Kabbalah Denudata I, parte 5, 193255 (in 16 tavole). A queste speculazioni venne data una forma unica nella dottrina delle shemittot, o cicli cosmici, che era basata su una periodicità fissa nella creazione. Sebbene dipendesse da motivi aggadici, questa dottrina presenta qualche relazione con simili sistemi non giudaici, la cui influenza sugli autori ebrei si può osservare nei paesi musulmani e in Spagna, particolarmente negli scritti di Abraham bar Hiyya. In Megillat ha-Megalleh, egli parla di innominati "filosofi" i quali credevano in una serie lunga o addirittura infinita di creazioni cicliche. Alcuni di loro, egli disse, sostenevano, che il mondo sarebbe durato 49.000 anni, che ognuno dei sette pianeti avrebbe governato per 7.000 anni, e che quindi Dio avrebbe distrutto il mondo e l'avrebbe restituito al caos nel cinquantesimo millennio, per ricrearlo successivamente. Erano idee astrologiche tratte da fonti arabe e greche, che potevano venire facilmente assimilate a certe concezioni espresse nell'aggadah, per esempio l'affermazione di Rav Katina (Sanh. 97a) che il mondo sarebbe durato per 6.000 anni e quindi sarebbe stato distrutto nel settimo millennio: qui si traccia un parallelo tra i giorni della creazione e quelli del mondo, visti come una grande settimana cosmica, al termine della quale esso "riposa" e viene distrutto. I cabalisti dei periodi precedenti ponevano tali dottrine in rapporto con la loro dottrina dell'emanazione. Il loro nuovo insegnamento riguardante i cicli della creazione, che era ampiamente citato e addirittura riassunto nella Cabala di Gerona, venne pienamente articolato, per quanto in stile enigmatico, nel Sefer ha-Temunah, che fu scritto intorno al 1250. Il punto principale di questa dottrina è che sono le Sefirot e non le stelle a determinare il progresso e la durata del mondo. Le prime tre Sefirot rimangono celate e non attivano "mondi" al di fuori di se stesse, o almeno non mondi che noi possiamo riconoscere come tali. Dalla Sefirah Binah, chiamata anche "la madre del mondo", emanano le sette Sefirot apprendibili ed espansive. Ognuna di queste Sefirot ha un ruolo speciale in un ciclo della creazione, che rientra nel suo dominio ed è influenzato dalla sua natura specifica. Ciascun ciclo cosmico, legato a una delle Sefirot, è chiamato shemittah o anno sabbatico - un termine tratto da Deuteronomio 15 - e ha una vita attiva di 6.000 anni. Nel settimo millennio, che è il periodo della shemittah, il sabbath del ciclo, le forze sefirotiche cessano di funzionare, e il mondo ritorna al caos. Successivamente, il mondo viene rinnovato tramite il potere della Sefirah seguente, ed è attivo per un nuovo ciclo. Alla fine di tutte le shemittot vi è il "grande giubileo", quando non soltanto i mondi inferiori ma anche le sette Sefirot di sostegno vengono riassorbiti in Binah. L'unità base della storia del mondo è quindi il giubileo di 50.000 anni, suddiviso come è descritto più sopra. I dettagli di questa dottrina nel Sefer Temunah sono complicati dal fatto che, secondo l'autore, la Sefirah Yasod, che è chiamata anche Shabbat, non attiva una sua shemittah manifesta. La sua shemittah rimane invece celata e opera attraverso il potere degli altri cicli cosmici. Qui, inoltre, non si fa menzione di un nuovo ciclo di creazione dopo il giubileo. Secondo i cabalisti di Gerona, le leggi della Torah relative agli anni sabbatici e al giubileo si riferiscono a questo mistero della creazione ricorrente. Una dottrina ancora più radicale nacque nel XIII secolo; secondo questa, il processo del mondo dura non meno di 18.000 giubilei (Bahya b. Asher, sulla parte della Torah Be-Ha'alokekha). Inoltre, la cronologia di questi calcoli non deve essere intesa letteralmente, poiché il Sefer ha-Temunah insegna che nel settimo millennio si inserisce un ritardo graduale e progressivo nel movimento delle stelle e delle sfere, così che le misure del tempo cambiano e divengono più lunghe in progressione geometrica. Cinquantamila "anni", quindi, diventano un periodo assai più lungo. Perciò altri cabalisti, in particolare Isaac d'Acri, giunsero a cifre veramente astronomiche per la durata totale del mondo. Alcuni cabalisti pensavano che dopo ogni "grande giubileo" incominciasse una nuova creazione ex nihilo, una concezione che passò da Bahya b. Asher a Isaac Abrabanel, e da lui a suo figlio Judah, il quale le menzionò nella famosa opera in italiano, Dialoghi di amore. Queste concezioni furono inoltre accettate molto più tardi dall'autore di Gallei Razayya (1552) e anche da Manasseh Ben Israel. Nessun cabalista postulò un numero infinito di giubilei. In contrasto con queste prospettive immani, altri sostenevano che noi non sappiamo cosa avverrà dopo il giubileo, e che ogni indagine in materia è proibita. Vi erano concezioni divergenti anche per quanto riguardava la shemittah in cui stiamo vivendo ora. In generale, la posizione accettata era quella del Sefer ha-Temunah, e cioè che noi siamo ora nella shemittah del giudizio, dominato dalla Sefirah Gevurah e dal principio della giustizia rigorosa. Di conseguenza, deve essere stato preceduto dalla shemittah di Hesed o dell'amore, che viene descritta come una specie di "età dell'oro" simile a quella della mitologia greca. Secondo un'altra concezione (ad esempio quella di Livnat ha-Sappir di Joseph Angelino), noi siamo nell'ultima shemittah del presente periodo del giubileo. Ogni shemittah ha una rivelazione della Torah, che è semplicemente l'articolazione completa del Nome Divino o Tetragrammaton; ma la comprensione di esso, cioè la combinazione delle sue lettere, differisce in ogni shemittah. Quindi, nella shemittah precedente la Torah era letta in modo completamente diverso e non conteneva le proibizioni che sono il prodotto del potere del giudizio; e così pure sarà letta in modo diverso nelle shemittot a venire. Il Sefer ha-Temunah e altre fonti contengono descrizioni della shemittah finale, che hanno un carattere nettamente utopico. Nella loro concezione, alcune anime della shemittah precedente esistono ancora nella nostra, governata da una legge universale di trasmigrazione che include anche il regno animale. Poiché il potere del giudizio sarà mitigato nelle shemittot successive, anche le leggi e i costumi saranno più permissivi. Questa dottrina lasciava ampio gioco all'immaginazione, che fu sfruttata particolarmente da Isaac d'Acri. Si deve notare che, in se stessa, la premessa che un'unica Torah potesse venire rivelata in forma diversa in ogni shemittah a quel tempo non suscitò un'opposizione aperta e fu addirittura ampliata da alcuni, i quali sostennero che la Torah veniva letta in modi diversi in ognuno dei milioni di mondi coinvolti nel complesso della creazione; una concezione espressa per la prima volta in Sha'arei Zedek di Gikatilla. Una delle manifestazioni più estreme di questa convinzione era la teoria che nella shemittah attuale una delle lettere dell'alfabeto è mancante e verrà rivelata solo in futuro. In tal modo la lettura della Torah verrà trasformata assolutamente. L'influenza del Sefer ha-Temunah e la dottrina delle shemittot fu fortissima, ed ebbe sostenitori ancora nel XVII secolo. Tuttavia, l'autore dello Zohar l'ignorò completamente, per qualche dissenso fondamentale, sebbene anch'egli ritenesse che vi era un grande giubileo della durata di 50.000 anni. Quando lo Zohar venne sempre più riconosciuto come la fonte principale e più autorevole della Cabala in tempi successivi, questo silenzio sull'argomento rafforzò l'opposizione alla dottrina. Joseph ibn Zayyah, Cordovero e Isaac Luria la respinsero come un'ipotesi erronea o superflua, almeno nella versione contenuta nel Sefer ha-Temunah, e a causa della loro influenza scomparve, più o meno, nella letteratura cabalistica successiva. Tuttavia Mordecai Yaffe, contemporaneo di Isaac Luria, insegnava ancora alla fine del XVI secolo che esistevano sequenze di shemittot, anche entro i limiti del tempo storico. La shemittah di Din ("giudizio") era cominciata esattamente al tempo in cui era stata data la Torah, mentre tutto ciò che l'aveva preceduta apparteneva alla fine della shemittah di Hesed ("amore"). Il suo utopismo visionario e la sua teoria mistica sulle manifestazioni mutevoli dell'essenza della Torah furono senza dubbio tra le ragioni per cui la dottrina delle shemittot venne così largamente accettata nei circoli cabalistici. I discepoli di Shabbetai Zevi le attribuiscono grande importanza, ponendone in risalto le implicazioni antinomistiche. Il problema del male La questione dell'origine e della natura del male fu una delle principali forze motrici della speculazione cabalistica. Nell'importanza ad essa attribuita sta una delle differenze fondamentali tra la dottrina cabalistica e la filosofia giudaica, che non diede un notevole contributo di pensiero originale al problema del male. Le soluzioni proposte dai cabalisti erano diverse. n Ma'arekhet ha-Elohut rivela l'influenza della posizione neoplatonica convenzionale, per la quale il male non ha realtà oggettiva ed è soltanto relativo. L'uomo è incapace di ricevere tutto l'influsso delle Sefirot, ed è questa inadeguatezza che sta all'origine del male, il quale ha perciò una realtà esclusivamente negativa. Il fattore determinante è lo straniamento delle cose create dalla loro fonte d'emanazione, una separazione che porta a manifestazioni di ciò che a noi appare come la forza del male. Ma quest'ultimo non ha una realtà metafisica, ed è dubbio che l'autore del Ma'arekhet ha-Elohut e i suoi discepoli credessero all'esistenza di un regno separato del male al di fuori della struttura delle Sefirot. D'altra parte, troviamo già nel Sefer ha-Bahir una definizione della Sefirah Gevurah come "la mano sinistra del Santissimo, che sia benedetto", e come "una qualità il cui nome è male", che ha molte ramificazioni nelle forze del giudizio, i poteri coercitivi e limitanti nell'universo. Già al tempo di Isaac il Cieco questo portò alla conclusione che doveva esservi necessariamente una radice positiva del male e della morte, che era controbilanciata nell'unità della Divinità dalla radice del bene e della vita. Durante il processo di differenziazione di queste forze al di sotto delle Sefirot, tuttavia, il male diveniva sostanziato come una manifestazione separata. Si sviluppò quindi la teoria che vedeva la fonte del male nella crescita sovrabbondante del potere del giudizio, resa possibile dal sostanziamento e dalla separazione della qualità del giudizio dalla sua abituale unione con la qualità dell'amore e della bontà. Il puro giudizio, non temperato da influssi mitiganti, produceva da se stesso la sitra ahra ("l'altra parte"), come un recipiente che viene riempito fino a traboccare riversa al suolo il liquido superfluo. Questa sitra ahra, il regno delle emanazioni tenebrose e dei poteri demonici, quindi non è più una parte organica del Mondo della Santità e delle Sefirot. Sebbene sia emersa da uno degli attributi di Dio, non può essere una parte essenziale di Lui. Questa concezione divenne dominante nella Cabala tramite gli scritti dei cabalisti di Gerona e lo Zohar. Secondo gli "gnostici" della Castiglia e, in una versione diversa, anche nello Zohar, esiste una gerarchia completa dell"'emanazione della sinistra" che è il potere dell'impurità attivo nella creazione. Tuttavia, questa realtà oggettiva perdura solo in quanto continua a ricevere nuova forza dalla Sefrah Gevurah, che è nel santo ordine delle Sefrot, e in particolare solo finché l'uomo la ravviva e la fortifica con le sue azioni peccaminose. Secondo lo Zohar, questa sitra ahra ha dieci Sefirot ("corone"); e una concezione simile, benché con parecchie variazioni e l'aggiunta di certi elementi mitici, è espressa negli scritti di Isaac ha-Kohen e in Ammud ha-Semali dal suo allievo Moses di Burgos. Isaac ha-Kohen insegnava che i primi mondi, che furono distrutti, erano tre emanazioni tenebrose, e perirono a causa della forza del Male. Anche nello Zohar viene implicato che il male nell'universo ebbe origine dai resti dei mondi che furono distrutti. La forza del male è paragonata alla corteccia (kelippah) dell'albero dell'emanazione, un simbolo che ebbe origine con Azriel in Gerona e che divenne molto comune dallo Zohar in poi. Alcuni cabalisti chiamano la totalità dell'emanazione della sinistra "l'albero esterno" (ha-ilan ha-hizon). Un'altra associazione, che si trova nei cabalisti di Gerona e che li segue anche nello Zohar, è quella con "il mistero dell'Albero della Conoscenza". L'Albero della Vita e l'Albero della Conoscenza erano collegati in perfetta armonia fino a quando Adamo venne a separarli, dando così sostanza al male, il quale era contenuto nell'Albero della Conoscenza del Bene e del Male e ora si materializzò nell'istinto del male (yezer ha-ra). Quindi fu Adamo che attivò il male potenziale celato nell'Albero della Conoscenza, separando i due alberi e separando inoltre l'Albero della Conoscenza dal suo frutto, ora distaccato dalla sua fonte. Questo evento è chiamato metaforicamente "il taglio dei germogli" (kizzuz ha-neti'ot) ed è l'archetipo di tutti i grandi peccati menzionati nella Bibbia, il cui comune denominatore era l'introduzione della divisione nell'unità divina. L'essenza del peccato di Adamo fu che introdusse "la separazione sopra e sotto", in ciò che doveva essere unito, una separazione della quale ogni peccato è fondamentalmente una ripetizione, a parte i peccati che riguardano la magia e la stregoneria, che secondo i cabalisti uniscono ciò che dovrebbe restare separato. In effetti, questa concezione tende anch'essa a sottolineare il potere del giudizio contenuto nell'Albero della Conoscenza del potere dell'amore e della pietà contenuto nell'Albero della Vita. Quest'ultimo riversa il suo influsso abbondantemente, mentre il primo è una forza restrittiva, con la tendenza a diventare autonoma; e può farlo sia in conseguenza delle azioni dell'uomo, sia per un processo metafisico nei mondi superiori. Entrambe le concezioni appaiono nella letteratura cabalistica, senza che tra esse venga operata una chiara distinzione. Il male cosmico derivante dalla dialettica interna del processo d'emanazione qui non è differenziato dal male morale prodotto dalle azioni umane. Lo Zohar tenta di unire questi due regni, postulando che la disposizione alla corruzione morale, al male sotto forma di tentazione umana, deriva dal male cosmico che è il regno della sitra ahra (3:163a). La differenza fondamentale tra lo Zohar e gli scritti degli gnostici della Castiglia stava nel fatto che questi ultimi indulgevano in personificazioni esagerate delle forze di questo regno, facendo talvolta ricorso a precedenti credenze demonologiche, e chiamando le potenze dell' "emanazione della sinistra" con nomi propri, mentre l'autore dello Zohar si atteneva generalmente a categorie più impersonali, con l'eccezione delle figure di Samael - l'equivalente cabalistico di Satana - e della sua compagna Lilith (vedasi p. 357 e 13 387), alle quali assegnava un ruolo centrale nel regno del male. Un'altra deviazione da questa regola è la descrizione dettagliata dei "palazzi dell'impurità" e dei loro custodi nel suo commento a Esodo 38-40 (2:262-9), che segue una descrizione parallela dei "palazzi della santità". Nel simbolismo dello Zohar concernente la sitra ahra, vi sono numerosi temi talora in conflitto. Le kelippot ("gusci" o "bucce" di male) sono talvolta intese neoplatonicamente come gli ultimi anelli della catena dell'emanazione dove tutto si trasforma in tenebra, come "la fine dei giorni" nella metafora dello Zohar. Altre volte, esse vengono definite semplicemente come intermediarie tra i mondi superiori e inferiori, e come tali non vengono necessariamente viste come malefiche. Anzi, ogni principio mediante è un "guscio" dalla prospettiva di ciò che sta al di sopra, ma è un "nocciolo" dal punto di vista di ciò che sta al di sotto (Zohar l:l9b). In altre decisioni, il regno del male è delineato come il naturale prodotto di rifiuto di un processo organico, ed è paragonato al "sangue cattivo", a un ramo amaro dell'albero dell'emanazione, ad acque contaminate (2:167b), alla scoria che rimane dopo che è stato raffinato l'oro (hittukhei ha-zahau), o alla feccia del vino buono. Queste descrizioni della sitra ahra nello Zohar sono particolarmente ricche di immagini mitiche. L'identificazione del male con la materia fisica, sebbene ricorra talvolta nello Zohar e in altri libri cabalistici, non divenne mai una dottrina accettata. L'equivoco della filosofia medievale tra la concezione aristotelica e quella platonico-emanatista della materia è sentito altrettanto fortemente nella Cabala, sebbene solo di rado vi siano riferimenti al problema del modo in cui è emanata la materia. In generale, la questione della natura della materia non è centrale nella Cabala, dove l'interesse fondamentale era piuttosto la questione del modo in cui il Divino era riflesso nella materia. Discussioni occasionali della natura della materia da un punto di vista neoplatonico si possono già trovare nella letteratura del circolo del Sefer ha-Iyyun. Cordovero, nel suo Rabbati Elimah, spiega l'emanazione della materia dallo spirito per mezzo di un trattamento dialettico del concetto di forma che era comune nella filosofia medievale. Secondo lo Zohar vi è una scintilla di santità persino nel regno dell'"altra parte, sia proveniente da un'emanazione dell'ultima Sefirah, sia come risultato indiretto del peccato dell'uomo, perché come l'adempimento di un comandamento rafforza la parte della santità, un atto peccaminoso rivitalizza la sitra ahra. I regni del bene e del male sono in una certa misura commisti, e la missione dell'uomo è di separarli. In contrasto con questa concezione che riconosce l'esistenza metafisica del male, un punto di vista alternativo ha trovato la sua espressione fondamentale in Gikatilla, il quale definì il male come un'entità che non era nel suo posto legittimo: "ogni atto di Dio, quando è nel posto ad esso accordato alla creazione, è bene; ma quando si volge e lascia il suo posto, è male". Queste due concezioni - quella dello Zohar, che riconosce al male un'esistenza attuale come fuoco dell'ira e della giustizia di Dio, e quella di Gikatilla, che gli attribuisce solo un'esistenza potenziale che nulla può attuare, se non le azioni degli uomini - ricorrono in tutta la letteratura cabalistica senza che l'una riporti la vittoria sull'altra. Anche nelle diverse versioni della dottrina lurianica, le due concezioni sono perpetuamente in conflitto. (Sul problema del male nella Cabala lurianica si veda più sotto.) Uno sviluppo successivo e finale riguardo il problema del male si ebbe nella dottrina degli shabbatei, formulata particolarmente negli scritti di Nathan di Gaza. Secondo lui, vi erano fin dall'inizio due luci in Ein-Sof, "la luce che conteneva il pensiero" e "la luce che non conteneva il pensiero". La prima aveva in sé, fin dal principio, il pensiero di creare i mondi, mentre nella seconda tale pensiero non c'era, e tutta la sua essenza tendeva a rimanere occulta e a restare in se stessa senza emergere dal mistero di Ein-Sof. La prima luce era interamente attiva e la seconda interamente passiva e immersa nel profondo di se stessa. Quando il pensiero della creazione sorse nella prima luce, questa si contrasse per far spazio alla creazione, ma la luce senza pensiero, che non aveva parte nella creazione, rimase al suo posto. Poiché non aveva altra finalità che rimanere in se stessa, resistette passivamente alla struttura dell'emanazione che la luce contenente il pensiero aveva costruito nel vuoto creato dalla propria contrazione. La resistenza trasformò la luce senza pensiero nella suprema fonte del male nell'opera della creazione. L'idea di un dualismo tra materia e forma quale radice del bene e del male assume qui un aspetto originalissimo: la radice del male è un principio esistente nello stesso Ein-Sof, che si tiene distaccato dalla creazione e cerca di impedire che vengano attuate le forme della luce contenente il pensiero, non perché sia malefico per natura, ma solo perché il suo unico desiderio è che nulla debba esistere al di fuori di Ein-Sof. Rifiuta di ricevere in sé la luce che contiene il pensiero, e di conseguenza si sforza di frustrare e di distruggere tutto ciò che è costruito da quella luce. Quindi il male è il risultato di una dialettica tra due aspetti della luce dello stesso Ein-Sof. La sua attività nasce dalla sua opposizione al cambiamento. L'affinità di questa idea con la concezione neoplatonica della materia quale principio del male appare evidente. La lotta tra le due luci si rinnova ad ogni fase della creazione, e non avrà termine fino al tempo della redenzione finale, quando la luce che contiene il pensiero penetrerà completamente la luce senza pensiero e vi delineerà le sue forme sante. La sitra ahra dello Zohar non è altro che la totalità della struttura che la luce senza pensiero è costretta a produrre quale risultato di questa lotta. Via via che il processo della creazione prosegue, la lotta diviene più acuta, perché la luce del pensiero, per sua stessa natura, vuole penetrare tutto lo spazio lasciato vuoto dalla sua contrazione e non lasciare nulla d'intoccato in quel regno primordiale e senza forma che Nathan chiama golem fhyle senza forma). La premessa che i principi del bene e del male esistono insieme nella mente suprema di Dio e che non vi è altra possibile soluzione logica al problema del male in un sistema monoteistico, fu condivisa da Leibnitz, il quale affrontò il problema in modo simile, circa 40 dopo, nella sua Théodicée. Benché non vi sia il dubbio che in maggioranza i cabalisti ritenessero che il male avesse un'esistenza reale a vari livelli, anche se operava attraverso la negazione, essi erano divisi nelle diverse visioni del problema escatologico di come avrebbe avuto fine nel mondo e nell'uomo. Il potere del male verrebbe totalmente distrutto nel tempo a venire? O forse sopravviverebbe, ma rimarrebbe privo di ogni possibilità d'influenzare il mondo redento, quando il bene e il male, che si erano mescolati, fossero finalmente separati di nuovo? O forse il male verrebbe ritrasformato in bene? La concezione che nel mondo futuro, quando ciò avverrà, tutte le cose ritorneranno al santo stato originale, ebbe sostenitori eminenti dai tempi dei cabalisti di Gerona in poi. Nahmanides parlava del "ritorno di tutte le cose alla loro vera essenza", un concetto forse tratto dall'escatologia cristiana e dalla dottrina dell'apokatasis (reintegrazione); ed egli intendeva con questo la riascesa di ogni essere creato alla sua fonte nell'emanazione, il che non avrebbe più lasciato spazio per la continuazione dell'esistenza del regno del male nella creazione o del potere dell'istinto malefico nell'uomo. Sembrerebbe, in effetti, che tale ritorno fosse connesso nella sua concezione al grande giubileo, secondo la dottrina delle shemittot. Questa posizione accettava la realtà del male nelle diverse shemittot, in ogni shemittah secondo la sua natura specifica. In generale, le argomentazioni cabalistiche circa il fato finale del male si limitavano al tempo della redenzione e al giorno del giudizio. L'opinione prevalente era che il potere del male sarebbe stato distrutto e sarebbe scomparso, poiché non vi sarebbe più stata alcuna giustificazione per la continuazione della sua esistenza. Tuttavia, altri sostenevano che il regno del male sarebbe sopravvissuto quale luogo di punizione eterna per i malvagi. Una qualche incertezza tra queste due convinzioni si trova tanto nello Zohar quanto nella Cabala lurianica. Nel complesso, lo Zohar sottolinea che il potere delle kelippot verrà "spezzato" nel tempo a venire, e in vari passi afferma chiaramente che la sitra ahra "sparirà dal mondo" e la luce della santità "risplenderà senza ostacoli". Gikatilla afferma, d'altra parte, che nel tempo a venire "Dio prenderà l'attributo di Ipunirel la sfortuna [cioè il potere del male] in un luogo dove non potrà essere maligna" (Sha'arei Orah, cap. 4). Quanti sostenevano la dottrina che il male sarebbe ridivenuto bene affermavano che lo stesso Samael si sarebbe pentito e si sarebbe trasformato in un angelo di santità, il che avrebbe causato automaticamente la scomparsa del regno della sitra ahra. Questa concezione è espressa nel libro Kaf ha-Ketoret (1500) e particolarmente nell'Asarah Ma'amarot di Menahem Azariah Fano; ma è contrastata negli scritti di Vital, il quale assunse una posizione meno liberale. Una potente affermazione simbolica del futuro ritorno di Samael alla santità, particolarmente diffusa a partire dal secolo XVII, fu la concezione che il suo nome sarebbe mutato, e la lettera mem significante morte (mavet) sarebbe caduta per lasciare Sa'el, uno dei 72 Nomi sacri di Dio. La dottrina della creazione nella Cabala lurianica L'unico fattore comune a tutte le dottrine cabalistiche dell'emanazione e della creazione, prima di Isaac Luria, era la fede in uno sviluppo interiore unidirezionale che portava dai primi impulsi di Ein-Sof verso la creazione per mezzo di fasi più o meno continue. Questo processo tendeva ad assumere forme più complesse e a travalicare la dottrina generale delle dieci Sefirot per approfondire la dinamica interna delle stesse Sefirot, o per descrivere il mondo dell'emanazione mediante altri sistemi simbolici, come quello dei Nomi di Dio in evoluzione e congiunzione reciproca. Ma il tema fondamentale rimaneva sempre lo stesso: la manifestazione progressiva di Ein-Sof, articolata tramite i processi dell'emanazione e della creazione. Anche la formulazione classica di questa dottrina nei libri di Cordovero, con tutta la sua complessità dialettica, non diverge da questa linea fondamentale. Per contrasto, troviamo una svolta decisiva nella cosmogonia lurianica, la cui concezione drammatica introdusse cambiamenti vastissimi nella struttura del pensiero cabalistico. I dettagli di questo sistema sono estremamente complessi anche quando vengono esposti con chiarezza, come ad esempio per quanto riguarda gli atti principali del dramma della creazione, per non parlare poi delle sue numerose oscurità che forse soltanto la meditazione mistica può comprendere. La dottrina lurianica creò un enorme abisso tra Ein-Sof e il mondo dell'emanazione, che negli insegnamenti cabalistici precedenti erano strettamente legati, e quindi procedette a colmarlo con atti divini di cui la Cabala precedente non sapeva nulla, sebbene spesso possano venire compresi meglio sullo sfondo di motivi più antichi. Le principali esposizioni delle fasi della creazione che si trovano nelle diverse versioni della dottrina di Luria, date negli scritti dei suoi discepoli e dei loro allievi (su queste fonti, si veda la sezione dedicata a Luria, p. 422), sono sostanzialmente simili, ma variano nell'enfasi e nelle interpretazioni speculative date al significato dei principali atti della creazione Si può anzi dire che con Isaac Luria si inaugurò un nuovo periodo di speculazione cabalistica che va distinta quasi sotto ogni aspetto dalla Cabala precedente. Questa nuova Cabala era basata sue tre dottrine principali che ne determinavano il carattere: zimzum; la "rottura dei vasi" (sheuirah); e tikkun. Zimzum ("contrazione") La fonte principale di questa dottrina si trova in un antico frammento della cerchia del Sefer ha-Iyyun (una prefazione a un commento sulle "32 vie della sapienza" in un manoscritto di Firenze) che parla di un atto di contrazione divina che precedette le emanazioni: "In qual modo Egli produsse e creò il mondo? Come un uomo che raccoglie e contrae (mezamzem) il suo respiro [Shem Tov b. Shem Tov scrive: "e contrae Se stesso''] in modo che il più piccolo possa contenere il più grande, così Egli contrasse la Sua luce nello spazio di una mano, secondo la Sua misura, e il mondo rimase nella tenebra, e in quella tenebra Egli tagliò i macigni e scolpì le rocce". Qui ci si riferisce alla creazione di Keter, che si riteneva evoluto dall'atto di contrazione che lasciò posto alla tenebra, lo stesso Keter. Questa era in effetti anche la concezione di Nahmanides nel suo commento al Sefer Yezirah, ma solo con Luria l'idea fu elevata a principio cosmologico fondamentale. La principale originalità di questa dottrina lurianica stava nella nozione che il primo atto di Ein-Sof non era un atto di rivelazione e di emanazione, ma, al contrario, uno di occultamento e di limitazione. I simboli qui impiegati indicano un punto di partenza estremamente naturalistico per comprendere il principio della creazione, e la loro audacia li rende problematici. Non è sorprendente, quindi, che molti punti importanti della dottrina di Luria, conservata nella formulazione originale nei testi di Luria pervenuti fino a noi e nella versione di Joseph Ibn Tabul, venissero offuscati (come in Ez Hayyim di Vital) o completamente soppressi (come in Kanfei Yonah di Moses Jonah). Il punto di partenza di questa teoria è l'idea che l'essenza stessa di Ein-Sof non lascia spazio alcuno per la creazione, perché è impossibile immaginare un'area che già non sia Dio, dato che questo costituirebbe una limitazione della Sua Infinità. (Questo problema non era motivo di preoccupazione per lo Zohar né per Cordovero.) Di conseguenza, un atto di creazione è possibile solo tramite "l'entrata di Dio in Se stesso", cioè tramite un atto di zimzum, con il quale Egli si contrae, e quindi rende possibile l'esistenza di qualcosa che non è Ein-Sof. Qualche parte della Divinità, perciò, si ritrae e lascia spazio, per così dire, affinché entri in gioco il processo creativo. Tale atto del ritrarsi deve precedere ogni emanazione. Diversamente dall'uso midrashico della parola (mezamzem) che parla di Dio il quale si contrae nel Santo dei Santi nella dimora dei cherubini, la contrazione cabalistica ha il significato inverso: non è la concentrazione della potenza di Dio in un luogo, bensì il suo ritrarsi da un luogo. Il luogo da cui Egli si ritrae è semplicemente "un punto" in confronto alla Sua infinità, ma dal nostro punto di vista comprende tutti i livelli d'esistenza, spirituali e corporei. Questo luogo è uno spazio primordiale, ed è chiamato tehiru, un termine tratto dallo Zohar (1:15a). Luria, inoltre, risponde all'interrogativo di come ebbe veramente luogo questo zimzum. Prima dello zimzum, tutte le forze di Dio erano raccolte nel Suo essere infinito, ed equilibrate senza alcuna separazione tra esse. Di conseguenza, anche le forze di Din ("giudizio") vi erano raccolte, ma non erano distinguibili come tali. Quando fu posta in essere la prima intenzione di creare, Ein-Sof raccolse le radici di Din, che in precedenza erano celate in Lui, in un luogo dal quale s'era allontanato il potere della misericordia. In questo modo, si concentrò il potere di Din. Perciò lo zimzum fu un atto di giudizio e di autolimitazione, e il processo così iniziato doveva continuare mediante una progressiva estrazione e catarsi del potere di Din rimasto nello spazio primordiale, dove era mescolato confusamente ai resti della luce di Ein-Sof rimasti anche dopo 1O zimzum, come le gocce d'olio che rimangono in un recipiente dopo che è stato vuotato. Questo residuo fu chiamato reshimu. In questo miscuglio incoato, che è l'aspetto hylico del futuro universo, discende dall'Ein-Sof primordiale, che abbraccia lo spazio, una yod, la prima lettera del Tetragrammaton che contiene una "misura cosmica" o kav ha-middah, cioè il potere di formazione e organizzazione. Questo potere può essere visto come appartenente all'attributo della traboccante misericordia (Rahamim). La creazione, quindi, è concepita come una duplice attività dell'Ein-Sof emanante, seguita allo zimzum: l'Emanatore agisce come substrato ricettivo tramite la luce del reshimu, e come una forza datrice di forma che discende dall'essenza di Ein-Sof per apportare ordine e struttura alla confusione originale. Perciò, tanto il soggetto quanto l'oggetto del processo di creazione hanno la loro origine in Dio, ma furono differenziati l'uno dall'altro nello zimzum. Questo processo è espresso nella creazione di "vasi " (kelim) in cui l'essenza divina rimasta nello spazio primordiale viene precipitata: dapprima ciò avviene ancora hylicamente, nel vaso chiamato "aria primordiale" (avir kadmon), ma in seguito assume una forma più chiara nel vaso chiamato "uomo primordiale" (Adam Kadmon), che è creato da un innalzarsi e abbassarsi della "misura cosmica", che serve da nesso permanente tra Ein-Sof e lo spazio primordiale dello zimzum. Questa versione della dottrina dello zimzum fu notevolmente oscurata da Vital, sebbene qualche allusione ad essa rimanga sparsa qua e là nelle sue opere. All'inizio del suo Ez Hayyim, tuttavia, vi è un'esposizione molto più semplice. Senza menzionare né il raccogliersi delle radici di Din né il reshimu, egli descrive un processo mediante il quale, come risultato dell'atto della contrazione divina si formò un vuoto nel mezzo di Ein-Sof, in cui emanò un raggio di luce che riempì tale spazio con dieci Sefirot. Poiché lo zimzum ebbe luogo egualmente da ogni parte, il vuoto risultante era di forma circolare o sferica. La luce che vi entrò in linea retta (dopo lo zimzum, quindi, ha due aspetti fin dall'inizio: si dispone tanto in centri concentrici quanto in una struttura unilineare, che è la forma di Adam Kadmon le-khol hakedumim, "l'uomo primordiale che precedette tutti gli altri primordiali". La forma di un cerchio e di un uomo sono perciò le due direzioni in cui si sviluppa ogni cosa creata. Come il primo movimento nella creazione fu in realtà composto di due movimenti - l'ascesa di Ein-Sof nelle profondità di se stesso e la sua parziale discesa nello spazio dello zimzum - questo duplice ritmo è una caratteristica necessariamente ricorrente di ogni fase del processo universale. Tale processo opera tramite la duplice pulsazione del movimento alternativo dell'espansione di Ein-Sof e del suo desiderio di ritornare a se stesso, hitpashtut ("egresso") e histalkut ("regresso"), come lo chiamano i cabalisti. Ogni movimento di regresso verso la fonte ha in sé qualcosa di un nuovo zimzum. Questo duplice aspetto del processo di emanazione è tipico della tendenza dialettica della Cabala lurianica. Ogni fase dello sviluppo della luce emanante non ha soltanto un aspetto circolare e lineare, ma anche i modi di una "luce interiore" entro i vasi che sono prodotti e di una "luce circondante", nonché i modi di azmut ve-kelim ("sostanza e vasi") e di "luce diretta e luce riflessa", che sono tratti dagli insegnamenti di Cordovero. Lo speciale interesse-di Luria per la struttura dei mondi spirituali e la loro emergenza tramite processi dialettici è espresso anche nella distinzione da lui operata tra la "totalità" (kelalut) strutturale delle forze dell'emanazione e l' "individualità" (peratut) strutturale di ognuno dei poteri attivi in una data struttura complessiva. Le nostre fonti più antiche della dottrina dello zimzum mostrano chiaramente che Luria non operò una differenziazione tra la sostanza di EinSof e la sua luce, in entrambe le quali avvenne lo zimzum. La distinzione venne fatta solo quando sorsero problemi relativi all'armonizzazione tra questa dottrina e l'idea dell'immutabilità di Dio. Questo desiderio di coerenza ebbe due conseguenze: 1) una differenziazione tra la sostanza di Ein-Sof e la sua luce (cioè la sua volontà, che permise di sostenere che lo zimzum avvenne soltanto nella seconda, e non nel suo "possessore"; 2) l'insistenza sul fatto che il concetto di zimzum non doveva essere preso alla lettera, essendo soltanto figurativo e basato su una prospettiva umana. Queste due convinzioni furono sottolineate particolarmente nella scuola di Israel Sarug, i cui insegnamenti al riguardo erano basati su una combinazione della redazione della dottrina lurianica fatta da Ibn Tabul e di quella di Moses Jonah nella sua opera Kanfei Yonah, che non fa menzione dello zimzum, ma parla soltanto di un'emanazione di un punto primevo comprendente tutte le Sefirot, senza addentrarsi nei dettagli del modo in cui queste ultime pervennero ad esistere. A questo, Sarug aggiunse idee originali che ebbero grande influenza sulla Cabala dei tempi successivi; un sommario si può trovare nel suo libro Limmudei Azilut, in seguito attribuito a Vital. Secondo la sua opinione, lo zimzum fu preceduto da processi di natura ancor più interiore entro lo stesso Ein-Sof. In principio, Ein-Sof si compiacque della sua autosufficienza autarchica, e questo "piacere" produsse una sorta di "scossa" (ni'anu'a) che era il movimento di Ein-Sof entro se stesso. Poi, questo movimento "da se stesso a se stesso", destò la radice di Din, che era ancora indistinguibilmente combinato con Rahamim. Come risultato di questa "scossa", "punti primordiali" furono "incisi" nel potere di Din, divenendo così le prime forme che lasciarono il loro segno nell'essenza di Ein-Sof. I contorni di questa "incisione" erano quelli dello spazio primordiale, che doveva venir posto in essere quale prodotto finale di questo processo. Quando la luce di Ein-Sof al di fuori di questa "incisione" agì sui punti interni, questi ultimi passarono dallo stato potenziale a quello attuale, e fu posto in essere la Torah primordiale, il mondo ideale intessuto nella sostanza dello stesso Ein-Sof. Questa Torah, il movimento linguistico di Ein-Sof in se stesso, è chiamata malbush ("veste"), benché in effetti sia inseparabile dalla sostanza divina e sia in essa intessuto "come la cavalletta, il cui indumento è parte di se stessa", per usare il linguaggio del Midrash. Sarug descrisse dettagliatamente la struttura di questa "veste". La sua lunghezza era formata dagli alfabeti del Sefer Yezirah e aveva 231 "porte" (cioè possibili combinazioni delle 22 lettere dell'alfabeto ebraico) che formeranno l'archistruttura del pensiero divino. La sua larghezza era composta da un'elaborazione del Tetragrammaton secondo il valore numerico delle quattro possibili orto(Jrafie dei nomi interamente scritti delle sue lettere, cioè il "nome" 45, il "nome" 52, il "nome" 72 e il "nome" 63, che erano la "trama" e l'"ordito" situati in origine nell'orlo della veste. Questa Torah primordiale conteneva in potenza tutto ciò che poteva essere rivelato tramite la Torah da dare sulla tela. In effetti si trattava di una versione cabalistica del mondo delle idee platonico. La grandezza della veste era doppia rispetto all'area necessaria per la creazione di tutti i mondi. Dopo essere stata intessuta, fu piegata in due: una metà di essa ascese, e le sue lettere si posero dietro le lettere dell'altra metà. I "nomi" 45 e 52 furono disposti dietro i "nomi" 72 e 63, e di conseguenza l'ultima yod del "nome" 63 rimase senza compagna nella veste piegata. Questo piegamento costituì una contrazione (zimzum) della veste su metà della sua area, e, con la rimozione di metà della stessa dal posto precedente nell'Ein-Sof si creò qualcosa che non era più partecipe della sua sostanza. Tutto ciò che rimase in questo quadrato primordiale fu la yod non abbinata che assunse ora il compito dinamico di trasferire la luce di Ein-Sof, la quale si diffondeva in cerchi, all'area prodotta dall'atto di zimzum, come nella versione di Ibn Tabul. L'area vuota prodotta dal piegarsi della veste non è un vero vuoto, ma è semplicemente priva della veste o della luce della sua sostanza. Tuttavia la legge occulta dell'intera creazione che è inscritta entro l'"incisione" di Ein-Sof è da questo momento attiva e si esprime tramite tutti i processi successivi, mediante il potere di cui è investita questa yod intrusa. Nello spazio vuoto sono resi manifesti tanto il residuo (reshimu) della rimanente luce della sua essenza e parte della luce di Ein-Sof, che agisce come l'anima che sostiene tutto e senza la quale tutto ritornerebbe come prima a Ein-Sof. Anche quest'anima si contrae in un punto, che non è altro che 1'anima mundi dei filosofi. Inoltre, i vari movimenti dello zimzum e le ascese e le discese di yod producono ancora altri punti nello spazio che costituiscono il primordiale "mondo dei punti" (olam ha-nekudot), che in questa fase non ha ancora una struttura definita e in cui le luci divine esistono in uno stato atomizzato, puntiforme. Secondo Sarug, non una ma molte contrazioni avvengono nel luogo del reshimu, e quindi successivamente. Altrove egli afferma che vi sono due specie di reshimu, uno della sostanza divina e una della veste piegata, e che soltanto il secondo è articolato nel mondo dei punti. Solo con il ritorno della yod, che ascende a Ein-Sof e da esso ridiscende, viene creata quella luce superna nello spazio primordiale che è conosciuta come tehiru o materia primordiale di ogni essere. La complicazione dialettica evidente nelle esposizioni di Sarug attesta l'incertezza e l'eccitazione causate dalla nuova idea di zimzum, L'importanza del potere di Din negli atti che portano alla sua incorporazione nella materia primordiale viene obliterata in misura assai maggiore nella esposizione di Sarug che in quella di Ibn Tabul, sebbene non sparisca completamente. La contraddizione insita nelle concezioni opposte dello spirito primordiale rimasto vuoto, ora come un quadrato ed ora come una sfera creata dall'attività della yod emanante, poneva nell'opera di Sarug un problema addizionale che non si trova altrove e che non aveva una soluzione coerente. In ogni caso, le descrizioni estremamente naturalistiche di queste esposizioni erano attenuate dall'insistenza sul loro carattere simbolico. Uno dei più interessanti tra gli ulteriori tentativi speculativi di spiegare le teorie dello zimzum, che continuarono a venir compiuti per pie di 200 anni, è l'ardita interpretazione di Shabbetai Sheftel Horowitz nella sua Shefa Tal. Horowitz tentò di revisionare ancora una volta la dottrina dello zimzum e di considerarla esclusivamente un racconto simbolico dell'emanazione della Sefirah Keter. Seguendo l'esposizione di Tabul e di Sarug, pur senza menzionare il malbush ("veste"), egli cercò di equiparare le diverse fasi nello, zimzum con quelle che egli considerava le fasi parallele nell'emanazione di Keter negli insegnamenti di Cordovero. L'emergenza del tehiru non era più prodotta dallo zimzum, bensì dall'emanazione della luce di Ein-Sof dall'interno dell'essenza dello stesso Ein-Sof. Solo in questo tehiru emanato aveva luogo una contrazione della luce di Ein-Sof, un residuo della quale si mescolava con parte della sostanza emanata per formare il reshimu. Così", l'anima venne posta in essere come punto supremo nella Sefirah Keter. Questa trasformazione dello zimzum in un secondo atto divino seguito a un atto originale d'emanazione rese la dottrina nuovamente compatibile con Cordovero, il quale aveva anch'egli riconosciuto l'esistenza di uno zimzum entro la catena delle emanazioni, in cui il potere del Creatore veniva inevitabilmente ristretto in modo progressivo. Quindi, l'interpretazione di Horowitz eliminata la spinta paradossale che era insita nella dottrina dello zimzum fin dalla sua concezione e ne costituiva anzi l'elemento più originale. A partire dal secolo XVII, le opinioni dei cabalisti si divisero per quanto riguardava la dottrina dello zimzum. Doveva essere inteso letteralmente? Oppure doveva essere inteso simbolicamente come un evento nelle profondità del Divino, che la mente umana poteva descrivere solo in un linguaggio figurativo? Il problema fu il pomo della discordia nelle molte discussioni che ebbero luogo tra i cabalisti e coloro che, avendo tendenze più filosofiche, disapprovavano la speculazione cabalistica, benchè il concetto di zimzum fosse in realtà molto vicino alle idee che più tardi si svilupparono nelle moderne filosofie idealiste, come quelle di Schelling e di Whitehead. In seguito all'esposizione della dottrina fatta dall'autore di Emek ha-Melekh molti cabalisti erano inclini a prendere lo zimzum alla lettera, una concezione che divenne popolare soprattutto tra gli shabbatei, il cui credo rendeva impossibile un'interpretazione non letterale. Questa posizione fu espressa chiaramente negli scritti di Nathan di Gaza e Nehemiah Hayon. Fu la decisa difesa dell'interpretazione letteralista fatta da Hayon, infatti, che indusse Joseph Ergas a sottolineare ancora più cautamente la concezione di Abraham Herrera, per il quale la dottrina dello zimzum era simbolica. La disputa, legata anche alla dottrina antropomorfista degli shabbatei in generale, scoppiò nel 1714 e fu riassunta da Ergas nel suo Shomer Emunim (1736) che è la nostra fonte più importante per l'interpretazione fondamentale che riportò la dottrina lurianica al suo punto di partenza cordoverista. Ormai l'aspetto shabbateo della controversia non costituiva più un fattore, tanto che la posizione letteralista venne nuovamente difesa anche nel campo dei cabalisti ortodossi, il cui portavoce principale fu Immanuel Hai Ricchi nel suo Yosher Leuau (1737). Il sistema di Ergas, d'altra parte, venne ampliato nell'Ammud ha-Avodah di Baruch Kosover (scritto intorno al 1763, ma stampato solo nel 1854). Ergas influenzò grandemente la letteratura hasidica, soprattutto gli insegnamenti Habad di Shneur Zalman di Lyady e del suo allievo Aaron ha-Levi di Staroselye, il quale dedico all'argomento una profonda discussione dialettica nel suo Avodat ha-Levi (1862). In Tanya, Shneur Zalman sostenne che il Gaon di Vilna intendeva erroneamente zimzum alla lettera; ma non è certo che fosse giustificato nell'interpretare in tal modo l'insegnamento del Gaon. Il sistema di Aaron ha-Levi è basato sulla premessa di un duplice zimzum, Il primo zim,zum, chiamato anche beki'ah ("penetrazione"), è una contrazione nella sostanza di Ein-Sof che rende possibile l'apparizione dell'Infinito in generale e che trascende completamente la nostra comprensione. Esso porta a una rivelazione della luce di Ein-Sof, ma è così" insondabile che non ve ne è la minima menzione in Ez Hayyim di Hayyim Vital. È soltanto dopo questa beki'ah, concepita come un "balzo" dall'Ein-Sof assoluto all'Ein-Sof relativo, che avviene la seconda contrazione, mediante la quale la luce Infinita di Ein-Sof viene fatta apparire finita. In effetti, tuttavia, il finito non ha esistenza, ed è reso possibile solo mediante l'emissione di una linea o di un raggio dall'Infinito. Il concetto catartico di zimzum menzionato piùsopra fu sviluppato indipendentemente negli scritti di Moses Hayyim Luzzatto, il quale riteneva che l'importanza cruciale dello zimzum stesse nel fatto che il Creatore "vinse, per così" dire, la Sua legge innata della bontà nella creazione, affinchè le Sue creature non fossero rese perfette, anche dal loro punto di vista, e tanto più dal punto di vista di Dio". La radice metafisica del male è insita nella privazione stessa comportata dall'atto dello zimzum, e tutto lo sviluppo degli esseri creati dipende dal fatto che essi ricevono una possibilità di rendersi perfetti secondo i loro meriti e di separare il potere del male dal potere del bene. In sostanza, possiamo dire che i cabalisti, i quali scrivevano tenendo d'occhio i filosofi, tendevano a sottolineare la natura non letterale dello zimzum, mentre quelli che non amavano la filosofia aristotelica presentavano la dottrina letteralmente e senza ornamenti. Non dobbiamo neppure trascurare lo stretto nesso, nella concezione di molti cabalisti, tra lo zimzum e l'esistenza della materia hylica, che servì come base per l'intera creazione. Persino lo stesso Hayyim Vital definì" l'Infinito come il Nulla, che solo mediante lo zimzum divenne manifesto in Keter, la materia hylica di tutta la creazione (Ez, Hayyim, cap. 42, par. 1). Altri collegavano l'esistenza dell'hyle al reshimu, lo spazio primordiale, o l'aria primordiale resa manifesta mediante lo zimzum. Una speciale discussione dell'argomento si trova in, Zuf Novelot di Eliakim b. Abraham Hart (Londra, 1799), che riassume l'elaborazione assai piùlunga in Nouelot Hokhmah di Joseph Solomon Delmedigo (1631). Fine parte 1. Sholem. La cabala. Parte seconda. La rottura dei vasi. Il punto in Ein-Sof rimasto vuoto nell'atto dello zimzum fu successivamente colmato da una proliferazione di parole e di eventi ontologici, ognuno dei quali, nella Cabala lurianica, tende a divenire il soggetto di una descrizione di complessità estrema. Inoltre, queste descrizioni variano nelle diverse redazioni di Ibn Tabul, Moses Jonah, e Hayyim Vital, e versioni estremamente contraddittorie si possono trovare addirittura in parecchie opere di Vital. I tentativi compiuti da Joseph Sarug per trarre un tutto unificato da questa confusione contribuì" soltanto ad aggravarla. Tuttavia, in ognuna di queste esposizioni appaiono le stesse grandi linee generali. La principale preoccupazione di Isaac Luria, si direbbe, consisteva nel seguire l'ulteriore sviluppo dei vasi che ricevettero la luce dell'emanazione risplendente nello spazio primordiale dopo l'atto dello zimzum. Nell'emergenza attuale di questi vasi, avevano parte tanto le luci situate nel tehiru dopo lo zimzum e le luci nuove che entrarono con il raggio. Scopo di questo processo era l'eliminazione (berur) delle forze di Din che si erano raccolte una catarsi che poteva essere ottenuta eliminando interamente tali forze dai sistema, oppure integrandole in esso "addolcendole" e purificandole: due punti di vista contrastanti che spesso incontriamo fianco a fianco. In entrambi i casi, tuttavia, per proseguire questi processi che erano un preludio necessario alla complessa gerarchia della creazione, era necessaria una differenziazione progressiva nei vasi stessi, senza la quale le correnti emananti non avrebbero potuto regolare se stesse e funzionare adeguatamente. A questo scopo, le varie congiunzioni delle prime luci emanate, in collisione l'una con l'altra portavano alla creazione di vasi o contenitori che "si cristallizzavano" per così dire, da certi modi contenuti nelle luci. Tutte le redazioni lurianiche concordano nell'affermare che il raggio di luce proveniente da Ein-Sof per organizzare il reshimu e le forze di Din che hanno riempito lo spazio primordiale funziona in due modi opposti, che informano tutti gli sviluppi in tale spazio, dall'inizio alla fine. Sono questi i due aspetti di "cerchio e linea" (iggul ve-yosher). In pratica, un punto può espandersi solo in uno dei due modi, circolarmente o linearmente, e in questo si esprime una fondamentale dualità insita nel processo della creazione. La più armoniosa delle due forze, quella che partecipa della perfezione di Ein-Sof, è il cerchio; quest'ultimo si conforma naturalmente allo spazio sferico dello zimzum, mentre il raggio di luce diritto va avanti e indietro, per cercare la sua struttura suprema nella forma d'uomo, che rappresenta l'aspetto ideale di yosher (struttura "lineariforme"). Perciò, mentre il cerchio è la forma naturale, la linea è la forma voluta che viene direttamente da Ein-Sof, è di un grado più elevato del cerchio, la cui forma è un riflesso dello zimzum. La prima, secondo Isaac Luria, comprende il principio del ru'ah, il secondo il principio del nefesh, o perfezione naturale. Essenzialmente, questa dottrina è una riformulazione del simbolismo geometrico pitagorico che domina la filosofia naturale fino al XVII secolo. Ogni atto di emanazione, quindi, contiene questi due aspetti, e se uno di essi mancasse avverrebbero varie alterazioni o sviluppi inaspettati. Tutti i movimenti finalizzati, teleologici, sono sostanzialmente dominati dalla necessità naturale, immanente. La prima forma che l'emanazione assume dopo lo zimzum è quella di Adam Kadmon ("uomo primordiale") che nel sistema lurianico rappresenta un regno al di sopra dei quattro monti di azilut, beri'ah, yezirah ed asiyyah con i quali aveva inizio la Cabala prelurianica. Isaac Luria, è vero, cerca di sostenere questa convinzione con un gran numero di citazioni tratte dallo Zohar e dai Tikkunim, ma in effetti rappresentava un punto di partenza completamente nuovo. Benché Luria e i suoi discepoli sostenessero che molti dei processi che avvengono nell'Adam Kadmon sono misteri trascendenti la conoscenza umana, discussero tuttavia dettagliatamente il modo in cui le forze dell'emanazione furono organizzate dopo lo zimzum in questa forma. In tutto il trattamento di questa figura e delle luci superne che se ne irradiano, il duplice movimento dialettico menzionato più sopra rimane predominante. Quindi, le dieci Sefirot presero prima forma nell'Adam Kadmon come cerchi concentrici, il più esterno dei quali, il cerchio di Keter, rimaneva in stretto contatto con Ein-Sof che lo circondava. Questo era il nefesh dell'Adam Kadmon. Quindi le dieci Sefirot si ridisposero in linea, nella forma di un uomo e delle sue membra, benché naturalmente questo si debba intendere nel senso puramente spirituale delle luci superne incorporaee. Questo fu il ru'ah dell'Adam Kadmon, Gli aspetti superiori del nefesh, conosciuti come neshamah, hayah e yehidah, sono egualmente radicati nelle Sefirot superiori nelle loro configurazioni lineari. Tutte queste luci possiedono recipienti ancora così" sottili e "puri" che difficilmente possono venire considerati recipienti. La promozione dell'Adam Kadmon al rango di primo essere emerso dopo lo zimzum spiega la forte colorazione antropomorfica che accompagna tutte le descrizioni del processo d'emanazione nel sistema lurianico. L'Adam Kadmon funge come una specie di anello intermedio tra Ein-Sof, la luce della cui sostanza continua ad essere attiva in lui, e la gerarchia dei mondi ancora a venire. In confronto con questi ultimi, anzi, l'Adam Kadmon poteva essere chiamato, e talvolta lo era, EinSof. Dalla testa dell'Adam Kadmon si irradiarono luci immani che si allinearono in disposizioni ricche e complesse. Alcune assunsero la forma di lettere, mentre altre assunsero altri aspetti della Torah o della Lingua Sacra, come le cantillazioni (te'amin), i punti vocalici, o gli affissi scribali (tagim), anch'essi componenti dello Scritto Sacro. Quindi, si congiungono qui due simbolismi essenzialmente diversi, quello della luce, e quello del linguaggio e della scrittura. Ogni costellazione di luce ha la sua particolare espressione linguistica, sebbene quest'ultima non sia diretta verso i mondi inferiori ma piuttosto verso l'interno, verso il proprio essere interiore. Queste luci si combinano per formare "nomi" le cui potenze celate divengono attive e si manifestano mediante "configurazioni" (millu'im) celate, dove ogni lettera è scritta pienamente con il nome che porta nell'alfabeto. Questo mondo primordiale, descritto per mezzo di simboli linguistici, fu precipitato dalle luci della fronte di Adam Kadmon, uscite dal punto dove è posto il filatterio della testa. Le luci uscite dagli orecchi, dal naso e dalla bocca di Adam Kadmon, invece, si espansero solo linearmente, e le loro Sefirot non avevano recipienti speciali, poiché all'inizio erano congiunte in un comune recipiente, in armonia con la "collettività" che era la loro natura strutturale. Vital chiama questa sfera olam ha-akudim, intendendo un mondo dove le Sefirot non erano ancora differenziate (letteralmente, erano legate insieme). La funzione assegnata a queste luci nel dramma della creazione non venne mai definita chiaramente. Le luci degli occhi, d'altra parte, erano differenziate in singole Sefirot. In teoria queste luci avrebbero dovuto uscire dall'ombelico, ma il luogo della loro apparizione venne deflesso da un mezzo attivo nell'Adam Kadmon e chiamato parsa (apparentemente, un riferimento al diaframma). Questo spostamento è descritto come il risultato di un altro zimzum entro le luci stesse. Avendo cambiato il percorso, queste luci uscivano dagli occhi tanto linearmente quanto circolarmente, e ognuna delle loro Sefirot comandava un suo recipiente. Vital chiama queste luci separate "il mondo dei punti " (olam ha-nikkudim), ma in altri scritti lurianici sono raggruppate insieme alla luce del tehiru e vengono chiamate "il mondo dei punti" (olam ha-nekudot) o "il mondo del caos" (olam ha-tohu): quest'ultima espressione è dovuta al fatto che in questa fase le luci puntiformi delle Sefirot non avevano ancora raggiunto un ordinamento strutturale stabile. A tutte le luci di queste Sefirot vennero dati recipienti, fatti di luce più densa, nei quali potevano disporsi e funzionare. A questo punto, tuttavia, avvenne ciò che nella Cabala lurianica è chiamato "la rottura dei vasi" o "la morte dei re". I recipienti assegnati alle tre Sefirot superiori riuscirono a contenere la luce che fluiva in essi, ma la luce colpì le sei Sefirot da Hesed a Yesod all'improvviso, e quindi fu troppo forte perché i singoli vasi potessero contenerla: uno dopo l'altro si spezzarono, e i frammenti si dispersero e caddero. Il vaso dell'ultima Sefirah, Malkhut, si incrinò anch'esso ma non nella stessa misura. Parte della luce che era contenuta nei recipienti ritornò alla fonte, ma il resto precipitò insieme agli stessi vasi, e dai loro frammenti presero sostanza le kelippot, le forme tenebrose della sitra ahra. Questi frammenti, inoltre, sono la fonte della materia grossolana. La pressione irresistibile della luce nei vasi fece inoltre s" che ogni rango dei mondi discendesse dal posto che gli era stato assegnato. L'intero processo del mondo quale lo conosciamo ora, quindi, è diverso dall'ordine e dalla posizione destinati originariamente. Nulla, nè le luci nè i recipienti, rimase nel posto giusto, e questo sviluppo - che, con una frase presa a prestito dalle Idrot dello Zohar, viene chiamato "la morte dei re primevi" - altro non fu che una catastrofe cosmica. Nel contempo, la rottura dei vasi, che corrisponde alla distruzione dei primi mondi mal riusciti nella Cabala precedente, non venne intesa negli scritti lurianici come un processo anarchico o caotico; ebbe piuttosto luogo in armonia con certe chiare leggi interne elaborate estensivamente. Allo stesso modo, l'emergenza delle kelippot quali radici del male veniva descritta come un processo seguito da regole fisse e coinvolgente solo i frammenti dei recipienti colpiti dalle prime scintille di luce. Queste luci rimasero "catturate" tra le kelippot; le nutrono e anzi forniscono la forza vitale dell'intero mondo delle kelippot, che nell'una o nell'altra misura interpenetrarono l'intera gerarchia dei mondi quando i vasi si spezzarono. Anche questi recipienti infranti, naturalmente, furono assoggettati al processo di tikkun o restaurazione che ebbe inizio immediatamente dopo il disastro; ma le loro "scorie" non ne subirono l'influsso e da questi rifiuti, che possono venire paragonati ai necessari rifiuti di ogni processo organico, emersero le kelippot, intese nel senso stretto di forze del male. Gli aspetti catastrofici della rottura dei vasi vennero sottolineati specialmente nelle versioni semplificate della leggenda che appariva nella letteratura cabalistica più popolare e che descriveva l'intero processo con immagini estremamente mitiche. Negli scritti lurianici vengono proposte spiegazioni diverse per la rottura dei recipienti. Alcuni commentatori si accontentarono di attribuirla alla struttura interna, debole e atomizzata, del "mondo dei punti", le cui parti isolate e disorganizzate erano troppo instabili per impedire che ciò avvenisse. Un'altra spiegazione era che, poiché le prime emanazioni dei punti uscirono da Adam Kadmon, mentre le "radici" rimasero in lui, e che i primi erano privi del potere di resistere alla pressione della luce. Tutte queste spiegazioni sono basate sulla premessa che la poco solida struttura del mondo dei punti fosse la responsabile, e considerano la rottura dei vasi come una disavventura nell'esistenza del processo vitale della Divinità. (Vedasi Tishby, Torat ha-ra ve-ha-kelippah be-kabbalat ha-Ari, 39-45). Altre spiegazioni che sembrano derivare dallo stesso Isaac Luria cercano effettivamente di giustificare questa struttura poco solida vedendola come una reazione alle radici di Din e alle kelippot, presenti fin dall'inizio nell'emanazione. Secondo questa concezione, il disegno fondamentale del processo emanativo era di apportare una catarsi di questi elementi "duri" e dei rifiuti nel sistema divino. La presenza delle radici delle kelippot nell'emanazione fu la vera ragione interna della rottura dei vasi. Questa spiegazione catartica è spesso associata con la concezione teologica secondo la quale i vasi furono infranti per spianare la via alla ricompensa e alla punizione dei mondi inferiori che dovevano emergere nell'ultima fase della creazione. Versioni diverse di queste spiegazioni si trovano in Moses Jonah Vital e Ibn Tabul. Le spiegazioni catartiche e teleologiche rappresentano in sostanza punti di vista diversi, e illustrano bene la tensione nella Cabala lurianica tra il modo di pensiero mitico e quello teologico. Molti cabalisti più tardi affermarono che la spiegazione teleologica era letteralmente esatta, ma la spiegazione catartica rappresentava la verità mistica (Meir Bikayam, Me'orei Or, 1752, 15c). Nella scuola lurianica di Israel Sarug venne proposta un'altra analogia organica: il mondo dei punti era come un campo seminato, i cui semi non possono dare frutto se prima non si sono spaccati e putrefatti. Tikkun La rottura dei vasi segna una svolta drammatica nelle relazioni tra 1'Adam Kadmon e tutto ciò che si sviluppa sotto di lui. Tutti i processi susseguenti della creazione si compiono per porre rimedio a questo difetto primordiale. Nella sua arditezza immaginativa, la convinzione che tale evento potesse avvenire entro un regno che, secondo tutte le opinioni, era ancora parte della Divinità automanifestantesi, può essere comparata solo a quella dello stesso zimzum. In effetti, fu addirittura suggerito che anche lo zimzum rappresentasse una sorta di "rottura" primordiale in Ein-Sof. Le leggi secondo le quali si compie il processo di restaurazione e reintegrazione (tikkun) cosmica costituiscono la parte più ampia della Cabala lurianica, poiché riguardano tutti i regni della creazione, inclusi quello "antropologico" e quello "psicologico". I dettagli della dottrina del tikkun sono estremamente complessi e sembra che venissero ideati intenzionalmente come una sfida alla contemplazione mistica. L'elemento più cruciale in questa dottrina è il concetto che il mezzo principale di tikkun, cioè della restaurazione dell'universo al suo disegno originale nella mente del Creatore, è la luce che uscì dalla fronte dell'Adam Kadmon per riorganizzare la confusione disordinata causata dalla rottura dei vasi. Il sostegno principale di queste luci viene dalle Sehrot lineari del "mondo dei punti", che non sub" alcuna rottura e che quindi ha il compito d'incoraggiare la formazione di strutture equilibrate e stabili nei futuri regni della creazione. Le nuove strutture sono chiamate parzufim, cioè configurazioni o gestalten, e ognuna di esse comprende uno schema organico di gerarchie di Sefirot con leggi dinamiche proprie. Questi parzufim (letteralmente "facce" o "fisionomie") prendono ora il posto delle Sefirot come principali manifestazioni di Adam Kadmon. In ognuno di essi, forze appena emanate vengono legate con altre rimaste danneggiate nella rottura dei vasi: quindi, ogni parzuf rappresenta uno stadio specifico nel processo di catarsi e di ricostruzione. La Sefirah Keter è ora riformata come il parzuf di Arikh Anpin (letteralmente, "dal volto lungo", cioè "l'indulgente" o "il paziente", una frase presa a prestito dallo Zohar, dove appare come una traduzione aramaica dell'espressione biblica erekhappayin, "a lungo paziente"), oppure Attika ("l'Antico"), che talora vengono trattati come due aspetti separati dello stesso parzuf. Le Sefirot Hokhmah e Binah divengono ora i parzufim di Abba e Imma ("padre" e "madre"), che funzionano in una capacità duale: esistono quale mezzo per la reindividuazione e la ridifferenziazione di tutti gli esseri emanati in trasmittenti e riceventi dell'influsso, e servono inoltre quale archetipo supremo di quell'"accoppiamento" (zivvug) procreativo che, nel suo aspetto metaforico di "guardare faccia a faccia" (histakkelut panim-be-fanim), è la radice comune di tutte le unioni intellettuali ed erotiche. Questo "accoppiamento" è attivato dalla riascesa delle 288 scintille che stavano nei vasi rotti e che ritornarono nelle viscere di Binah, dove hanno il ruolo di forze animanti e vivificanti entro una struttura le cui funzioni sono primariamente ricettive. Senza l'assistenza di tali forze, che vengono chiamate "acque femmine" (mayim nukbin) non può esservi nè "accoppiamento" nè unificazione neppure nel mondo di azilut. Dall'unione di Abba e Imma nasce un nuovo parzuf, conosciuto come Ze'eir Anpin (letteralmente "dal volto breve", cioè "l'impaziente" o "il senza indulgenza"), che è formato dalle sei Sefirot inferiori, da Gedullah a Yesod. Qui abbiamo il centro dei processi catartici che avvengono in tutti i parzufim per mitigare i duri poteri di Din: il loro successo definitivo dipende da una lunga, quasi interminabile serie di sviluppo. L'automanifestazione di Ein-Sof nei mondi creati ha luogo soprattutto tramite questo parzuf, che subisce uno sviluppo embrionale (ibbur) nelle profondità di Imma, seguito da "nascita", "allattamento" e dal progressivo emergere dei poteri formativi conosciuti come "immaturità" (katnut) e "maturità" (gadlut). Questi ultimi, a loro volta, vengono rinvigoriti tramite una seconda "concezione" per mezzo di nuovi poteri che si uniscono ad essi da altri parzufim. L'unità strutturale di Ze'eir Anpin è assicurata dall'attività di un principio chiamato zelem ("immagine"', dal versetto in Gen. 1:27), che comporta l'attività di certe luci, le quali servono come elemento costituente in tutti i parzufim ma sono incentrate specialmente in Ze'eir Anpin. La decima e ultima Sefirah, Malkhut, viene convertita anch'essa in un parzuf chiamato Nukba de-Ze'eir, "la femmina di Ze'eir", e rappresenta l'aspetto femminile complementare di quest'ultimo. La fonte principale di questo simbolismo arditamente antropomorfico è nelle Idrot dello Zohar, ma nei suoi sviluppi nella Cabala lurianica compì una svolta radicale. Lo stesso Isaac Luria vedeva indubbiamente i parzufim come centri di potere, attraverso i quali il dinamismo creativo della Divinità poteva funzionare e prendere forma. I vari nomi, configurazioni e sub-configurazioni che accompagnano queste descrizioni simboliche avevano probabilmente l'intento di smussare l'antropomorfismo quasi provocatorio. Al di sopra dei cinque parzufim appena menzionati, la cui dialettica interna è spiegata estensivamente in Ez Hayyim di Hayyim Vital, vi sono ancora altri parzufim secondari che costituiscono l'articolazione di certi poteri nello Ze'eir Anpin e nella sua controparte femminile, Nukba, come Yisrael Sava, Tavunah, Rahel e Leah. In effetti, nel pensiero riccamente associativo di Isaac Luria, praticamente ogni personaggio biblico veniva trasformato in una figura metafisica, dalla quale scaturivano nuove ipostasi e parzufim. Un esempio notevolissimo di questa tendenza si può trovare nel capitolo 32 di Ez Hayyim, dove tutto ciò che accade alla "generazione del deserto" viene interpretato come se rappresentasse processi dei parzufim delle tre Sefirot superiori dello Ze'eir Anpin e della sua controparte femminile. I cinque parzufim principali di Arikh Anpin, Abba, Imma, Ze'eir Anpin e Nukba de-Ze'eir costituiscono la figura finale dell'Adam Kadmon, così" come si evolve nei primi stadi di tikkun, e che è molto diversa dalla figura di Adam Kadmon esistente prima della rottura dei vasi. Questi parzufim comprendono inoltre "il mondo dell'equilibrio" (olam ha-matkela), che è identico al mondo di azilut della Cabala precedente. Da questo mondo discende un influsso di luce spirale (ma non la sua sostanza) verso i mondi inferiori di beri'ah, yezirah ed asiyya. In fondo a ogni mondo vi è una "cortina" o "velo" che serve a filtrare la sostanza sefirotica corrispondente alla natura di quel mondo e a lasciar passare attraverso un riflesso secondario tutto il resto che, a sua volta, diviene la sostanza di una fase successiva. La struttura fondamentale del mondo di azilut si ripete con certe modificazioni nei tre mondi inferiori. Il tikkun, tuttavia, non si è ancora completato. Come risultato della rottura dei vasi, nessuno dei mondi è collocato al suo giusto posto. Ognuno di essi si trova in una collocazione inferiore a quella che dovrebbe avere: è nel posto originale del mondo che gli sta sotto. Di conseguenza, il mondo di asiyya, che in essenza è anch'esso un mondo spirituale (come la Natura Ideale dei neoplatonici), è disceso mescolandosi alla parte inferiore del regno delle kelippot e con la materia fisica, che vi è dominante. Come è già stato ricordato, la Cabala lurianica s'interessa soprattutto del processo di tikkun e degli sviluppi che avvengono nei parzufim dei diversi mondi, nell'"adam di azilut", nell'"adam di beri'ah" e così" via. (Circa tre quarti di Ez ayyim sono dedicati a questo argomento). Il punto cruciale nelle varie discussioni lurianiche di questi sviluppi è che, sebbene il tikkun dei vasi rotti sia stato quasi completato dalle luci superne e dai processi derivanti dalla loro attività, certe azioni conclusive sono state riservate all'uomo. Queste sono il fine ultimo della creazione, e il completamento del tikkun, che è sinonimo della redenzione, dipende dal fatto che l'uomo li compia. Qui sta la stretta connessione fra la dottrina del tikkun e l'attività religiosa e contemplativa dell'uomo, che deve lottare, vincendo, non solo contro l'esilio storico del popolo ebraico ma anche con l'esilio mistico della Shekhinah, che fu causato dalla rottura dei vasi. L'oggetto dell'attività umana, designata a completare il mondo del tikkun, è la restaurazione del mondo di asiyyah al suo posto spirituale, la sua completa separazione dal mondo delle kelippot, e il conseguimento di un beato, permanente stato di comunione con ogni creatura e con Dio, che le kelippot non potranno distruggere o impedire. D'importanza fondamentale è la distinzione lurianica tra gli aspetti interni ed esterni delle luci superne e degli stessi mondi della creazione: il tikkun degli aspetti esteriori dei mondi non compete affatto all'uomo, la cui missione riguarda esclusivamente certi aspetti dell'interiorità. Nel sistema lurianico il rango gerarchico dell'interiore è sempre inferiore a quello dell'esteriore, ma proprio per questa ragione è alla portata di un individuo veramente spirituale e interiorizzato, almeno in una certa misura. Se questo individuo adempie adeguatamente il proprio compito, le "acque femminili" che permettono gli accoppiamenti superni si moveranno, e l'opera del tikkun esterno verrà completata dalle luci superne che sono rimaste nascoste ne1parzuf di Attika e che devono rivelarsi soltanto nel futuro messianico. Come minimo, le attività umane in armonia con la Torah possono preparare la via al tikkun dei mondi inferiori. Non si può negare il carattere gnostico di questa cosmogonia, sebbene il modo dettagliato in cui è elaborata sia tratto interamente da fonti ebraiche. Tipicamente gnostica, ad esempio, è la rappresentazione della creazione quale dramma cosmico incentrato intorno a una crisi profondamente fatidica entro l'attività della Divinità stessa, e della ricerca d'una via della restaurazione cosmica, dell'epurazione del bene dal male, in cui all'uomo è assegnato un ruolo centrale. Il fatto che una teologia gnostica non riconosciuta potesse dominare la corrente principale del pensiero religioso giudaico per un periodo di almeno due secoli deve essere senza dubbio considerato come uno dei paradossi piùgrandi dell'intera storia del Giudaismo. Nel contempo, fianco a fianco con la visione gnostica, troviamo una sorprendente tendenza verso un modo di pensare contemplativo che può essere chiamato "dialettico" nel senso piùstretto del termine, come lo usò Hegel. Questa tendenza spicca specialmente nei tentativi di presentare spiegazioni formali di dottrine come quella dello zimzum, la rottura dei vasi o o la formazione dei parzuhm. Oltre alla redazione degli insegnamenti di Luria menzionati più sopra, le concezioni fondamentali della Cabala lurianica sono presentate sistematicamente e originalmente presentate nelle seguenti opere: Ma'amar Adam de-Azilut, incluso da Moses Pareger nel suo Va-Yakhel Moshe (Dessau 1699); Nouelot Hokhmah di Joseph Solomon Delmedigo (Basilea, in realtà Hanau, 1631); Keleh [138] Pithei Hokhmah di Moses Hayyim Luzzatto (Koretz,1785); Tal Orot di Jacob Meir Spielmann (Leopoli; 1876-83); Pithei She'arim di Isaac Eisik Haver (1888); Leshem Shevo ve-Ahlamah di Solomov Eliashov (1912-48); e Talmud Eser ha-Sefirot di Judah Leib Ashlag (195567). Le esposizioni notissime della Cabala lurianica di Abraham Herrera e di Joseph Ergas furono grandemente influenzate dalla loro tendenza a riconciliare o almeno a correlare il sistema lurianico con gli insegnamenti di Cordovero, come si può vedere nell'allegorizzazione, operata da Ergas, della dottrina lurianica dello zimzum. La Cabala e il panteismo Se e in che misura la Cabala conduca a conclusioni panteiste è una questione che ha occupato molti dei suoi studiosi fin da quando, nel 1699, apparve lo studio di J.G. Wachter, Der Spinozismus in Judenthumb, che tentava di dimostrare che il sistema panteista di Spinoza derivava da fonti cabalistiche, in particolare dagli scritti di Abraham Herrera. Molto dipende naturalmente, dalla definizione di un concetto che è stato impiegato in significati molto diversi. Un insegnamento può essere considerato panteista quando sostiene che "Dio è ogni cosa" e che "ogni cosa è Dio"; tuttavia dobbiamo distinguere tra le formule occasionali che hanno questa particolare colorazione panteistica e il posto esatto loro assegnato nella cornice di una teologia sistematica. Queste formule si trovano in abbondanza anche nel misticismo cristiano e islamico, tuttavia il loro contenuto effettivo non sempre è conforme al loro aspetto panteistico esteriore. Questo è altrettanto vero per molte affermazioni simili nella letteratura cabalistica, specialmente quelle che ricorrono in esposizioni del pensiero cabalistico destinate al consumo pubblico, come in gran parte degli scritti hasidici. D'altra parte, può ricorrere anche il fenomeno opposto, e qua e là troviamo formule esplicitamente teistiche che smentiscono il loro contenuto panteistico o semipanteistico. Tutto dipende dal contesto interno di un dato sistema di pensiero. Apparenti tendenze teistiche possono servire a nascondere concezioni effettivamente panteistiche, mentre certe formule generali possono molto spesso venire interpretate variamente e perciò non provano gran che. Esempi di questo genere sono l'affermazione di Azriel che "nulla vi è al di fuori" di Ein-Sof, la dichiarazione di Meir ibn Gabbai che "ogni cosa è in Lui ed Egli è in ogni cosa", o l'insistenza ricorrente nello Zohar che Dio "è ogni cosa" e che ogni cosa è unificata in Lui "come è noto ai mistici" (2:85b). Tali affermazioni si possono trovare anche in sistemi di pensiero teistici ortodossi, dove servono a sottolineare la convinzione che nulla potrebbe esistere senza una prima causa divina e che questa, poiché è la causa di tutto, include e comprende in sè tutto ciò che ha causato. Sotto questo punto di vista, si può dire che Dio è presente e immanente in tutto ciò che Egli ha causato, e se Egli sottraesse la Sua presenza ogni esistenza causata verrebbe così" annullata. Il principio neoplatonico che ogni effetto è incluso nella sua causa influenzò grandemente queste formulazioni nella Cabala, senza per questo dar loro un carattere necessariamente panteista. A stretto rigore, tuttavia, il problema del panteismo ricorre in numerosi interrogativi specifici che intendessero grandemente la speculazione cabalistica e ai quali le dottrine panteistiche furono almeno in grado di offrire risposte non equivoche. Tali interrogativi erano: 1) Vi è un'unità di sostanza tra l'Emanatore e l'emanato? La sostanza di Dio promana in tutto, oppure promana solo la potenza irradiata di tale sostanza? 2) Se vi è unità di sostanza tra Ein-Sof e le Sefirot, vi è anche la stessa unità tra Ein-Sof e gli esseri creati? 3) Dio è l'anima del mondo o è identico al mondo? 4) Dio esiste negli esseri creati (ossia, nel linguaggio dei filosofi, è immanente in essi), o addirittura in essi soltanto? Quando troviamo risposte positive a queste domande, ci sono buone ragioni di ritenere che abbiamo a che fare con il panteismo, e quando non le troviamo, possiamo dedurre il contrario. In maggioranza, i cabalisti da Isaac il Cieco in poi respinsero la nozione che la sostanza di Dio si manifesti nel mondo dell'emanazione e sostennero, come fecero moltissimi neoplatonici medievali, che solo il potere di Dio, in contrasto con la sua sostanza, promana nel processo emanativo. Alcuni dei primi cabalisti, tuttavia, in particolare l'autore di Ma'arekhet ha-Elohut, credevano che le Sefirot emanate fossero della stessa sostanza dell'emanante Ein-Sof. Solo nei regni inferiori alle Sefirot, essi affermavano, la potenza divina era attiva quale causa di esseri separati dalla Divinità. Nel complesso, osserviamo che questa scuola di pensiero aveva tendenze chiaramente teistiche. Isaac b. Samuel Mar Hayyim (1491) distingueva tra una "emanazione di essenza", che è l'irradiarsi delle Sefirot nella sostanza di Ein-Sof, ed una "emanazione d'influsso" che è la potenza dell'Emanatore, come si manifesta in armonia con la capacità ricettiva del mezzo dato. Quei cabalisti che identificavano Ein-Sof con la Sefirah Keter erano costretti a considerare le Sefirot consustanziali con Ein-Sof. Tuttavia, coloro che sostenevano questa concezione negavano esplicitamente che potesse esservi unità di sostanza tra Dio e gli intelletti separati, e soprattutto tra Dio e gli altri esseri creati. Questa, per esempio, era l'opinione espressa da Joseph Gikatilla nelle sue glosse alla Guida per i perplessi. Neppure lui, tuttavia, si tratteneva dal dichiarare che "Egli riempie tutto ed Egli è tutto". Molti altri cabalisti, d'altra parte, negavano la consustanzialità di Dio con il mondo emanato, nel quale essi professavano di vedere solo la Sua potenza emanante. Portando avanti il pensiero di Cordovero (si veda più sotto), i discepoli della sua scuola contrapponevano la sostanza separata dell'emanato alla sostanza dell'Emanatore, del quale era la "veste". L'autore dello Zohar non era particolarmente interessato a questo problema; si accontentò di liquidarlo con formulazioni concettualmente vaghe aperte a interpretazioni contrastanti, ma nelle opere in ebraico di Moses de Leon vi è una tendenza più discernibile a sottolineare l'unità di tutti gli esseri in una continua catena dell'essere. Non vi sono balzi qualitativi negli anelli di questa catena, e la vera essenza di Dio è "in alto e in basso, in cielo e in terra, e non vi è esistenza al di fuori di Lui" (Sefer ha-Rimmon). Nella teofania sul monte Sinai, Dio rivelò tutti i mondi ai figli d'Israele, i quali videro che in essi non vi era nulla che non fosse la Sua gloria e la Sua essenza manifesta. Qui è sottinteso che ogni essere ha una sua esistenza secondaria separata dalla Divinità, ma che questa scompare davanti allo sguardo penetrante del mistico, che scopre dietro di essa l'unità dell'essenza. Le tendenze panteistiche in questa linea di pensiero sono ammantate di espressioni teistiche, uno strumento caratteristico di molti cabalisti. Da una parte, questi autori descrivono Ein-Sof in termini personalistici e ne esaltano l'assoluta trascendenza al di sopra di ogni cosa, anche delle Sefirot, che non ne hanno percezione, mentre d'altra parte attribuiscono grande importanza alla sua "veste" in queste ultime, e per loro tramite anche nei mondi inferiori. Vi è inoltre una certa ambiguità nella loro duplice interpretazione della creatio ex nihilo: talora insistono che deve essere intesa letteralmente, il che escluderebbe ovviamente ogni punto di vista panteistico, e talora la spiegano simbolicamente, respingendo un semplice letteralismo per lasciare la porta aperta alla possibilità che ogni essere abbia il suo posto, almeno parzialmente, nella realtà divina. Il vero nulla dal quale tutto fu creato si manifesta nella transizione da Ein-Sof alla prima Sefirah, e in realtà non vi sono balzi o discontinuità nella struttura dell'essere. La creazione dal nulla è una manifestazione della divina sapienza, dove il pensiero umano raggiunge il suo limite, o di quel nulla che è la prima emanazione, Keter. Nei sistemi in cui Ein-Sof era identificato con Keter, era lo stesso Ein-Sof che diveniva il Divino Nulla in cui tutto ha la sua fonte. Queste concezioni lasciavano spazio alla convinzione che Dio, il quale è una cosa sola con Ein-Sof, comprenda assai di pie di ciò che procede da Lui nei processi emanativi e creativi, ma che Egli abbracci questi ultimi in sè. Tutto è compreso nella Divinità, ma non tutto è identico ad essa. All'inizio del XIX secolo fu coniato il termine "panenteismo" per distinguere tale concezione dal panteismo puro. Non vi è dubbio che il termine potesse riferirsi a numerosi cabalisti notissimi, i quali potevano sostenere - non del tutto a torto - che una posizione simile era già sottintesa nell'affermazione del Midrash (Gen. R. 68) che "il Santissimo che sia benedetto, è il luogo del Mondo, ma il mondo non è il Suo luogo". La concezione panenteista offriva un chiaro compromesso tra il teismo puro e il panteismo puro e lasciava spazio per una rappresentazione personalistica della Divinità. È evidente, perciò, che sebbene nessuna scuola di pensiero cabalista affermasse mai che Dio non ha esistenza separatamente dagli esseri creati, la posizione sostenuta più comunemente era che Egli si trovasse comunque in essi, in vari modi definibili. Di qui, perciò, deriva anche l'asserzione neoplatonica, frequente nella letteratura cabalistica, che Dio è "l'anima delle anime", un'asserzione non interamente libera da sfumature panteistiche, sebbene si presti anche ad altre interpretazioni. Questa frase era già usata dallo Zohar, ma si deve osservare che "anima" (neshamah) nel suo senso preciso spesso non implica in quegli scritti un'inerenza attuale o un'esistenza contingente nel corpo, ma piuttosto un modo superiore d'essere. La neshamah vera e propria non discende affatto nei mondi inferiori, bensì irradia verso il basso, verso il modo che noi chiamiamo l'"anima" dell'uomo. Questo, per esempio, era l'opinione di Isaac Luria. Altri cabalisti, d'altronde, specialmente Moses de Leon, consideravano l'anima umana "una parte di Dio lassù" (Giobbe 31:2), non soltanto in senso figurativo, come si intendeva generalmente, ma in senso letterale. Quindi il loro pensiero era basato sull'assunto che vi è nell'anima qualcosa di consustanziale con Dio. Fu lo stesso assunto che spinse Moses de Leon, in Mishkan ha-Edut a sfidare la concezione che la punizione delle anime dei dannati nell'inferno sia eterna: perché come è possibile che Dio infligga tale sofferenza a se stesso? A questa opinione si accenna indirettamente anche nello Zohar, dove si afferma che la parte più alta dell'anima (nefesh), chiamata neshamah, è incapace di peccare, e abbandona il peccatore nel momento in cui viene commesso un peccato. Shabbetai Horowitz concordava con questa concezione, e ammetteva solo una distinzione quantitativa tra l'anima e la sostanza di Dio, una posizione che, a causa delle implicazioni panteistiche, venne contestata in particolare da Manasseh Ben Israel nel suo Nishmat Hayyim (1652). In contrasto con la parte principale dello Zohar, i suoi strati più tardi (Ra'aya Meheimna e Tikkunim) hanno un sapore spiccatamente teistico. Anche qui, tuttavia, si sottolinea in particolare che, se Dio è separato dal mondo, è anche in esso ("Egli è al di fuori quanto è dentro"), e che Egli "riempie tutto e causa tutto" senza che questa immanenza precluda una concezione personalistica e teistica di Lui. Queste formulazioni contenute nello Zohar divennero estremamente popolari tra i cabalisti di tempi successivi e negli scritti del Hasidismo, dove vennero usate per creare un ponte tra le opinioni teistiche e panteistiche che abbondano in tali testi. Le opere cabalistiche scritte tra il 1300 e il 1500 tendevano nel complesso a oscurare il problema, come si può vedere negli scritti dei discepoli di Solomon b. Adret e nel Sefer ha-Peli'ah. Del pari, vari testi cabalistici popolari, scritti al tempo dell'espulsione dalla Spagna, presentano una spiccata preferenza per formulazioni decisamente teistiche (Abraham b. Eliezer ha-Levi, Judah Hayyat, Abraham b. Solomon Adrutiel), che soltanto in casi rari nascondono tra le righe un contenuto diverso. Una discussione dettagliata della problematica del panteismo si può trovare negli scritti di Cordovero, la cui concezione panenteistica era elaborata più meticolosamente di quella di ogni altro cabalista, soprattutto nel suo Sefer Elimah e nello Shi'ur Komah. La sua presentazione della questione è di un'estrema sottigliezza e non ha nulla in comune con il punto di vista "spinozista" che, nel suo senso più volgare, moltissimi autori hanno cercato di attribuirgli. Cordovero comprendeva benissimo che il punto saliente dell'intera teoria dell'emanazione era la transizione da Ein-Sof alla Sefirah Keter; e si dedicò con grande impegno alla soluzione. Le Sefirot, egli afferma, devono la fonte della loro esistenza a Ein-Sof, ma questa esistenza è "nascosta", nello stesso senso in cui la scintilla del fuoco è nascosta nella pietra, fino a quando viene colpita con il metallo. Inoltre, questo aspetto della loro esistenza è infinitamente più rarefatto della loro esistenza stessa, quando sono state emanate nei rispettivi posti, perché nella esistenza emanata assumono una guisa completamente nuova. Anche nel loro supremo, "nascosto" modo di esistenza, tuttavia, quando sono somprese nella sostanza di Ein-Sof e perfettamente unite ad esso, in realtà non sono identiche a questa sostanza, che le percepisce pur rimanendo impercepita da esse. In tal caso, si deve dire che il primo cambiamento del loro status ontologico avviene nella loro esistenza nascosta oppure solo in quella manifesta? Cordovero evitò di dare una risposta precisa a questo interrogativo, sviluppando nel contempo la teoria che anche gli aspetti più alti del Keter da lui chiamato "il Keter del Keter. "il Keter del Keter del Keter" e così" via, si avvicinano asintoticamente alla sostanza di Ein-Sof, fino a quando l'intelletto umano non riesce più a distinguerli. Tuttavia, essi conservano un'identità distinta da Ein-Sof, così" che vi è una specie di salto tra Ein-Sof e la loro esistenza nascosta in esso che si avvicina continuamente all'infinito. L'esistenza di questi stadi interni è considerata da Cordovero come un'innovazione entro la Divinità; e il porsi in essere di questa esistenza celata, o "Volontà delle Volontà", come egli la chiama, è ciò che costituisce l'atto della creazione dal nulla nel suo senso letterale. Il risveglio iniziale della Volontà Divina in questa catena di volontà (re'utin) è, egli sostiene, l'unica occasione in cui ha luogo la vera creazione dal nulla, una concezione la cui natura paradossale attesta quanto Cordovero si sentisse incerto tra il punto di vista teistico e quello panteistico. Dal punto di vista divino, Dio comprende tutto, in quanto Egli abbraccia le "volontà" sia perché è la loro causa e le include nella Sua essenza, ma dal punto di vista umano tutte le fasi successive comprendono una realtà secondaria, che esiste separatamente da Ein-Sof ed è contingente rispetto ad essa, così" che non possono condividere una vera identità con la sostanza dell'Emanatore. Anche ai livelli più alti, questa sostanza si riveste dei "vasi" che, per loro stessa natura, sono secondari, e preceduti da uno stato di privazione (he'eder). In tutti questi processi, quindi, è necessario distinguere tra la` sostanza dell'Emanatore, che si veste dei vasi, e la sostanza dell'emanato. Benché la distinzione sia alquanto oscurata nel Pardes Rimmonim, è posta in risalto nel Sefer Elimah, dove Cordovero asserisce che, mentre nell'atto d'emanazione la sostanza divina passa nei vasi, questi vasi (kelim) o vesti (levushim) assumono un'esistenza sempre meno affinata via via che il processo continua dall'alto in basso. Eppure, dietro queste vesti infinite non vi è un solo anello nella catena dell'esistenza in cui la sostanza di Ein-Sof non rimanga presente e immanente. Anche dal punto di vista della condizione umana è potenzialmente possibile "togliere" contemplativamente queste vesti e rivelare "le processioni della sostanza" (tahalukhei ha-ezem) che si vestono di esse. Questo momento di rivelazione è la felicità suprema che il mistico può raggiungere in vita. Tuttavia questa immanenza di Ein-Sof in ogni cosa non è identica all'esistenza specifica dei vasi: "I prodotti della causazione, quando discendono, non hanno in comune la sostanza con la loro causa, ma piuttosto... sono diminuiti rispetto alla causa stessa via via che discendono fino all'infimo livello d'esistenza". Solo quando riascendono verso la loro causa si riunificano in essa, fino a quando raggiungono la Causa Suprema di tutto, che è il Keter, dove non vi sono più distinzioni tra l'agente e i prodotti dell'azione, perché vi aderiscono nella misura in cui è possibile, e sono veramente uniti a Ein-Sof, "dove non vi è causa e causato, ma tutto è causa" (Elimah, 18c). L'affermazione più definitiva nella trattazione del problema da parte di Cordovero può essere classificata come panenteistica: "Dio è tutto ciò che esiste, ma non tutto ciò che esiste è Dio" (Elimah, 24d). Certo, questa riascesa verso la prima causa deve essere intesa in riferimento al processo culminante di tutta la creazione nel suo ritorno in seno all'Emanatore, anziché all'esperienza mistica dell'individuo. inoltre, in diversi passi, Cordovero attenua ancora di più il concetto, mettendo in guardia contro gli equivoci: gli esseri causati non verranno riassorbiti nella sostanza di Ein-Sof, ma verrà riassorbita solo la loro "spiritualità" quando verranno gettate via le loro vesti separate. Ciò che è stato diviso per sempre dalla Divinità non può essere rideificato. La Cabala lurianica tendeva nel complesso a evitare persino le formulazioni panenteistiche di Cordovero e ad adottare una posizione apertamente teista. La dottrina dello zimzum, ponendo in risalto la discontinuità tra Ein-Sof e il mondo dell'emanazione, accentuava ancora di più questa tendenza. Se si riconosce già soltanto che qualcosa della sostanza divina si trasfonde nell'Adam Kadmon e nei parzufim che emanano da lui, vestendosi in essi, il processo giunge a una fine definita con le Sefirot emanate nel primo mondo di azilut. Sotto di loro si estende un "velo" che impedisce alla sostanza divina di trovare vesti per se stessa nei mondi di beri'ah, yezirah e asiyyah. Naturalmente è possibile parlare di una relazione di Ein-Sof in tutti i mondi, asiyyah inclusa, ma non si può affermare che in essi sia immanente la sua sostanza. D'altra parte, sebbene questi argomenti teisti dominino quasi tutti gli scritti di Hayyim Vital e Ibn Tabul, anche qui vi sono affermazioni occasionali che sono più vicine alla posizione di Cordovero. Anzi, la dottrina che ogni principio superiore "si veste" in uno inferiore, che in ultima analisi è una dottrina della divina immanenza, qualche volta venne portata all'estremo. Soprattutto, il cabalista doveva comprendere "come tutti i mondi abbiano in comune un unico modo d'essere, quali vesti di Ein-Sof, così" che Ein-Sof si veste in essi e li circonda (sovev), e nulla va al di là di esso. Ogni cosa può essere veduta sotto un aspetto, e tutti i mondi sono legati all'Emanatore", benché la prudenza ammonisca che "sarebbe sconsigliabile rivelare altro al riguardo" (Sha'ar ha-Hakdamot, Hakdamah 4). Altri, come Ibn Tabul, sottolineavano che solo la "luce interiore" di Dio (ha-or ha-penimi) veniva filtrata ed esclusa dai "veli", mentre la Sua "luce comprensiva" (ha-or ha-mekifl non veniva affatto esclusa. Poiché quest'ultima comprende la maggior parte della sostanza divina che si trasfonde nel mondo dell'emanazione, qui si riapriva di nuovo una porta per il ritorno alle concezioni panenteistiche di Cordovero. Il fatto che la luce di Ein-Sof che si trasfonde nel vuoto dello zimzum e si veste nei vasi possa essere o meno considerata parte della Divinità, anche se non partecipa della sua sostanza, rimase una questione aperta alla quale moltissimi cabalisti lurianici diedero una risposta enfaticamente affermativa. I lurianisti sostenevano che senza alcun dubbio il mondo di azilut, con i suoi processi dinamici interiori, apparteneva alla Divinità. Tuttavia, molti di loro negavano che vi fosse unità di sostanza tra le manifestazioni della Divinità in azilut e le proprietà sostanziali di Ein-Sof. Anche il cerchio più alto delle Sefirot dell'Adam Kadmon, essi sostenevano, era più vicino al più umile verme che a Ein-Sof. Queste analogie attestano un continuo equivoco tra due punti di vista in conflitto. Una soluzione radicale per questa ambivalenza fu la dottrina rigorosamente teistica di Moses Hayyim Luzzatto, il quale affermò che azilut poteva essere chiamato un "mondo" (olam) solo in senso figurato, poiché in esso la Divinità si manifestava direttamente, mentre tutti gli altri mondi erano creati mediante un libero atto di Dio dal nulla letterale. Le affermazioni che tali mondi inferiori si erano evoluti o sviluppati dal mondo di azilut non dovevano essere intese alla lettera, poiché al massimo potevano significare che tali mondi erano stati modellati su azilut. "Non dobbiamo pensare che possa esservi un legame (hitkashrut) tra ciò che è creato e il Creatore". Sembrerebbe che Luzzatto avesse una comprensione particolarmente solida della contraddizione insita tra la dottrina dell'emanazione e quella di una creazione paradigmatica, nel cui contrasto sta il punto cruciale del panteismo nella Cabala. In generale, moltissimi testi cabalistici scritti per un pubblico più vasto, come Sha'arei Kedushah di Hayyim Vital, erano in superficie teisti, e talvolta nascondevano sotto questa i germi di un'interpretazione diversa, essenzialmente panenteistica. L'uomo e la sua anima (Psicologia e antropologia della Cabala) Al di sopra e al di là dei disaccordi su dettagli specifici che tendono a rispecchiare stadi diversi dell'evoluzione storica della Cabala, esiste tra i cabalisti un consenso fondamentale sulla natura essenziale dell'uomo. La dottrina fondamentale di una vita celata della Divinità, che tramite un proprio dinamismo determina la vita della creazione quale tutto, ebbe implicazioni inevitabili riguardo la condizione umana, in cui lo stesso processo teosofico, anche con certe differenze significative, secondo tali concezioni veniva a ripetersi. Ai due poli opposti, l'uomo e Dio abbracciano nel loro essere l'intero cosmo. Tuttavia, mentre Dio contiene tutto in quanto è il Creatore e l'Iniziatore in cui hanno radici tutte le cose e si nasconde tutta la potenza, il ruolo dell'uomo consiste nel contemplare questo processo, in quanto agente per il cui tramite tutte le forze della creazione vengono pienamente attuate e rese manifeste. Ciò che esiste seminalmente in Dio si dispiega e si sviluppa nell'uomo. Le formulazioni chiave di questa concezione si possono già trovare nella Cabala di Gerona e nello Zohar. L'uomo è l'agente perfezionante nella struttura del cosmo, come tutti gli altri esseri creati, ma pie di essi, è composto di tutte le dieci Sefirot e "di tutte le cose spirituali"; cioè dei principi superni che costituiscono gli attributi della Divinità. Se le forze delle Sefirot si rispecchiano in lui, egli è anche il "trasformatore", che tramite la sua vita e i suoi atti amplifica tali forze al più alto livello di manifestazione e le dirige nuovamente verso la loro fonte originale. Per usare la formula neoplatonica il processo della creazione comporta il dipartirsi di tutto dall'Uno e il suo ritorno all'Uno; e la svolta cruciale in questo ciclo avviene nell'uomo, nel momento in cui egli incomincia a sviluppare una consapevolezza della sua vera essenza e aspira a ripercorrere la via dalla molteplicità della sua natura all'Unità da cui fu originato. L'essenziale corrispondenza o parallelismo tra gli aspetti interiori dell'uomo, di Dio e della creazione introduce tra essi un'azione reciproca che nella Cabala venne frequentemente drammatizzata mediante simboli antropomorfici, benché questi ultimi siano quasi sempre accompagnati dall'avvertimento che devono essere intesi soltanto "come se". Se le Sefirot in cui Dio rivela se stesso assumono la forma dell'uomo, facendone un microcosmo - una dottrina che incontrò l'accettazione universale dei cabalisti - allora l'uomo sulla terra è evidentemente capace di esercitare un'influenza sul macrocosmo e sull'uomo primordiale che sta al di sopra di lui. In realtà, è questo che gli accorda l'enorme importanza e la dignità descritte con tanta minuzia dai cabalisti. Poiché a lui e a lui soltanto è stato concesso il dono del libero arbitrio, ha il potere di far avanzare o di disgregare mediante le sue azioni l'unità di ciò che avviene nel mondo superiore e in quello inferiore. La sua essenza è insondabilmente profonda; egli è "un volto entro un volto, un'essenza entro un'essenza, e una forma entro una forma" (Ezra di Gerona). Anche la struttura fisica dell'uomo corrisponde a quella delle Sefirot come "la forma (temunah) che include tutte le forme", applicata nello Zohar all'uomo stesso, che è chiamato "il sembiante (deyokna) che include tutti i sembianti". Queste speculazioni sull'essenza dell'uomo furono espresse molto vigorosamente in varie affermazioni relative ad Adamo prima della caduta. Sebbene la sua armonia originale venisse disgregata dal suo peccato, la sua missione principale continuò ad essere quella di apportare un tikkun, una restaurazione del suo mondo, e di connettere l'inferiore con il superiore, "coronando" in tal modo la creazione, ponendo il Creatore sul Suo trono e rendendo perfetto il Suo regno su tutta la Sua opera. L'essenza dell'uomo ha una natura spirituale, per la quale il suo corpo serve esclusivamente come un manto esterno. Una credenza molto diffusa era che. prima del peccato di Adamo, anche il corpo fosse spirituale, una sorta di indumento etereo che divenne corporeo solo dopo la sua caduta. (A sostegno di questa concezione, l'affermazione in Gen. 3:21, che Dio fece "indumenti di pelle", Kotnot'or, per Adamo ed Eva dopo la cacciata dall'Eden, fu interpretata nel senso che essi in precedenza avevano portato "indumenti di luce", Kotnot'or). Se non fosse stato per il peccato di Adamo, la suprema volontà divina avrebbe continuato a operare ininterrotta in Adamo ed Eva e in tutti i loro discendenti, e l'intera creazione avrebbe funzionato in perfetta armonia, trasmettendo l'influsso divino dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto, così" che non vi sarebbe stata alcuna separazione tra il Creatore e la Sua creazione che aderiva a Lui. Questa comunione ininterrotta, che è il fine della creazione, si spezzò al momento del peccato di Adamo, quando la sua volontà inferiore fu separata dalla volontà divina dal suo libero arbitrio. Fu allora che nacque la sua individualità, la cui origine stava nella separazione da Dio, con la concomitante proliferazione di molteplicità. Ciò che non doveva essere altro che una serie di fluttuazioni periodiche all'interno di un unico sistema armonico si trasformò in un'opposizione di estremi che trovarono espressione nella netta polarizzazione del bene e del male. È il destino concreto della razza umana, e degli ebrei quali principali portatori di questa missione e ricevitori della rivelazione di Dio tramite la loro Torah, vincere questa polarizzazione, dall'interno della condizione umana creata dal primo peccato. È a questo punto che s'intrecciano il problema dell'uomo nel mondo e il problema del male nel mondo. Il peccato che diede al male un'esistenza attiva sta nell'incapacità dell'uomo di realizzare il suo scopo primevo, un'incapacità che si ripete nella storia. È funzione del bene nel mondo, i cui strumenti sono la Torah e i suoi comandamenti, gettare un ponte sull'abisso della separazione che fu formato dal peccato dell'uomo e restituire tutta l'esistenza all'armonia e all'unità originali. Lo scopo finale, in altre parole, è la riunificazione della volontà divina e di quella umana. È probabile che questa dottrina cabalistica della corruzione del mondo a causa del primo peccato dell'uomo abbia avuto origine in conseguenza a un contatto diretto con le credenze cristiane, sebbene sia del pari possibile che tali idee cristiane derivassero dalle stesse fonti cui si ispirarono le aggadot omologhe nel Midrash. Non può esservi dubbio che i cabalisti accettassero la dottrina che l'intera creazione fosse fondamentalmente lesa dal peccato dell'uomo dopo il quale la sitra ahra o "altra parte" conseguì sull'uomo un dominio che non verrà abolito definitivamente fino alla suprema redenzione, in cui tutte le cose ritorneranno al loro stato originale. L'elemento cruciale cristiano, tuttavia, qui manca, perché, a differenza del dogma cristiano del peccato originale, la Cabala non respinge l'idea che ogni uomo abbia il potere di superare questo stato di corruzione nella misura in cui è affetto da esso, mediante le sue forze innate e con l'aiuto divino prima della redenzione finale e indipendentemente da questa. Nella dottrina cabalistica dell'uomo assunsero un posto centrale le speculazioni di questo tipo, concernenti l'essenza del peccato quale alterazione dell'ordine primordiale delle cose, i cui risultati arrivavano a includere lo stesso mondo delle Sefirot, e riguardanti i mezzi per realizzare un tikkun che riporterà la creazione alla sua grandezza iniziale. Questo insegnamento si sviluppò da motivi puramente religiosi cui solo incidentalmente, con l'andar del tempo, si aggiunsero anche certi motivi psicologici. La metafora di Judah Halevi nel Kuzari, che parla di Israele come del cuore delle nazioni, fu ripresa dall'autore dello Zohar e dai cabalisti di Gerona, i quali parlavano del popolo ebraico come del "cuore dell'albero cosmico" (lev ha-ilan), un simbolo preso a prestito dal Sefer ha-Bahir. In questo contesto fondamentale, una comprensione più completa della missione d'Israele dipende dagli insegnamenti cabalistici sulla struttura dell'anima umana. I cabalisti adottarono le dottrine psicologiche del neoplatonismo e cercarono di adattarle al linguaggio della tradizione ebraica. Lo Zohar menziona talvolta le tra facoltà o disposizioni dell'anima umana unificata, come vengono esposte nella filosofia di Aristotele, ma in genere lo Zohar si riferisce a tre parti essenzialmente diverse dell'anima, che formano una sequenza dall'inferiore alla superiore e che sono designate con i termini ebraici nefesh, ru'ah e neshamah. È vero, anche qui veniva postulata un'unità tra le parti, ma rimaneva problematica. Il nefesh, o primo elemento, si trova in ogni uomo. poiché entra in lui al momento della nascita ed è la fonte della sua vitalità animale (hiyyut) e delle totalità delle sue funzioni psicofisiche. Tutto ciò che è necessario a tali funzioni è già contenuto in esso, ed è proprietà di tutti gli esseri umani. Le altre due parti dell'anima, invece, sono incrementi postnatali che si trovano soltanto nell'uomo che si è destato spiritualmente e ha compiuto uno sforzo speciale per sviluppare i suoi poteri intellettuali e la sua sensibilità religiosa. La ru'ah o anima si desta in un momento non specificato, quando un uomo riesce a innalzarsi al di sopra del suo aspetto puramente vitalistico. Ma la più importante è la più alta delle tre parti dell'anima, neshamah o spiritus. Si desta in un uomo quando questi si dedica alla Torah e ai suoi comandamenti, e schiude i suoi poteri superiori di apprendimento, soprattutto la sua capacità di apprendere misticamente la Divinità e i segreti dell'universo. Quindi è il potere intuitivo che collega l'umanità al suo Creatore. Fu solo nei termini più generali, tuttavia, che questa divisione tripartita venne adottata da tutte le varie scuole di pensiero cabalistiche. La terminologia rimane la stessa, ma i significati e le interpretazioni ad essa assegnati differiscono largamente nei dettagli. La divisione fondamentale dell'anima in tre parti e l'uso dei termini nefesh, ru'ah e neshamah (narrai nell'acronimo cabalistico) per descriverle derivarono da neoplatonici ebrei come Abraham ibn Ezra e Abraham bar Hiyya, ma durante l'evoluzione della Cabala nel XIII secolo il contenuto filosofico di queste categorie si confuse considerevolmente e cedette ad associazioni occultistiche, sotto la cui influenza i concetti rigorosamente definiti della psicologia platonica assunsero dimensioni fantastiche e mitiche. Questo processo si può chiaramente riscontrare nei testi classici dei tempi iniziali della Cabala. Già per i cabalisti di Gerona, che pure conservavano l'indentificazione originale della neshamah con l'anima razionale dei filosofi, la facoltà razionale dell'anima era fusa con quella intuitiva e quella mistica. Solo la neshamah, essi affermavano, che era simile a una scintilla divina dell'uomo, era emanata direttamente come la ru'ah o dai quattro elementi come il nefesh. Qui c'è ancora un elenco della divisione filosofica dell'anima nelle sue facoltà animale o vitale, vegetativa e razionale e dell'associazione dell'origine dell'anima al mondo degli intelletti, e particolarmente dell'intelletto attivo, come nella filosofia di Isaac Israeli. In questo sistema, il nefesh dell'uomo è ancora un comune denominatore tra lui e il mondo animale, mentre solo la neshamah, razionale, la cui origine è nel mondo delle Sefirot, e più precisamente nella Sefirah Binah, merita veramente di essere chiamato l'anima umana, perché in essa vi è una scintilla divina, creata dal nulla, certamente, ma da un nulla che appartiene comunque al regno della Divinità stessa. Alcuni dei cabalisti di Gerona sostenevano addirittura che la fonte della neshamah era nella Sefirah della Divina Sapienza o Ho1~hmah: una differenza d'opinione che verteva sulla questione dell'altezza cui può giungere la cognizione mistica dell'uomo. I diversi strati dello Zohar rispecchiano le varie dottrine psicologiche verso cui l'autore si trovò a propendere in tempi diversi. Nel Midrash ha Ne'elam è ancora chiaro il debito verso la psicologia della scuola di Maimonide, con la sua dottrina dell'"intelletto acquisito", che è posto in atto nell'uomo tramite l'adesione alla Torah e ai suoi comandamenti e che è l'unico ad avere il potere di accordargli l'immortalità dell'anima. Insieme a questa dottrina, tuttavia, troviamo la caratteristica divisione aristotelica dell'anima, senza tuttavia l'identificazione con nefesh ru'ah e neshamah, e in connessione con un certo numero di funzioni che sono esposte solo da Moses de Leon. Così", ad esempio, troviamo una distinzione tra "anima parlante' (ha-nefesh ha-medabberet) e "anima razionale" (ha-nefesh hasikhlit); solo quest'ultima possiede il potere superno che può portare l'uomo alla perfezione ed è identica alla vera anima o neshamah. In effetti, la facoltà chiamata nefesh abbraccia tutte e tre le forze, l'anima, la vegetativa e la cognitiva (medabber), che comprendono la totalità psicofisica dell'uomo. La neshamah, per contrasto, è una forza esclusivamente relata alla cognizione mistica, mentre la ru'ah rappresenta uno stadio intermedio che coinvolge il potere etico di distinguere tra bene e male. La stessa neshamah, d'altra parte, essendo "una parte di Dio lassù", e capace di compiere soltanto il bene. È impossibile parlare, qui, di un sistema di visione coerente: i motivi puramente religiosi si alternano liberamente con quelli filosofici, una confusione che si estende anche alla relazione tra la consapevolezza intellettuale e la stessa neshamah. In alcuni casi l'autore, che esprime le sue concezioni per bocca di vari saggi rabbinici, abbandona addirittura la divisione tripartita dell'anima a favore di una distinzione binaria tra l'anima vitale (ha-nefesh ha-hayyah) e la neshamah. Nel corpus principale dello Zohar queste opinioni divergenti si consolidano in una sorta di posizione unificata in cui i motivi religiosi predominano su quelli psicologici e filosofici tradizionali. Emerge qui una contraddizione fondamentale tra la credenza che l'anima sia universalmente la stessa per tutta l'umanità, e un criterio duplice, secondo il quale l'anima dell'ebreo e l'anima del gentile sono dissimili. I cabalisti di Gerona conoscevano solo la prima dottrina, e cioè quella dell'anima universalmente comune a tutti i discendenti di Adamo, ed è nella parte principale dello Zohar che leggiamo per la prima volta una divisione delle anime in non ebree ed ebree. Le prime hanno origine nell' "altra parte" o sitra ahra, le seconde nella "parte santa" o sitra dikedusha. Nello Zohar, l'interesse è quasi esclusivamente circoscritto alla struttura psichica degli ebrei. Nella Cabala successiva, in particolare nelle opere di Hayyim Vital, questo dualismo tra l'"anima divina" (ha-nefesh haelohit) e l'"anima naturale" (ha-nefesh ha-tiu'it) viene posto in grandissimo risalto. Un problema importante per la Cabala era rappresentato dalle diverse fonti delle diverse parti dell'anima nei diversi mondi dell'emanazione. Secondo il Midrash ha-Ne'elam anche la neshamah più alta emana soltanto dal Trono di Gloria, cioè dal regno inferiore a quello delle Sefirot, ma superiore a quello degli intelletti. Quindi, esso viene considerato come qualcosa di creato, sebbene sia una creazione di altissimo ordine. Nel corpus principale dello Zohar questa concezione viene abbandonata, e ad ogni parte dell'anima viene assegnata una radice nel mondo delle Sefirot: nefesh ha origine nella Sefirah Malkhut, ru'ah nella Sefirah Tiferet e neshamah nella Sefirah Binah. La discesa della neshamah superna viene compiuta mediante la "sacra unione" del "re" (melekh) e della "regina" (matronita), che sono sinonimi delle Sefirot Tiferet (o Yesod) e Malkhut. Nella sua radice, ogni anima è un composto di maschile e femminile, e solo nel corso della loro discesa le anime si dividono in maschili e femminili. Il simbolismo usato per descrivere la discesa delle anime dal mondo dell'emanazione ha un sapore fortemente mitico. Hanno particolare rilievo le immagini dell'albero delle anime, sul quale fiorisce ogni anima, e del fiume che trasporta le anime verso il basso, lontano dalla loro fonte superna. In entrambi i simbolismi, la Sefirah Yesod è considerata una stazione intermedia, dalla quale devono passare tutte le anime prima di entrare nella "casa del tesoro delle anime" (ozar ha-neshamot), che è situata nel paradiso celeste (gan eden shel ma'alah), dove esse vivono in beatitudine fino a quando vengono chiamate a discendere ulteriormente e ad assumere una forma umana. Esistono molte differenze nei dettagli tra le varie esposizioni di questo processo, ma tutti i cabalisti sono concordi circa la preesistenza dell'anima, soprattutto nel senso più strettamente definito di quest'ultima. Altrettanto indiscussa è la credenza che l'anima abbia origine su un piano superiore a quello degli angeli, una dottrina ripetutamente ricordata nelle discussioni della condizione umana, perché se l'uomo è capace di sprofondare negli indescrivibili abissi della depravazione, ha anche la capacità, quando raggiunge la sua vera intensità, di ascendere addirittura al di sopra del regno angelico. Nessun angelo ha la forza potenziale di restituire i mondi a uno stato di tikkun, mentre tale potere è stato concesso all'uomo. In aggiunta alle tre parti dell'anima che venivano indicate collettivamente con l'acronimo narrai, vari cabalisti, dopo lo Zohar, pervennero a parlare di altre due parti addizionali e più alte dell'anima, che essi chiamarono hayyah eyehidah e che furono considerate come i livelli più sublimi della cognizione intuitiva, alla portata di pochi eletti. Nella Cabala lurianica, queste cinque parti dell'anima (naran-hai, per acronimo) vennero associate ai cinque parzufim di Adam Kadmbn in ognuno dei mondi di azilut, beri'ah, yezirah e asiyyah, così" che si creò una immane molteplicità di ordini d'anime potenziali, in armonia con il particolare mondo dell'emanazione e il parzuf dal quale aveva origine una data anima. L'anima piùalta. che aveva la sua fonte nella yehidah della Sefirah Keter del mondo di azilut, ed era considerata quella del Messia. A differenza delle masse di anime soggette alle leggi generali della trasmigrazione, le anime di alto rango, si riteneva, restavano celate tra le luci superne fino a quando veniva il loro tempo, e non entravano nel ciclo della reincarnazione. A partire dallo Zohar, e nelle opere dei discepoli di Isaac Luria, si menziona un aspetto dell'uomo che nella Cabala è chiamato zelem (l' "immagine", in base a Gen. 1:26: "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza") e che non si identifica con nessuna delle parti dell'anima ricordate piùsopra. Lo zelem è il principio d'individualità di cui è dotato ogni essere umano, la configurazione spirituale o essenza che è esclusivamente sua. In questo concetto sono combinate due nozioni: una si riferisce all'idea dell'individuazione umana e l'altra alla veste eterea dell'uomo o corpo etereo (sottile) che serve da intermediario tra il suo corpo naturale e la sua anima. Data la loro natura spirituale, la neshamah e il nefesh sono incapaci di formare un legame diretto con il corpo, ed è lo zelem che serve da "catalizzatore" tra essi. Inoltre, è l'indumento di cui le anime si vestono nel paradiso celeste prima di discendere nel mondo inferiore, e che indossano nuovamente dopo la riascesa seguita alla morte fisica; durante il loro soggiorno sulla terra è celato nell'organismo psico-fisico dell'uomo, ed è discernibile solo all'occhio intellettuale del cabalista. La fonte di questa concezione è indubbiamente la dottrina assai simile sostenuta dai più tardi neoplatonici circa il corpo etereo o sottile che esiste in ogni uomo e che si rivela all'esperienza mistica di coloro che possiedono il dono della visione. A differenza dell'anima, lo zelem cresce e si sviluppa in armonia con i processi biologici del suo possessore. I cabalisti si servivano di un gioco di parole per tracciare un parallelo tra lo zelem dell'uomo e la sua ombra (zel). Lo Zohar considera apparentemente l'ombra come una proiezione dello ,zelem interiore, una credenza che portò con sè varie superstizioni magiche popolari, molto diffuse in Europa durante il Medioevo. Si riteneva che lo zelem fosse il depositario degli anni vissuti da un uomo e che si dipartisse con l'avvicinarsi della sua morte. Secondo un'altra concezione, lo zelem era intessuto come un indumento per l'anima, formato dalle buone azioni di ogni uomo, e serviva come una sorta di aspetto superno che lo proteggeva e lo rivestiva dopo la sua morte. Un'antica credenza relativa a tale corpo etereo, che aveva origine nella religione persiana e che pervenne all'autore dello Zohar tramite leggende successive per associarsi nella sua mente a varie idee occultiste, era che lo zelem fosse il vero io di un uomo. Nella Cabala lurianica, a nefesh, ru'ah e neshamah veniva rispettivamente assegnato uno zelem che permetteva loro di funzionare nel corpo umano. Senza lo zelem l'anima avrebbe arso il corpo con il suo ardente splendore. Moses de Leon, nei suoi scritti in ebraico, collega gli insegnamenti di Maimonide, secondo i quali la missione dell'uomo in questo mondo consiste nella piena realizzazione del suo potere intellettuale, con le dottrine della Cabala. Nel suo Ha-Nefesh ha-Hakhamah (1290), De Leon scrive: "Lo scopo dell'anima, quando entra nel corpo, sta nel mostrare i suoi poteri e le sue capacità nel mondo... E quando essa discende in questo mondo riceve il potere e l'influsso per guidare questo mondo vile e per subire un tikkun in alto e in basso, poiché è di alto rango, essendo composta di tutte le cose, e se non fosse composta in modo mistico di ciò che sta in alto e di ciò che sta in basso, non sarebbe completa... E quando è in questo mondo, perfeziona se stessa e si completa da questo mondo inferiore... E allora è in uno stato di perfezione, come non era invece all'inizio, prima della sua discesa". Secondo una credenza ancora precedente, e già presente nella letteratura dei heikhalot, tutte le anime sono inizialmente intessute in una cortina (pargod) appesa davanti al Trono di Gloria, e questo simbolo, "la cortina d'anime", fu adottato e adattato da numerosissimi testi classici cabalistici. In questa cortina sono registrati l'intera storia passata e il destino futuro di ogni anima. Il pargod non è soltanto un tessuto mistico, composto d'etere spirituale, che contiene o è capace di ricevere una registrazione della vita e delle opere di ogni uomo: è inoltre la dimora di tutte le anime che sono risalite dal basso alla loro terra natia. Le anime dei malvagi non vi troveranno posto. La dottrina cabalistica dell'uomo e della sua anima trattava estesamente problemi escatologici come il fato dell'anima dopo la morte e la sua ascesa attraverso un fiume di fuoco, simile a una sorta di purgatorio, fino al paradiso terrestre, e di qui ai piaceri ancora più sublimi del paradiso celeste e del regno chiamato dai primi cabalisti "vita eterna" (zeror ha-hayyin, letteralmente "il fardello della vita"), talora sinonimo del paradiso celeste e talora inteso come riferimento a una delle stesse Sefirot, alle quali l'anima ritorna per partecipare alla vita della Divinità. La vita umana sulla terra quindi, deve essere vista nell'ampio contesto della vita dell'anima prima della nascita e dopo la morte; perciò il grande interesse della Cabala per le descrizioni del paradiso e dell'inferno, come quelle che troviamo, ricche di molti dettagli immaginosi, nelle opere dei cabalisti di Gerona o nello Zohar, che inaugurarono una lunga, influente tradizione destinata a fiorire soprattutto nella letteratura più popolare della Cabala fino alle generazioni recenti. Qui si attribuiva grande importanza alle credenze che si trovavano già nell'aggadah, soprattutto in un numero rilevante di piccoli, tardi Midrashim, e che venivano reinterpretate alla luce del simbolismo cabalistico e abbellite di ulteriori dettagli. Esistono molti paralleli evidenti tra questo materiale e simili motivi escatologici del Cristianesimo e dell'Islam. A nessuno di questi insegnamenti venne mai conferita una forma definitiva e autorevole; perciò conservarono una notevole libertà d'immaginazione, in cui si fondevano elementi folklorici e mistici. I cabalisti del XIII secolo in particolare, tra cui l'autore dello Zohar, furono attratti da tali speculazioni, e dedicarono considerevole attenzione a questioni come gli indumenti delle anime in paradiso la natura delle loro percezioni l'espansione della loro coscienza neli'apprendimento del divino, e l'unificazione del livello più alto della neshamah con Dio. In generale, tuttavia, i cabalisti erano molto prudenti nel parlare di una effettiva unione mistica dell'anima con Dio, e preferivano riferirsi a una comunione spirituale (devekut), null'altro. Nel suo commento sulle lettere dell'alfabeto ebraico, Jacob b. Jacob Kohen (1270) parla d'unione mistica senza definirne la natura. Moses de Leon menziona una condizione suprema, ma temporanea, in cui l'anima si trova di fronte a Dio in uno stato di contemplazione e di assoluta beatitudine, senza alcun indumento tra sè e Dio, benché di regola essa debba indossare una veste d'etere o di luce anche nel paradiso celeste. Le descrizioni dell'unione dell'anima con Dio in termini di nozze divine sono rare nella Cabala, benché vi siano alcuni esempi, come i commenti al Cantico dei Cantici che l'interpretano come un dialogo nuziale tra Dio e l'anima. Anche qui, l'amore che viene descritto è quello tra un padre e una figlia, e non ha carattere erotico, e non si parla della dissoluzione ¥ dell'anima nella sostanza di Dio, ma soltanto del suo rapimento temporaneo alla presenza divina. Solo negli scritti e nelle poesie dei cabalisti di Safed vi è un forte tono erotico. È controverso se le scuole più tarde del pensiero cabalistico tendessero verso una posizione mistica estrema, come quella che si incontra nel Hasidismo Habad, dove alcuni portavoce sostenevano che l'anima perde interamente in Dio la propria identità. L'autore dello Zohar (2:253a) scrive delle anime che passano davanti a Dio nella "stanza dell'amore", dalla quale le anime nuove si dipartono per discendere; ma non ne parla in termini di immagini coniugali. Al contrario, il risultato di questo "ricevimento" divino è che Dio fa giurare all'anima di adempiere la sua missione terrena e di conseguire "la conoscenza dei misteri della fede" che la purificherà per il suo ritorno in patria. Mediante il suo risveglio tramite la Torah e i suoi comandamenti, l'anima acquisisce nuova forza e contribuisce a completare la figura mistica della Keneset Yisrael, o Comunità di Israele, che è una sola cosa con la Shekhinah. Solo rarissime anime, come quelle di Enoch e di Elia, conseguono una comunione (devekut) permanente con Dio; tra gli altri campioni biblici della rettitudine vi sono infinite gradazioni e differenze di rango. Inoltre non vi è un solo fato che attenda le diverse parti dell'anima dopo la morte. Il nefesh rimane per qualche tempo nella tomba, meditando sul corpo; la ru'ah ascende al paradiso terrestre secondo i suoi meriti; e la neshamah ritorna direttamente alla patria natia. La punizione e la retribuzione spettano solo al nefesh e alla ru'ah. Secondo Moses de Leon, ad ogni giubileo cosmico l'anima ascende dalla sua comunione con la Shekhinah al celato paradiso celestiale nel mondo della mente divina, cioè alla Sefirah Hokhmah. Gli insegnamenti della Cabala relativi all'anima sono inestricabilmente connessi alla dottrina della trasmigrazione, un fondamentale principio cabalistico che frequentemente veniva a conflitto con altre concezioni, come ad esempio quella della ricompensa e della punizione che vengono dispensate all'uomo in paradiso e all'inferno. (Per ulteriori dettagli. si veda la sezione Gilgul a p. 345). Nel corso dell'evoluzione della Cabala, l'idea della trasmigrazione fu radicalmente ampliata da quella di una punizione limitata a certi peccati a quella di una legge generale che riguardava tutte le anime di Israele e, in uno stadio successivo, le anime di tutti gli esseri umani e persino, nella sua forma più radicale, l'intera creazione, dagli angeli alle cose non senzienti. In tal modo la trasmigrazione cessò di essere considerata solo come una punizione, e venne vista come un'occasione offerta all'anima per adempiere la sua missione e rimediare alle manchevolezze delle trasmigrazioni precedenti. In confronto allo Zohar, gli insegnamenti della Cabala lurianica riguardo la struttura psichica dell'uomo sono molto più complessi, poiché si riferiscono tanto all'origine dell'anima quanto alla struttura interiore dell'uomo. Nelle opere di Hayyim Vital vi è inoltre una discrepanza tra la sua presentazione dell'argomento nei libri destinati al consumo popolare, come in Sha'arei Kedushah, e nei suoi scritti più esoterici. Nella sua prima opera, Vital distingue chiaramente fra le tre "cave" (mahzevim): la cava delle Sefirot, che è tutta divinità, la cava delle anime, e la cava degli angeli, che non sono divini. La sua spiegazione del porsi in essere delle anime mediante il processo emanativo, contenuta in Ez, Hayyim, d'altra parte, è molto più complessa e in genere segue parallelamente la sua delineazione dello sviluppo delle luci che manifestano l'esistenza divina dei mondi di azilut e beri'ah. Come le luci superne dei parzufim di azilut si sviluppano tramite congiunzioni e "accoppiamenti" (zivvugim) deiparzufim, le anime nascono mediante processi corrispondenti. Nella Sefirah Malkhut di ogni parzuf si celano anime in uno stato potenziale che ascendono ai modi più alti di quel parzuf e vengono poste in atto come risultato delle "unioni" delle Sefirot. All'inizio queste anime esistono solo nello stato di "acque femminili" (mayyim nukbin); cioè, sono potenze passive che possiedono il potere del risveglio attivo ma mancano tuttora di armonia e di forma, perché la loro fonte superna sta in quelle 288 scintille di luce che caddero nelle kelippot al momento della rottura dei vasi. Solo mediante addizionali "accoppiamenti" del parzuf di Ze'eirAnpin con la sua controparte femminile o nukba, ricevono la struttura di anime. Ad ogni nuovo risveglio delle "acque femminili" in questi parzufim, sorgono nuove opportunità per la creazione di anime. Tale processo ricorre in tutti i quattro mondi dell'emanazione; le possibili variazioni nei modi delle anime sono praticamente infinite. Ognuna di tali anime ricapitola in miniatura la struttura dei mondi attraverso i quali è passata nel processo di venire creata, e perciò quando discende per entrare in un corpo in questo mondo è in grado di operare per il tikkun di quest'ultimo per il suo innalzamento e, in una certa misura, per innalzare anche i mondi superiori. D'altra parte, numerosi testi lurianici pongono in risalto la convinzione che in sostanza le anime come tali rimangono al di sopra e non entrano affatto nei corpi, ma piuttosto irradiano scintille di sè che possono essere chiamate anime (neshamot) solo per analogia. La vera anima aleggia sopra un uomo, da vicino o da lontano, e mantiene un immediato legame magico con la sua scintilla sottostante. Le esposizioni popolari di queste dottrine erano sempre molto più semplici delle delucidazioni originali, che tendevano ad avere un forte sapore gnostico. L'anima di Adamo era composta di tutti i mondi ed era destinata a risollevare e a reintegrare tutte le scintille di santità rimaste nelle kelippot. La sua veste era d'etere spirituale e conteneva in sè tutte le anime della razza umana nella condizione perfetta. Aveva 613 membra, uno per ciascuno dei comandamenti della Torah, di cui Adamo aveva la missione di innalzare l'aspetto spirituale. Ogni membro formava un parzuf compiuto, conosciuto come "grande radice" (shoresh gadol), che a sua volta conteneva 613 "piccole radici", o, secondo altre versioni, fino a 600.000. Ogni "piccola radice" che veniva chiamata anche "grande anima" (neshamah gedolah) celava in sè 600.000 scintille o anime individuali. Anche queste scintille erano suscettibili di ulteriori scissioni, ma rimanevano una speciale affinità e un potere di attrazione fra tutte le scintille discendenti da una comune radice. Ognuna di queste scintille formava di per sè una completa struttura o komah. Se Adamo avesse adempiuto la sua missione tramite le opere spirituali di cui era capace, e che richiedevano azione contemplativa e profonda meditazione, la catena vivente tra Dio e la creazione si sarebbe chiusa e il potere del male, la kelippah, avrebbe subito quella completa separazione dalla santità che, secondo Luria, era il fine dell'intero processo creativo. Quindi, Adamo aveva in sè i poteri pienamente sviluppati dell'Adam Kadmon in tutti i suoi parzufim e la profondità della sua caduta, quando peccò, fu eguale alla grande altezza del suo precedente rango cosmico (si veda più sotto). Anziché innalzare ogni cosa, tuttavia, egli la fece precipitare ancora di più. Il mondo di asiyyah, che in precedenza stava saldamente sulla propria base, adesso era immerso nel regno delle kelippot e soggetto al loro dominio. Là dove prima stava l'Adam Kadmon si levò una creatura satanica, l'Adam Beliyya'al che acquisì potere sull'uomo. In seguito alla mescolanza del mondo di asiyyah con la kelippah, Adamo assunse un corpo materiale e tutte le sue funzioni psicofisiche divennero corporee. Inoltre, la sua anima si frantumò e la sua unità andò in pezzi. Vi erano in essa elementi di alto rango, conosciuti come "luce superiore" (zihara ila'ah) che rifiutarono di partecipare al peccato di Adamo e si dipartirono ascendendo: e non ritorneranno in questo mondo fino al tempo della redenzione. Altre anime rimasero in Adamo anche dopo che la sua statura spirituale fu sminuita dalle dimensioni cosmiche a quelle terrene; e queste furono le anime sante che non caddero in potere delle kelippot. Tra esse vi erano le anime di Caino e Abele, che entrarono nei rispettivi corpi tramite la trasmissione ereditaria diretta anziché tramite il processo della trasmigrazione. In maggioranza, tuttavia, le anime che erano in Adamo caddero e furono soggiogate dalle kelippot; e sono queste anime che devono conseguire il loro tikkun tramite il ciclo della trasmisgrazione, stadio dopo stadio. Per così" dire, la caduta di Adamo, quando egli peccò, fu una ripetizione della catastrofe della rottura dei vasi. La Cabala lurianica si diffonde a lungo sugli elementi drammatici del peccato di Adamo e delle sue conseguenze. La storia interiore del popolo ebraico e del mondo intero venne identificata con le ricorrenti reincarnazioni tramite le quali gli eroi biblici lottarono per conseguire il tikkun. Tra questi eroi vi erano tanto "anime originali" (neshamot mekoriyyot) che abbracciavano una grande e potente collettività psichica ed erano capaci di grandi poteri di tikkun benefici per il mondo intero, quanto altre anime personali, individuali, che potevano conseguire un tikkun solo per se stesse. Le anime discendenti da un'unica "radice" comprendevano "famiglie" che avevano speciali rapporti di affinità ed erano capaci di aiutarsi a vicenda. Di tanto in tanto, sia pure raramente, alcune delle anime superiori che non erano state neppure contenute nell'anima di Adamo potevano discendere sulla terra per partecipare a qualche grande missione di tikkun. Un'innovazione completa, nella Cabala lurianica, fu il risalto attribuito all'alto rango delle anime di Caino e Abele, in particolare del primo. Questi due figli di Adamo furono presi come simboli delle forze delle gevurot e dei, hasadim, cioè i poteri restrittivi ed espansivi della creazione. Sebbene il potere espansivo di hesed sia al presente maggiore del potere restrittivo di gevurah e din, questo ordine verrà invertito nello stato di tikkun. Paradossalmente, quindi, molti dei grandi personaggi della storia ebraica sono rappresentati come uscenti dalla radice di Caino, e con l'appressarsi del tempo messianico, secondo Isaac Luria, il numero di tali anime aumenterà. La natura del peccato di Adamo non viene mai definita in modo autorevole nella letteratura cabalistica, e se ne possono trovare concezioni estremamente diverse. Il problema del primo peccato è strettamente connesso al problema del male discusso piùsopra. Secondo la Cabala spagnola, il fattore cruciale del peccato stava nel "taglio dei germogli" (kizzuz ha-netiyyot), cioè nella separazione di una delle Sefirot dalle altre, facendo di essa l'oggetto di uno speciale culto. La Sefirah che Adamo separò fu Malkhut, che egli "isolò dal resto". In Ma'arekhet Elohut quasi tutti i principali peccati menzionati nella Bibbia vengono definiti come fasi diverse del "taglio dei germogli" o come ripetizioni del peccato di Adamo che impedì la realizzazione dell'unità tra il Creatore e la sua creazione. Tali furono l'ubriachezza di Noè, la costruzione della Torre di Babele, il peccato di Mosè nel deserto, e soprattutto il peccato del vitello d'oro, che distrusse quanto era stato compiuto nel grande tikkun avvenuto durante la teofania del Monte Sinai. In ultima analisi, anche la distruzione del Tempio e l'esilio del popolo ebraico furono i risultati di meditazioni disinformate che portarono la divisione nei mondi emanati. Questi peccati causarono disordine in alto e in basso, ovvero, nel simbolismo dello Zohar, causarono divisione tra il "re" (melekh) e la "regina" (matronita) o Shekhinah. L'esilio della Shekhinah dallo sposo fu il principale risultato metafisico di questi peccati. Le buone azioni degli eroi biblici, d'altra parte, soprattutto quelle dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, posero riparo a questa falla fondamentale della creazione e servirono come paradigma per quanti vennero dopo. È da notare che lo stesso autore dello Zohar era reticente nei suoi commenti sulla natura del peccato di Adamo. L'autore dei Tikkunei ha-Zohar fu meno circospetto. Il peccato di Adamo, egli affermava, ebbe luogo soprattutto nella stessa mente divina, cioè nella prima o nella seconda Sefirah. dalla quale causò l'allontanamento di Dio; anzi, fu solo il peccato di Adamo a far s" che Dio divenisse trascendente (Tikkun 69). Per quanto concerne l'effetto del primo peccato, troviamo due linee contrastanti di pensiero: 1) Mentre in precedenza bene e male erano mescolati, il peccato separò il male quale realtà distinta (come in Avodat ha-Kodesh di Meri ibn Gabbai); 2) Bene e male erano in origine separati, ma il peccato li mescolò (questa era la posizione di Gikatilla e, in generale, della Cabala lurianica). Nella tradizione degli insegnamenti precedenti, come in Ma'arekhet haElohut e nel Sefer ha-Peli'ah, anche la Cabala lurianica spiegava occasionalmente il primo peccato come una disavventura "tecnica", anche se carica di gravi conseguenze, nella procedura del tikkun. Questo avvenne perché Adamo aveva fretta di completare il tikkun prima del tempo stabilito, che doveva essere il primo sabbath della creazione, avente inizio nel pomeriggio del sesto giorno. In queste spiegazioni c'è la tendenza a sottolineare il concetto che essenzialmente i piùgrandi peccatori biblici erano intenzionati a far bene, ma avevano errato nella scelta dei mezzi. Lo strumento principale per riparare alla falla primordiale nell'aspetto metafisico del completamento del tikkun dei vasi infranti e in relazione al peccato di Adamo che spezzò i canali di comunicazione tra il mondo inferiore e quello superiore. è l'impegno umano alla santità tramite la Torah e la preghiera. Questa attività consiste di azioni che restaurarono il mondo nei suoi aspetti esteriori, e di preghiere e meditazioni, che effettuano tale restaurazione interiormente. Le une e le altre hanno profonde dimensioni mistiche. Nell'atto della rivelazione Dio parlò e continua a parlare all'uomo. mentre nell'atto della preghiera è l'uomo che parla a Dio. Il dialogo è basato sulla struttura interiore dei mondi, sulla quale ogni azione umana ha un effetto di cui l'uomo non sempre è consapevole. Le azioni dell'uomo che è conscio del loro significato. tuttavia, hanno il massimo effetto, e contribuiscono ad accelerare il tikkun finale. Poiché il mondo divenne materiale in conseguenza del primo peccato, la grande maggioranza dei comandamenti nella Torah acquistarono un significato materiale perché ogni strumento deve essere adatto al fine che deve servire. Tuttavia questo non sminuisce la spirituale dimensione interiore posseduta da ogni comandamento, il cui scopo collettivo è la restaurazione e la perfezione della vera statura dell'uomo in tutte le 613 membra della sua anima. La stessa Torah, che prescrive un modo di vita pratico per gli esseri umani alla luce della rivelazione. offre contemporaneamente una guida esoterica al mistico nella sua lotta per comunicare con Dio. In quest'ottica è evidente il carattere conservatore della Cabala quale fattore operante per difendere e approfondire i valori dell'Ebraismo. L'osservanza della Torah era santificata quale mezzo per abolire la divisione nel mondo, e ogni uomo era chiamato a fare la sua parte in tale compito, secondo il rango della sua anima e il ruolo assegnatogli. La luce spirituale che risplende in ogni comandamento collega l'individuo alla radice della sua anima e alle luci superne in generale. Quindi, alla collettività delle anime di Israele era affidata una missione che non poteva essere compiuta facilmente e che comportava molte discese e riascese prima che potessero venire superati tutti gli ostacoli, ma che in ultima analisi aveva uno scopo chiaro e urgente: il tikkun e la redenzione finale del mondo. Esilio e redenzione Ne consegue quindi che lo storico esilio del popolo ebraico ha anch'esso la sua causazione spirituale in varie perturbazioni e falle nell'armonia cosmica. di cui funge come simbolo concreto e concentrato. La situazione dei mondi spirituali al tempo dell'esilio era completamente diversa dallo stato ideale in cui sarebbero dovuti esistere secondo il piano divino e in cui si troveranno al tempo della redenzione. In una forma o nell'altra questa convinzione ricorre in tutta l'evoluzione della Cabala. I cabalisti di Gerona affermavano che per tutta la durata dell'esilio le Sefirot non funzionano normalmente; via via che esse vengono attratte verso la fonte della loro emanazione originale, Israele manca della capacità di aderire veramente ad esse per mezzo dello Spirito Divino, che anch'esso si è dipartito per riascendere. Solo mediante lo sforzo individuale il mistico, e lui soltanto, può ancora conseguire uno stato di devekut. In alcuni testi ci viene detto che solo le cinque Sefirot inferiori continuano a condurre un'esistenza emanata in basso mentre le Sefirot superiori rimangono in alto. Quando il popolo ebraico viveva ancora sulla sua terra, d'altra parte, l'influsso divino discendeva dall'alto in basso e riascendeva dal basso in alto, fino al supremo Keter. Le lettere del Tetragrammaton, che contengono tutti i mondi emanati, non sono mai unite per l'intera durata dell'esilio, specialmente la vav finale e he, che sono le Sefirot Tiferet e Malkhut e che erano già separate al tempo del primo peccato di Adamo, quando ebbe inizio l'esilio in senso cosmico. Da allora non vi è stata unità costante tra il "re" e la "regina", e verrà ristabilita solo in futuro, quando la regina, che è la Shekhinah e la Sefirah Malkhut, riascenderà per ricongiungersi con la Sefirah Tiferet. Del pari solo nei tempi messianici l'uomo ritornerà a quello stato paradisiaco in cui "egli faceva per sua natura ci che era giusto fare, e la sua volontà non era divisa" (Nahmanides su Deut. 30:6). Fu negli stessi circoli spagnoli che per la prima volta nacque la fede nella natura mistica del Messia che si riteneva consistesse in un'armonia di tutti i livelli della creazione, dai più rarefatti ai più grossolani, così che egli possedeva "un potere divino e un potere angelico e un potere umano e un potere vegetativo e un potere animale" (Azriel nella sua Epistola a Burgos). Il Messia verrà creato mediante la speciale attività del Malkhut, e questa origine servirà ad elevare i suoi poteri di cognizione al di sopra di quelli degli angeli. Anche lo Zohar afferma che la fase cruciale della redenzione si compie nell'ininterrotta congiunzione di Tiferet e Malkhut, e che la redenzione di Israele è una cosa sola con la redenzione di Dio stesso dal suo esilio mistico. La fonte di questa credenza è talmudica e si può trovare tanto nel Talmud palestinese, Sukkah 4. 3, quanto nel Midrash Lev. R. 9, 3: "La salvazione del Santissimo, che sia benedetto, è la salvazione di Israele". Al tempo della redenzione "tutti i mondi saranno in un'unica congiunzione (be-zivvug ehad)", e nell'anno del grande giubileo Malkhut sarà congiunto non soltanto a Tiferet ma anche a Binah. In Ra'aya Meheimna e Tikkunei Zohar incontriamo l'idea che, mentre durante il periodo dell'esilio il mondo è asservito all'Albero della conoscenza del Bene e del Male, in cui i regni del bene e del male lottano tra loro, così che vi sono santità e impurità, atti permessi e atti proibiti, sacro e profano, nel tempo della redenzione il dominio passerà all'Albero della Vita, e tutto sarà di nuovo com'era prima del peccato di Adamo. I motivi utopistici nell'idea messianica ricevono l'espressione suprema in queste opere e in altre composte sotto la loro influenza. La futura abolizione dei comandamenti, menzionata nel Talmud (Nid. 61b) era interpretata dai cabalisti in riferimento alla completa spiritualizzazione dei comandamenti, che si sarebbe compiuta sotto il dominio dell'Albero della Vita. I dettagli di questa concezione tendevano a variare considerevolmente a seconda delle capacità omiletiche del cabalista che l'abbracciava. Anche nella Cabala lurianica l'esilio di Israele è connesso al peccato di Adamo, il cui risultato fu la dispersione delle scintille divine, sia della Shekhinah che dell'anima di Adamo. Quando le scintille si sparsero ancora di più nei discendenti di Adamo, la missione di raccoglierle e di farle riascendere, cioè di preparare la via alla redenzione, fu assegnata a Israele. Perciò l'esilio non è semplicemente una punizione e una prova, ma anche una missione. Il Messia non verrà fino a quando il bene nell'universo non sarà stato completamente separato dal male, perché, come dice Vital, "il raduno degli esuli significa la raccolta di tutte le scintille che erano in esilio". L'esilio può essere paragonato a un giardino che è stato abbandonato dal giardiniere e che è invaso dalle erbacce (Ez Hayyim, cap. 42, par. 4). Il tikkun progredisce in stadi predeterminati da una generazione all'altra, e tutte le trasmigrazioni delle anime servono a tale scopo. Con l'approssimarsi della fine dell'esilio, il tikkun della struttura umana delle Sefirot raggiunge i "piedi" (akeuayyim); così le anime che seguono "le orme del Messia" sono eccezionalmente resistenti al tikkun: da qui derivano le speciali prove che avverranno alla vigilia della redenzione. Non c'erano opinioni concordi per quanto concerneva il fatto che anche l'anima del Messia entrasse o no nel ciclo della trasmigrazione; alcuni cabalisti ritenevano che la sua anima si fosse incarnata anche in Adamo e in Davide (secondo altre opinioni, anche in Mosè), mentre altri affermavano (una concezione che si trova per la prima volta nel Sefer ha-Bahir) che non era soggetta alla legge della trasmigrazione. Secondo la Cabala lurianica, ognuno dei parzufim dell'Adam Kadmon aveva una controparte femminile (nukba), eccettuato il parzuf di Arikh Anpin, che era strumentale nella creazione del mondo tramite un processo di autogenia (ziuuug minnei u-uei) cioè di "accoppiamento" con se stesso. Al tempo della redenzione, tuttavia, potrà "accoppiarsi" abbinando il suo Yesod con la sua nukba (il crescente Sefirah Malkhut), e la progenie dell'atto sarà la radice più celata dell'anima del Messia Figlio di Davide, cioè la sua yehldah. La discesa di quest'anima dipende dallo stato di tikkun prevalente nei diversi mondi, perché in ogni generazione vi è un uomo giusto che ha la disposizione di riceverla solo se l'epoca ne è degna. L'anima del Messia figlio di Giuseppe, che è l'araldo del Messia Figlio di Davide. è d'altra parte soggetta al regolare ciclo della trasmigrazione. La redenzione non verrà all'improvviso, ma si manifesterà piuttosto per stadi, alcuni dei quali saranno celati nei mondi spirituali, mentre altri saranno più evidenti. La redenzione finale verrà solo quando neppure una scintilla di santità sarà rimasta nelle kelippot. Negli scritti della scuola di Luria si possono trovare concezioni diverse circa il fatto che il Messia stesso abbia o no un ruolo attivo da svolgere nel processo della redenzione grazie alla sua capacità unica di innalzare certe ultime scintille che sfuggono al potere di chiunque altro. La questione assunse una particolare importanza nello sviluppo del movimento shabbateo. Nel corso della redenzione certe luci precedentemente celate del parzuf di Attika si manifesteranno e altereranno la struttura della creazione. In ultima analisi, motivi nazionali e persino nazionalistici si fondono con quelli cosmici nella Cabala lurianica, formando un unico grande mito dell'esilio e della redenzione. La Torah e il suo significato Il ruolo della Torah nella Cabala quale strumento e modo di vita al servizio di un tikkun universale è già stato discusso. La posizione centrale della Torah nella Cabala, tuttavia, va ben oltre tali definizioni. La posizione della Cabala nei confronti del Pentateuco, e in misura minore nei confronti dell'intera Bibbia, era un corollario naturale della generale fede cabalistica nel carattere simbolico di tutti i fenomeni terreni. Non vi era letteralmente nulla, affermano i cabalisti, che oltre al suo aspetto esteriore non possedesse anche un aspetto interiore in cui esisteva una realtà occulta e interiore su vari livelli. I cabalisti applicavano questa concezione della "trasparenza" di tutte le cose anche alla Torah, ma poiché quest'ultima era il prodotto unico della rivelazione divina, essi la consideravano anche l'unico oggetto che poteva venire appreso dall'uomo nel suo stato assoluto, in un mondo dove tutte le altre cose erano relative. Inquadrato da questo punto di vista nella sua qualità di parola diretta di Dio, e quindi senza paralleli in qualunque altro libro del mondo, la Torah divenne per i cabalisti l'oggetto di un originale modo mistico di meditazione. Ciò non significa che essi cercassero di negare gli eventi storici concreti su cui era basata, ma semplicemente che a interessarli soprattutto era qualcosa di molto diverso, cioè condurre una profonda indagine nella sua natura e nel suo carattere assoluti. Solo raramente essi discutevano la relazione fra le tre parti della Bibbia, il Pentateuco, i Profeti e l'Agiografia, e per la maggior parte la loro attenzione era rivolta quasi esclusivamente alla Torah nel suo senso stretto dei Cinque Libri di Mosè. Lo Zohar (3:35a) tenta effettivamente, in un passo, di affermare la superiorità assoluta di questi libri e dei loro studiosi rispetto ai Profeti e all'Agiografia e ai loro studiosi, tuttavia lo fa solo nel contesto del commento sull'affermazione talmudica che "il saggio è preferibile al profeta". In Ginnat Egoz (1612, 34d segg.), Joseph Gikatilla cercò a sua volta di annettere un'interpretazione cabalistica alla divisione tripartita della Bibbia. Nel complesso, tuttavia, quando esistono commenti cabalistici sui Profeti e sugli scritti più tardi (e soprattutto sul Libro dei Salmi), il loro approccio nei confronti di questi testi non è sostanzialmente diverso da quello dei commenti alla Torah. Le formulazioni classiche di questo approccio appaiono già nel XIII secolo, e le riformulazioni successive più ardite, persino nella scuola lurianica, non aggiungono nulla di fondamentalmente nuovo. Gran parte della letteratura della Cabala consiste di commenti al Pentateuco, i Cinque Rotoli, e il Libro dei Salmi, e lo stesso Zohar fu scritto soprattutto come un commento al Pentateuco. Ruth e il Cantico dei Cantici. Libri come i commenti al Pentateuco di Menahem Recanati, Bahya b. Asher, Menahem Ziyyoni e Abraham Sabba, divennero classici testi rabbinici. È degno di nota anche il fatto che non vi sono in pratica commenti cabalistici importanti su interi libri dei Profeti o sul Libro di Giobbe o il Librodi Daniele. Solo poche esegesi isolate di frammenti di tali testi tendono a ricorrere regolarmente in rapporto a certe interpretazioni mistiche. L'unico commento cabalistico conosciuto che sia mai stato composto sull'intera Bibbia è Minhat Yehudah nel XVI secolo, scritto in Marocco da un autore ignoto; ampie sezioni sono state conservate in vari manoscritti. Al di fuori del Pentateuco, solo il Cantico dei Cantici fu oggetto di un gran numero di commenti cabalistici, cominciando da Ezra di Gerona fino a quelli numerosissimi scritti nelle recenti generazioni. La base principale dell'atteggiamento cabalistico nei confronti della Torah è, come si è detto più sopra, la fondamentale fede cabalistica nella corrispondenza tra creazione e rivelazione. L'emanazione divina può essere descritta tanto in termini di simboli tratti dalla dottrina delle Sefirot e delle luci superne emanate, quanto di simboli tratti dalla sfera del linguaggio e composti di lettere e nomi. In quest'ultimo caso, il processo della creazione può essere simboleggiato come la parola di Dio, lo sviluppo degli elementi fondamentali della favella divina, e come tale non è essenzialmente diverso dai processi divini articolati nella Torah, la cui interiorità rivela le stesse leggi supreme che determinano la gerarchia della creazione. In sostanza, la Torah contiene in forma concentrata tutto ciò che poté svilupparsi più espansivamente nella creazione stessa. A stretto rigore, la Torah non significa tanto qualcosa di specifico, benché in effetti significhi molte cose diverse su molti livelli diversi, quanto piuttosto articola un universo dell'essere. Dio si rivela in esso come Se stesso, anziché come un mezzo di comunicazione nel limitato senso umano. Questo significato limitato e umano della Torah è solo il suo aspetto più esterno. La vera essenza della Torah. d'altra parte, è definita nella Cabala secondo tre principi fondamentali: la Torah è il completo nome mistico di Dio; la Torah è un organismo vivente: la favella divina è infinitamente significante, e la favella umana. essendo finita non potrà mai esaurirla. La Torah come nome mistico di Dio Alla base di questo principio sta una credenza, in origine magica, che fu trasformata in mistica. Tale credenza magica nella struttura della Torah si può già trovare nel Midra.sh Tehillim (sul Sal. 3): "Se i capitoli della Torah fossero stati dati nel loro ordine esatto, chiunque li leggesse sarebbe in grado di risuscitare i morti e di operare miracoli: perciò il vero ordine della Torah è stato celato ed è noto [solo] a Dio". Gli usi magici della Torah sono discussi nel libro Shimmushei Torah, che risale al più tardi al periodo geonico, e nel quale si narra che, insieme alla lettura accettata della Torah, Mosè ricevette un'altra lettura, composta di Nomi Santi dal significato magico. Leggere la Torah "secondo i nomi" (introduzione di Nahmanides al suo commento al Pentateuco) non ha quindi alcun concreto significato umano. ma piuttosto un significato completamente esoterico: anziché avere a che fare con narrazioni storiche e con comandamenti, la Torah così letta riguarda esclusivamente concentrazioni del potere divino in varie combinazioni delle lettere dei Sacri Nomi di Dio. Dalla credenza magica che la Torah fosse composto di Sacri Nomi di Dio, fu un passo breve giungere alla credenza mistica che l'intera Torah non fosse altro che il Grande Nome di Dio. In essa, Dio espresse il suo essere nella misura in cui tale essere era pertinente alla creazione e nella misura in cui poteva manifestarsi tramite la creazione. Quindi, l'energia divina scelse di articolarsi nella forma delle lettere della Torah, così come esse si esprimono nel Nome di Dio. Da una parte questo Nome comprende la potenza divina; dall'altra comprende in sé la totalità delle leggi celate della creazione. Ovviamente, un tale assunto relativo alla Torah non si riferiva al testo fisico scritto su pergamena, ma piuttosto alla Torah nel suo stato preesistenziale in cui servì come strumento della creazione. In questo senso, la creazione della stessa Torah fu semplicemente una ricapitolazione del processo mediante il quale le Sefirot e gli aspetti individuali dei Nomi Divini emanarono dalla sostanza di Ein-Sof. La Torah, del resto, non è separata da questa sostanza, poiché rappresenta la vita interiore di Dio. Nella sua prima e più occulta esistenza, è chiamata "la Torah primordiale", Torah Kedumah, talora identificata con la Sefirah Hokhmah. Successivamente, si sviluppa in due manifestazioni, quella della Torah Scritta e quella della Torah Orale, che esistono misticamente nelle Sefirot Tiferet e Malkhut, mentre sulla terra esistono concretamente e sono intonate alle esigenze dell'uomo. La relazione fra la Torah e l'onnicomprensivo Nome di Dio e il Nome Ineffabile o Tetragrammaton fu definita da Joseph Gikatilla in Sha'arei orah: "L'intera Torah è come una spiegazione e un commento dell'Ineffabile Nome di Dio". In quale modo è essenzialmente una spiegazione del Nome Ineffabile? In quanto è un solo "tessuto" formato dagli epiteti di Dio in cui si dispiega il Nome Ineffabile. Quindi, la Torah è una struttura costruita interamente su un solo principio fondamentale, e cioè il Nome Ineffabile. Può essere comparata al corpo mistico della Divinità, e Dio stesso è l'anima delle sue lettere. Questa concezione si sviluppò tra i cabalisti di Gerona, e si può trovare nello Zohar e in altre opere dello stesso periodo. La Torah come organismo vivente La tessitura della Torah partendo dal Nome Ineffabile suggerisce l'analogia che la Torah sia un tessuto vivente, un corpo vivo nella formulazione di Azriel di Gerona e dello Zohar. La Torah "è come un intero edificio; come un uomo ha molti organi con diverse funzioni, così tra i diversi capitoli della Torah alcuni sembrano importanti e altri non importanti nel loro aspetto esterno", tuttavia in realtà sono tutti legati insieme in un unico schema organico. Come la natura unificata di un uomo è divisa tra i vari organi del suo corpo, così la cellula vivente del Nome di Dio che è il soggetto della rivelazione, cresce nella Torah terrena posseduto dagli uomini. Fino all'ultimo, apparentemente insignificante dettaglio del testo masoretico, la Torah è stata trasmessa con la conoscenza che si tratta d'una struttura vivente alla quale non può essere sottratta neppure una lettera senza ledere l'intero corpo. La Torah è come un corpo umano che ha testa, busto, cuore, bocca e così via, oppure può essere paragonata all'Albero della Vita, che ha radice, tronco, rami, foglie, corteccia e linfa, sebbene nessuno sia distinto dall'altro in essenza, e tutti formino una grande unità. (Secondo Filone d'Alessandria, una simile concezione della Torah quale organismo vivente ispirò la setta dei terapeuti, come l'ispirarono in una certa misura anche i suoi commenti biblici, senza che vi fosse, ovviamente, un'affiliazione storica dimostrabile fra tali fonti e la Cabala.) Questa visione organica riusciva a spiegare le apparenti discrepanze stilistiche nella Bibbia, che era in parte narrativa (e talvolta addirittura una narrativa in apparenza superflua), in parte formata da leggi e comandamenti, in parte da poesia, in parte addirittura da statistiche. Dietro tutti questi stili diversi stava l'unità mistica del grande Nome di Dio. Gli aspetti esteriori erano semplicemente gli indumenti dell'occulta interiorità che se ne vestiva, e "guai a chi guarda solo gli mdumenti!" Connessa a questa è la concezione che la Torah sia rivelata in una forma diversa in ognuno dei mondi della creazione, partendo dalla sua manifestazione primordiale quale veste per Ein-Sof e terminando con la Torah così come viene letta sulla terra; una concezione che fu promulgata soprattutto dalla scuola di Israel Sarug (vedasi più sopra a p. 135). Vi è una "Torah di azilut", una "Torah di beri'ah" e così via, ognuna delle quali rispecchia una particolare funzione della struttura mistica di una data fase della creazione. In ognuna di queste fasi vi è una relativizzazione dell'essenza assoluta della Torah, che non subisce l'influenza di questi cambiamenti, per quanto possano essere grandi. Allo stesso modo, come è stato spiegato più sopra, la stessa Torah appare in forme diverse nelle diverse shemittot o cicli cosmici della creazione. Il significato infinito della favella divina Una conseguenza diretta di questa credenza fu il principio che il contenuto della Torah possedesse significato infinito, che si rivelava in modi diversi a diversi livelli e secondo la capacità del suo contemplatore. L'insondabile profondità della favella divina non poteva esaurirsi a un solo livello: un assioma che valeva anche per la Torah storica e concreta rivelata da Dio nella teofania del monte Sinai. Dall'inizio questa Torah possedeva i due aspetti menzionati più sopra, una lettura letterale formata dalle sue lettere che si combinavano per formare le parole della lingua ebraica, e una lettura mistica composta dai Nomi divini di Dio. Ma questo non era tutto. "Molte luci si irradiano da ogni parola e da ogni lettera", una concezione che venne riassunta nella notissima affermazione "la Torah ha 70 facce", che a sua volta è l'espressione epigrammatica di un passo di Otiyyot de-Rabbi Akiva. Le quattro categorie convenzionali secondo le quali si diceva fosse interpretabile la Torah, letterale (peshat), allegorica (remez), ermeneutica od omiletica (derash) e mistica (sod), servivano solo come cornice generale per una molteplicità di letture individuali, una tesi che dal secolo XVI in poi si espresse nella diffusa credenza che il numero delle possibili letture della Torah fosse eguale al numero dei 600.000 figli d'Israele presenti al monte Sinai; in altre parole, che ogni ebreo si accostasse alla Torah per una via che egli solo poteva seguire. A queste quattro categorie venne dapprima assegnato l'acronimo pardes (letteralmente "giardino") da Moses de Leon. Fondamentalmente, questo "giardino della Torah" veniva inteso nel modo seguente. Il peshat, o significato letterale, non abbracciava solo il contenuto storico e fattuale della Torah, ma anche l'autorevole Legge Orale della tradizione rabbinica. Il derash, o significato ermeneutico, era la via del commento etico e aggadico. Il remez, o significato allegorico, comprendeva la massa delle verità filosofiche contenute nella Torah. Il sod, o significato mistico, era la totalità dei possibili commenti cabalistici che interpretavano le parole della Torah come riferimenti a eventi nel mondo delle Sefirot o alla relazione con il mondo degli eroi biblici. Il peshat, quindi, che si riteneva includesse anche il corpus della legge talmudica, era solo l'aspetto esteriore della Torah, la "buccia" che si offriva per prima all'occhio del lettore. Gli altri strati si rivelavano solo a quel potere più penetrante e più ampio d'intuizione che riusciva a scoprire nella Torah verità generali in nessun modo dipendenti dal contesto letterale immediato. Solo al livello del sod la Torah diveniva una massa di simboli mistici che svelavano gli occulti processi vitali della Divinità e le loro connessioni con la vita umana. Questa quadruplice divisione esegetica era apparentemente influenzata da categorie antecedenti e molto simili della tradizione cristiana (letterale, modale, allegorica, mistica). commenti letterali, aggadici e filosofico-allegorici erano noti precedentemente anche alla tradizione giudaica, e il lungo commento di Joseph ibn Aknin sul Cantico dei Cantici, per esempio, composto all'inizio del XIII secolo, univa tutte e tre le metodologie. Bahya b. Asher fu il primo commentatore biblico (1291) che introdusse tutti i quattro aspetti nelle sue spiegazioni testuali, sebbene non usasse l'acronimo pardes e chiamasse "la via dell'intelletto" la lettura filosofica della Torah. La spiegazione al livello di sod, naturalmente, aveva possibilità illimitate, e un'illustrazione classica è Megalleh Amukot (1637) di Nathan Spira, in cui la preghiera di Mosè a Dio in Deuteronomio 3:23 segg. è spiegata in 252 modi diversi. Nel corpus principale dello Zohar, dove viene studiatamente vietato l'uso del termine "Cabala", queste interpretazioni mistiche sono chiamate "misteri della fede" (raza de meheimnuta), cioè esegesi fondate su credenze esoteriche. L'autore dello Zohar, la cui fede nel primato dell'interpretazione cabalistica era estrema, espresse l'opinione (3:1 52a) che se la Torah fosse stata semplicemente voluta come una serie di narrazioni letterali, lui e i suoi contemporanei sarebbero stati in grado di comporre un libro migliore! Talvolta le interpretazioni cabalistiche sceglievano deliberatamente di porre in risalto certe parole o certi versetti che in superficie apparivano insignificanti, e di attribuire loro una profonda importanza simbolica, come si può vedere nel commento dello Zohar all'elenco dei re di Edom di Genesi 36 o alle imprese di Benaiah, figlio di Jehoiada, riferite in Samuele II, 23. Poiché la Torah era considerata essenzialmente composta di lettere che altro non erano che configurazioni della luce divina, e poiché si ammetteva che questa assumeva forme diverse nel mondo celeste e in quello terrestre, sorse la questione di come sarebbe apparso in paradiso o in un'epoca futura. Certamente la sua lettura presente era stata influenzata dalla "corporealizzazione" delle sue lettere, avvenuta al tempo del peccato di Adamo. La risposta data a questo enigma dei cabalisti di Safed era che la Torah conteneva le stesse lettere prima del peccato di Adamo, ma in una sequenza diversa che corrispondeva alle condizioni dei mondi a quel tempo. Quindi, non includeva le stesse proibizioni o le stesse leggi che vi leggiamo ora perché era adattata nella sua totalità allo stato di Adamo prima della caduta. Allo stesso modo, nelle epoche future la Torah getterà via i suoi indumenti e riapparirà di nuovo in una forma puramente spirituale le cui lettere assumeranno nuovi significati spirituali. Nella sua esistenza primordiale, la Torah conteneva già tutte le possibili combinazioni che possono manifestarsi in essa in armonia con le azioni degli uomini e le azioni del mondo. se non fosse stato per il peccato di Adamo, le sue lettere si sarebbero combinate per formare un testo completamente diverso. Nei futuri tempi messianici, quindi, Dio rivelerà nuove combinazioni di lettere che daranno un contenuto interamente nuovo. In effetti, questa è la "nuova Torah" cui si allude nel Midrash. nel commento a Isaia. 51:4: "Perché la Torah procederà da Me'?. Tali credenze continuarono ad essere largamente diffuse anche nella letteratura hasidica. La forma più radicale assunta da questa concezione era associata all`aggadah talmudica secondo la quale prima della creazione del mondo l'intera Torah venne scritta in fuoco nero su fuoco bianco. Già all'inizio del XIII secolo venne espressa l'ardita nozione che in realtà il fuoco bianco comprendesse il vero testo della Torah e il testo che appariva in fuoco nero fosse semplicemente la mistica Legge Orale. Ne consegue che la vera Legge Scritta è divenuta interamente invisibile alla percezione umana e attualmente è celata nella pergamena bianca del rotolo della Torah, le cui lettere nere non sono altro che un commento a questo testo svanito. Al tempo del Messia verranno rivelate le lettere di questa "Torah bianca". A questa credenza si riferiscono anche numerosi testi classici del hasidismo. La via mistica Devekut La vita nella cornice del Giudaismo. tramite lo studio della Torah e la preghiera offriva al cabalista una via d'integrazione attiva e passiva nella grande gerarchia divina della creazione. Nell'ambito di questa gerarchia, il compito della Cabala consisteva nell'aiutare a ricondurre l'anima alla sua Patria nella Divinità. Per ogni Sefirah vi è un corrispondente attributo etico nel comportamento umano, e colui che lo consegue sulla terra è integrato nella vita mistica e nel mondo armonico delle Sefirot. Tomer Deuorah di Cordovero è dedicato a questo argomento. I cabalisti, all'unanimità erano concordi circa il rango supremo conseguibile dell'anima alla fine della via mistica cioè quella del devekut, lo schiudersi mistico a Dio. Potevano esservi diversi gradi di devekut come "equanimità" (hishtauuut, l'indifferenza dell'anima alla lode o al biasimo), "solitudine" (hitbodedut, essere solo con Dio), "lo spirito santo" e "profezia". Questa è la scala del devekut secondo Isaac d'Acri. Per contrasto un dibattito incessante circondava la questione di quale fosse la più alta qualità preparatoria per tale deuekut, l'amor di Dio o il timor di Dio. Questa discussione ricorre in tutta la letteratura della Cabala, con risultati non conclusivi; e continuò nelìa più tarda letteratura masur (moralista), composta sotto l'influenza cabalistica. Molti cabalisti consideravano l'adorazione di Dio "puro, sublime timore", che era ben diverso dal timore della punizione, ancora più alto dell'adorazione di Dio per amore. Nello Zohar questo "timore" viene impiegato come uno degli epiteti della Sefirah più alta, e ciò le conferisce una posizione suprema. Elijah de Vidas, d'altra parte, in Reshit Hokhmah, difese il primato dell'amore. In effetti, entrambe queste virtù conducevano al devekut. L'antica Cabala provenzale cercava già di definire il devekut tanto come un processo mediante il quale l'uomo si schiude al suo Creatore che come fine ultimo della via mistica. Secondo Isaac il Cieco, "il compito principale dei mistici (ha-maskilim) e di coloro che contemplano il Suo Nome è [espresso nel comandamento]: 'E vi schiuderete a Lui' (Deut. 13:5). È questo il principio centrale della Torah. e della preghiera e del [recitare] le benedizioni, armonizzare il proprio pensiero con la propria fede come se si schiudesse a [i mondi di] lassù, congiungere Dio nelle sue lettere e collegare (likhlol) le dieci Sefirot in Lui come una fiamma è congiunta a un tizzone, articolando i suoi epiteti a voce alta e congiungendolo mentalmente nella sua vera struttura". In senso più generale, Nahmanides, nel suo commento a Deuteronomio 11:22, definisce il devekut uno stato della mente in cui "Voi ricordate costantemente Dio nel suo amore e non rimovete i vostri pensieri da Lui... al punto che quando Itale personal parla con altri, il suo cuore non è affatto con loro ma è ancora davanti a Dio. E infatti può essere vero, di coloro che conseguono tale rango. che alle loro anime è concessa la vita immortale (zerurah bi-zeror ha-hayyim) già durante la loro vita, perché essi sono una dimora della Shekhinah". Chiunque si schiude in tal modo al suo Creatore può ricevere lo Spirito Santo (Nahmanides, Sha'ar ha-Gemul). Nella misura in cui il pensiero umano deriva dall'anima razionale nel mondo di azilut, ha la capacità di ritornare alla sua fonte: "E quando raggiunge la sua fonte, si schiude alla luce celestiale da cui deriva, e i due diventano uno" (Meir ibn Gabbai). Nel suo commento a Giobbe 36:7, Nahmanides si riferì al deuekut come al livello spirituale che caratterizza il vero hasid, e infatti la definizione di hasidut data da Bahya ibn Pakuda in Hovot ha-Leuauot (8, 10) è molto simile alla definizione di devekut data da Azriel di Gerona in Sha'ar ha-Kavvanah, perché entrambi parlano in termini quasi identici dell'annullamento della volontà umana nella volontà divina o dell'incontro e della conformità delle due volontà. D'altra parte, le descrizioni cabalistiche del deuekut tendono anche ad assomigliare alle comuni definizioni della profezia e dei suoi vari livelli. Nella sua Epistola a Lurgos, Azriel di Gerona dice che la via della profezia è anche la via del deuekut, mentre in Perush ha-Aggadot (a cura di Tishby, 40) virtualmente li equipara. Il deuekut produce un senso di beatitudine e di intima unione, tuttavia non elimina interamente la distanza tra la creatura e il Creatore, una distinzione che moltissimi cabalisti, come moltissimi hasidim, avevano cura di non oscurare affermando che poteva esservi una completa unificazione dell'anima e di Dio. Nel pensiero di Isaac d'Acri, il concetto di devekut assume un carattere semicontemplativo e semiestatico". Qua e là si possono trovare sfumature estatiche anche nelle concezioni del deuekut di altri cabalisti. Preghiera, kavvanah e meditazione La principale via seguita dai mistici era naturalmente associata, agli occhi dei cabalisti, all'osservanza pratica dei comandamenti: le due cose tuttavia non erano connesse intrinsecamente, perché in sostanza la via mistica comportava l'ascesa dell'anima a uno stato di rapimento estatico tramite un processo di concentrazione del pensiero e di meditazione. Nella Cabala è soprattutto la preghiera che serve come mezzo principale per questa ascesa. La preghiera è diversa dai comandamenti pratici, ognuno dei quali richiede una certa azione ben definita, il cui compimento non lascia molto spazio per la meditazione e l'immersione mistica. È vero, ogni comandamento ha il suo aspetto mistico, la cui osservanza crea un legame tra il mondo dell'uomo e il mondo delle Sefirot, ma la forza piena della spiritualità può esprimersi assai meglio nella preghiera. L'intenzione mistica o kavuanah che accompagna ogni comandamento è in effetti una concentrazione del pensiero sul significato cabalistico dell'azione nel momento in cui viene compiuta; la preghiera, d'altra parte, è indipendente da ogni azione esterna e può venire facilmente trasformata in un esercizio di meditazione interiore. La tradizione della preghiera mistica accompagnata da un sistema di kavvanot meditative concentrate sul contenuto cabalistico di ogni preghiera si sviluppò quale fattore centrale della Cabala sin dalla sua prima apparizione tra i Hasidei Ashkenaz e i cabalisti di Provenza, fino alla Cabala lurianica e alle ultime vestigia di quest'ultima nei tempi moderni. I più grandi cabalisti furono tutti grandi maestri della preghiera, e non sarebbe facile immaginare l'evoluzione speculativa della Cabala senza queste radici permanenti nell'esperienza della preghiera mistica. Nel suo aspetto cabalistico, il concetto di kavuanah ricevette un nuovo contenuto, molto più vasto di quello attribuitogli nella precedente letteratura rabbinica e halakhica. La dottrina cabalistica cercò una via d'uscita dal dilemma, di cui gli stessi cabalisti erano consapevoli, posto dalla nozione teologicamente inaccettabile che la preghiera potesse in qualche modo cambiare o influenzare la volontà di Dio. La Cabala considerava la preghiera come l'ascesa dell'uomo ai mondi superiori, un pellegrinaggio spirituale tra i regni superni, che cercava di integrarsi nella loro struttura gerarchica e di contribuire alla restaurazione di ciò che vi era divenuto imperfetto. Il suo campo di attività, nel pensiero cabalistico, è interamente nei mondi inferiori e nelle connessioni tra questi. Usando in modo simbolico il testo liturgico tradizionale, la preghiera ripete i processi occulti dell'universo che, come è stato spiegato più sopra, possono venire essi stessi considerati essenzialmente linguistici. La gerarchia ontologica dei mondi spirituali si rivela al cabalista nel momento della preghiera come uno dei molti Nomi di Dio. Questo disvelarsi di un "Nome" divino tramite il potere della "parola" costituisce l'attività mistica dell'individuo in preghiera, che medita o concentra la sua kauuanah sul nome particolare appartenente al regno spirituale attraverso il quale sta passando la sua preghiera. Nella Cabala dei primi tempi, è il nome della Sefirah appropriata quello su cui il mistico si concentra quando recita le preghiere, e in cui viene per così dire assorbito; ma successivamente, e soprattutto nella scuola lurianica, il nome della Sefirah viene sostituito da uno dei mistici Nomi di Dio. Quindi, sebbene la preghiera abbia un aspetto di "magia interiore", grazie al quale ha il potere di aiutare l'ordine e di restaurare i mondi superiori, non ha alcuna efficacia magica esteriore. Questa "magia interiore" si distingue dalla comune magia in quanto le sue meditazioni o kavvanot non devono essere pronunciate. I Nomi Divini non vengono invocati, come avviene nella comune magia operativa, ma vengono destati tramite l'attività meditativa rivolta verso di essi. L'individuo in preghiera indugia su ogni parola e misura pienamente la kauuanah che appartiene ad essa. Il testo della preghiera vero e proprio, quindi, serve come una specie di mancorrente cui il cabalista si aggrappa mentre compie la sua ascesa non priva di rischi, cercando a tentoni la strada per mezzo delle parole. Le kavvanot, per dirla in un altro modo, trasformano le parole della preghiera in nomi sacri che servono come punti di riferimento nell'ascesa. L'applicazione pratica della meditazione mistica nella Cabala, quindi, è connessa principalmente, se non esclusivamente, al momento della preghiera. Nei termini della tradizione ebraica, l'innovazione principale in questo punto di vista stava nel fatto che spostava l'attenzione dalla preghiera di gruppo alla preghiera mistica individuale senza distruggere in alcun modo la fondamentale struttura liturgica. Anzi, per conservare questa struttura, le prime generazioni dei cabalisti si astennero generalmente dal comporre preghiere originali che rispecchiassero direttamente le loro credenze. Solo a partire dal XVI secolo, e soprattutto sotto l'influenza della scuola lurianica, furono aggiunte numerosissime preghiere cabalistiche. Le brevi meditazioni dei primi cabalisti furono sostituite da kavvanot sempre più lunghe e complesse, la cui esecuzione portava a un considerevole allungamento del servizio. Il sistema delle kavvanot raggiunse il massimo sviluppo nella scuola del cabalista yemenita Shalom Sharabi dove la preghiera richiedeva un'intera congregazione di meditatori mistici capaci di grandi sforzi fisici. Si sa che esistettero molti di tali gruppi. Secondo Azriel di Gerona. colui che medita misticamente nella preghiera scaccia tutti gli ostacoli e gli impedimenti e riduce ogni parola al suo 'nulla'". Raggiungere tale scopo è in un certo senso, aprire una cisterna le cui acque, che sono l'influsso divino, si riversano sull'orante. Poiché egli si è debitamente preparato per tali forze superne, però non ne viene sopraffatto e annegato. Avendo completato l'ascesa, ora ridiscende di nuovo con l'aiuto di kavvanot fisse. e in questo modo unisce i mondi superiori a quelli inferiori. Un eccellente esempio di questo ciclo di ascesa e di discesa si può trovare nelle kavvanot sullo Shema. In contrasto con il carattere contemplativo della preghiera nella Cabala di Gerona e nello Zohar, la Cabala lurianica ne poneva in risalto l'aspetto più attivo. Ogni preghiera veniva ora diretta non solo verso l'ascesa simbolica di colui che prega. ma anche verso l'innalzarsi delle scintille di luce appartenenti alla sua anima. "Dal giorno in cui il mondo fu creato fino alla fine del tempo, nessuna preghiera somiglia a un'altra". Nonostante il fatto che vi è una collettività comune a tutte le kavvanot, ognuno ha la sua natura completamente individuale. e ogni momento di preghiera è diverso e richiede la propria kauuanah. In questo modo veniva posto in grande risalto l'elemento personale della preghiera. Neppure tutte le kavvanot elencate negli scritti ad esse dedicati esaurivano tutte le possibilità, come un testo musicale non può contenere l'interpretazione personale introdotta dal musicista nell'esecuzione del brano. In risposta all'interrogativo del Talmud: "I)a dove si può sapere che Dio stesso prega?", la Cabala rispondeva che mediante la preghiera mistica l'uomo veniva tratto verso l'alto o assorbito nell'occulta vita dinamica della Divinità, così che nell'atto della sua preghiera anche Dio pregava. D'altra parte, si può trovare nella letteratura cabalistica anche la teoria che la preghiera è come una freccia scagliata verso l'alto da chi la recita con l'arco della kavuanah. In un'altra analogia della scuola lurianica, che ebbe grande influenza sulla letteratura hasidica, il processo di kauuanah è definito come l'attrarre verso il basso la divina luce spirituale, nelle lettere e nelle parole del libro di preghiere, affinché questa luce possa quindi riascendere al rango più alto (A. Azulai, Hesed le-Auraham, 2 par. 44). Secondo l'opinione dello Zohar (2:215b), l'individuo passa attraverso quattro fasi, durante la preghiera: compie il tikkun di se stesso, il tikkun del suo mondo inferiore, il tikkun del mondo superiore e, infine, il tikkun del Nome Divino. Del pari, il servizio del mattino nel suo complesso veniva interpretato come la rappresentazione di una progressione simbolica, al termine della quale il recitante era pronto a rischiare tutto per Dio, sia abbandonandosi a un rapimento quasi estatico, sia lottando con la sitra ahra per strappare alla sua stretta la santità imprigionata. Nella preghiera lurianica era riservato un posto speciale agli yihudim ("atti d'unificazione") che erano meditazioni su una delle combinazioni di lettere del Tetragrammaton, oppure su configurazioni di tali nomi con vocalizzazioni diverse, come quelle che Isaac Luria aveva l'abitudine di assegnare ai suoi discepoli, a ciascuno "in armonia con le radici della sua anima". Quando erano impiegati in questi yihudim individuali, le kavvanot erano distaccate dalla liturgia regolare e diventavano strumenti indipendenti per l'elevazione dell'anima (una pratica che ha paralleli in molti altri sistemi mistici di meditazione). Inoltre, venivano usate talvolta come metodo per comunicare con altre anime, in particolare con le anime degli zaddikim defunti. Una vasta letteratura cabalistica venne dedicata alla via della preghiera e alle interpretazioni mistiche della liturgia tradizionale. Queste interpretazioni non erano tanto commenti nel senso ordinario del termine, quanto manuali sistematici per la meditazione mistica nella preghiera. Tra le più note figurano Perush ha-Tefillot di Azriel di Gerona (esistente in molti manoscritti, traduzione francese di G. Séd, 1973), Perush ha-Tefillot di Menahem Recanati (1544); Or Zaru'a di David b. Judah he-Hasid e un commento di autore anonimo (c. 1300), la cui lunga introduzione è stata pubblicata (Kouez Madda'i le-Zekher Moshe Shor, 1945, 113-26). Tra i libri di questo tipo scritti nel XVI secolo vi furono Tola'at Ya'akov di Meir ibn Gabbai (1560); Perush ha-Tefillot di Jacob Israel Finzi (manoscritto di Cambridge); e Tefillah le-Moshe di Moses Cordovero (1892). L'affermazione della Cabala lurianica portò a una produzione enorme di libri di kavvanot e di preghiere mistiche. I più dettagliati sono Sha'ar ha-Kavuanot e Peri Ez Hayyim di Hayyim Vital, e il sommario Mishnat Hasidim di Immanuel Hai Ricchi (1727). Già al tempo del circolo di Vital si affermò la pratica di compilare speciali libri di preghiera con le kavvanot corrispondenti, e molte redazioni circolarono in forma manoscritta con il titolo Siddur ha-Ari ("Il libro di preghiere di Issac Luria"). Di questi libri, numerosi furono pubblicati; tra gli altri: Sha'arei Kahamim (Salonicco, 1741); Hesed le Avraham (Smirne, 1764); Mishnat Gur Aryeh di Aryeh Loeb Epstein (Koenigsberg, 1756); e Siddur ha-Ari dei cabalisti del klaus di Brody (Zolkiew, 1781); e i libri cabalistici di preghiere di Asher Margoliot (Leopoli, 1788), Shabbetai Rashkover (1794) e Jacob Koppel Lifschuetz, il cui Kol Ya'akov (1804) risente dell'influenza shabbatea. L'acme di questi testi fu raggiunto con il libro di preghiere di Shalom Sharabi, che è stato pubblicato a Gerusalemme in una lunga serie di volumi a partire dal 1910. Ancora oggi vi sono a Gerusalemme gruppi che pregano secondo le kavvanot di Sharabi sebbene possano richiedere molti anni di pratica spirituale. Altre guide alla preghiera di quel periodo sono Siddur ha-Shelah di Isaiah Horowitz (Amsterdam, 1717); Kavvanot Shelomo di Solomon Rocca (Venezia, 1670) Heikhal ha-Kodesh di Moses Albaz (Amsterdam, 1653); e Hemdat Yisrael di Samuel, figlio di Hayyim Vital (1901). Nel suo Sha'ar Ru'ah ha-Kodesh (con commento di Joseph Sadboon di Tunisi, 1874), Hayyim Vital discute gli yihudim. Numerosi libri cabalistici di preghiere furono compilati per varie occasioni specifiche: un genere che ebbe inizio con Sha'arei-Ziyyon di Nathan Hannover (1662). L'estasi Oltre alla meditazione mistica della preghiera, nella Cabala si svilupparono altre "discipline" mistiche. (Sulle ascese estatiche del mistico del Merkabah si veda più sopra, a p. 00). All'inizio del periodo geonico risale un testo chiamato Sefer ha-Malbush, che descrive una pratica, per metà magica e per metà mistica, di "indossare il Nome" (levishat ha-Shem), la cui storia apparentemente ha origini ancora più remote. In questo contesto ha un'importanza centrale la "Cabala profetica" di Abraham Abulafia, in cui veniva riplasmata una precedente tradizione di istruzione sistematica basata sulla "scienza della combinazione", hokhmat ha-zeruf (un gioco sul doppio significato della parola in zeruf ha-otiot, "combinazione di lettere" e zeruf ha-levavot, "purificazione dei cuori"). La disciplina mistica utilizzava le lettere dell'alfabeto, e specialmente del Tetragrammaton e degli altri Nomi di Dio, allo scopo di preparare alla meditazione. Immergendosi nelle varie combinazioni delle lettere e dei nomi, il cabalista svotava la propria mente di tutte le forme naturali che potevano impedirgli di concentrarsi sulle cose divine. In tal modo, liberava l'anima dalle costrizioni naturali e la schiudeva all'influsso divino, con il cui aiuto poteva giungere persino alla profezia. Le discipline della kavvanah e della combinazione delle lettere si collegarono l'una all'altra verso la fine del secolo XIII e da allora si influenzarono reciprocamente. Le kavvanot lurianiche, in particolare, furono fortemente influenzate da hokhmat ha-zeruf. La dottrina delle Sefirot fu a sua volta assorbita da queste discipline, sebbene lo stesso Abulafia la considerasse un sistema meno avanzato e prezioso della "scienza della combinazione" così come questa veniva esposta nei suoi libri. Nell'ulteriore evoluzione della Cabala, molti cabalisti continuarono a considerare queste discipline come il suo aspetto più esoterico e si mostrarono riluttanti a discuterle nelle loro opere. Lo stesso Abulafia descrisse esplicitamente, e in modo apparentemente obiettivo, gli ostacoli e i pericoli, oltre alle ricompense, che tale esperienza mistica poteva arrecare. Egli tracciava un chiaro parallelo tra la "scienza della combinazione" e la musica, che a sua volta poteva condurre l'anima a uno stato di rapimento altissimo mediante la combinazione dei suoni. Le tecniche della "Cabala profetica" che venivano usate per favorire l'ascesa dell'anima, come gli esercizi di respirazione, la ripetizione dei Nomi Divini e le meditazioni sui colori, presentano una spiccata rassomiglianza con quella dello yoga indiano e del sufismo musulmano. Il soggetto vede lampi di luce e ha la sensazione di essere "unto" divinamente. In certi stadi egli vive un'identificazione personale con un mentore o guru spirituale interiore che gli si rivela e che in realtà è Metatron, il principe del volto di Dio, oppure, in taluni casi, il vero io del soggetto. Lo stadio culminante di questa educazione spirituale è il potere della profezia. A questo punto la Cabala di Abulafia coincide con la disciplina delle kavvanot sviluppata dai cabalisti di Gerona, che aveva anch'essa lo scopo di addestrare il praticante in modo che "chiunque l'ha appresa ascende al livello della profezia". Qua e là nella Cabala si fa cenno a vari altri fenomeni occulti, ma nel complesso vi è una netta tendenza a evitare di discutere queste cose, come in maggioranza i cabalisti si astenevano dal registrare le loro esperienze personali nella forma autobiografica che era invece estremamente comune nella letteratura mistica tanto del Cristianesimo quanto dell'Islam. Esistono descrizioni della sensazione mistica dell'etere sottile o "aura", chiamato anche "l'etere dello zelem", dal quale l'uomo è circondato, delle visioni mistiche delle lettere primordiali nei cieli (Zohar, 2:130b) e di libri sacri invisibili che possono venire letti solo con i sensi interiori. In numerosi passi la profezia è definita come l'esperienza in cui un uomo "vede la forma del proprio io che gli sta davanti e gli descrive il futuro". Un anonimo discepolo di Abulafia compose effettivamente un memoriale sulle sue esperienze con hokhmat ha-zeruf. In generale, tuttavia, la confessione autobiografica era rigorosamente disapprovata dalla maggioranza dei cabalisti. Nello Zohar, vi è una sola descrizione dell'estasi mistica, in un resoconto estremamente circospetto dell'esperienza del sommo sacerdote nel Santo dei Santi il Giorno dell'Espiazione (3:67a, e in Zohar Hada.sh 19a). Anche negli scritti che continuano essenzialmente la tradizione di Abulafia vi è ben poco della stravaganza estatica di quest'ultimo, e la stessa estasi è moderata nel devekut Solo nel periodo aureo del movimento hasidico, nel tardo XVIII secolo, soprattutto nel circolo del Maggid di Mezhirech, si incontrano nuovamente descrizioni di abbandono estatico nella letteratura del Giudaismo. Parecchi libri o parti di libri che trattavano apertamente e a lungo la procedura da seguire per il conseguimento dell'estasi e dello spirito santo, come Sulam ha-Aliyah (c. 1500) di Judah Albotoni, e l'ultima parte di Sha'arei Kedushah di Hayyim Vital, intitolata M'amar Hitbodedut, "Sulla meditazione solitaria" (manoscritto Ginzburg 691, British Museum 749), furono ai loro tempi soppressi e conservati solo in manoscritto. L'unico libro del genere che fu effettivamente pubblicato fu Berit Menuhah (Amsterdam, 1648), opera di un autore anonimo del XIV secolo ed erroneamente attribuita ad Abraham di Granada. Il libro, che contiene lunghe descrizioni di visioni delle luci superne conseguite meditando su varie vocalizzazioni del Tetragrammaton con l'aiuto di un sistema simbolico che non ha paralleli nella Cabala, si situa sul confine tra la "Cabala speculativa" (kabóalah iyyunit), il cui interesse primario era la guida spirituale interiore dell'individuo, e la "Cabala pratica" (kabbalah ma'asit) che si occupava soprattutto di attività magiche. La Cabala pratica Le discipline discusse nella sezione precedente, sebbene trattino istruzioni pratiche per la vita spirituale, non appartengono al regno della "Cabala pratica" nel senso cabalistico del termine, che si riferisce piuttosto a interessi molto diversi. Per la maggior parte, il regno della Cabala pratica è quello della magia "bianca", dalle motivazioni pure, praticata soprattutto tramite il mezzo dei sacri, esoterici Nomi di Dio e degli angeli, la cui manipolazione può influire sul mondo fisico non meno che su quello spirituale. Tali operazioni magiche non sono considerate impossibili nella Cabala, e non sono neppure proibite categoricamente, sebbene numerosi scritti cabalistici pongano in risalto il divieto. In ogni caso, solo gli individui più perfettamente virtuosi sono autorizzati a compierle, e comunque mai per loro interesse personale, ma solo in momenti d'emergenza e di necessità pubblica. Chiunque altro cerchi di compiere tali atti lo fa a proprio grave rischio fisico e spirituale. Tali moniti venivano generalmente osservati al limite, tuttavia, come dimostra la ricca letteratura sulla Cabala pratica che è pervenuta fino a noi. In effetti, inoltre, il confine tra la magia fisica e la "magia" puramente interiore della combinazione delle lettere e delle kavvanot non era sempre netto, e poteva venire facilmente varcato in entrambe le direzioni. Molti dei primi eruditi che studiarono la Cabala non distinguevano chiaramente tra i due concetti, e spesso usavano l'espressione "Cabala pratica" per riferirsi alla scuola lurianica in contrapposizione a Cordovero e allo Zohar. Questa confusione si può far risalire addirittura a Pico della Mirandola, che usa il termine in modo estremamente ambiguo e contraddittorio. Egli riteneva che la Cabala di Abulafia appartenesse alla varietà "pratica". Lo stesso Abulafia, tuttavia, era ben consapevole della distinzione, e in molti dei suoi libri attaccò energicamente i "maestri dei nomi" (ba'alei shemot) che si contaminavano con pratiche magiche. L'autore anonimo di un testo già attribuito a Maimonide (Megillat Setarim. pubblicato in Hemdah Genuzah 1 (1856), 45-52), che apparteneva anch'egli alla scuola di Abulafia, distingue tre specie di Cabala: "Cabala rabbinica", "Cabala profetica" e "Cabala pratica". Quest'ultima viene identificata con la teurgia, l'uso magico dei Nomi Sacri, che non corrisponde affatto alla meditazione su tali nomi. Prima che entrasse in uso il termine "Cabala pratica", il concetto veniva espresso in ebraico dalla frase "hokhmat hashimmush, una traduzione del termine greco, praxis, usato per denotare l'attività magica. I cabalisti spagnoli operarono una chiara distinzione fra le tradizioni che erano pervenute loro dai "maestri della dottrina delle Sefirot" (ba'alei ha-sefirot) e quelle derivate dai maghi o "maestri dei nomi". Essi conoscevano inoltre certe pratiche magiche chiamate "grande teurgia" (shimmusha rabba) e "piccola teurgia" (shimmusha zutta; vedasi Tarbiz, 16 (1945), 196-209). A differenza di Abulafia, tuttavia, Gikatilla, Isaac ha Kohen e Moses de Leon menzionano tutti questi "maestri dei nomi" e le loro esposizioni senza il minimo biasimo. A partire dal XV secolo la divisione semantica tra la Cabala "speculativa" e quella "pratica" divenne prevalente, anche se questo non significava necessariamente un pregiudizio nei confronti della seconda. Nel complesso, tuttavia, i sommari generali della dottrina cabalistica raramente si riferivano al suo aspetto "pratico" se non incidentalmente, come nell'angelologia di Cordovero, Derishot he Inyanei ha-Mal'akhim (alla fine di Malakhvei Elyon di R. Margaliot, 1945). Storicamente parlando, gran parte del contenuto della Cabala pratica sfrutta in misura considerevole quello della Cabala speculativa, e non è da questa indipendente. In effetti, quella che venne considerata la Cabala pratica costituiva un agglomerato di tutte le pratiche magiche sviluppatesi nel Giudaismo a partire dal periodo talmudico fino a tutto il Medioevo. La dottrina delle Sefirot non ebbe quasi mai un ruolo decisivo in queste pratiche, nonostante i tentativi occasionali di integrarle, compiuti a partire dalla fine del XIII secolo. La massa principale di questo materiale magico che è stata preservata si trova negli scritti dei Hasidei Ashkenaz, che per la maggior parte erano immuni dalle influenze teologiche del Cabalismo, sia in testi scritti appositamente sull'argomento, come Sefer ha-Shem di Eleazar di Worms, sia in antologie. Moltissime delle prime opere teurgiche e magiche, come Harba de-Moshe e Sefer ha-Razim, finirono per essere assimilate nella Cabala pratica. Anche varie idee e pratiche connesse al concetto del golem trovarono posto nella Cabala pratica mediante una combinazione di elementi tratti da Sefer Yezirah e da un gran numero di tradizioni magiche. Le linee tracciate dai cabalisti per stabilire i limiti della magia lecita spesso venivano travalicate e oscurate, con la conseguente apparizione nella Cabala pratica di una notevole quantità di magia "nera, cioè magia che mirava a far male ad altri o che impiegava "i nomi empi" (shemot ha-tum'ah, Sanhedrin 91a) di varie potenze tenebrose, demoniache e magia usata per tornaconto personale. L'aperto ripudio della Cabala pratica da parte di moltissimi cabalisti, nella misura in cui non era semplicemente una vuota formalità, era per la maggior parte una reazione a pratiche del genere. Questa magia nera abbracciava un vasto campo della demonologia e varie forme di stregoneria, miranti ad alterare l'ordine naturale delle cose e a creare legami illeciti tra cose che dovevano restare separate. L'attività di questo genere era considerata una ribellione dell'uomo contro Dio, una hybris, un tentativo di porsi al posto di Dio stesso. Secondo lo Zohar (1:36b) la fonte di queste pratiche era costituita dalle "foglie dell'Albero della Conoscenza"; ed esse erano esistite tra gli uomini fin dalla cacciata dal Giardino dell'Eden. Accanto a questa concezione, continuava l'antica tradizione riscontrata per la prima volta nel Libro di Enoch, secondo la quale gli angeli ribelli caduti dal cielo erano i primi insegnanti delle arti magiche all'umanità. Ancora oggi, dice lo Zohar (3:208a, 212a-b), gli stregoni si recano "alle montagne delle tenebre" che sono la dimora degli angeli ribelli Aza e Azael, per studiare sotto i loro auspici (una versione giudaica dell'idea tardo-medievale del "Sabba" delle streghe e degli stregoni). L'archetipo biblico dello stregone è Balaam. Questa magia nera viene chiamata nella Cabala "scienza apocrifa" (hokhmah hizonah) oppure "la scienza degli orientali" (hokhmah benei kedem, sulal base di Re 1, 5:10), e sebbene sia consentita una conoscenza teorica - parecchi libri cabalistici in effetti la trattano a lungo - la sua pratica è rigorosamente proibita. Lo stregone trae lo spirito d'impurità dalle kelippot e mescola il puro e l'impuro. In Tikkunei Zohar la manipolazione di tali forze è considerata giustificabile in certe circostanze, poiché la sitra ahra deve essere combattuta con le sue stesse armi. L'opposizione dei cabalisti speculativi alla magia nera non bastò a impedire un agglomerato di ogni forma di prescrizioni magiche nella letteratura della Cabala pratica. Spesso le pratiche della magia bianca, come gli amuleti e gli incantesimi protettivi, si trovano a fianco di invocazioni di demoni, sortilegi e formule per guadagno personale (per esempio, scorciatoie magiche, scoperta di tesori nascosti, invincibilità nei confronti dei propri nemici, eccetera) e addirittura della magia sessuale e della necromanzia. Il carattere internazionale della tradizione magica è evidente in tali collezioni, nelle quali entrarono molti elementi originariamente non ebraici, come la demonologia araba e la stregoneria tedesca e slava. Fu questo miscuglio indiscriminato a creare l'immagine piuttosto grossolana della Cabala pratica che si impose alla mentalità popolare ebraica e finì per giungere anche nel mondo cristiano, dove la distinzione teorica cabalistica tra le pratiche magiche permesse e vietate veniva, come è logico, completamente ignorata. La diffusa concezione medievale dell'ebreo quale mago potente venne ulterioriormente alimentata dalle fonti cabalistiche pratiche che favorivano la confusione. Già nel periodo geonico il titolo ba'al shem o "maestro del nome" indicava un maestro della Cabala pratica esperto nel preparare amuleti per vari scopi, invocare angeli o diavoli ed esorcizzare gli spiriti maligni che s'impossessavano di un corpo umano. Nel complesso, questi personaggi erano chiaramente indentificati con la magia bianca nella mentalità popolare, in contrapposizione a streghe e stregoni. Tra le prime opere cabalistiche particolarmente ricche di materiale tratto dalla Cabala figurano lo Zohar, gli scritti di Joseph b. Shalom Ashkenazi e Menahem Ziyyoni, e il Berit Menuhah, mentre nel periodo post-lurianico spicca in questo senso Emekh ha-Melekh. Le preghiere magiche attribuite ad alcuni dei principali tannaim e amoraim erano già state composte molto tempo prima dello sviluppo della Cabala speculativa, e per la verità il materiale magico che è stato conservato in fonti come il Sefer ha-Razim e in altre successive dell'epoca geonica presenta molte affinità con i papiri magici greci scoperti in Egitto. Contemporanee di tali fonti sono varie rielaborazioni magiche della preghiera shemoneh esreh, come Tefillat Eliyahu (manoscritto di Cambridge 606), che era già noto a Isaac il Cieco o la versione maledittoria della stessa preghiera, citata dagli archivi di Menahem Recanati nel manoscritto completo di Shoshan Sodot. Quasi tutte queste composizioni sono state conservate solo in manoscritto, eccettuati gli occasionali prestiti in antologie popolari. Tra i manoscritti noti più importanti della Cabala pratica con il suo caratteristico miscuglio di elementi sono: il manoscritto Sassoon 290; il manoscritto 752 del British Museum; il manoscritto 36 di Cincinnati; e il manoscritto Schocken 102. La letteratura di questo tipo, tuttavia, era estremamente diffusa, ed esistono altre centinaia di manoscritti. Degni di nota sono anche gli anonimi Sefer ha-Heshek e Shulhan ha-Sekhel (nel manoscritto Sassoon) e She'erit Yosef di, Joseph ibn Zayyah (1549, già nella Biblioteca Ebraica di Vienna). In nessuno di questi libri, tuttavia, vi è un serio tentativo di esporre sistematicamente l'argomento. In molte antologie popolari, che avevano una larga diffusione, la Cabala pratica e la medicina popolare venivano presentate insieme. Altre opere notevoli della Cabala pratica sono Toledot Adam (1720) e Mif'alot Elohim (1727) di Joel Ba'al Shem; Derekh ha-Yashar (Cracovia, 1646); Derekh Yasharah (Fuerth, 1697) di Zevi Chotsh; Ta'alumot Hnkhmah (Venezia, 1667); Sefer ha-Zekhirah (Amburgo, 1709) di Zechariah Plongian: le antologie di Abraham Hammawi, He'ah Nafshenu (1870), Davek ne-Ah (1874), Abi'ah Hidot (1877), I,idrosh Elohim (1879) e Nifla'im Ma'asekha (1881); e Refu'ah ve-Hayyim (1874) di Hayyim Palache. Moltissimo materiale prezioso proveniente dal regno della Cabala pratica si può trovare in Mitteilungen der Gesellschaft fuer juedische Volkskunde ( 1898-1929) e Jahrobuecher fuer juedische Volkskunde, 1-2 (192:3-24). Anche Hayyim Vital compilò un'antologia di Cabala pratica, mista a materiale alchemico (manoscritto nella collezione Musayof, Gerusalemme). Suo figlio Samuel compose un lessico alfabetico di Cabala pratica intitolato Ta'alumot Hokhmah, che è andato perduto. L'esauriente lessico di Moses Zacuto, Shorshei he-Shemot, d'altra parte, è stato conservato in molte copie manoscritte (diverse selezioni furono pubblicate in francese da M. Schwab. 1899). Esistono prove di numerosi libri sul tema della Cabala pratica, scritti da alcuni cabalisti illustri. ma i testi non ci sono pervenuti. Tra i grandi maestri della Cabala pratica secondo la stessa tradizione cabalistica vi furono personaggi come Judah ha-Hasid, Joseph Gikatilla, Isaac d'Acri, Joseph della Reina, Samson di Ostropol e Joel Ba'al Shem Tov. Al regno della Cabala pratica appartengono anche le numerose tradizioni relative all'esistenza di uno speciale alfabeto arcangelico. il più antico dei quali fu "l'alfabeto di Metatron". Altri alfabeti dei kolmosin ("penne [angeliche]'') furono attribuiti a Michael, Gabriel, Raphael, eccetera. Molti di questi alfabeti, pervenuti fino a noi, sono simili alla scrittura cuneiforme, mentre alcuni derivano chiaramente dall'antica scrittura ebraica o samaritana. Nella letteratura cabalistica sono conosciuti come ' scritti degli occhi" (ketav einayim) perché le lettere sono sempre composte da linee e di piccoli cerchi simili a occhielli. In circostanze eccezionali. come quando si scrivevano il Tetragrammaton o i Nomi Divini Shaddai ed Elohim, questi alfabeti venivano talvolta usati anche in un testo redatto per il resto in comuni caretteri ebraici. Queste lettere magiche, che venivano adoperate soprattutto negli amuleti, discendono dai caratteri magici che si trovano nel greco e nell'aramaico teurgico dei primi secoli dell'Era Comune. Con ogni probabilità i loro creatori imitarono la scrittura cuneiforme, che era ancora visibile ai loro tempi, ma che era divenuta indecifrabile e quindi aveva assunto ai loro occhi proprietà magiche. Il notissimo testo medievale Clavicula Salomonis (La chiave di Salomone) non ebbe affatto origini ebraiche, e solo nel XVII secolo apparve un'edizione ebraica che era un miscuglio di elementi giudaici, cristiani e arabi in cui la componente cabalistica era praticamente nulla. Per lo stesso motivo, The Book of the Sacred Magic of Abra-Melin (Il libro della magia sacra di Abra-Melin. Londra, 1898), che si presentava come una traduzione inglese di un'opera ebraica scritta nel XV secolo da un certo "Abraham, l'ebreo di Worms" e che venne generalmente considerata nei circoli occultisti europei moderni come un testo classico della Cabala pratica, in realtà non era stato scritto da un ebreo, sebbene il suo autore anonimo, vissuto nel XVI secolo, possedesse una straordinaria conoscenza dell'ebraico. Il libro fu scritto originariamente in tedesco e il manoscritto ebraico che si trovava a Oxford (Beubauer 2()51) è semplicemente una cattiva traduzione. Per l'esattezza, il libro circolò in varie edizioni e in diverse lingue: attesta l'influenza parziale di idee ebraiche ma non ha stretti paralleli nella letteratura cabalistica. Le relazioni tra la Cabala e altre "scienze occulte" come l'astrologia, l'alchimia, la fisiognomica e la chiromanzia furono molto scarse. L'astrologia e l'alchimia hanno un ruolo marginale nel pensiero cabalistico. Nel contempo la Cabala pratica manifestava interesse per l'induzione magica dei poteri pneumatici delle stelle tramite l'azione di talismani specifici. Questo uso dei talismani astrologici, derivato chiaramente da fonti arabe e latine, s'incontra per la prima volta nel Sefer ha-Levanah (Londra, 1912). citato da Nahmanides. Un altro testo di magia astrologica è la traduzione inglese di Picatrix, Takhlit he-Hakham (originale arabo e traduzione tedesca, 1933 e 1962). Questo genere di libro magico è ricordato anche nello Zohar (1:99b), e parecchi trattatelli sull'argomento sono stati conservati in manoscritti di Cabala pratica. Numerose opere cabalistiche che trattano la preparazione di anelli magici associano motivi astrologici ad altri tratti dalla "scienza della combinazione". Un libro di questo filone, che viene presentato come divinamente rivelato, è stato conservato nel manoscritto Sassoon 290. Il Sefer ha-Tamar, attribuito ad Abu Aflah Syracuse (a cura di G. Scholem, 1927), venne conservato nei circoli della Cabala pratica ma non derivava da essi, poiché la sua fonte consisteva piuttosto nella magia astrologica araba. Un particolare interessante: le posizioni dei cabalisti nei confronti della magia astrologica erano estremamente ambivalenti, e alcuni cabalisti illustri come Cordovero, la approvavano. Anche l'alchimia ebbe un'influenza relativamente modesta sulla Cabala. In effetti, c'era una fondamentale divergenza simbolica fin dall'inizio perché, mentre l'alchimista considerava l'oro come simbolo della perfezione, per il cabalista l'oro, che simboleggiava Din, aveva un rango inferiore all'argento, che simboleggiava Hesed. Tuttavia vennero compiuti sforzi per armonizzare i due sistemi, e allusioni al riguardo si possono già trovare nello Zohar. Joseph Taitazak, che visse al tempo dell'espulsione dalla Spagna, proclamò l'identità tra l'alchimia e la divina sapienza della Cabala. Nell'Italia del secolo XVII fu composto in ebraico un testo alchemico cabalistico intitolato Esh Mezaref, ma l'originale è andato perduto; ampie parti sono state conservate nella traduzione latina della Kabbala Denudata di Knorr von Rosenroth, vol. I (presentata in inglese da Robert Kelum, A Short Enquiry Concerning: the Hermetick Art, Londra 1714, e in una nuova edizione, 1894). Hayyim Vital impiegò due anni della sua giovinezza studiando esclusivamente l'alchimia e compose un libro sulle pratiche alchemiche del quale si pentì pubblicamente nella vecchiaia. Non si conoscono rielaborazioni cabalistiche di fisiognomica. ma i sono diversi trattamenti della chiromanzia (vedasi p. 318), soprattutto nello Zohar e in tradizioni della scuola lurianica. Alcuni cabalisti ritenevano che le linee della mano e della fronte contenessero indizi relativi alle precedenti incarnazioni di un uomo. L'esercizio della Cabala pratica sollevava certi problemi relativi ai fenomeni occulti (si veda anche la sezione precedente). Molti di questi sono inclusi nella categoria di giluy einayim, mediante i quali a un uomo poteva venire accordata una visione di qualcosa che, in generale, solo rarissimi mistici potevano vedere. Queste visioni includevano la visione dell'"etere zaffirico" (ha-avir ha-sappiri) che circonda tutti gli uomini e in cui i loro movimenti vengono registrati, "il libro in cui sono scritte espressamente tutte le azioni di un individuo" (specialmente nelle opere di Menahem Azariah Fano). Il concetto dello zelem era spesso associato a questo etere. secondo varie fonti lurianiche, come lo era quello della "scrittura dell'occhio" angelica ricordata più sopra. Qualche volta, soprattutto durante il compimento di certi comandamenti, come la circoncisione. all'iniziato poteva venire accordata anche una visione del Tetragrammaton in forma di lettere fiammeggianti che "appaiono e scompaiono in un batter d'occhio". Un mohel che era anche cabalista poteva predire dal colore di quel fuoco quale sarebbe stata la sorte del neonato (Emekh ha-Melekh, 175b). L'aggadah sui raggi di luce che si irradiavano dalla fronte di Mosè (Midrash Ex. R.47) generò la nozione cabalistica di una aureola che cingeva la testa di ogni giusto (Sefer Hasidim, par. 370). Questa credenza si diffuse. sebbene si ritenesse talvolta che l'aureola apparisse solo poco prima della morte dello zaddik. Anche le visioni angeliche venivano spiegate in modo molto simile: la forma dell'angelo era impressa in un etere invisibile che non era identico all'aria normale. e poteva essere veduta solo da pochi eletti, non perché fossero profeti, ma perché Dio aveva aperto i loro occhi per ricompensarli perché avevano purificato i loro corpi (Cordovero in Derushei Mal'akhim). Gli stregoni che vedevano i demoni costituivano un fenomeno analogo. La scrittura automatica è menzionata in numerose fonti. Per esempio, Joseph b. Todros Abulafia compose un trattatello cahalistico sotto l'influenza del "nome scrivente" (Kerem Hemed, 8, 105). I 'nomi" che facilitavano il processo della scrittura sono citati in numerosi manoscritti di Cabala pratica. Descrivendo una rivelazione" a lui concessa, Joseph Taita,zak parla del "mistico segreto dello scrivere senza mano". L'antologia Shoshan Sodot (manoscritto di Oxford. par. 147) menziona la pratica della scrittura automatica. "tracciare segni (hakikah) con la penna" come metodo per rispondere a quesiti difficili e assillanti. Molti altri fenomeni spiritici, spontanei o indotti deliberatamente, sono ricordati in varie fonti; tra l'altro il "tavolo levitante" che fu particolarmente diffuso in Germania a partire dal secolo XVI. Secondo il racconto di un testimone oculare, la cerimonia era accompagnata dalla recitazione di Nomi Divini tratti dalla Cabala pratica e dal canto di salmi e inni (Wagenseil, Sota, 1674, 530). Un conoscente di Wagenseil gli disse (ibid., 1196) di aver visto alcuni studenti della yeshivah di Wuerzburg, che avevano studiato a Fuerth, sollevare un tavolo con l'aiuto dei Nomi Divini. Istruzioni specifiche per la levitazione dei tavoli sono state conservate in numerosi manoscritti cabalistici (ad esempio, Gerusalemme 1070 8o, p. 220). Anche l'uso delle bacchette da rabdomante è conosciuto in questa letteratura, al più tardi dal secolo XV. Certi nomi magici o shemot erano prescritti per certe attività speciali. Lo shem ha-garsi era invocato nello studio del Talmud o di qualunque testo rabbinico (girsa); lo shem ha-doresh era invocato dal predicatore (darshan). Vi era un "nome della spada" (shem ha-herev), un "nome dell'Ogdoade" (shem ha-sheminiyut) e un "nome dell'ala" (shem ha-kanaf). Alcune di queste invocazioni erano tratte da fonti non ebraiche, come ad esempio il nome "Parakletos .Jesus b. Pandera", raccomandato da un predicatore per l'uso della sinagoga (Hebr. Bibl., 6 (1863), 121: G. Scholem. Kituei Yad be-Kabbalah (1930), 63). LE INFLUENZE PIU AMPIE E LA RICERCA SULLA CABALA L'influenza della Cabala sul Giudaismo Benché sia stata valutata in modo diverso dai diversi osservatori, l'influenza della Cabala è stata grande, perché è stata una delle forze più potenti che mai abbiano fatto sentire il loro effetto sull'evoluzione interiore del Giudaismo, sia orizzontalmente che in profondità. Gli storici ebrei del secolo XIX. pur riconoscendo il ruolo significativo della Cabala, la consideravano tremendamente negativa e addirittura catastrofica: una la valutazione della storiografia ebraica del XX secolo è assai positiva. senza dubbio anche a causa di profondi cambiamenti operatisi nella stessa storia ebraica dopo l'inizio della rinascita sionista. Nei decenni recenti vi è stata una nuova disponibilità nel riconoscere il ricco patrimonio di simbolismo e di immagini che l'immaginazione cabalistica aggiunse alla vita ebraica, e a prendere atto del contributo dato dalla Cabala al rafforzamento della vita interiore della collettività e del singolo ebreo. La rivalutazione si è fatta sentire soprattutto durante le ultime due generazioni. tanto nella letteratura quanto negli studi storici. Anzi. talvolta ha assunto le proporzioni di un panegirico come nelle opere di S.A. Horodezky, che sono servite a poco per proseguire una discussione fruttifera dei motivi religiosi che trovarono espressione nella Cabala con risultati che, nel complesso sono stati talvolta problematici. Come è stato osservato all'inizio di questa esposizione la Cabala rappresentò un tentativo teologico. aperto solo a un numero relativamente limitato di persone il cui scopo consisteva nel trovare spazio per una visione del mondo essenzialmente mistica entro la cornice del Giudaismo tradizionale e senza alterare i principi fondamentali e le norme comportamentistiche di quest'ultimo, la misura in cui tale tentativo riuscì, se pure riuscì, è discutibile: ma non vi è dubbio che ottenne un risultato importantissimo e cioè che per un periodo di trecento anni, approssimativamente dal 1500 al 1800 (secondo la stima più cauta), la Cabala venne largamente considerata come la vera teologia giudaica, in confronto alla quale tutti gli altri approcci riuscirono al massimo a condurre un'esistenza isolata e affievolita Durante questo periodo era praticamente inaudito che vi fosse un attacco polemico aperto contro la Cabala e, tipicamente, quando appariva un attacco del genere era quasi sempre presentato come un rimprovero indirizzato ai cabalisti più audaci per aver esposto erroneamente e corporeizzato la pura filosofia dei loro predecessori, anziché come una critica diretta della Cabala stessa. Esempi di questa tattica, imposta dalla necessità, si possono trovare nella polemica anonima scritta a Posen alla metà del XVI secolo e nelle poesie anticabalistiche di Jacob Francis di Mantova, della metà del XVII secolo. Quando d'altra parte Mordecai Corcos volle pubblicare un libro apertamente contrario alla Cabala, a Venezia nel 1672, ciò gli fu impedito dalle autorità rabbiniche italiane. Nell'area della halakhah, che determinava la cornice della vita ebraica secondo le leggi della Torah. l'influenza della Cabala fu limitata, anche se non meno importante. (Già nel XIII secolo vi era la tendenza a interpretare la halakkhah in termini cabalistici senza tuttavia cercare di effettuare in questo modo discussioni o decisioni halakhiche. Nel complesso queste interpretazioni cabalistiche riguardavano le ragioni mistiche dei comandamenti. Talora vi era una tensione innegabile tra i cabalisti e i halakhisti di stretta osservanza, che in alcuni casi si esprimeva in parte in slanci cabalistici. radicati nel senso naturale di superiorità che, giustificato o no, spesso si trova nei mistici e negli spiritualisti (come nel caso di Abraham Abulafia). e in parte nella mancanza di una certa intensità religiosa che secondo i cabalisti caratterizzava la concezione di alcuni dei più eminenti halakhisti. Gli attacchi contro il ristretto legalismo che si possono trovare in Hovot ha-Levavot di Bahya ibn Paquda e nel Seferf Hasidim rispecchiano chiaramente un atteggiamento che non esisteva solo nell'immaginazione dei mistici e che era responsabile degli ardenti assalti polemici degli autori di Ra'aya Meheimn e del Sefer ha-Peli'ah contro i "talmudisti" cioè i halakhisti. Le popolari spirito saggini rivolte contro tali dotti, come l'ironica lettura della parola hamor ("asino") come acronimo della frase hakham mufla ve-rav raban ("grande dotto e rabbino dei rabbini"; si veda Judah b. Barzilai, Perush Sefer Yezirah 161), trovano echi in Ra'aya Meheimna (3:275b), il cui autore non rifugge dall'espressione peggiorativa hamor de-matnitim ("asino mishnaico") e nell'omelia mistica 1:27b, in un passo appartenente a Tikkunei Zohar, che si riferisce alla Mishnah, in un doppio senso, come al sepolcro di Mosè". Altri discorsi simili come l'esegesi (ibid) che riferisce il versetto in Esodo l :4, "Ed essi resero amare le loro vite con il duro servizio" gli studi talmudici. o le rabbiose descrizioni dei dotti rabbinici nel Sefer ha-Peli, rivelano un forte risentimento: D'altra parte, non ha alcun fondamento storico il quadro tracciato da Graetz di una campagna antitalmudica intrapresa dai cabalisti, i quali in realtà, nei loro scritti insistevano sulla scrupolosa osservanza della legge halakhica, anche se ovviamente in una prospettiva mistica. Nel contempo, tuttavia vere tendenze antinomistiche potevano scaturire facilmente dalla Cabala quando si univa al messianesimo, come avvenne nel caso del movimento shabbateo. Una tendenza a decidere effettivamente su questioni halakhiche dubbie trattandole secondo principi cabalistici appare per la prima volta a metà del .secolo XIV, nel Sefer ha-Peliah, e soprattutto nelle discussioni dei comandamenti nel .Sefer ha-Kanah. Dello stesso periodo o di epoca poco più tarda sono numerosi responsa rabbinici di spirito assai simile, attribuiti a, Joseph Gikatilla (pubblicati per la prima volta nel Festschrift per Jacob Freimann (1937), 163-70). Tuttavia questa scuola di pensiero rimane in minoranza e moltissimi cabalisti, in quanto erano anche eminenti autorità della halakhah. come David b. Zimra, Joseph Caro, Solomon Luria, Mordecai Yaffe e Hayyim Joseph David Azulai, si astennero volutamente dall'adottare posizioni halakhiche in conflitto con la legge talmudica. La regola accettata, tra loro, era che le decisioni dovevano venire prese in base allo Zohar solo quando non era possibile trovare una chiara guida talmudica (Beit Yo.sef le-Orah Hayyim, par. 141). La questione se responsa halakhici potessero venir dati in base allo Zohar o ad altri testi cabalistici portò a considerevoli controversie. Un cabalista della statura di David b. Zimra dichiarò che, a parte lo stesso Zohar, era proibito citare un'opera cabalistica in opposizione a un'autorità halakhica anche isolata. Una concezione diversa fu espressa da Benjamin Aaron Selnik. discepolo di Moses Isserles, nel suo volume di responsa, Mas'at Binyamin (1633): "Se tutti gli scrittori [halakhici] venuti dopo il compimento del Talmud venissero posti su un piatto della bilancia, e l'autore dello Zohar sull'altro, quest'ultimo li varrebbe tutti". Le leggi e le regole che potevano essere tratte dallo Zohar furono raccolte da Issachar Baer b. Pethahiah di Kremnitz in Yesh Sakhar (Praga, 1609). Joseph Solomon Delmedigo (1629) raccolse un cospicuo materiale che trattava gli atteggiamenti delle autorità halakhiche nei confronti di varie innovazioni cabalistiche (Mazref le-Hokhmah (1865), 6682). L'enorme crescita dei nuovi costumi, influenzata dalla Cabala lurianica, indusse numerosi cabalisti a cercare di elevare lo stesso Isaac Luria a una posizione halakhicamente autorevole. Anche H. ayyim Joseph David Azulai, che in generale accettava come autorevoli le opinioni halakhiche di Joseph Caro, scrisse che le interpretazioni della halakhah di Isaac Luria avevano la precedenza sullo Shulhan Arukh di Caro (Siyurei Berakhah su Orah Hayyim). La tendenza a richiamarsi a fonti cabalistiche nel corso di discussioni halakhiche fu assai preminente nel periodo postlurianico tra i sephardim che tra gli ashkenazim. L'influenza della Cabala era sentita particolarmente in rapporto alle osservanze relative alla preghiera, il Sabbath e le festività. ed era molto meno pronunciata nelle questioni puramente legali. Era consuetudine comune commentare sottigliezze halakhiche da una prospettiva cabalistica senza rivendicare per quest'ultima un'autorità halakhica. Esempi notevoli al riguardo sono Mekor Hayyim (1878-79) di Hayvim ha-Kohen di Aleppo. un discepolo di Hayyim Vital. e Kaf ha- Hayyim di Jacob Hayyim b. Isaac Baruch di Baghdad, una voluminosa compilazione di tutti gli argomenti cabalistici connessi con Orah Havyim dello Shulhan Arukh. Nel campo dell'aggadah, la Cabala non aveva restrizioni, e molti cabalisti approfittarono dell'opportunità non solo per comporre vaste interpretazioni delle prime aggadot del Midrash, in cui essi vedevano la chiave di molte delle loro dottrine mistiche, ma anche per creare un ricco corpus nuovo di leggende aggadiche dal forte carattere mitico. In generale, si trovavano a loro agio più nell'espressione aggadica che nell'esposizione sistematica, ed è a questa "cabalizzazione" dell'aggadah che si deve attribuire gran parte dell'enorme attrazione esercitata dallo Zohar. In quanto al materiale aggadico fresco creato dagli stessi cabalisti, consisteva generalmente di drammatizzazioni mistiche dell'epos della creazione e dell'interazione dei mondi superiori e inferiori nelle vite degli eroi biblici. Questi ultimi vengono presentati su un vasto sfondo cosmico: traggono forza dai poteri superni e a loro volta influiscono su di essi con le loro azioni. L'antologia classica di circa 500 anni di questa aggadah cabalistica è Yalkut Reuveni di Reuben Hoeshke di Praga; una prima edizione dell'opera (Praga, 1660) era organizzata per argomenti, mentre la seconda, ampliata (Wilmersdorf, 1681) e modellata sull'antica antologia midrashica Yalkut Shimoni, era ordinata come un commento alla Torah. Un'altra vasta raccolta di aggadot esoteriche ed essoteriche sul periodo dalla prima settimana della creazione al peccato di Adamo è Yalkut Nahmani (1937) di Nahum Breiner. L'influenza principale della Cabala sulla vita ebraica va ricercata nei tre campi della preghiera, dei costumi e dell'etica. Qui la Cabala aveva praticamente libertà illimitata di esercitare la sua influenza, che si esprimeva nella creazione di un vasto corpus di letteratura, rivolta a ogni famiglia ebrea. A partire dalla metà del XVII secolo, motivi cabalistici entrarono nel libro delle preghiere quotidiane e ispirarono speciali liturgie che erano essenzialmente creazioni cabalistiche. Questo sviluppo incominciò in Italia con i libri di Aaron Berechiah Modena e Moses Zacuto, e soprattutto con l'apparizione di Sha'arei Ziyyon di Nathan Hannover (Praga, 1662), una delle opere cabalistiche più influenti e diffuse. In questo volume le dottrine lurianiche della missione dell'uomo sulla terra, con i suoi legami con le potenze dei mondi superiori, le trasmigrazioni della sua anima e i suoi sforzi per conseguire il tikkun, erano intessute in preghiere che potevano essere apprezzate e comprese da tutti, o che almeno destavano l'immaginazione e i sentimenti di tutti. Queste liturgie giunsero agli angoli più lontani della Diaspora e continuarono ad essere popolari tra gli ebrei nei territori musulmani, anche molto tempo dopo che erano state eliminate dal libro di preghiera delle comunità ebraiche dell'Europa centrale in seguito al declino della Cabala nel XIX secolo. Antologie piuttosto voluminose di preghiere estremamente emotive, d'ispirazione cabalistica, furono pubblicate soprattutto a Livorno, Venezia, Costantinopoli e Salonicco. Particolarmente importanti in questo campo furono le attività di Judah Samuel Ashkenazi, Abraham Anakawa e soprattutto Abraham Hammawi, che pubblicò a Livorno una serie di questi libri per gli ebrei dell'Africa settentrionale (Bet Oved, Bet El, Bet ha-Kaporet, Bet ha-Behirot, Bet Av, Bet Din, Bet ha-Sho'evah, Bet Menuhah). L'antologia liturgica Ozar ha-Tefillot (1914) rispecchia le ultime influenze cabalistiche sulle preghiere degli ebrei dell'Europa orientale. Anche i costumi popolari e la fede popolare furono largamente influenzati dalla diffusione della Cabala. Molti concetti cabalistici vennero assorbiti al livello delle credenze popolari, come ad esempio la dottrina del primo peccato dell'uomo quale causa di alterazione dei mondi superiori, la fede nella trasmigrazione delle anime, gli insegnamenti cabalistici sul Messia, oppure la demonologia della Cabala più tarda. In tutta la Diaspora, il numero dei costumi popolari di origine cabalistica era enorme; molti erano tratti direttamente dallo Zohar, e molti altri dalla tradizione lurianica: le relative osservanze furono codificate intorno alla metà del XVII secolo da Jacob Zemah in Shulhan Arukh ha-Ari (c. 1660; la migliore edizione è Gerusalemme, 1961) e Naggid u-Mezavveh (1712). Una guida più recente ai costumi lurianici fu la compilazione Ta'amei ha-Minhagim (1911-12). Questi costumi finirono nel complesso per svolgere quattro funzioni mistiche: stabilire un'armonia tra le forze restrittive di Din e le forze generose di Rahamim: realizzare o simboleggiare le mistiche "sacre nozze" (ha-zivvug ha-kadosh) tra Dio e la sua Shekhinah: redimere la Shekhinah dal suo esilio tra le forze della sitra ahra: proteggere se stessi dalle forze della sitra ahra e combattere per vincerle. L'azione umana sulla terra favorisce o provoca eventi nei mondi superiori, in una influenza reciproca che ha un aspetto simbolico e un aspetto magico. In effetti, in questa concezione della cerimonia religiosa quale veicolo per l'opera delle forze divine, esisteva il pericolo che una prospettiva essenzialmente mistica venisse in pratica trasformata in una prospettiva essenzialmente magica. È innegabile che gli effetti sociali della Cabala sui costumi e sulle cerimonie popolari ebraiche erano caratterizzati da questa ambivalenza. Accanto alla tendenza a una maggiore interiorità religiosa c'era quella a una completa demonizzazione di tutta la vita. Lo sviluppo cospicuo di quest'ultima tendenza a spese della prima fu indubbiamente uno dei fattori che, riducendo la Cabala al livello di superstizione popolare, alla fine contribuì a eliminarla quale seria forza storica. (Vedasi G. Scholem, The Kabbalah and its Symbolism (1955), 118-57. Tra i costumi cabalistici che ebbero una diffusione particolarmente vasta vi furono le veglie di mezzanotte per l'esilio della Shekhinah, l'usanza di considerare la vigilia del novilunio come un "piccolo Giorno dell'Espiazione" e le veglie dal crepuscolo all'alba, dedicate a studi normali e mistici. Le notti di Pentecoste, Hoshanah Rabba e il settimo giorno di Pasqua. Tutte queste cerimonie e le liturgie e i testi che le accompagnavano venivano chiamati tikkunim (ad esempio, "il tikkun di mezzanotte" per l'esilio della Shekhinah. eccetera). IJna particolare atmosfera di solennità e di celebrazione circondava il Sabbath, pervasa di idee cabalistiche sul ruolo dell'uomo nell'unificazione dei mondi superiori. Sotto l'aspetto simbolico delle "nozze del Re e della Regina". il Sabbath fu arricchito da una quantità di usanze nuove provenienti da Safed come ad esempio il canto dell'inno mistico Lekhah Dodi e la recitazione del Cantico dei Cantici e del Capitolo : 31 dei Proverbi ("Chi può trovare una donna di valore?"), tutti intesi come meditazioni sulla, Shekhinah nel suo aspetto di sposa mistica di Dio. Motivi mistici e demonici si intrecciarono soprattutto nel campo della vita e delle pratiche sessuali, cui era dedicata tutta una letteratura, a partire dall'Iggeret ha-Kodesh. in seguito attribuito erroneamente a Nahmanides (vedasi G. Scholem in: KS 21 (1944), 179-86; e Monford Harris in: HUCA 33 (1962), 197-220) e continuando fino a Tikkun ha-Kelali di Nahman di Bratislavia. A questi motivi erano connessi inoltre numerosi costumi funebri, come la consuetudine di girare intorno ai cadaveri, e il divieto per i figli maschi di assistere ai funerali dei padri. Idee simili erano alla base dei giorni di digiuno nei mesi di Tevet e Shevat per "il tikkun degli shouevim" cioè della prole demonica delle emissioni notturne. Questa penetrazione delle consuetudini e delle credenze cabalistiche, che pervase ogni aspetto della vita ebraica, è particolarmente documentata in due libri influentissimi: Shenei Luhot ha-Berit di Isaiah Horowitz (Amsterdam, 1648), che ebbe un posto di grande rilievo tra gli ebrei ashkenazi, e l'anonimo Hemdat Yamim (Izmir, 1731) che fu scritto da uno shabbateo moderato all'inizio del XVIII secolo. Quest'ultimo libro circolò dapprima anche in Polonia, ma quando il suo carattere shabbateo venne attaccato la sua influenza rimase circoscritta soprattutto al mondo sephardita, che nutrì un'intera letteratura di breviari e di testi di studio per occasioni speciali. Nonostante la voluminosità di entrambe le opere, la loro forza espressiva e la ricchezza del contenuto ne fece veri e propri classici nel loro genere. Notevole, tra gli esempi più recenti di questa letteratura, è Davar be-Itto (1862-64) di Sassoon ben Mordecai di Baghdad. Una consuetudine che acquistò larga diffusione tra i sephardim fu quella di recitare a voce alta lo Zohar, senza prestare attenzione al suo contenuto, semplicemente perché era considerato "salutare per l'anima". Quasi tutte le opere etiche popolari della letteratura musar, soprattutto le più eminenti portano il segno di influenze cabalistiche a partire dal 1570 circa fino all'inizio del secolo XIX, e nel mondo sephardita addirittura fino alla fine di questo. Le opere pioniere, sotto questo aspetto, furono Sefer Haredim (Venezia,1601) di Eliezer Azikri e Reshit Hokhmah (Venezia,1579) di Elijah de Vidas, un volume vasto ed esauriente su tutti gli aspetti etici della vita ebraica. che funse da anello di congiunzione tra i motivi della letteratura aggadica medievale, la letteratura musar e il mondo nuovo della Cabala popolare. La letteratura omiletica contemporanea, in gran parte dedicata anch'essa al'insegnamento etico, contiene a sua volta forti elementi cabalistici che furono ulteriormente rafforzati dalla diffusione delle concezioni lurianiche. Le dottrine lurianiche del tikkun, la trasmigrazione delle anime e la lotta con la sitra ahra furono assoggettate da un trattamento popolare particolarmente intensivo. Opere esortative come Sha'arei Kedushah (Costantinopoli, 1734) di Hayyim Vital, Kav ha-Yashar (Francoforte, 1705) di Zevi Hirsch Kaidanover, ShelJet Musar (Costantinopoli, 1712) di Elijah ha-Kohen e molte altre fino a Nefesh ha-Hayyim di Hayyim di Volozhin, discepolo del Gaon di Vilna, rivelano ad ogni pagina debiti nei confronti delle fonti cabalistiche. Anche il massimo capolavoro di questo tipo di letteratura etica, Mesillat Yesharim (Amsterdam, 1740) di Moses Hayyim Luzzatto, era sostanzialmente ispirato da una concezione dell'educazione etica dell'ebreo quale fase sulla via della comunione mistica con Dio, nonostante l'uso limitato di citazioni e simboli cabalistici. Opere simili, anch'esse di esortazioni etiche, composte in Polonia alla metà del XVIII secolo, sono fortemente cariche di atteggiamenti e idee che furono chiaramente il preludio dell'inizio del Hasidismo. Esempi di questi libri sono Mishmeret ha-Kodesh (Zolkiew, 1746) di Moses b. Jacob di Satanov, Bet Perez (Zolkiew, 1759) di Perez b. Moses che era un cabalista del klaus di Brody, e Lev Simhah e Neti'ah shel Simhah (Zolkiew, 1757 e 1763) di Simhah di Zalosicz. Nel XX secolo la profonda influenza della letteratura musar cabalistica si può ancora sentire nelle opere di R. Abraham Kook. Così pure, alla metà del secolo XIX, troviamo R. Judah Alkalai di Belgrado, uno dei primi araldi del sionismo, ancora totalmente immerso nel mondo etico della Cabala (si veda la raccolta dei suoi scritti in ebraico, Gerusalemme, 1944). La Cabala cristiana A partire dalla fine del secolo XV, in certi circoli cristiani di tendenze mistiche e teosofiche incominciò a evolversi un movimento, con lo scopo di armonizzare le dottrine cabalistiche con il Cristianesimo, e soprattutto di dimostrare che il vero significato occulto degli insegnamenti della Cabala punta in direzione cristiana. Naturalmente, queste concezioni non furono accolte con favore dagli stessi cabalisti, i quali non mostravano altro che derisione verso gli equivoci e le distorsioni della dottrina cabalistica di cui pullulava la Cabala cristiana: ma quest'ultima riuscì innegabilmente a destare un vivo interesse e accesi dibattiti negli ambienti spiritualisti dell'Occidente, almeno fino alla metà del XVIII secolo. Storicamente, la Cabala cristiana nacque da due fonti. La prima fu rappresentata dalle speculazioni cristologiche di un numero rilevante di ebrei convertiti che ci sono noti dalla fine del XIII secolo fino al periodo dell'espulsione dalla Spagna (G. Scholem, in Essayspresented to Leo Baeck (1954),158-93), come Abner di Burgos (Yizhak Baer, Tarbiz 27 (1958), 152-63) e Paul de Heredia, che compose pseudoepigraficamente parecchi testi di Cabala cristiana intitolati Iggeret ha-Sodot e Galei Rezaya, sotto il nome di Judah ha-Nasi e di altri tannaim. Un altro trattato del genere, prodotto da ebrei convertiti in Spagna verso la fine del XV secolo, e scritto a imitazione degli stili dell'aggadah e dello Zohar, circolava in Italia. Queste composizioni ebbero scarsi effetti sugli spiritualisti cristiani seri, e il loro scopo missionario, scopertamente tendenzioso, non era adatto a conquistare i lettori. Completamente diversa, invece, era la speculazione cristiana sulla Cabala, che inizialmente si sviluppò intorno all'Accademia Platonica finanziata dai Medici di Firenze e che proseguì in stretto rapporto con i nuovi orizzonti aperti in genere dal Rinascimento. Questi circoli fiorentini ritenevano di avere scoperto nella Cabala una rivelazione divina originale all'umanità, che era andata perduta e che ora veniva recuperata, e con l'aiuto della quale era possibile non soltanto comprendere gli insegnamenti di Pitagora, Platone e gli orfici, da loro grandemente ammirati, ma anche i segreti della fede cattolica. Il fondatore di questa scuola cristiana della Cabala fu il celebre prodigio Giovanni Pico della Mirandola (1463-94) che si fece tradurre in latino una considerevole porzione della letteratura cabalistica dal dottissimo convertito Samuel ben Nissim Abulfaraj, divenuto Raymond Moncada e conosciuto anche come Flavius Mithridates. Pico iniziò i suoi studi cabalistici nel 1486, e quando espose le sue famose 900 tesi per il pubblico dibattito in Roma vi incluse anche 47 proposizioni tratte direttamente da fonti cabalistiche, quasi tutte dal commento di Recanati alla Torah, e altre 72 proposizioni che rappresentavano conclusioni sue, risultanti dalle sue ricerche cabalistiche. Le tesi, soprattutto l'ardita affermazione che "nessuna scienza può convincerci della divinità di Gesù Cristo più della magia e della Cabala" portarono per la prima volta la Cabala all'attenzione di molti cristiani. Le autorità ecclesiastiche respinsero decisamente questa e altre proposizioni di Pico: e ne seguì il primo e vero dibattito sulla Cabala che mai avesse avuto luogo negli ambienti umanistici e cattolici. Lo stesso Pico era convinto di poter provare i dogmi della Trinità e dell'Incarnazione sulla base di assiomi cabalistici. L'improvvisa scoperta di una tradizione esoterica ebraica che fino a quel momento era rimasta completamente sconosciuta fece sensazione nel mondo intellettuale cristiano, e i successivi scritti di Pico sulla Cabala contribuirono ad accrescere ulteriormente l'interesse dei platonici cristiani per le fonti appena scoperte, in particolare in Italia, Germania e Francia. Grazie all'influenza di Pico anche il grande ebraista cristiano Johannes Reuchlin (1455-1522) intraprese lo studio della Cabala e pubblicò sull'argomento due libri in latino, i primi che mai venissero scritti da un non ebreo, De verbo mirifico ("Sul nome miracoloso", 1494) e De arte cabalistica ("Sulla scienza della Cabala", 1517). Gli anni tra queste due date videro inoltre l'apparizione di un certo numero di opere del dotto convertito Paul Ricius, medico personale dell'imperatore Massimiliano, il quale prese le conclusioni di Pico e di Reuchlin e le arricchì con un'originale sintesi di fonti cabalistiche e cristiane. Il principale contributo di Reuchlin fu la sua associazione del dogma dell'Incarnazione con una serie di ardite speculazioni sulla dottrina cabalistica dei Nomi Divini di Dio. La storia umana, sosteneva Reuchlin, poteva essere divisa in tre periodi. Nel primo, o periodo naturale, Dio si rivelò ai patriarchi mediante il nome di tre lettere Shaddai. Nel periodo della Torah, egli si rivelò a Mosè tramite il nome di quattro lettere del Tetragrammaton. Ma nel periodo della grazia e della redenzione Egli si rivelò mediante cinque lettere, cioè il Tetragrammaton con l'aggiunta della lettera shin, significante il Logos, e cioè Yehoshua o Gesù. Nel nome di Gesù, che è il vero Nome Miracoloso, il nome precedentemente proibito di Dio diveniva pronunciabile. Nella disposizione schematica di Reuchlin, che si appoggiava alla comune abbreviazione per il nome di Gesù nei manoscritti medievali, JHS, le credenze ebraiche nelle tre età del mondo (Caos, Torah e Messia) si fondevano con la triplice divisione cristiana della scuola millenarista di Gioacchino da Fiore in un regno del Padre, un regno del Figlio e un regno dello Spirito Santo. Gli scritti di Pico e di Reuchlin, che collocavano la Cabala nel contesto dei principali sviluppi intellettuali di quel tempo, attrassero grande attenzione. Da una parte portarono a un considerevole interesse per la dottrina dei Nomi Divini e la Cabala pratica, e dall'altra a ulteriori tentativi speculativi di pervenire a una sintesi tra i motivi cabalistici e la teologia cristiana. Il posto d'onore accordato alla Cabala pratica nel grande compendio di Cornelio Agrippa di Nettesheim, De Occulta Philosophia (*) (1531), un sommario diffusissimo di tutte le scienze occulte di quei tempi, fu in larga misura responsabile dell'erronea associazione, nel mondo cristiano, tra la Cabala e la numerologia e la stregoneria. Parecchi cabalisti cristiani del XVI secolo compirono sforzi considerevoli per imparare a conoscere più profondamente le fonti della Cabala, sia in ebraico che nelle traduzioni latine preparate appositamente, e in questo modo ampliarono la base dei loro tentativi di scoprire un terreno comune fra la Cabala e il Cristianesimo. Tra questi personaggi, i più eminenti furono il cardinale Egidio da Viterbo (1465-1532), le cui opere Scechina (a cura di F. Secret, 1959) "Sulle lettere ebraiche" furono influenzate da idee contenute nello Zohar e nel Sefer ha-Temunah, e il francescano Francesco Giorgio di Venezia (1460-1541), autore di due grossi volumi, molto letti a quei tempi, De harmonia mundi (1525) e Problemata (1536), in cui la Cabala assumeva un posto centrale e materiale manoscritto dello Zohar veniva usato ampiamente per la prima volta in un'opera cristiana. Inoltre, egli lasciò ai suoi discepoli un complesso commento sulle tesi cabalistiche di Pico (manoscritto di Gerusalemme), in seguito plagiato dal suo allievo Angelo de Burgonovo (due parti: 1564 e 1569). L'ammirazione di questi allievi cristiani per la Cabala provocò una reazione indignata in diversi ambienti, i quali li accusarono di diffondere la convinzione che qualunque cabalista ebreo potesse essere un cristiano migliore di un devoto cattolico. Un pensatore mistico più originale, che tra l'altro conosceva meglio le fonti ebraiche, fu il famoso francese Guillaume Postel (1510-1581), una delle principali personalità del Rinascimento. Postel tradusse in latino lo Zohar e il Sefer Yezirah prima ancora che venissero stampati nelle versioni originali, e accompagnò le sue traduzioni con una lunga esposizione teosofica delle proprie concezioni. Nel 1548 pubblicò un commento cabalistico, nella traduzione latina, sul significato mistico della menorah, e successivamente anche una versione in ebraico. Questi autori avevano molti legami negli ambienti ebrei. Durante questo periodo, la Cabala cristiana si occupava principalmente dello sviluppo di certe idee religiose e filosofiche in se stesse anziché del desiderio di fare proseliti tra gli ebrei, sebbene quest'ultima attività spesso venisse posta in risalto per giustificare una iniziativa che altrimenti sarebbe apparsa sospetta agli occhi di molti. Uno dei cabalisti cristiani più impegnati fu Johann Albrecht Widmanstetter (Widmanstadius, 1506-1557), che l'entusiasmo per la Cabala spinse a raccogliere molti manoscritti cabalistici tuttora esistenti a Monaco. Molti suoi contemporanei, tuttavia, si accontentarono di speculazioni nel campo della Cabala cristiana senza avere una conoscenza diretta delle fonti. Anzi, con l'andar del tempo la conoscenza delle fonti ebraiche diminuì tra i cabalisti cristiani, e di conseguenza l'elemento giudaico nei loro scritti divenne progressivamente più esile, mentre il suo posto veniva preso da speculazioni esoteriche cristiane, che avevano solo connessioni remote con i motivi ebraici. La rinascita lurianica a Safed non ebbe alcun effetto su questi circoli. La loro dedizione all'attività missionaria crebbe, tuttavia il numero degli ebrei convertiti al Cristianesimo per motivazioni cabalistiche, o di coloro che rivendicavano retrospettivamente tali motivazioni, rimase sproporzionatamente ridotto rispetto al numero dei convertiti in generale. Negli scritti di questi teosofi cristiani non vi è una chiara evidenza che indichi se essi credessero o no che i cabalisti ebrei fossero in cuor loro cristiani inconsapevoli. Comunque, la Cabala cristiana occupò un posto onorato nel XVI secolo, soprattutto in Italia e in Francia, e nel XVII, quando il suo centro si spostò in Germania e in Inghilterra. Nel secolo XVII la Cabala cristiana ricevette due forti spinte; la prima fu data dagli scritti teosofici di Jacob Boehme, l'altra dal vasto compendio cabalistico di Christian Knorr von Rosenroth, Kabbala denudata (1677-84), che per la prima volta rese accessibili ai lettori cristiani interessati, molti dei quali avevano a loro volta tendenze mistiche, non soltanto sezioni importanti dello Zohar, ma anche ampi estratti della Cabala lurianica. In quest'opera e negli scritti del dotto gesuita Athanasius Kircher si traccia per la prima volta il parallelo tra la dottrina cabalistica dell'Adam Kadmon e il concetto di Gesù quale uomo primordiale nella teologia cristiana. L'analogia è posta in particolare risalto nel saggio intitolato Adumbratio Kabbalae Christianae che appare alla fine della Kabbala denudata (trad. francese, Parigi 1899). Il suo autore anonimo era in realtà il noto teosofo olandese Franciscus Mercurius van Helmont, che fu l'anello di congiunzione tra la Cabala e i platonici di Cambridge guidati da Henry More e Ralph Cudworth, i quali si servirono di motivi cabalistici per i loro fini speculativi originali, soprattutto More. In tempi un po' anteriori, gli studenti (e anche gli oppositori) di Jacob Boehme avevano scoperto la forte affinità tra il suo sistema teosofico e quello della Cabala, benché non sembri che vi fosse tra loro un nesso storico. In certi ambienti, soprattutto in Germania, Olanda e Inghilterra, la Cabala cristiana assunse a partire da quel periodo un carattere boehmiano. Nel 1673 in una chiesa protestante di Teinach (Germania meridionale) fu eretto una grande diagramma che aveva lo scopo di presentare una sorta di sommario visivo di questa scuola della Cabala cristiana, cui venivano date diverse interpretazioni. Già alla fine del XVI secolo era emersa una spiccata tendenza a permeare la Cabala cristiana di simbolismo alchemico, conferendole così un carattere stranamente originale nei suoi stadi finali di sviluppo nel XVII e nel XVIII secolo. Questa mescolanza di elementi caratterizza le opere di Heinrich Khunrath, Amphitheatrum Sapientiae Aeternae (1609), Blaise de Vigenère Traité du Feu (1617), Abraham von Frankenberg (1593-1652), Robert Fludd (1574-1637), e Thomas Vaughan (1622-1666), e raggiunge l'apogeo in Opus Mago-Cabbalisticum di Georg von Welling (1735) e nei molti libri di F.C. Oetinger (1702-1782), la cui influenza è osservabile nelle opere di grandi esponenti della filosofia idealistica tedesca come Hegel e Schelling. In una forma diversa, questa mescolanza riappare nei sistemi teosofici dei massoni nella seconda metà del secolo XVIII. Una fase tarda della Cabala cristiana è rappresentata da Martines de Pasqually (1727-1774) nel suo Traité de la réintégration des etres, che influenzò grandemente le correnti teosofiche in Francia. Il discepolo di questo autore fu il noto mistico Louis Claude de St. Martin. Lo stesso Pasqually, durante la sua vita, fu sospettato di essere segretamente ebreo, e gli studiosi moderni hanno infatti accertato che era di discendenza marrana. Le fonti delle sue derivazioni intellettuali, tuttavia, non sono state ancora chiarite. Il coronamento finale della Cabala cristiana fu l'ampia Philosophie der Geschichte oder Ueber die Tradition, di Franz Joseph Molitor (1779-1861), che univa alla profonda speculazione in una vena cabalistico-cristiana una ricerca estremamente interessante sulle idee della Cabala stessa. Anche Molitor si aggrappava a una visione fondamentalmente cristologica della Cabala, della quale non comprendeva affatto l'evoluzione storica; tuttavia egli dimostrò una comprensione essenziale della dottrina cabalistica e una intuizione del mondo della Cabala assai superiore a quelle di moltissimi studiosi ebrei del suo tempo. Gli studiosi e la Cabala Come si è accennato più sopra, l'inizio delle indagini accademiche sulla Cabala fu legato agli interessi della Cabala cristiana e al suo zelo missionario. Numerosi cabalisti cristiani si sentirono indotti a studiare direttamente la letteratura della Cabala: uno dei primi fu Reuchlin, che fece soprattutto ricorso alle opere di Gikatilla e a una vasta raccolta dei primi scritti cabalistici, conservata nel manoscritto Halberstamm 444 (nel Jewish Theological Seminary a New York). Sebbene un numero significativo di opere cabalistiche fosse stato ormai tradotto prima della metà del secolo XVI, solo alcune di queste traduzioni sono state pubblicate, come quella di Sha 'arei Orah di Gikatilla (1516), mentre la maggior parte rimaneva in forma manoscritta e quindi non stimolava ulteriori ricerche. Inoltre, le presupposizioni teologiche dei cabalisti cristiani escludevano da parte loro ogni prospettiva storica e soprattutto critica. Una svolta decisiva fu segnata dalla pubblicazione della Kabbala denudata di Knorr von Rosenroth, nonostante le numerose traduzioni erronee in essa contenute, e ulteriormente aggravate nella ritraduzione di alcune sue parti in inglese e in francese (vedasi MGWJ 75 (1932), 444-8). L'apparizione di questo libro destò l'interesse di molti studiosi che in precedenza non avevano avuto nulla a che vedere con la Cabala cristiana, come ad esempio Leibnitz. Completamente in disaccordo con le sue premesse fu lo studio di Johann Georg Wachter sulle tendenze spinoziane nel Giudaismo, Der Spinozismus im Juedenthumb (sic!) (Amsterdam, 1699), la prima opera che interpretò panteisticamente la teologia della Cabala e sostenne che i cabalisti non erano cristiani camuffati, ma piuttosto atei camuffati. Il libro di Wachter influenzò grandemente le discussioni sull'argomento in tutto il XVIII secolo. All'inizio di quel secolo, J.P. Buddeus propose la teoria di uno stretto legame tra i primi gnostici e la Cabala nella sua "Introduzione alla storia della filosofia degli ebrei" (in latino, Halle, 1720), dedicata in larga misura alla Cabala. Anche J.K. Schramm nella sua "Introduzione alla dialettica dei cabalisti" (Braunschweig. 1703), cercò di discutere il tema in termini scientifici e filosofici, mentre Specimen Theologiae Soharicae (Gotha, 1734) di G. Sommer presentava un'antologia di tutti i passi dello Zohar che, secondo l'opinione dell'autore, erano vicini alla dottrina cristiana. Un libro particolarmente prezioso, anche se oggi completamente dimenticato, fu Aenigmata Judaeorum religiosissima (Helmstadt, 1705) di Hermann von der Hardt, che si occupava della Cabala pratica. J.P. Kleuker pubblicò nel 1786 uno studio in cui sostenne l'esistenza di una decisiva influenza persiana sulla dottrina cabalistica dell'emanazione. Tutti questi primi studiosi avevano in comune la convinzione che la Cabala non fosse essenzialmente ebraica ma piuttosto cristiana, greca o persiana. Anche le indagini accademiche condotte sulla Cabala da autori ebrei ebbero fini tendenziosi: si proponevano infatti di polemizzare contro quella che essi consideravano l'influenza perniciosa della Cabala sulla vita degli ebrei. La prima opera critica scritta in questa vena fu l'influentissimo libro di Jacob Emden, Mitpahat Sefarim (Altona, 1768), nato dalla lunga battaglia del suo autore contro lo shabbateanismo e mirante a indebolire l'autorità dello Zohar provando che molti dei suoi passi erano tarde interpolazioni. Nel secolo XIX, moltissimi studi ebraici sulla Cabala ebbero egualmente un carattere polemico: miravano principalmente a colpire le influenze cabalistiche che apparivano nel Hasidismo. Per la maggior parte, anche questi studiosi ritenevano che la Cabala fosse sempre stata una presa essenzialmente straniera nella vita ebraica. A quel tempo, in effetti, la Cabala era ancora una sorta di figliastra nel campo dell'erudizione ebraica, e le sue fonti letterarie venivano studiate solo da pochi. Anche da questa prospettiva limitata, tuttavia, importanti contributi all'indagine sulla Cabala furono dati da Samuel David Luzzatto, Adolphe Franck, H.P. Joel, Senior Sachs, Aaron Jellinek, Isaac Meises, Graetz, Ignatz Stern e M. Steinschneider. Le opere dell'unico studioso ebreo di questo periodo che dedicò studi profondi allo Zohar e ad altri importanti testi cabalistici, Eliakim Milsahagi (Samiler), rimasero quasi tutte inedite e vennero dimenticate e in gran parte perdute. Tutto ciò che rimane è la sua analisi dello Zohar (manoscritto di Gerusalemme 4° 121) e il Sefer Razi'el. Le opere sulla Cabala scritte durante il periodo Haskalah sono quasi tutte prive di valore, come i numerosi trattati e i libri di Solomon Rubin. Gli unici due studiosi del tempo che si accostarono alla Cabala con una fondamentale simpatia e addirittura con una certa affinità per i suoi insegnamenti furono il cristiano F.J. Molitor di Francoforte e l'ebreo Elijah Benamozegh di Livorno. I numerosi libri scritti sull'argomento nel XIX e nel XX secolo da vari teosofi e mistici erano privi di ogni conoscenza fondamentale delle fonti; e solo molto di rado diedero un vero contributo a questo campo, mentre a volte ostacolarono addirittura lo sviluppo di un punto di vista storico. Allo stesso modo, l'attività degli occultisti francesi e inglesi non diede alcun contributo, e servì solo a creare una considerevole confusione fra gli insegnamenti della Cabala e le loro invenzioni del tutto irrelate ad essa, ad esempio la presunta origine cabalistica dei tarocchi. A questa categoria di somma ciarlataneria appartengono i numerosi e diffusissimi libri di Eliphas Levi (vero nome Alphonse Louis Constant; 1810-1875), Papus (Gérard Encausse; 1868-1916) e Frater Perdurabo (Aleister Crowley; 1875-1946), che avevano tutti una conoscenza minima della Cabala, anche se questo non impedì loro di attingere ampiamente all'immaginazione. Le opere di A.E. Waite (The Holy Kabbalah, 1929), S. Karppe e P. Vulliaud, d'altra parte, erano sostanzialmente compilazioni piuttosto confuse tratte da fonti di seconda mano. L'approccio profondamente mutato nei confronti della storia ebraica, venuto nella scia del sionismo e del movimento della rinascita nazionale, portò, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, a un rinnovato interesse nei confronti della Cabala quale espressione vitale dell'esistenza ebraica. Fu compiuto un nuovo tentativo di comprendere, indipendentemente da tutte le posizioni polemiche o apologetiche, la genesi, lo sviluppo, il ruolo storico e l'influenza intellettuale e sociale della Cabala entro il contesto totale delle forze interne ed esterne che hanno plasmato la storia ebraica. I pionieri di questo nuovo punto di vista furono S.A. Horodezky, Ernst Muller e G. Scholem. Negli anni successivi al 1925 un centro internazionale di ricerche sulla Cabala fu istituito presso l'Università Ebraica di Gerusalemme. Tra i maggiori esponenti di questa scuola di critica storica furono G. Scholem, I. Tishby, E. Gottleib, J. Dan, Rivka Schatz e J. Ben-Shlomo. Altrove, importanti contributi allo studio della Cabala furono dati in particolare da G. Vajda, A. Altmann e François Secret. Con lo sviluppo di nuove prospettive negli anni recenti, l'indagine accademica sulla Cabala comincia oggi a uscire dall'infanzia. Vi è ampio spazio per una fruttifera espansione che potrà accogliere la letteratura cabalistica in tutta la sua ricchezza e le sue implicazioni relative alla storia, al pensiero e alla vita del popolo ebraico. 1 LO ZOHAR Lo Zohar ("Il libro dello Splendore") è l'opera centrale della letteratura della Cabala. In alcune parti del libro il nome "Zohar" viene menzionato quale titolo. È inoltre citato dai cabalisti spagnoli sotto altri nomi, come Mekhilta de-R. Simeon b. Yohai, a imitazione del titolo di uno dei Midrashim halakhici, in Sefer ha-Gevul di David b. Judah he-Hasid; Midrash de-R. Simeon b. Yohai, in numerosi libri del periodo dei discepoli di Solomon b. Abraham Adret, in Livnat ha-Sappir di Joseph Angelino, le omelie di Joshua ibn Shu'ayb, e i libri di Meir ihn Gabbai: Midrash ha-Zohar, secondo Isaac b. Joseph ibn Munir; Midrash Yehi or in Menorat ha-Ma'or di Israel al-Nakawa, apparentemente perché egli possedeva un manoscritto dello Zohar che incominciava con un commento al versetto "Sia fatta luce" (Gen. 1:33). Esistono tuttora manoscritti di questo tipo. Numerose affermazioni tratte dallo Zohar furono citate già nella prima generazione dopo la sua apparizione, sotto il titolo generale di Yerushalmi, ad esempio negli scritti di Isaac b. Sahula, Moses de Leon, e David h. Judah he-Hasid, e nei responsa (fittizi) di Rav Hai nella raccolta Sha'arei Teshuvah. La forma letteraria dello Zohar Nella forma letteraria, lo Zohar è che includono brevi affermazioni midrashiche, omelie più lunghe, e discussione su molti argomenti. Per la maggior parte, vengono presentate come preferite dal tanna Simeon b. Yohai e i suoi compagni (havvrayya), ma vi sono anche lunghe sezioni anonime. Non è un libro nel senso comunemente accettato del termine, bensì un corpus completo di letteratura unito sotto un unico titolo. Nelle edizioni a stampa lo Zohar è composto di cinque volumi. Secondo la divisione adottata nella maggior parte delle edizioni, tre appaiono con il titolo Sefer ha-Zohar al ha-Torah; un volume porta il titolo di Tikkunei ha-Zohar; il quinto, intitolato Zohar Hadash, è una raccolta di detti e di testi che si trovano nei manoscritti dei cabalisti di Safed dopo la stampa della parte principale dello Zohar e riuniti da Ahraham b. Eliezer ha-Levi Berukhim. Le indicazioni delle pagine nelle edizioni più comuni dello Zohar e nelle edizioni di Tikkunim sono generalmente uniformi. I riferimenti qui contenuti a Zohar Hadash (ZH) rimandano all'edizione di Gerusalemme del 1953. Alcune edizioni del libro esistono separatamente in manoscritto. Le sezioni che formano lo Zohar nel suo Senso più ampio sono essenzialmente: 1) La parte principale dello Zohar. disposta secondo le nozioni settimanali della Torah, inclusa la porzione Pinhas. Dal Deuteronomio vi sono soltanto Va-Ethannan, e qualcosa su Va-Yelekh e Ha'azinu. Fondamentalmente è un Midrash cabbalistico sulla Torah, mescolato a brevi affermazioni, lunghe esposizioni e narrazioni riguardanti Simeon b. Yohai e i suoi compagni. Inoltre. consiste in parte di leggende comuni. Il numero dei versetti interpretato in ogni porzione è relativamente modesto. Spesso l'esposizione fa digressioni su altri argomenti ben diversi dal testo della porzione e alcuni dei pezzi sono costruiti con estrema abilità. Le esposizioni sono precedute da petihot ("introduzioni") che solitamente sono basate su versetti tratti dai Profeti e dall'Agiografia, soprattutto dai Salmi. e terminano con una transizione all'argomento della porzione. Molti episodi fungono da cornice per le omelie dei compagni. per esempio conversazioni durante un viaggio o una sosta serale. La lingua usata è l'aramaico, come lo è per la maggior parte delle altre sezioni dell'opera (a meno che venga precisato diversamente). La porzione di Bereshit è preceduta da una hakdamah ("prefazione") che sembrerebbe una tipica raccolta di scritti anziché una prefazione vera e propria, a meno che avesse lo scopo di introdurre il lettore al clima spirituale del libro. Molte esposizioni si trovano in vari manoscritti in posti diversi. e talvolta vi è qualche dubbio circa l'esatta collocazione nell'una o nell'altra porzione. Vi sono inoltre discorsi che ricorrono in due o tre collocazioni diverse e in diversi contesti. Aaron Zelig b. Moses in Ammudei Sheva (Cracovia, 1635), elencò circa 40 passi di questo tipo che si trovano in edizioni parallele dello Zohar. Alcune esposizioni nelle edizioni a stampa s'interrompono a metà e la loro continuazione è stampata soltanto in Zohar Hadash. Nelle edizioni più tarde a partire da quella di Amsterdam 1715, i completamenti sono stampati come hasilmatot ("omissioni") alla fine di ciascun volume. 2) Zohal sul Cantico dei Cantici (stampato in ZH foll. 61d-75b): si estende solo sulla maggior parte del primo capitolo e. come 1). consiste di esposizioni cabalistiche. 3) Sifra de-Zeni uta ("Libro dell'occultamento") una sorta di commento frammentario sulla porzione Bereshit, in brevi frasi oscure. come una Mishnah anonima. in cinque capitoli, stampato al termine della porzione Terumah (2:176h-179a). In parecchi manoscritti e nell'edizione di Cremona (1559-60) si trova nella porzione Bereshit. 4) Idra Rabba ("La Grande Assemblea") una descrizione del raduno di Simeon b. Yohai e dei suoi compagni, nel quale vengono esposti i misteri più profondi riguardanti la rivelazione del Divino nella forma di Adam Kadmon ("Uomo Primordiale"). È la costruzione letteraria più elevata e il discorso più sistematico che si trovi nello Zohar. Ognuno dei compagni dice il suo pezzo. e Simeon b. Yohai completa le loro affermazioni. Al termine di questo solenne raduno tre dei dieci partecipanti incontrano una morte estatica. Tra i primi cabalisti. era chiamato Idra de-Naso, ed è stampato nella porzione Naso (3:127b-145a). In un certo senso, è una sorta di Gemara alla Mishnah del Sifra de-Zeni'uta. 5) Idra Zuta ("La Piccola Assemblea"), una descrizione della morte di Simeon b. Yohai e le sue ultime parole ai seguaci: una sorta di parallelo cabalistico della morte di Mosè. Contiene un discorso simile a quello dell'Idra Rabba, con molte aggiunte. Tra i primi cabalisti era chiamato Idra de-Ha'azinu. Questa porzione conclude lo Zohar (3:278b-96h). 6) Idra de-Vei Mashkena, una seduta di studio condotta da Simeon b. Yohai con alcuni dei suoi discepoli sull'esposizione di certi versetti nella sezione che parla del tabernacolo. Per la maggior parte, tratta i misteri delle preghiere. Si trova all'inizio di Terumah (2:12,a-146b). É errata la nota in edizioni successive. che la sezione 2:122b-3h è l'Idra de-Vei Mashkena. Questa parte è menzionata all'inizio dell'Idra Rabba. 7) Heikhalot due descrizioni dei sette palazzi del giardino celeste dell'Eden dove le anime si allietano quando ascende la preghiera, e dopo la loro dipartita dal mondo. Una versione è breve ed è inserita nella porzione Bereshit (1:38a-48h). L'altra versione è molto lunga, perché si diffonde sui misteri della preghiera e sull'angelologia. Si trova alla fine della porzione Pekudei (2:244b-62b). Al termine della versione più lunga c'è una sezione addizionale sui "sette palazzi dell'impurità". che è una descrizione delle dimore dell'inferno (2:262h-8b). Nella letteratura cabalistica è chiamata Heikhalot de-R. Simeon b Yohai. 8) Raza de-Razin ("Il segreto dei Segreti"). un pezzo anonimo di fisiognomica e chiromanzia, basato su Esodo 18:21, nella porzione Yitro (2:70a-75a). La continuazione si trova nelle omissioni e in Zohar Hadash (56c-60a). Una seconda sezione sullo stesso argomento. ma in forma diversa. fu inserita in una colonna parallela nella parte principale dello Zohar (2:70a-78a). Sava de-Mishpatim ("Discorso del Vecchio"). racconto dell'incontro dei compagni con R. Yeiva, vecchio e grande cabalista che si presenta nei miseri panni di un conducente d'asini e che si lancia in discorso ampio e splendidamente costruito sulla dottrina dell'anima. basato su una interpretazione mistica delle leggi sulla schiavitù contenute nella Torah. È inserito nella parte principale dello Zohar sulla porzione Mishpatim (2:94b-114a) Yanuka ("Il Bimbo"). storia di un bimbo prodigioso, figlio del vecchio Rav Hamnuna, che insegna ai compagni profonde interpretazioni del Rendimento di Grazie dopo i pasti e altri argomenti. quando i compagni alloggiano nella casa di sua madre Episodi riguardanti altri bambini si trovano in altre parti dello Zohar. In alcuni manoscritti questo episodio costituisce la sezione dello Zohar sulla porzione Deuarim. Nell'edizione stampata si trova nella porzione Balak (3:186a-92a). 11) Rav Metivta ("Capo dell'Accademia"). racconto di un viaggio visionario compiuto da, Simeon b Yohai e dai suoi discepoli nel Giardino dell'Eden e una lunga esposizione fatta dal capo dell'accademia celeste sul mondo a venire e sui misteri dell'anima. È stampato come parte della porzione Shelah Lekha (3:161-174a). Manca l'inizio. e mancano inoltre parti al centro e alla fine. 12) Kav ha-Middah ("Il criterio di misura") una spiegazione dei dettagli dei misteri dell'emanazione in un'interpretazione della Shema, in forma di un discorso di Simeon b. Yohai a suo figlio, stampato in Zohar Hadash (56d-58d). 13) Sitrei Otiyyot ("Segreti delle Lettere'). un discorso di Simeon b. Yohai sulle lettere dei Nomi Divini e i misteri dell'emanazione. stampato in Zohar Hadash (1h-10d). 14) Un'interpretazione della visione del carro di Ezechiele capitolo 1 stampata senza titolo in Zohar Hadash (37c-41b). 15) Matnitin e Tosefta, numerosi pezzi brevi, scritti in uno stile magniloquente e oscuro. che costituiscono una sorta di Mishnah al Talmud dello stesso Zohar. Il nesso tra questi pezzi e le esposizioni nelle porzioni dello Zohar è talora chiaro. talora tenue. In maggioranza i pezzi appaiono come affermazioni proferite da una voce celeste che viene udita dai compagni, e che li esorta ad aprire i cuori alla comprensione dei misteri. Molti contengono un sommario dell'idea dell'emanazione e altri importanti principi dell'insegnamento dello Zohar. presenti in stile enigmatico. Questi pezzi sono sparsi in tutto lo Zohar. Secondo Abraham Galante in Zoharei Hammah (Venezia, 1650), 13b "quando il curatore dello Zohar vedeva un'esposizione che apparteneva a un argomento in una particolare esposizione tratta da mishnayot e tasafot, la collocava tra questi pezzi. per conferirne maggiore forza grazie alla Tosefta e alla Mishnah". 16) Sitrei Torah ("Segreti della Torah"). pezzi su versetti del Libro della Genesi che furono stampati in colonne separate paralleli al testo principale dello Zohar. nelle porzioni No`ah, Lekh Lekha, Va-Yera e Va-Yeze e in Zohar Hadash sulle porzioni Toledot e Va-Yeshel. Vi sono parecchi pezzi intitolati. Sitrei Torah nelle edizioni a stampa ad -esempio. Sitrei Torah alla porzione Ahahrei Mot in Zohar Hadash- ma è dubbio che appartengano ai Sitrei Torah. Del pari, vi sono manoscritti che desiderano l'interpretazione sistematica della creazione in 1:155a-22a come i Sitrei Torah di questa sezione. Tuttavia, il suo carattere è diverso dagli altri esempi di Sitrei Torah che contengono molte spiegazioni allegoriche di versetti sui misteri dell'anima. mentre il pezzo spiega la teoria dell'emanazione (in un discorso anonimo) nello stile della parte principale dello Zohar e dei Matnitin l7) Midrash ha-Ne'lam ("Midrash esoterico") sulla Torah. Esiste per le sezioni Bereshit, No'ah, Lekh Lekha in Zohar Hadash; per Va-Yera, Hayyei, Sarah e Toledot nella parte principale dello Zohar, in colonne parallele; e per Va-Yeze in Zohar Hadash. L'inizio della sezione Va-Yehi nelle edizioni a stampa. 1:21 6, in alcune fonti è indicato come il Midrash ha-Ne'lam di questa porzione; ma vi è ragione di ritenere, con numerosi cabalisti che queste pagine siano un'aggiunta più tarda. A giudicare dal carattere letterario e dall'evidenza di parecchi manoscritti le pagine 2:4a-5b, e soprattutto 14a-22a, appartengono al Midrash ha-Ne'lam della porzione Shemot, e 2:35b-40b al Midrash ha-Ne'lam della porzione Bo. A partire da questo punto nello Zahar Hadash vi sono soltanto pochi brevi pezzi separati, sulle porzioni Be-Shallah e Ki Teze. Numerosi pezzi, assai vicini come spirito al Midrash ha-Ne'lam si trovano qua e là nella parte principale dello Zohar ad esempio nell'esposizione di Rav Huna davanti ai rabbini nella porzione Terumah, 2:174b-175a. É inoltre possibile che le pagine nella porzione Bo siano di questo stesso tipo. La lingua di questa parte è un miscuglio di ebraico e aramaico. Vi sono menzionati molti rabbini e. in contrasto con le lunghe esposizioni delle parti precedenti, troviamo qui soprattutto brevi pezzi simili agli originali Midrashim aggadici. Qua e là possiamo riconoscere la transizione a un metodo espositivo più lungo, ma non vi sono esposizioni estese e costruite artisticamente. In quanto al contenuto il materiale è soprattutto incentrato su discussioni sulla creazione sull'anima e sul mondo a venire, mentre sono poche le discussioni sulla natura di Dio e sull'emanazione. Gran parte delle sezioni, dopo la porzione Bereshit, spiega narrazioni bibliche, soprattutto le imprese dei patriarchi. come allegorie del fato dell'anima. 18) Midrash ha-Ne'lam del libro di Ruth, simile al precedente per stile e contenuto. É stampato in Zohar Hadash: in origine fu stampato come opera separata intitolata Tappuhei Zahav o Yesod Shirim a Thiengen nel 1559. Esiste in molti manoscritti come libro indipendente. 19) L'inizio del Midrash ha-Ne'lam del Cantico dei Cantici. É stampato in Zohar Hadash ed è semplicemente un'esposizione prefatoria del libro, senza continuazione. 20) Ta Hazei ("Vieni e vedi"), un'altra interpretazione della porzione 3ere.shit in brevi commenti anonimi, molti dei quali incominciano con le parole ta hazei, scritti in una evidente vena cabalistica. La prima parte si trova in Zohar Hadash, 7a, dopo Sitrei Otiyyot, e il resto venne stampato per la prima volta nell'edizione di Cremona, 65-75, come continuazione nelle hashmatot dello Zohar alla fine del volume I. In alcuni manoscritti (come Vaticano 206 foll. 274-86) le due sezioni si trovano insieme, ma nella maggioranza dei casi mancano entrambe. 21 ) Ra'ava Meheimna ("Il Pastore fedele") - con riferimento a Mosè - è un libro separato sul significato cabalistico dei comandamenti. Si trova in alcuni manoscritti come opera indipendente e nelle edizioni a stampa è disperso tra le sezioni in cui sono menzionati i relativi comandamenti e stampato in colonne separate. La maggior parte si trova in porzioni dei numeri e del Deuteronomio, e soprattutto in Pinhas, Ekev e Ki Teze. Lo sfondo del libro è diverso da quello della parte principale dello Zohar. In esso Simeon b. Yohai e i suoi compagni, apparentemente grazie a una rivelazione visionaria. incontrano Mosè, "il Pastore fedele". insieme a tannaim e amoraim ed altri personaggi del mondo celeste, che appaiono e parlano con loro dei misteri dei comandamenti, come se l'accademia del cielo fosse discesa sulla terra. L'opera, chiaramente, dipende dallo stesso Zohar, poiché è citata parecchie volte come "il libro precedente [o primo]'', particolarmente nella porzione Pinhas. L'enumerazione dei comandamenti. che in diversi passi esiste e che addita l'ordine originale. è confusa (si veda anche più sotto: Unità dell'Opera, Ordine di composizione). 22) Tikkunei Zohar: anch'esso è un libro indipendente, con uno sfondo simile a quello del Ra'aya Meheimna. Comprende un commento alla porzione Bereshit; ogni sezione (tikkun) incomincia con una nuova interpretazione della parola bereshit ("in principio"). Il libro era strutturato in modo da contenere 70 tikkunim, in conformità con "i 70 aspetti della Torah`' ma in realtà sono più numerosi, e alcuni sono stampati come aggiunte alla fine del libro. Due disposizioni completamente diverse si trovano nei manoscritti e si rispecchiano nelle diverse edizioni di Mantova (1558) e di Orta Koj (1719). Le edizioni successive seguono quella di Orta Koj. Le esposizioni contenute nel libro sono digressioni dall'argomento della porzione e trattano temi molto diversi che non sono discussi nella parte principale dello Zohar, come i misteri dei punti vocalici e degli accenti, i misteri relativi a questioni halakhiche, la preghiera e così via. Le pagine dello Zohar l :22a-29a appartengono a questo libro e in vari manoscritti appaiono come parti del tikkun n.70. Qua e là vi è un cambiamento nella struttura narrativa, quando imita quella della parte principale dello Zohar e, talora continuando apparentemente la discussione, fa sembrare che questa sia tenuta nell'accademia celeste. Il libro ha anche una prefazione (hakdamah) sul modello della prefazione allo Zohar. Lunghe esposizioni addizionali, parallele alle sezioni iniziali del libro e mescolate ad altre interpretazioni dello stesso tipo, sono stampate alla fine di Znhar Hadash (93-123) e sono solitamente presentate come tikkunim di Zohar Hadash. Molte di esse dovevano servire come prefazione al libro dei Tikkunim. 23) Un'opera senza titolo sulla porzione Yitro, una redazione, nello spirito dei tikkunim, della fisiognomica che si trova in Raza de-Razin, stampata in Zohar Hadash (31 a-35 b) . 24) Alcuni brevi trattati stampati in ZoharHadash, come lo "Zohar della porzione Tissa (43d-46b). e il pezzo anonimo stampato come la porzione Hukkat in Zohar Hadash (50a-5:3b). Questi pezzi devono essere considerati imitazioni dello Zohar; ma furono senza dubbio scritti poco dopo l'apparizione dello Zohar stesso, e il primo è già citato in Livnat ha-Sappir, che fu scritto nel 1328 (Gerusalemme, 1914, 86d). Oltre a queste sezioni ve ne sono altre, note a vari cabalisti che non furono incluse nelle edizioni stampate; alcune sono andate completamente perdute. Una continuazione del Sefer ha-Tikkunim su altre porzioni nota all'autore di Livnat ha-Sappir (95b-l00a) era un lungo pezzo sul calcolo del tempo della redenzione. I pezzi, che furono stampati in Tikkunei Zohar Hadash (117b-121b) e che interpretano vari versetti riguardanti Abramo e Giacobbe, sembrarono appartenere a questa continuazione. I "detti di Ze'ira" ("il piccolo"), che sono menzionati in Shem ha-Gedolim come "omelie semi-midrashiche", sono pervenuti fino a noi nel manoscritto 782 di Parigi, e furono inclusi da Hayyim Vital in una antologia tuttora esistente. Lo Zohar della porzione Ve-Zot ha-Berakhah è conservato nello stesso manoscritto di Parigi (foll. 239-42) ed è un miscuglio di frammenti del Midrash su Ruth e di pezzi sconosciuti. Sembra che Moses Cordovero vedesse un Midrash Megillat Esther appartenente allo Zohar, secondo Or Ne'erav (Venezia, 1587, 21b). Il suo discepolo Abraham Galante, nel suo commento a Sava de-Mishpatim, cita un testo chiamato Pesikta, da un manoscritto dello Zohar: ma il suo contenuto è ignoto. Non esiste una connessione diretta tra la letteratura dello Zohar e le sue più tarde imitazioni letterarie che non sono incluse nei manoscritti, come lo Zohar su Ruth, che fu stampato con il titolo Har Adonai (Amsterdam, 1712). Questo pezzo fu composto in Polonia nel XVII secolo. L'opinione dei cabalisti circa la composizione e la revisione dello Zohar si formò dopo che il libro ebbe una vasta diffusione. All'inizio predominò la convinzione che si trattasse del libro scritto da Simeon b. Yohai mentre si nascondeva nella grotta, o almeno durante la sua vita, o che al più tardi fosse stato composto durante la generazione successiva. Tra i cabalisti di Safed, i quali in genere credevano all'antichità dell'intero Zohar, Abraham Galante, nel suo commento alla porzione Va-Yishlah nello Zohar, espresse l'opinione che l'intera opera fosse stata composta nell'epoca geonica in base agli scritti di R. Abba, che era lo scrivano di Simeon b. Yohai, e che il libro non avesse ricevuto la sua forma attuale prima di quel tempo. Questa opinione, che cerca di spiegare numerose difficoltà ovvie nella cronologia dei rabbini menzionati nello Zohar, ricorre anche in Netiv Mizvotekha di Isaac Eisik Safrin di Komarno. Nel XVI secolo si diffuse la leggenda che l'attuale Zohar, il quale comprende circa 2.000 pagine stampate fittamente, fosse soltanto un minuscolo residuo dell'opera originale, che pesava quanto 40 carichi di cammello (in Ketem Paz, 102a). Queste idee non trovano conferma in un esame critico dello Zohar. L'unità dell'opera La letteratura contenuta nello Zohar si può dividere fondamentalmente in tre strati distinti l'uno dall'altro: a) il corpus principale dello Zohar, comprendente le voci 1 - 15 del precedente elenco; b) lo strato di Midrash ha-Ne'lam e Sitrei Torah, cioè le voci 16-19; c) lo strato di Ra'aya Meheimna e dei Tikkunim, cioè 21-23. Le voci 20 e 24 sono dubbie, per quanto riguarda le loro relazioni letterarie, e forse appartengono a materiale che fu aggiunto dopo l'apparizione dello Zohar nel XIV secolo. Vi sono certamente legami definiti tra i diversi strati che stabiliscono un ordine cronologico, ma un indagine dettagliata mostra chiaramente che ogni strato ha una sua unità. Il problema dell'unità della parte principale dello Zohar è particolarmente importante. Le apparenti differenze sono esclusivamente esterne e letterarie, ad esempio la scelta di uno stile talora laconico ed enigmatico, e talora più espansivo o addirittura verboso. Lo stile L'unità è evidente in tre campi: lo stile letterario, la lingua e le idee. Fin dall'inizio della critica storica dello Zohar, vi sono sempre state opinioni che considerano lo Zohar una combinazione di testi più antichi e più tardi, messi insieme solo al tempo dell'apparizione dello Zohar. Come minimo, contiene un prototipo omiletico, una creazione di molte generazioni che non può essere attribuita essenzialmente a un unico autore. Questa opinione è stata sostenuta, per esempio, da Eliakim Milsahagi, Hillel Zeitlin, Ernst Mueller e Paul Vulliaud; ma essi si sono accontentati di una conclusione generale, o dell'affermazione che il Sifra di-Zeni'uta, i Matnitin o le Idrot sono fonti antiche di questo tipo. L'unico studioso che abbia tentato di indagare sugli strati più antichi nell'esposizione delle altre parti dello Zohar fu I. Stern. Un esame dettagliato delle argomentazioni, e anche delle argomentazioni generali, dimostra che erano estremamente deboli. In particolare, non c'è prova che il Sifra di-Zeni'uta differisca dalle altre parti del corpus dello Zohar se non nello stile allusivo in cui venne intenzionalmente scritto. In realtà, i legami letterari tra le diverse parti dello Zohar sono estremamente stretti. Molte delle sezioni sono costruite con grande abilità letteraria, e le diverse parti sono relate l'una all'altra. Non vi è una vera distinzione, nella lingua o nel pensiero, tra i brevi pezzi in vero stile midrashico e le esposizioni più lunghe che seguono i metodi dei predicatori medievali, i quali usavano intessere idee diverse in un unico tessuto, che incomincia con un particolare versetto, spazia lontano e poi ritorna al punto di partenza. In pratica tutte le sezioni sono costruite su un identico metodo compositivo, derivato da variazioni di forme letterarie diverse. Dal punto di vista della costruzione non vi è inoltre differenza tra le varie cornici narrative, come la trasmissione di esposizioni che ebbero origine durante i viaggi dei compagni tra le città della Palestina e soprattutto della Galilea, o il tipo di composizione drammatica che si trova nelle Idrot, la Sava e la Yanuka. La suddivisione del materiale in un dialogo tra i compagni o in un monologo espositivo non altera sostanzialmente l'argomento della composizione. Anche nei monologhi diverse opinioni relative a un particolare versetto vengono menzionate l'una accanto all'altra, mentre in altre parti le diverse opinioni sono divise e assegnate ai vari interlocutori. In tutto il corpus principale del libro ricorrono citazioni o riferimenti a esposizioni contenute in altre parti dello Zohar. Alcuni argomenti. che sono discussi con estrema brevità in un punto, sono trattati più ampiamente in altre esposizioni. Lo Zohar, diversamente dal Midrash, ama alludere a discussioni precedenti o a temi che vengono trattati più avanti, e questo è tipico degli omilisti medievali. Un esame di questi riferimenti. sia nelle esatte citazioni letterali, sia negli argomenti senza citazioni precise, mostra che la parte principale dello Zohar è una costruzione letteraria tutta d'un pezzo, nonostante le variazioni superficiali. Esistono affermazioni e idee che si riflettono in un unico passo, ma sono molto rare. Anche le sezioni che hanno un argomento particolarmente caratteristico, come quelle che trattano della fisiognomica della porzione Yitro, sono in molti modi connesse con altre sezioni dello Zohar, che trattano più ampiamente temi solo brevemente menzionati nelle prime. Circa il rapporto del Midrash ha-Ne'lam con il corpus principale dello Zohar, si veda più sotto. Un elemento dell'unità strutturale dello Zohar è quello della scena e delle dramatis personae. Lo Zohar presuppone l'esistenza di un gruppo organizzato di "compagni" (haurayya) che. senza dubbio, in origine erano dieci; ma quasi tutti non sono altro che figure vaghe. I dieci compagni sono Simeon b. Yohai, suo figlio Eleazar, Abba, Judah, Yose, Isaac, Hezekiah, Hiyya Yeisa e Aha. Alcuni di loro sono (7moraim che sono stati trasferiti dall'autore nell'epoca dei tannaim, come Abba, Hezekiah, Hiyya e Aha. Ciò che viene narrato di loro qua e là mostra che l'autore utilizzò episodi di fonti talmudiche che riguardavano amoraim con questi nomi, e perciò non si tratta di personaggi sconosciuti. A queste figure fondamentali si uniscono certi altri rabbini, che di solito appaiono indirettamente, o come personaggi appartenenti alla generazione precedente a quella di Simeon b. Yohai. A questo proposito, è molto importante un particolare errore dello Zohar. In diversi episodi trasforma regolarmente Phinehas b. Jair, genero di Simeon b. Yohai (secondo Shab. 33b) in suo suocero. Del pari, il suocero di Eleazar figlio di Simeon, viene chiamato Yose b. Simeon b. Lekonya, anziché Simeon b. Yose b. Lekonya. Oltre a questi compagni regolari appaiono talvolta altri personaggi che la designazione sava ("vecchio") colloca in una generazione precedente, ad esempio Nehorai Sava, Yeiva Sava, Hamnuna Sava e Judah Sava. Vi è una tendenza riconoscibile a creare una cornice narrativa fittizia in cui non insorgono i problemi degli anacronismi e della confusione cronologica. D'altra parte, né Akiva né Ishmael b. Elisha sono menzionati come maestri della tradizione mistica, mentre entrambi appaiono nella letteratura dei heikhalot e della Merkabah. Akiva viene introdotto solo in episodi e citazioni derivanti dal Talmud. Anche l'ambientazione palestinese del libro è fittizia e, nel complesso, non ha basi nella realtà. Lo Zohar si affida a nozioni geografiche e topografiche sulla Palestina che sono tratte dalla letteratura precedente. Talvolta l'autore non capisce le sue fonti, e inventa località che non sono mai esistite, per esempio Kapotkeya, come nome di un villaggio nei pressi di Sepphoris, sulla base di un'affermazione del Talmud palestinese (Shev. 9:5), da lui combinata con un'affermazione del Tosefta, Yevamot 4. Presenta un villaggio della Galilea con il nome di Kefar Tarsha, che egli identifica con Mata Mehasya, e a questo proposito parla del rito della circoncisione basandosi su un materiale citato nella letteratura geonica a proposito di Mata Mehasya in Babilonia. Talvolta un toponimo è basato su un testo corrotto in un manoscritto medievale del Talmud, ad esempio Migdal Zor all'inizio di Sava de-Mishpatim. Per quanto riguarda la scena e i personaggi vi sono legami strettissimi tra la parte principale dello Zohar e lo strato del Midrash ha-Ne'lam, che segue la stessa abitudine di menzionare nomi in realtà inesistenti. In questa sezione Simeon b. Yohai e i suoi compagni costituiscono già un'importante comunità di mistici, ma sono ricordati anche altri gruppi, e in particolare amoraim o studiosi più tardi con nomi fittizi che non ricompaiono nello Zohar. In tempi recenti, sono stati effettuati parecchi tentativi per spiegare le difficoltà geografiche e per dare un'interpretazione non letterale delle affermazioni contenute nel Talmud e nei Midrashim al fine di farle armonizzare con lo Zohar: ma nessuno di tali tentativi è convincente. Molte volte lo Zohar usa l'espressione selik le-hatam ("egli salì là"), una frase idiomatica babilonese per indicare coloro che andarono dalla Babilonia in Palestina, cambiando così la scena dalla Palestina alla Diaspora: "là" è un'espressione impossibile, se il libro fu effettivamente scritto in Palestina. Le fonti - Per quanto riguarda le fonti dello Zohar, dobbiamo distinguere tra quelle che sono menzionate esplicitamente e le fonti vere, cui si allude solo in modo generico ("essi l'hanno stabilito", "i compagni ne hanno discusso"), o non sono affatto menzionate. Le fonti del primo tipo sono opere fittizie, nominate nello Zohar e nel Midrash ha-Ne'lam, per esempio, il Sifra de-Adam, il Sifra de-Hanokh, il Sifra de-Shelomo Malka, il Sifra de-Rav Hamrluna Sava, il Sifra de-Rav Yeiva Sava e, in una forma più enigmatica, i Sifrei Kadma'ei ("Libri antichi"), il Sifra de-Aggadeta, la Raza de-Razin Matnita de-Lan (cioè la Mishnah mistica, contraddistinta dalla Mishnah consueto). Per quanto riguarda il mistero delle lettere dell'alfabeto, è citato Atvan Gelifin ("Lettere incise") o "Lettere incise di R. Eleazar". Sono citate anche opere di magia, per esempio il Sifra de-Ashmedai, gli Zeini Harshin de-Kasdri'el Kadma 'ah ("Varie specie di magia dell'antico Kasdiel"), il Sifra de-Hokhmeta di- Venei Kedem ("Libro della sapienza dei Figli dell'Oriente"). Alcuni nomi sono basati su fonti preesistenti, come il Sifra de-Adam e il Sifra de-Hanokh, ma con questi titoli sono riferiti argomenti che in realtà appartengono interamente allo Zohar e al suo mondo di idee. In contrasto con questa biblioteca fittizia, che è chiaramente posta in risalto, le vere fonti letterarie dello Zohar sono tenute nascoste. Queste fonti includono moltissimi libri, dal Talmud e i Midrashim fino alle opere cabalistiche composte nel XIII secolo. Si può osservare un unico metodo all'uso di queste fonti, tanto nelle sezioni dello stesso Zohar quanto nel Midrash ha Ne'lam. Lo scrittore conosceva molto bene il materiale precedente e spesso lo usava come base per le sue esposizioni, introducendovi variazioni tutte sue. Le sue fonti principali erano il Talmud babilonese, il Midrash Rabbah, il Midrash Tanhuma e i due Pesiktot, il Midrash sui Salmi, i Pirkei de-abbi Eliezer e il Targum Onkelos. In generale non vengono citati esattamente, ma tradotti nello stile tipico dello Zohar e riassunti. Se un dato argomento esiste in un certo numero di versioni parallele nella letteratura precedente, spesso non è possibile accertare la fonte precisa. Ma, d'altra parte, vi sono molte affermazioni citate in una forma che esiste solo in una delle diverse fonti. Meno usati sono i Midrashim halakhici, il Talmud palestinese e gli altri Targum, e i Midrashim come Aggadat Shir ha-Shirim, il Midrash sui Proverbi e l'Alfabet de-R. Akiva. Non è chiaro se l'autore usasse Yalkut Shinzorlio se conoscesse separatamente le fonti della sua aggadah. Dei Midrashim minori, usò Heikhalot Rabbati, Alfabet de-Ben Sira, Sefer Zerubabel, Baraita de-Ma'aseh Bereshit, Perek Shirak nelle descrizioni aggadiche di Gan Eden, e il trattato di Hibbut ha-Kever, oltre che, occasionalmente, il Sefer ha-Yashar. Talvolta l'autore si serve di aggadot che non esistono più, o che sono rimaste solo rlel Midrash ha-Gadol; e questo non è sorprendente perché i Midrashim aggadici come questo erano noti a molti scrittori medievali, ad esempio nelle omelie di Joshua ibn Shu'ayb, che scrisse nella generazione successiva all'apparizione dello Zohar. Lo Zohar continua i modelli di pensiero dell'aggadah e li trasferisce nel mondo della Cabala. I riferimenti a paralleli nella letteratura rabbinica, citati da Reuben Margulies in Nizozei Zohar nell'edizione di Gerusalemme dello Zohar (1940-48) spesso rivelano le fonti delle esposizioni. Della letteratura medievale l'autore usa, come ha dimostrato W. Bacher, commentatori biblici come Rashi, Abraham ibn Ezra, David Kimhi, e Lekah Tov di Tobiah b. Eliezer. Apparentemente, egli conosceva inoltre i commenti dei tosafisti. Era notevolmente influenzato dai commentatori allegorici della scuola di Maimonide, in particolare nel Midrash ha-Ne'lam ma anche in alcune delle esposizioni nel corpus principale dello Zohar. L'ultimo commentatore che usò come fonte fu Nahmanides nei suoi commenti sulla Torah e su Giobbe. Certi usi verbali nello Zohar possono essere spiegati solo in riferimento alla definizioni nel Sefer ha-Arukh e nel Sefer ha-Shorashim di David Kimhi. Un'importante esposizione nella sezione Balak è basata su una combinazione di tre pezzi tratti da Kuzari di Judah Halevi. A proposito di certi costumi, si basa sul Sefer ha-Manhig di Abraham b. Nathan ha-Yarhi. Il commento di Rashi sul Talmud serve come fondamento per parecchie affermazioni contenute nello Zohar, e non solo in connessione con il Talmud. Delle opere di Maimonide, fa un uso moderato del commento alla Mishnah e del Moreh Nevukhim, e usa il Mishneh Torah più estensivamente. Diversi tentativi di provare che Maimonide conosceva lo Zohar e ne fece uso in diverse sue halakhot (il più recente di tali tentativi è quello di R. Margulies, Ha-Rambam ve-ha-Zohar, 1954), servono solo a dimostrare che è lo Zohar a dipendere da Maimonide. Le fonti dello Zohar tra le opere cabalistiche che lo precedettero sono egualmente poco chiare. Il Sefer Yezirah è menzionato chiaramente solo nello strato più tardo. Il Sefer ha-Bahir, Ma'yan ha-Hokhmah attribuito a Mosè, gli scritti dei Hasidei Ashkenaz e in particolare di Eleazar di Worms, il commento di R. Ezra al Cantico dei Cantici e il commento alla liturgia di Azriel di Gerona, erano tutti noti all'autore dello Zohar, il quale sviluppa tendenze apparse per la prima volta negli scritti del circolo degli gnostici castigliani a metà del XIII secolo. Del pari, la terminologia cabalistica dello Zohar rispecchia l'evoluzione della Cabala, dal Sefer ha-Bahir a Joseph Gikatilla, e il termine nekuddah hada ("un solo punto") nel senso di "centro" è tratto da Ginnat Egoz di Gikatilla, scritto nel 1274. I termini posti in numerosi passi, come Ein-Sof, avir kadmon, ayin (in senso mistico), mekora de-hayei, re'uta de mahshavah, alma de-peiruda, hanno la loro fonte nello sviluppo della Cabala dopo il 1200. Il termine haluk o haluka derabbanan per l'indumento dell'anima nell'Eden e le idee relate alla formazione di tale indumento, sono tratti da Hibbur Yafeh min ha- Yeshu'ah di Nissim b. Jacob (1050). Spesso l'autore dello Zohar attinge indirettamente dai Midrashim per mezzo dei commenti sugli stessi scritti dai cabalisti che lo precedettero. L'ambiente medievale è riconoscibile in molti dettagli dello Zohar, oltre a quelli già ricordati. I riferimenti storici alle Crociate e alla dominazione araba in Palestina dopo le guerre sono accostati a materiale basato sulle leggi e sui costumi dell'ambiente spagnolo dell'autore. Allo stesso modo la sua diatriba etica contro certe particolari immoralità nella vita della comunità appartengono a un periodo specifico, come ha dimostrato Yizhak Baer. I costumi comuni sono caratteristiche delle terre cristiane nei tempi medievali. Le idee dell'autore sulla medicina coincidono - con questo particolare periodo, che era dominato dalle concezioni di Galeno. Lo Zohar non ha idee chiare circa la natura dell'idolatria, e dipende dalle concezioni di Maimonide che, dal canto loro, erano basate sulla "letteratura" fittizia della setta dei Sabei in Harran. Lo sfondo culturale e religioso cui è relata gran parte del libro, incluse le parti polemiche, è cristiano e monogamo. Ma talvolta incontriamo allusioni all'Islam e a contatti con i musulmani, e questo conferma l'indentificazione della Castiglia come il luogo in cui fu scritto il libro. Dove le idee dello Zohar riguardo Satana e i ranghi delle potenze dell'impurità, i diavoli, gli spiriti maligni, la necromanzia e gli incantatori non sono tratte da fonti talmudiche, portano chiaramente il marchio del Medioevo: per esempio, il patto tra lo stregone e Satana, e il culto di Satana da parte degli stregoni. Riferimenti a questi temi sono sparsi in tutto lo Zohar, ma sono dello stesso tipo. La liturgia, che è esposta lungamente nelle sezioni Terumah e Va-Yakhel, non è la liturgia originale della Palestina, bensì la versione spagnola e francese usata nel Medioevo. La forma letteraria data a tutte queste esposizioni come se venissero enunciate nel periodo tannaitico è solo superficiale. L'autore del terzo strato, in Ra'aya Meheimna e nei Tikkunim, rivela il suo ambiente tramite certo materiale addizionale, e si direbbe quasi che egli non intenda nasconderlo. Ciò si nota particolarmente nel suo lungo trattamento della situazione sociale e religiosa delle comunità ebraiche del suo tempo, un argomento prediletto che riceve un trattamento diverso da quello che ha invece nel corpus principale dello Zohar. Le condizioni sociali qui descritte non sono affatto quelle delle precedenti comunità di Babilonia e Palestina e corrispondono invece in ogni dettaglio a ciò che sappiamo delle condizioni nella Spagna del XIII secolo. I suoi scritti hanno un tono polemico tipicamente duro nei confronti di vari gruppi della società ebraica, un tono che manca in altre parti dello Zohar. Tipico di questa parte è l'uso della frase erev rav ("moltitudine mista") per designare lo strato sociale nelle comunità ebraiche in cui si combinavano tutte le pecche notate dall'autore nei suoi contemporanei. L'autore era inoltre a conoscenza della vivace controversia tra i cabalisti, chiamati in queste parti marei kabbalah ("maestri della cabala") e i loro avversari, i quali negavano che nella Torah esistessero misteri e che i cabalisti li conoscessero. La lingua - Se le speranze di scoprire strati primitivi nello Zohar mediante l'analisi storica e letteraria delle sue varie parti sono vane, vengono egualmente frustrate quando passiamo alla critica linguistica. La lingua dello Zohar può essere divisa in tre tipi: 1) l'ebraico del Midrash ha-Ne'am; 2) l'aramaico in tale testo e nel corpus principale dello Zohar; 3) l'imitazione di 2) in Ra'aya Meheimna e nei Tikkunim. L'ebraico è, infatti, un'imitazione dello stile aggadico, ma ogni volta che diverge dalle sue fonti letterarie si rivela un ebraico medievale appartenente a un tempo in cui la terminologia filosofica era usata largamente. L'autore usa apertamente termini filosofici più tardi, in particolare nelle prime sezioni e nel Midrash su Ruth. Nel contempo, la transizione da questo ebraico all'aramaico del Midrash ha-Nezam e del corpus principale dello Zohar, che da un punto di vista linguistico sono lo stesso, può essere chiaramente distinta. L'ebraico naturale dell'autore qui è tradotto in un aramaico artificioso. Mentre il suo ebraico ha corrispondenti nella letteratura medievale, l'aramaico dello Zohar non ha paralleli linguistici, poiché è composto di tutte le espressioni idiomatiche che l'autore conosceva e che egli usò come base per la sua costruzione artificiale. L'uso stesso della parola targum (1:89a) per la lingua aramaica, anziché leshon Arami, usata nel Talmud e nel Midrash, era una consuetudine medievale. L'idioma aramaico è nel complesso la lingua del Talmud babilonese e del Targum Onkelos, insieme all'aramaico galileo di altri Targum; ma include ben poco del Talmud palestinese. Tipi di espressioni idiomatiche diverse sono usate fianco a fianco indiscriminatamente, anche nello stesso passo. Differenze dello stesso genere si possono vedere nei pronomi soggettivi e possessivi, dimostrativi e interrogativi, e anche nella coniugazione dei verbi. Lo Zohar ne fa un uso intercambiabile, e piuttosto libero. Talora lo Zohar adotta l'uso babilonese di una forma particolare, ad esempio le forme del perfetto precedute da ka (ka'amar) o la forma della coniugazione della terza persona dell'imperfetto (leima). Altre volte vengono preferite le corrispondenti espressioni targumiche. Per quanto riguarda il sostantivo, non vi è più distinzione tra le forme che hanno il suffisso determinativo alef e quelle che non l'hanno, e vi è una completa confusione. Anche una forma come tikla hada ("una bilancia") diventa possibile. Il caso costruttivo è quasi inesistente ed è quasi sempre sostituito dall'uso di di. Oltre al solito vocabolario vengono coniate parole nuove per analogia con formazioni già esistenti in altre parole. Nascono così parole come nehiru, nezizu, ketatu (circa le parole nuove del vocabolario, si veda più sotto). In quanto agli avverbi, lo Zohar usa indiscriminatamente parole tratte dall'aramaico biblico e babilonese, e traduzioni di termini medievali, come lefum sha'ata o kedein, in imitazione dell'uso di az per unire diverse parti di una frase come nell'ebraico medievale. Nonostante questa confusione vi è comunque un certo sistema e una certa coerenza. Viene creata una sorta di lingua unificata che è comune in tutte le parti sopra menzionate. In aggiunta alle forme basiche tratte dall'idioma aramaico vi sono molte caratteristiche tipiche della lingua dello Zohar. Lo Zohar mescola le congiunzioni del verbo, usando il pe'al anziché il pa'el e l'af'el (lemizkei per lezakka'ah, lemei'al per le'a'aka'ah, lemehdei per lehadda'ah) e inoltre l'af'el anziché il pe'al, per esempio olifna per yalfinan (tra le parole più comuni nello Zohar). Usa forme scorrette dell'itpa'al o etpe'el (le due forme del verbo sono indistinguibili), per esempio itsaddar o itsedar, itzayyar o itzeyar, itzakkei o tzekei, itzerif, eccetera. In parecchi casi, benché solo con certi verbi, usa 1'itpa'al (o 1'etpeel) come verbo transitivo, per esempio it'arna milei, le-istammara o le-istemara orhoi, le-itdabbaka o le-itdebaka nel senso di "conseguire". Dà significati nuovi alle parole, seguendo il loro uso medievale, per esempio: istallak a proposito della morte del giusto; it'ar, tramite l'influenza di hitorer, che nel Medioevo era usato nel senso di "discutere un certo argomento"; adbakuta nel senso di "percezione intellettuale"; ashgahuta nel senso di "provvidenza"; shorsha nel senso di "principio fondamentale '. La frase congiuntiva im kol da, usata dovunque nel senso di "nonostante" (be-khol zot) è influenzata dai traduttori dall'arabo, come lo è l uso della parola remez quale termine per "allegoria". Nello Zohar ricorre un numero considerevole di errori e di traduzioni prese a prestito. La parola pelatarin è considerata una forma plurale, e galgallei yamma una forma plurale di gallei ha-yam ("onde del mare"). L'autore scrive bar-anan anziché bar-minan e dà la traduzione artificiosa "arto, membro", per shaifa, a causa di una interpretazione erronea di un passo in Makkot 11b. Dal verbo gamar, che significa "imparare", conia lo stesso significato per il verbo hatam (le-mehtam oraita) e vi sono molti esempi dello stesso genere. Vi sono parecchie parole di cui l'autore dello Zohar non conosceva il significato nelle fonti originali, e che ricevono significati nuovi e inesatti: per esempio, al verbo ta'an viene attribuito il significato di "guidare un asino da dietro" (un arabismo tratto dal Sefer ha-Shorashim di David Kimhi), o taya'a, "l"ebreo che guida l'asino". Tukpa nel senso di "grembo" è basato su un'interpretazione errata in Targum Onkelos (Num. 11:12); bozina de-kardinuta come "luce potentissima" è basato sul fraintendimento di un passo di Pesahim 7a. Vi sono numerose parole, soprattutto sostantivi, che non hanno fonti conosciute e il cui significato spesso non è chiaro. É possibile che derivino da letture corrotte in manoscritti di letteratura rabbinica, o che siano state coniate dall'autore a imitazione delle parole straniere che ricorrono in quella letteratura. Moltissime cominciano con la lettera kof, e vi predominano le lettere zayin, samekh e resh, ad esempio sospita, kaftira, kospita, kirta, kozpira. L'influenza araba appare solo in pochissime parole, ma l'influenza spagnola è notevole nel vocabolario, nelle espressioni idiomatiche e nell'uso di particolari preposizioni. La parola gardinim nel senso di "guardiani", derivata dallo spagnolo guardianes, ricorre in ogni parte dello Zohar; il verbo besam nel senso di "addolcire" è una traduzione letterale del verbo spagnolo endulzar; di qui viene anche l'espressione comune hamtakah ha-din che proviene dallo Zohar. Le traduzioni prese a prestito di hakal nel senso di 'campo di battaglia" e di kos nel senso di "calice di un fiore" mostrano l'influenza dell'uso romanzo. Espressioni idiomatiche come lakehin derekh aheret, kayyam bishe'elta, istekem al yedoi (anziché askem), osim simhah, yateva be-reikampa (nel senso di "essere vuoto"), sono tutte traduzioni prese a prestito dallo spagnolo. Nei Tikkunei Zohar vi è inoltre l'uso di eshnogah per "sinagoga" (spagnolo esnoga=sinagoga). La frase egoz hakeshet come termine militare ha la sua fonte nelle lingue romanze medievali (nuez de ballesta). Vi sono molti esempi dell'uso della preposizione min ("da") anziché shel ("di"); be ("in") anziché im ("con"); legabbei ("in riferimento a") anziché el ("a"), tutte derivanti dall'inf~uenza della costruzione spagnola. L'unità linguistica dello Zohar appare evidente anche in particolari caratteristiche stilistiche che non si trovano affatto nella letteratura rabbinica, o che vi hanno un significato completamente diverso. Queste caratteristiche ricorrono in tutte le parti dello Zohar, soprattutto nel Midrash ha-Ne'lam e nel corpus principale. Esempi sono l'uso di forme sul modello di "attivo e non attivo", non nel senso rabbinico di "semi-attivo", ma con il significato di attività spirituale la cui profondità è insondabile; la combinazione di parole con la terminazione de-kholla, ad esempio amika dekholla, nishmeta de-kholla, mafteha de-kholla; forme iperboliche del tipo di raza de-razin, temira de-temirin, hedvah de-khol hedvan, tushbahta de-khol tushbehin; la descrizione di un'azione i cui dettagli non devono essere rivelati, mediante l'uso della formula "egli fece ciò che fece"; la divisione di un particolare argomento di certe categorie mediante l'uso di it... ve-it, ad esempio it yayin ve-it yayin, it kayiz ve-it jayiz, l'uso di endiadi (due termini per lo stesso oggetto), ad esempio hotama de-gushpanka ("sigillo di un sigillo"), bozina di-sheraga ("luce di una luce"). In quanto alla sintesi notiamo l'uso dell'infinito all'inizio di una proposizione incidentale, anche quando il soggetto della proposizione incidentale è diverso da quello della proposizione principale, ad esempio: zaddikim re'uyyim le-hityasheu ha-olam mehem; ihu heikhala di-rehimu le-iddebaka dakhora ne-nukba. Ciò avviene particolarmente nel caso di proposizioni relative e finali. Un'altra caratteristica sintattica è l'uso di az o kedein all'inizio delle proposizioni dipendenti. Tutte queste caratteristiche sono tipiche dell'uso medievale, e in particolare dell'ebraico dei giudei di Spagna, sotto l'influenza dello stile filosofico, e l'autore dello Zohar le usa senza preoccuparsi del fatto che costituiscono un tardo sviluppo. Il linguaggio dialettico nelle argomentazioni dei rabbini è tratto quasi esclusivamente dal Talmud babilonese, con l'aggiunta di alcuni termini presi dallo stile omiletico medievale, ad esempio it le-istakkala, it le'it'ara. Nel contesto di questa unità linguistica, lo Zohar usa diversi mezzi stilistici con grande libertà. Qualche volta tratta un'esposizione o segue un argomento molto a lungo; e altre volte è laconico ed enigmatico, oppure adotta uno stile solenne, quasi ritmico. In contrasto con la lingua usata in altre parti dello Zohar, quella di Ra'aya Meheimna e dei Tikkunim è povera, sia dal punto di vista del vocabolario che da quello della sintassi. Lo scrittore sta già imitando lo stesso Zohar, ma non possiede l'abilità letteraria del suo autore. Il numero delle parole ebraiche tramutate in aramaiche è qui assai più rilevante che nello Zohar. Lo scopo letterario dell'autore della parte principale dello Zohar è molto diverso da quello dell'autore di questi testi particolari, che usa un ebraico medievale quasi non camuffato; è chiaro che non intendeva fare in modo che la sua opera venisse ritenuta una creazione tannaitica. I termini Cabala e Sefirot che non sono mai usati nella parte principale dello Zohar o nel Midrash ha-Ne'lam, e che anzi vengono aggirati con ogni sorta di perifrasi, qui vengono menzionati senza restrizioni. Ordine di composizione - Un esame dello Zohar secondo i criteri sopra esposti mostra l'ordine di composizione degli strati principali. Le parti più antiche, relativamente parlando, sono sezioni del Midrash ha-Ne'lam, da Bereshit a Lekh Lekha e il Midrash ha-Ne'lam su Ruth. Erano già state scritte secondo un modello letterario diverso, che non assegnava ancora tutto al circolo di Simeon b. Yohai ma che presentava anche Eliezer b. Hyrcanus, seguendo le Heikhalot e Pirkei de-Rabbi Eliezer, come uno dei principali eroi del pensiero mistico. Questa sezione contiene la base di molti passi nel corpus principale dello Zohar, che cita affermazioni reperibili lì soltanto, e sviluppa in modo più ampio i suoi temi, i suoi episodi e le sue idee. Non è possibile sostenere il contrario. In queste prime sezioni, non vi sono argomenti la cui comprensione dipenda da riferimenti allo stesso Zohar, mentre ogni parte del corpo dello Zohar, incluse 1'Idra Rabba e l'Idra Zuta, è piena di citazioni e di allusioni ad argomenti che si trovano solo nel Midrash ha-Ne'lam. Le contraddizioni che ricorrono qua e là fra i due strati su certi punti, in particolare su questioni relative all'anima, possono essere spiegate alla luce dell'unità esistente tra essi, come indicazioni di una evoluzione delle idee dell'autore, la cui opera scritta emerse da un profondo slancio spirituale. Alcune intuizioni dell'immaginazione creativa dell'autore e della sua evoluzione furono rese possibili dalla scoperta di una nuova sezione sul versetto "Vi siano luci nel firmamento del cielo", che è parallela ad una presente nelle edizioni a stampa e in moltissimi manoscritti, ma che differisce da essa per la straordinaria concezione immaginativa dell'autore, e sembra essere la prima stesura della versione stampata, che è considerevolmente attenuata. Questa nuova sezione esiste soltanto nel più vecchio manoscritto dello Zohar finora conosciuto, ma fornisce la prima citazione di scritti zoharici che si trovi nella letteratura ebraica. Nelle ultime due sezioni del Midrash ha-Ne'lam vi sono due riferimenti ad argomenti che si trovano solo nel corpus principale dello Zohar, la cui redazione sembra quindi iniziata a quel tempo. Nella composizione del corpus principale dello Zohar avvengono cambiamenti nella tecnica letteraria, e nella transizione all'uso esclusivo dell'aramaico, e particolarmente nella decisione di trattare in modo più ampio le idee cabalistiche dell'autore e del suo circolo. L'ordine di composizione delle varie sezioni che formano il secondo strato fondamentale non può essere determinato con precisione. Vi sono molti riferimenti incrociati, e noi non sappiamo se furono inseriti nella redazione finale o se erano presenti fin dall'inizio, sia perché si richiamavano a un testo già scritto, sia perché accennavano a temi che l'autore intendeva riprendere in seguito. Comunque, gran parte del materiale venne scritto grazie alla spinta di un profondo entusiasmo creativo e in un periodo di tempo relativamente breve; quindi la questione dell'ordine di composizione di questa sezione non ha un'importanza vitale. Anche dopo che l'autore ebbe smesso di lavorare sul Midrash ha-Ne'lam, che non fu mai completato, continuò occasionalmente a scrivere brani nella stessa vena e li inserì nella struttura della parte principale dello Zohar. Questo intreccio di uno strato con l'altro, nonostante le ovvie differenze esistenti, ricorre anche tra il corpus principale dello Zohar e lo strato più tardo, la cui composizione incomincia con la Ra'aya Meheimna. Qui le differenze sono così grandi che è impossibile supporre che lo stesso autore abbia scritto tanto i due primi strati quanto quello successivo. Ma tra essi vi è un legame. L'autore della parte principale dello Zohar incominciò apparentemente a comporre un'opera letteraria anonima e non associata a una particolare cornice letteraria o narrativa e che intendeva essere un'interpretazione delle ragioni dei comandamenti secondo le sue concezioni. Non terminò l'opera e i resti di questa non ci sono pervenuti in una particolare copia manoscritta. Tuttavia l'autore della Ra'aya Meheimna, che probabilmente era un discepolo dei primo scrittore, la conosceva e se ne servì come punto di partenza per i suoi commenti su diversi comandamenti aggiungendo le sue intuizioni e il nuovo sfondo. Le differenze nella concezione e nello stile tra questi frammenti - che, quando ricorrono, sono sempre all'inizio della discussione sui comandamenti - e le parti principali della Raaya Meheimna sono grandissime. É quasi sempre possibile determinare con precisione il punto di transizione tra i frammenti del testo originale, che può essere assegnato allo Zohar vero e proprio, e la Ra'aya Meheimna, che fu aggiunta ad esso. Sembra che gli stessi cabalisti riconoscessero questa distinzione. Per esempio, gli stampatori dell'edizione cremonese dello Zohar effettuarono una divisione del frontespizio in due sezioni, Pekuda e Ra 'aya Meheimna. Le pagine della Pekuda appartengono sotto ogni punto di vista al corpo principale dello Zohar. L'autore dello strato più tardo aveva idee molto diverse da quelle dell'autore del primo. Egli non esprime le sue idee a lungo come gli omilisti, ma collega gli argomenti per associazione, senza spiegare il suo principio fondamentale. L'autore del Midrash ha-Ne'lam e del corpo principale dello Zohar intendeva, fin dall'inizio, creare una letteratura variata in guisa di antico materiale rabbinico. Non si accontentò di mettere insieme le varie sezioni che oggi fanno parte dello Zohar, ma ampliò il quadro. Presentò una versione di una raccolta di responsa geonici, in particolare quelli di Hai Gaon, e aggiunse materiale cabalistico nello stile dello Zohar, usando particolari espressioni idiomatiche dell'aramaico zoharico, e nello stile del Midrash ha-Ne'lam, intitolando il tutto Yerushalmi o "versione Yeru.shalmi". Questa versione riveduta e corretta cominciò a circolare più o meno contemporaneamente allo stesso Zohar, allo scopo di indicare che la nuova opera era in effetti già nota ai rabbini dei tempi precedenti. Successivamente fu stampata sotto il titolo di responsa, Sha'arei Teshuvah, e indusse in inganno non soltanto moltissimi cabalisti del XV e del XVI secolo, ma anche studiosi del XIX, i quali l'usarono come prova dell'antichità dello Zohar. Uno dei primi tra costoro fu David Luria nel suo M'amar Kadmut Sefer ha-Zohar. L'autore del Midrash ha-Ne'lam scrisse inoltre un libriccino intitolato Orhot Hayyim o Zavva'at R. Eliezer ha-Gadol, interamente o strettamente legato allo Zohar. É scritto in ebraico, ma ha tutti gli ingredienti linguistici e le particolarità stilistiche dello Zohar. In quest'opera Eliezer b. Hyrcanus, prima della sua morte, che è descritta a lungo seguendo il tardo Midrash Pirkei de-R. k,'liezer, rivela le vie della virtù e della buona condotta in stile epigrammatico e, nella seconda parte, aggiunge una descrizione delle gioie dell'anima nel giardino dell'Eden, dopo la morte. Queste descrizioni sono in effetti molto vicine a certe parti del Midrash su Ruth e delle porzioni Ve-Yakhel, Shelah Lekha, Balak e altre parti dello Zohar. Il libro fu conosciuto inizialmente solo nei circoli cabalistici. Fu stampato a Costantinopoli nel 1521; e di solito ognuna delle due parti veniva pubblicata separatamente: in una la descrizione della morte e i precetti etici, nell'altra la descrizione del giardino dell'Eden. La seconda parte è inclusa in Beit ha-Midrash di A. Jellinek (3 (1938), 131-40). La prima parte ricevette un'ampia interpretazione nelle edizioni di Orhot Hayyim di due rabbini polacchi, Abraham Mordecai Vernikovsky (Perush Dammesek Eliezer, Varsavia,1888) e Gerson Enoch Leiner (Lublino, 1903), che cercarono di provare l'antichità del libro perché era interamente basato sullo Zohar, e in pratica provarono che le due opere erano state composte dallo stesso autore. Vi sono inoltre alcuni motivi per ritenere che l'autore dello Zohar intendesse scrivere un Sefer Hanokh su1 giardino dell'Eden e su altri argomenti cabalistici, e una lunga descrizione tratta da esso è citata nel Mishkan ha-Edut di Moses de Leon. Data della composizione - I calcoli nel tempo della redenzione, che si trovano in varie sezioni dello Zohar, confermano le conclusioni relative all'epoca della sua composizione. Questi calcoli ci assicurano, in varie forme, e per mezzo di diverse interpretazioni e congetture, che la redenzione incomincerà nell'anno 1300, e spiegano le diverse fasi della redenzione che portano alla resurrezione. Vi sono variazioni nei dettagli delle date precise, a seconda del tipo di tema trattato. Secondo lo Zohar erano trascorsi 1.200 anni dalla distruzione del Tempio: un secolo per ognuna delle tribù d'Israele. Ora Israele si trovava nel periodo di transizione che precedeva l'inizio della redenzione. Secondo queste date (1:116-9, 139b, 2:9b; vedasi A.H. Silver, A History of Messianic Speculation in Israel (1927), 90-92) si deve presumere che la parte principale dello Zohar e il Midrash ha-Ne lam furono scritti tra il 1270 e il 1300. Calcoli simili si trovano anche nel Ra'aya Meheimna e nei Tikkunim. La data basilare è sempre il 1268. Dopo questa incominceranno "le sofferenze del Messia", e Mosè apparirà e rivelerà lo Zohar all'avvicinarsi della fine del tempo. Il periodo di transizione finirà nell'anno 1313, e allora avranno inizio le varie fasi della redenzione. Mosè, nella sua apparizione finale, non è il Messia ma il precursore del Messia: il figlio di Josef, e non il figlio di David. Sarà un uomo povero, ma ricco della Torah cabalistica. Il periodo di transizione è un periodo di affanni e di tormenti per il sacro gruppo del popolo d'Israele, rappresentato dai cabalisti, che s'impegneranno in un ardente conflitto con gli avversari e i detrattori. Lo stesso Zohar è un simbolo dell'arca di Noè, per il cui mezzo essi furono salvati dalla distruzione del diluvio. Dio si rivelò al primo Mosè tramite il fuoco della profezia; ma al Mosè dell'ultima generazione si rivelerà nelle fiamme della Torah, cioè tramite la rivelazione dei misteri della Cabala. Qualcosa di Mosè risplende su ogni saggio o giusto che in qualunque generazione si occupa della Torah, ma alla fine del tempo egli apparirà in forma concreta quale rivelatore dello Zohar. Allusioni di questo tipo esistono in ogni sezione dello strato più tardo. L'autore Secondo la chiara testimonianza di Isaac b. Samuel d'Acri, che raccolse le informazioni contraddittorie circa l'apparizione e la natura dello Zohar nei primi anni del secolo XIV, il libro fu pubblicato, parte per parte, e non tutto in una volta, dal cabalista spagnolo Moses b. Shem Tov de Leon, che morì nel 1305, dopo aver conosciuto Isaac d'Acri. Questo cabalista scrisse molti libri in ebraico che portano il suo nome, dal 1286 al 1293. Era in rapporti con numerosi cabalisti del suo tempo, inclusi Todros Abulafia e suo figlio Joseph di Toledo, uno dei capi della comunità giudaica castigliana, che sostenevano Moses de Leon. In base a quanto è stato già detto, lo Zohar con i suoi vari strati venne composto senza dubbio negli anni immediatamente precedenti alla sua pubblicazione, poiché è impossibile scoprire una sezione che sia stata scritta prima del 1270. In pratica, Moses de Leon fu considerato da alcuni colleghi di Isaac d'Acri come il vero autore dello Zohar. Quando fece indagini ad Avila, l'ultima città in cui visse Moses de Leon, Isaac apprese che un uomo molto ricco aveva proposto di far sposare il proprio figlio con la figlia della vedova di Moses, purché questa gli desse l'antico manoscritto originale dal quale, secondo lui, il defunto aveva copiato i testi che aveva pubblicato. Tuttavia, madre e figlia affermavano che quel manoscritto antico non esisteva, e che Moses de Leon aveva scritto l'intera opera di sua iniziativa. Fin da allora, vi sono sempre state opinioni contrastanti sul valore di questa importante testimonianza, e non è del tutto chiara neppure la posizione dello stesso Isaac d'Acri, il cui racconto conservato nel Sefer ha-Yuhasin di Abraham Zacuto, s'interrompe a metà egli infatti cita passi dello Zohar in alcuni punti dei suoi libri senza troppo insistere. Un'analisi dello Zohar non conferma la tesi che Moses de Leon rivedesse e integrasse testi e frammenti di opere antiche giuntegli dall'Oriente. La questione, perciò, è se lo stesso Moses de Leon fu l'autore il curatore e l'editore, o se un cabalista spagnolo a lui legato scrisse il libro e glielo diede da curare. Una decisione può essere presa solo in base a un confronto fra le parti dello Zohar e gli scritti ebraici di Moses de Leon, e sulla base di informazioni come le più antiche citazioni dello Zohar pervenute fino a noi. La ricerca al riguardo porta a conclusioni precise. Nelle opere tuttora esistenti di Moses de Leon, e così pure nelle più antiche citazioni dello Zohar da parte di cabalisti spagnoli tra il 1280 e il 1310 non vi sono citazioni dalla Ra'aya Meheimna e dai Tikkunim. Si può quindi supporre che questi ultimi non fossero né composti né pubblicati da Moses de Leon. Di particolare peso, a questo proposito, è il fatto che Moses de Leon scrisse una lunga opera sulle ragioni dei comandamenti: ma non vi è nessuna somiglianza tra il suo Sefer ha-Rimmon e la Ra'aya Meheimna. In completo contrasto con questo, c'è il fatto che tutti i suoi scritti sono straordinariamente ricchi di esposizioni, idee, usi linguistici e altre caratteristiche che si trovano nello Zohar, nello strato del Midrash ha-Ne'lam e nel corpo principale dello Zohar, inclusi quei particolari frammenti ricordati più sopra, che costituiscono la Pekuda all'inizio di alcune sezioni della Ra'aya Meheimna. Spesso lunghe sezioni come queste, qui scritte in ebraico, non contengono alcuna menzione del fatto che sono derivate da un'unica fonte, e spesso l'autore si vanta di aver creato idee che esistono comunque tutte nello Zohar. Brevi pezzi in mezzo a una sezione più lunga sono introdotti in vari modi, e mostrano il riferimento allo Zohar: "è spiegato nei Midrashim segreti"; "dicono nei segreti della Torah"; "le colonne del mondo hanno discusso i segreti delle loro parole"; "io ho visto cose profonde negli scritti degli antichi"; "io ho veduto nel Yerushalmi"; "io ho veduto nei segreti del profondo della sapienza", e così via. Citazioni come queste abbondano nei suoi scritti, e alcune sono già presentate nella versione aramaica dello Zohar. Vi sono inoltre alcuni passi che non figurano nello Zohar oggi esistente, perché quei testi particolari non sopravvissero, o perché alla fine non furono pubblicati. L'opinione di I. Tishby è che molti di essi furono introdotti solo per indicare ciò che l'autore intendeva scrivere, ma che in pratica non riuscì a trattare a lungo tali argomenti. Ma è più probabile che la maggior parte dello Zohar gli fosse accessibile quando scrisse i suoi libri in ebraico. Lo stile ebraico di Moses de Leon rivela in molti particolari le idiosincrasie dell'aramaico dello Zohar accennate più sopra: e troviamo soprattutto quegli errori che sono caratteristici dello Zohar e non si riscontrano nelle opere di altri scrittori. Egli adopera questo stile anche quando i suoi scritti non rispecchiano le esposizioni dello Zohar, ma esprimono le sue idee personali o aggiungono dimensioni nuove a idee contenute nello Zohar. Mostra un totale controllo del materiale dello Zohar e lo usa Con il fare di un uomo che si serve della sua proprietà spirituale. Lega esposizioni tratte da parti diverse dello Zohar, aggiungendovi combinazioni di temi e nuove esposizioni, in perfetta armonia con lo spirito zoharico, e indicando così che il suo pensiero è indentico a quello dello Zohar. In molti casi i suoi scritti costituiscono un'interpretazione dei passi difficili dello Zohar, che cabalisti più tardi non interpretarono letteralmente. Ogni volta che, nei suoi scritti, diverge liberamente dagli argomenti trattati nello Zohar, le variazioni non provano affatto che egli non comprendesse la sua "fonte". Talvolta menziona apertamente le vere fonti letterarie che nello Zohar sono nascoste. Il lungo passo del Libro di Enoch che è citato nel suo Mishkan ha-Edut è scritto interamente nel suo particolare stile ebraico. Certe caratteristiche che sono tipiche dello Zohar, e che lo distinguono dalle altre opere cabalistiche coeve, ricorrono nelle opere di Moses de Leon. In particolare vi sono l'uso esagerato di immagini mistiche, il simbolismo sessuale relativo alle relazioni tra le Sefirot e il sorprendente interesse dimostrato per la demonologia e la magia. Di conseguenza, non vi è ragione dl presumere che un autore ignoto scrivesse lo Zohar durante la vita di Moses de Leon e poi lo passasse a questi. Riconoscendo Moses de Leon come autore si risolvono i problemi sollevati da un'analisi dello Zohar e dalle sue opere in ebraico. Questi libri furono scritti soprattutto per preparare il terreno alla pubblicazione delle parti dello Zohar che procedevano di pari passo con quest'opera. In particolare il Mishkan ha-Edut (1293) è pieno di elogi per le fonti segrete su cui è basato. La soluzione della questione fondamentale dell'indentità dell'autore dello Zohar ne lascia aperte molte altre: ad esempio, l'ordine di composizione delle sezioni dello strato principale e la revisione finale dello Zohar prima che i suoi testi venissero diffusi, se pure questa revisione vi fu poiché l'evidenza sembra confermare entrambe le possibilità. La questione principale che richiede tuttora un chiarimento è la relazione tra Moses de Leon e Joseph Gikatilla, che in apparenza fu stretta e reciproca. Allo stesso modo dobbiamo ancora risolvere il problema dell'autore del Ra'aya Meheimna, il quale, a differenza di Moses de Leon, non lasciò altri libri che permettano di identificarlo. Non è chiaro se altri cabalisti fossero a conoscenza del piano di Moses de Leon e se l'aiutassero in qualche modo a realizzare il suo scopo. É chiaro invece che molti cabalisti, dopo l'apparizione del libro, si considerarono in diritto di scrivere opere nello stile dello Zohar e di imitarlo; una libertà che non si sarebbero presi invece con Midrashim di autenticità e antichità indiscutibili. Questo fatto dimostra che essi non presero sul serio lo Zohar come fonte antica, sebbene lo riconoscessero come una splendida espressione del loro mondo spirituale. Manoscritti ed edizioni Le circostanze in cui apparve lo Zohar non sono conosciute in dettaglio I primi testi che circolarono tra i cabalisti appartenevano al Midrash ha-Ne'lam, e le prime citazioni si trovano in due libri di Isaac b. Solomon Abi Sahula, il Meshal ha-Kadmoni (Venezia, c. 1546-50) e il suo commento al Cantico dei Cantici, che furono scritti nel~1281 e nel 1283 a Guadalajara, dove viveva a quel tempo Moses de Leon. É l'unico autore che conoscesse e citasse il Midrash ha-Ne'lam prima che lo stesso Moses de Leon cominciasse a scrivere le sue opere in ebraico. Anche Todroa Abulafia possedeva quei testi, e li citò nei suoi libri. Parti del corpo principale dello Zohar circolarono a partire dalla fine del decennio 1280-90. Un esame delle citazioni dello Zohar negli scritti coevi dimostra che: 1) gli autori ne possedevano solo parti isolate, quelle che avevano avuto la possibilità di procurarsi; 2) conoscevano alcune esposizioni o parti che non appaiono nello Zohar pervenuto a noi; 3) le utilizzavano senza considerarle un'autorità suprema della Cabala. Intorno al 1290 alcune parti dello Zohar sulla Torah erano note a Bahya b. Asher, che tradusse parola per parola diversi passi nel suo commento alla Torah, senza citare la fonte, e in generale attinse largamente allo Zohar. Tuttavia, per due volte si richiama a brevi passi sotto il nome di Midrash R. Simeon b. Yohai Altre sezioni, incluse le Idrot, erano in possesso di Gikatilla quando questi scrisse Sha'arei Orah, prima del 1293. Dal libro anonimo Ta'amei ha-Mizvot, che fu probabilmente scritto tra il 1290 e il 1300, appare che alcuni passi erano noti all'autore. A partire dal 1300 vi è un incremento del numero di citazioni riferite specificamente allo Zohar o al Midrash ha-Ne'lam, che talvolta venne usato come titolo dell'intera opera. I discepoli di Solomon b. Abraham Adret, che scrissero molte opere cabalistiche, citano solo raramente lo Zohar; ed è evidente che usarono una certa restrizione nell'attingervi. Anche Menahem in Italia possedeva qualche parte isolata, a quel tempo; se ne servì largamente, menzionando la fonte nel suo commento alla Torah e in Ta'amei ha-Mizvot. In quest'ultimo libro egli opera una distinzione tra lo Zohar Gadol, consistente soprattutto dell'Idra Rabba, e lo Zohar Mufla. L'origine di questa distinzione non è chiara. Recanati possedeva all'incirca solo una decima parte dello Zohar pervenuto fino a noi, ma aveva accesso a un'esposizione del mistero dei sacrifici che non esiste più. Tra gli autori che in quel periodo (1310-30) usarono abbondantemente lo Zohar vi furono Joseph Angelino, l'autore di Livnat ha-Sappir, e David b. Judah he-Hasid, che scrisse Mar'ot ha-Zové ot, Sefer ha-Gevul e Or Zaru'a. La posizione relativa alle prime citazioni trova corrispondenza nella nostra conoscenza dei più antichi manoscritti dello Zohar. Non circolavano manoscritti completi e ben ordinati, ed è dubbio che siano mai esistiti. I mistici che s'interessavano allo Zohar si preparavano raccolte con i testi che riuscivano a procurarsi; di qui le grandi differenze nel contenuto dei primi manoscritti. Un esempio d'una raccolta del genere è il manoscritto Add. 1023 di Cambridge, il più vecchio che si conosca. Contiene materiale che servì a completare un'altra antologia, oggi perduta, e include quelle parti dello Zohar che il compilatore riuscì a procurarsi. Il manoscritto risale all'ultimo terzo del XIV secolo e contiene una porzione completa, altrimenti sconosciuta del Midrash ha-Ne'lam che era nota anche a Isaac ibn Sahula (vedasi più sopra). Il manoscritto Vaticano 202, che è di poco precedente, contiene solo frammenti isolati dello Zohar. Nel secolo XV, già venivano compilati manoscritti che contenevano la maggior parte delle porzioni dello Zohar, ma talvolta omettevano intere sezioni, ad esempio le Idrot, la Sava, eccetera. Le differenze tra i manoscritti dello Zohar e le edizioni a stampa stanno soprattutto nel campo dell"ortografia (parole che sono quasi tutte scritte plene nei manoscritti e nelle prime citazioni) e nel numero relativamente elevato dei romanismi, che in seguito furono eliminati; nell'uso più ampio della preposizione bedil anziché begin; e nell'alterazione delle forme grammaticali del Targum e del Talmud babilonese. Vi sono molte differenze nel testo basico, ma sono relativamente poco importanti, e di solito le lezioni diverse di questo tipo vengono date tra parentesi nelle successive edizioni a stampa. Vi sono anche manoscritti del Sefer Tekkunim del XV secolo, come Il manoscritto di Parigi 778. La Ra'aya Meheimna esiste in manoscritti separati, ma piuttosto tardi. A partire dal 1400 l'autorità dello Zohar fu riconosciuta più ampiamente nei circoli cabalistici, e le critiche che si erano levate qua e là nel XIV secolo (ad esempio, Joseph ibn Waqar scrisse: "lo Zohar contiene molti errori da cui bisogna guardarsi per non lasciarsi fuorviare") si spensero. A quell'epoca la diffusione e l'influenza dello Zohar erano circoscritte soprattutto alla Spagna e all'Italia: e solo molto lentamente raggiunse le terre degli ashkenazi in Oriente. L'elevazione dello Zohar a una posizione di santità e di autorità suprema venne durante e dopo il periodo dell'espulsione dalla Spagna, e raggiunse il culmine nel XVI e nel XVII secolo. Lo Zohar fu stampato in mezzo ad una accanita controversia tra coloro che si opponevano alla pubblicazione, tra i quali figuravano alcuni importanti cabalisti, e i suoi fautori (si veda la Parte Prima del presente volume). Le prime due edizioni dello Zohar furono pubblicate da stampatori concorrenti in due città vicine, Mantova (1558-60) e Cremona (1559-60). Anche 7'ikkunei ha-Zohar fu pubblicato a Mantova nel 1558. I curatori delle due edizioni usarono manoscritti diversi: di qui le differenze nell'ordine e nelle lezioni specifiche. Immanuel di Benevento, che curò il testo di Mantova, usò dieci manoscritti dai quali ricavò la sua edizione, e scelse il testo che ritenne migliore. Tra i correttori di Cremona c'era Vittorio Eliano, il nipote apostata del grammatico Elija Levita (Bahur): essi usarono sei manoscritti. Lo Zohar mantovano fu stampato in tre volumi in scrittura Rashi, mentre lo Zohar cremonese era in un unico grosso volume, in scrittura quadrata. Entrambi contengono un gran numero d'errori di stampa. Entrambi includono il Ra'aya Meheimna, ma divergono nella collocazione delle diverse mizvot. Riferendosi alle dimensioni, i cabalisti chiamarono queste due edizioni Zohar Gadol ("Zohar grande") e Zohar Katan ("Zohar piccolo''). Lo Zohar Gadol fu ristampato altre due volte nella stessa forma, a Lublino nel 1623 e a Sulzbach nel 1684. I cabalisti polacchi e tedeschi, fin verso il 1715, usarono generalmente lo Zohar Gadol. Tutte le altre edizioni seguono il prototipo mantovano. Nel complesso, lo Zohar venne stampato più di 65 volte e Tikkunei ha-Zohar quasi 80. La maggior parte delle edizioni proviene dalla Polonia e dalla Russia, ma ve ne sono anche stampate a Costantinopoli, a Salonicco, Smirne, Livorno, Gerusalemme e Djerba. Nelle edizioni più tarde furono aggiunte le varianti delle lezioni del testo di Cremona e furono corretti molti errori di stampa. Inoltre furono aggiunte varianti e lezioni dal manoscritto dei cabalisti di Safed, indicazioni di fonti bibliche e introduzioni. Lo Zohar fu stampato due volte a Livorno con un testo vocalizzato (erroneamente). Le sezioni dei manoscritti di Safed che non si trovano nell'edizione mantovana furono, escluso il Midrash ha-Ne'lam su Ruth, stampate insieme in un volume a Salonicco nel 1596, che nelle edizioni successive venne chiamato Zohar Hadash. Le migliori sono quelle di Venezia, 1659, e di Munkacs, 1911. Tutte le sezioni dello Zohar furono incluse nell'edizione completa di Yehudah Ashlag, Gerusalemme, 1945-58, in 22 volumi, con una traduzione ebraica e le varianti testuali delle precedenti edizioni. Tikkunei ha-Zohar incominciò ad apparire nel 1960, e la pubblicazione non è stata ancora completata. Non esiste un'edizione critica basata sui primi manoscritti. Commenti L'importanza fondamentale dello Zohar nell'evoluzione della Cabala e nella vita della comunità ebraica si può vedere grazie all'immensa letteratura esegetica e al gran numero dei manuali. In maggioranza, questi commenti non sono stati stampati, in particolare quello di Moses Cordovero, Or haYakar, del quale sono apparsi sinora sette volumi (Gerusalemme, 196Z-73); una versione completa esiste nella biblioteca di Modena in 16 grossi volumi; e i commenti di Elijah Loans di Worms, Adderet Eliyahu, e Zafenat Pa'ne'ah, a Oxford in quattro grossi volumi di mano dell'autore. I primi commenti allo Zohar non sono pervenuti fino a noi. Sebbene Menahem Recanati menzioni il suo commento in Ta'amei ha-Mizvot, la maggior parte dei commenti è basata sulla Cabala lurianica e non ci aiuta molto a comprendere lo stesso Zohar, ad esempio Zohar Hai di Isaac Eizik Safrin di Komarno, che fu stampato nel 1875-81 in cinque volumi, e Dammesek Eliezer di suo figlio Jacob Moses Safrin, che fu stampato in sette volumi nel 1902-28 Il commento più importante per una maggiore comprensione letterale dello Zohar è Ketem Paz di Simeon Labi di Tripoli (scritto intorno al 1570), del quale è stata stampata solo la sezione sulla Genesi (Livorno, 1795); ma anch'esso molto spesso diverge dal significato letterale e offre interpretazioni fantasiose. Al secondo posto, in ordine d'importanza, figura Or ha-Hammah, una compilazione di Abraham b. Mordecai Azulai, che include un compendio del commento di Cordovero, il commento di Hayyim Vital scritto complessivamente prima che studiasse con Luria, e Yare'ah Yakar, un commento di Abraham Galante, uno dei discepoli di Cordovero. Azulai ordinò questi commenti in corrispondenza con ogni pagina del testo dello Zohar originale. L'intera opera fu stampata con il titolo Or ha-Hammah in quattro volumi a Przemysl nel 1896-98, e rispecchia la scuola di Cordovero. Un commento molto noto, per metà letterale e per metà lurianico, è Mikdash Melekh di Shalom Buzaglo, un rabbino marocchino del XVIII secolo; fu stampato in cinque volumi ad Amsterdam nel 1760, e in seguito fu ristampato diverse volte. Fu pubblicato insieme allo Zohar a Livorno nel 1858. Il commento, Ha-Sullam, nell'edizione dello Zohar curata da Yehudah Ashlag, è in parte una traduzione e in parte un'esposizione. Questi commenti non considerano lo Zohar in confronto al materiale precedente della letteratura rabbinica o ad altre opere cabalistiche. I commenti del Gaon Elijah di Vilna sono importanti: Yahel Or e il commento al Sifra de-Zeni uta, caratterizzato dalla metodologia comparativa. Entrambi furono stampati insieme a Vilna nel 1882. Tra i molti commenti a Tikkur7vei Zohar, vanno ricordati Kisse Melekh di Shalom Buzaglo e Be'er la-Hai Ro'i di Zevi Shapira (stampato a Munkacs, 1903-21), tre dei cui volumi coprono solo, all'incirca, metà del libro. Tra gli ausili allo studio dello Zohar i più utili sono Yesh Sakhar, una raccolta delle leggi nello Zohar, di Issachar Baer di Kremnitz (Praga, 1609) Sha'arei Zohar, una chiarificazione delle affermazioni zohariche tramite la loro relazione con Talmud e Midrash, esposte nell'ordine dei trattati e dei Midrashim, di Reuben Margulies (Gerusalemme, 1956); una raccolta di affermazioni zohariche sui Salmi, di Moses Gelernter (Varsavia, 1926), e Midrashei ha-Zohar Leket Shemu'el di S. Kipnis, in tre volumi (Gerusalemme, 1957-60), una raccolta di affermazioni zohariche sulla Bibbia, con spiegazioni. Gli indici dei temi dello Zohar si trovano in Maftehot ha-Zohar ordinati da Israel Berekhiah Fontanella (Venezia, 1744) e in Yalkut haZohar di Isaiah Menahem Mendel (Priotrikov, 1912). Traduzioni Il problema di tradurre lo Zohar in ebraico era già sorto tra i cabalisti del XIV secolo. David b. Judah he-Hasid tradusse in ebraico quasi tutte le citazioni tratte dallo Zohar e riportate nei suoi libri. Secondo Abraham Azulai, Isaac Luria aveva "un libro dello Zohar tradotto nella lingua sacra da Israel al-Nakawa", l'autore di Menorat ha-Ma'or, in cui tutte le citazioni dallo Zohar, sotto il nome di Midrash Yehi Or, sono in ebraico. Nei manoscritti vaticani dello Zohar (n. 62 e 186), parecchie sezioni sono state tradotte in ebraico nel XIV o nel XV secolo. Secondo Joseph Sambari, Judah Mas'ud tradusse lo Zohar in ebraico nel XVI secolo. Una traduzione dello Zohar, edizione cremonese, datata 1602, esiste nel manoscritto di Oxford 1561, ma i passi più esoterici sono omessi; il traduttore fu Barkiel Cafman Ashkenazi. La parte sulla Genesi di questo lavoro fu stampata da Oyadiah Hadavh (Gerusalemme, 1946). Nel secoloXVII Samuel Romnerdi Lublino tradusse una vasta parte dello Zohar con il titolo Devarim Attikim (Dembitzer, Kelilat Yofi, 2 (1960), 25a); la traduzione esiste tuttora nel manoscritto di Oxford 1563, con autorizzazioni rabbiniche datate 1747, il che dimostra che c'era l'intenzione di farla stampare. Secondo Eliakim Milsahagi di Brody, intorno al 1830, in Zohorei Ravyah (manoscritto di Gerusalemme), egli tradusse in ebraico l'intero Zohar, e a giudicare dal suo stile eccellente dovette trattarsi della più bella traduzione mai realizzata; oggi tuttavia è andata perduta insieme a gran parte dei suoi studi separati sullo Zohar. Nel XX secolo ampie sezioni sulla Torah furono tradotte da Judah Rosenberg in Zohar Torah in cinque volumi; e così pure dello Zohar sui Salmi e le Megillot in due volumi (New York,1924-25; Bilgoraj,1929-30). Questa traduzione è priva di qualità letterarie. Lo scrittore ebreo Hillel Zeitlin incominciò a tradurre lo Zohar, ma poi non continuò. La prefazione allo Zohar, nella sua versione, fu stampata in Metsudah (Londra, 1 (1943), 36-82). Una traduzione completa ed estremamente letterale (ma non priva di numerosi equivoci testuali) è contenuta nell'edizione dello Zohar curata da Yehudah Ashlag. Molti pezzi scelti furono tradotti in stile meticoloso ed eccellente da F. Lachover e I. Tishby, in Mishnat ha-Zohar (2 vol. 1957-61). Prima ancora che lo Zohar venisse stampato, il mistico francese G. Postel aveva preparato una traduzione latina della Genesi e del Midrash su Ruth, che ci è pervenuta in forma manoscritta, al British Museum e a Monaco. La prefazione fu pubblicata da F. Secret. Il mistico cristiano Chr. Knorr von Rosenroth fece anch'egli una traduzione latina di varie parti importanti, soprattutto le Idrot e - il Sifra de-Zeni'uta, nella sua voluminosa opera Kabbala denudata (Sulzbach, 1677; Francoforte, 1684), e moltissime delle citazioni tratte dallo Zohar o dalle traduzioni di tali brani che apparvero in altre lingue europee furono prese da qui, insieme a tutti gli errori del primo traduttore, per esempio nelle opere di S.L. Mathers, The Kabbalah Unveiled (1887); Paul Vulliaud, Traduction intégrale du Siphra de-Tzeniutha (1930). Una traduzione francese dei tre volumi delle edizioni standard dello Zohar fu preparata da Jean de Pauly (il nome assunto da un ebreo battezzato della Galizia); ma è piena di distorsioni e di alterazioni ed è accompagnata da un gran numero di false citazioni testuali, che spesso rimandano a libri che non le contengono affatto o a libri mai esistiti. La traduzione fu corretta da un erudito ebreo che conosceva il Talmud e il Midrash; ma non eliminò gli errori nel campo della Cabala, che egli non comprendeva. La traduzione, Sepher ha Zohar (Le Livre de la Splendeur) Doctrine ésotérique de Israélites traduit... par Jean de Pauly, fu stampata magnificamente in sei volumi a Parigi (190611). Una traduzione inglese della parte principale dello Zohar, con l'omissione delle sezioni che ai traduttori apparivano opere separate o aggiunte, fu The Zohar, curato da Harry Sperling e Maurice Simon, pubblicato in cinque volumi a Londra (1931-34). La traduzione è in buono stile, ma risente della comprensione incompleta o errata di molte parti dell'esposizione cabalistica. Un'antologia tedesca di molte citazioni caratteristiche dello Zohar fu curata da Ernst Mueller, ovviamente influenzato dagli insegnamenti di Rudolph Steiner (Der Sohar, das heilige Buch der Kabbala, 1932). Ricerche critiche Le ricerche erudite sullo Zohar non ebbero inizio con i cabalisti, che pure erano profondamente interessati ai suoi insegnamenti: essi accettavano acriticamente il romantico sfondo letterario del libro come se fosse una verità storica. Gli avversari ebrei della Cabala espressero dubbi circa la veracità di questo sfondo già dalla fine del XV secolo, ma non effettuarono indagini approfondite. L'interesse dei cristiani per lo Zohar, all'inizio, non fu erudito bensì teologico. Molti ritenevano che vi avrebbero trovato conferme per varie concezioni cristiane, e realizzarono una "Cabala cristiana"; moltissimi scritti, fino alla metà del XVIII secolo, rispecchiano questo spirito. A questi tentativi non è possibile attribuire un valore critico. La prima opera critica fu Ari Nohem di Leone Modena (1639), che poneva in discussione l'autenticità e l'antichità dello Zohar dal punto di vista del linguaggio e di altri aspetti; tuttavia egli non intraprese uno studio dettagliato. Il libro fu stampato nel 1840 (Lipsia), ma la sua diffusione in manoscritto destò la collera dei cabalisti, che vedevano in ogni tentativo critico un attacco al sacro e che reagirono a questo e ad altri libri successivi dello stesso tipo con un numero considerevole di opere in difesa dello Zohar, ma tutte di scarso valore storico. La critica di Leone Modena fu stimolata anche da una polemica contro certe affermazioni della Cabala cristiana, mentre quella di Jacob Emden era connessa alla lotta contro gli shabbatei, i quali si spinsero molto lontano nell'eresia nelle loro interpretazioni dello Zohar. In Mitpahat Sefarim (Altona, 1768), Emden concludeva, in base a un gran numero di errori specifici contenuti nello Zohar, che molte sezioni, e in particolare il Midrash ha-Ne'lam, erano tarde, sebbene ritenesse comunque che il corpo principale del libro avesse fondamenta antiche. I maskilim lo seguirono, soprattutto Samuel David Luzzatto nel suo Vikku 'ah al Hokhmat ha-Kabbalah ve-al Kadmut Sefer ha-Zohar ("Un argomento relativo la sapienza della Cabala e l'antichità dello Zohar" (1827), stampato a Gorizia, 1852). Il libro di Emden e quello di Luzzatto provocarono diverse risposte che cercavano di risolvere le questioni in essi sollevate, in particolare Ben Yohai di Moses Kunitz (Vienna, 1815) e Ta'am le-Shad di Elia Benamozegh (Livorno, 1863). Le indagini profonde compiute da Eliakim Milsahagi in diversi libri dedicati allo Zohar avrebbero favorito assai di storica se fossero stati stampati e se non fossero rimasti manoscritti. Eliakim Milsahagi era di gran lunga superiore a molti degli scrittori venuti dopo di lui. Di lui rimangono solo poche pagine nel Sefer Ravyah (Ofen, 1837) e la sua introduzione Zohorei Ravyah (manoscritto nella Biblioteca Nazionale, Gerusalemme). I grandi studiosi ottocenteschi del Giudaismo, Zunz, Steinschneider e Graetz si spinsero più oltre di Jacob Emden e videro lo Zohar come un prodotto del XIII secolo. M.H. Landauer tentò di provare che lo Zohar era stato scritto da Abraham Abulafia, e A. Jellinek rivolse nuovamente l'attenzione a Moses de Leon. A. Frank e D:H. Joel discussero se l'insegnamento dello Zohar fosse di origine ebraica o straniera, e un'eco di questo tipo di controversia si ripercosse in quasi tutta la letteratura dei maskilim, le cui conclusioni generali erano basate su una scrupolosa attenzione per i dettagli ed erano inficiate dalla debolezza di molte argomentazioni. Data la mancanza di una precisa indagine critica, gli studiosi decisero di risolvere il problema dello Zohar secondo le loro concezioni soggettive, e la convinzione più diffusa fu che lo Zohar fosse la creazione di molte generazioni, ordinata e revisionata solo nel XIII secolo. Vi erano anche quelli che ammettevano che Moses de Leon avesse avuto una parte più o meno rilevante nella revisione e nel riordinamento. I risultati dei numerosi studi di G. Scholem e di I. Tishby, basati su ricerche dettagliate, non suffragano queste teorie, e portano alle conclusioni riassunte più sopra. Non vi è dubbio che la ricerca critica sullo Zohar è appena incominciata e si svilupperà in concomitanza con la ricerca sulla storia della Cabala del XIII secolo in generale. Nella bibliografia sono elencate opere che rispecchiano vari punti di vista. 2 SHABBETAI ZEVI E IL MOVIMENTO SHABBATEO I precedenti del movimento Lo shabhateanismo fu il più vasto e importante movimento messianico della storia ebraica dopo la distruzione del Tempio e la rivolta di Bar Kokhba. I fattori che diedero origine alla sua straordinaria diffusione e al suo fascino profondo sono due. Da una parte c'erano le condizioni generali del popolo ebraico in esilio, e le speranze di una redenzione politica e spirituale nutrite dalla tradizione religiosa ed esaltate nel pensiero ebraico, che in ogni epoca costituì un terreno fecondo per la fioritura di movimenti messianici miranti a introdurre la rendenzione. D'altra parte, vi erano le condizioni specifiche che contribuirono allo slancio del movimento, iniziato nel 1665. Politicamente e socialmente, la posizione degli ebrei nei vari paesi della Diaspora era ancora in sostanza la stessa; con pochissime eccezioni, essi continuavano il loro modo di vita specifico, separato dalle società cristiane e musulmane in cui vivevano, affrontando persecuzioni e umiliazioni ad ogni nuova svolta politica, nella costante coscienza della loro insicurezza. La grande ondata di persecuzioni antiebraiche in Polonia e in Russia, che ebbe inizio con i massacri di Chmielnicki nel 1648, colpì profondamente gli ebrei ashkenazi ed ebbe vaste ripercussioni, soprattutto a causa del grande numero di prigionieri in molti paesi, il cui riscatto portò a vivaci agitazioni. Poco dopo questo disastro venne la guerra russo-svedese (1655), che investì le aree dove erano insediati gli ebrei polacchi non travolti dagli attacchi di Chmielnicki. Per quanto questi fattori fossero indubbiamente importanti per la nascita di speranze messianiche tra gli ebrei polacchi, non sono sufficienti per spiegare quanto accadde, e sicuramente le condizioni locali predominanti in varie parti della Diaspora contribuirono in misura notevole. Tuttavia il clima politico e gli eventi sociali sono soltanto una parte della storia. Il fattore centrale e unificante alla base del movimento shabbateo ebbe natura religiosa, connessa alla profonda metamorfosi causata nel mondo religioso del Giudaismo dal rinnovamento spirituale incentrato a Safed nel XVI secolo. Il suo elemento decisivo fu l'assurgere della Cabala a una posizione dominante nella vita ebraica, particolarmente in quei circoli sensibili a nuovi impulsi religiosi che formavano il settore più attivo delle comunità ebraiche. La nuova Cabala che si irradiava da Safed, soprattutto nelle forme lurianiche, sposava concetti sorprendenti alle idee messianiche. Si potrebbe dire che il messianesimo pervase il misticismo, introducendo così un nuovo elemento di tensione nella vecchia Cabala, che aveva un carattere assai più contemplativo. La Cabala lurianica proclamava un intimo legame tra l'attività religiosa dell'ebreo che mette in atto i comandamenti della legge, le meditazioni per la preghiera e il messaggio messianico. L'essere è in esilio dall'inizio della creazione, e il compito di riportare ogni cosa al suo posto è stato assegnato al popolo ebraico, il cui fato storico simboleggia lo stato dell'universo in generale. Le scintille della Divinità sono disperse dovunque, come le scintille dell'anima originale di Adamo; ma sono tenute prigioniere dalla kelippah, la forza del male, e devono essere redente. Questa redenzione finale, tuttavia, non può essere realizzata mediante un unico atto messianico, ma si compirà tramite una lunga catena di attività che preparano la via. Ciò che i cabalisti chiamavano "restaurazione" (tikkun) comportava sia il processo mediante il quale gli elementi infranti del mondo sarebbero stati riportati all'armonia - che è il compito essenziale del popolo ebraico, sia il risultato finale, lo stato di redenzione annunciato dall'apparizione del Messia, che segna l'ultima fase. La liberazione politica e tutto ciò che il mito nazionale collegava ad essa, erano visti come simboli esterni di un processo cosmico che ha luogo nei recessi segreti dell'universo. Non era previsto alcun conflitto tra il contenuto nazionale e politico tradizionale dell'idea messianica e la nuova nota mistica e spirituale che questa acquisiva nella Cabala lurianica. Coloro che erano sensibili alla teologia cabalistica del Giudaismo - ed erano numerosi - concentravano la loro attività sul fine di affrettare l'arrivo del "mondo del tikku" mediante una vita ascetica che, sebbene in stretta armonia con i dettami della legge, era permeata di un messianismo virtuale. Questo messianismo, tuttavia, non era una speranza astratta per un futuro lontano; ciò che fece del lurianismo un fattore dinamico nella storia ebraica fu la proclamazione che quasi tutto il processo di restaurazione era stato completato e che la redenzione finale era imminente. Restavano da superare solo le ultime fasi, e poi sarebbe venuta la redenzione. Via via che acquisivano un maggiore ascendente e pervenivamo a dominare la vita religiosa, le idee come queste diventavano un catalizzatole comune per uno slancio acuto di fervore messianico. In pratica, la Cabala lurianica divenne un fattore dominante solo intorno al 1630-40 e l'ideologia del movimento shabbateo è strettamente connessa a questi sviluppi. Il fatto che il movimento esercitasse un'influenza travolgente su centri della Diaspora molto diversi, come Yemen e Persia, Turchia e Africa settentrionale Balcani, Italia e comunità ashkenazi, può essere spiegato solo dal fatto che l'intensa propaganda del lurianismo aveva creato un clima favorevole allo scatenarsi delle energie messianiche destate dalla vittoria della nuova Cabala. Fu per questa ragione che luoghi come Amsterdan, Livorno e Salonicco, dove gli ebrei vivevano relativamente liberi da ogni forma di oppressione, divennero egualmente crogioli del movimento e centri di attività shabbatea. Primi anni e personalità di Shabbetai Zevi La figura dell'uomo che fu il centro del movimento è inaspettata e sorprendente. Oggi la sua biografia è una delle meglio documentate tra quelle di tutti gli ebrei che ebbero un ruolo importante nella storia del loro popolo. Shabbetai Zevi nacque a Smirne (Ismir) il nove di Av del 1626 (a meno che la data sia stata alterata per conformarla alla tradizione secondo la quale il Messia sarebbe nato nell'anniversario della distruzione del Tempio). Suo padre, Mordecai Zevi, veniva dal Peloponneso (Patrasso?), probabilmente da una famiglia d'origine ashkenazi; da giovane si stabilì a Smirne, dove all'inizio fu un modesto mercante di pollame, e più tardi divenne agente di commercianti olandesi e inglesi. Il grande sviluppo economico di Smirne in quegli anni lo arricchì, e i fratelli di Shabbetai Zevi, Elijah e Joseph, furono effettivamente ricchi mercanti. Le sue doti furono riconosciute molto presto, e perciò egli venne destinato dalla famiglia a diventare un hakham, un membro dell'élite rabbinica. Studiò con Isaac de Alba, e più tardi con il più illustre rabbino di Smirne a quel tempo, Joseph Escapa; sembra che venisse ordinato hakham a circa 18 anni. Aveva una eccellente preparazione talmudica, e neppure i suoi detrattori più accaniti lo accusarono mai di essere ignorante. Secondo una fonte, a 15 anni lasciò la yeshivah, incominciando una vita di solitudine e di astinenza e studiando senza l'aiuto di insegnanti. Emotivamente era molto attaccato alla madre e fin da giovanissimo ebbe un'intensa vita interiore. Avviatosi sulla via dell'ascetismo, fu assediato da tentazioni sessuali, di cui ci sono giunte notizie. Durante l'adolescenza intraprese lo studio della Cabala, concentrandosi soprattutto sullo Zohar, il Sefer ha-Kanah e il Sefer ha-Peli'ah. Acquisì una considerevole conoscenza cabalistica e attrasse intorno a sé altri coetanei che studiavano con lui. Tra il 1642 e il 1648 visse in semi-isolamento. In questo periodo incominciò a mostrare un carattere che corrisponde in larga misura a quello che i manuali psichiatrici descrivono come un caso estremo di ciclotimia o di psicosi maniaco-depressiva. Fasi di profonda depressione e di malinconia si alternavano ad altre d'esaltazione maniaca e di euforia, inframmezzate da intervalli di normalità. Questi stati, abbondantemente documentati in tutta la sua vita, persistettero fino alla fine. In seguito furono descritti dai suoi seguaci in termini non psicopatologici bensì teologici, come "illuminazione" e "caduta" o "occultamento della faccia" (lo stato in cui Dio gli nasconde il proprio volto). Lo squilibrio mentale portò in primo piano un tratto essenziale del suo carattere: durante i periodi d'illuminazione, egli si sentiva spinto a commettere atti contrari alla legge religiosa, chiamati più tardi ma aslm zarim ("azioni strane o paradossali"). Il contenuto di tali azioni cambiava di volta in volta, ma erano tutte pervase da una predilezione per i rituali strani e bizzarri e per le innovazioni improvvise. Vi era una costante in questi stati di esaltazione: l'inclinazione a pronunciare il Nome Ineffabile di Dio, il Tetragrammaton proibito dalla legge rabbinica. Nei periodi di malinconia, che avevano durata irregolare, si ritirava da ogni contatto umano e, nella solitudine, lottava con le potenze demoniache da cui si sentiva attaccato e in parte sopraffatto. Non si conosce quando ebbe inizio la malattia, ma al più tardi questo avvenne nel 1648, quando giunse a Smirne la notizia dei massacri di Chmielnicki. Cominciando a proferire in pubblico il Nome di Dio, forse si proclamò Messia per la prima volta. Dato che i suoi disturbi mentali erano noti, nessuno lo prese sul serio, e il suo comportamento causò soltanto uno scalpore passeggero. Sembra che le sue stravaganze suscitassero pietà più che antagonismo. Tra il 1646 e il 1650 contrasse a Smirne due matrimoni che non furono consumati e si conclusero con due divorzi. Nella sua città natale era considerato un po' un pazzo e un po' uno sciocco; ma poiché aveva un aspetto gradevole, doti musicali e una voce particolarmente bella, si fece numerosi amici, anche se questi non aderirono alle sue speculazioni cabalistiche. In generale si ammette che esercitasse un forte magnetismo personale. In quegli anni incominciò a parlare di un particolare "mistero della Divinità" che gli era stato rivelato mediante le sue lotte spirituali. Parlava spesso del "I)io della sua fede", con il quale sentiva un legame particolarmente intimo. Non è chiaro se intendesse riferirsi solo alla Sefirah Tiferet (vedasi Cabala), che egli vedeva come la manifestazione essenziale di Dio, oppure una potenza superna che si rivestiva nella Sefirah. Comunque, nel suo linguaggio il termine Elohei Yisrael ("il Dio d'Israele") assunse uno speciale significato mistico. La pulsione a violare la legge, negli stati illuminati che talvolta erano accompagnati da immaginarie esperienze di levitazione, e il fatto che più volte sostenesse di essere il Messia, alla fine indussero i rabbini, incluso il suo maestro Joseph Escapa, a intervenire: intorno al 1651-54 lo bandirono da Smirne. Per diversi anni Shabbetai Zevi vagò per la Grecia e la Tracia, sostando a lungo a Salonicco, dove si fece molti amici. Ma anche il suo soggiorno si concluse disastrosamente quando, in uno dei suoi stati esaltati, celebrò un servizio nuziale cerimoniale sotto il baldacchino con la Torah, e commise altri atti che furono considerati intollerabili. Espulso dai rabbini, nel 1658 si recò a Costantinopoli, dove trascorse nove mesi. Là fece amicizia con il fenomeno cabalista David Habillo (m. 1661), emissario della comunità di Gerusalemme. Durante questo periodo fece un primo tentativo di liberarsi dalle ossessioni demoniache per mezzo della Cabala pratica. D'altra parte, durante uno dei suoi periodi estatici, non soltanto celebrò in una sola settimana le tre feste di Pasqua, Shavuot e Sukkot, un comportamento destinato inevitabilmente a suscitare ostilità, ma arrivò a proclamare l'abolizione dei comandamenti e a pronunciare una benedizione blasfema a "Colui che permette il proibito". Espulso ancora una volta, ritornò a Smirne, dove rimase fino al 1662, mettendosi poco in vista e attraversando un lungo periodo di profonda malinconia. Nel 1662 decise di stabilirsi a Gerusalemme e vi si recò passando da Rodi e dal Cairo, dove stabilì molti contatti. In tutto questo periodo non vi è traccia di agitazioni messianiche intorno a lui, e il suo comportamento cordiale e dignitoso durante le fasi di normalità e la sua erudizione rabbinica e cabalistica ne fecero un personaggio rispettato. Alla fine del 1662 arrivò a Gerusalemme, dove rimase per circa un anno, visitando i luoghi sacri e le tombe dei santi. I suoi genitori morirono più o meno a quel tempo (la madre, forse, anche prima). Sembra che si facesse un gran parlare del suo strano carattere e delle sue crisi di comportamento scandaloso, che però erano controbilanciati da un tenore di vita ascetico. In un'improvvisa situazione d'emergenza, nell'autunno 1663, fu inviato in Egitto come emissario per conto di Gerusalemme, e svolse la missione con discreto successo. Rimase al Cairo fino alla primavera del 1665, e si legò al circolo di Raphael Joseph Chelebi, il capo della comunità ebraica egiziana, che aveva una viva simpatia per le tendenze ascetiche e cabalistiche. Di tanto in tanto le fantasie messianiche di Shabbetai Zevi riapparivano, ed è probabile che in una di queste illuminazioni decidesse di sposare Sarah, una ragazza ashkenazi di dubbia reputazione che era arrivata sola dall'Italia o che venne chiamata per iniziativa di Shabbetai Zevi, quando egli ne sentì parlare da visitatori italiani. Sarah era rimasta orfana durante i massacri del 1648 in Podolia e raccontava storie bizzarre su se stessa e su un nobile polacco che l'aveva allevata. Dopo alcuni anni trascorsi ad Amsterdam si era trasferita in Italia, dove prestava servizio presso famiglie e istituzioni ebraiche a Mantova. Le voci che la presentavano come una donna di facili costumi la precedettero, e continuarono anche più tardi, nella cerchia intima degli ammiratori di habbetai Zevi. Forse influenzato dall'esempio del profeto Osea che aveva sposato una prostituta, habbetai Zevi sposò Sarah al Cairo il 31 marzo 1664. Nell'inverno 1664-6fi, però, turbato dalle violazioni della legge che continuava a commettere, egli cercò di esorcizzare i suoi demoni; perciò (secondo la sua testimonianza, riportata da fonte attendibile) chiese a Dio di liberarlo dagli stati anormali ed entrò nel periodo di stabilità. L'inizio del movimento shabbateo Le peripezie della vita di Shabbetai Zevi incominciarono con la notizia che a Gaza era apparso un uomo di Dio, che rivelava a ciascuno la radice segreta della sua anima ed era in grado di dare a ogni persona la formula particolare per il tikkun necessario alla sua anima. Quando si diffuse la storia dei poteri di Nathan di Gaza (vedasi p. 437), Shabbetai Zevi "abbandonò la sua missione e si recò a Gaza, per trovare un likkun e la pace per la sua anima", come dice il primo documento giunto fino a noi sull'inizio del movimento. Verso la metà d'aprile del 1665 arrivò a Gaza, per visitare quel medico dell'anima; nel frattempo questi aveva avuto (nel febbraio 1665) una visione statica di Shabbetai Zevi quale Messia, ispirata senza dubbio dalle storie sul suo conto che aveva udito a Gerusalemme, dove Nathan aveva studiato nel 1663 con Jacob Hagiz. Queste storie e la figura dell'uomo che il ventenne Nathan aveva spesso visto nel quartiere ebraico di Gerusalemme si erano impresse nella sua mente e si erano cristallizzate nella nuova visione quando aveva intrapreso lo studio della Cabala a Gaza. Invece di guarire Shabbetai Zevi dei suoi disturbi, Nathan cercò di convincerlo che era il vero Messia. Shabbetai Zevi all'inizio rifiutò di dargli ascolto, ma lo accompagnò in un pellegrinaggio in alcuni luoghi sacri di Gerusalemme e di Hebron; e durante il pellegrinaggio discussero le loro visioni. Nathan, un giovane e noto rabbino, fu il primo a riconoscere indipendentemente i sogni messianici di Shabbetai Zevi e a spiegare il rango e la natura dell'anima del Messia nello schema cabalistico della creazione. I due tornarono a Gaza all'inizio di Sivan (metà maggio). Secondo una versione, stavano celebrando la notte di Shavuot in casa di Nathan insieme a un gruppo di rabbini, quando Nathan cadde in trance e annunciò ai presenti l'alto rango di Shabbetai Zevi; secondo un'altra versione, questo avvenne in assenza di Shabbetai, che aveva avuto uno dei suoi attacchi di malinconia e non era presente. Più o meno in quel tempo, Nathan produsse un testo apocrifo, attribuito a un certo Abraham he-Hasid, contemporaneo del famoso Judah he-Hasid, che profetizzava l'apparizione di Shabbetai Zevi e prediceva la prima parte della sua vita in termini apocalittici, proclamandolo redentore di Israele. Quando, alcuni giorni dopo Shavuot, Shabbetai Zevi entrò in un altro periodo d'illuminazione, aveva assorbito tutti questi nuovi eventi e, ormai sicuro di sé e dei doni profetici di Nathan, ritornò con rinnovata energia alle precedenti pretese messianiche. Il 17 Sivan (31 maggio 1665), a Gaza, si autoproclamò Messia e trascinò con sé l'intera comunità, incluso il rabbino Jacoh Najara, nipote del celebre poeta Israel Najara. Seguirono alcune settimane d'esaltazione frenetica. Shabbetai Zevi, che girava a cavallo seguito da un corteo regale, chiamò un gruppo di seguaci, li nominò suoi apostoli o rappresentanti delle Dodici Tribù d'Israele. L'annuncio messianico si diffuse con la rapidità di un incendio tra le altre comunità della Palestina, ma incontrò una forte opposizione da parte di alcuni illustri rabbini di Gerusalemme, inclusi Abraham Amigo, Jacob Hagiz (il maestro di Nathan), Samuel Garmison (Garmizan) e Jacob Zemah, il famoso cabalista che si pronunciò apertamente contro Shabbetai Zevi. Dopo essere stato denunciato al qadi di Gerusalemme, questi si recò nella città con una scorta imponente e riuscì a tranquillizzare il qadi. Ciò che avvenne esattamente a Gerusalemme nel giugno 1665 non è chiaro. Shabbetai Zevi, abbigliato come un re, girò a cavallo intorno alla città per sette volte, conquistando alcuni rabbini come Samuel Primo, Mattathias Bloch, Israel Benjamin e Moses Galante (l'adesione di Galante in seguito fu tenuta nascosta). Il suo conflitto con la maggioranza dei rabbini giunse al punto cruciale, ed essi lo bandirono dalla città; ma dopo aver informato dell'accaduto i rabbini di Costantinopoli, non presero altre misure nei confronti della propaganda messianica, astenendosi dal rispondere alle numerose lettere loro inviate sugli avvenimenti e mantenendo un silenzio enigmatico per l'intero anno che seguì. Nathan, d'altra parte, che ormai era il profeta e l'alfiere di Shabbetai Zevi, era attivissimo, e lo erano anche i suoi seguaci. Proclamò la necessità di un movimento penitenziale di massa per facilitare la transizione verso la redenzione imminente, un passo che doveva conquistare molti cuori e difficilmente poteva incontrare opposizioni da parte delle autorità rabbiniche. Dai paesi circostanti molti accorrevano per ricevere da lui le penitenze o gli scrivevano chiedendo di rivelare loro la radice della loro anima e di insegnare come "restaurarla". Digiuni esagerati e altre pratiche ascetiche divennero comuni; ma Nathan proclamò l'abolizione del digiuno il 17 di Tammuz, che venne invece celebrato a Gaza e Hebron come un giorno di gioia. Partirono lettere, inizialmente per l'Egitto e il circolo di Raphael Joseph, per annunciare le azioni prodigiose del profeta e del Messia. Una delle nuove, sorprendenti caratteristiche di queste lettere era l'annuncio che né il profeta né il Messia erano obbligati a dare prova della loro missione operando miracoli e che Israele doveva credere nella missione di Shabbetai Zevi senza prove esterne. La storia del movimento di massa che seguì è caratterizzata dalla contraddizione intrinseca fra questa imposizione della pura fede quale valore di redenzione e la travolgente ondata di leggende e di presunti miracoli che investì la Diaspora. Le prime notizie che giunsero in Europa, abbastanza stranamente, non parlavano di Shabbetai Zevi, ma della ricomparsa delle Dieci Tribù perdute d'Israele, che a quanto si diceva stavano marciando agli ordini di un uomo di Dio sul conto del quale si narravano ogni sorta di miracoli. Secondo alcune versioni, stavano conquistando la Mecca, secondo altre si radunavano nel Sahara, e secondo altre ancora stavano occupando la Persia. Queste voci, provenienti dal Marocco, giunsero in Olanda, Inghilterra e Germania nell'estate del 1665 senza fornire alcuna indicazione di ciò che era accaduto effettivamente a Gaza, senza nominare Shabbetai Zevi e senza accennare all'apparizione di un Messia. Per contro, vi era una grandissima agitazione nelle comunità ebraiche orientali, che avevano comunicazioni più dirette con la Palestina. Nel settembre 1665, fortificato da una nuova rivelazione, Nathan inviò una lunga lettera a Raphael Joseph, annunciando nella prima parte i cambiamenti avvenuti nei mondi occulti con il giungere della redenzione e spiegando ciò che tali cambiamenti comportavano nella pratica delle devozioni cabalistiche. Le Kavuanot ( meditazioni") di Isaac Luria (vedasi p. 422) non erano più valide perché la struttura interna dell'universo era mutata e non restavano più sacre scintille sotto la dominazione delle potenze del male, le kelippot. Era giunto il tempo della redenzione, e anche se alcuni potevano opporsi, non sarebbero riusciti a impedirla, e avrebbero danneggiato solo se stessi. Shabbetai Zevi aveva il potere di giustificare anche il peccatore più grande, persino Gesù, e "chiunque nutra qualche dubbio su di lui, anche se fosse l'uomo più giusto del mondo, egli [Shabbetai Zevi] lo punirà con grandi afflizioni". Nella seconda parte della lettera, Nathan predice o meglio delinea il corso degli eventi da quel momento fino al compiersi della redenzione. Shabbetai Zevi avrebbe tolto la corona al sovrano turco, senza guerra, e avrebbe fatto del sultano il suo servo. Dopo quattro o cinque anni si sarebbe recato al fiume Sambatyon per ricondurre in Israele le tribù perdute e per sposare Rebecca, la figlia tredicenne del risuscitato Mosè. Durante questo periodo avrebbe lasciato la reggenza al sultano turco, ma questi si sarebbe ribellato in sua assenza. Sarebbe stato questo il periodo dei "dolori del parto della redenzione", un tempo di grandi tribolazioni, dalle quali sarebbero stati esenti solo coloro che abitavano a Gaza. Il tenore di questa parte della lettera è leggendario e mitico. Tra il presente e l'inizio degli eventi messianici veri e propri vi sarebbe stato un intervallo di un anno e parecchi mesi, che dovevano venire usati per fare penitenza in tutto il mondo ebraico. A questo scopo Nathan compose liturgie diverse: una serie per il grosso pubblico ed una per gli iniziati, comprendente le kavvanot e le preghiere mistiche per i lunghi digiuni da lui prescritti. I testi relativi furono inviati in Europa e in altre località, insieme ai primi, lunghi annunci riguardanti l'avvento del Messia nell'autunno del 1665. Shabbetai Zevi a Smirne e a Costantinopoli Le prime notizie sul conto di Shabbetai Zevi giunsero in Europa all'inizio d'ottobre nel 1665, e nei due mesi che seguirono racconti dettagliati, profondamente imbevuti di materiale leggendario, pervennero in Italia, Olanda, Germania e Polonia. Nessuno ha ancora saputo spiegare perché tutti i corrispondenti da Gaza, da Gerusalemme e dall'Egitto, che divennero tanto eloquenti a partire dal settembre 1665, rimasero in silenzio durante I tre mesi successivi agli avvenimenti di Gaza. Vi è inoltre un vuoto considerevole tra gli eventi accaduti in Europa dopo l'arrivo dell'annuncio e ciò che successe in quei mesi allo stesso Shabbetai Zevi. Quando lasciò Gerusalemme in discredito, probabilmente prima del digiuno del 17 di Tammuz, passò per Safed e si recò ad Aleppo, dove giunse 1'8 di Av (20 luglio 1665): e ripartì il 12 agosto. Sebbene la sua fama l'avesse preceduto, si rifiutò di apparire pubblicamente come Messia, ma parlò in-privato con moite persone, inclusi Solomon Laniado e altri membri del tribunale rabbinico, che divennero suoi entusiasti sostenitori. Così pure quando arrivò a Smirne, poco prima di Rosh Ha-Shanah (inizio di settembre del 1665), si fece vedere poco per un periodo piuttosto lungo, e soggiornò presso il fratello Elijah. Nel frattempo divampò una grande agitazione ad Aleppo dove, in ottobre e novembre, apparvero i primi fenomeni della profezia shabbatea. Non solo gli illetterati si lasciarono travolgere dall'entusiasmo, ma anche rabbini e dotti, come Moses Galante di Gerusalemme, che era arrivato come emissario e che si lasciò prendere dall'eccitazione generale, seguendo Shabbetai Zevi a Smirne e a Costantinopoli. Da Aleppo si ha la prima testimonianza fuori dai confini della Palestina di una generale atmosfera revivalista, in cui vi erano segnalazioni di apparizioni del profeta Elia, e in cui fu istituito un fondo comune per mantenere i poveri e coloro che sarebbero stati colpiti dalla cessazione delle attività commerciali. Sebbene l'arrivo di Shabbetai Zevi a Smirne fosse stato preceduto da lettere e voci che inevitabilmente avrebbero dovuto suscitare tensioni e aspettative, per circa tre mesi non accadde nulla di sensazionale. I rabbini di Smirne avevano ricevuto dal rabbinato di Costantinopoli una lettera che parlava della scomunica di Shabbetai Zevi a Gerusalemme; tuttavia non vennero prese misure contro di lui. Solo quando lo stato d'estasi ritornò, all'inizio di dicembre, ed egli divenne febbrilmente attivo secondo il suo solito, scatenando grande agitazione e compiendo molti dei suoi "atti strani", i rabbini tentarono di fermarlo; ma ormai era troppo tardi. L'entusiasmo e l'eccitazione da lui suscitati travolsero la comunità ebraica di Smirne. In tre settimane, la comunità fu sossopra, e l'intensità e il carattere pubblico degli avvenimenti causarono un'eco vastissima. Non vi erano solo migliaia di ebrei, ma anche numerosi mercanti inglesi, olandesi e italiani, le cui lettere agli amici europei integrarono le notizie che ormai cominciavano a uscire a torrenti dalle fonti ebraiche della città. Sebbene Shabbetai Zevi fosse in continua corrispondenza con Nathan, adesso agiva in proprio. I fatti tempestosi che seguirono sono abbondantemente documentati da numerose fonti. Shabbetai Zevi usava recitare le preghiere del mattino in una delle sinagoghe "con una voce molto bella, che allietava grandemente quanti lo udivano"; dispensava generose elemosine; si alzava a mezzanotte per compiere immersioni rituali in mare; e nel suo comportamento ascetico non c'era nulla di bizzarro. Ma uno dei primi giorni di Hanukkah apparve "in vesti regali" nella sinagoga e creò grande sensazione con i suoi canti estatici. Negli stessi giorni arrivò da Aleppo una delegazione composta da Moses Galante, Daniel Pinto e due laici, che avevano prima fatto visita al profeta a Haza, e adesso desideravano salutare ufficialmente Shabbetai-Zevi quale Messia d'Israele. Durante la settimana di Hanukkah, Shabbetai Zevi "cominciò a fare cose che apparivano strane; pronunciava il Nome ineffabile, mangiava grassi proibiti e faceva altre cose contro il Signore e la Sua Legge, esortando altri a fare lo stesso": un comportamento caratteristico dei suoi stati d'illuminazione. La presenza dei credenti lo spronava a manifestazioni ancora più radicali. Apparve evidente la profonda spaccatura tra la maggioranza dei "credenti" e una minoranza di "infedeli", e ma'aminim e koferim divennero i termini fissi per coloro che aderivano a Shabbetai Zevi e coloro che gli si opponevano. L'epistola di Nathan a Raphael Joseph venne diffusa largamente e contribuì a fomentare i dissensi. In maggioranza, la gente comune si schierò con i credenti senza inibizioni o remore teologiche; la buona novella conquistava i cuori e il fascino della personalità di Shabbetai Zevi, con quello strano miscuglio di dignità solenne e di licenza sfrenata, contribuì non poco agli eventi. Centinaia di persone, appartenenti soprattutto agli strati più poveri della comunità, lo accompagnavano dovunque andasse. Ma fin dall'inizio molti borghesi, ricchi mercanti e sensali si unirono al movimento, oltre a studiosi rabbinici, tra i quali figuravano anche alcuni dei suoi allievi di un tempo. I tre membri del tribunale rabbinico che si opponevano ancora a Shabbetai Zevi deliberarono che era opportuno aprire un procedimento contro di lui. Per reazione, Shabbetai Zevi proclamò preghiere pubbliche, sfoggiò una pompa regale e si comportò con grande audacia. Venerdì 11 dicembre, la folla tentò di invadere la casa di Hayyim Pena, uno dei più importanti "infedeli", e il giorno seguente vi fu una crisi decisiva. Dopo aver incominciato a recitare le preghiere del mattino in una delle sinagoghe, Shabbetai Zevi s'interruppe e, accompagnato da una gran folla, si presentò davanti alle porte chiuse della congregazione portoghese, che era il quartier generale dei suoi avversari. Prese un'ascia e si accinse a sfondare le porte: allora i suoi avversari aprirono e lo lasciarono entrare. Seguì una scena sbalorditiva. Shabbetai Zevi lesse la porzione della Torah da una copia stampata, anziché dal rotolo tradizionale; ignorando i sacerdoti e i leviti presenti, chiamò alla lettura della Legge i suoi fratelli e molti altri uomini e donne, distribuendo regni e chiedendo che tutti pronunciassero il Nome Ineffabile nelle loro benedizioni. In un discorso furibondo contro i rabbini increduli, li paragonò agli animali immondi menzionati nella Bibbia. Proclamò che il Messia figlio di Joseph, che secondo la tradizione aggadica deve precedere l'avvento del figlio di Davide, era un certo Abraham Zalman, morto martire nel 1648, e recitò in suo onore la preghiera per i defunti. Quindi si accostò all'arca, prese tra le braccia un sacro rotolo, e cantò un'antica canzone d'amore castigliana che parlava di "Meliselda, la figlia dell'imperatore"; in questa canzone, che risultava essere stata la sua prediletta egli leggeva molti misteri cabalistici. Dopo averli spiegati alla congregazione si proclamò cerimonialmente "l'unto del Dio di Giacobbe", redentore di Israele, fissando la data della redenzione per il 15 di Sivan 5426 (18 giugno 1666), in conformità con una data annunciata da Nathan in uno dei suoi momenti di maggiore ottimismo, quando aveva considerato la possibilità di un evento in tempi antecedenti a quello predetto in origine. Shabbetai Zevi annunciò che tra breve si sarebbe impadronito della corona del "gran Turco". Quando Hayyim Benveniste, uno dei rabbini dissenzienti che erano presenti, gli chiese la prova della sua missione, fu preso da una grande collera e lo scomunicò, e chiamò nel contempo alcuni degli astanti a testimoniare la loro fede proferendo il Nome Ineffabile. La scena drammatica equivaleva a un pubblico annuncio messianico e alla sostituzione di un Giudaismo messianico in luogo di quello tradizionale e imperfetto. Vi sono testimonianze attendibili del fatto che, oltre ad altre innovazioni della legge, egli promise alle donne che le avrebbe liberate dalla maledizione di Eva. Subito dopo il Sabbath inviò a Costantinopoli uno dei suoi seguaci rabbini, per compiere i preparativi per il suo arrivo. In quel clima di esaltazione, Benveniste abbandonò ogni dubbio e il giorno seguente passò nel campo dei credenti. Un conflitto tra lui e uno degli altri membri del tribunale, Aaron Lapapa, può avere avuto qualche influenza sulla sua conversione. Comunque, il 5 di Tevet (23 dicembre), Shabbetai Zevi fece espellere Lapapa dalla carica e nominare Benveniste quale unico rabbino capo di Smirne. Convocato ancora una volta davanti al qadi per giustificare il suo comportamento, Shabbetai Zevi riuscì a rassicurarlo. Nei giorni seguenti, tutti i credenti furono invitati a presentarsi e a baciare la mano del re messianico; gran parte della comunità obbedì, inclusi alcuni "infedeli" che avevano paura del crescente terrorismo dei credenti. Subito dopo questa cerimonia regale, Shabbetai Zevi decretò l'abolizione del digiuno del 10 di Tevet. Quando questo atto suscitò l'opposizione di alcuni rabbini, la folla infuriata tentò di aggredirli. Solomon Algazi, un grande erudito e cabalista famoso che persistette nel suo atteggiamento d'opposizione, fu costretto a fuggire in Magnesia, e la sua casa fu saccheggiata. Lapapa si nascose nell'abitazione di uno dei suoi colleghi. Il Sabbath seguente, il nome del sultano turco fu eliminato dalla preghiera per il sovrano e fu istituita una preghiera formale per Shabbetai Zevi, quale re messianico d'Israele, una consuetudine poi seguita da molte comunità in tutta la Diaspora. A quel tempo ebbe inizio la consuetudine di chiamarlo, anziché con il suo vero nome, con l'appellativo amirah, abbreviazione per Adoneinu Malkenu yarum hodo ("Nostro Signore e Re, sia esaltata la sua maestà"), e allusione al titolo di emiro. Il nuovo termine fu molto usato nella letteratura shabbatea fino all'inizio del XIX secolo. Una festosa atmosfera di gioia e di entusiasmo caratterizzò i giorni seguenti. Arrivarono molte persone da altre comunità turche per aderire al movimento: tra gli altri vi fu Abraham Yakhini, famoso predicatore e cabalista di Costantinopoli, che conosceva Shabbetai Zevi fin dal 1658 e che divenne uno dei suoi propagandisti più attivi. In preda a un'isteria collettiva, persone di ogni classe sociale cominciarono a profetizzare su Shabbetai Zevi. Uomini, donne e bambini andavano in trance, declamando riconoscimenti di Shabbetai Zevi quale Messia, e passi biblici di carattere messianico. Quando riprendevano i sensi, non ricordavano più nulla. Circa 150 "profeti" apparvero così a Smirne: tra gli altri vi furono la moglie di Shabbetai Zevi e le figlie di alcuni "infedeli". Alcuni avevano visioni della corona di Shabbetai Zevi o lo vedevano assiso in trono; ma in maggioranza producevano un guazzabuglio di frasi e citazioni tratte dalla Bibbia e dal libro delle preghiere, ripetute più volte. Il commercio si arrestò: le danze e le processioni festive si alternarono agli esercizi penitenziali prescritti da Nathan. Il Salmo 21, che a Gaza aveva ricevuto un'interpretazione shabbatea, veniva recitato in ognuno dei tre servizi quotidiani, una consuetudine che si diffuse anche in altre comunità. Oltre a distribuire i regni della terra tra i fedeli, Shabbetai Zevi nominò controparti degli antichi re d'Israele, da Davide a Zerubbabel, e parecchi di costoro ottennero dal Messia patenti manoscritte. I prescelti erano i suoi principali sostenitori di Smirne, ma c'erano anche alcuni suoi devoti venuti dalla Palestina dall'Egitto, da Aleppo, da Costantinopoli e da Bursa (Brussa). Furono nominati anche molti altri dignitari messianici. Dopo questa sua ultima attività a Smirne, Shabbetai Zevi s'imbarcò per Costantinopoli il 30 dicembre 1665, accompagnato da alcuni dei suoi "re". Durante questo periodo il suo comportamento fu coerente, per quanto lo consentiva la sua mente squilibrata: era sicuro di sé e credeva che un intervento sovrannaturale avrebbe portato a frutto la sua missione messianica. Nel contempo le autorità turche nella capitale erano state messe in agitazione da rapporti allarmanti. Le notizie giunte da Gaza e Smirne avevano già diviso la comunità, e l'eccitazione era altissima. Le lettere arrivate dai luoghi dove era passato Shabbetai Zevi univano notizie serie a storie sempre più fantasiose e portavano al culmine la febbre messianica. Prima ancora del suo arrivo, a Costantinopoli si levò un profeta, Moses Serviel o Suriel, un giovane rabbino di Bursa il quale, diversamente dagli altri "profeti", rivelava i misteri shabbatei nella lingua dello Zohar e veniva ritenuto in possesso di un particolare carisma. L'arrivo del Messia fu considerevolmente ritardato dall'eccezionale maltempo; e intanto l'atmosfera nella capitale divenne critica. Alcuni capi della comunità, a quanto sembra, avvertirono il governo che aveva già dato disposizioni per arrestare Shabbetai Zevi a Smirne, dove l'ordine giunse in ritardo, oppure al suo arrivo a Costantinopoli. La popolazione ebrea fu contagiata dall'eccitazione; per le strade si cantavano canzoni satiriche sul Messia, mentre le masse ebree, certe che molti miracoli sarebbero avvenuti subito dopo il suo arrivo, si comportavano con notevole orgoglio nei confronti dei gentili. La politica adottata dal gran visir Ahmed Koprulu (Kuprili), uno dei più abili statisti turchi, fu di straordinaria moderazione. In Turchia le rivolte erano frequenti, e i ribelli di solito venivano prontamente messi a morte. Ma questa non fu la conseguenza immediata dell'arresto di Shabbetai Zevi, che venne intercettato sul Mar di Marmara il 6 febbraio 1666; e ciò contribuì a rafforzare le convinzioni dei fedeli. In un'atmosfera di grande agitazione, fu condotto a terra in catene lunedì 8 febbraio. Ormai lo sfacelo della vita normale e del commercio aveva raggiunto il culmine. Un paio di giorni dopo l'arresto, Shabbetai Zevi fu condotto davanti al divan, presieduto da Koprulu. Poiché gli archivi turchi di quel periodo furono distrutti da un incendio, non ci è pervenuto alcun documento ufficiale sul movimento e sul processo, e i racconti delle fonti ebraiche e cristiane di Costantinopoli sono contrastanti. È vero, comunque, che il visir mostrò una clemenza e una pazienza sorprendente forse ispirate anche dall'indiscutibile fascino della personalità di Shabbetai Zevi. Forse voleva evitare di trasformare in martire un Messia che, dopo tutto, non aveva preso le armi contro il sultano e aveva semplicemente proclamato una mistica é irrealistica presa di possesso della corona. Shabbetai Zevi fu incarcerato, dapprima in una "buia segreta", ma più tardi in un alloggio piuttosto comodo, e l'alto funzionario responsabile della polizia e della prigione, forse dopo aver accettato somme sostanziose, gli permise di ricevere le visite dei suoi seguaci. Si diceva che avrebbe potuto ottenere la liberazione con una somma ingentissima che i suoi seguaci erano disposti a pagare, e che rifiutò, ingigantendo così la sua reputazione. Era ancora molto sicuro di sé. In quel periodo era tornato a uno stato normale, viveva una vita ascetica, predicava la penitenza e non chiedeva speciali privilegi. I rabbini della capitale che lo visitavano in prigione si trovavano davanti un dignitoso erudito che sopportava le sofferenze con aria nobile, anziché un peccatore che si poneva al di sopra della Legge e della tradizione. I rabbini erano divisi: e alcuni dei più illustri, tra cui Abraham Al-Nakawa, si schierarono dalla sua parte. Nuovi miracoli vennero riferiti nelle lettere scritte a Costantinopoli in quei mesi, a riprova del fatto che l'entusiasmo perdurava inalterato. Quando il sultano e il visir partirono per la guerra contro Creta, fu dato l'ordine di trasferire Shabbetai Zevi nella fortezza di Gallipoli sulla riva europea dei Dardanelli, dove venivano detenuti i prigionieri politici importanti. Il trasferimento ebbe luogo il 19 aprile, il giorno prima di Pasqua. Ancora una volta in preda a uno stato d'illuminazione, Shabbetai Zevi sacrificò un agnello pasquale e lo arrostì con il suo grasso, inducendo i compagni a mangiare quel cibo proibito e benedicendolo con la frase ormai abituale: "Colui che permette ciò che è vietato". Corrompendo i carcerieri, i credenti trasformarono ben presto la sua detenzione in una reclusione onorevole, e la fortezza venne chiamata Migdal Oz ("torre di forza"), con riferimento a Proverbi 18:10. Il movimento della Diaspora Le lettere che giunsero in ogni parte della Diaspora dalla Palestina, dall'Egitto e da Aleppo nell'ottobre e nel novembre 1665, e più tardi da Smirne e Costantinopoli, produssero una grandissima eccitazione, e l'identità delle reazioni indica che le cause trascendevano di gran lunga i fattori locali. Il fervore messianico s'impadronì di comunità che non avevano esperienze immediate di persecuzioni e di massacri, non meno che di quelle che lo avevano. I fattori sociali e religiosi erano senza dubbio connessi inestricabilmente. La miseria e le persecuzioni generavano speranze utopistiche, ma fu la situazione del popolo ebraico nel suo complesso a fornire la base. Sebbene la dottrina lurianica del tikkun e della redenzione esprimesse a sua volta una situazione sociale, il suo vero contenuto era essenzialmente religioso. È questo intreccio dei vari elementi nella struttura storica del movimento shabbateo che spiega il suo contenuto dinamico ed esplosivo. Più tardi il movimento fu presentato in una luce diversa, in uno strenuo tentativo di minimizzare la parte sostenuta dagli strati più elevati della società ebraica e dai capi spirituali, e di ascrivere la veemenza dell'esplosione all'entusiasmo cieco della marmaglia e dei poveri: ma questo non trova conferma nella documentazione contemporanea. La reazione non mostrava affatto l'uniformità basata sulle condizioni di classe. Molti ricchi ebbero una parte importantissima nella diffusione della propaganda messianica, anche se non mancarono coloro che, come si disse a quel tempo, "erano più interessati ai grandi profitti che ai grandi profeti". Cinque fattori contribuirono al successo travolgente del risveglio messianico: 1) L'appello messianico proveniva dalla Terra Santa, dal centro che rappresentava la spiritualità più pura e intensa. Un messaggio proveniente di là sarebbe stato accolto in Persia, nel Kurdistan, o nello Yemen con un rispetto che difficilmente avrebbe ottenuto se fosse arrivato dalla Polonia o dall'Italia. L'immenso prestigio della nuova Cabala, che emanava da Safed, ebbe anch'esso la sua importanza. 2) Il rinnovarsi della profezia con la figura di Nathan, il geniale erudito e asceta severo divenuto profeta, contribuì a oscurare le sfaccettature più dubbie della personalità di Shabbetai Zevi che, per la verità, ebbe poca o punta importanza nella coscienza della massa dei credenti. 3) L'efficacia delle credenze apocalittiche tradizionali e popolari, i cui elementi non venivano abbandonati bensì reinterpretati, ebbe anch'essa un suo ruolo. Le vecchie visioni escatologiche furono mantenute, ma vennero assorbiti molti elementi nuovi. La concezione del futuro fu completamente conservatrice, per tutto il 1666. Nel contempo, tuttavia, la propaganda era rivolta anche a un gruppo molto diffuso di cabalisti, ai quali presentava un sistema di simboli ambigui. Il simbolismo di Nathan soddisfaceva i suoi lettori con la terminologia tradizionale, e l'apparente continuità permetteva ai nuovi elementi di esistere senza venire scoperti, sotto la copertura del cabalismo precedente. 4) Il richiamo del profeta alla penitenza ebbe un ruolo decisivo, facendo appello alle aspirazioni più nobili nel cuore di ogni ebreo. Chi, anche tra gli avversari del movimento, poteva condannare l'unica richiesta fatta in pubblico dal profeta e dal Messia? 5) Non vi erano ancora differenziazioni tra i vari elementi che partecipavano al movimento. Le menti conservatrici, rispondendo al senso di continuità ininterrotta, vi scorgevano la promessa dell'esaudimento delle attese tradizionali. Nel contempo il messaggio di redenzione affascinava gli utopisti, i quali aspiravano a un era nuova e non avrebbero pianto la fine del vecchio ordine. Il carattere nazionale del movimento oscurava questi contrasti nella struttura emotiva dei suoi seguaci. Poiché le principali manifestazioni di massa del movimento, agli inizi, si erano avute in località lontane dalla scena delle attività dello stesso Shabbetai Zevi, e Nathan il profeta non lasciò mai la Palestina nella fase culminante degli eventi, la gente dipendeva dalle lettere e da altri mezzi di comunicazione che presentavano un assurdo miscuglio di realtà e di fantasia, quest'ultima non meno allettante della prima per il sentimento e l'immaginazione. In larga misura il movimento si sviluppò per forza propria, adattando nuovi elementi alle tradizioni e alle concezioni precedenti. Non vi è nulla di sorprendente nella similarità dei fenomeni in luoghi molto lontani tra loro: corrispondono tanto alla similarità fondamentale della situazione degli ebrei e della reazione tradizionale ad essa, quanto all'uniformità della propaganda proveniente dai credenti della Turchia. Una certa importanza ebbero in Europa alcuni rapporti di fonti cristiane, che naturalmente erano basati soprattutto su informatori ebrei, ma che aggiungevano esagerazioni e distorsioni. I numerosi manifesti e opuscoli che apparvero nel 1666 in inglese, olandese, tedesco e italiano furono letti avidamente dagli ebrei e spesso presi come fonti indipendenti che confermavano le notizie da loro ricevute. Un fattore secondario fu la simpatia dimostrata nei confronti del movimento da circoli millenaristi in Inghilterra, Olanda e Germania, poiché sembrava confermare la credenza, diffusa in questi ambienti, che il secondo avvento di Cristo sarebbe avvenuto nel 1666. Ad Amsterdam Peter Serrarius, uno dei più autorevoli millenaristi, contribuì notevolmente a diffondere la propaganda shabbatea tra i suoi numerosi corrispondenti cristiani. Tuttavia, è priva di fondamento l'ipotesi che la nascita del movimento stesso fosse dovuta all'influenza di mercanti cristiani millenaristi su Shabbetai Zevi durante gli anni da lui trascorsi a Smirne. Mentre la maggioranza dei membri delle comunità di cui abbiamo conoscenza di prima mano, e di quelle da esse influenzate, si univa all'entusiasmo generale guidato dovunque da un gruppo di credenti devoti e decisi, vi furono anche molti casi di dissidi e divergenze con gli "infedeli". Una crescente ondata di terrorismo messianico minacciava coloro che parlavano in toni beffardi di Shabbetai Zevi e rifiutavano di lasciarsi contagiare dall'esaltazione generale. Numerosi rabbini influenti, che in cuor loro erano scettici, come Samuel Aboab a Venezia, si guardavano dal contrastare le loro comunità, e i casi di aperta opposizione rabbinica furono piuttosto rari. Tra questi ostinati avversari vi furono Joseph ha-Levi, il predicatore della comunità di Livorno, e Jacob Sasportas, che a quell'epoca non aveva una posizione ufficiale, e si trovava ad Amburgo dove si era rifugiato per salvarsi dall'epidemia che imperversava a Londra. Scrittore di lettere molto dotto ed eloquente, egli manteneva una vivace corrispondenza con amici e conoscenti e persino con persone a lui sconosciute, per informarsi sulla verità degli eventi ed esprimere una prudente opposizione ai credenti, sebbene usasse parole di energica condanna per coloro che condividevano le sue opinioni. Più tardi (nel 1669) egli raccolse (e censurò notevolmente) buona parte di questa corrispondenza in Zizat Novel Zevi. La penitenza alternata a pubbliche manifestazioni di gioia e di entusiasmo era all'ordine del giorno, e i rapporti dettagliati provenienti da molte parti della Diaspora descrivono fino a quale punto giungessero i penitenti. Dovunque venivano praticati digiuni e bagni rituali, mortificazioni di carattere spesso estremo e generose elemosine. Molti digiunavano per l'intera settimana; coloro che non erano in grado di farlo digiunavano ogni settimana per due o tre giorni consecutivi, e le donne e i bambini almeno ogni lunedì e giovedì. "Il bagno rituale era così affollato che quasi era impossibile entrarvi". Le devozioni quotidiane per il giorno e la notte stabilite da Nathan venivano recitate ovunque, e ne furono pubblicate molte edizioni ad Amsterdam, Francoforte, Praga, Mantova e Costantinopoli. La notte, i fedeli si sdraiavano nudi sulla neve per un'ora e si flagellavano con rovi e ortiche. Dovunque il commerciò si fermò. Molti vendettero case e proprietà per procurarsi il denaro necessario per recarsi nella Terra Santa, mentre altri non facevano tali preparativi perché erano convinti che vi sarebbero stati trasportati sulle nubi. I credenti ricchi più realisti presero accordi per noleggiare navi destinate a trasportare i poveri in Palestina. I rapporti provenienti da cittadine e villaggi della Germania provano che la rinascita messianica non era limitata ai centri più grandi. Da molte località partirono delegazioni per visitare Shabbetai Zevi, portando pergamene firmate dai capi della comunità che lo riconoscevano quale Messia e re d'Israele. Fu inaugurata una nuova era; molte lettere e persino alcuni libri vennero datati dal "primo anno del rinnovamento della profezia e del regno". I predicatori esortavano il popolo a restituire il denaro mal guadagnato, ma non risultava che questo avvenisse effettivamente. La gente attendeva con ansia lettere dalla Terra Santa, Smirne e Costantinopoli, che spesso venivano lette in pubblico e provocavano grande esaltazione e discussioni violente. Non vi erano differenze notevoli nelle reazioni degli ebrei ashkenazi, sefarditi, italiani e orientali. Nelle congregazioni composte prevalentemente di ex marranos, come le comunità "portoghesi" di Amsterdam, Amburgo e Salonicco, il fervore messianico era particolarmente forte. Nell'Africa settentrionale, dove il movimento mise radici profonde, un ex marrano, il medico Abraham Miguel Cardozo di Tripoli, divenne uno dei protagonisti più attivi. Altri sostenitori convinti erano i rabbini del Marocco, molti dei quali conoscevano bene Elisha Hayyim b. Jacob Ashkenazi, padre del profeta Nathan, grazie alle sue visite nel loro paese quale emissario di Gerusalemme. Poesie in onore di Shabbetai Zevi e di Nathan furono composte nello Yemen, nel Kurdistan, a Costantinopoli, Salonicco, Venezia, Ancona, Amsterdam e in molti altri luoghi; ma nel contempo uno dei principali oppositori del movimento in Italia, il poeta Jacob Frances di Mantova, con l'aiuto del fratello Immanuel, compose una serie appassionata di versetti, denunciando il movimento, i suoi eroi e i suoi seguaci (Zevi Muddah). Tuttavia, queste erano voci isolate; che le comunità italiane fossero generalmente in estasi è rivelato vividamente dal taccuino di un ebreo di Casale che viaggiò in tutta l'Italia settentrionale alla fine del 1665 e nei primi mesi del 1666, rispecchiando nelle sue descrizioni spontanee l'atmosfera che vi predominava (Zion, 10 [1945], 55-56). Moses Zacuto, il più stimato cabalista italiano, diede al movimento un appoggio piuttosto riluttante. Alcuni ebrei che si erano stabiliti nella Terra Santa inviavano ai loro contemporanei della Diaspora notizie entusiastiche sul risveglio; ma in generale si può dire che ognuno scrivesse a tutti coloro che conosceva. Persino la moglie di un poveraccio di Amburgo che era in carcere a Oslo gli riferì fedelmente in yiddish le ultime notizie. All'estremità opposta della scala Abraham Pereira, che si diceva fosse l'ebreo più ricco di Amsterdam e un uomo profondamente devoto, prestò il suo enorme prestigio alla causa e, dopo aver pubblicato un libro di morale per peccatori pentiti (La certezza del cammino, 1666), partì con il suo entourage per l'Oriente, sebbene venisse trattenuto a Livorno. In Polonia e in Russia dilagava l'entusiasmo più scatenato. I predicatori incoraggiavano il movimento penitenziale, che acquisì modi d'espressione ancora più stravaganti. Non è documentata alcuna opposizione di parte rabbinica. Nelle pubbliche processioni di gioia gli ebrei portavano ritratti di Shabbetai Z. evi tratti da manifesti cristiani, provocando disordini in molte città come Pinsk, Vilna e Lublino, fino a quando all'inizio di maggio del 1666il re di Polonia proibì tali manifestazioni. Il ricordo dei massacri dal 1648 al 1655 conferiva al movimento un irresistibile slancio popolare. La notizia dell'arresto di Shabbetai Zevi a Gallipoli non sminuì affatto l'entusiasmo; al contrario, il fatto che non fosse stato giustiziato e venisse trattato onorevolmente tendeva a confermare la sua missione. Samuel Primo, che fungeva da segretario (scrivano) di Shabbetai Zevi, era un maestro esperto nell'uso delle frasi maestose e roboanti e le sue lettere trasmettevano un'atmosfera di grandiosità imperiale. Shabbetai Zevi firmava questi testi come "il figlio primogenito di Dio", "vostro padre Israel", "lo sposo della Torah", e altri titoli altisonanti; anche quando incomincio a firmare alcune lettere "Io sono il Signore vostro Dio Shabbetai Zevi", solo pochi credenti si scandalizzarono. In seguito, Moses Galante sostenne di averlo abbandonato proprio per questa ragione. Non ci è stato conservato un resoconto attendibile della condotta di Shabbetai Zevi durante il primo periodo della sua prigionia a Gallipoli, ma vi sono indicazioni del fatto che ebbe frequenti periodi di malinconia. Quando ritornò in uno stato d'illuminazione, la gente accorse in gran numero da lui e la prigione, con la connivenza dei carcerieri corrotti, si trasformò in una specie di corte reale. Il "re" che non faceva mistero delle sue rivendicazioni messianiche impressionava grandemente i visitatori. Una lettera ufficiale dei rabbini di Costantinopoli al rabbinato di Gerusalemme, che chiedeva di istituire una commissione d'inchiesta formata da quattro rappresentanti di Gerusalemme, Safed e Hebron, non ricevette risposta. Quando, nel marzo 1666, i rabbini di Venezia chiesero l'opinione del rabbinato di Costantinopoli, ricevettero una risposta positiva, camuffata da comunicazione commerciale circa la qualità delle pelli di capra "acquistate da Rabbi Israel di Gerusalemme". La lettera diceva: "Abbiamo considerato la cosa ed esaminato le merci di Rabbi Israel, perché sono in mostra qui, sotto i nostri occhi. Siamo pervenuti alla conclusione che siano molto preziose... ma dobbiamo attendere il giorno della grande fiera". Centinaia di profeti si levarono nella capitale, e l'esaltazione raggiunse punte febbrili. Con l'avvicinarsi dei digiuni del 17 di Tammuz e del 9 di Av, l'euforia di Shabbetai Zevi crebbe: non soltanto egli proclamò l'abolizione dei digiuni, ma istituì in loro luogo nuove feste. Il 17 di Tammuz divenne "il giorno della rinascita dello spirito di Shabbetai Zevi"; e prescrivendo dettagliatamente la liturgia da recitare in questa occasione, trasformò il 9 di Av nella festa per il suo genetliaco. In Turchia, dove la notizia si diffuse rapidamente, quasi tutti seguirono le sue istruzioni e quel giorno fu celebrato come una festività solenne. Una delegazione venuta dalla Polonia, che contava tra i suoi membri anche il figlio e il genero di R. David ha-Levi di Leopoli, massima autorità rabbinica del suo paese, lo visitò nella settimana dopo il 17 di Tammuz e lo trovò in uno stato d'animo estatico. La sua dignità e il suo portamento maestoso li conquistarono. Molti pellegrini ritenevano che la prigionia del Messia non fosse altro che un'apparenza simbolica esteriore, una convinzione suffragata da un trattato cabalistico di Nathan, "Disquisizione sui draghi", scritto nell'estate del 1666. Qui la particolare psicologia di Shabbetai Zevi era spiegata come una biografia metafisica dell'anima del Messia e delle sue lotte con le forze demoniache del tempo della creazione fino alla sua incarnazione terrena. Tali lotte lasciavano un segno su di lui e spiegavano l'alternarsi tra i momenti in cui era prigioniero delle kelippo e i periodi d'illuminazione, quando su di lui risplendeva la luce superna. Persino nel lontano Yemen, dove l'eccitazione era grandissima, i dettagli della biografia di Shabbetai Zevi (basata su una mescolanza di fatti e di leggende) venivano spiegati in modo cabalistico dall'anonimo autore di un'apocalisse, "La valle della visione" (Gei Hizzayon), scritta verso la fine del 1666. In luglio, ai delegati venuti dalla Polonia, un trattato cabalistico firmato da Shabbetai Zevi presentava gli eventi della sua vita come fondati su profondi misteri. Anche in Palestina e in Egitto, dove le lettere che abolivano il digiuno del 9 di Av non potevano essere giunte in tempo, l'iniziativa dell'abolizione fu presa da Nathan di Gaza e dai suoi seguaci, tra i quali Mattathias Bloch fu particolarmente attivo in Egitto. Lo stesso Nathan progettò più volte di incontrarsi con Shabbetai Zevi, ma non lasciò mai Gaza. Vi era una minoranza di "infedeli" anche in Egitto, tra cui figuravano alcuni illustri rabbini palestinesi che vi si erano stabiliti: ma di fronte all'entusiasmo generale si comportavano con molta cautela. Ad Algeri e nel Marocco il movimento non incontrò una seria Opposizione da parte dei rabbini e dai capi della comunità. L'apostasia di Shabbetai Zevi Il movimento raggiunse il culmine nel luglio e nell'agosto del 1666, quando tutti attendevano con ansia che si verificassero grandi eventi. La svolta avvenne in modo imprevedibile. Un cabalista polacco, Nehemiah ha-Kohen di Leopoli, o dei dintorni, si recò da Shabbetai Zevi, apparentemente a nome di alcune comunità polacche. Arrivò il 3 o il 4 settembre e trascorse con lui due o tre giorni. Le notizie sul loro incontro sono contrastanti e in parte chiaramente leggendarie. Secondo una fonte, Nehemiah non discusse tanto sul terreno cabalistico quanto come portavoce della tradizione apocalittica popolare, che egli interpretava in modo rigorosamente letterale. Non riusciva a vedere alcuna corrispondenza tra le attività di Shabbetai Zevi e le predizioni degli scritti aggadici più antichi sul Messia. Insoddisfatto delle reinterpretazioni cabalistiche, pose in risalto la mancanza di un visibile Messia figlio di Joseph che avrebbe dovuto precedere Shabbetai Zevi. Altre fonti affermano che la discussione verteva sul ruolo dello stesso Nehemiah, perché questi affermava di essere il Messia figlio di Joseph, un'affermazione respinta dal suo ospite. Comunque andassero le cose, l'acrimonioso dibattito si concluse disastrosamente. All'improvviso Nehemiah annunciò, alla presenza delle guardie turche, la sua decisione di abbracciare l'Islam. Fu condotto ad Adrianopoli, dove denunciò Shabbetai Zevi, accusandolo di fomentare la sedizione. Senza dubbio le masse ebraiche imputarono a Nehemiah gli eventi che seguirono, e anche dopo il suo ritorno al Giudaismo, in Polonia, fu perseguitato per il resto della sua vita per aver venduto il Messia ai turchi. Tuttavia, è perfettamente possibile che l'azione di Nehemiah fosse solo un pretesto e che le autorità turche si fossero ormai allarmate per quanto stava accadendo nel loro paese. Vi sono indizi di numerose proteste contro Shabbetai Zevi, che includevano anche accuse di comportamento immorale. L'agitazione di Gallipoli ebbe termine quando, il 12 o il 13 settembre, arrivarono messaggeri da Adrianopoli, e il 15 condussero il prigioniero in quella città. Il giorno seguente Shabbetai Zevi fu condotto davanti al divano, alla presenza del sultano che assisteva dietro una grata. Ancora una volta, i resoconti di ciò che avvenne in tribunale sono contraddittori. I credenti riferiscono che Shabbetai Zevi era in uno dei suoi stati di depressione malinconica e che, comportandosi con assoluta passività, lasciò che gli eventi seguissero il loro corso. Presentarono la sua apostasia come un atto impostogli, al quale egli non prese parte. La realtà fu senza dubbio ben diversa anche se è possibile che si trovasse in uno dei suoi stati di depressione. Fu interrogato dal tribunale o dal consiglio privato e negò - come aveva già fatto in simili circostanze - di aver mai avanzato pretese messianiche. Secondo alcuni, fece addirittura un lungo discorso sull'argomento. Alla fine gli fu ordinato di scegliere: essere messo a morte immediatamente o convertirsi all'Islam. Secondo una fonte, Kashim Pasha, uno dei dignitari di rango più elevato, che di lì a poco tempo divenne cognato del sultano, condusse il colloquio decisivo, "manovrandolo in tal modo che egli fu lieto di diventare turco". Ma tutte le altre fonti concordano nell'affermare che questo ruolo fu svolto dal medico del sultano, Mustapha Hayatlzadé, un ebreo apostata. Egli convinse Shabbetai Zevi ad accettare la proposta del tribunale, che apparentemente era stata decisa già prima che il processo avesse inizio. Il medico funse soprattutto da interprete, perché a quel tempo Shabbetai Zevi conosceva poco il turco. Il sultano Maometto IV, un uomo profondamente religioso, probabilmente apprezzava la possibilità che un personaggio ebreo tanto importante inducesse molti suoi seguaci a imitarlo. Accettando l'apostasia e prendendo il turbante, Shabbetai Zevi assunse il nome di Aziz Mehmed Effendi. Considerato un convertito illustre, ricevette il titolo onorario di Kapici Bashi ("custode delle porte del palazzo"), con una pensione reale di 150 piastre al giorno. Molti dei credenti che l avevano accompagnato lo seguirono nell'apostasia, come fece anche sua moglie quando fu condotta da Gallipoli qualche tempo dopo. La data della conversione, 15 settembre 1666, è confermata da molte fonti. Lo stato d'animo di Shabbetai Zevi dopo l'apostasia fu di profonda depressione, come dimostra una lettera scritta al fratello Elijah una settimana più tardi. Dall'apostasia alla morte di Shabbetai Zevi L'apostasia causò un trauma profondo, che paralizzò nella stessa misura capi e seguaci. In molti ambienti semplicemente non venne creduta, e dovette passare qualche tempo prima che la verità venisse accettata. Le ondate dell'esaltazione erano state travolgenti, ma erano in gioco sentimenti più profondi: per molti credenti l'esperienza della rinascita messianica aveva assunto le dimensioni di una nuova realtà spirituale. Gli enormi sconvolgimenti di un intero anno li avevano portati ad equiparare la loro esperienza emotiva a una realtà esterna che sembrava confermarla. Ora si trovavano di fronte a un crudele dilemma: ammettere che la loro fede era stata vana e che il loro redentore era un impostore, oppure aggrapparsi alla fede e all'esperienza interiore di fronte a una realtà esterna ostile e cercare una spiegazione e una giustificazione per l'accaduto. Il fatto che molti accettassero la seconda alternativa e rifiutassero di cedere dimostra quanto fosse profondo il movimento. Fu per questo che il movimento non finì bruscamente con l'apostasia, un atto che in ogni altra circostanza l'avrebbe troncato automaticamente. Chi avrebbe immaginato un Messia capace di abiurare la sua fedeltà al Giudaismo? D'altra parte, i rabbini e i capi delle comunità, soprattutto in Turchia, si comportarono con grande circospezione. Scelsero di mettere a tacere l'intera faccenda, calmare l'agitazione facendo finta che in realtà non fosse accaduto nulla d'importante e riportare la vita degli ebrei al "normale" stato dell'esilio, per cui il metodo migliore consisteva nell'ignorare l'intero corso degli eventi e lasciare che il tempo e l'oblio rimarginassero la ferita. Questa politica fu seguita largamente in altri paesi. Se veniva chiesto come un'intera nazione aveva potuto nutrire speranze tanto grandi per venire alla fine ingannata, non era permesso discutere i disegni imperscrutabili di Dio. Vi era inoltre il timore, soprattutto in Turchia, che le autorità agissero contro i maggiorenti ebrei che avevano permesso i preparativi per una rivolta messianica, e sembra che le autorità turche desistessero da un'iniziativa in questo senso solo dopo considerevoli esitazioni. In Italia, le pagine dei documenti della comunità ebraica che portavano testimonianza degli eventi furono strappate e distrutte per ordine dei rabbini. Il silenzio ufficiale scese anche sulla letteratura pubblicata in ebraico, per molti anni. Solo vaghi echi di cause legali connesse a tutto questo e altri accenni al movimento penitenziale apparvero qua e là. I fatti, tuttavia, furono diversi. Ancora una volta Nathan di Gaza ebbe un ruolo decisivo, anche se non si sa se l'iniziativa per una spiegazione "teologica" dell'apostasia fu presa da lui o da Shabbetai Zevi, quando questi si fu ripreso dallo stordimento. Quando Nathan ricevette la notizia dall'entourage di Shabbetai Zevi ai primi di novembre 1666, annunciò immediatamente che si trattava di un profondo mistero e che si sarebbe risolto a tempo debito. Lasciò Gaza con un seguito numeroso per organizzare un incontro con Shabbetai Zevi, il quale nel frattempo era stato istruito nella religione islamica. I rabbini di Costantinopoli, che in maggioranza avevano smesso di credere in lui, si diedero da fare per impedire l'incontro. Nathan si recò dapprima a Smirne, dove un consistente gruppo di credenti persisteva nella sua fede, e vi si trattenne durante i mesi di marzo e aprile; sebbene si mostrasse molto riservato nei rapporti con gli estranei, cominciò a difendere l'apostasia e la missione di Shabbetai Zevi. Il fulcro della sua argomentazione era che l'apostasia non era in realtà che l'adempimento di una missione per innalzare le sacre scintille disperse tra i gentili e ora concentrati nell'Islam. Mentre il compito degli ebrei era stato quello di restaurare le scintille delle loro anime nel processo di tikkun, secondo i precetti della Torah, vi erano scintille che soltanto lo stesso Messia poteva redimere, e per questo egli doveva discendere nel regno della kelippah, apparentemente per sottomettersi al suo dominio, ma in realtà per adempiere l'ultima parte, la più difficile, della sua missione, sconfiggendo la kelippah dall'interno. Così facendo, egli agiva come una spia inviata nel campo nemico. Nathan collegava questa esposizione alla sua precedente spiegazione metafisica della biografia di Shabbetai Zevi, interpretata come una lotta contro il regno del male, di cui le sue "strane azioni" testimoniavano fin dalla giovinezza. L'apostasia non era altro che il caso più estremo di queste strane azioni. Il Messia doveva addossarsi la vergogna di venire chiamato traditore del suo popolo, quale ultimo passo prima di rivelarsi in tutta la sua gloria sul palcoscenico della storia. Ponendo il paradosso di un Messia apostata, di un redentore tragico e tuttavia legittimo, al centro della nuova teologia shabbatea, Nathan gettò le fondamenta dell'ideologia dei credenti per i cento anni successivi. Nathan, come molti altri venuti dopo di lui, frugò nella Bibbia, nel Talmud, nel Midrash e nella letteratura cabalistica, alla ricerca di punti di riferimento per questo paradosso, e scoprì una ricca messe di interpretazioni audaci e spesso apertamente eretiche dei testi sacri più antichi. Una volta che si ammetteva il paradosso di base, tutto sembrava andare a posto. Tutti gli atti biasimevoli degli eroi biblici, le strane storie dell'aggadah (aggadot shel dofi) e i passi enigmatici dello Zohar, sembravano indicare, in un'esegesi tipologica, il comportamento scandaloso del Messia. Con l'acquiescenza di Shabbetai Zevi, queste idee vennero assorbite dai capi dei credenti ed ebbero vasta diffusione. I rabbini vietarono di discutere queste concezioni eretiche, che sarebbero state confutate dalla loro stessa paradossalità. Nel frattempo, si limitarono a ignorarle. Durante il 1667-68 l'eccitazione si spense lentamente. Quando Nathan cercò di visitare Shabbetai Zevi ad Adrianopoli, gli andò incontro a Ipsola una delegazione di rabbini, i quali lo costrinsero a firmare la promessa di rinunciare al suo proposito (31 maggio 1667). Nonostante questo, egli si recò da Shabbetai Zevi e continuò a fargli visita di tanto in tanto e a proclamarlo "vero Messia", annunciando diverse date per l'attesa rivelazione finale. Per ordine di Shabbetai Zevi andò a Roma, a compiere un rito magico segreto destinato ad affrettare la caduta dei rappresentanti del Cristianesimo. Il suo arrivo a Venezia per la Pasqua del 1668 creò grande sensazione. I rabbini pubblicarono un libretto che riassumeva gli interrogativi di Ipsola e di Venezia e affermava che Nathan aveva riconosciuto i suoi errori. Nathan smentì tutte queste dichiarazioni e trovò l'appoggio di un numero considerevole di credenti. Compì la missione a Roma e ritornò nei Balcani dove trascorse il resto della vita, tra Adrianopoli, Sofia, Kastoria e Salonicco, tutte località caratterizzate da una forte presenza shabbatea. In quanto a Shabbetai Zevi, visse ad Adrianopoli e talvolta anche a Costantinopoli fino al 1672: riuscì a ottenere di condurre una doppia vita, compiendo i doveri di musulmano e osservando nel contempo gran parte del rituale ebraico. I turchi si aspettavano da lui che si facesse missionario, ma i duecento capi-famiglia che attrasse all'Islam erano tutti credenti-segreti da lui ammoniti a rimanere uniti come combattenti contro la kelippah. I periodi di illuminazione e di depressione continuarono ad alternarsi, e durante le fasi di illuminazione, talvolta piuttosto lunghe, si comportò esattamente come prima; istituì nuove feste, confermò la sua missione mistica e convinse molti a seguirlo nell'Islamismo, che da allora venne chiamato "la Torah della grazia" per distinguerlo dal Giudaismo, "la Torah della verità". Molte notizie circa il suo libertinaggio durante le "illuminazioni" sembrano fondate. In uno di tali periodi, nell'aprile 1671, divorziò dalla moglie, ma la riprese quando l'illuminazione l'abbandonò, sebbene avesse già preso accordi per un altro matrimonio. Una cronaca in ebraico d'uno dei suoi visitatori, Jacob Najara, descrive dettagliatamente il suo comportamento straordinario. Le rivelazioni ad opera di intermediari celesti, delle quali ci sono pervenuti alcuni resoconti, erano frequenti nella sua cerchia. Primo, Yakhini e Nathan lo visitarono spesso; tuttavia non furono mai invitati a convertirsi all'Islam, e i credenti di Turchia li accettavano come suoi portavoce legittimi. Sebbene fossero ancora molto forti nei Balcani e nella Turchia asiatica, gli shabbatei vennero spinti a poco a poco nella clandestinità, ma non furono scomunicati. La linea di demarcazione tra gli apostati e coloro che rimasero ebrei era talvolta poco nitida, sebbene i secondi di solito si facessero notare per il modo di vita particolarmente ascetico e pio. Lo stesso Shabbetai Zevi, che godeva del favore del sultano, strinse legami con alcuni mistici musulmani dell'ordine dei dervisci. La corrispondenza epistolare tra il suo gruppo e i credenti dell'Africa settentrionale, l'Italia e altri paesi diffuse la nuova teologia e contribuì a creare uno spirito settario sempre più spiccato. Dopo una denuncia della sua doppiezza e della sua licenziosità sessuale presentata da alcuni ebrei e musulmani, e appoggiata da somme cospicue, Shabbetai Zevi fu arrestato a Costantinopoli nell'agosto del 1672. Il gran visir esitò tra l'idea di farlo giustiziare e quella di deportarlo, e alla fine decise di mandarlo in esilio, nel gennaio 1673, a Dulcigo (turco: Ulkun) in Albania, che gli shabbatei chiamarono Alkum, da Proverbi 30:31. Sebbene godesse di una relativa libertà, Shabbetai Zevi scomparve agli occhi del pubblico, ma alcuni dei suoi principali sostenitori continuarono i loro pellegrinaggi, a quanto sembra spacciandosi per musulmani. Nel 1674 morì sua moglie Sarah, e Shabbetai Zevi sposò Esther (chiamata in altre fonti Jochebed), figlia di Joseph Filosof, un rispettato rabbino di Salonicco, che era uno dei suoi sostenitori più autorevoli. Di tanto in tanto, durante le "illuminazioni", egli pensava di ritornare allo stato precedente e riteneva che la redenzione finale fosse ormai prossima. Durante gli ultimi dieci anni della sua vita, soprattutto ad Adrianopoli, usava rivelare agli eletti - spesso prima di esigere da loro la sottomissione all'apostasia mistica" - la sua versione del "mistero della divinità". Secondo tale versione il "Dio d'Israele" non era la prima causa di Ein-Sof, bensì "una seconda causa, dimorante nella Sefirah Tiferet", che si manifestava cioè tramite questa Sefirah pur non identificandosi con essa. I due punti principali di questa dottrina che ebbe un'importanza cruciale nei successivi sviluppi dello Shabbateanismo, erano: 1) La distinzione tra la prima causa e il Dio d'Israele che - e questa tesi venne sostenuta in versioni diverse dagli esponenti più radicali del movimento - sottintendeva che la prima causa non esercita la provvidenza sulla Creazione, e che questa è esercitata solo dal Dio d'Israele, il quale venne posto in essere solo dopo l'atto dello Zimzum: questa dottrina suscitò una particolare avversione in campo ortodosso e fu considerata estremamente pericolosa ed eretica. 2) Il carattere nettamente gnostico della divisione, benché con la differenza che la valutazione religiosa dei due elementi di questo idealismo è invertita: gli gnostici del II secolo consideravano il Dio occulto come il vero Dio, e ritenevano il "Dio degli ebrei" un essere inferiore e addirittura detestabile. Zevi, Nathan e Cardozo, invece, capovolsero l'ordine dei valori: il Dio d'Israele, sebbene emanato dalla prima causa, era il vero Dio della religione, mentre la prima causa era essenzialmente irrilevante dal punto di vista religioso. Qualche tempo prima di morire, Shabbetai Zevi dettò una versione più lunga di questa dottrina a uno dei suoi dotti visitatori, o almeno l'indusse a scriverla. Il testo, in seguito conosciuto come Raza di-Meheimanuta ("Il mistero della Vera Fede"), istituiva una sorta di trinità cabalistica, chiamata in termini zoharici "i tre legami [o nodi] della fede". Consisteva dell'Antico Santissimo (Attika kaddisha), il Re Santissimo (Malka kaddisha), chiamato anche il Dio d'Israele, e la sua Shekhinah. Non vi erano riferimenti al Messia e al suo rango, o alla sua relazione con queste ipostasi. Tale dottrina differiva considerevolmente dal sistema sviluppato in precedenza da Nathan di Gaza nel suo Sefer Beri ah ("Libro della Creazione"). Entrambi i testi ebbero una profonda influenza sulla dottrina shabbatea dei tempi successivi, e qualche eco si sente negli inni cantati dai settari di Salonicco pervenuti fino a noi. Numerose lettere degli ultimi anni di Shabbetai Zevi attestano che egli continuò a credere in se stesso, almeno durante i periodi d'illuminazione. La sua ultima lettera, scritta circa sei settimane prima della morte, chiede agli amici della comunità ebraica più vicina, a Berat in Albania, di inviargli un libro di preghiere per il Capodanno e il Giorno dell'Espiazione. Morì improvvisamente due mesi dopo il suo cinquantesimo compleanno, nel Giorno dell'Espiazione, 17 settembre 1676. Nathan propagò l'idea che la morte di Shabbetai Zevi era solo un "occultamento" e che in realtà egli era asceso nelle "luci superne" ed era stato da queste assorbito. Una simile teoria d'apoteosi era in linea con le precedenti speculazioni di Nathan sulla deificazione graduale del Messia; ma lasciava aperta una questione: chi avrebbe rappresentato il Messia sulla Terra? Lo stesso Nathan morì poco dopo, 1'11 gennaio 1680, a Skoplje in Macedonia. Durante l'anno precedente uno dei suoi discepoli, Israel Hazzan di Kastoria, scrisse lunghe omelie su alcuni salmi, rispecchiando lo stato d'animo del circolo più vicino a Shabbetai Zevi e la costruzione graduale di una dottrina eretica e settaria. La Cabala shabbatea Poiché Shabbetai Zevi non era un pensatore sistematico e parlava soprattutto per allusioni e metafore, Nathan di Gaza deve essere considerato il principale creatore di questo sistema piuttosto complesso, che combinava una nuova versione della Cabala lurianica con idee originali circa la posizione del Messia in questo nuovo ordine. Le sue idee ebbero una vasta diffusione e la loro influenza si può notare in molti trattati cabalistici, in apparenza ortodossi, apparsi nelle due generazioni successive. Nathan accetta la dottrina lurianica dello Zimzum (vedasi p. 133), ma aggiunge uno strato nuovo e addirittura più profondo alla sua concezione della Divinità. Fin dall'inizio vi sono in Ein-Sof due tipi di luce o aspetti - che potrebbero venire chiamati addirittura "attributi" in senso spinoziano la "luce pensante" e la "luce senza pensiero". La prima comprende tutto ciò che è concentrato sulla finalità della creazione. Ma nell'infinita ricchezza di Ein-Sof vi sono forze, o principi, che non sono rivolte verso la creazione, e il cui unico scopo è di rimanere ciò che sono e di restare dove sono. Sono "senza pensiero" nel senso che sono prive di ogni idea rivolta alla creazione. L'atto di zimzum, che avvenne per creare un cosmo, ebbe luogo solo nella "luce pensante". Con questo atto fu creata, per la luce pensante, la possibilità di realizzare il suo pensiero, di proiettarlo nello spazio primordiale, il tehiru, e di erigervi le strutture della creazione. Ma quando questa luce si ritrasse, rimane nel tehiru la luce priva di pensiero, che non aveva preso parte alla creazione e, per sua stessa natura, resisteva a ogni mutamento creativo. Nella dialettica della creazione, quindi, divenne una forza attivamente ostile e distruttiva. Ciò che viene chiamato kelippah, la potenza del male, in ultima analisi ha le sue radici in questa luce non creativa nello stesso Dio. Il dualismo di forma e materia assume un aspetto nuovo: entrambe hanno la loro base in Ein-Sof. La luce senza pensiero non è malefica in se stessa, ma assume tale aspetto perché si oppone all'esistenza di qualunque cosa che non sia Ein-Sof e perciò è decisa a distruggere le strutture prodotte dalla luce pensante. Il tehiru, che è riempito dalla luce priva di pensiero, mescolata a qualche residuo della luce pensante rimasta anche dopo lo zimzum, è chiamato golem, la materia informe primordiale. L'intero processo della creazione, quindi, procede attraverso una dialettica tra le due luci; in altre parole, attraverso una dialettica radicata nell'essere stesso di Ein-Sof. Quando, dopo lo zimzum, la luce pensante riaffluì in linea retta (kav hayosher) nel tehiru, avviandovi processi molti simili, ma non identici, a quelli descritti nella Cabala lurianica, penetrò soltanto la metà superiore dello spazio primordiale come se sopraffacesse la luce priva di pensiero e la trasformasse, costruendo così il mondo del suo pensiero originale. Ma non raggiunse la metà inferiore del tehiru, descritta come "il profondo del grande abisso". Tutte le affermazioni dell'ontologia lurianica e la dottrina della restaurazione cosmica o tikkun, che Israele deve realizzare con la forza della Torah, si riferiscono solo alla parte superiore del tehiru. La parte inferiore persiste nella sua condizione informe e non strutturata fino all'avvento del Messia, il solo che possa renderla perfetta, operandone la penetrazione e la trasformazione mediante la luce pensante. In effetti anche le luci prive di pensiero costruiscono loro strutture, i mondi demoniaci delle kelippot il cui solo intento è distruggere ciò che è stato compiuto dalla luce pensante. Tali forze sono chiamate "i serpenti dimoranti nel grande abisso". Le potenze sataniche, chiamate nello Zohar "sitra ahra" ("l'altra parte"), non sono altro che l'altra parte dello stesso Ein-Sof nella misura in cui, a causa della sua stessa resistenza, fu coinvolto nel processo della creazione. Nathan sviluppò una teoria nuova sui processi che ebbero luogo nel tehiru prima ancora che vi penetrasse il raggio proveniente da Ein-Sof, causati dall'interazione tra il residuo della luce pensante e le forze del golem. Tali processi produssero modi dell'essere connessi alle prime configurazioni delle lettere che avrebbero formato la Torah e la scrittura cosmica. Solo in uno stadio successivo, dopo che la linea retta si irradiò e penetrò il tehiru, queste prime strutture, chiamate l'opera della creazione primordiale (ma'aseh bereshit), si trasformarono nelle strutture più sostanziali (ma'aseh merkauah). Tutti i processi lurianici connessi alla rottura dei vasi e al tikkun venivano ora adattati alla dialettica delle due luci. In questa concezione della creazione, la figura del Messia ha fin dall'inizio un ruolo centrale. Sin dallo zimzum l'anima del Messia era stata sommersa nella metà inferiore del tehiru; cioè fin dall'inizio del tempo era nel regno delle kelippot, poiché era una delle scintille della luce pensante che erano rimaste nel tehiru e forse erano state in qualche modo catturate dalle kelippot. Quest'anima, dominata dall'influsso della luce priva di pensiero e dall'asservimento al suo dominio, ha continuato a lottare sin dall'inizio del mondo, tra sofferenze indescrivibili, per liberarsi e intraprendere la sua grande missione: aprire la parte inferiore del tehiru alla penetrazione della luce pensante e apportare la redenzione e il tikkun alle kelippot. Con la loro trasformazione finale si produrrebbero un equilibrio e un'unità utopistica tra i due aspetti di Ein-Sof. La "linea retta" non può penetrare nell'abisso prima che il Messia sia riuscito a sottrarsi alla dominazione delle kelippot. Egli è essenzialmente diverso da tutte le anime che prendono parte ai processi del tikkun. Anzi, egli non è mai stato sottoposto all'autorità della Torah, che è lo strumento mistico usato dal potere della luce pensante e dalle anime ad essa connesse. Egli rappresenta qualcosa di assolutamente nuovo, un'autorità che non è soggetta alle leggi vincolanti nello stato di esilio cosmico e storico. Non può essere misurato secondo i comuni concetti del bene e del male, e deve agire secondo la propria legge, che può divenire la legge utopistica di un mondo redento. La sua preistoria e il suo speciale compito spiegano il suo comportamento dopo che egli si è liberato dalla prigione della kelippah. Questa dottrina consentiva a Nathan di difendere ognuno degli "strani atti" del Messia, inclusi l'apostasia e gli eccessi antinomistici. Egli è la controparte mistica della giovenca rossa (Num.19): purifica l'impuro, ma nel processo diviene impuro egli stesso. È il "serpente sacro" che doma i serpenti dell'abisso, poiché il valore numerico della parola ebraica mashi'ah è uguale a quello di nahash. In un certo senso, ogni anima è composta delle due luci, e per sua natura è legata prevalentemente alla luce priva di pensiero che mira alla distruzione, e la lotta tra le due luci si ripete continuamente in ogni anima. Ma le anime sante sono aiutate dalla legge della Torah, mentre il Messia è abbandonato completamente a se stesso. Queste idee vennero sviluppate nella nuova Cabala eretica in grande dettaglio e in versioni diverse che rivelano una strana abilità nel formulare credenze dogmatiche paradossali. Queste ultime rispondevano esattamente alla situazione particolare di coloro che credevano nella missione di un Messia apostata, e la considerevole forza dialettica con cui venivano presentate non mancava di impressionare le menti suscettibili. La combinazione di immagini mitologiche e di argomentazioni dialettiche accrebbe l'attrazione esercitata dagli scritti di Nathan. Il movimento shabbateo, 1680-1700 Al di fuori dei circoli dei credenti, la morte di Shabbetai Zevi passò inosservata per il mondo ebraico. Tra i credenti produsse profondi impulsi d'introspezione: alcuni dei suoi seguaci, sembra, abbandonarono immediatamente il campo dopo la sua fine. Persino suo fratello Elijah, che l'aveva raggiunto ad Adrianopoli e si era convertito all'Islam, tornò a Smirne e al Giudaismo. Le attività dei gruppi shabbatei erano incentrate soprattutto in tre paesi, Turchia, Italia e Polonia (soprattutto in Lituania), dove apparvero capi vigorosi, vari profeti e aspiranti alla successione di Shabbetai Zevi. Sebbene vi fossero molti credenti in altre parti della Diaspora, come il Kurdistan e il Marocco, questi tre centri furono i più importanti. I gruppi più numerosi in Turchia si trovavano a Salonicco, Smirne e Costantinopoli, ma in quasi tutti i Balcani sopravvissero comunità shabbatee, e non di rado vi aderivano segretamente anche membri dei tribunali rabbinici. A Costantinopoli, il loro capo era Abraham Yakhini, che morì nel 1682. Un gruppo di rabbini e di cabalisti incoraggiava i credenti meno colti a Smirne, sebbene gli ortodossi riacquistassero anche là il controllo. Dal 1675 al 1680 Cardozo (vedasi p.398) occupò il posto di maggior rilievo tra gli shabbatei di Smirne, dopo essere stato costretto a lasciare Tripoli intorno al 1673, e successivamente anche Tunisi e Livorno. A Smirne egli trovò molti seguaci, i più importanti dei quali erano il giovane Rabbi Elijah b. Solomon Abraham ha-Kohen Ittamari (m. 1727), che divenne uno degli scrittori e predicatori morali più prolifici delle due generazioni successive e non abbandonò mai, a quanto sembra, le sue convinzioni fondamentali, ed il cantore Daniel b. Israel Bonafoux, che soprattutto nei suoi anni più tardi asseriva di possedere poteri medianici. In quegli anni Cardozo incominciò una prolifica produzione letteraria, componendo numerosi libri e trattati nei quali espose la sua versione della teologia shabbatea. A partire da Boker A1rraham (1672), egli propagò la teoria che esista una differenza di principio tra la prima causa, che è il Dio dei filosofi e dei pagani, e il Dio d'Israele, che si rivelò ai Patriarchi e al popolo d'Israele. La confusione tra i due è il più grave errore di Israele nell'era dell'esilio. Il popolo era stato particolarmente fuorviato dai filosofi del Giudaismo, Saadiah Gaon, Maimonide e tutti gli altri. Solo i maestri del Talmud e i cabalisti avevano mantenuto segretamente viva la fiamma della vera religione. Con l'approssimarsi della redenzione, alcune anime elette avrebbero afferrato il vero significato della fede di Israele, e cioè la rivelazione contrapposta alla filosofia, e il Messia (come era profetizzato da un detto midrashico) avrebbe raggiunto la conoscenza del vero Dio, il "mistero della Divinità" di Shabbetai Zevi, grazie ai propri sforzi razionali. Nel frattempo, questa concezione paradossale poteva essere suffragata da una vera interpretazione dei testi razionali, anche se i rabbini ciechi la consideravano un'eresia. Cardozo non si servì delle idee nuove della Cabala di Nathan, ma costruì un sistema tutto suo che aveva una considerevole potenza dialettica. In quasi tutti i suoi scritti evitò la questione della missione di Shabbetai Zevi, sebbene la difendesse in parecchie epistole scritte in periodi diversi della sua vita. Per un considerevole numero di anni almeno, egli vide se stesso come il Messia figlio di Joseph che, quale rivelatore della vera fede e vittima della persecuzione dei rabbini, doveva precedere l'avvento finale di Shabbetai Zevi, dopo il quale tutti i paradossi del credo shabbateo si sarebbero risolti. Tra il 1680 e il 1697, Cardozo visse a Costantinopoli, Rodosto e Adrianopoli, suscitando molte controversie con i suoi insegnamenti e causando grandi inquietudini con le sue profezie sull'imminente fine messianica, specialmente nel 1682. Alla fine fu costretto a lasciare quei luoghi e trascorse gli ultimi anni della sua vita soprattutto a Candia (Creta), Chio e, dopo aver cercato invano di stabilirsi a Gerusalemme, in Egitto. Sostenitore della stretta aderenza alla tradizione rabbinica fino a quando non fosse ritornato Shabbetai Zevi, lottò coerentemente contro le tendenze antinomistiche, sebbene anch'egli prevedesse un completo cambiamento nella manifestazione della Torah e nella sua pratica al tempo della redenzione. L'influenza di Cardozo fu seconda solo a quella di Nathan; i suoi scritti furono copiati in molti paesi, ed egli mantenne stretti rapporti con i capi shabbatei un po' dovunque. Molte delle sue polemiche erano rivolte contro Samuel Primo, da una parte, e dall'altra contro gli shabbatei radicali di Salonicco. Primo (m. 1708), che divenne il rabbino capo di Adrianopoli, si opponeva a ogni aperta attività shabbatea e rivelava la sua ferma fede e le sue idee eretiche solo in conclavi segreti. A Salonicco la situazione era diversa. Il numero dei credenti era ancora ingente e la famiglia dell'ultima moglie di Shabbetai Zevi, capeggiata dal padre, Joseph Filosof e dal fratello di lei, Jacob Querido, metteva apertamente in mostra le proprie convinzioni. Nathan aveva seguaci importanti tra i rabbini, inclusi vari predicatori rispettatissimi e persino autorità halakhiche. Il continuo stato di tumulto, soprattutto dopo la morte di Nathan, produsse una nuova ondata di esaltazione e di nuove rivelazioni. Le visioni di Shabbetai Zevi erano assai comuni in molti circoli di credenti; ma a Salonicco, nel 1683, portarono all'apostasia collettiva di circa trecento famiglie, che consideravano loro dovere seguire le orme del Messia, in contrapposizione con quegli shabbatei che, come Cardozo, ritenevano che gli atti del Messia non potessero venire imitati o seguiti da nessun altro. Insieme ai primi apostati tra i contemporanei di Shabbetai Zevi, il nuovo gruppo, guidato da Filosof e Solomon Florentin, formò la setta dei doenmeh, marranos volontari, che professavano e praticavano l'Islamismo in pubblico, ma in segreto aderivano a un miscuglio di Giudaismo tradizionale ed eretico. Si sposavano soltanto tra di loro, e ben presto furono identificati come un gruppo separato tanto dai turchi quanto dagli ebrei; si svilupparono seguendo linee proprie e formarono tre sottosette vedasi p. 327). Tutti i loro gruppi avevano in comune un certo antinomismo, ma questa tendenza divenne prominente nella sottosetta guidata da Baruchiah Russo (Osman Baba) che, nei primi anni del XVIII secolo, creò un altro scisma insegnando che la nuova Torah spirituale e messianica (Torah de-Azilut) comportava una completa inversione dei valori, simboleggiata dalla trasformazione delle 36 proibizioni della Torah chiamate keritot (cioè punibili con lo sradicamento dell'anima e l'annientamento) in comandi positivi. Questo includeva tutte le unioni sessuali proibite e l'incesto. Sembra che questo gruppo sviluppasse anche la dottrina della divinità di Shabbetai Zevi e più tardi dello stesso Baruchiah, che morì nel 1721. Questa dottrina dell'incarnazione venne in seguito attribuita erroneamente a tutti gli shabbatei e creò molta confusione nelle notizie sul loro conto. Il gruppo di Baruchiah divenne l'ala più radicale della clandestinità shabbatea. La maggior parte dei credenti, tuttavia, non seguì l'esempio dei doenmeh e rimase nell'ovile ebraico, persino a Salonicco, dove essi scomparvero solo dopo parecchio tempo. Parecchi illustri rabbini di Salonicco e di Smirne, nel XVIII secolo, come Joseph b. David, Meir Bikayam e Abraham Miranda, avevano ancora segrete simpatie e per gli insegnamenti e le credenze degli shabbatei. Vari dotti che studiarono con Nathan o con i suoi allievi a Salonicco, come Solomon Ayllon ed Elijah Mojajon, che in seguito divennero rabbini di comunità importanti come Amsterdam Londra e Ancona, diffusero gli insegnamenti dell'ala moderata dello Shabbateanismo, che aderiva al Giudaismo e anzi tendeva addirittura verso un pietismo eccessivo. Tra il 1680 e il 1740 numerosi emissari della Palestina specialmente di Hehron e .Safed. furono ' contaminati" dallo Shabbateanismo e funsero da anelli di congiunzione tra i vari gruppi. Il secondo centro fu in Italia, dapprima a Livorno, dove furono attivi Moses Pinheiro, Meir Rofe, Samuel de Paz e Judah Sharaf (verso la fine della sua vita), e più tardi a Modena. Qui Abraham Rovigo fu appassionatamente devoto allo Shabbateanismo del tipo più nettamente pietistico e, poiché era uno studioso e un cabalista di vasta fama oltre che appartenente a una famiglia ricchissima, divenne l'uomo cui si rivolgevano tutti i "credenti", soprattutto i visitatori che passavano l'Italia provenienti dalla Terra d'Israele, dalla Polonia e dai Balcani. Le sue convinzioni erano condivise dal suo intimo amico Benjamin b. Eliezer ha-Kohen, il rabbino di Reggio, da Hayyim Segré di Vercelli e da altri. Essi osservavano con attenzione ogni segno di un nuovo impulso e si scambiavano le notizie ricevute da visitatori e corrispondenti. Erano piuttosto comuni, in quel tempo, le rivelazioni di maggidim celesti, che confermavano il rango superno di Shabbetai Zevi e la legittimità della sua missione, e aggiungevano inoltre nuove interpretazioni dello Zohar e di altro materiale cabalistico. Le carte di Rovigo, molte delle quali sono pervenute fino a noi, mostrano la vasta distribuzione della propaganda shabbatea tra il 1680 e il 1700. Benjamin Kohen - un rabbino che ostentava nella sua casa un ritratto di Shabbetai Zevi! - ebbe addirittura l'ardire di pubblicare un commento sulle Lamentazioni che riprendeva dettagliatamente l'aforisma di Nathan che nell'era messianica questo libro biblico sarebbe stato letto come una raccolta d'inni di gioia (Allon Bakhut, Venezia 1712). Baruch di Arezzo, appartenente al gruppo di Rovigo, compose nel 1682-85, probabilmente a Modena, un'agiografia di Shabbetai Zevi, Zikhron le-Veit Yisrael, la più vecchia biografia del genere che ci sia pervenuta. In questi circoli gli scritti di Nathan venivano copiati e studiati ardentemente, e gli illuminati che affermavano di aver ricevuto l'ispirazione divina, come Issachar Baer Perlhefter e Mordecai (Mokhi'ah) Eisenstadt di Praga (tra il 1677 e il 1681) e più tardi (1696-1701) Mordecai Ashkenazi di Zholkva (Zolkiev), furono accolti a braccia aperte e appoggiati da Rovigo. Quando Rovigo realizzò il suo progetto di stabilirsi a Gerusalemme nel 1701, la maggioranza della yeshivah da lui fondata in quella città consistette di shabbatei. Prima di lasciare l'Europa, Rovigo si recò, in compagnia del suo discepolo Mordecai Ashkenazi, a Fuerth, dove fece stampare un voluminoso in-folio, Eshal Avraham, scritto dallo stesso Mordecai e basato sulla nuova interpretazione dello Zohar da lui ricevuta dal cielo. Essendo devoti seguaci della tradizione rabbinica, gli shabbatei come Rovigo si discostavano dalla pratica halakhica solo in quanto celebravano come una festività il 9 di Av. E anche questa pratica veniva talvolta abbandonata. In generale, al di fuori della cerchia piuttosto ristretta dei doenmeh, i seguaci di Shabbetai Zevi non differivano molto dagli altri ebrei nel loro atteggiamento positivo nei confronti della pratica halakhica, e le differenze tra loro e l'"ortodossia" restavano nel campo della speculazione teologica. Quest'ultima, senza dubbio, aveva per la coscienza dei credenti implicazioni che non possono venire sottovalutate. La questione della posizione della Torah nell'era messianica, che era già oggetto di serie discussioni nella cerchia di Shabbetai Zevi e negli scritti di Cardozo, soprattutto nel suo Magen Auraham (1668), non poteva rimanere astratta. Ma nulla indica che prima del 1700 lo Shabbateanismo fosse caratterizzato da pratiche eretiche. Questo vale anche per ciò che riguarda il movimento tra gli ebrei ashkenazi. Quasi subito dopo la morte di Shabbetai Zevi ci si chiese se egli era stato il sofferente Messia figlio di Joseph, anziché il redentore finale. A Praga, nel 1677, questa posizione fu assunta da Mordecai Eisenstadt, un predicatore ascetico che nei cinque anni seguenti attirò un vasto seguito. Insieme al fratello, che era probabilmente Meir Eisenstadt, divenuto in seguito un rabbino famoso, viaggiò in Boemia, nella Germania meridionale e nell'Italia del nord, esortando a non perdere la fede nella redenzione imminente. Dotti rabbini come Baer Perlhefter di Praga, che trascorse parecchi anni a Modena, sostennero le sue affermazioni, anche se più tardi Baer abbandonò il suo campo e forse anche lo Shabbateanismo. Anche là dove Shabbetai Zevi era onorato come il vero Messia, come avveniva in molti gruppi, non mancavano gli aspiranti al ruolo del Messia figlio di Joseph che avrebbe riempito l'interregno tra la "prima manifestazione" di Shabbetai Zevi e la seconda. Già durante l'esilio di quest'ultimo in Albania era apparso un pretendente nella persona di Joseph ibn Zur di Meknès (Marocco), un ignorante divenuto profeta che gettò molte comunità nella più grande agitazione preannunciando la redenzione finale per la Pasqua del 1675. La sua morte improvvisa pose fine a tali inquietudini, ma non alla profonda fede in Shabbetai Zevi tra le comunità del Marocco. Più duratura fu l'impressione creata da un altro profeta di questo tipo a Vilna, l'ex argentiere Joshua Heshel b. Joseph, chiamato generalmente Heshel Zoref (vedasi p. 454). Costui, che in origine era un artigiano illetterato, "rinacque" durante i grandi sovvertimenti del 1666 e per molti anni fu considerato il massimo profeta del movimento shabbateo in Polonia. Per più di trent'anni egli compose il Sefer ha-Zoref, diviso in cinque parti che avrebbe dovuto rappresentare una sorta di futura Torah del Messia. In effetti, le sue migliaia di pagine basate su spiegazioni mistiche e numerologiche di Shema Yisrael proclamavano che lui stesso era il Messia figlio di Joseph, e Shabbetai Z. evi il Messia figlio di David. La posizione del libro nei confronti della tradizione rabbinica era completamente conservatrice. Numerose parti di queste rivelazioni sono giunte fino a noi: alcune, piuttosto stranamente, finirono nelle mani di Israel b. Eliezer Ba'al Shem Tov, il fondatore del successivo Hasidismo, e vennero tenute in grande stima da lui e dalla sua cerchia. Nei suoi ultimi anni di vita, Heshel Zoref si trasferì a Cracovia e incoraggiò il nuovo movimento del Hasidismo shabbateo. Un altro profeta di questo tipo, un ex distillatore d'acquavite chiamato Zadok, apparve a Grodno nel 1694-96. La sensazione creata da questi uomini si ripercosse fino in Italia, e Rovigo e i suoi amici raccolsero scrupolosamente le testimonianze su questi eventi, fornite dai visitatori polacchi. Uno di costoro fu lo shabbateo Hayyim b. Solomon, conosciuto come Hayyim Malakh (vedasi p. 431), uomo dottissimo e, a quanto sembra dotato di una poderosa personalità. Nel 1691 egli studiò in Italia gli scritti di Nathan che non erano ancora accessibili in Polonia, e dopo il suo ritorno ne diffuse gli insegnamenti tra i rabbini di quella terra. Più tardi si recò ad Adrianopoli e, sotto l'influenza di Primo, lasciò i moderati e divenne portavoce di un ramo assai più radicale del movimento. Si alleò a Judah Hasid di Shidlov, un famoso predicatore penitenziale e apparentemente capo dei moderati. Tra il 1696 e il 1700 essi divennero gli animatori della "santa società di Rabbi Judah Hasid", un gruppo composto da molte centmaia di persone, in maggioranza probabilmente shabbatee, che praticavano un estremo ascetismo e si preparavano a emigrare in Palestina per attendere la seconda manifestazione di Shabbetai Zevi. Vari loro gruppi passarono per molte comunità della Polonia e della Germania, destando grande entusiasmo. Anche se non si dichiararono mai apertamente shabbatei, restano ben pochi dubbi al riguardo, Molti rabbini delle grandi comunità, che erano consci del vero carattere di questi hasidim, tentarono invano di arrestarne la propaganda. Alla fine del 1698 si tenne a Mikulov (Nikolsburg, in Moravia) un concilio dei capi shabbatei dei hasidim, cui presenziò Heshel Zoref. Fine parte 2. Sholem. La cabala. Parte terza. Lo Shabbateanismo nel XVIII secolo e sua disintegrazione. L'aliyah del Hasidismo a Gerusalemme nel 1700 rappresentò un culmine dell'attività e delle attese degli shabbatei, e nella grande delusione per il suo fallimento, come dopo il precedente fallimento di Shabbetai Zevi, parecchi dei suoi seguaci abbracciarono il Cristianesimo o l'Islamismo. Judah Hasid morì quasi subito dopo il suo arrivo a Gerusalemme nell'ottobre 1700, e la situazione esistente a Gerusalemme frantumò il movimento. Scoppiarono dissensi tra i moderati, alcuni dei quali seppellirono completamente le loro convinzioni shabbatee, e gli elementi più radicali capeggiati da Malakh. Questi fu espulso insieme alla sua fazione, ma anche i moderati non ebbero la possibilità di rimanere in Terra Santa e quasi tutti ritornarono in Germania, Austria o Polonia. Uno degli shabbatei più influenti che rimasero fu Jacob Wilna, un cabalista di grande reputazione. Molti credenti avevano proclamato che il 1706 sarebbe stato l'anno del ritorno di Shabbetai Zevi, e la delusione indebolì un movimento che aveva già perduto il suo slancio attivo. Fu costretto alla clandestinità totale, un processo affrettato dal diffondersi delle voci sugli insegnamenti antinomistici e nichilisti di Baruchiah. Gli shabbatei, anche se a torto, furono sempre più identificati con questa ala estremista, i cui seguaci non si accontentavano di teorie mistiche e di esperienze visionarie, ma ne traevano conseguenze circa la loro adesione personale alla Legge. Malakh si recò a Salonicco, poi diffuse il vangelo dell'antinomismo segreto in Podolia, dove trovò un terreno fertile soprattutto nelle comunità più piccole. Le informazioni relative al resto dell'Europa non sono sufficienti a permettere una chiara differenziazione tra le varie fazioni del movimento clandestino. È evidente, tuttavia, che lo slogan antinomista proclamato dall'ala radicale, per cui "l'annullamento della Torah è il suo vero compimento", e come il grano che muore nella terra, le azioni dell'uomo devono in qualche modo "imputridire" per dare il frutto della redenzione, esercitava un forte ascendente emotivo anche su alcuni talmudisti e cabalisti, anche se, essenzialmente, rappresentava una rivolta antirabbinica nell'ambito del Giudaismo. Era logico che questo allarmasse le autorità rabbiniche, che consideravano bastardi i figli di questi settari, e quindi non ammissibili nella comunità. D'altra parte, vi sono le prove che non pochi dei più influenti predicatori morali e autori di testi di letteratura morale di tendenza ascetica radicale erano segretamente shabbatei dell'ala moderata e hasidica. Molti dei più influenti "libri musar" di questo periodo appartengono a tale categoria, come Shevet Musar di Elijah Kohen Ittamari (1712), Tohorat ha-Kodesh di un autore anonimo che scrisse nel primo decennio del secolo (1717) e Shem Ya'akou di Jacob Segal di Zlatova (1716). Alcuni cabalisti che scrissero anche trattati morali in yiddish appartenevano egualmente a questo campo, come Zevi Hirsch b. Jerahmeel Chotsh, e Jehiel Michael Epstein. La propaganda sbabbatea si polarizzò così intorno a due centri diversi. I moderati che si conformavano alla pratica tradizionale o addirittura la esageravano, poterono produrre una letteratura che, evitando ogni aperta proclamazione della loro fede messianica, raggiungeva un vasto pubblico ignaro delle convinzioni degli autori. Furono pubblicati non pochi libri omiletici, morali, cabalistici e liturgici i cui autori alludevano in modo indiretto alla loro fede segreta. I radicali, che divennero particolarmente attivi tra il 1715 e il 1725 dopo che Baruchiah era stato proclamato "Senor Santo" nonché un'incarnazione della versione shabbatea del "Dio di Israele", dovettero agire con maggiore cautela. Essi operavano per mezzo di emissari inviati da Salonicco e dalla Podolia e facevano circolare manoscritti e lettere che esponevano la loro "nuova Cabala". I circoli polacchi conosciuti come hasidim prima dell'evento di Ba'al Shem Tov, che praticavano forme estreme di pietà ascetica, avevano un forte elemento di Shabbateanismo, soprattutto in Podolia. In Moravia, Judah b. Jacob, chiamato comunemente Loebele Prossnitz (vedasi a p. 443), causò molta agitazione dopo il suo "risveglio" come profeta shabbateo, viaggiando tra le comunità della Moravia e della Slesia e acquisendo molti seguaci, alcuni dei quali perseverarono anche quando le sue pratiche "magiche" fraudolente furono smascherate ed egli venne messo al bando (1703-06). Meir Eisenstadt che, come molti altri rabbini eminenti, aveva avuto simpatia per il movimento, e a quel tempo officiava a Prossnitz, lo abbandonò e si schierò contro di lui, ma Prossnitz rimase la sede di un cospicuo gruppo shabbateo per tutto il XVIII secolo. Un poco più tardi, tra il 1708 e il 1725, un altro centro dello Shabbateanismo si cristallizzò a Mannheim, dove alcuni membri della società di Judah Hasid, incluso suo genero Isaiah Hasid di Zbarazh, trovarono rifugio nel nuovo bet ha-midrash. All'incirca nello stesso periodo Elijah Taragon, uno degli allievi di Cardozo, tentò invano di pubblicare ad Amsterdam il Boker Auraham del suo maestro (1712). Mentre tutti questi sviluppi avevano luogo in un'atmosfera crepuscolare o clandestina, senza destare molta attenzione, scoppiò un grande scandalo pubblico quando un altro illuminato shabbateo, questa volta un uomo molto dotto, riuscì a pubblicare l'unico grosso testo di teologia shabbatea stampato nel XVIII secolo. Nehemiah Hiyya Hayon (vedasi p. 414) era stato educato a Gerusalemme, era stato rabbino nella sua città natale, ed era stato in contatto con i settari di Salonicco e con il circolo di Cardozo prima di fare ritorno in Erez Israel. Là compose un complesso doppio commento su Raza di-Meheimanuta, l'ultima esposizione di Shabbetai Zevi del mistero della Divinità, che Hayon sosteneva di aver ricevuto da un angelo o, in altre occasioni, di aver trovato in una copia dello Zohar. Costretto a lasciare Erez Israel per le sue attività shabbatee, per parecchi anni soggiornò in Turchia, dove si fece molti amici e molti nemici; e nel 1710 arrivò a Venezia, forse di sua iniziativa, forse come emissario. Con l'appoggio di alcuni simpatizzanti segreti, ma atteggiandosi di solito a cabalista ortodosso, riuscì a ottenere dalle autorità rabbiniche l'autorizzazione a pubblicare i suoi tre libri: Raza di-Yihuda (Venezia, 1711), Oz le-Elohim (Berlino, 1713) e Divrei Nehemyah (ivi, 1713). Di questi, il principale fu Oz le-Elohim, che conteneva i commenti già menzionati sul testo di Shabbetai Zevi, del quale cambiò il titolo in Meheimanuta de-Kholla. Tra le polemiche contro Cardozo, egli espose la sua versione della dottrina relativa ai "tre legami [o nodi] della fede", la trinità shabbatea di Ein-Sof, il Dio d'Israele e la Shekhinah. Evitò scrupolosamente di collegarsi in alcun modo con Shabbetai Zevi, il cui nome non figura in nessuno dei suoi libri, benché Divrei Nehemyah contenga un'omelia estremamente ambigua, che attacca e nel contempo difende coloro che si erano fatti apostati per amore del Dio d'Israele, cioè i doenmeh. Fu solo quando, verso la fine del 1713, si recò ad Amsterdam, dove godette della protezione di Solomon Ayllon, che era stato un aderente segreto dello Shabbateanismo, il carattere eretico dei suoi libri, in particolare di Oz le-Elohim, fu riconosciuto da Zevi Hirsch Ashkenazi, il rabbino della comunità ashkenazi di Amsterdam. Nella violenta diatriba che seguì tra i sefarditi di Amsterdam e i rabbini ashkenazi, e che produsse una vivace letteratura polemica, la teologia shabbatea fu discussa in pubblico per la prima volta, e venne attaccata da rabbini come David Nieto, Joseph Ergas e Moses Hagiz, e da una schiera di altri partecipanti alla lotta contro l'eresia. Hayon difese energicamente la sua dottrina "cabalistica", negandone recisamente ma invano il carattere shabbateo. Circa 120 lettere relative a questa controversia furono pubblicate in varie fonti. Numerosi rabbini, sospettati di essere segretamente seguaci dello Shabbateanismo, rifiutarono di associarsi ai bandi pronunciati contro Hayon il quale, alla fine del 1715, fu costretto a lasciare l'Europa. Il suo tentativo di ottenere l'appoggio dei rabbini di Turchia non ebbe molto successo. Quando tornò in Europa nel 1725, il suo arrivo coincise con un altro scandalo shabbateo, e questo annullò i suoi sforzi. Lo scandalo era legato alla crescente propaganda dei seguaci estremisti di Baruchiah, che avevano messo saldamente piede in Podolia, in Moravia e soprattutto nella yeshivah di Praga, dove il giovane e già famoso Jonathan Eybeschuetz (vedasi a p. 407) era generalmente considerato il loro maggiore sostenitore. A partire dal 1724 vennero diffusi da Praga numerosi manoscritti che contenevano spiegazioni cabalistiche, presentate in un linguaggio oscuro e ambiguo, ma che in sostanza difendevano la dottrina del "Dio d'Israele", la sua presenza in Tiferet e il suo intimo legame con il Messia, senza tuttavia menzionare esplicitamente il suo carattere d'incarnazione divina. La testimonianza che indica in Eybeschuetz l'autore, particolarmente del manoscritto cabalistico ma senza dubbio eretico Va-Auo ha-Yom el ha-Ayin, è schiacciante. Quando questo e altri scritti shabbatei della setta di Baruchiah furono scoperti a Francoforte nel 1725 nel bagaglio di Moses Meir di Kamenka (Kamionka), un emissario shabbateo proveniente dalla Podolia e diretto a Mannheim, scoppiò un grande scandalo. Si scoprì tutta una rete di propaganda e di legami tra i numerosi gruppi, ma la reputazione di Eybeschuetz, considerato un genio dell'erudizione rabbinica, impedì che venissero prese misure a suo carico, soprattutto perché egli si pose alla testa di coloro che condannarono pubblicamente Shabbetai Zevi e i suoi settari in una dichiarazione di scomunica datata 16 settembre 1725. In molte altre comunità polacche, tedesche e austriache, simili proclami furono pubblicati a stampa: anch'essi chiedevano che quanti ne venissero a conoscenza denunciassero gli shabbatei clandestini alle autorità rabbiniche. L'atmosfera persecutoria indusse gli shabbatei rimasti a passare alla totale clandestinità per i trent'anni che seguirono, soprattutto in Polonia. Dopo questi eventi la figura di Jonathan Eybeschuetz rimase in penombra; e per la verità egli pone un difficile problema psicologico (come si può scoprire mediante uno studio dei testi e dei documenti), se debba essere ritenuto o no l'autore del manoscritto menzionato in precedenza. Quando, dopo una gloriosa carriera di grande maestro, predicatore e autorità rabbinica a Praga, Metz e Amburgo, nel 1751 si scoprì che parecchi amuleti da lui distribuiti a Metz e ad Amburgo-Altona erano di carattere shabbateo, vi fu un enorme scalpore che coinvolse moltissimi, in Germania, Austria e Polonia, in un'ardente controversia. Il suo principale avversario fu Jacob Emden, figlio del nemico di Hayon ad Amsterdam e infaticabile oppositore di tutti i gruppi e di tutti i personaggi shabbatei superstiti. I suoi numerosi scritti polemici, pubblicati tra il 1752 e il 1769 spesso erano esagerati, come nel caso di Moses Hayyim Luzzatto; ma contengono molte preziose informazioni sullo Shabbateanismo del XVIII secolo. La difesa degli amuleti fatta da Eybeschuetz fu molto debole e contraddittoria. Egli sostenne che il testo degli amuleti consisteva esclusivamente di mistici Nomi Sacri che avevano radici in libri cabalistici e che non potevano essere decifrati come un testo continuo. Un esame degli amuleti, tuttavia, dimostra il contrario. I crittogrammi usati erano diversi da un esemplare all'altro, ma contenevano sempre un'asserzione della missione messianica di Shabbetai Zevi e un riferimento alle concezioni shabbatee relative al "Dio d'Israele';. Gli shabbatei segreti dell'Europa centrale vedevano in Eybeschuetz il loro principale esponente, mentre gli ortodossi erano profondamente sconvolti dalla possibilità che un eminente rappresentante della spiritualità rabbinica e cabalistica avesse tendenze eretiche. Molti di loro rifiutarono di prendere in considerazione questa possibilità e rimasero schierati al suo fianco. La confusione era considerevole anche nel campo dei cabalisti ortodossi, che erano divisi a loro volta. La questione era complicata da fattori personali e non pertinenti; ma il conflitto dimostrò quanto fossero profondamente radicate le apprensioni per l'insediamento degli shabbatei in molte comunità. Questo viene posto in evidenza anche da numerose testimonianze di molte fonti, documentate tra il 1708 e il 1750, prima ancora che scoppiasse la controversia tra Eybeschuetz ed Emden. Gli scritti di Nathan di Gaza venivano tuttora studiati non soltanto in Turchia, ma anche in Marocco, in Italia e tra gli ashkenazim. Parecchi autori descrivono il metodo della propaganda shabbatea tra coloro che avevano una modesta conoscenza talmudica o non ne avevano affatto, ma che venivano indotti a studiare aggadah che i settari sapevano usare e spiegare secondo le loro concezioni. Questo metodo per attirare la gente e iniziarla a poco a poco ai principi dei settari fu usato per più di ottant'anni in Polonia, Moravia, Boemia e Germania. Una considerevole ambiguità era consentita dal diffuso principio eretico secondo il quale il vero credente non doveva apparire quale era in realtà e la dissimulazione era legittima in un periodo in cui la redenzione era avvenuta nel cuore segreto del mondo, ma non ancora nel regno della natura e della storia. Chiunque era autorizzato a smentire in pubblico le sue vere convinzioni per nascondere il fatto che conservava la "santa fede". Si arrivò al punto che un'opera contenente un sommario della teologia shabbatea, come Sha'arei Gan Eden di Jacob Koppel Lifschuetz, scritta nei primi anni nel XVIII secolo in Volhynia, era preceduta da una prefazione che denunciava violentemente l'eresia shabbatea! Questa doppiezza di comportamento finì per apparire come una caratteristica dei settari che, a partire dall'inizio del XVIII secolo, vennero chiamati in yiddish Shebsel o Shabsazviniks, con la connotazione di "ipocriti". È provato che numerosi uomini di grande sapere talmudico, e persino rabbini officianti, si univano a questi gruppi e trovavano possibile vivere in uno stato di grande tensione tra l'ortodossia esteriore e l'antinomismo interiore che distruggeva inevitabilmente l'unità della loro identità ebraica. In località come Praga, numerose famiglie rispettabili formavano un nucleo di credenti segreti, e vi sono le prove che in certi luoghi influenti ebrei appartenenti al tribunale proteggevano i settari o ne facevano parte. Molti degli shabbatei moravi avevano posizioni di notevole potere economico. Vi sono inoltre le prove dei riti segreti compiuti in questi gruppi, soprattutto in Podolia, dove i seguaci di Baruchiah erano concentrati in località come Buchach (Buczacz), Busk, Glinyany, Gorodenka, Zolkiew, Nadvornaya, Podgaitsy (Podhajce), Rogatin (Rohatin) e Satanov. L'ingestione del grasso proibito (helev) o gravi trasgressioni delle proibizioni sessuali erano considerati riti d'iniziazione. Da questi ambienti vennero cabalisti e Ba'alei Shem (vedasi a p. 310) di Podhajce che divennero famosi in Germania e in Inghilterra tra il 1748 e il 1780, come Hayyim Samuel Jacob Falk, il "Ba'al Shem di Londra", e Moses David Podheitser, stretto collaboratore di Eybeschuetz di Amburgo. L'accanita controversia sulle rivelazioni di Moses Hayyim Luzzatto di Padova, che ebbe inizio nel 1727, e le tendenze messianiche del suo gruppo furono al centro di una grande attenzione nei dieci anni che seguirono. Benché anche nei loro scritti segreti Luzzatto, Moses David Valle e i loro compagni ripudiassero le affermazioni di Shabbetai Zevi e dei suoi seguaci, essi erano senza dubbio profondamente influenzati da alcuni degli insegnamenti paradossali della Cabala shabbatea, specialmente quelli relativi alla preistoria metafisica dell'anima del Messia nel regno delle kelippot. Luzzatto espose queste idee in un modo che rimoveva gli elementi eretici ma che rifletteva comunque, anche nelle sue polemiche contro gli shabbatei, gran parte del loro universo spirituale. Egli tentò persino di trovare una collocazione per Shabbetai Zevi, anche se non messianica, nel suo schema delle cose. L'idea di un Messiá apostata era per lui assolutamente inaccettabile come lo erano le conseguenze antinomistiche tratte dai doenmeh e dai loro simpatizzanti; ma le sue pretese di ispirazione celeste e di nuove rivelazioni cabalistiche, venute subito dopo la scomunica dei settari nel 1725 e nel 1726, suscitarono grandi apprensioni in Italia e in alcune località della Germania che avevano una particolare esperienza in fatto di Shabbateanismo. Del pari, una generazione più tardi, i primi antagonisti del Hasidismo polacco sospettarono che si trattasse di una nuova branca dello Shabbateanismo. In entrambi i casi i sospetti erano errati, ma avevano un certo fondamento nell'insegnamento e nel comportamento dei nuovi venuti. Più complicato è il caso della voluminosa opera Hemdat Yamim, pubblicata per la prima volta a Smirne nel 1731 e poi diverse volte a Zolkiew e due volte in Italia. Quest'opera anonima descriveva dettagliatamente la vita e i rituali ebraici dal punto di vista della Cabala lurianica, ma era permeata da uno spirito di Shabbateanismo rigorosamente ascetico, quale era promosso a Gerusalemme e a Smirne da cabalisti come Jacob Vilna e Meir Bikayam. Adottando parecchie innovazioni shabbatee, includeva addirittura inni scritti da Nathan di Gaza e un intero rituale per la vigilia del novilunio, dall'evidente carattere shabbateo. Sebbene ostentasse un'origine molto anteriore, l'opera fu probabilmente composta tra il 1710 e il 1730, ufficialmente a Gerusalemme, ma senza dubbio altrove. Il suo stile avvincente e la ricchezza del contenuto le assicurarono un vasto pubblico, e in Turchia fu accettata come un classico, una posizione che poi conservò. Tuttavia, non molto tempo dopo la pubblicazione in Podolia, avvenuta nel 174:2,1'opera fu denunciata da Jacob Emden, il quale affermò che era stata composta da Nathan di Gaza (e questo non era vero) e che propagandava concezioni shabbatee (e questo era esatto). Nonostante tale opposizione, venne ancora citata frequentemente; tuttavia fu ritirata dalla circolazione in Polonia e in Germania. Indipendentemente dal caso Eybeschuetz; una sensazionale esplosione di Shabbateanismo all'ultimo stadio si ebbe nel 1756 in Podolia con l'apparizione diJacob Frank (1726-91) quale nuovo capo dell'ala estremista. Imbevuto delle idee fondamentali dei settari di Baruchiah a Salonicco Frank ritornò nell'ambiente natio dopo aver trascorso molti anni in Turchia durante l'infanzia e l'adolescenza. Già allora era rinomato come nuovo capo, profeta e reincarnazione di Shabbetai Zevi. (Per i dettagli del movimento da lui istigato, si veda "Jacob Frank e i frankisti", p.288). Negli anni burrascosi tra il 1756 e il 1760 gran parte dei seguaci di Frank si convertì al Cattolicesimo, costituendo una setta come i doenmeh in Polonia, ma sotto mentite spoglie cattoliche. Questi eventi, e soprattutto la disponibilità dei frankisti a servire gli interessi del clero cattolico difendendo pubblicamente la calunnia del sangue nella disputa di Leopoli (1759), sconvolsero la comunità ebraica polacca ed ebbero vaste ripercussioni anche all'estero. In maggioranza gli shabbatei, anche i settari di Frank, non lo seguirono nella conversione, e molti gruppi frankisti rimasero con le comunità ebraiche in Polonia, Ungheria, Moravia, Boemia e Germania. Il principale contributo di Frank fu triplice: 1) Egli spogliò lo Shabbateanismo della sua teologia cabalistica e delle astruse speculazioni metafisiche e dei termini di cui era rivestito, sostituendovi una versione molto più popolare e pittoresca presentata in immagini mitologiche. Lo sconosciuto e ancora inaccessibile "Buon Dio", il "Grande Fratello" (chiamato anche "Colui che sta davanti a Dio") e la matrona o vergine o semplicemente "Lei", un amalgama della Shekhinah e della Vergine Maria, costituiscono la trinità frankista. Frank vedeva Shabbetai Zevi, Baruchiah e se stesso come emissari e incarnazioni del "Grande Fratelio", la cui missione sarebbe stata completata dall'apparizione dell'elemento femminile della trinità. La tendenza di Frank a gettar via i "vecchi libri" contrastava nettamente con l'incessante tendenza dei suoi seguaci a studiarli; e questo valeva soprattutto per coloro che restarono ebrei. 2) La sua versione dello Shabbateanismo assunse un carattere dichiaratamente nichilista. Sotto il "fardello del silenzio" il vero credente, che ha Dio nel suo cuore segreto, deve passare attraverso tutte le religioni, tutti i riti e gli ordini stabiliti senza accettarne nessuno e anzi annientandoli tutti dall'interno, instaurando così la vera libertà. La religione organizzata è solo un manto da indossare e da gettare sulla via che porta alla "sacra conoscenza", la gnosi del luogo dove tutti i valori tradizionali vengono distrutti nel fiume della "vita". 3) Egli propagava questa religione nichilista come la "via che porta a Esaù", o "Edom", incoraggiando l'assimilazione senza credere veramente in essa, sperando in una miracolosa rinascita di un Giudaismo messianico e nichilista mediante il travaglio di un sovvertimento universale. Questa concezione aprì la strada a un amalgama tra l'ultima fase del messianismo e del misticismo shabbateo da una parte, e dall'altra dell'illuminismo e delle tendenze laiche e anticlericali del suo tempo. La massoneria, il liberalismo e persino il giacobinismo potevano essere visti come mezzi egualmente utili per realizzare tali fini. Non c'è da stupirsi molto se, dovunque esistevano tali gruppi, le comunità ebraiche li combattevano con veemenza, anche se giungevano loro solo voci piuttosto vaghe sugli insegnamenti segreti di Frank. Nell'Europa centrale, i frankisti si allearono ai più vecchi gruppi shabbatei, inclusi gli ammiratori di Eybeschuetz, e alcuni dei figli e nipoti dello stesso Eybeschuetz si unirono allo schieramento frankista. Nel decennio 1760-70 la propaganda xhabbatea era ancora attiva nelle yeshivot di Altona e Pressburg. Un emissario, Aaron b. Moses Teomim di Gorodenka, diffuse lo Shabbateanismo nella Germania settentrionale e meridionale e, nel 1767, cercò di assicurarsi l'aiuto di simpatizzanti cristiani, sostenendo di aver intrapreso la missione per conto del principe polacco Radziwill, noto protettore dei frankisti. I frankisti ebrei e quelli apostati rimasero in stretto contatto, soprattutto grazie ai loro raduni alla "corte" di Frank a Brno e più tardi a Offenbach. Sebbene fossero profondamente impressionati dai detti e dalle epistole di Frank, le loro attività non eguagliarono mai la ferocia delle sue visioni sovversive e nichiliste. Durante i primi decenni del XIX secolo lo Shabbateanismo si disgregò anche come setta organizzata senza stretti vincoli e, a parte coloro che ritornarono al Giudaismo tradizionale, sparì nel campo del liberalismo ebraico e, in molti casi, nell'indifferenza. I gruppi settari dei doenmeh in Turchia e dei frankisti cattolici in Polonia, specialmente a Varsavia, sopravvissero molto più a lungo: i primi si disgregarono soltanto a metà del XX secolo, e i secondi probabilmente dopo il 1860. 3 JACOB FRANK E I FRANKISTI Jacob Frank (1726-1791) fu il fondatore e il personaggio centrale di una setta ebraica che prese il nome da lui, quella dei frankisti, che rappresentò l'ultima fase dello sviluppo del movimento shabbateo. Il suo vero nome era Jacob b. Judah Leib, ed era nato a Korolowka (Korolevo), una cittadina della Podolia. La sua famiglia apparteneva al ceto medio, e suo padre era un rispettabile appaltatore e mercante. Il nonno era vissuto per diverso tempo a Kalisz, e la madre veniva da Rzesow. Benché l'affermazione fatta da Frank davanti all'Inquisizione che suo padre era stato un rabbino non sembri avere alcun fondamento, vi è motivo di credere che conducesse i servizi religiosi a Czernowitz, dove si trasferì poco dopo il 1730. Il padre viene dipinto come un ebreo scrupolosamente osservante. Nel contempo, è molto probabile che egli avesse già certi rapporti con la setta shabbatea, che aveva messo radici in Podolia, Bukovina e Valacchia. Frank studiò a Czernowitz e Sniatyn, e visse parecchi anni a Bucarest. Sebbene frequentasse il heder, non acquisì alcuna conoscenza del Talmud, e in seguito si vantò di questa ignoranza e delle sue qualità di prostak ("uomo semplice"). La sua caratterizzazione come ignorante (al ha-arez) deve essere vista nel contesto dell'uso contemporaneo della parola per indicare un uomo che conosceva la Bibbia e l'aggadah, ma non era esperto della Gemara. Nelle sue memorie, pone in grande risalto gli scherzi e le avventure ardimentose della sua infanzia e dell'adolescenza. A Bucarest cominciò a guadagnarsi da vivere come commerciante di stoffe, di pietre preziose e di tutto ciò che gli capitava tra le mani. Tra il 1745 e il 1755 i commercianti lo portarono attraverso i Balcani e fino a Smirne. Rapporti iniziali con gli shabbatei H racconto che Frank fa dei suoi rapporti iniziali con gli shabbatei è pieno di contraddizioni, ma non c'è dubbio che tali contatti risalissero alla sua giovinezza. Apparentemente il suo insegnante, a Czernowitz, apparteneva alla setta e aveva promesso che Frank sarebbe stato iniziato alla loro fede dopo il matrimonio, come era spesso costume tra gli shabbatei. Incominciò a studiare lo Zohar, e nei circoli shabbatei si fece la fama di uomo dotato di speciali poteri e d'ispirazione. Quando, nel 1752,sposò Hannah, figlia di un rispettabile mercante ashkenazi di Nikopol (Bulgaria), alle nozze presenziarono due emissari shabbatei venuti dalla Podolia. Altri dotti shabbatei, alcuni dei quali sono menzionati da Frank, lo accompagnarono nei suoi viaggi, e lo iniziarono ai misteri della "fede". Non vi è dubbio che costoro fossero rappresentanti dell'ala estremista formata dai discepoli di Baruchiah Russo (m. 1720), uno dei capi dei doenmeh di Salonicco. Fu in compagnia di questi insegnanti, anch'essi ashkenazim, che Frank visitò per la prima volta Salonicco nel 1753 ed ebbe a che fare con il gruppo di Baruchiah; tuttavia seguì la consuetudine dei discepoli polacchi e non si convertì all'Islamismo. Dopo il matrimonio, sembra che il commerclo assumesse una parte secondaria, rispetto al suo ruolo di "profeta" shabbateo; e nel corso della sua missione si recò alla tomba di Nathan di Gaza a Skoplje, ad Adrianopoli e a Smirne, e poi trascorse di nuovo un certo tempo a Salonicco nel 1755. Con le loro lettere, i suoi insegnanti e compagni shabbatei inviarono dalla Polonia l'annuncio dell'avvento di un nuovo capo in Podolia e alla fine lo convinsero a ritornare. Frank, che era un uomo dall'ambizione sfrenata, autoritario fino al dispotismo, aveva una pessima opinione della setta di Baruchiah a Salonicco, e la chiamava "una casa vuota"; invece prevedeva un grande futuro per se stesso, quale capo degli shabbatei in Polonia. Sebbene nella cerchia dei suoi amici più stretti gli venisse dato l'appellativo sefardita di Hakham Ya'akou, egli era considerato nel contempo una nuova trasmigrazione o reincamazione dell'anima divina che in precedenza aveva dimorato in Shabbetai Zevi e in Baruchiah, che Frank usava chiamare rispettivamente il "Primo" e il "Secondo". Alla fine del XVIIII secolo, nei gruppi doenmeh di Salonicco circolava ancora la leggenda che Frank fosse andato in Polonia per incarico esplicito della setta di Baruchiah. Durante i primi anni della sua attività, in effetti, egli seguì i principi fondamentali di questa setta, i suoi insegnamenti e i suoi costumi. Frank in Podolia Il 3 dicembre 1755 Frank, accompagnato da R. Mordecai e R. Nahman, attraversò il fiume Dniester e trascorse qualche tempo con i parenti a Korolewka. Quindi viaggiò con gran pompa tra le comunità della Podolia dove esistevano cellule shabbatee. Fu accolto con entusiasmo dai "credenti" e nella comunità ebraica si diffuse la notizia dell'apparizione di un sospetto frenk, il termine yiddish abituale per indicare un sephardi. Frank, che aveva trascorso quasi 25 anni nei Balcani e veniva ritenuto suddito turco, in realtà si comportava come un sephardi e parlava ladino quando appariva in pubblico. In seguito assunse l'appellativo "Frank" come cognome. La sua comparsa a Lanskroun (Landskron) alla fine di gennaio del 1756 portò a un grosso scandalo, quando fu scoperto a celebrare un rito shabbateo insieme ai suoi seguaci, in una casa chiusa a chiave. Gli avversari degli shabbatei affermarono di aver sorpreso i settari nel bel mezzo di un'orgia religiosa eretica, simile ai riti che venivano effettivamente praticati da membri della setta di Baruchiah, specialmente in Podolia. In seguito, Frank sostenne di aver aperto volutamente le finestre della casa per costringere i "credenti" a mostrarsi al pubblico, anziché nascondere le loro azioni come avevano fatto per decenni. I seguaci di Frank furono imprigionati, ma lui rimase libero perché le autorità locali lo credevano suddito turco. Su richiesta dei rabbini si tenne un'inchiesta presso il tribunale rabbinico di Satanow, sede del rabbinato distrettuale della Podolia, che esaminò le pratiche e i principi degli shabbatei. Frank passò la frontiera turca; poi, quando tornò di nuovo dai suoi seguaci, fu arrestato nel marzo 1756 a Kopyczynce (Kopichintsy), ma ancora una volta venne rimesso in libertà. Dopo questo episodio, rimase per quasi tre anni in Turchia, dapprima a Khotin sul Dniester, poi soprattutto a Giorgievo sul Danubio. Qui, all'inizio del 1757, si convertì ufficialmente all'Islamismo, e per questo fu grandemente onorato autorità turche. Nei mesi di giugno e di agosto 1757 fece visite seg Rohatyn, in Podolia, per conferire con i suoi seguaci. In questo periodo si recò diverse volte a Salonicco, e una volta anche a Costantinopoli. Quando Frank apparve in Polonia divenne la figura centrale per la stragrande maggioranza degli shabbatei, particolarmente per quelli della Galizia, l'Ucraina e l'Ungheria. Sembra che quasi tutti gli shabbatei moravi, inoltre, riconoscessero la sua autorità. L'indagine del tribunale rabbinico di Satanow aveva scoperto in larga misura la rete shabbatea dei seguaci di Baruchiah che esisteva clandestinamente in Podolia. Una parte considerevole delle risultanze fu pubblicata da Jacob Emden. Da questo appare evidente che i sospetti relativi al carattere antinomista della setta erano giustificati, e che "i credenti", i quali esteriormente si conformavano ai precetti della legge ebraica, in pratica li trasgredivano, inclusi i divieti sessuali della Torah, che essi chiamavano Torah de-azilut ("la Torah dell'emanazione"), intendendo la Torah spirituale in contrapposizione con la Torah della halakhah, che era chiamata Torah de-beri'ah ("la Torah della creazione"). I risultati dell'inchiesta furono sottoposti a un'assemblea rabbinica a Brody nel giugno 1756, e confermati in una seduta del Consiglio delle Quattro Terre, tenuto in settembre a Konstantynow. A Brody fu proclamato un herem ("scomunica") contro i membri della setta, che li esponeva alla persecuzione e che inoltre cercava di limitare lo studio dello Zohar e della Cabala prima di una certa età (40 anni, nel caso degli scritti di Isaac Luria). Quando venne stampato e spedito a tutte le comunità, il herem provocò un'ondata di persecuzioni contro i membri della setta, soprattutto in Podolia. I rabbini polacchi si rivolsero a Jacob Emden, noto antagonista degli shabbatei, il quale consigliò loro di chiedere aiuto alle autorità ecclesiastiche cattoliche, affermando che la fede shabbatea, essendo un miscuglio dei principi di tutte le altre religioni, costituiva una religione nuova, e come tale era vietata dalla legge canonica. Tuttavia, i risultati del suo consiglio furono esattamente il contrario di quelli desiderati, poiché i seguaci di Frank, che erano stati duramente perseguitati, adottarono la strategia di porsi sotto la protezione del vescovo Dembowski di KamieniecPodolski, nella cui diocesi erano concentrate molte delle comunità shabbatee. Se in precedenza s'erano comportati con doppiezza nei confronti del Giudaismo, apparendo ufficialmente ortodossi mentre erano segretamente eretici, ora decisero, sembra su consiglio di Frank, di sottolineare ed esagerare le credenze che avevano in comune con i principi fondamentali del Cristianesimo, per ottenere i favori del clero cattolico, anche se in realtà la loro fede shabbatea non era cambiata in nulla. Proclamandosi "antitalmudisti", chiesero la protezione della Chiesa contro i persecutori i quali, essi affermavano, si erano sdegnati appunto per la simpatia mostrata dai "credenti" verso alcuni dei dogmi più importanti del Cristianesimo. La manovra riuscì perfettamente e permise loro di trovare un rifugio nelle autorità ecclesiastiche, che vedevano in loro potenziali candidati a una conversione collettiva dal Giudaismo al Cristianesimo. Nel frattempo, però, i membri della setta venivano indotti dai loro protettori ad assistere, contro la loro volontà, ai preparativi propagandistici contro il Giudaismo e a formulare dichiarazioni che miravano a distruggere la comunità degli ebrei polacchi. Questi sviluppi intensificarono l'ostilità reciproca ed ebbero tristi conseguenze. Nel corso di tali eventi, Frank cercò di non attirare l'attenzione su di sé e si limitò ad apparire come una guida spirituale che indicava ai seguaci la via per avvicinarsi al Cristianesimo. Si deve notare che in questo periodo non veniva usato il nome di "frankisti", che divenne comune solo all'inizio del XIX secolo. Per quanto riguardava la massa degli ebrei e dei rabbini, non vi era nessuna differenza tra i primi shabbatei e gli shabbatei sotto la nuova guisa; continuarono a chiamarli "la setta di Shabbetai Zevi". Persino i seguaci di Frank, quando parlavano tra loro, continuavano a designarsi con il termine consueto ma'aminim ("credenti"). La disputa Negli eventi che seguirono, è difficile distinguere esattamente tra i passi intrapresi dai seguaci di Frank e quelli decisi dalla Chiesa e imposti dalla coercizione ecclesiastica, sebbene non vi sia dubbio che M. Balaban (vedasi la bibliografia) abbia ragione nel porre in risalto soprattutto questi ultimi. Dopo il herem di Brody i frankisti chiesero al vescovo Dembowski di svolgere una nuova inchiesta sul caso di Lanskroun, e presentarono una petizione per una pubblica disputa tra loro e i rabbini. Il 2 agosto 1756 presentarono per il dibattito nove principi della loro fede. Formulata nel modo più ambiguo, la loro dichiarazione di fede affermava, in breve: 1) fede nella Torah di Mosè; 2) la Torah e i Profeti erano libri oscuri, che dovevano essere interpretati con l'aiuto della luce di Dio, e non semplicemente alla luce dell'intelligenza umana; 3) le interpretazioni della Torah comprese nel Talmud contenevano assurdità e falsità, ostili alla Torah del Signore; 4) Dio è uno e tutti i mondi sono stati creati da Lui; 5) fede nella trinità delle tre "facce" eguali in un unico Dio, senza che in Lui vi sia alcuna divisione; 6) Dio è manifestato in forma corporea, come altri esseri umani, ma senza peccato; 7) Gerusalemme non sarebbe stata ricostruita fino alla fine del tempo; 8) gli ebrei attendevano invano che il Messia venisse ad innalzarli al di sopra del mondo intero; 9) Dio, invece, avrebbe assunto forma umana e avrebbe espiato tutti i peccati per i quali il mondo era stato maledetto, e al suo avvento il mondo sarebbe stato perdonato e purificato da tutte le iniquità. Questi principi rispecchiano le credenze dei seguaci antinomisti di Baruchiah, tuttavia erano formulati in modo tale che sembravano riferirsi a Gesù di Nazareth anziché a Shabbetai Zevi e a Baruchiah. Si trattava di un piano molto scoperto per raggirare la Chiesa; e il clero non comprese o più esattamente non ebbe interesse a comprenderlo. I rabbini riuscirono per quasi un anno a evitare di accettare l'invito alla disputa. Tuttavia, in seguito alle pressioni del vescovo, la disputa ebbe finalmente luogo a Kamieniec, dal 20 al 28 giugno 1757. Vi parteciparono diciannove avversari del Talmud (allora chiamati "zohariti") insieme ad alcuni rabbini provenienti dalle comunità della zona. Anche i portavoce degli shabbatei erano uomini molto dotti; taluni erano rabbini officianti dalle segrete tendenze shabbatee. Gli argomenti dell'accusa e della difesa dei rabbini furono presentati per iscritto, e in seguito furono pubblicati in un protocollo latino a Leopoli nel 1758. Il 17 ottobre 1757 il vescovo Dembowski emise il verdetto a favore dei frankisti, imponendo ai rabbini numerose penalità; la più grave fu una condanna del Talmud, giudicato corrotto e privo di valore, con l'ordine di bruciarlo sulla piazza della città. Le case di tutti gli ebrei dovevano essere perquisite per cercarne le copie. Secondo alcune testimonianze contemporanee, enormi quantità di edizioni del Talmud furono bruciate a Kamieniec, Leopoli, Brody, Zolkiew e altre località. Il "rogo del Talmud" ebbe un effetto schiacciante sulla comunità ebraica, e i rabbini indissero un digiuno in ricordo dell'avvenimento. Invano gli ebrei che avevano influenza sulle autorità tentarono di impedire i roghi, che avvennero soprattutto nel novembre 1757. Una svolta improvvisa a favore dei "talmudisti" e a danno dei settari si ebbe con la morte improvvisa del vescovo Dembowski il 9 novembre, proprio quando veniva bruciato il Talmud. La notizia dell'evento, nel quale gli ebrei videro la mano di Dio, si diffuse rapidamente. Le persecuzioni contro la setta ripresero con rinnovata veemenza, e molti frankisti attraversarono il Dniester e ripararono in Turchia. Là parecchi si convertirono all'Islamismo, e molti raggiunsero i doenmeh a Salonicco, dove furono chiamati "i polacchi". Nel frattempo, i portavoce degli "antitalmudisti" si rivolsero alle autorità politiche ed ecclesiastiche e chiesero l'applicazione del privilegio che era stato loro promesso da Dembowski e che permetteva di seguire la loro fede. Cercarono inoltre di ottenere la restituzione dei loro averi saccheggiati e l'autorizzazione, per i profughi, a ritornare alle rispettive case. Dopo vari dissensi interni tra le autorità polacche, il re Augusto III emanò un privilegio il 16 giugno 1758, che accordava ai settari la protezione reale, in quanto "uomini che erano vicini al riconoscimento (cristiano) di Dio". Molti dei profughi rientrarono in Podolia alla fine di settembre, e si raccolsero soprattutto nel piccolo centro di Iwanie (presso Khotin) e nei dintorni. In dicembre, o forse all'inizio di gennaio del 1759, lo stesso Frank lasciò la Turchia e giunse a Iwanie. Qui furono convocati molti dei "credenti" sparsi nella Galizia orientale. Iwanie In effetti, i frankisti si costituirono con una setta speciale dal carattere distinto solo durante quei mesi in cui i "credenti" vissero a Iwanie, un episodio che restò impresso nella loro memoria quasi come una rivelazione. Fu lì, infatti, che Frank si autoproclamò incarnazione vivente della potenza di Dio, venuto a completare la missione di Shabbetai Zevi e di Baruchiah, e "il vero Giacobbe", paragonandosi al patriarca Giacobbe che aveva completato l'opera dei suoi predecessori Abramo e Isacco. Fu lì che rivelò i suoi insegnamenti alla presenza dei seguaci, in brevi affermazioni e parabole, e introdusse un ordine specifico nel rituale della setta. Non vi è dubbio che inoltre li preparò alla necessità di adottare esteriormente il Cristianesimo, per conservare la loro vera fede in segreto, come avevano fatto i doenmeh con l'Islamismo. Frank dichiarò che tutte le religioni erano soltanto fasi attraverso le quali dovevano passare "i credenti", come un uomo che indossa abiti diversi, per poi abbandonarle perché prive di valore in confronto alla vera fede segreta. L'originalità di Frank, in quel periodo, consisteva nel suo rifiuto della teologia shabbatea ben nota ai "credenti" attraverso gli scritti di Nathan di Gaza e quelli che erano basati sulla Cabala estremista della versione di Baruchiah. Egli chiese loro di dimenticare tutto ciò, proponendo invece una sorta di mitologia libera da ogni traccia di terminologia cabalistica, anche se in realtà non si trattava d'altro che di una rielaborazione popolare e omiletica dell'insegnamento cabalistico. In sostituzione della consueta trinità shabbatea dei "tre nodi della fede", cioè Attika Kaddisha, Malka Kaddisha e la Shekhinah, tutti uniti nella Divinità, Frank si spinse ad affermare che il vero e buon Dio era occulto e privo di legami con la creazione, in particolare con questo mondo insignificante. È lui che si nasconde dietro "il Re dei Re", che Frank chiama anche "il Grande Fratello" o "Colui che sta davanti a Dio". Egli è il Dio della vera fede, che ognuno deve sforzarsi di avvicinare, spezzando il dominio dei tre "capi del mondo" che governano la terra in questo momento, imponendole un sistema di leggi inadatte. La posizione del "Grande Fratello" è in qualche modo connessa con la Shekhinah, che nella terminologia di Frank diviene "la fanciulla" (almah) o "la vergine" (betulah). È evidente che egli cercava volutamente di conformare il più possibile questo concetto al concetto cristiano della Vergine. Come gli shabbatei estremisti della setta di Baruchiah vedevano Shabbetai Zevi e lo stesso Baruchiah come incarnazioni di Maltka Kaddisha, che è il "Dio d'Israele", Frank definiva se stesso il messaggero del "Grande Fratello". Secondo lui, tutti i grandi capi religiosi dai patriarchi a Shabbetai Zevi e Baruchiah, si erano adoperati per trovare la via che conduceva al suo Dio, ma senza riuscirvi. Affinché Dio e la Vergine venissero rivelati, sarebbe stato necessario avviarsi su una via completamente nuova, non ancora percorsa dal popolo d'Israele: e questa strada Frank la chiamò "la via che porta a Esaù". In questo contesto, Esaù o Edom simboleggia il flusso scatenato della vita che libera l'uomo perché la sua forza non è soggetta ad alcuna legge. Il patriarca Giacobbe promise (Gen. 33:14) di visitare il fratello Esaù a Seir, ma la Scrittura non dice che egli mantenne la promessa, perché la via era troppo difficile. Adesso era giunto il tempo di incamminarsi su quella strada, che conduce alla "vera vita", un'idea centrale che nel sistema di Frank comporta la connotazione specifica di libertà e di licenziosità. Questa via era la strada che portava all'anarchia religiosa: "Il luogo dove stiamo andando non è soggetto ad alcuna legge, perché tutto questo è dalla parte della morte; ma noi stiamo andando verso la vita". Per raggiungere la meta era necessario abolire e distruggere le leggi, gli insegnamenti e le pratiche che soffocavano la forza della vita; ma questo doveva essere fatto in segreto; per riuscirvi, era essenziale assumere esteriormente la veste dell'Edom corporeo, cioè il Cristianesimo. I "credenti", o almeno la loro avanguardia, erano già passati attraverso il Giudaismo e l'Islamismo, ed ora dovevano completare il viaggio assumendo la fede cristiana, usandola per nascondere il vero nucleo della loro fede in Frank quale vero Messia e Dio vivente, al quale erano dirette in realtà le loro dichiarazioni di fede cristiana. Il motto che Frank adottò a questo punto fu massa dumah (da Isa.21: 11), inteso nel senso di "fardello del silenzio"; era necessario, cioè, portare il pesante fardello della fede segreta nell'abolizione di tutte le leggi nel silenzio assoluto; ed era proibito rivelarlo a coloro che non appartenevano alla setta. Gesù di Nazareth non era altro che la buccia che precede e nasconde il frutto, e questi era lo stesso Frank. Benché fosse necessario dare dimostrazioni esteriori di devozione cristiana, era vietato frequentare i cristiani o sposare uno di loro, perché in ultima analisi la visione di Frank era la visione di un futuro ebraico, anche se in una forma ribelle e rivoluzionaria, presentata come un sogno messianico. I concetti impiegati da Frank erano popolari e aneddotici, e il rifiuto della tradizionale terminologia simbolica cabalistica, che trascendeva la capacità di comprensione della gente semplice, chiamava in gioco l'immaginazione. Perciò Frank, a Iwanie, preparò i suoi seguaci ad accettare il battesimo come l'ultimo passo che avrebbe aperto loro, nel vero senso fisico, la via che porta a Esaù, al mondo dei gentili. Anche nell'organizzazione della sua setta Frank imitò la tradizione evangelica: nominò a Iwanie dodici emissari (apostoli) o "fratelli" che erano considerati i suoi principali discepoli. Ma nel contempo nominò anche dodici "sorelle", il cui compito fondamentale era di servirlo come concubine. Continuando la tradizione della setta di Baruchiah, Frank istituì inoltre pratiche sessuali licenziose tra i "credenti", o almeno tra i suoi "fratelli" e "sorelle" più intimi. I seguaci che erano abituati ad agire in questo modo non ci vedevano nulla di biasimevole; ma essi non accettarono con gioia la sua richiesta di eliminare tutti i libri cabalistici, che erano stati superati dall'insegnamento dello stesso Frank; e molti di loro continuarono a usare idee della Cabala shabbatea. Il gruppo rimase a Iwanie diversi mesi, fino alla primavera del 1759. Frank istituì un fondo comune, in apparente emulazione delle notizie fornite dal Nuovo Testamento sulle prime comunità cristiane. In questo periodo, coloro che venivano in stretto contatto con Frank erano sopraffatti e soggiogati dalla sua personalità potente, ambiziosa e astuta, dalla facilità d'espressione e dalle sue spiccate facoltà d'immaginazione colorate di poesia. Forse si può affermare che Frank era un miscuglio di sovrano dispotico, profeta popolare e abile impostore. La disputa di Leopoli Con l'evolversi degli avvenimenti, divenne manifesta una mescolanza di due tendenze. Da una parte divenne chiaro a Frank e ai suoi discepoli che non avrebbero potuto rimanere a metà strada fra Giudaismo e Cristianesimo. Se volevano ristabilire la loro posizione dopo le gravi persecuzioni subite, l'unica via loro aperta era il battesimo. Erano addirittura disposti a dare una pubblica dimostrazione della loro conversione al Cristianesimo come richiedeva il clero in cambio della sua protezione. D'altra parte c'erano interessi diversi ma paralleli tra importanti esponenti della Chiesa polacca che all'inizio non si erano associati alla causa frankista. A quel tempo vi furono in Polonia diversi casi di "calunnia del sangue", sostenuti da vescovi e prelati influenti. Il Consiglio delle Quattro Terre, che era la suprema autorità organizzata degli ebrei polacchi, stava cercando di agire indirettamente, tramite vari mediatori, sulle autorità ecclesiastiche di Roma, presentando gravi accuse di falsità e d'insolenza contro i responsabili della diffusione delle calunnie. A Roma, le loro parole non rimasero inascoltate. Sembra che alcuni esponenti del clero nelle diocesi di Kamieniec a Leopoli vedessero una buona occasione per rafforzare la loro posizione riguardo la questione della calunnia del sangue, se fosse stato possibile indurre un gruppo di ebrei a farsi avanti e a confermare l'accusa infondata. Alla fine di febbraio del 1759, quando la loro posizione a Iwanie era all'apice, i discepoli di Frank chiesero all'arcivescovo Lubienski di Leopoli di accoglierli nella Chiesa, affermando di parlare a nome "degli ebrei di Polonia, Ungheria, Turchia, Moldavia, Italia, eccetera". Chiesero una seconda occasione di disputare pubblicamente con gli ebrei rabbinici devoti al Talmud, e promisero di dimostrare non soltanto la verità del credo cristiano, ma anche della calunnia del sangue. Senza dubbio, il testo della richiesta fu scritto dopo consultazioni con il clero, e fu redatto dal nobile polacco Moliwda (Ignacy Kossakowski, che era stato capo della setta filoppoviana), il quale fu il consigliere di Frank in questi negoziati fino al battesimo. Lubienski non poté occuparsi della cosa, poiché venne nominato arcivescovo di Gniezno e primate della Chiesa polacca; e lasciò il compito al suo amministratore a Leopoli, Mikulski, un prelato che si diede molto da fare per preparare la grande disputa di Leopoli, pianificata per concludersi con un battesimo collettivo e la conferma della calunnia del sangue. Nei mesi che seguirono, i frankisti continuarono a presentare varie petizioni al re di Polonia e alle autorità ecclesiastiche per chiarire le loro intenzioni e per chiedere favori speciali anche dopo la conversione. Affermavano che 5.000 loro aderenti erano pronti ad accettare il battesimo, ma nel contempo chiedevano che venissero autorizzati a condurre un'esistenza separata come cristiani d'identità ebraica; non dovevano venire obbligati a radersi le "basette" (pe'ot); dovevano essere autorizzati a portare la tradizionale veste ebraica anche dopo la conversione e a chiamarsi con nomi ebraici aggiunti ai nuovi nomi cristiani; non dovevano essere costretti a mangiare carne di maiale; dovevano essere autorizzati a riposare il sabato, oltre alla domenica; e doveva essere loro permesso di tenere i libri dello Zohar e altri scritti cabalistici. Oltre a tutto questo, doveva essere loro consentito di sposarsi soltanto tra di loro. In cambio del permesso di costituire questa unità semiebraica, esprimevano la disponibilità a sottomettersi a tutte le altre pretese della Chiesa. In altre petizioni, essi aggiunsero la richiesta dell'assegnazione di una speciale zona dove insediarsi, nella Galizia orientale, che comprendeva le città di Busk e Glinyany, dove gran parte degli abitanti ebrei, essi affermavano, erano membri della setta. In questo territorio si impegnavano a mantenere la vita della loro comunità, e a creare una loro vita comunitaria, istituendo una "produttivizzazione" nella struttura economica della comunità ebraica tradizionale. Alcune di queste petizioni, stampate dal clero a Leopoli nel 1795, ebbero una vasta diffusione e furono tradotte dal polacco in francese, spagnolo, latino e portoghese; inoltre furono ristampate in Spagna e in Messico, dove ebbero numerose edizioni. La presentazione di tali richieste dimostra che i seguaci di Frank non avevano nessuna intenzione di assimilarsi o di mescolarsi ai veri cristiani, ma cercavano di guadagnarsi una speciale posizione riconosciuta, come quella dei doenmeh a Salonicco, sotto la protezione della Chiesa e dello Stato. È evidente che si consideravano un nuovo tipo di ebrei e non intendevano rinunciare alla loro identità nazionale. Le petizioni dimostrano inoltre che le posizioni più estremiste assunte da Frank nella cerchia chiusa dei suoi seguaci non avevano messo radici nei loro cuori, e quindi essi non erano disposti a seguirlo in tutti i dettagli. La proibizione di sposare i gentili reiterava le parole pronunciate dallo stesso Frank a Iwanie, ma sulle altre questioni vi furono apparentemente vivaci dissensi tra lui e i suoi seguaci. Tuttavia, queste richieste isolate costituirono solo una fase transitoria nella lotta che precedette la disputa di Leopoli e i portavoce della setta ricevettero una risposta negativa. La Chiesa esigeva il battesimo senza condizioni, anche se in quel periodo il clero era convinto della sincerità delle intenzioni dei frankisti, poiché non prestò ascolto ai rappresentanti degli ebrei, i quali misero ripetutamente in guardia gli ecclesiastici contro le segrete convinzioni shabbatee di coloro che si offrivano di farsi battezzare. L'enorme pubblicità data a questi eventi dopo la disputa di Kamieniec stimolò l'attività missionaria di alcuni gruppi protestanti. Il conte Zinzendorf, capo della "Società dei Fratelli" (divenuta più tardi la Chiesa Morava) in Germania, nel 1758 inviò il convertito David Kirchhof in missione speciale presso "i credenti" della Podolia, per predicare loro la sua versione di "Cristianesimo puro" (Judaica, 19 (1963), 140). Tra la massa degli ebrei si diffuse l'idea che Frank fosse in realtà un grande stregone dagli immensi poteri demoniaci; e questo diede origine a varie leggende sulle sue attività magiche e sul suo successo che ebbero vaste ripercussioni. I frankisti cercarono di rimandare la disputa fino al gennaio 1760, quando molti nobili e mercanti si sarebbero riuniti per le cerimonie religiose in occasione della grande fiera di Leopoli. Apparentemente, speravano di ottenere un considerevole aiuto finanziario, perché la loro situazione economica aveva risentito delle persecuzioni. Le autorità di Roma e di Varsavia non vedevano con favore la disputa in programma e, per varie ragioni, Si schierarono con gli argomenti degli ebrei contrari alla disputa, soprattutto con l'affermazione che avrebbe provocato probabili agitazioni in conseguenza della sezione relativa alla calunnia del sangue. Affrontare questo tema, con tutti i rischi insiti di incitamenti organizzati e spontanei contro il Giudaismo rabbinico, avrebbe del pari gettato le autorità ebree polacche in un'ansia profonda. In questo conflitto d'interessi tra le autorità più alte, che volevano la conversione dei seguaci di Frank senza nessuna disputa, e i gruppi che miravano soprattutto al successo della calunnia del sangue, Mikulski agì secondo le proprie convinzioni e si schierò con questi ultimi. Fissò quindi una data anticipata per la disputa, il 16 luglio 1759: stabilì che venisse tenuta nella cattedrale di Leopoli e obbligò i rabbini della sua diocesi ad assistervi. La disputa si aprì il 17 luglio, alla presenza di folle di polacchi, e proseguì a intermittenza per numerose sedute fino al 10 settembre. Gli argomenti delle due parti in causa, le tesi degli "antitalmudisti" e le risposte dei rabbini, vennero presentate per iscritto, ma vi furono anche veementi discussioni. Per i rabbini si presentarono circa 30 uomini, e 10-20 per i settari. Tuttavia, il numero dei partecipanti effettivi fu inferiore. Il portavoce principale, l'uomo che si assunse la maggiore responsabilità da parte ebraica, fu R. Hayyim Kohen Rapoport, il più importante rabbino di Leopoli, che godeva di grande rispetto per la sua elevata statura spirituale. Lo sostenevano i rabbini di Bohorodczany e di Stanislawow. La tradizione nata nei resoconti popolari diffusi anni dopo, e secondo la quale partecipò anche Israel b. Eliezer Ba'al Shem Tov, il fondatore del Hasidismo, è priva di fondamento storico. Lo stesso Frank partecipò solo all'ultima seduta della disputa, quando venne discussa la questione della calunnia del sangue. I portavoce della setta erano tre dotti che in precedenza erano stati attivi in Podolia tra i seguaci di Baruchiah: Leib b. Nathan Krisa di Madvornaya, R. Nahman di Kezywcze e Solomon b. Elisha Shor di Rohatyn. Dopo ogni sessione, si svolgevano consultazioni tra i rabbini e i parnasim, che redigevano le risposte scritte. A loro si unì un mercante di vino di Leopoli, Baer Birkenthal di Bolechov che, a differenza dei rabbini, parlava correntemente il polacco e che provvedeva a preparare il testo polacco delle risposte. Il suo memoriale della disputa, in Sefer Devrei Binah, integra il protocollo ufficiale che fu redatto in polacco dal prete cattolico Gaudenty Pikulski, e stampato a Leopoli nel 1760 con il titolo Ztosic Zydowslza ("L'ira giudea"). A Leopoli, gli argomenti dei frankisti furono presentati in una forma adatta al massimo ai dogmi del Cristianesimo, ancora di più che nella disputa precedente. Tuttavia, anche in questa occasione, essi evitarono ogni riferimento esplicito a Gesù di Nazareth, e senza dubbio questo silenzio serviva allo scopo di armonizzare la loro fede segreta in Frank quale Dio e Messia in forma corporea con il loro appoggio ufficiale al Cristianesimo. In realtà, secondo lo stesso Frank, il Cristianesimo non era altro che uno schermo (pargod) dietro il quale si celava la vera fede, da lui proclamata come "la sacra religione di Edom". Furono discusse sette proporzioni principali: 1) tutte le profezie bibliche riguardanti la venuta del Messia si sono già compiute; 2) il Messia è il vero Dio, incarnatosi in forma umana per soffrire e redimerci; 3) dopo l'avvento del vero Messia, i sacrifici e le leggi cerimoniali della Torah sono stati aboliti; 4) tutti devono seguire la religione del Messia e i suoi insegnamenti, perché in essa sta la salvezza dell'anima; 5) la croce è il segno della divina trinità e il simbolo del Messia; 6) solo mediante il battesimo un uomo può giungere alla vera fede nel Messia; 7) il Talmud insegna che gli ebrei hanno bisogno di sangue cristiano, e chiunque creda nel Talmud è tenuto a servirsene. I rabbini rifiutarono di rispondere ad alcune di queste tesi per timore di offendere la fede cristiana. La disputa incominciò per iniziativa dei flankisti con una dichiarazione del loro protettore Moliwda Kossakowski. I rabbini risposero solo al primo e al secondo argomento teologico. Fu chiaro fin dall'inizio che l'attenzione si sarebbe concentrata sulla settima proposizione, i cui effetti erano potenzialmente molto pericolosi per l'intera comunità ebraica. Questo particolare argomento venne discusso il 27 agosto. Nelle settimane precedenti Frank aveva lasciato Iwanie ed era passato per le città della Galizia, facendo visita ai suoi seguaci. Attese quindi lungamente a Busk, nei pressi di Leopoli, dove fu raggiunto dalla moglie e dai figli. Gli argomenti frankisti a sostegno della calunnia del sangue sono un miscuglio di citazioni tratte da libri di apostati polacchi, di argomentazioni assurde e di discussioni incredibili, basate su affermazioni nella letteratura rabbinica contenenti solo accenni a "sangue" e "rosso". Secondo Baer Birkenthal, anche i rabbini non si astennero dal ricorrere a stratagemmi letterari per rafforzare l'impressione che le loro risposte avrebbero fatto al clero cattolico, e nei dibattiti orali respinsero senza eccezione tutte le traduzioni polacche dei testi talmudici e rabbinici, il che portò a vari scontri verbali violenti. Dietro le quinte della disputa, continuarono i contatti tra i rappresentanti dei rabbini e Mikulski, il quale cominciò a vacillare, sia a causa dell'opposizione delle alte autorità ecclesiastiche alla calunnia del sangue, sia in seguito alle argomentazioni rabbiniche circa la doppiezza dei frankisti. Il dibattito su questo punto continuò nell'ultima seduta, il 10 settembre, quando Rabbi Rapoport fece un attacco serrato contro la calunnia del sangue. Quando la disputa ebbe termine, uno dei frankisti si avvicinò al rabbino e disse: "Avete dichiarato permesso il nostro sangue questo è il vostro 'sangue per sangue'. "Le confuse raziocinazioni dei frankisti non ebbero l'effetto desiderato e, alla fine, Mikulski decise di chiedere ai rabbini una dettagliata risposta scritta in polacco alle accuse frankiste. Tuttavia, la consegna della risposta fu rimandata a dopo la conclusione della disputa. Nel frattempo non emerse nulla di concreto dal grande scalpore sollevato dalla calunnia del sangue. D'altra parte, la conversione di molti frankisti ebbe effettivamente luogo. Lo stesso Frank fu ricevuto a Leopoli con onori straordinari, e mandò il suo gregge al fonte battesimale. Egli fu il primo a venire battezzato il 17 settembre 1759. Vi sono alcuni dissensi circa il numero dei settari che si convertirono. Nella sola Leopoli più di cinquecento frankisti (inclusi donne e bambini) vennero battezzati entro la fine del 1760: quasi tutti provenivano dalla Podolia, ma ve ne erano anche dell'Ungheria e delle province europee della Turchia. Il numero esatto dei convertiti in altre località non è noto, ma vi sono notizie di un considerevole numero di battesimi a Varsavia, dove Frank e sua moglie vennero battezzati una seconda volta, sotto il patronato del re di Polonia, nel corso di una cerimonia reale il 18 novembre 1759; da quel momento, egli venne chiamato Josef Frank nei documenti. Secondo la tradizione orale delle famiglie frankiste polacche, il numero dei convertiti fu assai maggiore di quello attestato dai documenti conosciuti: si parla di parecchie migliaia. D'altra parte, si sa che in maggioranza i settari della Podolia e di altri paesi non seguirono Frank fino in fondo e rimasero ebrei pur continuando a riconoscere la sua autorità. Sembra che tutti i suoi seguaci in Boemia e Moravia, e quasi tutti quelli in Ungheria e Romania rimanessero ebrei e continuassero a condurre una doppia vita, ufficialmente come ebrei, ma segretamente come "credenti". Anche in Galizia rimasero molte cellule di "credenti" in numerose comunità, da Podhajce (Podgaytsy) ad est fino a Cracovia ad ovest. La struttura sociale della setta Esistono prove contraddittorie per quanto concerne la struttura sociale e spirituale dei settari, tanto gli apostati quanto coloro che rimasero ebrei; ma forse i due tipi di prove in realtà sono complementari. Molte fonti, soprattutto di parte ebraica, mostrano che molti di loro erano colti e istruiti, e vi erano persino diversi rabbini di piccole comunità. I più stretti collaboratori di Frank che figuravano tra gli apostoli appartenevano senza dubbio a questa categoria. Per quanto riguarda la loro posizione sociale, alcuni erano ricchi proprietari, mercanti e artigiani come argentieri e orafi; altri erano figli di capi delle varie comunità. D'altra parte, moltissimi erano distillatori e locandieri, individui semplici e appartenenti alle classi più povere. In Moravia e in Boemia vi erano anche molte famiglie ricche e aristocratiche, mercanti notissimi e concessionari dei monopoli statali, mentre nei responsa dei rabbini contemporanei (e anche nel hasidico Shivhei ha-Besht) vengono riferiti episodi relativi a scrivani e shohatim che erano anche membri della setta. A Sziget, in Ungheria, un "giudice degli ebrei'' (Judenrichter) viene enumerato tra i frankisti, oltre a parecchi altri membri importanti della comunità. La scoperta della setta, che in precedenza aveva operato in segreto, e l'apostasia collettiva avvenuta in molte comunità polacche ebbero una vasta pubblicità e causarono numerose ripercussioni. La presa di posizione dei capi spirituali ebrei non fu uniforme: molti rabbini ritennero che la separazione dei settari dalla comunità e il loro passaggio al Cristianesimo fosse un bene per l'intero popolo ebraico (A. Yaari in Sinai, 35 (1954), 17083). Essi speravano che tutti i membri della setta abbandonassero la religione ebraica: ma la loro speranza non si realizzò. Un punto di vista diverso fu espresso da Israel Ba'al Shem Tov dopo la disputa di Leopoli, e cioè che "la Shekhinah piange la setta degli apostati, perché fino a quando l'arto è congiunto al corpo vi è speranza di guarigione, ma quando viene amputato, non può esservi rimedio, perché ogni ebreo è un membro della Shekhinah". Nahman di Bratislava, pronipote di Ba'al Shem Tov, disse che il bisnonno era morto per il dolore causatogli dalla setta e dall'apostasia. In molte comunità polacche furono tramandate tradizioni relative a famiglie frankiste che non avevano apostatato, mentre coloro che tenevano particolarmente all'onore familiare si guardavano dallo sposare appartenenti a tali famiglie, a causa del sospetto d'illegittimità creato dalla trasgressione delle proibizioni sessuali. L'arresto di Frank Il viaggio di Frank a Varsavia, compiuto in gran pompa nell'ottobre 1759, provocò numerosi scandali, soprattutto a Lublino. Anche dopo l'apostasia, i seguaci di Frank furono continuamente sorvegliati dal clero cattolico, che aveva molti dubbi sulla sincerità della loro conversione. Le notizie circa le dimostrazioni date alle autorità ecclesiastiche della loro vera fede sono molto diverse, ed è possibile che provenissero da fonti differenti. Fu G. Pikulski, in particolare, che nel dicembre 1759 ottenne confessioni separate da sei dei "fratelli" che erano rimasti a Leopoli, e da queste risultò evidente che il vero oggetto della loro devozione era Frank, quale incarnazione vivente di Dio. Quando queste informazioni giunsero a Varsavia, Frank fu arrestato il 6 dicembre 1760, e per tre settimane fu assoggettato a un'indagine dettagliata da parte del tribunale ecclesiastico, che lo mise anche a confronto con molti dei "credenti" giunti con lui a Varsavia. La testimonianza di Frank fu un miscuglio di menzogne e di mezze verità. Il tribunale decise di esiliarlo a tempo indeterminato nella fortezza di Czestochowa, che era sotto la giurisdizione della Chiesa, "per impedirgli di esercitare influenza sui suoi seguaci". Questi ultimi furono liberati con l'ordine di adottare il Cristianesimo con fede sincera, e di dimenticare il loro capo: un risultato che tuttavia non venne raggiunto. Comunque, il "tradimento" dei suoi seguaci che rivelarono le loro vere convinzioni fu una spina nel cuore di Frank per tutto il resto della sua vita. Il tribunale emanò anche una dichiarazione a stampa sui risultati dell'inchiesta. Alla fine di febbraio, Frank fu esiliato e rimase in "onorevole prigionia" per tredici anni. All'inizio fu abbandonato completamente; ma ben presto trovò il modo di ristabilire i contatti con i suoi. In quell'epoca gli apostati erano sparsi in numerose cittadine e in tenute di proprietà dei nobili. Soffrirono molto fino a quando si sistemarono finalmente, in maggioranza a Varsavia, gli altri in città come Cracovia e Krasnystaw, e si organizzarono in una società settaria segreta, i cui membri avevano cura di osservare apertamente tutti i precetti della fede cattolica. Inoltre, essi approfittarono dell'instabile situazione politica della Polonia, alla fine della sua indipendenza, e molte delle famiglie più importanti chiesero titoli nobiliari, con un certo successo, in base a vecchi statuti che accordavano tali privilegi agli ebrei convertiti. Frank a Czestochowa A partire dalla fine del 1760, emissari dei "credenti" cominciarono a visitare Frank e a trasmettere le sue istruzioni. In ottemperanza a queste furono coinvolti ancora una volta in un caso di calunnia del sangue nella città dl Wojslawiec nel 1761, con il risultato che molti ebrei furono massacrati. La loro ricomparsa come accusatori del popolo ebraico destò grande risentimento tra gli ebrei polacchi, i quali l'interpretarono come una vendetta. A poco a poco, le condizioni della prigionia di Frank migliorarono, e nel 1762 la moglie fu autorizzata a raggiungerlo, mentre un intero gruppo dei suoi principali seguaci, uomini e donne, ottenne il permesso di stabilirsi nei pressi della fortezza, e addirittura di praticare riti religiosi segreti di carattere sessuale orgiastico nella fortezza stessa. Parlando a questo gruppo, Frank aggiunse un'interpretazione specificamente cristiana della sua concezione della Vergine quale Shekhinah, sotto l'influenza del culto della Vergine che, in Polonia, era incentrato a Czestochowa. Nel 1765, quando divenne evidente che il paese stava per disgregarsi, Frank progettò di stringere legami con la Chiesa ortodossa russa e con il governo russo tramite l'ambasciatore dello zar in Polonia, il principe Repnin. Una delegazione frankista si recò a Smolensk e a Mosca alla fine di quell'anno, e promise di istigare attività filorusse tra gli ebrei: tuttavia, non si conoscono i particolari. È possibile che da questo periodo datino i legami clandestini tra il campo frankista e le autorità russe. Tali piani vennero a conoscenza degli ebrei di Varsavia, e nel 1767 una controdelegazione fu inviata a San Pietroburgo per informare i russi del vero carattere dei frankisti. A partire da quel momento, la propaganda frankista riprese a diffondersi nelle comunità di Galizia, Ungheria, Moravia e Boemia per mezzo di lettere ed emissari scelti tra i membri più dotti della setta. Uno di questi emissari, Aaron Isaac Teomim di Horodenka, giunse ad Altona nel 1764. Nel 1768-69 vi erano due agenti frankisti a Praga e Prossnitz, il centro shabbateo in Moravia; e là furono addirittura autorizzati a predicare nella sinagoga. All'inizio del 1770 morì la moglie di Frank, e da allora il culto della "signora" (gevirah) che le era stato accordato in vita, fu trasferito alla figlia di Frank, Eva (già Rachel), che rimase con lui anche quando praticamente tutti i "credenti" avevano lasciato la fortezza e si erano trasferiti a Varsavia. Quando Czestochowa fu occupata dai russi nell'agosto 1772, dopo la prima spartizione della Polonia, Frank venne liberato dal comandante in capo e lasciò la città all'inizio del 1773, recandosi a Varsavia con la figlia. Di là, nel marzo del 1773, in compagnia di diciotto seguaci che si spacciavano per servitori di un ricco mercante, si trasferì a Bruenn (Brno) in Moravia, in casa della cugina Schoendel Dobruschka, moglie di un ebreo ricco e influente. Frank a Bruenn e a Offenbach Frank rimase a Bruenn fino al 1786, ottenendo la protezione delle autorità, sia perché era un uomo rispettato e provvisto di mezzi e di amicizie importanti, sia perché era impegnato a diffondere il Cristianesimo tra i suoi numerosi seguaci delle comunità morave. Egli istituì un regime paramilitare nel suo seguito, in cui gli uomini portavano uniformi militari e seguivano un corso di addestramento. La corte di Frank attirò molti shabbatei moravi, le cui famiglie conservarono per intere generazioni le spade portate al suo servizio. Insieme alla figlia, Frank si recò a Vienna nel marzo 1775 e fu ricevuto dall'imperatrice e da suo figlio, il futuro Giuseppe II. Alcuni sostengono che Frank promise all'imperatrice l'appoggio dei suoi seguaci in una eventuale campagna per conquistare parti della Turchia; e infatti per un certo tempo parecchi emissari frankisti furono inviati in Turchia, dove collaborarono con i doenmeh, e forse operarono come agenti politici o spie al servizio del governo austriaco. In questo periodo, Frank parlava molto di una rivoluzione generale che avrebbe travolto molti regni, e in particolare la Chiesa cattolica, e sognava la conquista di un territorio, nelle guerre alla fine del tempo, che sarebbe diventato il dominio frankista. Per questo era necessario l'addestramento militare. Dove Frank si procurasse il denaro per mantenere la sua corte era fonte continua di meraviglia e di ipotesi: e il problema non ebbe mai una soluzione. Senza dubbio era stato organizzato un sistema di tassazione tra i membri della setta. Circolavano voci sull'arrivo di barili d'oro inviati secondo alcuni dai suoi seguaci, ma secondo altri dai suoi 'mandanti" politici stranieri. In un certo periodo si sa che c'erano a Bruenn centinaia di settari che non esercitavano alcuna professione, e che obbedivano esclusivamente a Frank, il quale li governava con pugno di ferro Nel 1784 le sue risorse finanziarie si esaurirono temporaneamente, ed egli si trovò in grandi ristrettezze; ma in seguito la situazione migliorò. Durante il soggiorno a Bruenn dettò ai principali collaboratori la maggior parte dei suoi insegnamenti e dei suoi ricordi. Nel 1786 o nel 1787 lasciò Bruenn e, dopo aver trattato con il principe di Ysenburg, si stabilì a Offenbach, presso Francoforte. A Bruenn e a Offenbach Frank e i suoi tre figli cercarono, riuscendovi per molto tempo, di gettare polvere negli occhi agli abitanti e alle autorità. Mentre fingevano di seguire i precetti della Chiesa cattolica, sfoggiavano strane pratiche di tipo volutamente "orientale", per sottolineare il loro carattere esotico. Negli ultimi anni, Frank cominciò a spargere anche tra i suoi più stretti collaboratori la nozione che sua figlia Eva era in realtà la figlia illegittima dell'imperatrice Caterina della casa dei Romanov, e che egli era soltanto il suo tutore. Ufficialmente, i frankisti rifuggivano da ogni contatto sociale con gli ebrei, al punto che molti di coloro che avevano rapporti d'affari con questi ultimi rifiutavano di credere alle accuse circa la vera natura della comunità quale setta ebraica segreta. Anche nei proclami a stampa emanati a Offenbach, i figli di Frank basavano la loro autorità sui forti legami con la casa reale russa. Vi sono indizi attendibili del fatto che persino l'amministrazione del principe di Ysenburg considerava Eva come una principessa Romanov. L'ultimo centro della setta fu istituito a Offenbach, dove i seguaci mandavano i figli e le figlie a prestare servizio a corte, seguendo l'esempio stabilito a Bruenn. Frank ebbe diversi colpi apoplettici e morì il 10 dicembre 1791.Il suo funerale fu organizzato come una solenne dimostrazione da centinaia di suoi "credenti". Frank aveva continuato fino alla fine la sua doppia vita, mantenendo la leggendaria atmosfera orientale che lo circondava agli occhi di ebrei e cristiani. Nel periodo tra l'apostasia di Frank e la sua morte i convertiti consolidarono la loro posizione economica, soprattutto a Varsavia, dove molti di loro costruirono fabbriche e furono attivi nelle organizzazioni massoniche. Un gruppo d'una cinquantina di famiglie frankiste, guidato da Anton Czerniewski, uno dei principali discepoli di Frank, si stabilì in Bukovina dopo la sua morte e venne conosciuto come la setta degli Abramiti; i loro discendenti continuavano ancora a vivere un'esistenza isolata 125 anni più tardi. Molte famiglie della Moravia e della Boemia, che erano rimaste nella comunità ebraica, migliorarono anch'esse la loro posizione sociale, ebbero stretti legami con il movimento Haskalah e incominciarono a unire idee cabalistiche mistiche e rivoluzionarie alle concezioni razionalistiche dell'Illuminismo. Alcuni di coloro che si erano convertiti in quei paesi seguendo l'esempio di Frank furono ammessi negli alti gradi dell'amministrazione e nell'aristocrazia austriaca, ma conservarono certe tradizioni e consuetudini frankiste, creando così uno strato in cui i confini tra Giudaismo e Cristianesimo si confondevano, indipendentemente dal fatto che i suoi membri fossero convertiti o avessero conservato i legami con il Giudaismo. Solo raramente interi gruppi di frankisti si convertirono al Cristianesimo, come avvenne a Prossnitz nel 1773, ma una percentuale considerevole dei giovani che furono inviati a Offenbach venne battezzata in quella città. Esempi illuminanti di storie di famiglie appartenenti allo strato intermedio menzionato più sopra sono quelli delle famiglie appartenenti allo strato intermedio menzionato più sopra sono quelli delle famiglie Hoenig e Dobrushka in Austria. Alcuni membri della famiglia Hoenig rimasero ebrei frankisti anche dopo l'elevazione alla nobiltà, ed ebbero stretti rapporti con l'alta borghesia e l'amministrazione austriaca (le famiglie Von Hoenigsberg, Von Hoenigstein, Von Bienefeld), mentre i membri della famiglia Dobrushka si convertirono praticamente in blocco e molti di loro divennero ufficiali dell'esercito. Moses, il figlio di Schoendel Dobrushka, la cugina di Frank, che in molti circoli era conosciuto come il nipote dello stesso Frank, fu il personaggio più eminer~te dell'ultima generazione dei frankisti; fu noto anche come Franz Thomas Von Schoenfeld (scrittore in lingua tedesca e organizzatore di un ordine mistico di carattere cabalistico cristiano-ebraico, i "fratelli asiatici") e più tardi come Junius Frey (rivoluzionario giacobino in Francia). Sembra che gli venisse offerta la direzione della setta dopo la morte di Frank e, quando egli rifiutò, Eva, insieme ai due fratelli minori Josef e Rochus, si assunse la responsabilità della gestione della corte. Molti continuarono a recarsi a Offenbach, alla "Cotten Haus " come la chiamavano i "credenti". La figlia di Frank e i suoi fratelli non avevano la statura né la forza necessaria, e le loro fortune declinarono presto. L'unica attività indipendente emersa da Offenbach fu l'invio delle "Lettere Rosse" a centinaia di comunità ebraiche europee, nel 1799, sul tema dell'inizio del secolo XIX. In queste lettere gli ebrei venivano invitati per l'ultima volta ad entrare nella "santa religione di Edom". Nel 1803 Offenbach era stata quasi completamente abbandonata dai "credenti", che erano tornati a centinaia in Polonia, mentre i figli di Frank si ridussero in miseria. Josef e Rochus morirono rispettivamente nel 1807 e nel 1813 senza lasciare eredi, ed Eva Frank morì nel 1816, lasciando debiti enormi. Negli ultimi anni della sua vita alcuni membri delle famiglie più rispettabili della setta, che erano finanziati da Varsavia, rimasero con lei. In quegli ultimi quindici anni si comportò come se fosse una principessa reale della casa dei Romanov, e molti ambienti tendevano a credere che lo fosse veramente. L'organizzazione esclusiva della setta sopravvisse in questo periodo grazie agli agenti che si spostavano da un luogo all'altro, alle riunioni segrete e ai riti religiosi separati e alla disseminazione di una letteratura specificamente frankista. I 'credenti tendevano a sposarsi solo tra loro, e si era creata un'ampia rete di relazioni interfamiliari, anche tra i frankisti che erano rimasti ebrei. Il frankismo più tardo fu in larga misura la religione delle famiglie che avevano dato ai figli un'educazione specifica. I frankisti di Germania, Boemia e Moravia tenevano solitamente raduni segreti a Carlsbab in estate, intorno al 9 di Av. La letteratura frankista L'attività letteraria della setta incominciò verso la fine della vita di Frank, e fu incentrata dapprima a Offenbach, nelle mani di tre dotti "anziani" che erano tra i suoi principali discepoli: i due fratelli Franciszek e Michael Wolowski (appartenenti alla nota famiglia rabbinica Shor) e Andreas Dembowski (Yeruham Lippmann di Czernowitz). Alla fine del XVIII secolo essi compilarono una raccolta degli insegnamenti e dei ricordi di Frank, contenente circa 2.300 tra detti e aneddoti, riuniti nel volume Slowa Pariskie ("Le parole del Maestro", ebraico Diurei ha-Adon) che fu inviato ai circoli dei credenti. Apparentemente, il libro era stato composto in origine in ebraico, poiché veniva citato in questa lingua dai frankisti di Praga. Per soddisfare le esigenze dei convertiti polacchi, i cui figli non imparavano più l'ebraico, il libro fu tradotto, apparentemente a Offenbach, in un pessimo polacco che richiese successive revisioni per acquistare uno stile migliore. Il libro illuminava il vero mondo spirituale di Frank e i suoi rapporti con il Giudaismo, il Cristianesimo e i membri della sua setta. Diversi manoscritti completi furono conservati da famiglie polacche, e alcuni furono acquistati da biblioteche pubbliche e consultati dagli storici Kraushar e Balaban. Tali manoscritti furono distrutti o andarono perduti durante l'Olocausto, e oggi si conoscono solo due manoscritti imperfetti nella biblioteca dell'Università di Cracovia, che comprendono circa due terzi del testo completo. A Offenbach fu compilata anche una cronaca dettagliata degli eventi della vita di Frank, che forniva informazioni molto più attendibili di tutti gli altri documenti, nei quali Frank non aveva esitato a mentire. Conteneva inoltre una descrizione dettagliata e senza remore dei riti sessuali praticati da Frank. Questo manoscritto fu prestato a Kraushar da una famiglia frankista, ma in seguito è sparito senza lasciar tracce. L'opera di un anonimo frankista, scritta in polacco intorno al 1800 e intitolata "La profezia di Isaia", che sfrutta in senso frankista le metafore del libro biblico, fornisce una documentazione attendibile delle attese rivoluzionarie e utopistiche dei membri della setta. Questo manoscritto, che fu pubblicato in parte nel libro di Kraushar, rimase nella biblioteca della comunità ebraica di Varsavia fino all'Olocausto. A Offenbach era stato scritto anche un libro che elencava i sogni e le rivelazioni vantati da Eva Frank e dai suoi fratelli; ma due giovani della famiglia Porges di Praga, che erano stati inviati alla corte ed erano rimasti delusi da ciò che avevano veduto, fuggendo dalla città portarono via il libro e lo consegnarono al tribunale rabbinico di Fuerth, che a quanto sembra provvide a distruggerlo. I frankisti a Praga Un altro centro d'intensa attività letteraria sorse a Praga, dove si era stabilito un importante gruppo frankista. Alla sua testa vi erano parecchi membri di due famiglie illustri, i Wehle e i Bondi, i cui antenati erano appartenuti per varie generazioni al movimento segreto shabbateo. Essi avevano forti legami con i "credenti" di altre comunità della Boemia e della Moravia. Il loro capo spirituale, Jonas Wehle (1752-1823), fu aiutato dai fratelli, che erano frankisti ferventi, e dal genero Loew von Hoenigsberg (m. 1811), che mise per iscritto molti degli insegnamenti del suo circolo. Il gruppo agì con grande prudenza per molto tempo, soprattutto finché fu in vita R. Ezekiel Landau, in presenza del quale i suoi membri negarono di appartenere alla setta. Dopo la sua morte, però, si fecero notare. Nel 1799 R. Eleazar Fleckeles, il successore di Landau, predicò alcuni sermoni ardentemente polemici contro di loro, causando tumulti nella sinagoga di Praga, e portando alla pubblicazione di attacchi contro il gruppo, nonché alla denuncia e alla difesa dei suoi membri davanti alle autorità civili. Di questo periodo rimane una copiosa documentazione fornita dai membri "pentiti" della setta a Kolin e in altre località. L'importante fascicolo sui frankisti esistente negli archivi della comunità di Praga venne rimosso dal presidente della comunità stessa alla fine del XIX secolo, per riguardo alle famiglie implicate. Lo scalpore causato dall'apparizione delle "Lettere Rosse" (scritte in inchiostro rosso, quale simbolo della religione di Edom) contribuì a mantenere per anni un piccolo gruppo frankista, e alcuni dei suoi membri, o i loro figli, furono in seguito tra i fondatori del primo tempio della Riforma a Praga (c. 1832). Un altro gruppo esistette a lungo a Prossnitz. Parte della letteratura del circolo di Praga sopravvisse: per l'esattezza, un commento alle aggadot raccolto nell'opera Ein Ya'akou, e un'ampia collezione di lettere sui dettagli della fede, oltre a commenti a vari passi biblici scritti in tedesco misto a yiddish ed ebraico, da Loew Hoenigsberg all'inizio del XIX secolo. Aaron Yellinek possedeva vari scritti frankisti in tedesco; ma sparirono dopo la sua morte. Alla morte di Eva Frank l'organizzazione si indebolì, anche se nel 1823 Elias Kaplinski, appartenente alla famiglia della moglie di Frank, tentò ancora di convocare una conferenza dei settari, che si svolse a Carlsbad. Poi la setta si disgregò, e furono inviati messi a raccogliere i vari scritti conservati presso le varie famiglie. Questo occultamento premeditato della letteratura frankista è una delle ragioni principali della nostra ignoranza circa la sua storia interna, unitamente al fatto che moltissimi discendenti dei settari preferivano che non si indagasse troppo. L'unico dei "credenti" che lasciò un memoriale fu Moses Porges (più tardi Von Portheim), che lo scrisse in tarda età. Un intero gruppo di famiglie frankiste della Boemia e della Moravia emigrò negli Stati Uniti nel 1848-49. Nel suo testamento, Gottlieb Wehle di New York, 1867, nipote di Jonas Wehle, esprime un profondo senso d'identità con i suoi antenati frankisti, che per lui erano stati i primi sostenitori del progresso nel ghetto, una concezione, questa, sostenuta da molti altri discendenti dei "credenti". Il rapporto tra la Cabala eretica dei frankisti e le idee del nuovo illuminismo è evidente tanto nei manoscritti superstiti di Praga quanto nelle tradizioni delle famiglie della Boemia e della Moravia (dove vi erano aderenti della setta, oltre a Praga, anche in località come Kolin, Horschitz (Horice), Holleschau (Holesov) e Kojetin. Continuarono a esistere forti legami tra le famiglie dei neofiti polacchi che erano ascese considerevolmente sulla scala sociale nel XIX secolo, ed è possibile che esistesse una sorta di organizzazione. Durante le prime tre generazioni dopo l'apostasia del 1759-60, moltissimi continuarono a sposarsi tra loro, conservando in molti modi il loro carattere ebraico, e solo pochissimi sposarono veri cattolici. Copie delle "Parole del Maestro" venivano prodotte ancora nei decenni 1820-30, e apparentemente trovavano lettori. I frankisti furono attivi come ferventi patrioti polacchi e parteciparono alle rivolte nel 1793, 1830 e 1863. Per tutto questo tempo, tuttavia furono sospettati di separatismo settario ebraico. A Varsavia, tra il 1830 e il 1840, moltissimi avvocati erano discendenti di frankisti, e molti di loro erano anche uomini d'affari, scrittori e musicisti, e più tardi molti di loro passarono dall'ala liberale della società polacca a quella nazionale e conservatrice. Tuttavia, rimasero ancora numerose famiglie i cui membri continuarono a sposarsi tra loro. Per molto tempo, questa cerchia mantenne contatti segreti con i doenmeh di Salonicco. Esiste tuttora una controversia irrisolta circa l'affiliazione frankista di Adam Mickiewics, il più grande poeta polacco. Vi è una chiara testimonianza da parte dello stesso poeta (per parte di madre) ma in Polonia tale testimonianza viene interpretata erroneamente. Le origini frankiste di Mickiewicz erano ben note alla comunità ebraica polacca già nel 1838 (secondo l'evidenza nell'AZDJ di quell'anno, p. 362). Anche i genitori della moglie del poeta venivano da famiglie frankiste. La cristallizzazione della setta frankista è una delle indicazioni più nette della crisi che colpì la società ebraica a metà del XVIII secolo. La personalità di Frank appare quella di un avventuriero motivato da un miscuglio d'impulsi religiosi e di brama di potere. Per contro, i "credenti" erano nel complesso uomini di fede profonda e di grande integrità morale, finché questo non contrastava con le richieste immorali fatte da Frank. In tutto ciò che rimane della loro letteratura originale, in tedesco, in polacco e in ebraico, non vi sono assolutamente riferimenti alle questioni che, come la calunnia del sangue, scatenarono contro di loro la comunità ebraica. Essi erano affascinati dalle parole del loro capo e dalla sua visione di una fusione tra il Giudaismo e il Cristianesimo; tuttavia essi vi univano speranze più modeste, che li spinsero a diventare esponenti degli ideali liberal-borghesi. La loro fede shabbatea nichilista servì come transizione a un mondo nuovo, fuori dal ghetto. Essi dimenticarono rapidamente le pratiche licenziose e acquisirono fama di altissima condotta morale. Molte famiglie frankiste conservarono le miniature di Eva Frank che erano state inviate alle casate più importanti, e ancora oggi molti la onorano come una santa donna ingiustamente calunniata. 4 BA'AL SHEM Ba' al Shem ("Maestro del Nome Divino", alla lettera "Possessore del Nome' ) era il titolo dato nell'uso popolare e nella letteratura giudaica, soprattutto nelle opere cabalistiche e hasidiche, a partire dal Medioevo, a colui che possedeva la conoscenza segreta del Tetragrammaton e degli altri "Nomi Sacri", e che sapeva operare miracoli grazie al potere di tali nomi. La designazione ba'al shem non ebbe origine con i cabalisti, perché era già nota agli ultimi geonim babilonesi. In un responsum, Hai Gaon affermò: "Essi testimoniano di aver veduto un certo uomo, uno dei noti ba'alei shem, alla vigilia del Sabbath in un luogo e nel contempo egli venne visto in un altro luogo, a una distanza di parecchi giorni di viaggio". fu in questo senso che Judah Halevi criticò le attività dei ba'alei shem (Kuzari, 3:53). Nella tradizione hasidica tedesca medievale questo titolo era accordato a parecchi poeti liturgici, ad esempio Shephatiah e suo figlio Amittai dell'Italia meridionale (in Abraham b. Azriel, Arugat ha Bosem, 2 (1947, 181). I cabalisti spagnoli usavano le espressioni ba'alei sefirot, i cabalisti teorici, e ba'alei shemot, i maghi, nei loro insegnamenti cabalistici. Isaac b. Jacob ha-Kohen, Todros ha-Levi Abulafia, e Moses de Leon menzionarono tutti questa tendenza tra i cabalisti senza esprimere disapprovazione, mentre Abraham Abulafia scrisse in toni sprezzanti dei ba'alei shem. A partire dalla fine del XIII secolo, il termine ba'alei shem venne usato anche per i preparatori di amuleti basati sui Nomi Sacri (Ozar Nehmad vol. 2, p. 133 ). Vi furono numerosissimi ba alei shem, soprattutto in Germania e in Polonia, a partire dal XVI secolo. Alcuni erano importanti rabbini e dotti talmudisti, come Elijah Loans di Francoforte e Worms, Elijah Ba'al Shem di Chelm e Sekel Isaac Loeb Wormser (il ba al shem di Michelstadt). Altri erano eruditi che si dedicavano interamente allo studio della Cabala, come Joel Ba'al Shem di Zamosc ed Elhanan "Ba'al haKabbalah" di Vienna (entrambi del secolo XVIII), e Benjamin Beinisch haKohen di Krotoszyn (inizio del XVIII secolo), e Samuel Essingen. Nel XVII e nel XVIII secolo il numero di ba'alei shem che non erano eruditi talmudici aumentò. Tuttavia, essi attraevano un largo seguito grazie ai loro poteri reali o immaginari di guarire gli infermi. Questo tipo di ba'al shem era spesso una combinazione di cabalista pratico, che operava le guarigioni mediante preghiere, amuleti e incantesimi, e di guaritore popolare esperto di segullot ("rimedi") preparati con sostanze animali, vegetali e minerali. La letteratura del periodo pullula di episodi e testimonianze su questo tipo di ba'alei shem; alcuni, tuttavia, furono scritti per criticare loro e le loro attività. Si riteneva in generale che i ba'alei shem fossero efficaci soprattutto nella cura delle malattie mentali e negli esorcismi contro gli spiriti maligni. Vi è una variante del titolo "ba'al shem': "ba'al shem tov". Il fondatore del Hasidismo moderno, Israel b. Eliezer Ba'al Shem Tov, solitamente indicato con le iniziali "BeShT", è il più famoso ed eccezionale portatore di questo titolo. Il titolo di "ba'al shem tov" esisteva in precedenza, ma non indicava una speciale qualità o distinzione tra coloro che lo portavano e i ba'alei shem. Esempi sono Elhanan Ba'al Shem Tov, che morì nel 1651; Benjamin Krotoschin, che si diede il titolo nel AUO libro Shem Tou Katan (Sulzbach, 1706); e Joel Ba'al Shem I, che si firmava "BeShT" come fondatore del Hasidismo. Nel XVIII secolo, Samuel Jacob Hayyim Falk, il "ba'al shem di Londra", acquisì vasta rinomanza; i cristiani lo chiamavano "dottor Falk". La teoria, sostenuta da molti studiosi, che questi ba'al shem itineranti 'fossero responsabili della diffusione dello Shabbateanismo, non è stata provata, anche se alcuni di loro erano effettivamente membri della setta. Sono stati pubblicati parecchi libri di questi ba'alei shem sul tema della Cabala pratica, segullot ("rimedi") e refu'ot ("guarigioni"). Tra gli altri si ricordano Toledot Adam (1720) e Mifalot Elohim (1727), pubblicati a cura di Joel Ba'al Shem e basati sulle opere di suo nonno Joel Ba'al Shem I, Shem Tou Katan (1706) e Amtahat Binyamin (1716). Le attività dei ba'alei shem divennero leggendarie. Personaggi fittizi dello stesso tipo furono spesso inventati, come Adam Ba'al Shem di Bingen, protagonista di una serie di vicende miracolose in yiddish che vennero stampate già nel XVII secolo. La leggenda hasidica creò successivamente una connessione immaginaria tra questo personaggio e Israel Ba'al Shem Tov. I leaders della Haskalah, in generale, consideravano i ba alei shem come ciarlatani e avventurieri. 5 SEFER HA-BAHIR Sefer ha-Bahir ("Libro Bahir") è la prima opera della letteratura cabalistica, cioè il primo libro che adotta la metodologia specifica e la struttura simbolica caratteristiche dell'insegnamento cabalistico. Titoli Tra i cabalisti spagnoli medievali il Sefer ha-Bahir era conosciuto con due nomi, ognuno basato sulle frasi iniziali del libro: 1) Midrash R. Nehunya ben ha-Kanah ('R. Nehunya b. ha-Kanah disse", che è la frase iniziale della prima sezione); 2) Sefer ha-Bahir, basato sulla frase "Un versetto dice: E ora gli uomini non vedono la luce che è fulgida (hahir) nei cieli" (Giobbe 37:21). Sebbene il secondo titolo sia il più vecchio, il primo divenne popolare perché usato da Nahmanides nel suo commento al Pentateuco. Non vi è evidenza interna a sostegno dell'attribuzione dell'opera, da parte dei cabalisti, a R. Nehunya. Il libro è un Midrash nello stretto senso letterario della parola: un'antologia di varie affermazioni, quasi tutte brevi, attribuite a diversi tannaim e amoraim. I personaggi principali del libro sono chiamati "R. Amora" (o "Amorai") e "R. Rahmai" (o Rehumai"). Il primo nome è fittizio, mentre il secondo sembra coniato a imitazione dell'amora, Rehumi. Vi sono inoltre affermazioni attribuite a R. Berechiah, R. Johann, R. Bun e altre che sono note attraverso la letteratura midrashica. Tuttavia, solo pochissime di tali affermazioni provengono veramente da queste fonti, e tutte furono attribuite a rabbini menzionati nei Midrashim più tardi, che avevano anch'essi l'abitudine di attribuire i detti aggadici ai rabbini vissuti prima di loro (per esempio Pirkei de-R. Eliezer, Otiyyot de-R. Akiva, e opere simili). Nel Sefer ha-Bahir vi sono inoltre molti paragrafi nei quali non viene menzionato nessun nome. Idee e tradizioni su molti argomenti vengono trasmessi sotto forma di spiegazioni di versetti biblici, brevi discussioni tra interlocutori diversi o affermazioni prive di base scritturale. Oltre ai familiari detti aggadici (che sono poco numerosi), vi sono commenti sul significato mistico di versetti particolari; sulle forme di parecchie lettere dell'alfabeto; sui segni di vocalizzazione e di cantillazione; su affermazioni contenute nel Sefer Yezirah (vedasi a p. 31), e sui nomi sacri e il loro uso nella magia. Le interpretazioni di alcuni versetti contengono spiegazioni dei significati esoterici di alcuni comandamenti (ad esempio tefillin, zizit, terumot, "invio della madre") (vedasi Deut. 22:6, 7, lulav, etrog eccetera). Non vi è, apparentemente, un ordine definito nel libro. Qualche volta si può notare una certa concatenazione del pensiero nella disposizione dei vari passi, ma presto il filo si spezza, e il senso spesso balza inesplicabilmente da un tema all'altro. Per contro, vi sono affermazioni legate insieme a causa di qualche associazione estranea, senza una sequenza definita di pensiero. Tutto ciò conferisce al Sefer ha-Bahir l'aspetto di un Midrash, o una raccolta di detti tratti da varie fonti. Tuttavia, è possibile distinguere certe sezioni che sembrano avere un'unità letteraria. Queste sono soprattutto: 1) la successione di affermazioni che sono basate sul Sefer Yezirah e che sviluppano in una nuova vena il contenuto di tale libro; 2) l'elenco ordinato che viene dato, sia pure con frequenti interruzioni, delle dieci Sefirot ("Emanazioni Divine"), chiamate qui i dieci ma'amarot ("detti") con i quali fu creato il mondo. Idee Il libro, così come è pervenuto fino a noi, conferma la tradizione dei cabalisti del XIII secolo, secondo i quali il Sefer ha-Bahir fu loro trasmesso in forma estremamente mutilata, come frammenti di rotoli, libriccini e tradizioni. Contiene sezioni che s'interrompono a metà di una frase e non hanno alcun legame con ciò che segue. Vi sono discussioni iniziate e non completate. Il materiale addizionale che interrompe la sequenza si trova in proporzioni maggiori proprio nelle sezioni che sembrano avere una consistenza interna. Nella sua forma attuale il libro è molto breve: contiene all'incirca 12.000 parole. La struttura è estremamente sciolta: il libro è semplicemente una raccolta di materiale collocato entro una cornice senza la minima capacità letteraria e critica. La lingua è un miscuglio di ebraico e aramaico. Lo stile è spesso difficilissimo e, anche a parte numerosi errori nelle edizioni a stampa, non è facilmente comprensibile, e stilisticamente è poco chiaro. Tuttavia, in alcune parti ha una certa esaltazione spirituale e persino una certa bellezza descrittiva. Vi sono numerose parole, che talvolta incorporano l'essenza stessa di un'idea che non può essere espressa in altra forma, o che servono come risposte ai quesiti posti dagli interlocutori. Alcuni di questi detti sono semplici adattamenti di precedenti affermazioni talmudiche e midrashiche, ma in maggioranza non hanno paralleli in queste. L'importanza fondamentale del Bahir sta nell'uso del linguaggio simbolico. È la fonte più antica che tratta il regno dei divismi attribuiti (Sefirot; "logoi"; "bei vasi"; "re"; "voci"; "corone") e che interpreta la Scrittura come se riguardasse non già ciò che avvenne nel mondo creato, ma anche eventi nel regno divino, e con l'azione degli attributi di Dio. A tali attributi vengono dati per la prima volta nomi simbolici, derivati dal vocabolario dei versetti interpretati. I principi su cui si basano il simbolismo del libro non vengono spiegati sistematicamente, e gli interlocutori lo usano come se potesse venir dato per scontato. Solo nell'elenco già ricordato dei dieci ma'amarot vi sono alcuni nomi simbolici, assegnati a ogni ma'amar (logos) . Le Sefirot, menzionate per la prima volta nel Sefer Yezirah come corrispondenti ai dieci numeri fondamentali, divennero nel Sefer ha-Bahir attributi divini, luci e poteri, ognuno dei quali adempie una particolare funzione nell'opera della creazione. Questo regno divino, che può essere descritto solo in un linguaggio altamente simbolico è il nucleo fondamentale del libro. Anche i ta'amei ha-mizvot (ragioni delle mizvot) sono relati a questo regno superno: l'adempimento di certi comandamenti significa l'attività di una Sefirah o di un attributo divino (o l'attività combinata di parecchi). Il Bahir adotta la concezione del Sefer Yezirah, per il quale vi sono dieci Sefirot, e procede alla conclusione generale che ad ogni attributo o S'efirah si allude nella Scrittura o nei testi rabbinici con un grandissimo numero di nomi e di simboli, che danno un'idea della sua natura; Le descrizioni del dominio di tali attributi sono talvolta presentate solo in termini allusivi spesso descritti nello stile pittoresco che conferisce al libro un sorprendente carattere mitologico. I poteri divini costituiscono "l'albero segreto" sul quale fioriscono le anime. Ma tali poteri sono anche la somma delle "forme sante" che sono congiunte nel sembiante dell'uomo superno. Tutto, nel mondo inferiore, particolarmente tutto ciò che ha santità, contiene un riferimento a qualcosa nel mondo degli attributi divini. Dio è il Signore di tutti i poteri, e la Sua natura unica e fulgida si può discernere in molti luoghi. Tuttavia, non si sa se i redattori dell'elenco dei dieci ma'amarot lo distinguessero dalla prima Sefirah (Keter Elyon, '`la corona suprema") o considerassero il Keter Elyon come Dio. Il libro pone in risalto il concetto del "pensiero" di Dio al posto della "volontà" di Dio. Il termine tecnico EinSof "l'Infinito'`) quale epiteto di Dio non compare ancora nel libro. Posto nella Cabala In generale, il Sefer ha-Bahir rappresenta una fase nell'evoluzione della Cabala, e presenta grandi variazioni di dettaglio rispetto al materiale che si trova nelle opere successive. Anche questo contribuisce a rendere più difficile la comprensione dell'opera. Una grande distanza divide il Sefer ha-Bahir dalla Cabala di Isaac il Cieco, al quale il libro è stato attribuito da alcuni studiosi moderni. Il Sefer ha-Bahir ha un'importanza grandissima quale unica fonte esistente dello stato in cui si trovava la Cabala quando venne a conoscenza di un pubblico più vasto, e delle prime fasi della sua evoluzione, prima della sua disseminazione al di fuori di circoli molto ristretti. Vi è una sorprendente affinità tra il simbolismo del Sefer ha-Bahir, da una parte, e le speculazioni degli gnostici e la loro teoria degli "eoni' dall'altra. Il problema fondamentale nello studio del libro è: l'affinità è basata su un anello di congiunzione storico ancora sconosciuto tra lo gnosticismo dell'era mishnaica e talmudica e le fonti da cui deriva il materiale del Sefer ha-Bahir? Oppure può trattarsi di un fenomeno puramente psicologico, cioè uno slancio spontaneo dal profondo dell'immaginazione dell'anima, senza alcuna continuità storica? Il Sefer ha-Bahir apparve alla fine del XII secolo nella Francia meridionale, ma non si conoscono le circostanze della sua comparsa. Vi sono parecchie ragioni per sostenere la teoria che il libro venisse compilato più o meno in quel periodo. Alcune delle affermazioni contenute nel libro mostrano chiaramente l'influenza degli scritti di Abraham b. Hiyya. I compilatori avevano davanti a loro manoscritti più o meno antichi contenenti frammenti, scritti in ebraico, di carattere gnostico, che li ispirarono a elaborare il nuovo ordinamento simbolico presentato nel Sefer ha-Bahir? L'intero libro, nella forma attuale o in una più completa, fu veramente composto poco prima della sua apparizione, o proprio nella Francia meridionale? Questi interrogativi erano rimasti praticamente senza risposta fino a quando, in tempi recenti, è stato provato che almeno una parte del Sefer ha-Bahir era soltanto un adattamento letterario di un libro molto anteriore, il Sefer Raza Rabba, che è menzionato nei responsa dei geonim ma che è andato perduto, sebbene frammenti importanti appaiano in uno dei libri dei Hasidei Ashkenaz. Una comparazione dei testi paralleli in Raza Rabba e in Sefer ha-Bahir dimostra il legame esistente. Ma l'elaborazione nel S'efer ha-Bahir aggiunge elementi fondamentali di carattere gnostico che non si trovano nella fonte originale. Di conseguenza, si deve presumere che, se vi è un legame storico tra il simbolismo del Sefer ha-Bahir e lo gnosticismo, tale legame fu stabilito tramite - fonti addizionali che oggi non sono note. La tradizione diffusa tra i cabalisti, secondo la quale parti del Sefer ha-Bahir giunsero loro dalla Germania, fu rafforzata considerevolmente dalla scoperta di frammenti del Raza Rabba. Ma non è ancora stato sufficientemente chiarito se si tratti di un opera collettiva, creata da una cerchia di mistici del XII secolo, o di una nuova compilazione di materiale molto anteriore. La totale assenza di ogni tentativo di giustificare opinioni che contraddicano le tradizioni giudaiche accettate può essere spiegata facilmente adottando la seconda teoria. Nel libro non vi sono indicazioni che l'idea della trasmigrazione delle anime, da esso sostenuta, fosse stata respinta da tutti i filosofi del Giudaismo fino all'apparizione del Sefer ha-Bahir. Tutte le interpretazioni mistiche e la delucidazione delle ragioni dei comandamenti non hanno toni apologetici. Molti paragrafi indicano un ambiente orientale e una conoscenza dell'arabo. È difficile supporre che il libro venisse compilato o composto in ambienti non eruditi, che non si preoccupavano delle idee correnti nella letteratura contemporanea ed erano assolutamente indipendenti. Un analisi delle fonti del libro non suffraga questa teoria, e quindi l'enigma letterario della prima opera cabalistica rimane tuttora quasi completamente irrisolto. Influenza Negli ambienti dei cabalisti spagnoli il Sefer ha-Bahir era accettato come una fonte antica e autorevole, "composta dei mistici saggi del Talmud" (Jacob b. Jacob ha-Kohen). Ebbe grande influenza sull'evoluzione dei loro insegnamenti. L'assenza di una chiara formulazione ideologica nel libro significa che in esso potevano trovare conferme uomini dalle concezioni completamente contrastanti. Da questo punto di vista, il libro non ebbe eguali prima dell'apparizione dello Zohar. D'altra parte, non fu accettato senza proteste da coloro che si opponevano alla Cabala. Meir b. Simeon di Narbona ne scrisse in termini molto duri: lo considerava un libro eretico attribuito a Nehunya b. ha-Kanah. Tuttavia, quest'ultimo era "un uomo giusto e virtuoso, che non errò in questo, e che non deve essere enumerato tra i peccatori" (c. 1240). Edizioni e commenti Tra i molti manoscritti del libro vi è una versione superiore in molti dettagli all'edizione a stampa, ma non contiene materiale nuovo: manoscritto di Monaco 209. Nel 1331 Meir b. Solomon Ibn-Sahula, discepolo di Solomon b. Abraham Adret, scrisse un commento al Sefer ha-Bahir che fu pubblicato anonimo nelle edizioni di Vilna e Gerusalemme con il titolo Or ha-Ganuz ("La luce nascosta"). Frammenti di un commento filosofico di Alijah b. Eliezer di Candia ci sono pervenuti nel manoscritto Vaticano 431. David Habillo (m. 1661; manoscritto Gaster 966) e Meir Poppers (a Gelusalemme), entrambi seguaci della Cabala lurianica, scrissero commenti sul S'efer ha-Bahir che sono stati conservati. È degno di nota il fatto che le varie edizioni del libro differiscono nella sua divisione in sezioni. La prima edizione del Sefer ha-Bahir fu stampata ad Amsterdam nel 1651 (da un anonimo studioso cristiano). L'edizione più recente, preparata da R. Margaliot con l aggiunta di note e materiale parallelo, fu pubblicata a Gerusalemme nel 1951. Il libro è stato tradotto in tedesco da G. Scholem (1970). 6 LA CHIROMANZIA La chiromanzia è l'arte di determinare il carattere e spesso anche il fato e il futuro di un uomo dalle linee e da altri segni del palmo della mano e delle dita, e fu una delle arti mantiche che si svilupparono nel Vicino Oriente sembra nel periodo ellenistico. Non sono giunte fino a noi fonti chiromantiche di quest'epoca, in greco o in latino, benché si sappia che esistettero. La chiromanzia si diffuse in una forma molto più vasta, nella letteratura araba medievale e greco-bizantina, da cui passò nella cultura latina. Sembra che fin dall'inizio esistessero due tradizioni. La prima collegava la chiromanzia all'astrologia, e quindi produceva una cornice semisistematica per i suoi riferimenti e le sue predizioni. La seconda non era affatto connessa all'astrologia bensì all'intuizione, i cui principi metodologici non sono chiari. Nel Medioevo i chiromanti cristiani trovarono una base scritturale in Giobbe 37:7: "Egli sigilla la mano di ogni uomo, affinché tutti gli uomini possano conoscere la sua opera", che potrebbe venire interpretata nel senso che le impronte della mano sono state fatte da Dio a fini chiromantici. Il versetto viene citato nella tradizione giudaica solo a partire dal XVI secolo. La chiromanzia appare per la prima volta nel Giudaismo negli ambienti del misticismo della Merkabah. I frammenti della loro letteratura includono un capitolo, intitolato Hakkarat Panim le-Rabbi Yishma el, scritto in ebraico mishnaico e protomidrashico. Questo capitolo è la più antica fonte letteraria della chiromanzia che sia stata scoperta sinora. È comprensibile solo parzialmente, perché è basata su simboli e allusioni ancora oscuri, ma non ha alcun legame con il metodo astrologico. Usa il termine sirtutim per indicare le linee della mano. Una traduzione tedesca del capitolo è stata pubblicata da G. Scholem. Un altro frammento dello stesso periodo, scoperto nella Genizah, presenta già un miscuglio tra astrologia, chiromanzia e fisiognomica. Da un responsum di Hai Gaon (Ozar ha-Ge'onim sul trattato Hagizah, sezione responsa, p. 12) appare chiaro che i mistici della Merkabah usavano la chiromanzia e la fisiognomica ellenistica per accertare se un uomo era degno di ricevere l'insegnamento esoterico. Essi citavano, come convalida scritturale di queste scienze, Genesi 5:1-2: "Questo è il libro delle generazioni dell'uomo" (l'ebraico Toledot veniva interpretato nel senso di "il libro del carattere e del fato dell'uomo") e "Egli li creò maschio e femmina", il che implica che la predizione chiromantica varia secondo il sesso: la mano destra è il fattore determinante per il maschio, la sinistra per la femmina. A parte il capitolo menzionato più sopra, per un lungo periodo circolò un numero rilevante di traduzioni di una fonte chiromantica al aba non ancora identificata, Re'iyyat ha-Yadayim le-Ehad me-Hakhmei Hodu ("Letture delle mani, di un saggio indiano"). Il saggio, nei manoscritti ebraici, è chiamato Nidarnar. Di questa fonte ci sono pervenute due traduzioni e vari adattamenti; e l'opera era conosciuta in ebraico non più tardi del XIII secolo. Uno degli adattamenti fu stampato con il titolo Sefer ha-Atidot nella raccolta Urim ve-Tummim (1700). Alla fine del XIII secolo, il cabalista Menahem Recanati aveva una copia del testo, interamente basato sui principi del metodo astrologico di chiromanzia che collega le linee principali del palmo e le varie parti della mano ai sette pianeti e alle loro influenze. L'autore conosceva già la terminologia chiromantica fondamentale comune nella letteratura non ebraica. La sua opera tratta non soltanto il significato delle linee, o harizim, ma anche delle otiyyot, cioè i vari segni della mano. Una testimonianza della tradizione chiromantica tra i primi cabalisti viene data da Asher b. Saul, fratello di Jacob Nazir, in Sefer ha-Minhagot (c. 1215): [alla conclusione del Sabbath] essi usavano esaminare le linee del palmo delle mani, perché tramite le linee della mano i saggi conoscevano il fato di un uomo e le buone cose in serbo per lui". Nel manoscritto di Monaco 288 (fol.116 segg.) vi è un lungo trattato sulla chiromanzia, che si pretende basato su una rivelazione ricevuta da un hasid in Inghilterra nel XIII secolo. Non differisce per contenuto dalla chiromanzia astrologica in uso tra i cristiani contemporanei, e la terminologia è identica. Una mano con indicazioni chiromantiche si trova in un manoscritto ebraico del 1280 circa, proveniente dalla Francia (British Museum Add. 11639, fol. 115b). In varie parti dello Zohar vi sono passi, alcuni dei quali piuttosto lunghi, che trattano delle linee della mano e della fronte. Una disciplina specializzata era dedicata a quest'ultima; corrispondeva alla chiromanzia e nel Medioevo veniva chiamata metoposcopia. Due versioni diverse di questo argomento sono incluse nella porzione di Jethro e sono basate su Esodo 18:21, la prima nella parte principale dello Zohar (2:70a-77a) e la seconda come trattato indipendente, intitolato Raza de-Razin, stampato in colonne parallele alla prima, e continuato negli addenda alla seconda parte dello Zohar (fol. 272a-275a).Qui sono discusse dettagliatamente le linee della fronte. Una terza esposizione, dedicata alle linee della mano, si trova in Zohar, 2:77a-78a, e consiste di tre capitoli. Sebbene lo Zohar ponga in risalto il parallelo tra il movimento dei corpi celesti e la direzione delle linee della mano, l'influenza della chiromanzia astrologica non è evidente nei dettagli dell'esposizione che dipende in modo oscuro da cinque lettere dell'alfabeto ebraico. Queste sono usate come simboli mistici, che in apparenza si riferiscono a tipi particolari di carattere. In un'ulteriore elaborazione della chiromanzia nel tikkun n. 70 (verso la fine) dei Tikkunei Zohar, si stabilisce una relazione tra le linee della mano e della fronte di un uomo e le trasmigrazioni della sua anima. Un'interpretazione di queste pagine nella porzione di Jethro si trova in Or ha-Hammah di Abraham Azulai: fu stampata separatamente sotto il titolo di Mahazeh Avraham 1800. Con il diffondersi della conoscenza dello Zohar, parecchi cabalisti cercarono di collegare la chiromanzia ai misteri della Cabala, soprattutto Joseph ibn Sayyah, all'inizio di Even ha-Shoham, scritto a Gerusalemme nel 1538 (Gerusalemme, JNUL, manoscritto 8°, 416); e Israel Xarug in Limmudei Azilut (1897, p. 17). Gedaliah ibn Yahya dice in Shalshelet ha-Kabbalah Amsterdam, 1697), 53a, che egli stesso scrisse un libro (1570) sul tema della chiromanzia, Sefer Hanokn (o Hinnukh). Dall'inizio del XVI secolo furono stampati parecchi libri in ebraico che riassumevano la chiromanzia secondo fonti arabe, latine e tedesche; tuttavia, la chiromanzia cabalistica fu oggetto di un'attenzione marginale. Tra queste fonti vanno ricordate Toledot Adam Costantinopoli, 1515) di Elijah b. Moses Gallena, e Shoshannat Ya'akov (Amsterdam, 1706) di Jacob b. Mordecai di Fulda: entrambe le opere furono ristampate parecchie volte. Apparvelo anche traduzioni in yiddish. Abraham Hammawi incluse un trattato sulla chiromanzia, Sefer ha-Atidot, nel suo libro Davek me-Ah (1874, foll. 74 segg. ). Tra i discepoli di Isaac Luria si diffuse la tradizione che il loro maestro fosse esperto di chiromanzia, e altre tradizioni indicano che molti cabalisti la conoscevano assai bene. Nel XIX secolo R. Hayyim Palache menziona (in Zekhirah le-Hayyim, 1880, p. 20) che i rabbi marocchini suoi contemporanei erano esperti di chiromanzia. Nei libri ebraici sulla chiromanzia astrologica alle principali linee della mano venivano dati i seguenti nomi: 1) Kav ha-Hayyim ("la linea della vita", latino linea saturnia); 2) Kav ha-Hokhmah ("la linea della sapienza", linea sapientiae); 3) Kav ha-Shulhan ("la linea della tavola", linea martialis); 4) Kav ha-Mazzal ("la linea del fato") o Kav ha-Beri'ut ("la linea della salute", linea mercurii). L'espressione idiomatica che s'incontra nella letteratura più tarda, einenni be-kav ha-beri'ut ("io non sono nella linea della salute"), nel senso di "non sono in buona salute", è derivata dalla chiromanzia. LA DEMONOLOGIA NELLA CABALA I cabalisti si servirono di tutti i motivi correnti in Talmud e Midrash per sviluppare il loro sistema di demonologia. Furono sviluppati o aggiunti elementi nuovi, soprattutto in due direzioni: 1) i cabalisti cercarono di sistematizzare la demonologia in modo che rientrasse nella loro comprensione del mondo e quindi - di spiegarla in termini derivati dalla loro comprensione della realtà; 2) elementi nuovi e variati furono aggiunti da fonti esterne, soprattutto dalla demonologia araba medievale, dalla demonologia cristiana e dalle credenze popolari dei tedeschi e degli slavi; Talora questi elementi erano collegati, più o meno logicamente, alla demonologia ebraica, ed erano quindi "giudaizzati" in una certa misura. Tuttavia, spesso il legame era soltanto esteriore; certo materiale veniva incorporato nella demonologia giudaica quasi senza un adattamento esplicito. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda le fonti della Cabala pratica. Qui le credenze cabalistiche si mescolavano alle credenze popolari, che in origine non avevano alcun collegamento con le convinzioni dei cabalisti Questa combinazione conferisce alla tarda demonologia giudaica il suo carattere spiccatamente sincretistico. Il materiale relativo a questo tipo di demonologia si può trovare in innumerevoli fonti, molte tuttora manoscritte Una vasta ricerca in questo campo è uno dei desiderata più importanti degli studi sul Giudaismo. Le opere dei cabalisti contengono inoltre concezioni contraddittorie dei demoni. Le tradizioni del passato, l'ambiente culturale e la visione intellettuale di ogni singolo cabalista contribuirono alla diversificazione delle loro credenze. Le idee dei primi cabalisti spagnoli a questo proposito furono formulate chiaramente nel commento di Nahmanides su Levitico 17:7, e la loro influenza è visibile in tutta la letteratura successiva. Secondo Nahmanides i demoni (shedim) si trovano in luoghi deserti e desolati (shedudim), freddi e in rovina, come nel Nord. Non furono creati partendo dai quattro elementi, ma solo dal fuoco e dall'aria. Hanno corpi sottili, impercettibili ai sensi umani, che consentono loro di volare fuoco e l'aria. Poiché sono composti di elementi diversi, sono soggetti alle leggi della creazione e del disfacimento e muoiono come gli esseri umani. Traggono sostanze dall'acqua e dal fuoco, dagli odori e dalle linfe; perciò i necromanti bruciavano incensi ai demoni. Nonostante l'elemento di fuoco sottile che essi contengono, sono circondati da un freddo che atterrisce gli esorcisti (questo dettaglio appare solo in fonti più tarde). Volando per l'aria essi possono accostarsi ai "principi" dello Zodiaco che dimorano nell'atmosfera, e udire così le predizioni del futuro prossimo, ma non di quello remoto. Nahmanides accenna inoltre (commento a Lev. 16:8) che i demoni appartengono al patrimonio di Samael, che è "l'anima del pianeta Marte ed Esaù è il suo suddito tra le nazioni" (l'angelo di Edom o del Cristianesimo). I cabalisti castigliani, Isaac b. Jacob ha-Kohen, Moses di Burgos e Moses de Leon (nelle sue opere in ebraico e nello Zohar) collegarono l'esistenza dei demoni agli ultimi gradi dei poteri dell'emanazione "di sinistra" (la sitra ahra, "l'altra parte" dello Zohar), che corrisponde nelle sue dieci Sefirot del male alle dieci Sefirot sante. I loro scritti contengono descrizioni dettagliate del modo in cui emanarono tali poteri e spiegano i nomi dei condottieri delle loro schiere. Le loro idee sono basate soprattutto sull'evoluzione interna nei circoli cabalistici. Nelle varie fonti vengono dati nomi del tutto diversi ai gradi superiori di queste potenze demoniache o sataniche. Comunque, tutti concordano nel collegare le schiere dei demoni nel mondo sublunare, cioè sulla terra, sotto il dominio di Samael e di Lilith, che appaiono per la prima volta in coppia in queste fonti. Numerosi dettagli su queste "emanazioni tenebrose" si trovano in Ammud ha-Semali di Moses di Burgos. Per contrasto, lo Zohar, seguendo una leggenda talmudica, sottolinea l'origine di certe classi di demoni nei rapporti sessuali tra umani e potenze demoniache. Alcuni demoni, come Lilith, furono creati durante i sei giorni della Creazione, e in particolare al crepuscolo della vigilia del Sabbath, quali spiriti disincarnati. Essi cercarono di assumere forma corporea mediante l'associazione con gli umani, dapprima con Adamo quando si separò da Eva, e poi con tutti i suoi discendenti. Tuttavia, i demoni che furono creati mediante questa unione aspirano anch'essi a tale tipo di commercio carnale. L'elemento sessuale nel rapporto tra uomo e demoni ha un posto di rilievo nella demonologia dello Zohar, nonché in parecchie opere cabalistiche più tarde. Ogni polluzione del seme dà origine a demoni. I dettagli di questi rapporti sono straordinariamente simili a quelli correnti nella demonologia medievale cristiana su succubi e incubi. Sono basati sull'assunto (contrario all'opinione talmudica) che questi demoni non abbiano una loro capacità di procreare e necessitino del seme umano per moltiplicarsi. Nella Cabala più tarda si osserva che i demoni nati dall'uomo mediante tali unioni sono considerati suoi figli illegittimi: venivano chiamati banim shouauim ("figli maliziosi"). Alla morte e alle esequie essi venivano ad accompagnare il morto per piangerlo e per reclamare la loro parte di eredità; inoltre, potevano fare male ai figli legittimi. Di qui nacque l'usanza di girare intorno ai morti, al cimitero, per scacciare questi demoni, e anche la consuetudine (che risale al XVII secolo), presso numerose comunità, di non permettere ai figli maschi di accompagnare al cimitero il cadavere del padre, per evitare che i fratellastri illegittimi facessero loro male. I termini shedim e mazzikim (demoni nocivi, Poltergeister) venivano usati spesso come sinonimi; ma in alcune fonti vi è una certa differenziazione tra essi. Nello Zohar si ritiene che gli spiriti degli uomini malvagi divengano mazzikim dopo la loro morte. Tuttavia, vi sono anche demoni di indole buona, disposti ad aiutare gli uomini. Si riteneva che questo valesse particolarmente per i demoni governati da Ashmedai (Asmodeo), che accettano la Torah e vengono considerati "demoni giudaici". La loro esistenza è menzionata dai Hasidei Ashkenaz, oltre che dallo Zohar. Secondo la leggenda, Caino e Abele, che contengono in parte l'impurità del serpente che ebbe rapporti sessuali con Eva, possiedono un certo elemento demonico, e da loro discesero vari demoni. Ma in realtà l'accoppiamento di demoni femmine con maschi umani e di demoni maschi con femmine umane continuò per tutto il corso della storia. Questi diavoli sono mortali, ma i loro re e le loro regine vivono più a lungo degli esseri umani e alcuni di loro, soprattutto Lilith e Naamah, esisteranno fino al giorno dell'Ultimo Giudizio (Zohar 1:55a). Venivano formulate varie speculazioni sulla morte dei re dei demoni, in particolare di Ashmedai3. Secondo una tradizione, questi morì martire insieme agli ebrei di Mainz nel 1096. Un'altra concezione cabalistica è che Ashmedai sia semplicemente il titolo del re dei demoni, come "faraone" è il titolo del re d'Egitto e "ogni re dei demoni è chiamato Ashmedai', poiché in gematria la parola Ashmedai è numericamente equivalente a Pharaoh, faraone. Nella demonologia giudeo-araba si trovano lunghe genealogie dei demoni e delle loro famiglie. Apparentemente, l'autore dello Zohar distingue tra gli spiriti che furono emanati dalla "parte sinistra", e ricevettero funzioni precise nei "palazzi dell'impurità", e i diavoli nell'esatto senso del termine, che aleggiano nell'aria Secondo fonti più tarde, questi ultimi riempiono con le loro schiere lo spazio celeste tra la terra e la sfera della luna La loro attività si svolge soprattutto di notte, prima di mezzanotte. I diavoli nati dalle polluzioni notturne sono chiamati "le frustate dei figli degli uomini" (II Sam 7:14; vedasi Zohar 1:~4b). Talvolta i demoni si fanno beffe degli uomini. Dicono loro menzogne sul futuro, e mescolano verità e bugie nei sogni. I demoni hanno piedi deformi (Zohar 3:229b). In numerose fonti sono nominate quattro madri dei demoni: Lilith, Na'amah, Agrath e Mahalath (sostituita talora da Rahab). I demoni sotto il loro dominio si scatenano a schiere in certi tempi determinati e costituiscono un pericolo per il mondo. A volte, si radunano su una particolare montagna "presso le montagne delle tenebre dove hanno rapporti sessuali con Samael" Questo ricorda il Sabbath delle streghe nella demonologia cristiana. In quel luogo si radunano anche streghe e stregoni, che si dedicano ad attività molto simili, e apprendono l'arte della stregonelia dagli arcidiavoli, i quali sono gli angeli ribelli caduti dal cielo (Zohar 3:194b, 212a) L'autore del Ra'aya Meheimna nello Zohar (3:253a) distingue tre tipi di demoni: 1) simili ad angeli, 2) simili agli umani e chiamati shedim Yehuda'im ("diavoli giudaici"), che si sottomettono alla Torah; 3) altri che non hanno timor di Dio e sono come gli animali. La distinzione dei demoni secondo le tre religioni principali si trova anche nella demonologia araba, oltre che in varie fonti della Cabala pratica; è menzionata nel testo integrale di una sezione di Midrash Rut ha-Ne'lam dello Zohar. Un'altra divisione distingue i demoni secondo i vari strati dell'aria che essi governano: un'opinione comune allo Zohar e a Isaac ha-Kohen, il quale parla di vari dettagli D'altra parte, lo Zohar menziona nukba di-tehoma rabba, "la bocca del grande abisso", come il luogo dove i demoni ritornano al Sabbath quando non hanno alcun potere sul mondo. Secondo Bahya b. Asher, i demoni trovano rifugio nell'Arca di Noè, altri non si sarebbero salvati dal Diluvio Furono assegnati nomi ai re dei demoni, ma non ai membri delle loro schiere, che sono conosciuti con i nomi dei re: "Samael e la sua schiera" "Ashmedai e la sua schiera", eccetera Ashmedai è considerato generalmente figlio di Na'amah, sorella di Tubal-Cain, ma qualche volta è anche figlio di re David e di Agrath, la regina dei demoni. Numerosi nomi di demoni provengono dalla tradizione araba Tra essi va ricordato Bilar (anche Bilad o Bilid), il terzo re succeduto ad Ashmedai Bilar è semplicemente una dizione scorretta del nome di Satana "Beliar" in numerose Apocalissi e nella letteratura protoclistiana, che ritornò così alla tradizione del Giudaismo attraverso fonti straniere. Ha un ruolo importante nella letteratura della "Cabala pratica", e da questa, trasformato in Bileth, entrò nella letteratura magica tedesca con la leggenda del dottor Faust. Il sigillo di questo re è descritto dettagliatamente nel libro Berit Menuhah (Amsterdam 1648, 39b). Anche gli altri demoni hanno sigilli, e coloro che li conoscono posso farli apparire contro la loro volontà. I relativi disegni sono conservati in vari manoscritti della Cabala pratica I nomi dei sette re dei demoni che presiedono i sette giorni della settimana, popolarissimi nella tarda demonologia del Giudaismo, derivarono dalla tradizione araba Tra essi spiccano Maimon il Nero e Shemhurish, giudice dei demoni Altri sistemi, che ebbero origine nella Cabala spagnola, collocavano i tre re Halama, Samael e Kafkafuni alla testa dei demoni Sefer ha-Heshek, manoscritto conservato nel British Museum). Altri sistemi di demonologia sono legati agli elenchi degli angeli e dei demoni che presiedono alle ore notturne dei sette giorni della settimana, o all'interpretazione demonologica di malattie come l'epilessia Fonti di questo tipo sono Seder Goral ha-Holeh e Sefer ha-Ne'elavim. Questi sistemi non sono necessariamente connessi a idee cabalistiche, e alcuni le precedettero. Un sistema completo di demonologia cabalistica fu esposto, dopo il periodo dello Zohar, in Sibbat Ma'aseg ha-Egel ve-Inyan ha-Shedim (manoscritto Sassoon 56), che sviluppa motivi interni giudaici. Una combinazione dello Zohar e di fonti arabe caratterizza il libro Zefunei Ziyyoni di Menaham Ziyyoni di Colonia (fine del XIV secolo, in parte nel manoscritto di Oxford); include un lungo elenco di demoni importanti e delle loro funzioni, conservando i loro nomi arabi. Questo libro fu uno dei canali per il cui tramite elementi arabi pervennero ai cabalisti pratici tra gli ebrei tedeschi e polacchi, e ricorrono spesso, sia pure con errori, nelle collezioni ashkenazi di demonologia in ebraico e in yiddish Uno dei più importanti è il manoscritto Schocken 102, che risale alla fine del XVIII secolo Tra gli ebrei dell'Africa settentrionale e del Vicino Oriente, elementi di demologia cabalistica e araba si mescolarono anche senza mediazioni letterarie; di particolare interesse è la collezione Shushan Yesod Olam nel manoscritto Sassoon 290. Le raccolte di rimedi e di amuleti composti da dotti sefarditi abbondano di questo tipo di materiale. Un esempio notevole di mescolanza completa di elementi ebraici, arabi e cristiani si trova negli incantesimi del libro Mafte'ah Shelomo o Clavicula Salomonis, una raccolta nel XVII secolo e pubblicata in facsimile da H. Gollancz nel 1914 Anche il re Zauba'a e la regina Zumzumit appartengono all'eredità araba. Una ricca eredità tedesca nel campo della demonologia è conservata negli scritti di Judah he-Hasid e dei suoi discepoli e nel commento di Menahem Ziyyoni alla Torah. Secondo la testimonianza di Nahmanides, era usanza degli ebrei ashkenazi "occuparsi di cose relative ai demoni, intessere incantesimi e scacciarli; ed essi li usano in molti casi" (Responsa di Ibn Adret, attribuiti a Nah. manides, n. 283) Il Ma aseh Bukh (in yiddish; traduzione inglese di M Gaster, 1934) elenca numerosi dettagli su questa demonologia ashkenazi-ebràica del tardo Medioevo Oltre alle comuni credenze popolari, elementi originari della letteratura magica dotta, nonché i nomi di demoni appartenenti alla magia cristiana, vennero introdotti dalla demonologia cristiana; e si diffusero, non più tardi del XV secolo, tra gli ebrei della Germania Demoni come Astarot Beelzebub in molte forme) e i loro simili divennero elementi fissi negli incantesimi e negli elenchi dei demoni Un sistema cabalistico dettagliato di demonologia si trova al tempo dell'espulsione dalla Spagna in Malakh ha-Meshiv di Joseph Taitazak In questo sistema, la gerarchia dei demoni è capeggiata da Samael, patrono di Edom, e Ammon di No (Alessandria), patrono d'Egitto, che rappresenta anche l'Islam Ammon di No ricorre in numerose fonti di questo periodo. Hayyim Vital parla di demoni composti di uno solo dei quattro elementi, in contrasto con l'opinione di Nahmanides menzionata più sopra. Questa concezione ha probabilmente origine nella demonologia europea del Rinascimento. La Cabala di Isaac Luria menziona spesso varie kelippot ("gusci") che devono essere domate mediante l'osservanza della Torah e le mizvot, ma in generale non assegna loro nomi propri e non ne fa autentici demoni Questo processo raggiunse il culmine in Sefer Karnayim (Zolkiew, 1709) di Samson di Ostropol, che assegna a molte kelippot nomi che non figurano in nessuna fonte antica Questo libro è l'ultimo testo originale della demonologia cabalistica. Qualche particolare: Secondo Isaac di Acri i diavoli hanno soltanto quattro dita e sono privi del pollice. Il libro Emek ha-Melekh (Amsterdam, 1648) menziona demoni chiamati kesilim (spiriti "ingannatori") che guidano l'uomo fuori strada e si fanno beffe di lui. Di qui deriva presumibilmente l'appellativo lezim ("buffoni") che ricorre nella letteratura più tarda e nell'uso popolare per indicare il tipo inferiore dei demoni, quelli che lanciano in giro i vari oggetti di una casa (poltergeist) Dall'inizio del XVII secolo viene menzionato il demone chiamato Sh.D., cioè Shomer Dappim ("guardiano delle pagine"): egli colpisce l'uomo che lascia aperto un libro sacro. Secondo una credenza popolare degli ebrei tedeschi, le quattro regine dei demoni governano le quattro stagioni dell'anno. Una volta ogni tre mesi, al cambiare della stagione, il loro sangue mestruale cade nelle acque e le avvelena; e si dice che questa fosse la ragione dell'antica usanza (geonica) che vietava di bere acqua al cambiare delle stagioni Un posto speciale nella demonologia è assegnato alla regina di Saba, che era considerata una delle regine dei demoni e talvolta viene identificata con Lilith, per la prima volta nel Targum (Giobbe, cap 1), e più tardi nello Zohar e nella letteratura successiva. Il motivo della lotta tra il principe e un drago, o rettile demoniaco, rappresentante il potere della kelippah che imprigiona la principessa, è diffuso in varie forme nella demonologia dello Zohar. Drago è il nome del re dei demoni, che è menzionato anche in Sefer Hasidim. Secondo Hayyim Vital, quattro regine dei demoni regnano su Roma (Lilith), Salamanca (Agrath), Egitto (Rahab) e Damasco (Na'amah). Secondo Abraham Galante, fino alla confusione delle lingue, ne esistevano due soltanto: la lingua sacra (cioè l'ebraico) e la lingua dei demoni. La credenza nei demoni rimase una superstizione popolare presso alcuni ebrei, in certi paesi, fino al presente. La ricca demonologia nei racconti di I. Bashevis Singer rispecchia il sincretismo degli elementi slavi e giudaici nel folklore degli ebrei polacchi. 8 I DOENMEH I doenmeh (Donme) erano la setta di seguaci di Shabbetai Zevi che abbracciarono l'Islamismo dopo il fallimento della sollevazione messianica shabbatea in Turchia. Dopo che Shabbetai Zevi si convertì all'Islamismo nel settembre 1666, numerosissimi suoi discepoli interpretarono la sua apostasia come una missione segreta, intrapresa deliberatamente con un particolare scopo mistico. La stragrande maggioranza dei suoi aderenti, che si davano il nome di ma'aminim ("credenti") rimase però nella religione ebraica. Tuttavia, già quando Shabbetai Zevi era ancora vivo, parecchi capi dei ma'aminim ritennero doveroso seguire l'esempio del loro messia e diventarono musulmani senza per questo, secondo loro, rinunciare al Giudaismo, che interpretavano secondo nuovi principi. Fino alla morte di Shabbetai Zevi, avvenuta nel 1676, il gruppo fu dapprima concentrato soprattutto ad Adrianopoli (Edirne), e contava circa 200 famiglie. Provenivano in gran parte dai Balcani, ma vi erano anche aderenti di Costantinopoli, Izmir, Brusa e altre località. Tra loro vi erano alcuni dotti e cabalisti eminenti, alle cui famiglie fu accordato in seguito un posto speciale tra i doenmeh quali discendenti della prima comunità della setta. Anche tra gli shabbatei che non si convertirono all'islamismo, come Nathan di Gaza, questo gruppo godette di una reputazione onorevole: e gli era attribuita una missione importante. Una chiara testimonianza è conservata nel commento ai Salmi (scritto intorno al 1679) di Israel Hazzan di Castoria. In maggioranza i membri della comunità si erano convertiti come risultato diretto della predicazione e dell'opera di persuasione di Shabbetai Zevi. Esteriormente erano musulmani ferventi, in privato ma'aminim shabbatei che praticavano un tipo di Giudaismo messianico, basato fin dal ventennio 1670-90 sui "18 precetti" che erano attribuiti a Shabbetai Zevi e accettati dalle comunità dei doenmeh. (Il testo completo è stato pubblicato in inglese da G. Scholem in Essays... Abba Hillel Silver (1963), 368-86). Questi precetti contengono una versione parallela dei Dieci Comandamenti. Tuttavia, si distinguono per una formulazione straordinaria ambigua del comandamento "Non commettere adulterio", che è più simile a una raccomandazione che a un divieto. I comandamenti addizionali determinano i rapporti tra i ma'aminim, gli ebrei e i turchi. Il matrimonio con i veri musulmani è rigorosamente ed enfaticamente proibito. Dopo la morte di Shabbetai Zevi il centro delle attività della comunità si spostò a Salonicco, dove rimase fino al 1924. L'ultima moglie di Shabbetai, Jochebed (nell'Islam, Ayisha), era figlia di uno dei rabbini di Salonicco, dove ritornò dall'Albania dopo un breve soggiorno ad Adrianopoli. Più tardi, proclamò il fratello minore Jacob Filosof, conosciuto tradizionalmente come Jacob Querido (cioè "diletto"), reincarnazione dell'anima di Shabbetai Zevi. Esistono tante tradizioni diverse e contraddittorie sui profondi rivolgimenti che influirono sui ma'aminim di Salonicco intorno al 1680 e in seguito che, per il momento, è impossibile dire quali siano le più attendibili. Tutte concordano nell'ammettere che vi era una tensione considerevole tra l'originale comunità dei doenmeh e i seguaci di Jacob Querido, tra i quali figuravano molti rabbini di Salonicco. In seguito alla loro propaganda due o trecento famiglie, sotto la guida di due rabbini, Solomon Florentin e Joseph Filosof, e di suo figlio, si convertirono in massa all'Islamismo. Esistono resoconti contraddittori di questa conversione. Una l'assegna all'anno 1683, l'altra alla fine del 1686. È possibile che le conversioni collettive fossero due, una dopo l'altra. Vi furono poi molte esperienze di "rivelazioni" mistiche a Salonicco, e numerosi trattati rispecchiano le tendenze spirituali dei vari gruppi. Con il trascorrere del tempo, moltissime famiglie apostati di altre città della Turchia emigrarono a Salonicco e la setta venne organizzata su una base più istituzionale. Durante il secolo XVIII, ad essa si unirono altri gruppi shabbatei, provenienti soprattutto dalla Polonia. Jacob Querido dimostrò la sua devozione esteriore all'Islamismo compiendo il pellegrinaggio alla Mecca con parecchi seguaci: un'azione cui si oppose l'originaria comunità dei doenmeh. Jacob Querido morì durante il ritorno dal viaggio, nel 169p o nel 1695, probabilmente ad Alessandria. I conflitti intestini causarono una scissione nell'organizzazione e portarono alla formazione di due sottosette: una, secondo la tradizione dei doenmeh, era chiamata Izmirlis (Izmirim) e consisteva di membri della comunità originale, mentre l'altra era conosciuta come i Jacobiti, in turco Jakoblar. Qualche anno dopo la morte di Querido vi fu un'altra scissione tra gli Izmirlis, quando intorno al 1700 un nuovo, giovane leader, Baruchiah Russo, apparve tra loro e fu proclamato dai suoi discepoli la reincarnazione di Shabbetai Zevi. Nel 1716 i suoi discepoli lo salutarono come l'Incarnazione Divina. Russo era apparentemente ebreo di nascita, e figlio di uno dei primi seguaci di Shabbetai Zevi. Dopo la conversione venne chiamato "Osman Baba". Una terza sottosetta si organizzò intorno a lui: i membri venivano chiamati Konyosos (in ladino) o Karakashlar (in turco). Questo gruppo fu considerato il più estremista della comunità dei doenmeh. Aveva fama di aver fondato una nuova fede, tendente al nichilismo religioso. I suoi aderenti intrapresero una nuova campagna missionaria nelle principali città della Diaspora. Furono inviati rappresentanti in Polonia, Germania e Austria, dove furono causa di considerevole agitazione tra il 1720 e il 1726. In parecchi luoghi si formarono rami di questa setta, dai quali emersero in seguito i frankisti. Baruchiah Russo morì ancora giovane nel 1720 e la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi dei membri della setta, fino a tempi recenti. Il figlio, che gli succedette come capo della setta, morì nel 1781. Durante la rivoluzione francese un potente capo di una delle sette (quella degli Izmirim o quella di Baruchiah), conosciuto come "Dervish Effendi", assunse una posizione preminente. Forse deve essere identificato con il predicatore e poeta Judah Levi Tovah, che lasciò poesie e omelie cabalistiche in ladino, molte delle quali furono conservate, in manoscritti e oggi figurano in numerose collezioni pubbliche. Ben presto tu chiaro alle autorità turche che gli apostolati, i quali avrebbero dovuto esortare gli ebrei a convertirsi all'Islamismo, non avevano intenzione di lasciarsi assimilare, e continuavano a condurre un'esistenza settaria chiusa, sebbene esteriormente osservassero con diligenza le pratiche islamiche, e fossero politicamente sudditi fedeli. A partire dall'inizio del XVIII secolo furono chiamati doenmeh, che significa in turco "convertiti" oppure "apostati". Tuttavia, non è chiaro se si trattasse di un riferimento alla loro conversione dal Giudaismo o al fatto che non erano veri musulmani. Gli ebrei li chiamavano Minim ("settari") e tra gli scritti dei rabbini di Salonicco vi sono parecchi responsa sul problema del modo in cui dovevano essere trattati, o se dovevano essere considerati ebrei o no. I doenmeh si stabilirono in certi quartieri di Salonicco, e i loro capi erano in rapporti amichevoli con gli ambienti sufici e con gli ordini dei dervisci turchi, particolarmente i Baktashi. Nel contempo, mantenevano legami segreti con gli shabbatei che non si erano convertiti e persino con parecchi rabbini di Salonicco, i quali, quando la conoscenza della Torah si affievolì tra i doenmeh, furono pagati per risolvere per conto di questi i problemi relativi alla legge. Questi rapporti furono troncati solo a metà del XIX secolo La doppiezza del loro comportamento appare chiara solo quando si tiene in conto l'atteggiamento ambiguo dei doenmeh nei confronti del Giudaismo tradizionale. Su un certo livello, lo consideravano decaduto, poiché il suo posto era stato preso da una Torah più alta e spirituale, chiamata Torah deAzilut ("Torah dell'Emanazione"). Ma su un altro livello rimanevano certe aree in cui essi credevano di comportarsi secondo la Torah della tradizione talmudica, chiamata Torah di Beri'ah ("Torah della Creazione"). Si conosce solo approssimativamente la consistenza numerica dei doenmeh. Secondo il viaggiatore danese Carsten Niebuhr, nel 1774 vivevano a Salonicco circa 600 famiglie, i cui membri si sposavano solo tra loro. Avanti alla prima guerra mondiale il loro numero era calcolato tra 10.000 e 15.000, diviso più o meno in egual misura fra le tre sottosette: i Konyosos avevano una leggera maggioranza numerica. All'inizio, la conoscenza dell'ebraico era comune tra i doenmeh, e la loro liturgia, in origine, era standardizzata in ebraico. Lo si può constatare nella parte del loro libro di preghiere che è giunta fino a noi (Scholem in: KS, voll. 18 e 19). Tuttavia, con il passare del tempo, crebbe l'uso del ladino, e la loro letteratura omiletica e poetica venne scritta in quella lingua. Continuarono a parlare ladino tra loro fin verso il 1870, e solo in seguito il turco lo sostituì come lingua d'uso quotidiano. Per quanto riguarda la struttura sociale, vi erano nette differenze fra le tre sottosette, che si svilupparono visibilmente tra il 1750 e il 1850. Gli aristocratici della società doenmeh erano gli Izmirlis, che venivano chiamati Cavalleros in ladino o Kapanjilar in turco. Tra essi erano inclusi i grandi mercanti e i ceti medi, oltre alla maggior parte dell'intelligentsia dei doenmeh. La comunità degli Jacobiti o Jakoblar includeva un gran numero di funzionari turchi della classe medio-bassa, mentre il terzo gruppo, quello dei Konyosos, che era il più numeroso, consistette con l'andar del tempo (secondo le poche notizie attendibili) soprattutto di proletari e artigiani, facchini, calzolai, barbieri e macellai. Alcuni affermano che per molto tempo tutti i barbieri di Salonicco, in pratica, appartennero a questo gruppo. Ogni doenmeh aveva un nome turco e uno ebraico (che venivano usati rispettivamente nella società turca e in quella doenmeh). Inoltre, conservavano gli originali cognomi sefarditi, che vengono menzionati solo in poesie composte in onore dei morti; molti di questi testi sono pervenuti fino a noi in manoscritto. I cimiteri dei doenmeh erano usati in comune da tutte le sottosette; tuttavia ogni setta aveva la sua particolare sinagoga (chiamata Kahal, "congregazione") al centro del proprio quartiere e irriconoscibile dall'esterno. Le loro liturgie erano scritte in formato ridottissimo, in modo che fosse possibile nasconderle agevolmente. Tutte le sette nascondevano i loro affari interni agli ebrei e ai turchi, tanto che per molto tempo ogni notizia sul loro conto venne a basarsi solo su dicerie e racconti di estranei. Vari manoscritti dei doenmeh che rivelano dettagli delle loro concezioni shabbatee vennero portati alla luce ed esaminati solo dopo che parecchie famiglie doenmeh decisero di assimilarsi completamente nella società turca e trasmisero i loro documenti ad amici ebrei di Salonicco e di Izmir. Finché i doenmeh rimasero concentrati a Salonicco, la struttura istituzionale della setta rimase intatta, anche se molti membri furono attivi nel movimento dei Giovani Turchi che ebbe origine in quella città. La prima amministrazione che andò al potere dopo la rivoluzione dei Giovani Turchi (1909) incluse tre ministri di origine doenmeh, incluso il ministro delle finanze, Djavid Bey, che discendeva dalla famiglia di Baruchiah Russo ed era uno dei capi della sua setta. Un'affermazione ripetuta con insistenza da molti ebrei di Salonicco (ma smentita dal governo turco) era che lo stesso Kemal Ataturk fosse d'origine doenmeh. Questa opinione venne accettata prontamente da molti degli avversari religiosi di Ataturk in Anatolia. Con lo scambio di popolazioni che seguì la guerra greco-turca del 1924, i doenmeh i furono costretti a lasciare Salonicco. In maggioranza si stabilirono a Istanbul, alcuni in altre città turche come Ismir e Ankara. Nella stampa turca, a quel tempo, vi fu un vivace dibattito sul carattere ebraico dei doenmeh e sulla loro assimilazione. Quando furono sradicati dal grande centro ebraico di Salonicco, l'assimilazione cominciò a diffondersi rapidamente. Tuttavia vi sono prove attendibili che la struttura organizzativa dei Konyoslls sopravvisse, e ancora nel 1970 molte famiglie appartenevano all organizzazione. Tra gli intellettuali turchi, uno dei professori dell'università di Istanbul è stato generalmente ritenuto capo dei doenmeh. I tentativi di indurli a ritornale al Giudaismo e ad emigrare in Israele hanno dato scarsi risultati. Solo poche famiglie doenmeh figurarono tra gli immigranti turchi in Israele. Non esistono vere differenze fondamentali nelle opinioni religiose dei doenmeh e delle altre sette che credevano in Shabbetai Zevi. Nella loro letteratura, a quanto si sa, non vi sono accenni alla loro appartenenza all'Islamismo. La loro pretesa di essere la vera comunità ebraica non differisce molto dalle affermazioni dei primi cristiani e della Chiesa cristiana. Essi conservarono la loro fede in Shabbetai Zevi, che aveva abrogato i comandamenti pratici della Torah materiale e l'aveva sostituita con "la Torah spirituale" del mondo superiore. Il principio della divinità di habbetai Zevi fu sviluppato con fermezza e accettato dalla setta, come pure la natura trina delle forze superiori dell'emanazione, chiamate telat kishrei de-meheimanuta ("i tre nodi della fede"). Oltre all'abrogazione dei comandamenti pratici e al mistico credo trinitario, un fattore in particolare suscitò grande opposizione tra i loro contemporanei: l'evidente inclinazione a permettere matrimoni halakhicamente proibiti e a svolgere cerimonie religiose che comportavano lo scambio delle mogli e che quindi rendevano bastarda la prole secondo la legge ebraica. Le accuse di licenziosità sessuale vennero fomulate fin dall'inizio del XVIII secolo, e sebbene molti abbiano cercato di sminuire l'importanza, non vi è dubbio che per molte generazioni esistette la promiscuità sessuale. Il lungo sermone di Judah Levi Tovah (pubblicato da I.R. Molco e R. Schatz, in Sefunot, 3-4 (1960), 395-521) comprende un ardente difesa dell'abrogazione delle proibizioni sessuali contenute nella materiale "Torah della Creazione". Cerimonie orgiastiche, in effetti, si svolgevano durante la festività doenmeh Hag ha-Keves ("Festa dell'Agnello") che cadeva il 22 di Adar ed era riconosciuta come celebrazione dell'inizio della primavera. Inoltre, essi celebravano altre festività connesse alla vita di Shabbetai Zevi e a particolari eventi associati alla loro apostasia. Non si astenevano dal lavoro nelle giornate festive, per non suscitare la curiosità degli estranei, e si accontentavano di riti alla vigilia delle festività. La liturgia doenmeh per il 9 di Av, il genetliaco di Shabbetai Zevi, chiamata Hag ha-Samahot ("Festa della Letizia"), esiste in ebraico e contiene un adattamento shabbateo di alcune delle preghiere del Giorno Santo, con l'aggiunta di una solenne proclamazione del credo shabbateo, consistente di otto paragrafi (KS, 18 (1947), 309-10). 9 ESCATOLOGIA Introduzione A parte le idee fondamentali relative alla ricompensa e alla punizione, la vita dopo la morte, il Messia, la redenzione e la resurrezione, non esiste quasi una credenza comune tra gli ebrei che riguardi i dettagli escatologici. Questa lacuna offriva un'ovvia occasione per il libero gioco dell'immaginazione, della superstizione e dell'ispirazione visionaria, e quindi divenne il campo in cui i cabalisti lasciarono il segno: infatti essi trattarono estensivamente tali concetti. È comprensibile che, con una simile ampiezza di possibilità, non potessero mai pervenire a una decisione accettabile per tutti; e si svilupparono così varie tendenze. Dagli inizi piuttosto semplici, l'insegnamento escatologico si sviluppò nello Zohar e nelle opere cabalistiche che lo seguirono, ed ebbe molte ramificazioni. La vita dopo la morte Di grande importanza sono qui le concezioni di Nahmanides, espresse in Sha'ar ha-Gemul, dello Zohar e della scuola lurianica, così come sono cristallizzate nel grande sommario di Aaron Berechiah b. Moses di Modena Ma'avar Yabóok (Mantova, 1623). In generale esse sottolineano, dopo i tempi di Nahmanides, i fati diversi delle tre parti dell'anima, che alla morte si separano l'una dalle altre. Il nefesh (la parte inferiore) rimane accanto alla tomba, e subisce le punizioni per le trasgressioni, dopo il primo giudizio che viene chiamato hibbut ha-kever ("punizione della tomba") o din ha-kever ( 'giudizio della tomba"). Anche la ru'ah è punita per i suoi peccati, ma dopo 12 mesi entra nel terreno Giardino dell'Eden, o "il Giardino dell'Eden quaggiù". La neshamah ritorna alla sua fonte nel "Giardino dell'Eden lassù", perché, secondo lo Zohar, la neshamah non può peccare, e la punizione ricade solo sul nefesh e sulla ru'ah (sebbene nella Cabala dei primi tempi esistano altre opinioni). In certi casi le nefashot ascendono alla categoria delle ruhot, e le ruhot a quella delle neshamot. Lo zeror ha-hayyim ("il legame della vita") in cui sono immagazzinate le neshamot è interpretato in vari modi. È l'Eden occulto, preparato per la delizia delle neshamot; è il "tesoro" dietro il trono di gloria in cui le neshamot rimangono fino alla resurrezione; oppure è una delle sefirot, o addirittura la loro totalità, in cui si raccoglie la neshamah quando è in comune con Dio. Vi sono numerosissime descrizioni, nella letteratura cabalistica, dei dettagli e dei vari gradi di punizione nelle dimore di gehinnom e di piacere nel Giardino dell'Eden. Tali descrizioni trattano il problema di come le ruhot e le neshamot possano avere esperienze senza avere facoltà fisiche; quale tipo di indumenti portavano le ruhot e il metodo della loro sopravvivenza. Secondo alcuni, l'indumento delle ruhot era intessuto dei comandamenti e delle buone azioni, ed era chiamato haluka de-rabbanan ("la veste dei rabbini''). Nahmanides chiamò olam ha-neshamot ("il mondo delle anime") il regno della letizia dopo la morte, e lo distinse assolutamente dall'olam ha-ba ("il mondo a venire") che sarebbe venuto dopo la resurrezione. Questa distinzione era generalmente accettata dalla Cabala. Nel "mondo delle anime", le neshamot non sono incorporate nel Divino, ma conservano la loro esistenza individuale. L'idea della punizione in Gehinnom (che era immaginato come un sottile fuoco spirituale che bruciava e purificava le anime) contrastava con l'idea dell'espiazione tramite la trasmigrazione (vedasi a p. 345, Gilgul). Non vi era un'opinione fissa circa la questione dei peccati che venivano puniti con il Gehinnom e di quelli che venivano puniti con la trasmigrazione. Si può dire soltanto che con l'evoluzione della Cabala la trasmigrazione assunse un ruolo sempre più importante in questo contesto. Tanto il Giardino dell'Eden quanto il Gehinnom erano al di là di questo mondo, o ai suoi confini, mentre la teoria della trasmigrazione assicurava ricompensa e punizione, in larga misura, in questo mondo. Vari cabalisti cercarono compromessi tra queste due strade, ma non pervennero a una soluzione accettata da tutti. Furono compiuti inoltre tentativi di rimuovere l'intero tema del Cehinnom dal senso letterale e di interpretarlo secondo le concezioni di Maimonide, oppure metaforicamente, come riferimento alla trasmigrazione. L'escatologia della Cabala, in particolare quella dello Zohar fu grandemente influenzata dall'idea della preesistenza delle anime. L'esistenza dell'anima nel "mondo delle anime" non è altro che il suo ritorno all'esistenza originale, prima della discesa nel corpo. Il Messia e la redenzione Il Messia riceve una speciale emanazione della Sefirah Malkhut ("regno`'), l'ultima delle Sefirot. Tuttavia, non vi è traccia del concetto della divinità del Messia. L'immagine del Messia personale è pallida e sbiadita e non aggiunge molto alle descrizioni nei Midrashim della redenzione che furono composti prima dello sviluppo della Cabala. Nello Zohar vi sono pochi elementi nuovi. Secondo lo Zohar, il Messia dimora nel Giardino dell`Eden in uno speciale palazzo chiamato kan zippor ("il nido dell'uccello"), e si rivelerà prima nella Galilea superiore. Alcuni ritenevano che l'anima del Messia non avesse subìto la trasmigrazione, ma fosse "nuova", mentre altri sostenevano che era l'anima di Adamo, precedentemente trasmigrata in re Davide. Le lettere di Adam (alef, dalet, mem) si riferiscono ad Adam, David e Messia, secondo un notarikon della fine del XIII secolo. Qui, forse, vi è qualche influenza cristiana perché, secondo Paolo, Adamo, il primo uomo, corrisponde a Gesù, "l'ultimo uomo" (Rom. 5: 17). Le descrizioni della redenzione, nello Zohar, seguono le orme dei Midrashim con 1'aggiunta di alcuni punti e certi cambiamenti del tema. La redenzione sarà un miracolo, e tutto ciò che 1'accompagna è miracoloso (le stelle che scintillano e cadono, le guerre alla fine del tempo, la caduta del papa, che nello Zohar è chiamato simbolicamente "il sacerdote di On"). L'idea del travaglio della redenzione è posta in grande risalto, e la condizione di Israele alla vigilia della redenzione è descritta in termini che rispecchiano le condizioni storiche del XIII secolo. Le descrizioni della redenzione divennero più numerose nei tempi di crisi, soprattutto dopo l'espulsione della Spagna. Tuttavia, nella Cabala successiva (Moses Cordovero e Isaac Luria), la loro importanza declinò. D'altra parte, venne sottolineata la base mistica della redenzione, la base che si sviluppò dal tempo di Nahmanides e della sua scuola e che era incentrata sulla concezione midrashica che la redenzione sarebbe stata un ritorno alla perfezione contaminata dal peccato di Adamo e d'Eva. Non sarebbe stata qualcosa d'interamente nuovo, bensì una restaurazione o rinnovamento. La creazione, al tempo della redenzione, avrebbe assunto la forma che era stata destinata fin dall'inizio dalla Mente Divina. Solo con la redenzione vi sarebbe stata una rivelazione della natura originale della Creazione, oscurata o menomata in questo mondo. Di qui, il carattere estremamente utopistico di queste idee. Nel regno divino, lo stato di redenzione è espresso come la fine dell'"esilio della Shekhinah", la restaurazione della divina unità in tutte le aree dell'esistenza. ("In quel giorno il Signore sarà Uno, e Uno il Suo nome": di qui la concezione che la vera unità di Dio sarà rivelata solo nel tempo a venire, mentre durante gli anni dell'esilio è come se il peccato avesse reso imperfetta la Sua unità.) Al tempo della redenzione vi sarà una continua unione di re e regine, o delle sefirot Tiferet e Shekhinah; vale a dire che vi sarà una corrente incessante dell'influsso divino attraverso i mondi, e questo li legherà insieme eternamente. I segreti occulti della Torah verranno rivelati, e la Cabala sarà il senso letterale della Torah. L'era messianica durerà approssimativamente mille anni: molti, tuttavia, ritenevano che non si sarebbe trattato di anni umani perché i pianeti e le stelle si sarebbero mossi più lentamente, e il tempo si sarebbe prolungato (questa concezione era diffusa soprattutto nella cerchia del Sefer ha-Temunah, e ha origine nei libri apocrifi). Appare evidente, sulla base di queste teorie, che i cabalisti ritenevano che l'ordine naturale sarebbe cambiato nell'era messianica (diversamente dalla concezione di Maimonide). In quanto al problema se la redenzione sarebbe stata un miracolo oppure il risultato logico di un processo già immanente, le opinioni dei cabalisti erano divise. Dopo l'espulsione dalla Spagna prevalse gradualmente la convinzione che l'apparizione del Messia sarebbe stata un evento simbolico. La redenzione dipendeva dalle azioni di Israele, e dall'adempimento del suo destino storico. L'avvento del redentore avrebbe testimoniato il compimento della "restaurazione", ma non l'avrebbe causata . La resurrezione alla fine del mondo La Cabala non getta il minimo dubbio sulla redenzione fisica dei morti, che avverrà alla fine dei giorni della redenzione, "il grande giorno del giudizio". Le nuove esposizioni dei cabalisti vertevano intorno alla questione del fato di coloro che dovevano risorgere. Nahmanides insegnava che dopo una vita fisica normale il corpo risorto sarebbe stato purificato e rivestito di malakhut ("gli indumenti degli angeli"), e sarebbe quindi passato nel futuro mondo spirituale, che sarebbe stato posto in essere dopo la distruzione del mondo; e questo mondo nuovo sarebbe apparso dopo la resurrezione. Nel mondo a venire le anime e i loro corpi "spiritualizzati" si sarebbero raccolti nei ranghi delle sefirot, nel vero "legame di vita". Secondo Nahmanides le anime, anche in questo stato, avrebbero conservato l'identità individuale. Ma in seguito emersero altre concezioni. L'autore dello Zohar parla di "corpi santi", dopo la resurrezione, ma non espone la sua specifica concezione del loro futuro se non per allusioni. Una opinione molto diffusa identifica il mondo a venire con la Sefirah Binah e le sue manifestazioni. Dopo la vita di beatitudine vissuta dai risorti, questo mondo sarebbe stato distrutto, e alcuni affermano che sarebbe ritornato al caos ("desolazione e vuoto") per essere ricreato in una forma nuova. Forse il mondo a venire sarebbe stato la creazione di un altro anello della catena di "creazioni" o shemittot ("sabbatiche", secondo l'autore del Sefer ha-Temunah) o addirittura la creazione di un'esistenza spirituale attraverso la quale tutte le cose esistenti ascendono per raggiungere il mondo delle Sefirot, e ritornano al loro essere primevo, o "fonte superiore". Nel "Grande Giubileo", dopo 50.000 anni, tutto ritornerà nel seno della Sefirah Binah, che è chiamata anche "madre del mondo". Anche le altre Sefirot, per mezzo delle quali Dio guida la creazione, verranno distrutte con la distruzione del creato. La contraddizione dei due giudizi sul fato dell'uomo, uno dopo la morte e l'altro dopo la resurrezione, e uno dei quali appare superfluo indusse alcuni cabalisti a limitare il grande Giorno del Giudizio alle nazioni del mondo, mentre le anime di Israele, secondo loro, sarebbero state giudicate immediatamente dopo la morte. 10. GEMATRIA Gematria è una delle regole ermeneutiche aggadiche per interpretare la Torah (in Baraita delle 32 regole, n. 29). Consiste nello spiegare una parola o un gruppo di parole secondo il valore numerico delle lettere o di sostituirvi altre lettere dell'alfabeto secondo un sistema fisso. Sebbene il termine sia impiegato normalmente in questo senso di "manipolare secondo il valore numerico", qualche volta ha il significato di "calcoli" (Avot 3:18). Lo stesso avviene dove la lezione nelle edizioni attuali del Talmud è che Johann b. Zakkai conosceva "le rivoluzioni celesti e le gematriot"; in una fonte parallela la lezione è "le rivoluzioni celesti e i calcoli" (Suk. 28a; BB 134a; Ch. Albeck, Shishah Sidrei Mishnah 4 (1959), 497). L'uso delle lettere per significare i numeri era noto ai babilonesi e ai greci. Il primo uso di gematria ricorre in un'iscrizione di Sargon II (727-707 a.E.C.) dove si afferma che il re costruì il muro di Khorsabad lungo 16.283 cubiti in corrispondenza con il valore numerico del suo nome. L'uso della gematria era diffuso nella letteratura dei magi e tra gli interpreti dei sogni nel mondo ellenistico. Gli gnostici equiparavano i due nomi sacri Abraza e Mithras in base all'equivalente valore numerico delle loro lettere (365, corrispondenti ai giorni dell'anno solare). Il suo uso fu apparentemente introdotto in Israele all'epoca del Secondo Tempio, persino nel Tempio stesso: per indicare i numeri venivano usate le lettere greche (Shek. 3:2). Nella letteratura rabbinica la gematria numerica appare per la prima volta in affermazioni dei tannaim del II secolo. È usata come evidenza a conferma e come mezzo mnemonico da R. Nathan. Egli afferma che la frase Elleh hadevarim ("Queste sono le parole") in Esodo 36:1 allude alle 39 categorie di lavori proibiti il Sabbath, poiché il plurale devarim indica due, l'articolo ne indica un terzo, mentre l'equivalente numerico di elleh è 36, il che dà un totale di 39 (Shab. 70a). R. Judah dedusse dal versetto "Dagli uccelli dei cieli alle bestie della terra, tutti sono fuggiti" (Gen. 9:9), che per 52 anni nessun viaggiatore passò attraverso la Giudea, perché il valore numerico di behemah ("bestia") è 52. Il Baraita delle 32 regole cita come esempio di gematria l'interpretazione che i 318 uomini cui si accenna in Genesi 14:14 erano in realtà il solo Eliezer, il servitore di Abramo, poiché il valore numerico del suo nome è 318. Questa interpretazione, che ricorre anche altrove (Ned. 32a; (Gen. R. 43:2) a nome di Bar Kappara, può essere anche una risposta all interpretazione cristiana nell'epistola di Barnaba che vuole trovare nelle lettere greche, il cui valore numerico è 318, un riferimento alla croce e alle prime due lettere del nome di Gesù, per il cui tramite Abramo conseguì la sua vittoria: l'omelista ebreo usò lo stesso metodo per confutare l'interpretazione cristiana. La forma di gematria che consiste nel cambiare le lettere dell'alfabeto secondo l'atbash, cioè l'ultima lettera viene sostituita alla prima la penultima alla seconda, eccetera, ricorre già nella scrittura: Sheshach (Ger. 51:1) corrisponde a Bavel ("Babilonia"). La Baraita delle 32 regole attira l'attenzione su un secondo esempio: lev kamai (Ger. 51:1) è identico, secondo questo sistema, a Kasdim ("caldei"). Un'altra gematria alfabetica si forma con il sistema atbah, ed è chiamato "l'alfabeto di Hiyya" (Suk.52b). Rav, l'allievo di Hiyya, spiegò che Belshazzar e i suoi uomini non seppero leggere la scritta enigmatica perché questa era in gematria, cioè secondo il sistema atbah Sanh. 22a; cfr. Shab. 104a). La gematria ha scarso significato nella halakhah. Dove ricorre, è un accenno o una chiave mnemonica. La regola che, quando un uomo pronuncia i voti di nazireo per un periodo imprecisato, lo si considera per 30 giorni, è derivata dalla parola yihiyeh ("egli sarà") in Numeri 6:5, il cui valore numerico è 30 (Naz.5a). Anche nell'aggadah, almeno tra i primi amoraim, la gematria non viene come fonte di idee ed omelie ma semplicemente per esprimerle nella forma più concisa. Le affermazioni che Noè fu liberato non per cui stesso bensì per Mosè (Gen. R. 26:6), che Rebecca ebbe il merito di aver generato 1:2 tribù (ibid. 63:6) e che la scala di Giacobbe simboleggia la rivelazione del Sinai (ibid. 68:12), non dipendono dalle gematriot date qui. Tali omelie derivano da altre considerazioni ed è certo che precedettero le gematriot. Le gematriot, tuttavia, occupano un posto importante nei Midrashim, il cui scopo principale è l'interpretazione delle lettere, come il Midrash Haserot vi-Yterot, e anche nei tardi Midrashim aggadici (particolarmente in quelli i cui autori si servirono dell'opera di Moses b. Isaac ha-Darshan) come Rabbah dei Numeri (in Midrash Aggadah, pubblicato da S. Buber, 1894) e Genesis Rabbati (pubblicato da H. Albeck, 1940; vedasi introduzione, 11-20). Rashi inoltre, cita le gematriot "che furono stabilite da Moses ha-Darshan" (Num. 7:18) e alcune delle gematriot date da lui provengono da questa fonte, anche se non la menziona esplicitamente (Gen. 32:5, ad esempio "Ho soggiornato con Labano", il valore di gematria di "ho soggiornato'` è 613, cioè "ho soggiornato con il malvagio Labano ma ho osservato i 61 precetti" è l'interpretazione di Moses ha-Darshan, Genesis Rabbati, 145). Joseph Bekhor Shor, uno dei grandi esegeti francesi della Torah, fece uso estensivo di gematriot, e quasi tutti i tosafisti lo seguirono in questo nei loro commenti alla Torah (S. Poznanski, Mavo al Hakhmei Zerefat Mefareshei ha-Mikra, 73). Moltissime gematriot ricorrono in Ra'ne'ah Raza, il commento di Isaac b. Judah ha-Levi (fine del XIII secolo) e nel Ba'al ha-Turim, il commento biblico di Jacob b. Asher. Le dottrine esoteriche dei Hasidei Ashkenaz portarono all'introduzione delle gematriot nella halakhah. Nel suo Ha-Roke'ah, Eleazar di Worms usa gematriot per trovare molte allusioni e conferme per le leggi e i costumi esistenti; con lui a volte la gematria abbraccia intere frasi. Così egli stabilisce per gematria da Esodo 23:15 che il lavoro che può essere rimandato a dopo la festività non può essere compiuto durante i giorni intermedi (Ha-Roke'ah, n. 307). Le gematriot dei Hasidei Ashkenaz occupano un posto importante nei loro commenti sulla liturgia e i piyyutim. Abraham b. Azriel incorporò gli insegnamenti di Judah he-Hasid e di Eleazar di Worms nel suo Arugat ha-Bosem, e seguì la loro stessa strada. Queste gematriot, che erano parte della Cabala dei Hasidei Ashkenaz, stabilirono il testo definitivo delle preghiere che finì per essere considerato sacrosanto. Alcune autorità proibirono di cambiarlo anche quando il testo non si conformava alle regole grammaticali. Nella Cabala É possibile che le tradizioni delle gematriot di Nomi Sacri e angelici risalgano a una data precedente: tuttavia furono raccolte ed elaborate solo nel periodo di cui si parla più sopra. Anche tra i mistici, in generale la gematria non è un sistema per la scoperta di pensieri nuovi: quasi sempre l'idea precede l'invenzione della gematria, che serve come "asmakhta allusiva". Un'eccezione è la gematria sui Nomi Sacri, che sono incomprensibili, oppure quella sui nomi degli angeli. il cui significato e aspetto i hasidim tedeschi cercarono di stabilire per mezzo della gematria Spesso la gematria serviva come chiave mnemonica. Le opere classiche della gematria, in questa cerchia, sono gli scritti di Eleazar di Worms, le cui gematriot sono basate - almeno parzialmente - sulle tradizioni dei suoi maestri. Eleazar scoprì tramite la gematria le meditazioni mistiche sulle preghiere, che possono venire evocate durante la ripetizione delle parole. I suoi commenti ai libri della Bibbia sono basati in gran parte su questo sistema, inclusi alcuni che collegano le leggende midrashiche a parole dei versetti biblici tramite lagematria, e alcuni che rivelano i misteri del mondo della Merkabah ("il carro fiammeggiante") e gli angeli, nello stesso modo. In questa interpretazione la gematria di interi versetti biblici o parti di versetti occupa un posto più importante della gematria basata sul conto di singole parole. Per esempio, il valore numerico della somma delle lettere dell'intero versetto "Io sono disceso nell'orto dei noci" (Cantico 6:11), in gematria è equivalente al versetto: "Questa è la profondità del carro" (merkavah). Parecchie opere d'interpretazione per mezzo della gematria, scritta dai discepoli di Eleazar di Worms, sono conservate in manoscritto. All'inizio della Cabala spagnola, la gematria occupava un posto molto limitato. I discepoli di Abraham b. Isaac di Narbona e i cabalisti di Gerona quasi non la usavano, e la sua influenza non fu considerevole sulla parte principale dello Zohar e sugli scritti in ebraico di Moses b. Shem Tov de Leon. Solo le correnti influenzate dalla tradizione dei Hasidei Ashkenaz portarono la gematria nella letteratura cabalistica della seconda metà del XIII secolo, soprattutto nell'opera di Jacob b. ha-Kohen e di Abraham Abulafia e dei loro discepoli. Le opere di Abulafia sono basate sull'uso esteso ed estremo della gematria. I suoi libri richiedono una decifrazione, prima che sia possibile comprendere tutte le associazioni delle gematriot in essi contenute. Egli raccomandava il sistema di sviluppare l'associazione nella gematria per scoprire verità nuove, e questi metodi furono perfezionati dai suoi successori. Un discepolo di Abulafia, Joseph Gikatilla, usò estensivamente la gematria come uno dei fondamenti della Cabala in Ginnat Egoz (Hanau, 1615; le lettere gimmel, nun, tav di Ginnat sono le iniziali di gematria, notarikon e temurah, l'interscambio delle lettere secondo certe regole sistematiche). Quest'opera ebbe un'influenza visibile sulla più tarda letteratura dello Zohar, Ra'aya Meheimna e Tikkunei Zohar. Emersero due scuole, con l'evolversi della Cabala: una era formata da coloro che prediligevano la gematria, l'altra da coloro che l'usavano meno di frequente. In generale, si può affermare che le idee nuove si svilupparono sempre al di fuori del regno della gematria: tuttavia, vi furono sempre studiosi che trovarono prove e ampie connessioni attraverso la gematria e indubbiamente attribuirono alle loro scoperte un valore positivo, superiore a quello di una semplice allusione. Moses Cordovero presentò un intero sistema senza ricorrere alla gematria, e spiegò temi della gematria solo verso la fine della sua opera fondamentale sulla Cabala (Pardes Rimmonim). Una ripresa dell'uso della gematria si trova nella Cabala lurianica, ma è più diffuso nelle opere cabalistiche di Israel Sarug e dei suoi discepoli (soprattutto Menahem Azariah di Fano e Naphtali Bacharach, autore di Emek ha-Melekh) che nelle opere di Isaac Luria e di Hayyim Vital. L'opera classica che usa la gematria come un mezzo di pensiero e uno sviluppo delle idee commentative nella Cabala del XVII secolo è Megalleh Amukot di Nathan Nata b. Solomon Spira, che servì come modello a un intera letteratura, specialmente in Polonia. Dapprima fu pubblicata solo la parte su Deut. 3:23 segg. (Cracovia, 1637), che spiega questi passi in 252 modi diversi. ll suo commento all'intero Torah (chiamato anch'esso Megalleh Amukot) fu pubblicato a Lemberg - nel 1795. Apparentemente Nathan possedeva un grande senso dei numeri, che trovò espressione in complesse strutture di gematria (J. Ginsburg, in Ha-Tefukah 25 (1929), 448-97). Nella letteratura cabalistica successiva (nel XVIII e nel XIX secolo) l'importanza dei metodi del commento per mezzo della gematria è ben nota, e furono scritte molte opere il cui contenuto principale è gematria, ad esempio. Tiferet Yisrael di Israel Harif di Satanov (Lemberg, 1865), Berit Kehunnat Olam di Isaac Eisik ha-Kohen e tutte le opere di Abraham b. Jehiel Michal ha-Kohen di Lask (tardo XVIII secolo). Nel movimento shabbateo, le gematriot occuparono un posto di considerevole eminenza, quali prove del messianismo di Shabbetai Zevi. Abraham Yakhini scrisse una grande opera di gematriot shabbatee su un versetto della Torah (Vauei ha-Ammudim, manoscritto di Oxford) e l'opera principale del profeta shabbateo Heshel Zoref di Vilna e Cracovia, Sefer haZoref, è basata interamente su un'elaborazione di gematriot intorno al versetto Shema Yixrael ("Ascolta, o Israele", Deut. 6:4). Nella letteratura hasidica la gematria apparve all'inizio solo come sottoprodotto, ma più tardi vi furono parecchi rabbini hasidici, la maggior parte delle cui opere è gematria, ad esempio Igra de Khallah di Zevi Elimelekh Shapira di Dynow (1868), Magen Auraham di Abraham il Maggid di Turisk (1886) e Sefer Imret No'am di Meir Horowitz di Dzikov (1877). Nella letteratura del Giudaismo orientale e nordafricano a partire dal 1700 la gematria ha avuto un ruolo considerevole. I sistemi di gematria si complicarono con l'andar del tempo. Oltre al valore numerico di una parola, vennero usati diversi metodi di gematria. Nel manoscritto di Oxford 1822, f. 141-46, uno speciale trattato elenca 72 forme diverse di gematriot. Moses Cordovero (Pardes Rimmorlim, parte 30, cap. 8) elenca nove tipi diversi di gematriot. I più importanti sono: 1) Il valore numerico di una parola (eguale alla somma del valore numerico di tutte le sue lettere) è eguale a quello di un'altra parola (ad esempio (gevurah) = 216 = (aryeh). 2) Un "numero piccolo" che non tiene conto delle decine e delle centinaia (4 = 0; 2 = 0). 3) Il numero al quadrato in cui le lettere della parola sono calcolate secondo il quadrato del loro valore numerico. Il Tetragrammaton, 102 - + 52 + 62 + 52 = 186 = ("Luogo"), un altro nome per Dio. 4) La somma del valore di tutte le lettere precedenti in una serie aritmetica ((dalet) = 1 + 2 + 3 + 4 = 10). Questo tipo di calcolo è importante nella gematria complessa, che arriva alle migliaia. 5) Il "riempimento" (ebraico millui); il valore numerico di ogni lettera non viene calcolato, e invece vengono calcolati i valori numerici di tutte le lettere che formano il nome della lettera. Le lettere hanno "riempimenti" diversi; millui de-alfin "riempimento con alef"), millui de-he'in ("riempimento con he") o millui deyudin ("riempimento con yod), rispettivamente. Sono importanti nella Cabala per quanto riguarda il valore numerico del Nome di Dio, il tragrammaton che varia secondo i quattro diversi "riempimenti", (= 45, in gematria) (Adam), simboleggiante il Nome di Dio di 45 lettere); (= 52, in gematria, rappresentante il Nome Sacro di 52 lettere); (= 63, in gematria, il Nome di 63 lettere); (72, in gematria, il Nome di 72 lettere, coesistente con un "Nome di 72 Nomi" tratto dai tre versetti Esodo 14:19-21, ognuno dei quali contiene 72 lettere. Altri calcoli della gematria comportano un "riempimento" del "riempimento" o un secondo "riempimento". La, gematria della parola è chiamata ikkar o shoresh, mentre il resto della parola (i "riempimenti") è chiamato ne'elam ("parte nascosta"). Il ne'elam della lettera è = 10; il ne'elam = 500. 6) \/i è anche un "numero grande" che conta le lettere finali dell'alfabeto come una continuazione dell'alfabeto, stesso (500 = 600 = 700 = 800 = 900). Tuttavia, vi è un calcolo secondo l'ordine normale di questo alfabeto grazie al quale i valori numerici delle lettere finali sono i seguenti: = 500; = 600; = 700, eccetera. 7) L'addizione del numero delle lettere nella parola al valore numerico della parola stessa, oppure l'addizione del numero "uno" al valore numerico totale della parola. La critica dell'uso della gematria quale mezzo giustificato di commento fu espressa per la prima volta da Abraham ibn Ezra (nel suo commento su Gen. 14:14) e più tardi dagli avversari della Cabala (in Ari Nohem, cap. 10). Ma anche molti cabalisti mettevano in guardia contro l'uso esagerato della gematria. Nahmanides, d'altra parte, cercò di limitare l'uso arbitrario delle gematria stabilì una regola secondo la quale "nessuno può calcolare una gematria per dedurre da essa qualcosa che gli viene in mente. I nostri rabbini, i saggi santi del Talmud, avevano una tradizione, secondo la quale le gematriot furono trasmesse a Mosè come chiavi mnemoniche per qualcosa che era stato tramandato oralmente con il resto della Legge Orale... come fu la gezerah shauatl, di cui essi dicevano che nessun uomo può stabilire da sé una gezerah shavah" (Sefer ha-Ge'ullah, a cura di J.M. Aronson (1959), Shu'ar 4; vedasi il suo commento a Deut. 4:25). Joseph Solomon Delmedigo parla di false gematriot per abolire il valore del sistema. Quando i credenti di Shabbetai Zevi incominciarono ad applicare largamente le gematriot al suo nome e il "riempimento" del nome di Dio Shaddai (entrambi eguali a 814), coloro che lo contestavano usarono gematriot ironiche (ru'ah sheker = ("falso spirito") = 814). Nonostante questo, l'uso della gematria era diffuso in molti ambienti e tra i predicatori, non soltanto in Polonia ma anche tra i sefarditi. 11 GILGUL Gilgul è il termine ebraico per "trasmigrazione delle anime", "reincarnazione" o "metempsicosi". Non vi è la prova definitiva dell'esistenza della dottrina del gilgul nel Giudaismo durante il periodo del Secondo Tempio. Nel Talmud non vi è alcun riferimento ad essa (anche se, mediante interpretazioni allegoriche, autori più tardi trovarono allusioni e accenni alla trasmigrazione nelle affermazioni dei rabbini talmudici.) Alcuni studiosi interpretano le parole di Giuseppe in Antichità giudaiche 18:1,3 e in Guerre giudaiche 2:8, 14, sui corpi santi meritati dai giusti, secondo le convinzioni dei farisei, come un'indicazione della dottrina della metempsicosi e non della resurrezione dei morti, come ritiene la maggioranza. Nel periodo posttalmudico Anan b. David, il fondatore del Karaismo, sostenne questa dottrina, e in alcuna delle sue affermazioni ci sono un'eco e una continuazione delle antiche tradizioni settarie. La dottrina della trasmigrazione prevalse dal II secolo in poi presso alcune sette gnostiche e specialmente tra i manichei, e venne sostenuta in parecchi ambienti della Chiesa cristiana (forse addirittura da Origene). Non è impossibile che questa dottrina divenisse corrente in alcuni circoli giudaici, che potrebbero averla ricevuta dalle filosofe indiane attraverso il manicheismo, oppure da insegnamenti platonici, neoplatonici o magari orfici. Gli argomenti di Anan a favore del gilgul, che non vennero accettati dai karaiti, furono confutati da Kirkisani (X secolo) in uno speciale capitolo del suo "Libro delle luci", pubblicato per la prima volta da Poznanski; uno dei punti principali era la morte dei bambini innocenti. Alcuni ebrei, seguendo la setta islamica dei Mu'tazila e attratti dai suoi principi filosofici, accettarono la dottrina della trasmigrazione. I principali filosofi ebrei del Medioevo respinsero questa dottrina (Saadiah Gaon, n libro delle fedi e delle opinioni, trattato 6, cap. 7; Abraham ibn Daud, Emunah Ramah, trattato 1, cap. 7; Joseph Albo, Ikkarim, trattato 4, cap. 29). Abraham b. Hiyya cita la dottrina da fonti neoplatoniche, ma la respinge (Meditazione dell'anima triste, 46-47; Megillat ha-Megalleh, 50-51) . Judah Halevi e Maimonide non ménzionano la dottrina, e Abraham b. Moses b. Maimon, che vi fa riferimento, la rifiuta completamente. I primi tempi della Cabala In contrasto con la cospicua opposizione della filosofia ebraica, la trasmigrazione viene data per scontata nella Cabala sin dalla sua prima espressione letteraria nel Sefer ha-Bahir (tardo XII secolo; vedasi p.312). L'assenza di una speciale apologia di questa dottrina, che è esposta nel Bahir in diverse parabole, dimostra che l'idea crebbe o si sviluppò nei circoli dei primi cabalisti senza alcuna affinità con la discussione filosofica della trasmigrazione. Versetti biblici (ad esempio "Una generazione passa, e viene un'altra generazione" (Eccles. 1 :4), intesa nel senso che la generazione che passa è quella che viene) e aggadot e parabole talmudiche erano spiegate in termini di trasmigrazione. Non è chiaro se vi fosse qualche nesso tra l'apparizione della dottrina della metempsicosi nei circoli cabalistici della Francia meridionale e la sua apparizione tra i catari contemporanei, che vivevano nella stessa area. In verità questi ultimi, come moltissimi credenti nella trasmigrazione, insegnavano che l'anima si trasferisce anche ai corpi di animali, mentre nel Bahir è menzionata solo in relazione ai corpi degli uomini. Dopo il Bahir, la dottrina del gilgul si sviluppò in diverse direzioni e divenne una delle più importanti della Cabala, sebbene i cabalisti assumessero posizioni molto varie nei confronti dei dettagli. Nel secolo XIII la trasmigrazione era considerata una dottrina esoterica, alla quale si alludeva appena; ma nel XIV secolo apparvero molti scritti dettagliati ed espliciti sull'argomento. Nella letteratura filosofica il termine ha'atakah ("trasferimento") veniva generalmente usato per gilgul, nella letteratura cabalistica, il termine gilgul compare soltanto a partire dal Sefer haTemunah; in entrambi i casi, si tratta di traduzioni del termine arabo tanasukh I primi cabalisti, come i discepoli di Isaac il Cieco e i cabalisti di Gerona, parlavano del "segreto dell'ibbur" ("impregnazione"). Solo nel tardo XIII secolo, o nel XIV, gilgul e ibbur furono differenziati. Ricorrono anche i termini hithallefut ("scambio") e din benei halof (da Prov. 31:8). Dal periodo dello Zohar in poi, dove è usato liberamente, il termine gilgul diviene prevalente nella letteratura ebraica e incomincia ad apparire anche nelle opere filosofiche. Molti versetti biblici e comandamenti vennero interpretati in termini di gilgul. Le prime sette verso le quali era in debito Anan vedevano-le leggi del macello rituale (shehitah) come prova biblica della trasmigrazione in armonia con la loro credenza nella trasmigrazione negli animali. Per i cabalisti, il punto di partenza e la prova del gilgul era il comandamento del matrimonio del levirato; il fratello del morto senza figli sostituisce il marito morto, al fine di meritare figli nel suo secondo gilgul. Più tardi, anche altre mizvot furono interpretate sulla base della trasmigrazione. Tale credenza servì anche con le giustificazione razionale per l'apparente assenza di giustizia nel mondo e come soluzione del problema delle sofferenze dei giusti e della prosperità dei malvagi; il giusto, ad esempio, viene punito per i suoi peccati in un precedente gilgul. L'intero Libro di Giobbe e la soluzione del mistero della sua sofferenza, specialmente come viene esposta nelle parole di Elihu, furono interpretati in termini di trasmigrazione (ad esempio, nel commento di Nah manides su Giobbe, e in tutta la successiva letteratura cabalistica). Moltissimi tra i primi cabalisti (fino all'autore dello Zohar incluso) non consideravano la trasmigrazione come una legge universale, governante tutte le creature (come avviene nelle credenze indiane) e neppure governante tutti gli esseri umani; la vedevano piuttosto connessa essenzialmente a colpe contro la procreazione e le trasgressioni sessuali. La trasmigrazione è vista come una durissima punizione per l'anima che deve subirla. Nel contempo, tuttavia, è un'espressione della misericordia del Creatore, "che non getta via nessuno per sempre"; offre un'occasione di riscatto anche per coloro che dovrebbero essere puniti con l'"estinzione dell'anima" (karet). Mentre alcuni ponevano più particolarmente in risalto l'aspetto della giustizia nella trasmigrazione, e altri quello della misericordia, il suo scopo singolare era sempre la purificazione dell'anima e la possibilità, in una nuova prova, di migliorare le sue azioni. La morte degli infanti è uno dei modi in cui vengono punite le trasgressioni precedenti. Nel Bahir si afferma che la trasmigrazione può continuare per mille generazioni; ma l'opinione più diffusa tra i cabalisti spagnoli era che per espiare i suoi peccati, l'anima trasmigra altre tre volte prima di entrare nel corpo originale (secondo Giobbe 3:29: "Ecco, Dio fa tutte queste cose, due, tre volte con un uomo"). Tuttavia, i giusti trasmigrano indefinitamente per il bene dell'universo, non per il loro bene. Come su tutti i punti di questa dottrina, esistono opinioni contrastanti anche nella letteratura cabalistica; i giusti trasmigrano tre volte, i malvagi anche mille! La sepoltura è una condizione per un nuovo gilgul dell'anima; ecco quindi la ragione della necessità della sepoltura nel giorno della morte. Talora un'anima maschile entra in un corpo femminile, e produce la sterilità. La trasmigrazione nei corpi delle donne e dei gentili era ritenuta possibile da molti cabalisti, in Opposizione alle concezioni della maggioranza dei cabalisti di Safed. Il Sefer Peli'ah vedeva i proseliti come anime ebree che erano passate nei corpi di gentili e ritornavano allo stato precedente. Gilgul e punizione - Il rapporto fra trasmigrazione e inferno è pure oggetto di disputa solo dopo l'accettazione della punizione nell'inferno; ma l'opinione opposta si trova nel Ra'aya Meheimna, nello Zohar, e in moltissimi cabalisti. Poiché il concetto della metempsicosi e quello della punizione all'inferno si escludono a vicenda, non poteva esservi un compromesso. Joseph di Hamadan, Persia, che visse in Spagna nel secolo XIV, interpretava l'intera questione dell'inferno come trasmigrazione negli animali. Le trasmigrazioni delle anime avevano avuto inizio dopo l'uccisione di Abele (alcuni affermano nella generazione del Diluvio), e cesseranno solo con la resurrezione dei morti. A quel tempo i corpi di tutti coloro che hanno subìto trasmigrazione rivivranno, e in essi si spargeranno scintille (nizozot) dell'anima originale. Ma vi erano anche altre risposte a questo interrogativo, soprattutto nel secolo XIII. L'espandersi della nozione della trasmigrazione da una punizione limitata a peccati specifici in un principio generale contribuì alla nascita della credenza nella trasmigrazione negli animali e persino nelle piante e nelle sostanze inorganiche. Questa opinione, tuttavia, contrastata da molti cabalisti, non divenne comune fin dopo il 1400. La trasmigrazione in corpi di animali viene menzionata per la prima volta nel Sefer ha-Temunah, che ebbe origine in un circolo associato ai cabalisti di Gerona. Nello Zohar l'idea non si trova; ma alcuni detti dei 7'ikkunei Zohar tentarono di spiegare esegeticamente questo concetto, indicando così che la dottrina era già nota all'autore di quell'opera. Ta'amei ha-Mizvot (c. 1290-1300), un'opera anonima sulle ragioni dei comandamenti, registra molti dettagli (citati in parte da Menahem Recanati) sulle trasmigrazioni delle anime umane nei corpi degli animali, che in grande maggioranza erano punizioni per rapporti sessuali proibiti dalla Torah. Nella Cabala successiva e a Safed Un'elaborazione più generale dell'intero concetto appare nelle opere di Joseph S. Shalom Ashkenazi e dei suoi seguaci (inizio del XIV secolo). Essi affermano che la trasmigrazione avviene in tutte le forme di esistenza, dalle Sefirot ("emanazioni") e gli angeli alla materia inorganica, ed è chiamata din benei halof o sod-ha-shelah. Secondo questo concetto, al mondo tutto cambia continuamente forma, discendendo nella forma più infinita e risalendo di nuovo alla più alta. Il concetto preciso della trasmigrazione dell'anima nella sua particolare forma in un'esistenza diversa dalla sua originale viene quindi oscurato ed e sostituito dalla legge del cambiamento di forma. Forse questa versione della dottrina del gilgul dovrebbe essere considerata come una risposta alla critica filosofica basata sulla definizione aristotelica dell'anima come "forma" del corpo, che di conseguenza non può diventare la forma di un altro corpo. Il mistero del vero gilgul in questa nuova versione veniva talora introdotto al posto dell'insegnamento cabalistico tradizionale, come si trova in Masoret ha-Berit (1936) di David b. Abraham ha-Lavan (c. 1300). I cabalisti di Safed accettavano la dottrina della trasmigrazione in tutte le forme della natura e, per loro tramite, questo insegnamento divenne un diffusa credenza popolare. A Safed, soprattutto nella Cabala lurianica, era estremamente sviluppata l'idea più antica delle nizozot ha-neshamot ("scintille delle anime"). Ogni anima "principale" è inserita nella struttura spirituale delle "membra mistiche" (parallele alle membra del corpo), da cui si diffondono molte scintille, ognuna delle quali può fungere da anima o da vita in un corpo umano. I gilgulim di tutte le scintille mirano alla ricostituzione dell'occulta struttura spirituale della "radice" dell'anima principale; è possibile che un uomo possieda parecchie scintille appartenenti a una "radice". Tutte le radici delle anime erano contenute nell'anima di Adamo; ma caddero e si dispersero con il primo peccato; le anime devono essere radunate nel corso dei loro gilgulim che esse e le loro scintille subiscono, e attraverso i quali hanno la possibilità di ricostituire la loro vera struttura originale. La Cabala successiva sviluppò ulteriormente l'idea dell'affinità delle anime appartenenti a una radice comune. Nei commenti cabalistici alla Bibbia, molti eventi venivano spiegati mediante questa storia occulta della trasmigrazione di varie anime che ritornavano in un gilgul a situazioni simili a quelle di uno stato precedente, per rimediare ai danni causati allora. La Cabala dei primi tempi fornisce la base di questa idea: Mosè e Jethro, per esempio, sono considerati reincarnazioni di Abele e Caino; David, Betsabea e Uriah di Adamo, Eva e il serpente; e Giobbe di Terah, il padre di Abramo. L'anonimo libro Gallei Razayya (scritto nel 1552; pubblicato in parte Mohilev, 1812), Sefer ha-Gilgulim (Francoforte, 1684) e Sha'ar ha-Gilgulim (1875, 1912) di Hayyim Vital, presentano lunghe spiegazioni delle storie dei personaggi biblici alla luce dei loro precedenti gilgulim. Luria e Vital ampliarono la cornice fino a includere personaggi talmudici. Le trasmigrazioni di molte figure sono spiegate, secondo l'insegnamento di Israel Sarug, in Gilgulei Neshamot di Menahem Azariah da Fano (edizione con commento, 1907). Molti cabalisti trattarono dettagliatamente la funzione adempiuta dai vari gilgulim dell'anima di Adamo; inoltre spiegavano il suo nome come un'abbreviazione di Adamo, David, Messiah (menzionata per la prima volta da Moses b. Shem-Tov di Leon). Ibbur Oltre alla dottrina del gilgul, quella dell'ibbur ("impregnazione") si sviluppò a partire dalla seconda metà del secolo XIII. Ibbur, come termine distinto da gilgul, significa l'entrata di un'altra anima in un uomo, non durante la gravidanza né alla nascita, bensì durante la sua vita. In generale, quest'anima addizionale dimora in un uomo solo per un periodo di tempo limitato, al fine di compiere certi atti o comandamenti. Nello Zohar si afferma che le anime di Nadab e Abihu si aggiunsero temporaneamente a quella di Phinehas nel suo zelo per l'atto di Zimri, e che l'anima di Judah era presente in Boaz quando egli generò Obed. Questa dottrina ebbe un posto importante negli insegnamenti dei cabalisti di Safed, specialmente di quelli della scuola lurianica; un uomo giusto che compiva quasi tutte le 613 mizuot ma non aveva la possibilità di compiere una speciale mizvah si reincarnava temporaneamente in chi aveva la possibilità di compierla In questo modo, le anime dei giusti si reincarnano per il beneficio dell'universo e della loro generazione. L'ibbur di un uomo malvagio nell'anima di un altro è chiamato dibbuk nel più tardo uso popolare (si veda più sotto). La prevalenza della credenza nel gilgul nel XVI e nel XVII secolo causò inoltre nuove dispute fra sostenitori e i detrattori. Un dibattito dettagliato sulla dottrina della trasmigrazione ebbe luogo intorno al 1460 tra due dotti a Candia (manoscritto Vaticano 254). Abraham ha-Levi ibn Migash scrisse contro la dottrina del gilgul in tutte le sue manifestazioni (Keuod Elohim, 2, 10-14, Costantinopoli, 1585) e Leone Modena scrisse il trattato Ben Dauid contro la trasmigrazione (pubblicato nella raccolta Nishmat Hayyim, Amsterdam, 1652). Opere di cabalisti più tardi su questi argomenti sono Midrash Talpiyyot, sub voce Gilgul (Smirne, 1736) di Meir Bikayam. Dibbuk (Dybbuk) Nel folklore e nelle credenze popolari ebraiche uno spirito malefico o un'anima dannata che entra in una persona vivente, ne aggredisce l'anima, causa malattie mentali, parla per sua bocca e rappresenta una personalità separata e aliena, è chiamato dibbuk. Il termine non compare nella letteratura talmudica e neppure nella Cabala, dove il fenomeno è sempre chiamato "spirito maligno" o "ibbur maligno" (nella letteratura talmudica è chiamato talvolta ru'ah tezazit, e nel Nuovo Testamento "spirito immondo"). Il termine fu introdotto-nella letteratura solo nel XVII secolo, dalla lingua parlata dagli ebrei di Germania e Polonia. È un'abbreviazione di dibbuk me-ru'ah ra'ah ("assalto di uno spirito maligno"), o dibbuk min hahizonim ("dibbuk di parte demoniaca") che si trova nell'uomo. L'atto dell'attaccamento dello spirito al corpo divenne il nome dello spirito stesso. Tuttavia, il verbo dauok ("attaccarsi") si trova in tutta la letteratura cabalistica, dove denota le relazioni tra lo spirito maligno e il corpo, mitdabbeket bo ("si attacca a lui"). È quindi l'equivalente di possessione (Scholem, in Leshonenu 6 (1934), 40-1). Le storie sui dibbukim sono frequenti nel periodo del Secondo Tempio e in quello talmudico, soprattutto nei Vangeli; non sono altrettanto preminenti nella letteratura medievale. All'inizio, il dibbuk era considerato un diavolo o un demone che entrava nel corpo di una persona malata. Più tardi fu aggiunta una spiegazione comune ad altri popoli, e cioè che alcuni dei dibbukim sono gli spiriti di persone morte che non sono state sepolte e quindi sono divenute demoni. Questa idea (comune anche tra i cristiani del Medioevo) si combinò con la dottrina del gilgul ("trasmigrazione dell'anima") nel secolo XVI, e divenne diffusa e accettata presso vasti segmenti della popolazione ebraica, unitamente alla credenza nei dibbukim. Venivano generalmente considerati anime che, a causa dell'enormità dei loro peccati, non potevano trasmigrare, e come "spiriti nudi" cercavano rifugio nei corpi di persone viventi. L'entrata di un dibbuk in una persona era segno che questa aveva commesso un peccato segreto che apriva la porta al dibbuk. Una combinazione di credenze comuni nell'ambiente non ebraico e di credenze popolari ebraiche influenzate dalla Cabala forma tali concezioni. La letteratura cabalistica dei discepoli di Luria contiene molti episodi e "protocolli" sull'esorcismo dei dibbukim. Numerosi manoscritti presentano istruzioni dettagliate sul modo di esorcizzarli. Il potere di scacciare i dibbukim era attribuito ai ba'alei shem o ai hasidim più eletti. Essi esorcizzavano il dibbuk dal corpo ad esso legato, e contemporaneamente redimevano l'anima fornendole un tikkun ("restaurazione") mediante la trasmigrazione, oppure facendo sì che il dibbuk entrasse nell'inferno. A partire dal 1560 furono conservati e pubblicati parecchi rapporti dettagliati in ebraico e in yiddish sulle azioni dei dibbukim e le loro testimonianze su se stessi. Un ricco materiale su episodi di dibbukim è raccolto in Sha'ar ha-Gilgulim di Samuel Vital (Przemys1, 1875, foll. 8-17), in Sefer ha Hezyonot di Hayyim Vital, in Nishmat Hayyim di Manasseh Ben Israel (libro 3, capp. 10 e 14), in Minhat Eliyahu (capp. 4 e 5) di Elijah haKohen di Smirrle, e in A~1inha~ Yehudah di Judah Moses Feyta di Baghdad (1933, pp. 41-59). Quest'ultimo esorcizzò Shabbetai Zevi e il suo profeta Nathan di Gaza che erano apparsi come dibbukim nei corpi di uomini e donne a Baghdad nel 1903. Speciali opuscoli descrivevano casi famosi di esorcismi, come a Korets (in yiddish, fine del XVII secolo), a Nikolsburg (1696), a Detmold (1743), di nuovo a Nikolsburg (1783) e a Stolowitz (1848, pubblicato nel 1911). L'ultimo protocollo di questo tipo, pubblicato a Gerusalemme nel 1904, concerne un dibbuk che era entrato nel corpo di una donna e che fu esorcizzato da Ben-Zion Hazzan. I fenomeni connessi alle credenze e alle storie dei dibbukim di solito hanno una base in casi di isteria e talora in manifestazioni di schizofrenia. 12 GOLEM Il golem è una creatura, in particolare un essere umano, fatta in modo artificiale in virtù di un atto magico, mediante l'uso dei nomi sacri. L'idea che sia possibile creare in questo modo esseri viventi è diffusa nella magia di molti popoli. Particolarmente famosi sono gli idoli e le statue cui gli antichi affermavano di aver dato il potere della parola. Tra i greci e gli arabi queste attività sono talvolta collegate a speculazioni astrologiche relate alla possibilità di "trarre la spiritualità delle stelle" in esseri inferiori. Lo sviluppo dell'idea del golem nel Giudaismo, tuttavia, è lontano dall'astrologia: è connesso piuttosto all'esegesi magica del Sefer Yezirah (vedasi p. 31) e alle idee del potere creativo della favella e delle lettere La parola "golem " appare una sola volta nella Bibbia (Salmo 139: 16), e da essa ebbe origine l'uso talmudico del termine: qualcosa di informe e imperfetto. Nell'uso filosofico medievale è la materia senza forma. Adamo è chiamato golem, nel senso di corpo senza anima, in una leggenda talmudica sulle prime dodici ore della sua esistenza (Sahn. 38b). Tuttavia, anche in questo stato, gli fu accordata una visione di tutte le generazioni future (Gen. R. 24:2) come se nel golem vi fosse un potere occulto di afferrare o comprendere, legato all'elenco della terra dal quale era stato tratto. Il motivo del golem come appare nelle leggende medievali ha origine nella leggenda talmudica (Sahn. 65b): "Rava creò un uomo e lo mandò a R. Zera. Quest'ultimo gli parlò, ma egli non rispose. Chiese: Sei tu [fatto] da uno dei compagni? Ritorna alla polvere". Si narra del pari che due amoraim, alla vigilia di ogni Sabbath, operavano con il Sefer Yezirah (in un'altra versione Hilkhot Yezirah), e si creavano un vitello che poi mangiavano. Queste leggende vengono citate come prova del fatto che "Se i giusti volessero, potrebbero creare un mondo". Sono apparentemente connesse con la fede nel potere creativo delle lettere del Nome di Dio e delle lettere della Torah in generale (Ber. 551; Mid. S. 3). C'è un disaccordo circa il fatto che il Sefer Yezirah o Hilkhot Yezirah, menzionato nel Talmud, fosse o no il libro pervenuto fino a noi e conosciuto con questi due titoli. In gran parte, questo libro ha carattere speculativo, ma è evidente la sua affinità con le idee magiche concernenti la creazione per mezzo delle lettere. Ciò che si dice nella parte principale del libro a proposito dell'attività di Dio durante la creazione viene attribuito alla fine del testo al patriarca Abramo. Le varie trasformazioni e combinazioni delle lettere costituiscono una conoscenza misteriosa dell'interiorità della creazione. Durante il Medioevo, il Sefer Yezirah fu interpretato in alcuni ambienti, in Francia e in Germania, come una guida alla pratica magica. Leggende più tarde in questa direzione si trovano per la prima volta alla fine del commento al Sefer Yezirah di Judah b. Barzillai (inizio del XII secolo). Qui le leggende del Talmud erano interpretate in un modo nuovo: alla conclusione del profondo studio dei misteri del Sefer Yezirah sulla costruzione del cosmo, i saggi (come Abramo, il patriarca) acquisirono il potere di creare esseri viventi; ma lo scopo di tale creazione era puramente simbolico e contemplativo, e quando i saggi vollero mangiare il vitello creato dal potere della loro "contemplazione" del libro, dimenticarono tutto ciò che avevano appreso. Da queste tarde leggende si sviluppò tra i Hasidei Ashkenazi, nel XII e nel XIII secolo, l'idea della creazione del golem quale rituale mistico, che veniva usato, apparentemente, per simboleggiare il livello raggiunto alla conclusione degli studi. In questa cerchia, il termine golem assume per la prima volta un significato fisso indicante tale creatura. In nessuna delle fonti più antiche vi è menzione di qualche beneficio pratico derivabile da un golem di questo tipo. Nell'opinione dei mistici, la creazione del golem non aveva un significato reale, ma solo simbolico; vale a dire, era un'esperienza estatica che seguiva un rito festivo. Coloro che partecipavano all'"atto della creazione" prendevano un po' di terra dal suolo vergine e ne facevano un golem (oppure, secondo un'altra fonte, seppellivano il golem nel suolo) e camminavano intorno ad esso "come in una danza", combinando le lettere dell'alfabeto e il Nome segreto di Dio secondo istruzioni dettagliate (molte delle quali sono pervenute fino a noi). In seguito a questo atto di combinazione, il golem si levava e viveva; e quando essi camminavano nella direzione opposta e recitavano la stessa combinazione di lettere in ordine inverso, la vitalità del golem veniva annullata, ed egli sprofondava o cadeva. Secondo altre leggende, la parola emetnn; "verità", "il sigillo del Santissimo", Shab. 55a; Sahn. 64b) era scritta sulla fronte, e quando veniva cancellata la lettera alef restava la parola met ("morto"). Vi sono leggende relative alla creazione di un tale golem ad opera del profeta Geremia e del suo cosiddetto "figlio" Ben Sira, e così pure dei discepoli di R. Ishmael, la figura centrale della letteratura dei Heikhalot Le istruzioni tecniche sui modi di pronunciare le combinazioni e su tutto ciò che riguarda il rituale, dimostrano che la creazione del golem è qui connessa con l'esperienza spirituale estatica (fine del commento al Sefer Yezirah di Eleazar di Worms; il capitolo Sha'ashy'ei ha-Melekh in Emek ha-Melekh di N. Bacharach (Amsterdam, 1648); e il commento al Sefer Yezirah (1562, fol. 87-101) attribuito a Saadiah b. Joseph Gaon). Nelle leggende sul golem di Ben Sira vi è anche un parallelo con le leggende delle immagini usate nel culto idolatra, cui viene data vita per mezzo di un nome; il golem esprime un avvertimento circa l'idolatria e chiede la propria morte. In diverse fonti è detto che il golem non ha anima intellettuale, e quindi è privo della facoltà della parola; ma si trovano anche opinioni opposte che gli attribuiscono tale facoltà. Le opinioni dei cabalisti circa la natura della creazione del golem sono piuttosto diverse. Moses Cordovero riteneva che l'uomo abbia il potere di dare vitalità, hiyyut, al golem, ma non vita (nefesh), spirito (ru'ah) o anima vera e propria (neshamah). Nella leggenda popolare che cinse le figure dei capi del movimento hasidico Ashkenazi d'un alone di prodigi, il golem divenne una vera e propria creatura che serviva i suoi creatori e svolgeva i compiti assegnatigli. Leggende come queste apparvero tra gli ebrei tedeschi non più tardi del XV secolo e si diffusero ampiamente, tanto che nel secolo XVII venivano "raccontate da tutti" (secondo Joseph Solomon Delmedigo). Nello sviluppo della tarda leggenda del golem vi sono tre punti principali: 1) La leggenda è connessa con precedenti storie secondo le quali si resuscitavano i morti mettendo il Nome di Dio in bocca o sul braccio, mentre rimovendo la pergamena contenente il Nome a rovescio si causava la loro morte. Queste leggende erano diffuse in Italia fin dal X secolo (in Megillat Ahima'az). 2) É relata a idee correnti in ambienti non ebraici e relative alla creazione di un uomo alchemico, l' "homunculus" di Paracelso. 3) Il golem, che è il servo del suo creatore, mostra pericolosi poteri naturali; cresce di giorno in giorno, e per impedire che sopraffaccia i membri della famiglia deve essere ritrasformato in polvere rimovendo o cancellando l'alef dalla sua fronte. Qui, all'idea del golem si unisce il motivo nuovo del potere scatenato dagli elementi che possono portare la distruzione e il caos. Leggende di questo tipo appaiono dapprima a proposito di Elijah, rabbino di Chelm (m. 1583). Zevi Hirsch Ashkenazi e suo figlio Jacob Emden, che erano suoi discendenti, discussero nei loro responsa. se era o no permesso includere un golem di questo tipo in un minyan (e lo proibivano). Elijah Gaon di Vilna disse al suo discepolo Hayyim b. Isaac di Volozhin che da ragazzo anche lui aveva intrapreso la creazione di un golem, ma una visione l'aveva fatto desistere. La forma più tarda e meglio conosciuta della leggenda popolare è connessa a Judah Loew b. Bezalel di Praga. La leggenda non ha base storica nella vita di Loew o in un'epoca a lui vicina. Fu trasferita da R. Elijah di Chelm a R. Loew solo in data molto tarda, apparentemente durante la seconda metà del XVIII secolo, ed è connessa alla sinagoga Altneuschul e alla spiegazione di speciali pratiche nelle preghiere della congregazione di Praga. Si narra che R. Loew creò il golem perché lo servisse, ma fu costretto a renderlo alla polvere quando il golem si scatenò, mettendo in pericolo vite umane. Nelle arti Le leggende relative al golem, specialmente nelle forme più tarde, servirono come tema letterario dapprima nella letteratura tedesca - degli ebrei e dei non ebrei - nel XIX secolo, e successivamente nella moderna letteratura ebraica e yiddish. Al regno delle belle lettere appartiene anche il libro Nifla'ot Moharal im ha-Golem ("Le azioni miracolose di Rabbi Loew con il Golem", 1909) che fu pubblicato da Judah Rosenberg come un antico manoscritto ma che in realtà non fu scritto se non dopo le calunnie del sangue del 1890-1900, soprattutto il caso Hilsner a Polna (Cecoslovacchia, 1899). La connessione tra il golem e la lotta contro le accuse di omicidio rituale è un'invenzione letteraria completamente moderna. In questa letteratura sono discusse questioni che non hanno posto nelle leggende popolari (ad esempio, l'amore del golem per una donna), o interpretazioni simboliche del significato del golem (l'uomo non redento, informe; il popolo ebraico; la classe operaia aspirante alla liberazione). L'interesse per la leggenda del golem da parte di scrittori, artisti, musicisti, divenne evidente all'inizio del XX secolo. Il golem era quasi invariabilmente il robot benevolo della più tarda tradizione di Praga e conquistò l'immaginazione di scrittori attivi in Austria, Cecoslovacchia e Germania. Due tra le prime opere sul tema furono il volume di racconti intitolato Der Golem, Phantasien und Historien del commediografo austriaco Rudolf Lothar (1900, 1904), e il dramma in tre atti Der Golem (1908) del romanziere tedesco Arthur Holitscher. Il poeta Hugo Salus, di Praga ma di lingua tedesca, pubblicò versi su "Der hohe Rabbi Loew" e al tempo della prima guerra mondiale il tema aveva acquisito una vasta popolarità. L'opera più notevole sul golem fu il romanzo intitolato Der Golem .(1915; ed. ingl. 1928) dello scrittore boemo Gustav Meyrink 1868-1932) che aveva trascorso i suoi primi anni a Praga. Il libro di Meyrink, notevole per la descrizione dettagliata e l'atmosfera d'incubo, era una terrificante allegoria sulla lotta dell'artista per trovare se stesso. Altre opere sullo stesso tema includono Der Rabbiner von Prag (Réó Loeb) di Johannes Hess (1914), un "dramma cabalistico" in quattro atti di Chayim Bloch, Der Prager Golem: uon seiner "Geburt" bis zu seinem "Tod" (1917; The Golem, Legends of the Ghetto of Prague, 1925); e Ha-Golem (1909), un racconto dello scrittore ebreo David Frischmann, che in seguito apparve nella sua raccolta BaMidbar (1923) Der Golem (1921; ingl. 1928), del drammaturgo H. Leivick, scritto in yiddish, e basato sul libro di Rosenberg, fu messo in scena a Mosca in ebraico dal Habinah Theater. Le interpretazioni artistiche e musicali del tema dipendono dalle principali opere letterarie. Hugo Steiner-Prag produsse litografie per illustrare il romanzo di Meyrink (Der Golem: Prager Phantasien 1915), e il libro ispirò un classico tedesco del cinema muto, di Paul Wegener e Henrik Galeen (1920) e un successivo rifacimento di Julien Duvivier (1936). Il copione per un film ceco del secondo dopoguerra sul tema del golem fu scritto da Arnost Lustig. La musica per il dramma di Leivick fu composta da Moses Milner; e l'opera di Eugen d'Albert, Der Golem, su libretto di G. Lion, fu rappresentata per la prima volta a Francoforte nel 1926, ma non è rimasta nel repertorio. Un'opera più duratura fu la Golem Suite di Joseph Achron per orchestra (1932), composta sotto l'influenza della messa in scena del Habimah. L'ultimo pezzo di questa suite fu composto come l'esatta immagine musicale a rovescio del primo movimento, per simboleggiare la disintegrazione dell'homunculus. Der Golem, un balletto di Francia Burt con coreografia di Erika Hanka, fu rappresentato a Vienna nel 1962. 13 LILITH Lilith è un demone femmina che ha una posizione centrale nella demonologia ebraica. La figura si può far risalire alla demonologia babilonese (forse addirittura a quella sumera), che identifica due spiriti assai simili, maschio e femmina - rispettivamente Lilu e Lilith - etimologicamente non relati alla parola ebraica laylah ("notte"). Questi mazzikim ("spiriti nocivi") hanno vari ruoli; uno di essi - l'Ardat-Lilith - sceglie le sue prede tra i maschi, mentre altri mettono in pericolo le partorienti e i loro figli. Un esempio di quest'ultima varietà è Lamashtu (decifrato inizialmente come Labartu), contro cui sono conservate formule d'incantesimi in assiro. Demoni femminili alati che strangolano i bambini sono noti grazie a una iscrizione ebraica o cananita trovata ad Arslan-Tash nella Siria settentrionale e risalente al VII o all'VIII secolo prima dell'Era Comune. È incerto se Lilith sia menzionata o no in questo incantesimo, che scongiura gli strangolatori di non entrare nella casa: l'interpretazione dipende dall'aggiunta di una consonante mancante: "A colei che vola nelle stanze della tenebra... passa presto, presto, Lil [ith]''. Nella Scrittura vi è un solo riferimento a Lilith (Is. 34:14) tra le bestie da preda e gli spiriti che devasteranno la terra il giorno della vendetta. In fonti che risalgono a secoli precedenti, le tradizioni riguardanti il demone femmina che minaccia le partorienti e assume molti aspetti e molti nomi sono distinte dalla tradizione esplicita relativa a Lilith, documentata nel Talmud. Mentre il Lilu babilonese è menzionato come una sorta di demone maschile senza una funzione precisa, Lilith appare come un demone femminile con viso di donna, lunghi capelli e ali (Er. 100b; Nid. 24b). Un uomo che dorme solo in casa può essere afferrato da Lilith (Shab. 151b); mentre il demone Hormiz od Ormuzd è menzionato come uno dei suoi figli (BB 73b). Non hanno fondamento i commenti più tardi che identificano Lilith con il demone Agrath, figlia di Mahalath, che si aggira di notte con 180.000 angeli perniciosi (Pes. 112b). Tuttavia, un demone femmina che si dice conosciuto decine di migliaia di nomi e che si aggira nel mondo la notte, visitando le partorienti e cercando di strangolare i neonati, è menzionato nel Testamento di Salomone, un'opera greca del III secolo. Sebbene conservata in una versione cristiana, I opera è certamente basata sulla magia giudeo-ellenistica. Qui il demone femmina è chiamato Obizoth; e vi si narra che uno dei nomi mistici dell'angelo Raphael iscritto su un amuleto le impedisce di fare del male. La letteratura midrashica si diffonde sulla leggenda che Adamo, separatosi dalla moglie dopo che era stato disposto che sarebbero morti, generò demoni con spiriti che si erano attaccati a lui. È detto che "incontrò una Lilith chiamata Piznai la quale, presa della sua bellezza, giacque con lui e partorì demoni maschi e femmine". Il figlio primogenito di questa unione demoniaca fu Agrimas (vedasi il Midrash pubblicato in Ha-Goren, 9 (1914), 66-68; Dvir, 1 (1923), 138; e L. Ginzberg, Legends of the Jews, 5 (1925), 166.) La prole di questa Lilith riempie il mondo. Una versione trasmutata di questa leggenda appare nell'Alfabeto di Ben Sira, un'opera del periodo geonico, che si propone di spiegare l'usanza già molto diffusa di scrivere amuleti contro Lilith. Qui è identificata con la "prima Eva", che fu creata dalla terra contemporaneamente ad Adamo e che, non volendo rinunciare alla propria eguaglianza, disputò con lui sui modi del loro rapporto carnale. pronunciando il Nome Ineffabile, s'involò nell'aria. Su richiesta di Adamo l'Onnipotente la fece inseguire dai tre angeli Snwy, Snsnwy e Smnglf, trovatala nel Mar Rosso, gli angeli minacciarono che, se non fosse ritornata, ogni giorno sarebbero morti cento suoi figli maschi. Lilith rifiutò, affermando che era stata creata espressamente per far male ai neonati. Tuttavia, dovette giurare che ogni volta che avesse visto l'immagine di quegli angeli su un amuleto, avrebbe perduto il suo potere sull'infante. Qui la leggenda riguardante la moglie di Adamo che precedette la creazione di Eva (Gen. 2) si fonde con la precedente leggenda di Lilith come demone che uccide i neonati e minaccia le partorienti. Questa tarda versione del mito ha molti paralleli nella letteratura cristiana dei tempi bizantini (che probabilmente la precedettero) e di periodi successivi. Il demone femmina è conosciuto con nomi diversi, molti dei quali riappaiono nella stessa forma, o in forme leggermente alterate nella letteratura della Cabala pratica (ad esempio, il nome Obizoth dal Testamento di Salomone) e il posto degli angeli viene preso da tre santi, Sines, Sisinnios e Synodoros. La leggenda entrò anche nella demonologia araba, dove Lilith è conosciuta come Karina, Tabi'a, o "la madre degli infanti". Questa personificazione di Lilith come strangolatrice di neonati è già chiara negli incantesimi ebraici, scritti in aramaico babilonese, anteriori all'Alfaóeto di Ben Sira. Un tardo Midrash (Numeri R., fine cap. 16) la menziona egualmente a questo proposito: "Quando Lilith non trova neonati, si scatena sui suoi figli", un motivo che la collega al, babilonese lamashtu. Da queste antiche tradizioni, l'immagine di Lilith venne fissata nella demonologia cabalistica. Anche qui, ha due ruoli primari: la strangolatrice di neonati (talora sostituita nello Zohar da Na'amah) e la seduttrice di uomini, dalle cui emissioni notturne partorisce un numero infinito di figli demoniaci. In quest'ultimo ruolo, appare alla testa di una schiera immensa, che partecipa alle sue attività. Nello Zohar, come in altre fonti, è conosciuta con appellativi come Lilith, la cortigiana, la perversa, la falsa o la nera. (La precedente combinazione di motivi appare in Zohar 1:1 4b, 54b; 2:96a, 11 la; 3:19a, 76b.). Generalmente figura tra le quattro madri dei demoni; le altre sono Agrath, Mahalath e Na'amah. Interamente nuova nel concetto cabalistico di Lilith è la sua comparsa come compagna permanente di Samael, regina del regno delle forze del male (la sitra ahra). In quel mondo il mondo delle kelippot) svolge una funzione parallela a quella della Shekhinah ("Presenza Divina") nel mondo della santità; come la Shekhinah è la madre della Casa di Israele, Lilith è la madre della gente empia che costituisce la "moltitudine mista" (ereu-rau) e governa su tutto ciò che è impuro. Questa concezione si trova per la prima volta nelle fonti usate da Isaac b. Jacob ha-Kohen, e più tardi in Ammud ha-Semali del suo discepolo Moses b. Solomon b. Simeon di Burgos. Sia qui, sia più tardi nei Tikkunei Zuhar, si cristallizza la concezione di vari gradi di Lilith, interni ed esterni. Troviamo così Lilith maggiore, moglie di Samael, e Lilith minore, moglie di Asmodeo (vedasi Tarbiz, 4 (1932/33, 72) negli scritti di Isaac ha-Kohen e successivamente negli scritti di moltissimi cabalisti, e in molti incantesimi. Alcuni di questi identificano le due cortigiane apparse in giudizio davanti a Salomone con Lilith e Na'amah o Lilith e Agrat, un'idea cui si allude già nello Zohar e in scritti coevi (vedasi Tarbiz, 19 (1947/48), 172-5). Diffusa è anche l'identificazione di Lilith con la regina di Saba, una nozione con molte ramificazioni nel folklore ebraico. Ha origine nel Targum a Giobbe 1:16, basato sul mito ebraico e arabo secondo il quale la regina di Saba era in realtà un jinn, per metà umana e per metà demone. Questa concezione era nota a Moses Shem Tov de Leon, ed è menzionata anche nello Zohar. In Livnat ha-Sappir, Joseph Angelino sostiene che gli enigmi proposti dalla regina di Saba a Salomone sono una ripetizione delle parole di seduzione che la prima Lilith rivolse ad Adamo. Nel folklore ashkenazi, questa figura si fuse con l immagine popolare di Elena di Troia, o la Frau Vinus della mitologia tedesca. Fino a tempi recenti, la regina di Saba veniva popolarmente rappresentata come una rapitrice di bambini e come una strega demoniaca. È probabile che vi sia un residuo dell'immagine di Lilith come compagna di Satana nelle popolari nozioni europee tardo-medievali della concubina o della moglie di Satana nel folklore tedesco. Nel dramma tedesco sulla papessa Jutta (Giovanna), che fu stampato nel 1565 benché, secondo il suo editore, fosse stato scritto nel 1480, il nome della nonna è Lilith. Qui è raffigurata come una seducente danzatrice, un motivo che si trova comunemente negli incantesimi degli ebrei Ashkenazi relativi alla regina di Saba. Negli scritti di Hayyim Vital (Seferha-Likkutim, (1913), 6b), Lilith appare talvolta alla gente sotto forma di gatta, di oca o di qualche altro animale, e ha potere non già per soli otto giorni nel caso di un neonato maschio e di venti per una femmina (come risulta nell'Alfabeto di Ben Sirau) bensì rispettivamente per 40 e 60. Nella Cabala, influenzata dall'astrologia, Lilith è relata al pianeta Saturno, e tutti coloro che hanno temperamento maliconico - "umor nero" - sono suoi figli (Zohar, Ra'aya Meheimna, 3:227b). Dal XVI secolo in poi si credette comunemente che se un neonato rideva nel sonno questo indicasse che Lilith stava giocando con lui, e quindi era consigliabile dargli un buffetto sul naso per scongiurare il pericolo (H. Vital, S'efer ha-Likkutim (1913), 78c; Emek ha-Melekh, 130b). Era uso comune proteggere le partorienti dal potere di Lilith appendendo amuleti sopra il letto o alle quattro pareti della stanza. Le prime forme di questi amuleti, in aramaico, sono incluse nella raccolta di Montgomery (vedasi bibliografia). La prima versione in ebraico appare nell'Alfabeto di Ben Sira, che afferma che l'amuleto deve includere non soltanto i nomi dei tre angeli che sconfiggono Lilith, ma anche "la loro forma, con le ali, le mani e le gambe . Questa versione ebbe diffusione larghissima, e amuleti di questo tipo venivano addirittura stampati nel XVIII secolo. Secondo Shlmmush Tehillim, un libro che risale al periodo geonico, gli amuleti scritti per le donne che tendevano a perdere i figli includevano il Salmo 126 (sostituito più tardi dal Salmo 121) e i nomi dei tre angeli. In Oriente, erano comuni anche amuleti che presentavano la stessa Lilith "in catene". Molti amuleti includono la storia del profeta Elia che incontra Lilith diretta alla casa di una partoriente "per darle il sonno della morte, per prendere suo figlio e berne il sangue e succhiarne il midollo delle ossa e mangiarne le carni" (in altre versioni: "lasciare le carni"). Elia scomunicò Lilith, che allora promise di non far male alle partorienti ogni volta che vedesse o udisse i propri nomi. Questa versione è tratta indubbiamente da una formula cristiana bizantina contro il demone femmina Gyllo, che venne esorcizzato dai tre santi menzionati più sopra. Il trasferimento dalla versione greca a quella ebraica si vede chiaramente nella formula dell'incantesimo ebraico del XV secolo proveniente da Candia, che fu pubblicato da Cassuto (RSO, 15 (1935),260), in cui non è Elia bensì l'arcangelo Michael che, venendo dal Sinai, incontra Lilith. Sebbene i nomi greci diventassero progressivamente corrotti con il passare del tempo, nel XIV secolo nuovi nomi greci per "il seguito di Lilith" appaiono in un manoscritto di Cabala pratica, che include materiale di una data assai anteriore (British Museum Add., manoscritto 15299, fol. 84b). La storia di Elia e Lilith inclusa nella seconda edizione di Sod ha-Shem di David Lida (Berlino, 1710, p. 20a) si trova nella maggior parte dei più tardi amuleti contro Lilith, dove uno dei suoi nomi è; Striga - incantatrice, donna o demone - o Astriga. In una delle sue mutazioni questo nome appare come l'angelo Astaribo, del pari incontrato da Elia; in molti incantesimi prende il posto di Lilith, una sostituzione che si trova in una versione della storia datata 1695. Sono pervenute fino a noi anche versioni dell'incantesimo in cui Lilith è sostituita dal Malocchio, la stella Margalya, o il demone familiare nella letteratura giudaica e araba, Maimon il Nero. Nella letteratura europea, la storia di Lilith, in varie versioni, ha rappresentato un fertile tema narrativo. 14 MAGEN DAVID Il magen David ("scudo di Davide"), è un esagramma, o stella a sei punte, formato da due triangoli equilateri che hanno lo stesso centro e sono posti in direzioni opposte. Il simbolo era usato già nell'Età del Bronzo - forse come ornamento o forse come segno magico - in molte civiltà e in regioni lontane tra loro come la Mesopotamia e la Britannia. Esempi dell'Età del Ferro sono noti in India e nella penisola iberica prima della conquista romana. Talvolta appare su manufatti ebraici, come lampade o sigilli, ma senza avere un significato speciale e riconoscibile. Il più antico esempio indiano appare su un sigillo del VII secolo prima dell'Era Comune, trovato a Sidone e appartenente a un certo Joshua b. Asayahu. Nel periodo del Secondo Tempio, l'esagramma venne spesso usato tanto dagli ebrei quanto dai non ebrei accanto al pentagramma (stella a cinque punte) e nella sinagoga di Capernaum (II o III secolo dell'Era Comune) si trova fianco a fianco con il pentagramma e la svastica in un fregio. Non vi è motivo di supporre che venisse usato per scopi diversi da quello decorativo. Le teorie che l'interpretano come un segno planetario di Saturno e lo collegano con la pietra sacra nel santuario predavidico di Gerusalemme sono puramente speculative. L'esagramma non appare nei papiri magici né nelle fonti più antiche della magia ebraica; cominciò a figurare come segno magico dall'inizio del Medioevo. Tra gli emblemi ebraici dei tempi ellenistici (discussi in E. Goodenough, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period) mancano tanto l'esagramma quanto il pentagramma. L'uso ornamentale dell'esagramma continuò nel Medioevo, specialmente nei paesi cristiani e musulmani. I re di Navarra l'usavano sui loro sigilli notarili in Spagna, Francia, Danimarca e Germania, da notai sia cristiani che ebrei. Tracciato talvolta con linee leggermente curve, appare nelle prime chiese bizantine e in molte chiese medievali europee, come ad esempio su una pietra di un'antica chiesa di Tiberiade (conservata nel Museo Municipale) e sull'ingresso delle cattedrali di Burgos, Valencia e Lerida. Si trovano anche esempi su oggetti usati nelle chiese, talvolta in posizioni oblique, come nella marmorea cattedra vascovile (c. 1266) nella cattedrale di Anagni. Probabilmente a imitazione dell'uso ecclesiastico - e certamente non come simbolo specificamente ebreo - l'esagramma si trova su alcune sinagoghe del tardo Medioevo, per esempio a Hameln (Germania, c. 1280) e Budweis (Boemia, probabilmente XIV secolo). In varie fonti arabe l'esagramma, insieme ad altri ornamenti geometrici, era largamente usato con la designazione di "sigillo di Salomone", un termine che fu adottato anche da molti gruppi ebraici. Il nome collega l'esagramma alla più antica magia cristiana, forse giudeo-cristiana, come nell'opera magica greca n testamento di Salomone. Non è chiaro in quale periodo l'esagramma fu inciso sul sigillo o sull'anello di Salomone, menzionato nel Talmud (Git. 68a-b) come segno dei suoi poteri sui demoni, al posto del nome di Dio che vi appariva in origine. Tuttavia, questo avvenne in ambienti cristiani, dove diversi amuleti bizantini del VI secolo usano già "sigillo di Salomone" come nome dell'esagramma. In molti manoscritti ebraici medievali si trovano complessi disegni dell'esagramma, senza che ad esso venga assegnato un nome. L'origine di questa usanza si può chiaramente far risalire ai manoscritti della Bibbia provenienti da paesi musulmani (un esempio è mostrato in: Gunzburg e Stassoff, L'ornement hébraique (1905), tav. 8, 15). A partire dal XIII secolo, si trova in manoscritti ebraici della Bibbia provenienti dalla Germania e dalla Spagna. Talvolta, parti della masorah sono scritte in forma di esagramma; talvolta viene usato semplicemente come ornamento, in forma più o meno elaborata. Esempi riccamenti adorni, tratti da manoscritti di Oxford e di Parigi, sono stati riprodotti da G. Roth, Seferad, 12, 1952,p. 356, tav. II e nel catalogo della mostra "Synagoga", Recklinghausen, 1960, tav. B.4. Nella magia araba, il "sigillo di Salomone" era usato largamente, ma all'inizio il suo uso negli ambienti ebraici fu circoscritto a casi relativamente poco numerosi. Anche allora, l'esagramma e il pentagramma erano spesso intercambiabili, e il nome valeva per entrambe le figure. Come talismano, era comune in molte delle versioni magiche della mezuzah, diffuse tra il X e il XIV secolo. Di frequente, le aggiunte magiche al testo tradizionale della mezuzah contenevano esempi dell'esagramma, talvolta fino a dodici. In numerosi manoscritti magici ebraici del tardo Medioevo, l'esagramma era usato per certi amuleti, tra i quali quello destinato a spegnere gli incendi godeva di una grande popolarità La nozione dello "scudo di Davide" con poteri magici, in origine non era connessa a questo segno. È difficile dire se tale nozione nacque nell'Islam, dove il Corano afferma che Davide fu il primo a fabbricare armi protettive, o in tradizioni interne della magia ebraica. Ai primi tempi appartiene un solo esempio che collega l'esagramma al nome Davide, su una pietra tombale del VI secolo trovata a Taranto, nell'Italia meridionale. Sembra che vi fosse una ragione speciale per porre l'esagramma prima del nome del defunto. Il più antico testo che menziona uno scudo di Davide è spiegazione del magico "alfabeto dell'angelo Metatro, periodo geonico e che era corrente tra i Hasidei Ashkenazi del XII secolo. Ma qui era il Sacro Nome di 72 nomi (tratto da Es. 14:19-21, dove ogni versetto ha 72 lettere), che si diceva fosse inciso su questo scudo, insieme al nome MKBY. In fonti affini questa tradizione era molto abbellita. Il nome angelico Taftafiyyah, uno dei nomi di Metatron, fu aggiunto ai 72 nomi sacri e infatti un amuleto a forma di esagramma con questo nome divenne uno dei talismani protettivi più diffusi in manoscritti medievali e più tardi. (A partire dal 1500 circa il nome Shaddai sostituì spesso quello puramente magico.) Questo deve avere causato la transizione all'uso del termine "magen Dauid" per indicare il segno. Non è chiaro cosa causasse la sostituzione della figura al posto del "grande nome di 72 nomi"; ma ancora nel XVI secolo si possono trovare istruzioni precisanti che lo scudo di Davide non deve essere disegnato con semplici linee, ma deve essere composto di certi nomi sacri e delle loro combinazioni, secondo il modello di quei manoscritti biblici in cui le linee erano composte dal testo della masorah. Il più vecchio testimone che si conosca di questo uso del termine è il cabalistico Sefer ha-Gevul, scritto da un nipote di Nahmanides all'inizio del XIV secolo. L'esagramma vi ricorre due volte, e in entrambi i casi è chiamato "imagen Dauid" e contiene lo stesso nome magico dell'amuleto prima menzionato, a dimostrazione della sua connessione diretta con la tradizione magica. Secondo altre tradizioni, ricordate in Akedat Yizhak di Isaac Arama (XV secolo), l'emblema dello scudo di Davide non era l'emblema conosciuto oggi con questo nome, bensì il Salmo 67 in forma della menorah. Questo divenne un costume molto diffuso, e il ''Salmo della menorah" fu considerato un talismano di grande potenza. Un libriccino del XVI secolo dice: "Re Davide usava portare questo salmo scritto, dipinto e inciso sul suo scudo, in forma della menorah quando andava in battaglia, ed egli meditava sul suo mistero e vinceva". Fra il 1300 e il 1700 e due termini, scudo di Davide e sigillo di Salomone, vengono usati indiscriminatamente, in prevalenza in testi magici; tuttavia il primo ebbe a poco a poco il sopravvento, Fu inoltre usato, dal 1492, come marchio degli stampatori, specialmente nei libri pubblicati a Praga nella prima metà del XVI secolo e in quelli stampati dalla famiglia Foa in Italia e in Olanda, che l'incorporò nel suo stemma (ad esempio nel frontespizio di Guida per iperplessi di Maimonide, Sabbioneta, 1553). Molte famiglie ebree italiane seguirono tale esempio tra il 1660 e il 1770. Tutte queste utilizzazioni, però, non avevano ancora portato a una generale connotazione ebraica. Il primo uso ufficiale dello scudo di Davide si può trovare a Praga, da dove si diffuse nel XVII e nel XVIII secolo attraverso la Moravia e l'Austria e quindi nella Germania meridionale e in Olanda. Nel 1354, Carlo IV concesse alla comunità di Praga il privilegio di avere una sua bandiera chiamata in seguito nei documenti "bandiera di re Davide" - su cui era raffigurato l'esagramma. Divenne perciò un emblema ufficiale, scelto probabilmente per il suo significato come simbolo contenuto dei tempi in cui re Davide lo portava sullo scudo. Questo spiega il suo vasto uso a Praga, nelle sinagoghe, sul sigillo ufficiale della comunità, sui libri stampati e su altri oggetti. Qui veniva sempre chiamato magen David. Il suo uso sulla pietra tombale (1613) di David Gans, astronomo e storico, fu ancora eccezionale con un evidente riferimento al titolo della sua ultima opera, appunto Magen David. Se si esclude una pietra tombale a Bordeau (c. 1726), non si conoscono altri esempi del suo uso sulle tombe prima della fine del XVIII secolo. Un curioso parallelo allo sviluppo in Praga è l'unico caso di una rappresentazione della Sinagoga come figura allegorica, che sostiene una bandiera con il magen David in un manoscritto catalano del XIV secolo del Breviar d'amor di Matfre d'Ermengaud. Il simbolo passò ben presto ad altre comunità. Il suo uso a Budweis è stato ricordato più sopra, e la comunità di Vienna lo usò come suo sigillo nel i 1655. L'anno seguente si trova insieme alla croce su una pietra che segna il confine tra i quartieri ebraico e cristiano di Vienna (secondo P. Diamant) o tra il quartiere ebraico e il monastero dei carmelitani (secondo Max Grunwald). Apparentemente, erano entrambi simboli riconosciuti ufficialmente. Quando gli ebrei viennesi furono espulsi nel 1670 portarono il simbolo in molte delle nuove residenze, specialmente in Moravia, ma anche nella comunità ashkenazi di Amsterdam, dove venne usato a partire dal 1671, inizialmente su un medaglione che permetteva di accedere al cimitero. Più tardi divenne parte del sigillo della comunità. Abbastanza curiosamente la sua migrazione verso est fu molto più lenta. Non compare mai su sigilli ufficiali, ma qua e là, durante il XVII e il XVIII secolo, figura come ornamento di oggetti usati nelle sinagoghe e su sculture in legno sopra il sacrario della Torah (per la prima volta a Volpa, presso Grodno, 1643). L'uso dell'esagramma come simbolo alchemico denotante l'armonia tra gli elementi antagonistici acqua e fuoco divenne corrente verso la fine del XVII secolo; ma questo non ebbe alcuna influenza negli ambienti ebraici. Molti alchimisti cominciarono a chiamarlo anch'essi "scudo di Davide" (documento dal 1724). Ma un altro simbolismo nacque negli ambienti cabalistici, dove lo "scudo di Davide" divenne lo "scudo del figlio di Davide", il Messiah. Non è certo se questo uso fosse comune anche nei circoli ortodossi, tuttavia non è impossibile. I due cabalisti che lo attestano, Isaiah, figlio di Joel Ba'al Shem, e Abraham Hayyim Kohen di Nikolsburg, combinano le due interpretazioni. Ma non vi è dubbio che questa interpretazione messianica del segno fosse corrente tra i seguaci di Shabbetai Zevi. I famosi amuleti dati da Jonathan Eybeschuetz a Metz e Amburgo, che non hanno altra interpretazione convincente che un'interpretazione, shabbatea, hanno uno scudo di Davide designato come "sigillo di MBD" (Messiah b. David), "sigillo del Dio d'Israele" eccetera. Lo scudo di Davide fu trasformato in un simbolo segreto della visione shabbatea della redenzione, sebbene tale interpretazione rimanesse esoterica, da non divulgare. Il motivo primario dell'ampia diffusione del segno nel XIX secolo fu il desiderio di imitare il Cristianesimo. Gli ebrei cercavano un segno semplice ed eloquente che potesse "simboleggiare" il Giudaismo allo stesso modo in cui la croce simboleggia il Cristianesimo. Questo portò all'ascesa del magen Dauid nell'uso ufficiale, su oggetti rituali e in molti altri modi. Dall'Europa centrale e occidentale pervenne all'Europa dell'Est e agli ebrei orientali. Quasi tutte le sinagoghe lo portarono; innumerevoli comunità e organizzazioni private e caritatevoli lo impressero sui sigilli e sulla carta intestata. Mentre durante il XVIII secolo il suo uso su oggetti rituali era ancora molto limitato - un buon esempio è un piatto per mazzot (1770), riprodotto nel frontespizio di Monumenta Judaica, catalogo di una mostra ebraica a Colonia, 1963 - divenne popolarissimo. Nel 1799 era già apparso come uno specifico segno ebraico in un'incisione satirica antisemita; nel 1822 venne usato nello stemma dei Rothschild quando vennero fatti nobili dall'imperatore d'Austria; e dal 1840 Heinrich Heine firmò la sua corrispondenza da Parigi sull'Augsburger Allgemeine Zeitung con un magen David al posto del nome, una straordinaria indicazione della sua identificazione ebraica nonostante la conversione. Il primo numero di Die Welt, il giornale sionista di Herzl, lo portava come emblema. Il magen David divenne il simbolo delle nuove speranze e di un nuovo futuro del popolo ebraico, e Franz Rosenzweig l'interpretò in Der Stern der Erloesung (1921) come la summa delle sue idee filosofiche circa il significato del Giudaismo e dei rapporti tra Dio, gli uomini e il mondo. Quando i nazisti lo usano come un marchio di vergogna per accompagnare milioni di vittime alla morte assunse una nuova profondità, unendo sofferenza e speranza. Sebbene lo stato d'Israele, alla ricerca di un'autenticità ebraica, abbia scelto come emblema la menorah, un simbolo molto più antico, il magen Dauid è stato mantenuto sulla bandiera nazionale (già sionista) ed è largamente usato nella vita ebraica. 15 MEDITAZIONE Il termine meditazione (ebraico Hitbonenut) appare per la prima volta nella letteratura cabalistica alla metà del XIII secolo, per riferirsi alla concentrazione protratta del pensiero sulle luci superne del mondo divino e dei mondi spirituali in genere. Molte fonti, tuttavia, a questo proposito usano i termini kavvanah, o devekut ("attaccamento") del pensiero a un particolare soggetto, e "contemplazione della mente". I cabalisti non distinguevano fra i termini "meditazione" e "contemplazione", una distinzione prevalente nel misticismo cristiano. Secondo la concezione cabalistica, la contemplazione era tanto la concentrazione sulle profondità di un particolare soggetto nel tentativo di comprenderlo da ogni punto di vista, quanto l'arresto del pensiero al fine di mantenerlo sul soggetto. L'arresto e l'approfondimento nella contemplazione spirituale, perciò, non servono a incoraggiare l'intelletto contemplante ad avanzare e a passare a livelli superiori, ma prima di tutto a valutare al massimo la situazione data; solo dopo avervi indugiato per un periodo protratto l'intelletto passa a un gradino più alto. Questa, dunque, è la contemplazione mediante l'intelletto, i cui oggetti non sono immagini né visioni, bensì cose non sensoriali come le parole, i nomi o i pensieri. Nella storia della Cabala, questa contemplazione fu preceduta da una diversa: la visione contemplativa della Merkabah, che gli antichi mistici della Merkabah del periodo tannaitico e amoraitico si sforzavano di conseguire, e che era descritto in Heikhalot Rabbati della letteratura dei heikhalot. Qui ci si riferisce a una vera e propria visione del mondo del carro, che si rivela agli occhi del visionario. Perciò il termine histakkelut viene qui usato nel senso esatto del termine latino contemplatio o del greco theoria. La contemplazione dei mistici della Merkabah, nel primo periodo del misticismo ebraico, forniva secondo loro la chiave di una corretta comprensione degli esseri celesti nel carro celeste. Tale contemplazione poteva inoltre venire conseguita mediante stadi preparatori che addestravano coloro che "discendono alla Merkabah per afferrare la visione e passare da una cosa all altra senza esser messi in pericolo dall'audacia del loro assalto al mondo superiore. Anche a questo stadio, la visione della Merkahah è legata all'immunizzazione dei sensi del mistico contro l assorbimento di impressioni esterne e alla concentrazione attraverso una visione interiore. Nella Cabala, la concezione delle dieci Sefirot, che rivelano l'azione del Divino e comprendono il mondo dell'emanazione, venne sovrapposta al mondo della Merkabah. Questa contemplazione delle cose divine non finisce, secondo la Cabala, dove finiva la visione dei mistici della Merkabah, ma può ascendere ad altezze maggiori, che non sono più gli oggetti di immagini e di visione. La concentrazione sul mondo dei Sefirot non è legata alle visioni, ma è soltanto materia per l intelletto preparato ad ascendere di livello in livello e a meditare sulle qualità uniche di ogni livello. Se la meditazione attiva dapprima la facoltà dell'immaginazione, continua attivando la facoltà dell'intelletto. Le stesse Sefirot sono concepite come luci intellettuali che possono essere percepite solo mediante la meditazione. I cabalisti spagnoli del XIII secolo conoscevano due tipi di meditazione: una che produce visioni simili per tipo se non nei dettagli alle visioni dei mistici della Merkabah, ed una che porta alla comunione della mente meditante con le sue fonti più alte nello stesso mondo dell'emanazione. Moses b. Shem Tov de Leon descriveva in uno dei suoi libri come un'intuizione della terza Sefirah (Binah) lampeggia nella mente tramite la meditazione. Egli la paragona alla luce che balena quando i raggi del sole giocano sulla superficie di una ciotola d'acqua (MGWJ, 1927, 119). Le istruzioni sui metodi da impiegare nella meditazione formano parte degli insegnamenti occulti e segreti dei cabalisti che, a parte alcune regole generali, non venivano resi pubblici. I cabalisti di Gerona vi accennano a proposito della descrizione della mistica kauvanah nella preghiera, che è descritta come una meditazione concentrata su ogni parola della preghiera al fine di aprire una via verso le luci interiori che illuminano ciascuna di queste parole. La preghiera, secondo questa idea della meditazione, non è soltanto una recitazione di parole o una concentrazione sul contenuto delle parole secondo il loro significato semplice: è l'aderenza della mente dell'uomo alle luci spirituali e l'avanzamento della mente in tali mondi. L'adoratore usa le parole fisse della preghiera come un mancorrente, durante la meditazione, al quale egli si afferra sulla strada dell'ascesa, in modo da non confondersi o distrarsi. Tale meditazione porta all'unione del pensiero umano con il pensiero divino o alla volontà divina, un attaccamento che giunge alla fine o è "negato''. L'ora della preghiera è, più di ogni altro momento, adatta alla meditazione. Azriel di Gerona diceva: "Il pensiero si espande e ascende alla sua origine, così che quando la raggiunge, ha fine e non può ascendere oltre... perciò gli uomini pii dell'antichità innalzavano il loro pensiero alla sua origine mentre pronunciavano i precetti e le parole della preghiera. Quale risultato di questa procedura e dello stato di adesione (deuekut) raggiunto dal loro pensiero. Le loro parole diventavano benedette e moltiplicate, piene di influsso [divino] dallo stadio chiamato 'il nulla del pensiero', come le acque di una vasca scorrono in ogni direzione quando un uomo le libera" (Perush ha-Aggadot, 1943, 39-40). In questa meditazione, che progredisce da uno stadio all'altro, vi era anche un certo elemento magico, come si può dedurre chiaramente dalla descrizione dettagliata in un altro testo di Azriel chiamato Sha'ar ha-Kauuanah la-Mekubbalim ha Kishonim. L'elemento magico, tuttavia, era celato, oppure completamente avvolto nel silenzio. Un'elaborazione dettagliata della dottrina della meditazione si trova particolarmente negli insegnamenti di Abraham Abulafia. Tutto il suo Hokhmat ha-Zeruf (scienza della combinazione; vedasi p. 61) era ideato, secondo la sua concezione, allo scopo di insegnare un approccio durevole e sicuro alla meditazione. Consiste principalmente di istruzioni relative alla meditazione sui Sacri Nomi di Dio e, in un senso più ampio, alla meditazione sui misteri dell'alfabeto ebraico. Questa meditazione, che non dipende dalla preghiera, era descritta nei suoi manuali più importanti come un'attività separata della mente, alla quale l'uomo si dedica nell'isolamento a determinate ore e con la guida regolare di un insegnante iniziato. Anche qui, il punto di partenza è la mortificazione dell'attività dei sensi e la cancellazione delle immagini naturali che si attaccano all'anima. La meditazione sulle lettere e sui nomi sacri genera nell'anima pure forme spirituali e di conseguenza l'uomo può comprendere le verità più alte. In certi stadi di questa meditazione, appaiono vere e proprie visioni, come quelle descritte nell'opera Hayyei ha-Olam ha-Ba, per esempio: ma sono soltanto stadi intermedi sulla strada che porta alla pura contemplazione della mente. Abulafia nega fin dall'inizio l'elemento magico che veniva originariamente attribuito a questa meditazione. La differenza tra la dottrina della meditazione cristiana e quella cabalistica sta nel fatto che nel misticismo cristiano viene dato al meditatore un soggetto pittorico e completo, come le sofferenze di Cristo e tutto ciò che vi è di attinente. mentre nella Cabala il soggetto dato è astratto e non può essere visualizzato, come ad esempio il Tetragrammaton e le sue combinazioni. L'istruzione nei metodi della meditazione era sparsa nelle opere dei primi cabalisti, e questi metodi si continuano a trovare dopo l'espulsione dalla Spagna tra numerosi cabalisti influenzati da Abulafia. Un discepolo anonimo di Abulafia ha lasciato (in Sha'arei Zedek, scritto nel 1295) un'impressionante descrizione delle sue esperienze nello studio di questa meditazione. Le opere Berit Menuhah (XIV secolo) e Sullam ha-Aliyyah di Judah Alhotini, uno degli esuli dalla Spagna che si stabilirono a Gerusalemme, furono scritte anch'esse nello stesso spirito. Il libro di testo più dettagliato sulla meditazione del mistero delle Sefirot è Even ha-Shoham di Joseph ibn Sayyahdi Damasco, scritto a Gerusalemme nel 1538 (manoscritto nella Biblioteca Nazionale e Universitaria, Gerusalemme; vedasi G. Scholem, Kitvei Yad be-Kabbalah (1930), 90-91). T cabalisti di Safed prestavano molta attenzione alla meditazione, come è evidente da Sefer Haredim (Venezia,1601) di Eliezer Azikri, dal capitolo 30 di Pardes Rimmonim di Moses Cordovero (Cracovia, 1592); e Sha'arei Kedu.shah di Hayyim Vital, parte 3, capitoli 5-8, espone la sua dottrina al riguardo. Qui l'aspetto magico legato alla meditazione viene sottolineato ancora una volta, sebbene l'autore lo spieghi in senso ristretto. Gli ultimi passi nell'ascesa della mente meditante che cerca di attrarre sulla terra l'influsso delle luci superne richiede attività meditative di carattere magico, che sono conosciute come Yihudim ("Unificazioni"). L'importanza pratica di queste dottrine, la cui influenza è riconoscibile in tutta la tarda letteratura cabalistica, non deve essere sottovalutata. Le dottrine dell'adesione (devekut) e della meditazione nel Hasidismo del XVIII secolo sono anch'esse decisamente basate sulla forma data loro a Safed. Questa dottrina non fu esposta nella sua interezza negli scritti dei discepoli di Isaac Luria, e la sua parte principale venne conservata oralmente. Nella yeshivah cabalistica di Gerusalemme, Bet El, la guida pratica alla meditazione fu trasmessa oralmente per circa duecento anni e gli iniziati di questa forma di Cabala rifiutavano di rendere di dominio pubblico i dettagli della loro pratica. 16 IL MISTICISMO DELLA MERKABAH Il misticismo della Merkabah, o ma'aseh merkavah, era il nome dato nella Mishnah Hagigah 2 :1, al primo capitolo di Ezechiele. Il termine era usato dai rabbini per designare il complesso di speculazioni, omelie e visioni connesse al Trono di Gloria e al carro (merkavah) che lo porta, e a tutto ciò che è incluso in questo mondo divino. Il termine, che non appare in Ezechiele, è derivato da I Cronache 28:18 e si trova per la prima volta con il significato di misticismo della Merkabah alla fine di Ecclesiastico 49:8: "Ezechiele vide una visione e descrisse i diversi differenti ordini del carro". L'espressione ebraica zarlei merkavah dovrebbe essere interpretata come le diverse viste della visione del carro in Ezechiele, capitoli 1,8 e 10 o come le diverse parti del carro, che più tardi furono chiamate "le camere del carro" (hadrei merkavah). È stato suggerito che il testo dovesse venire corretto in razei merkavah ("segreti del carro"). Il carro divino affascinò anche la setta di Qumran; un frammento parla degli angeli che lodano "lo schema del Trono del carro". Nei circoli farisaici e tannatici il misticismo della Merkabah divenne una tradizione esoterica di cui frammenti diversi erano sparsi nel Talmud e nel Midrash, interpretando Hagigah 2:1. Era uno studio alonato da una particolare santità e da un particolare periodo. Una baraita in Hagigah 13a, attribuita al I secolo dell'Era Comune, narra la-storia di "Un bambino che stava leggendo in casa del suo maestro il libro di Ezechiele e apprese che cosa era Hashmal (vedasi Ezech. 1:27, JPS, "elettro"), quando un fuoco scaturì da Hashmal e lo consumò". Perciò i rabbini cercavano di nascondere il Libro di Ezechiele, cioè di ritirarlo dalla circolazione generale o dal canone biblico. Vi sono molte tradizioni riguardanti, a questo proposito, Johanan b.Zakkai, e più tardi Akiva. Nel complesso, i dettagli sul comportamento dei rabbini nello studio della Merkabah si trovano nella Hagigah 2 del Talmud palestinese e nella Hagigah f. 12-15 e Shabbat 80b del Talmud babilonese. Secondo il manoscritto di quest'ultima fonte la proibizione di tenere lezioni a un gruppo non venne sempre osservata e la tradizione aggiunge che un trasgressore, un galileo recatosi in Babilonia, fu per questo punito e morì. Nel Talmud babilonese, Sukkah 28a, il misticismo della Merkabah era proposto come un tema principale (dauar gadol), in contrasto con il tema relativamente minore della casuistica rabbinica. Tradizioni di questo si trovano, per esempio in Berakhot 7a, Hullin 91b, Megillah 24b. e all'inizio di Genesis Rabbah, Tanhuma, Midrash Tehillim, Midrash Rabbah a Levitico Cantico dei Cantici ed Ecclesiaste. Parecchie tradizioni sono conservate in Seder Eliyahu Rabbah e in piccoli trattati, come Auot de-Rabbi Nathan e Massekhet Derekh Erez. In contrasto con i frammenti sparsi di queste tradizioni in fonti esoteriche, libri e trattati che raccolgono e sviluppano il Ma'aseh Merkavah secondo le tendenze predominanti in diversi ambienti mistici furono scritti al più tardi a partire dal IV secolo. Molti dei trattati includono materiale antico, ma numerose aggiunte rispecchiano stadi più tardi. Re'uyyot Yehezkiel, di cui fu trovata la maggior parte nella Genizah del Cairo, presenta personaggi storici, e il contesto è quello di un Midrash del IV secolo. Brani di un Midrash del II o III secolo sul Ma'aseh Merkavah furono trovati in pagine di frammenti della Genizah (manoscritto Sassoon 522, Cat. Ohel Dawid, p. 48). Queste fonti non mostrano ancora alcun segno della pseudoepigrafia prevalente in gran parte delle fonti superstiti, qui la maggioranza è formalizzata, e parecchie affermazioni sono attribuite ad Akiva o Tshmael. Parecchi di questi testi sono scritti in aramaico, ma in maggioranza sono in ebraico, nello stile usato dai rabbini. Molto materiale di questo tipo è stato pubblicato (quasi sempre da manoscritti) in raccolte di Midrashim minori, come Beit ha-Midrash di A. Jellinek (1853-78), Battei Midrashot di S.A. Wertheimer, Sefer ha-Likkutim di E. Gruenhut (18981904), e Beit Eked ha-Aggadot di H. M. Horowitz (1881-84). Merkauah Shelemah (1921) include materiale importante tratto dalla collezione di manoscritti di Solomon Musajoff. Alcuni dei testi inclusi in queste antologie sono identici, e molti sono corrotti. I più importanti sono: 1) Heikhalot Zutrati ("Heikhalot minori") o Heikhalot R. Akiua, di cui sono stati pubblicati frammenti, molto spesso senza che si riconoscesse l'appartenenza al testo. È in un aramaico molto difficile, e una parte è inclusa in Merkavah Shelemah come "Tefillat Keter Nora". 2) Heikhalot Rabbati ("Heikhalot maggiori", in Battei Midrashot, 1 (1950'), 135-63), cioè i Heikhalot di Rabbi Ishmael, in ebraico. Nelle fonti medievali e negli antichi manoscritti i due libri vengono talora chiamati Hilkhot Heikhalot La divisione di Heikhalot Rabbati in halakhot ("leggi") è tuttora mantenuta in parecchi manoscritti, molti dei quali sono suddivisi in 30 capitoli. I capitoli 27-30 includono uno speciale trattato che si trova in parecchi manoscritti con il titolo Sar Torah, composto molto più tardi della parte principale dell'opera. Nel Medioevo il libro era generalmente conosciuto come Pirkei Heikhalot. L'edizione pubblicata da Wertheimer include aggiunte più tarde, alcune delle quali sono shabbatee. La versione di Jellinek (in Beit ha-Midrash, 3, 1938) è libera da aggiunte, ma risente di molte corruzioni. Il testo relativamente migliore sembra essere quello del manoscritto Kaufmann 238 n.6 (Budapest). 3) Merkavah Rabbah, di cui una parte si trova in Merkavah Shelemah, attribuito quasi tutto a Ishmael e in parte ad Akiva. Forse quest'opera conteneva la redazione più antica di Shi'ur Komah ("la misura del corpo di Dio"), che più tardi venne copiato in manoscritti come un'opera separata che si sviluppò nel Sefer ha-Komah, molto popolare nel Medioevo (vedasi G. Scholem, Jewish Gnosticism... (1965), 36-42). 4) Una versione di Heikhalot, che non ha titolo e che nel Medioevo venne chiamata Ma'aseh Merkavah (G. Scholem, ibid. 103-17). Qui si alternano affermazioni di Ishmael e Akiva. 5) Un altro trattato elaborato sul modello di Heikhalot Rabbati, ma con dettagli nuovi, differenti e in parte sconosciuti; sono stati pubblicati frammenti scoperti nella Genizah del Cairo, da I. Greenwald, Tarbiz, 38 (1969), 354-72 (addizioni, ibid., 39 (1970), 216-7). 6) Heikhalot, pubblicato da Jellinek (in Beitha-Midrash, vol. 1988), e più tardi come III Enoch or the Hebrew Book of Enoch (trad. e cura di H. Odeberg, 1928). Purtroppo Odeberg scelse un testo tardo e molto corrotto come base del suo libro, che intendeva realizzare come edizione critica. L'opera, in cui chi parla è R. Ishmael, è prevalentemente formata da rivelazioni su Enoch, che divenne l'angelo Metatron, e sulla schiera degli angeli celesti. Questo libro rappresenta una tendenza molto diversa da quelle in Heikhalot Rabbati e Heikhalot Zutrati. 7) Il trattato Heikhalot o Ma'aseh Merkavah in Battei Midrashot (1 (19502), 51-62) è una elaborazione relativamente tarda, in sette capitoli, delle descrizioni del trono e del carro. Nelle ultime tre opere venne operato volutamente un adattamento letterario per sradicare gli elementi magici, comuni a tutte le altre fonti elencate più sopra. Apparentemente erano destinati a venire letti più per edificazione che per uso pratico da coloro che "si occupavano della Merkabah". 8) Il Tosefta al Targum del primo capitolo di Ezechiele (Battei Midrashot, 2 (19532), 135-40) appartiene anch'esso a questa letteratura. Un miscuglio di materiale sul carro e la creazione si trova in parecchie fonti addizionali, soprattutto in Baraita de-Ma'aseh Bereshit e in Otiyyot de Rabbi Akiva, che appaiono entrambi in numerose versioni. Il Seder Rabbah de-Bereshit fu pubblicato in Battei Midrashot (1 (19502), 3-48) e in un'altra versione da N. Séd, con una traduzione francese (in REJ, 3-4 (1964), 23123, 259-305). Qui la dottrina della Merkabah è connessa alla cosmologia e alla dottrina dei sette cieli e degli abissi. Il legame è osservabile anche in Otiyyot de-Rabbi Akiva, ma solo la versione più lunga contiene le tradizioni sulla creazione e il misticismo della Merkabah. Entrambe le versioni pervenute fino a noi, con un importante supplemento intitolato Midrash Alfa-Betot, furono pubblicate in Battei Midrashot (2 (19532), 333-465). Mordecai Margaliot scoprì sezioni addizionali piuttosto lunghe di Midrash Alfa-Betot in diversi manoscritti inediti. Anche queste opere erano ordinate più a scopo di speculazione e di lettura che per uso pratico da parte dei mistici. La dottrina dei sette cieli e delle loro schiere angeliche, come venne sviluppata nel misticismo della Merkabah e nella relativa cosmologia, ha anche definiti contesti magici, che sono elaborati nella versione completa di Sefer ha-Razim (a cura di R. Margalioth, 1967), la cui data è ancora oggetto di controversie. Nel II secolo gli ebrei convertiti al Cristianesimo trasmisero chiaramente agli gnostici cristiani diversi aspetti del misticismo della Merkabah. Nella letteratura gnostica vi furono molte corruzioni di tali elementi, tuttavia il carattere ebraico di questo materiale è ancora evidente, specialmente tra gli ofiti. nella scuola di Valentino, e in parecchi testi gnostici e copti scoperti durante gli ultimi cinquant'anni. Nel Medioevo il termine Ma'aseh Merkabah fu usato tanto da filosofi quanto da cabalisti per designare il contenuto dei loro insegnamenti, ma con significati completamente diversi: metafisica per i primi e misticismo per i secondi. 17 METATRON L angelo Metatron (o Matatron) ebbe una speciale posizione nella dottrina esoterica dal periodo tannaitico in poi. L'angelologia della letteratura apocalittica menziona un gruppo di angeli che vedono il volto del loro re e sono chiamati "Principi del Volto" (Libro di Enoch etiopico, cap. 40, et al.). Quando la personalità di Metatron assume una forma più definita nella letteratura, viene chiamato semplicemente "il Principe del Volto". Nel Talmud babilonese Metatron viene menzionato solo in tre punti (Hag. 15a; Sahn. 38b; e Av. Zar.3b). I due primi riferimenti sono importanti data la loro connessione con le polemiche condotte contro gli eretici. In Hagigah è detto che il tanna Elisha b. Avuyah vide Metatron seduto e disse: "forse vi sono due poteri", quasi indicando lo stesso Metatron come una seconda divinità. Il Talmud spiega che a Metatron era concesso di sedere solo perché era lo scriba celeste che registrava le buone azioni di Israele. A parte questo, afferma il Talmud, venne dimostrato a Elisha che Metatron non poteva essere una seconda divinità con il fatto che Metatron ricevette 60 "colpi con verghe infocate" per provare che non era un dio, bensì un angelo, e poteva essere punito. Questa immagine ricorre frequentemente in contesti diversi nella letteratura gnostica ed è associata a vari personaggi del regno celeste. Si ritiene tuttavia che l'apparizione di Metatron a Elisha b. Avuyah lo condusse a credere nel dualismo. Anche l'episodio in Sanhedrin conferisce a Metatron una posizione sovrannaturale. Egli è l'angelo del Signore menzionato in Esodo 23:21, di cui è detto: "...e ascolta la sua voce; non ribellarti contro di lui... perché in lui è il Mio nome". Quando uno degli eretici chiese a R. Idi perché è scritto in Esodo 24:1: "E a Mosè Egli disse 'Vieni al Signore' anziché 'Vieni a Me'", l'amora rispose che il versetto si riferiva a Metatrori "il cui nome è come quello del suo Padrone". Quando l'eretico ribattè che, in tal caso, Metatron doveva essere adorato come una divinità, R. Idi spiegò che il versetto "non ribellarti contro di lui" doveva essere inteso "non scambiare Me per lui". R. Idi aggiunse che Metatron non doveva essere accettato in questo senso neppure nella sua qualità di messaggero celeste. Alla base di queste dispute vi è il timore che queste speculazioni su Metatron potessero condurre su un terreno pericoloso. Il karaita Kirkisani lesse nel suo testo del Talmud una versione ancora più estremista: "Questo è Metatron. che è il YHWH minore". È molto probabile che questa versione venisse deliberatamente eliminata dai manoscritti. L'epiteto "YHWH minore" è senza dubbio sconcertante, e non è sorprendente che i karaiti trovassero ampi motivi per attaccare i rabbaniti per la sua frequente apparizione nella letteratura da loro ereditata. I karaiti lo consideravano un .segno di eresia e di deviazione dal monoteismo. L'uso di questo epiteto era quasi sicuramente corrente prima che la figura di Metatron si cristallizzasse. Le spiegazioni dell'epiteto date nelle ultime fasi della letteratura dei Heikhalot (Libro di Enoch ebraico, cap. 12) sono tutt'altro che soddisfacenti. ed è ovvio che si tratta di tentativi di chiarire una tradizione precedente a quei tempi non più rettamente intesa. La tradizione era connessa con l'angelo Jahoel, menzionato nell'Apocalisse di Abramo (inizio del II secolo) dove è detto (cap. 10) che il Nome Divino (Tetragramma) della Divinità si trova in lui. Tutti gli attributi qui riferiti a Jahoel furono in seguito trasferiti a Metatron. Di Jahoel si può dire, senza spiegazioni forzate, che il suo nome è come quello del suo Padrone, il nome, Jahoel contiene le lettere del Nome Divino, e ciò significa quindi che Jahoel possiede un potere superiore a quello di tutti gli altri esseri a lui simili. Apparentemente, la designazione "YHWH minore", o "il Signore minore", fu applicata inizialmente a Jahoel. Prima ancora che Jahoel venisse identificato con Metatron. designazioni come "il Jaho maggiore'' e ''il Jaho minore" passarono agli gnostici, e sono menzionate in vari contesti nella letteratura gnostica, copta e anche mandeana, in cui Metatron non è mai nominato. Il nome Yorba in mandeano significa infatti "il Jaho maggiore", ma gli è stata assegnata una posizione inferiore come è caratteristico di questa letteratura nel suo trattamento dei concetti tradizionali ebraici. Nella figura di Metatron si sono fuse due tradizioni diverse. Una si riferisce a un angelo celeste che fu creato con la creazione del mondo, o addirittura prima, e lo rende responsabile dei compiti più elevati nel regno celeste. Questa tradizione continuò a restare valida anche dopo che Jahoel venne identificato con Metatron. Secondo questa tradizione, la nuova figura assunse molti dei doveri specifici dell'angelo Michael, un'idea conservata in certe sezioni della letteratura dei Heikhalot fino alla Cabala inclusa, nella cui letteratura il Metatron primordiale viene talora chiamato Metatron Rabba. Una tradizione diversa associa Metatron a Enoch che "camminò con Dio" (Gen. 5:22) e che ascese al cielo e fu trasmutato, da essere umano, in angelo e inoltre divenne il grande scriba che registra le azioni degli uomini. Questo ruolo era già delegato a Enoch nel Libro dei Giubilei (4:23). La sua trasmutazione e l'ascesa al cielo erano discusse dagli ambienti che seguivano questa tradizione e la elaholavano. L'associazione con Enoch si può vedere particolarmente nel libro dei Heikhalot chiamato talora anche Libro di Enoch. di R. Ishmael Kohen ha-Gadol, o Libro di Enoch ebraico (l'edizione di H. Odeberg (vedasi bibliografia) include una traduzione inglese e un'introduzione dettagliata). L'autore collega le due tradizioni e cerca di riconciliarle. ma è chiaro che i capitoli 9-1 alludono al Metatron primordiale come la rilevare Odeberg. L'assenza della seconda tradizione nel Talmud e nei Midrashim più importanti è evidentemente connessa alla riluttanza, da parte dei talmudisti a vedere Enoch in una luce favorevole in generale, e in particolare la sua ascesa al cielo. una riluttanza che ha ancora rilievo nel Midrash Genesi Rabbah. Il Targum palestinese (Gen. 5:24) e altri Midrashim hanno conservato allusioni a Metatron in questa tradizione. Anziché nel suo ruolo di scriba celeste. talvolta appare come celeste avvocato che difende Israele nel tribunale celeste. Questa trasposizione delle sue funzioni è molto caratteristica (Lam. R. 24; Tanh. Va-Ethannan; Num. R. 12, 15). Numerosi detti dei saggi. particolarmente in Sifrei, porzione Ha'azinu, 338, e Gen. R. , 5, 2, furono spiegati da commentatori medievali in riferimento a Metatron, in base a una lettura corrotta "Metatron" anziché "metator" ("guida"). In certi luoghi della letteratura della Merkabah, Metatron scompare completamente ed è menzionato solo negli addenda che non fanno parte dell'esposizione originale, come in Heikhalot Rabbati. Le descrizioni della gerarchia celeste in Massekhet Heikhalot e Sefer ha-Razim non fanno egualmente menzione di Metatron. D'altra parte, Metatron è un personaggio cospicuo nel Libro delle visioni di Ezechiele (IV secolo), sebbene vi sia menzionato senza alcun riferimento alla tradizione di Enoch. Questa fonte riporta numerosi altri nomi segreti di Metatron. di cui appaiono elenchi, più tardi, in commenti speciali, o in aggiunta al Libro di Enoch ebraico (cap. 48). Spiegazioni di questi nomi secondo la tradizione dei Hasidei Ashkenaz sono date nel libro Beit Din di Abrabam Hammawi (1858), 196 segg., e in un'altra versione nel Sefer ha-Heshek (1865). Secondo le tradizioni di certi mistici della Merkabah, Metatron prende il posto di Michael come il sommo sacerdote che presta servizio nel Tempio celeste, come è sottolineato particolarmente nella seconda parte di Shi'ur Komah (in Merkabah Shelemah (1921), 39 segg.). Si possono così rilevare diversi aspetti delle funzioni di Metatron. In un punto viene descritto mentre presta servizio davanti al trono celeste e provvede alle sue esigenze, mentre in un altro appare come il servitore (na'ar, "giovane, garzone") nel suo speciale tabernacolo o nel Tempio celeste. (Il titolo na'ar nel senso di servitore è basato sull'uso biblico.) Nel periodo amoraico. il dovere del "principe del mondo", prima appartenuto a Michael, venne trasferito a lui (Yevamot 16b). Questa concezione del ruolo di Metatron quale principe del mondo fin dalla sua creazione contraddice il concetto di Metatron come Enoch" che fu portato in cielo solo dopo la creazione del mondo. Viene già osservato in Shi'ur Komah che il nome Metatron ha due forme, "scritto con sei lettere e con sette lettere". La ragione originaria di questa distinzione non è nota. Nei manoscritti più antichi il nome è scritto quasi sempre con la lettera yod. I cabalisti consideravano le forme diverse come indicanti due prototipi per Metatron. Essi reintrodussero la distinzione tra le varie componenti che si erano combinate nel Libro di Enoch ebraico in loro possesso. Identificavano il Metatron dal nome di sette lettere con la suprema emanazione dalla Shekhinah, da allora dimorante nel mondo celeste, mentre Metatron dal nome di sei lettere era Enoch, che ascese più tardi al cielo e che possedeva solo in parte il potere e lo splendore del Metatron primordiale. Questa distinzione è già alla base della spiegazione data da R. Abraham b. David in Berakhot (vedasi G. Scholem, Reshit ha-Kabballah (1948), 74-77). L'origine del nome Metatron è oscura, ed è dubbio che sia possibile darne una spiegazione etimologica. Può darsi che il nome dovesse restare segreto e che non abbia un vero significato. e forse derivi da meditazioni subconsce, o sia il risultato della glossolalia. A sostegno di quest'ultima supposizione vi è un certo numero di simili esempi di nomi con il suffisso on: Sandalfon, Adiriron eccetera, mentre il raddoppiamento della lettera t è caratteristico dei nomi che si trovano nella letteratura della Merkabah, ad esempio in un'aggiunta a Heikhalot Rabbati, 26:8. Tra le numerose derivazioni etimologiche proposte (vedasi Odeberg. 125-42), tre meritano di essere ricordate: da matara colui che veglia; da metator, guida o messaggero (menzionato in Sefer ha-Arukh e negli scritti di molti cabalisti); dalla combinazione delle due parole greche meta e thronos, Gome metathronios, nel senso di "colui che serve dietro il trono". Tuttavia, il dovere di servire il trono celeste fu associato a Metatron solo in una fase più tarda, e non si armonizza con le tradizioni precedenti. È molto dubbio che "l'angelo del Volto", il quale compare "per esaltare e ornare il trono in modo confacente", menzionato in Heikhallot Rabbati (cap.12) possa essere Metatron, che non viene nominato in questo contesto. La parola greca thronos non appare nella letteratura talmudica. L'origine del nome, quindi, resta sconosciuta. In contrasto con la lunga descrizione di Metatron che si trova ne Libro di Enoch ebraico, nella letteratura successiva il materiale che si riferisce a lui è disperso, mentre non vi è quasi una mansione nel regno celeste e nel dominio di un angelo tra gli altri angeli che non sia associata a Metatron. Questo vale particolarmente per la letteratura cabalistica (Odeberg, 111-25). Ampio materiale tratto dallo Zohar e dalla letteratura cabalistica è stato raccolto da R. Margalioth nella sua opera angelologica Malakhei Elyon (1945, 73-108). In libri che trattano la Cabala pratica non vi sono quasi incantesimi di Metatron, benché il suo nome sia menzionato frequentemente in altri incantesimi. Solo l'emissario shabbateo Nehemiah Hayon, a quanto si riferisce. si sarebbe vantato di aver evocato Metatron (REJ 36 (1898), 274). 18 LA PROVVIDENZA La questione della divina provvidenza non appare quasi mai nella Cabala come problema separato, e quindi ad essa furono dedicate poche discussioni dettagliate e specifiche. Nella Cabala, l'idea della provvidenza è identificata con l'assunto che esista un sistema ordinato e continuo di governo del cosmo, espletato dalle Potenze Divine - le Sefirot - che si rivelano in tale governo. La Cabala non fa altro che spiegare il modo in cui opera questo sistema, mentre la sua esistenza non è mai discussa. Il mondo non è governato dal caso, ma dall'incessante divina provvidenza, che è il significato segreto dell'ordine occulto di tutti i piani della creazione, e specialmente del mondo dell'uomo. Colui che comprende il modo d'azione delle Sefirot comprende anche i principi della divina provvidenza che si manifestano mediante tale azione. L'idea della divina provvidenza è intessuta in modo misterioso con la limitazione dell'area d'azione della causalità nel mondo. Infatti, sebbene quasi tutti gli eventi che accadono agli esseri viventi, e soprattutto agli uomini, sembrino accadere in un modo naturale, che è quello della causa e dell'effetto, in realtà gli eventi stessi contengono manifestazioni individuali della divina provvidenza, che è responsabile di tutto ciò che accade all'uomo, fino all'ultimo dettaglio. In questo senso, il dominio della divina provvidenza è, secondo l'opinione di Nahmanides, una delle "meraviglie occulte" della creazione. Le attività della natura ("Io vi darò le piogge nella loro stagione", Lev. 26:4 e simili) sono coordinate in modi occulti con la causalità morale determinata dal bene e dal male nelle azioni degli uomini. Nelle loro discussioni della divina provvidenza, i primi cabalisti ponevano in risalto l'attività della decima Sehrah, poiché il governo del mondo inferiore e precipuamente nelle sue mani. Questa Sefirah è la Shekhinah, la presenza del potere divino nel mondo in ogni tempo. È la presenza responsabile della provvidenza di Dio per le Sue creature; ma secondo alcune opinioni l origine della divina provvidenza è invece nelle Sefirot superiori. A questa idea viene data espressione simbolica, particolarmente nello Zohar, nella descrizione degli occhi dell'immagine di Adam Kadmon ("Uomo primordiale"). nelle sue due manifestazioni, come Arikh Anpin (letteralmente "il Volto Lungo", nel senso di "Longanime") o Attikah Kaddishah ("il Santo Antico") e come Ze'eir Anpin ("il Volto Corto", inteso come "Impaziente"). Nella descrizione degli organi della testa di Attikah Kaddishah. l'occhio che è sempre aperto viene preso come simbolo superno dell'esistenza della divina provvidenza, la cui origine è nella prima Sefirah. Questa provvidenza superiore consiste esclusivamente di misericordia, senza interferenza del giudizio severo. Solo nella seconda manifestazione, cioè quella di Dio nell'immagine dello Ze'eir Anpin, nella divina provvidenza si trova anche la funzione del giudizio. Perché "...gli occhi del Signore... spaziano su tutta la terra" (Zech. 4:10), e portano la sua provvidenza in ogni luogo, sia per il giudizio che per la misericordia. L'immagine pittorica "l'occhio della provvidenza" è qui intesa come un'espressione simbolica, che suggerisce un certo elemento nello stesso ordine divino. L'autore dello Zohar confuta coloro che negano la divina provvidenza e le sostituiscono il caso quale causa importante negli eventi del cosmo. Li considera sciocchi, indegni di contemplare la saggezza della divina provvidenza, che si abbassano al livello degli animali (Zohar 3:157b). L'autore dello Zohar fa distinzioni tra la provvidenza generale (di tutte le creature) e la provvidenza individuale (di esseri umani individuali). Quest'ultima, naturalmente, per lui è più importante. Tramite l'attività della divina provvidenza, abbondanti benedizioni discendono sulle creature; ma il risveglio del potere della provvidenza dipende dalle azioni degli esseri creati, dal "risveglio dal basso". Un esame dettagliato della questione della provvidenza viene fatto da Moses Cordovero in Shi'ur Kornah ("Misura del Corpo"). Anch'egli concorda con i filosofi e riconosce che la provvidenza individuale esiste solo in relazione all'uomo, mentre in relazione al resto del mondo creato la provvidenza è diretta solo verso le essenze generiche. Tuttavia, egli amplia la categoria della provvidenza individuale e stabilisce che "la divina provvidenza vale per le creature inferiori, anche per gli animali, per il loro benessere e la loro morte, e ciò non già per amore degli animali stessi, bensì per amore degli uomini"; vale a dire, nella misura in cui le vite degli animali sono legate alle vite degli uomini, la provvidenza individuale vale anche per essi. "La provvidenza individuale non vale per un dato bue o un dato agnello, ma per l'intera specie... ma se la divina provvidenza si riferisce a un uomo, abbraccia anche la sua brocca, se si rompe, e il suo piatto, se si incrina1 e tutti i suoi averi... se egli deve essere punito o no" (p. 113). Cordovero distingue dieci tipi di provvidenza, dai quali è possibile capire i vari modi d'azione della provvidenza individuale tra i gentili e Israele. Questi modi d'azione sono legati ai vari ruoli delle Sefirot e ai loro canali, che portano l'abbondanza (delle benedizioni) a tutti i mondi, secondo lo speciale risveglio delle creature inferiori. Egli include due tipi di provvidenza che indicano la possibilità della limitazione della divina provvidenza in certi casi, o addirittura la sua completa negazione. Inoltre, secondo la sua opinione, a un uomo possono accadere cose senza la guida della provvidenza e può avvenire persino che i peccati di un uomo facciano sì che egli venga abbandonato "alla natura e al caso", che è l'aspetto di Dio che cela il suo volto all'uomo. Anzi è incerto, di momento in momento, se un particolare evento nella vita di un individuo sia di quest'ultimo tipo, o se sia un risultato della divina provvidenza. "Ed egli non può essere sicuro... perché chi gli dirà se è tra coloro di cui è detto: 'L'uomo giusto è sicuro come un leone'... forse Dio gli ha nascosto il Suo volto, a causa di qualche trasgressione, ed egli è abbandonato al caso" (p. 120). Solo nella Cabala shabbatea la divina provvidenza viene nuovamente vista come un serio problema. Tra i discepoli di Shabbetai Zevi venne tramandato il suo insegnamento orale che la Causa della Cause, dell'Ein-Sof ("l'infinito") "non influenza il mondo inferiore e non vi sovrintende, e fa sì che la Sefirah Keter sia posta in essere e sia Dio, e Tiferet sia Re" (vedasi Scholem, Sabbatai Sevi, p. 862). Questa negazione della provvidenza di Ein-Sof era considerata un profondo segreto tra i credenti, e lo shabbateo Abraham Cardozo, che era contrario a questa dottrina, scrisse che l'esaltazione della natura segreta di questo insegnamento deriva dalla conoscenza da parte degli shabbatei del fatto che questa era l'opinione del greco Epicuro. La "sottrazione" (netilah) della provvidenza ad Ein-Sof (che in questi circoli è designata anche con altri termini) si trova in parecchie scuole di pensiero shabbatee, come la Cabala di Baruchiah di Salonicco, in Va-Avo ha-Yom el ha-Ayin, che fu duramente attaccato per la preminenza che attribuiva a questa opinione, e in Shem Olam (Vienna 1891) di Jonathan Eybeschuetz. Quest'ultima opera dedicava parecchie pagine di casuistica a questo problema, al fine di provare che la provvidenza non ha origine nella Prima Causa, bensì nel Dio d'Israele, che è emanato da essa e che viene chiamato da Eybeschuetz "l'immagine delle dieci Sefirot". Questo assunto "eretico", secondo il quale la Prima Causa (o l'elemento più alto della Divinità) non guida affatto il mondo inferiore, fu tra le principali innovazioni della dottrina shabbatea che scatenarono le ire dei saggi di quel periodo. I cabalisti ortodossi videro in questo assunto la prova del fatto che gli shabbatei avevano abbandonato la fede nell'unità assoluta della Divinità, che non permette, in questioni relative alla divina provvidenza, una differenziazione tra l'emanante Ein-Sof e le emanate Sefirot. Sebbene 1'EinSof svolga l'attività della divina provvidenza tramite le Sefirot, è l'Ein-Sof l'autore di questa vera provvidenza. Ma negli insegnamenti degli shabbatei, questa qualità della Prima Causa dell'Ein-Sof è confusa o posta in dubbio. 19 SAMAEL A partire dal periodo amoraico, Samael è il principale nome di Satana nel Giudaismo. Il nome appare per la prima volta nel racconto della caduta degli angeli, nel Libro di Enoch ebraico 6, che lo include, benché non al posto più importante, nell'elenco dei capi degli angeli che si ribellano a Dio. Le versioni greche del testo ebraico perduto contengono le forme (Sammane) e (Semiel). Quest'ultima forma prende il posto del nome Samael nell'opera greca del padre della Chiesa Ireneo, quando parla della setta gnostica degli ofiti (si veda più sotto; a cura di Harvey, I, 236). Secondo Ireneo, gli ofiti davano al serpente due nomi, Michael e Samael, che nell'opera greca del padre della Chiesa Teodoreto appare come (Sammane). La versione greca di Enoch usata dal bizantino Sincello conservò la forma (Samiel). Questa mantiene ancora il significato originale derivato dalla parola sami, "cieco", un'etimologia che è rimasta in varie fonti ebraiche e non ebraiche fino al Medioevo. Oltre a Samiel, anche le forme Samael e Sammuel risalgono all'antichità. Questa terza versione è conservata nell'Apocalisse greca di Baruch 4:9 (del periodo tannaitico), dove si afferma che l'angelo Sammuel piantò la vite che causò la caduta di Adamo, e per questo Sammuel fu maledetto e divenne Satana. La stessa fonte riferisce nel capitolo 9, in un'antica versione della leggenda del rimpicciolimento della luna, che Samael assunse la forma di un serpente per tentare Adamo, un'idea che fu omessa nelle più tarde versioni talmudiche della leggenda. Nell'opera apocalittica "L'ascensione di Isaia", che contiene un miscuglio di elementi ebraici e protocristiani, i nomi Beliar (cioè Belial) e Samael ricorrono fianco a fianco come nomi o sinonimi di Satana. Ciò che viene narrato di Samael in un passo, in un altro viene detto a proposito di Beliar. Per esempio, Samael dominò il re Manasse e "lo abbracciò", assumendone così la forma (cap. 2). Nel capitolo 7, Samael e le sue forze, si dice, sono sotto il primo firmamento, una concezione che non concorda con la sua posizione di capo dei diavoli. Samael è nominato tra gli "angeli del giudizio" negli Oracoli Sibillini. 2:215. Nel periodo tannaitico e amoraico, Samael è menzionato come non allineato con la schiera della Merkabah. Attingendo alla tradizione ebraica. parecchie opere gnostiche chiamano Samael "il dio cieco", e lo identificano con Jaldabaoth, che occupava un posto importante nelle speculazioni gnostiche come uno dei capi o come l'unico capo delle forze del male. Questa tradizione fu apparentemente tramandata per mezzo degli ofiti ("gli adoratori del serpente"), una setta ebraica sincretista. Tradizioni parzialmente ecclesiastiche di questo periodo, come le versioni pseudoepigrafiche degli Atti di Andrea e Matteo 24. mantengono il nome Samael per Satana, riconoscendo la sua cecità. Egli è menzionato come il capo dei diavoli del magico Testamento di Salomone (Testamentum Salomonis) che è essenzialmente un superficiale adattamento cristiano di un testo demonologico ebraico di quel periodo'. Indubbiamente Simyael, "il demone della cecità" menzionato in opere mandeaneh è semplicemente una variante di Samael. Nella tradizione rabbinica il nome ricorre per la prima volta nelle affermazioni di Yose (forse b. Halafta, oppure l'amora Yose) che durante l'esodo dall'Egitto, "Michael e Samael stettero davanti alla Shekhinah", manifestamente come accusatore e difensore (Es. R. 18:5). Il loro compito è simile a quello di Samael e Gabriele nella storia di Tamar (Sot. 10b), nell'affermazione di Eleazar b. Pedat. Samael conserva il ruolo di accusatore nel racconto di Hama b. Hanina (c. 26n dell'Era Comune; Es. R. 21:7), che fu com'è noto il primo a identificare Samael con l'angelo custode di Esaù durante la lotta tra Giacobbe e l'angelo. Il suo nome, tuttavia. non appare in Genesis Rabbah (a cura di Theodor (1965), 912); ma egli è menzionato nella vecchia versione del Tanhuma, Va-Yishlah 8. Nella versione parallela. nella Rabbah del Cantico dei Cantici 3:6, l'amora fa dire da Giacobbe a Esaù: "il tuo volto è simile a quello del tuo angelo custode", secondo la versione di Mattanot Kehunnah (a cura di Theodor). Sorprendentemente, nella sezione del Midrash Yelammedenu su Esodo 14:25, Samael svolge una funzione positiva durante la divisione delle acque del Mar Rosso, spingendo indietro le ruote dei carri degli egizi. In gematria, Samael è l'equivalente numerico dalla parola ofan ("ruota", nel manoscritto del British Museum, 752, 136b; e nel Midrash Ha-Hefez ha-Teiman, che è citato in Torah Shelemah, 14 (1941) a questo versetto). La menzione di Samael quale angelo della morte ricorre per