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araini
Cerimonia di conferimento della Laurea honoris causa
Dacia Maraini
La vita, le opere
Dacia Maraini nasce a Fiesole il 13 novembre
del 1936.
La madre, Topazia, è pittrice e appartiene a
un’antica famiglia siciliana, gli Alliata di Salaparuta. Il padre, Fosco Maraini, per metà inglese e per metà fiorentino, è un etnologo
conosciuto che ha scritto diversi libri sul Tibet
e sul Giappone.
I primi anni
Anni Sessanta
Desideroso di lasciare l’Italia fascista, Fosco
Maraini partecipa ad un concorso internazionale
e vince una borsa di studio per uno studio sugli
Hainu nel nord del Giappone, dove andrà a vivere
con la sua famiglia, tra il 1938 e il 1947. Gli Hainu
sono una popolazione in via di estinzione stanziata
nell’Hokkaido. Dal 1943 al 1946, la famiglia
Maraini, insieme con altri italiani, è internata in
un campo di concentramento, per essersi rifiutata
di riconoscere ufficialmente il governo militare
giapponese. Questo governo, infatti, nel ‘43 aveva
fatto un patto di alleanza con l’Italia e la Germania
e chiese ai coniugi Maraini di firmare l’adesione
alla repubblica di Salò, cosa che appunto non
fecero.
Nella sua collezione di poesie “Mangiami pure”,
del 1978, la scrittrice racconta proprio delle atroci privazioni e sofferenze, provate in quegli anni,
fortunatamente interrotte dall’arrivo degli americani.
Rientrata in Italia, la famiglia Maraini si trasferisce
in Sicilia, presso i nonni materni, nella Villa di
Valguarnera di Bagheria, dove le tre figlie cominciano gli studi. La povertà è una costante di quegli
anni di difficile adattamento al nuovo ambiente.
Qualche anno dopo la famiglia si divide. Il padre
va ad abitare a Roma, la madre resta a Palermo
con le tre bambine che frequentano le scuole
della città. Quando Dacia Maraini compie i diciotto anni decide di andare a vivere a Roma con
il padre. Qui prosegue il liceo, si arrangia per
guadagnare, facendo lavori diversi: l’archivista, la
segretaria, la giornalista di fortuna.
A ventuno anni fonda, insieme con altri giovani,
una rivista letteraria, “Tempo di letteratura”, edita
da Pironti a Napoli e comincia a collaborare con
riviste quali “Paragone”, “Nuovi Argomenti”, “Il
Mondo”.
Nel corso degli anni Sessanta si sposa con
Lucio Pozzi, pittore milanese (dal quale si divide dopo quattro anni di vita in comune) e
pubblica i suoi primi romanzi. Nel 1962
presso l’editore Lerici: “La vacanza”. Nel 1963
“L’età del malessere” che ottiene il premio internazionale degli editori “Formentor”. Il terzo
romanzo “A memoria” del 1967 è pubblicato
da Bompiani. Per la Feltrinelli con il titolo
“Crudeltà all’aria aperta” pubblica nel 1966 le
sue poesie. Il libro viene recensito con molto
favore dallo scrittore Guido Piovene.
Nel corso di questi anni Dacia Maraini
comincia ad occuparsi anche di teatro
fondando, insieme ad altri scrittori, il Teatro
del Porcospino, in cui si rappresentano solo
novità italiane: Gadda, Moravia, Wilcock,
Siciliano, Maraini e Parise.
Lei stessa, dalla seconda metà degli anni Sessanta scriverà molti testi teatrali, tra i quali:
“Maria Stuarda”, che ottiene un grande successo internazionale (tradotto e rappresentato
in ventuno paesi e ancora si continua a rappresentare); “Dialogo di una prostituta con un
suo cliente”, pubblicato da Images di Padova,
(tradotto e rappresentato negli anni seguenti
prima a Bruxelles, poi a Parigi e quindi a Londra e ancora in quattordici paesi diversi);
“Stravaganza”; fino ai recenti “Veronica, meretrice e scrittora” e “Camille”.
A Roma incontra Alberto Moravia che nel
1962 lascia la moglie e scrittrice Elsa Morante,
per lei.
Nel 1968 esce un libro di racconti, “Mio
marito” edito da Bompiani, due anni dopo
Einaudi pubblica il suo libro di teatro “Ricatto a teatro e altre commedie’’.
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Anni Settanta - Ottanta
Anni Novanta
Anni Duemila
Nel 1973 fonda, assieme con Lù Leone, Francesca Pansa, Maricla Boggio e altre, il teatro
della Maddalena, gestito e diretto da donne. Il
teatro, infatti, è sempre per Dacia Maraini
anche un luogo per informare il pubblico riguardo a specifici problemi sociali e politici.
Nel 1972 viene pubblicato il romanzo “Memorie di una ladra”, dal quale Monica Vitti ne
ricava il film “Teresa la ladra” e nel 1975 esce
per Einaudi “Donna in guerra”, pubblicato in
sei lingue.Nel 1980 esce “Storia di Piera”
scritto in collaborazione con Piera Degli Esposti. Il libro avrà otto edizioni. Marco Ferreri ne
ricaverà un film con Marcello Mastroianni,
Hanna Shigulla e Isabelle Huppert.
Del 1984 è il romanzo “Il treno per Helsinki”,
edito da Einaudi. Il libro viene tradotto in
cinque lingue. Nel 1985 segue “lsolína” pubblicato da Mondadori (Premio Fregene 1985,
ripubblicato da Rizzoli nel 1992; tradotto in
cinque paesi).
Nel 1990 esce “La lunga vita di Marianna
Ucrìa” accolto molto positivamente dalla
critica e dal pubblico. Il libro riceve, il premio
Supercampiello. Pochi mesi dopo gli sarà
assegnato il premio “Libro dell’anno 1990”
(tradotto in diciotto paesi), da cui è stato tratto
l’omonimo film di Roberto Faenza “Marianna
Ucrìa”; oltre i premi: Quadrivio (Rovigo),
Apollo (Salerno), “Reggio Calabria”.
Nel 1991 esce una raccolta di poesie dal titolo
“Viaggiando con passo di volpe”, edizione
Rizzoli (Premi: Mediterraneo 1992 e Città di
Penne 1992).Ancora nel 1991 viene pubblicato il libro di teatro “Veronica, meretrice e
scrittora” che prende il premio “Fondi La Pastora” nel 1992. Nel 1993 esce, presso Rizzoli,
il libro “Bagheria” che conosce subito un buon
successo di pubblico e di critica. Intanto, il
teatro Stabile di Catania rappresenta la versione teatrale di “Marianna Ucrìa” con l’adattamento dell’autrice, la regia di Lamberto Pugelli, la partecipazione di Paola Mannoni e
Umberto Ceriani. Nel 1994 viene pubblicato
il romanzo “Voci”(Premi: Vitaliano Brancati
- Zafferana Etnea 1997; Città di Padova 1997;
Internazionale per la Narrativa Flaiano 1997;
tradotto in sette paesi). Nel 1996 esce il saggio
“Un clandestino a bordo”. Nel 1997 un altro
romanzo: “Dolce per sé”, Nel 1998 viene
pubblicata l’antologia di poesia “Se amando
troppo”. Del 1999 il libro di racconti “Buio”
la violenza sull’infanzia e sull’adolescenza raccontata in dodici storie, che riceve il premio
Strega.
Sempre pubblicati dall’editore Rizzoli seguono
“Fare teatro (1966-2000)” che raccoglie quasi
tutta l’opera teatrale di Dacia Maraini, “Amata scrittura”, un libro sulla trasmissione televisiva condotta dall’autrice, nel 2000, e nel 2001
“La nave per Kobe” (il viaggio che la famiglia
Maraini compì per raggiungere il Giappone,
da Brindisi a Kobe). Nello stesso anno Fabbri
pubblica il libro di favole “La pecora Dolly”.
Nel 2003 scrive “Piera e gli assassini” in collaborazione con Piera degli Esposti.Nel 2004 la
scrittrice pubblica con Rizzoli il romanzo
“Colomba”, nel quale accompagna i lettori alla
scoperta di una storia dai contorni fiabeschi:
una ragazza scompare nei boschi del parco
nazionale dell’Abruzzo, la sua giovane nonna
prende a cercarla. I motivi della ricerca si mescolano con quelli della memoria familiare e
della memoria collettiva di una regione che ha
conosciuto la povertà, la pastorizia, il brigantaggio, il terremoto, l’emigrazione di massa.
Dacia Maraini è oggi una tra le più conosciute scrittrici italiane, e probabilmente la più
tradotta nel mondo. La fama della Maraini è
dovuta inoltre anche al suo grande talento
come critico, poetessa e drammaturgo.
Si è dedicata e continua a dedicarsi al teatro,
che vede come il miglior luogo per informare
il pubblico riguardo a specifici problemi sociali e politici.
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Il saluto del Rettore
di Giuliano Volpe
4
Autorità, gentili ospiti, cari colleghi, collaboratori tecnici e amministrativi e studenti,
nel porgere il mio più cordiale saluto a tutti
Voi, intervenuti così numerosi oggi per
rendere omaggio a Dacia Maraini, desidero
subito esprimere al nostro illustre ospite,
insieme a un caloroso benvenuto, le più vive
felicitazioni per la Laurea honoris causa in
Progettista e dirigente dei servizi educativi e
formativi, onorificenza di cui il nostro Ateneo
non è solito abusare e che tra poco gli verrà
conferita e, insieme, il ringraziamento per
averla accettata.
Nella storia di ogni Università, il conferimento
di una Laurea honoris causa costituisce sempre
un atto di grande rilevanza accademica con il
quale si riconosce e si premia il prestigio di
una personalità davvero eminente.
Sono particolarmente lieto che questo riconoscimento venga proposto e conferito dalla più
giovane delle nostre Facoltà, quella di Scienze
della Formazione, che, tra mille difficoltà, ma
con grande entusiasmo e passione della sua
Preside e di tutti i suoi docenti e collaboratori
amministrativi, e con il nostro pieno appoggio, si sta affermando e sta crescendo, non solo
nell’ambito del polo umanistico della nostra
Università, che rappresenta il suo naturale
contesto, ma anche con intensi e vitali rapporti
con le altre aree scientifiche dell’Ateneo e con
collaborazioni con tante realtà accademiche
italiane e straniere. È anche grazie a questa
vitalità, all’impostazione multidisciplinare,
alle aperture ai vari campi della pedagogia,
dell’educazione e della formazione, delle
scienze sociali e delle arti, che la Facoltà sta riscuotendo tanto successo sia tra gli studenti sia
tra gli addetti ai lavori e sta ricevendo grande
consenso e attenzione in questo territorio.
Sono molto felice che questa sia anche l’occa-
sione per consegnare il sigillo d’oro dell’Università a due grandi maestri della pedagogia e
dell’antropologia, a due grandi uomini della
cultura, dell’università e dell’impegno politico
e civile, molto legati al nostro Ateneo: Franco
Frabboni e Antonino Buttitta.
Sono convinto che la Laurea honoris causa a
Dacia Maraini costituisca in questo senso un
ulteriore segnale di slancio della Facoltà, di cui
la grande scrittrice e donna di cultura diventa
da oggi la più autorevole laureata.
Le ragioni che hanno suggerito questo conferimento, saranno illustrate ampiamente, tra
poco, dalla preside della Facoltà, professoressa
Franca Pinto Minerva e dalla collega Isabella
Loiodice, leggendo rispettivamente la Motivazione e la Laudatio.
Consentitemi tuttavia di sottolineare brevemente alcuni elementi che, in qualche
modo, accomunano la nostra ospite alla vita
e all’impegno del nostro Ateneo.
La figura di Dacia Maraini si segnala in maniera straordinaria nel panorama letterario
italiano e internazionale per la sua capacità
di rileggere forme e generi della tradizione
in modo innovativo. La sua esperienza intellettuale è oggi paradigmatica, in quanto
rappresenta una delle punte più avanzate della
nostra cultura, proprio per aver operato una
riflessione sul ruolo che oggi la letteratura e,
più in generale, la scrittura possono recitare,
per aver concepito una scrittura radicata nella
tradizione, che parla al presente e che sa proiettarsi nel futuro. A dimostrarlo sta senza alcun
dubbio la sua vastissima produzione narrativa,
una narrativa che rivisita il genere romanzo,
a cui viene dato nuovo spessore, coniugando
l’indagine storica e la sensibilità di interrogare
la storia stessa dal punto di vista delle protagoniste femminili che animano la sua scrittura;
ma stanno anche, come accennavo, le acute
riflessioni sul ruolo della scrittura nella nostra
società, sulla sua capacità di essere spazio di
analisi, oltre che di rappresentazione oggettiva
e di autoriflessione.
Anche la nostra giovane Università si caratterizza per la sua forte volontà di radicamento
nel passato, nel patrimonio culturale della
Capitanata, e per la sua capacità di progettare
il futuro, il suo essere un laboratorio nel quale
sperimentare, innovare, produrre nuove idee,
favorire la capacità di accumulare e confrontare saperi, di riflettere criticamente, di produrre
innovazione, di sviluppare una conoscenza
dinamica dei problemi della natura, delle
scienze, della società, dell’uomo. Una Università con un piede saldo nel passato e lo sguardo
libero aperto sul futuro.
Il suo modo peculiare di guardare alla realtà e
di rapportarsi con essa con approcci e prospettive diversi, non è dissimile da quello adottato
da questa grande scrittrice, che rifugge da una
lettura unica e unilaterale del mondo, privilegiando una visione plurale, capace di cogliere
la vera essenza proprio attraverso i suoi più
disparati e molteplici aspetti, di scavare nel
profondo delle persone e delle cose. In secondo luogo, desidero richiamare la grande forza
comunicativa di Dacia Maraini, tale da sedurre un pubblico molto ampio ed eterogeneo di
lettori anche per lo straordinario equilibrio tra
tradizione e modernità, di passato e di futuro,
di cui si nutre. Un equilibrio che caratterizza
anche l’impostazione dell’Università degli
studi di Foggia, fortemente legata alla storia e
alle tradizione del suo territorio, la Capitanata,
e finestra aperta sul mondo.
Dacia Maraini è sicuramente tra gli autori
italiani più noti e tradotti al mondo, molto
amato dal pubblico e apprezzato dalla critica
per la sua attività di scrittrice e di donna da
sempre caratterizzata dall’impegno civile, per
i diritti delle donne e delle minoranze, per la
sensibilità culturale e sociale. Una scrittrice impegnata da sempre nella difesa del ruolo e della
dignità delle donne, un ruolo e una dignità
sempre più mortificati, come ci dimostrano
tristemente anche episodi e dichiarazioni di
questi ultimi giorni.
Di Dacia Maraini non apprezziamo solo la
forza narrativa. Attraverso la sua opera, infatti, lei ci offre da anni stimoli per un’acuta
e sincera riflessione civile. La sua presenza ci
onora quindi doppiamente perché la stimiamo sia come scrittrice di fama internazionale
sia come attenta osservatrice e protagonista
della vita culturale e dell’esperienza politica e
democratica del nostro Paese.
È proprio questo intreccio di sensibilità
culturale e civile che ha spinto l’Università di
Foggia a conferirle l’onorificenza accademica
che tra poco riceverà.
Voglio concludere questo mio breve saluto
con un’immagine delicata ma efficace, che
appartiene alla stessa Maraini - straordinaria
narratrice di immagini - e riassume forse il
senso di tutta la sua opera: “compito dello
scrittore … è di svelare una realtà poco visibile
ad occhio nudo, di mostrare il lato nascosto delle
persone, delle storie, correndo magari il rischio di
sconcertare il lettore”.
È per questa sua continua ricerca, è per questo
straordinario impegno letterario e civile, che
l’Università degli studi di Foggia si onora
oggi di conferire a Dacia Maraini la Laurea
Specialistica honoris causa in Scienze della
Formazione.
La motivazione
di Franca Pinto Minerva
Preside della Facoltà di Scienze della Formazione
Il Consiglio della Facoltà di Scienze
della Formazione, nella seduta del
14 gennaio 2009 si è così espresso in
relazione al conferimento della Laurea honoris causa a Dacia Maraini:
“La Preside propone di conferire a
Dacia Maraini la laurea ad honorem in Scienze della Formazione
- Laurea Specialistica in Progettista
e Dirigente dei Servizi Educativi e
Formativi per la funzione altamente
educativa del suo impegno di donna
scrittrice e di cittadina del mondo.
Attraverso la ricca e multiforme
produzione di opere di narrativa,
di poesia, di saggistica, di testi per
il teatro, di articoli e interviste per la
stampa e la televisione, di racconti
per adulti e bambini, Dacia Maraini ha saputo tracciare - utilizzando
sapientemente generi letterari e
registri linguistici differenziati - il
profilo complesso della società di
questi ultimi decenni, delle persone
che l’hanno abitata, degli eventi che
l’hanno connotata, delle problematiche che l’hanno attraversata. Lo
ha fatto con lo sguardo attento e
critico di una donna che ha saputo
varcare, attraverso il medium narrativo, i confini del tempo e dello
spazio facendo dialogare tra loro
passato e presente, vicino e lontano,
uguale e diverso, riunificandoli nel
comune sentire di personaggi - in
maggioranza figure femminili - che
assumono quasi sempre un aspro
valore di denuncia. Denuncia contro i conformismi, gli ideologismi,
le violenze fisiche e psicologiche che
colpiscono quei soggetti “invisibili”
in una società dell’apparenza, del
consumo e del profitto: i bambini
innanzitutto, ma anche le donne
e, ancora, gli animali, le piante,
l’ambiente.
Lo ha fatto utilizzando la parola
scritta, una parola che non si è mai
lasciata rinchiudere negli spazi circoscritti di una pagina ma che è sempre
stata strumento di liberazione del
pensiero e delle emozioni, e per ciò
stesso occasione di emancipazione e
di crescita, intellettuale e valoriale,
per i suoi lettori e le sue lettrici. Attraverso le molteplici forme narrative
utilizzate (e in particolare attraverso il
linguaggio affabulatorio del romanzo), essi hanno potuto sperimentare
la dimensione del viaggio, costitutiva
della biografia stessa di Dacia Maraini e autentico “filo rosso” delle sue
scritture. Un viaggio nei luoghi ma
anche nei pensieri e nei sentimenti
dei suoi personaggi, investigati con
uno sguardo anch’esso nomade, mai
definitivo e prescrittivo ma aperto alla
originalità delle molteplici versioni
del mondo.
La sensibilità culturale, lo spessore
intellettuale, la valenza politica (nel
senso più alto del termine) della
sua produzione letteraria e del suo
impegno sociale e civile sono saldi
punti di riferimento, imprescindibili
per la formazione delle giovani generazioni ai valori della responsabilità,
della solidarietà e del dialogo (tra le
lingue, le fedi e le culture, tra i generi
e le generazioni) nel rispetto delle
reciproche diversità. La indiscussa
rilevanza educativa dell’opera di Dacia Maraini giustifica pienamente il
conferimento della Laurea specialistica in Progettista e Dirigente dei
Servizi Educativi e Formativi.
Il Consiglio approva all’unanimità”.
5
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Laudatio
di Isabella Loiodice
Ordinario di Pedagogia generale e sociale
6
Io sono nata viaggiando. I miei primi ricordi sono memorie di viaggio:
un mare in tempesta, un orizzonte
illuminato da una specie di serpente
arrotolato nel suo argento che era
la luna piena. (....) ricordo sonni
disperati fra le braccia morbide della
mia giovane madre mentre fuori dal
finestrino i lampioni di una strada
si susseguivano con ritmo convulso.
(...) Ricordo aspri risvegli e pavimenti instabili (...). Ricordo attese
infinite, accucciata nel corridoio di
un treno così colmo che non c’era posto sui sedili (...). Ho saputo solo più
tardi, da grande, che il viaggio era
un male di famiglia. Il viaggio nel
sangue, si potrebbe dire, come parte
di un Dna segnato dall’inquietudine
motoria e dalla curiosità geografica.
Una delle poche cose certe è che
viaggiando si allunga il tempo. Non
c’è cosa che restringa lo spazio vitale
come la ripetizione dei gesti, delle
abitudini. Il tempo delle abitudini
appare eterno, ma nel ricordo ha la
durata di un attimo (...). Io non tengo diari quando sto nella mia casa di
Roma, appena mi metto a viaggiare
sento il bisogno di fermare sulla carta
i pensieri che scappano, chiudendoli
in quel progetto di memoria che ogni
scrittura porta con sé (...).
Ecco, ho voluto iniziare questa laudatio
offrendo al pubblico - al Magnifico Rettore,
ai colleghi e agli studenti, alle autorità civili e
religiose, a tutte le persone oggi presenti - uno
stralcio dell’ultimo lavoro di Dacia Maraini,
questo bel libro appena pubblicato da Rizzoli
dal titolo La seduzione dell’altrove, con
il quale L’Autrice coinvolge i suoi lettori
nel fascino del viaggio: dei viaggi realmente
esperiti (fin dall’infanzia e per tutta la vita, nel
caso di Dacia Maraini) ma anche dei viaggi
che non sono negati a nessuno perché vissuti e
ri-vissuti attraverso il racconto di storie, reali e
fantastiche. Rivissuti perché la straordinarietà
delle storie è proprio quella di intrecciare, in
nuove e sorprendenti biografie, le memorie
dello scrittore e del lettore, della scrittrice
e della lettrice, fondendo vicino e lontano,
quotidiano e straordinario, conosciuto e
immaginato.
Narrare diventa così - nelle mille forme
che esso può assumere - il medium, la via
attraverso cui, nel corso dei secoli e nei
luoghi più lontani della Terra, le persone
hanno attribuito significati alle cose, avuto
conferma della loro stessa esistenza, costruito
il “laboratorio di senso della propria vita”.
Ne La fabbrica delle storie Bruner scrive:
“Narrare è la nostra capacità di modellare
l’esperienza quotidiana, il nostro modo di
relazionarci alla realtà, di interrogarci e
risponderci sul senso del mondo, degli altri,
di noi stessi” (Laterza, Roma - Bari 2002).
Diremmo, con Bruner come con Ricoeur,
che alla narrazione è affidato il compito
della costruzione della nostra stessa identità
nel segno della continuità, nel senso cioè di
interconnettere passato, presente e futuro,
vivendoli e rivivendoli, ri-appropriandoci
dell’esperienza vissuta e dandole nuova
forma, nuovo spessore, nuova interpretazione:
ogni volta diversa, inedita, sempre aperta al
possibile dell’interpretazione anche se, nella
realtà, già compiuta.
Bene. Tutta la lunga e ricca produzione letteraria di Dacia Maraini si muove nel segno
della memoria, dell’esistente ma anche del
possibile.
Una produzione letteraria ricchissima, che si
compone di una molteplicità di scritti: dalle
opere di narrativa e di poesia alla sua produzione per il cinema e per il teatro, dai racconti
(compresi quelli per i bambini) ai saggi, dalle
interviste ai testi per la stampa e la televisione.
Mi è piaciuta molto e - voglio riportarla - una
dichiarazione di Dacia Maraini su Paese sera
del 1981 in cui, alla domanda: Quale genere
preferisci: Il teatro, il romanzo, la poesia, il giornalismo? così risponde: Scrivere un romanzo
per me è come costruire una casa, scrivere una
poesia è come navigare su un guscio di noce in
mare aperto, fare teatro è come guidare un carretto in mezzo ad un traffico caotico di camion
e autobus, fare giornalismo è come camminare
sulla sabbia. Ci sono momenti in cui ti va di
costruire una casa, ma ci vogliono anni ed è
faticosissimo. Ci sono momenti in cui mi va di
guidare un carretto; anche se sono abbastanza
stufa del teatro povero e di cantina. Camminare
sulla sabbia mi stanca e non esalta, ma rende
forti le gambe. Una produzione letteraria,
dunque, complessa e multiforme, cui non
a caso ha da sempre corrisposto un grande
successo, di pubblico e di critica. Successo di
pubblico, se si considera la diffusione dei suoi
scritti in tutto il mondo, evidente anche nella
molteplicità di traduzioni che le sue opere
hanno avuto, prima fra tutte il conosciutissimo romanzo La lunga vita di Marianna
Ucrìa, del 1990, tradotto in diciotto lingue o
il romanzo Voci, del 1994, che è stato tradotto
in dieci lingue. Successo di critica, se si considera che Dacia Maraini ha ricevuto la gran
parte dei premi letterari italiani (dal Premio
Formentor del 1962 al SuperCampiello del
1990 al Premio Strega del 1999, solo per
citare i più conosciuti).
La sue scritture, così ricche e diversificate
nel genere e nel contenuto, si sono dunque
sempre incrociate con altri linguaggi, in
primis con quello teatrale. «Il mio è un innamoramento, io amo il teatro e considero
l’atto rituale dell’apertura del sipario un
momento di grande emozione». Così scrive
Dacia Maraini nel suo Fare Teatro, del 2000,
una raccolta in due volumi che comprende
la produzione teatrale di più di trent’anni di
lavoro, dal 1966 al 2000, in cui trovano posto
storie e personaggi soprattutto femminili del
passato e del presente. Tra i suoi testi teatrali,
uno dei più diffusi, Maria Stuarda, ha avuto
decine di rappresentazioni in paesi diversi e
altrettanta diffusione ha conosciuto il testo
teatrale Dialogo di una prostituta con un
suo cliente, scritto nel 1973. Dello stesso
romanzo Marianna Ucrìa viene rappresentata
a Catania la versione teatrale, con l’adattamento dell’Autrice. L’amore per il teatro,
peraltro, è subito evidente non solo nella
produzione di testi teatrali ma anche nella
costituzione di teatri: già negli anni Sessanta,
insieme ad altri scrittori, fonda il Teatro del
Porcospino e, negli anni Settanta, il teatro
della Maddalena, gestito e diretto da donne
e dove vengono rappresentate principalmente
storie di donne.
Nella sua ricerca di contaminazioni si colloca
anche la collaborazione con il medium televisivo: nel 2000 conduce su Rai2 il programma
Io scrivo tu scrivi, da cui, non a caso, nasce
un libro - Amata scrittura - che è un racconto
d’amore (potremmo così definirlo) per la lettura e la scrittura. Un libro in cui Dacia Maraini
percorre i sentieri della scrittura disvelandone i
segreti attraverso le parole di autori come Isabel
Allende, Andrea Camilleri, Rosetta Loy, Mario
Luzi, Claudio Magris, chiamati a discutere sulla propria e altrui scrittura. Un amore - quello
per la lettura e la scrittura - di cui fa parlare anche i personaggi dei suoi romanzi, a partire da
quello più rappresentativo in quanto “scelto”
dai suoi lettori che è Marianna Ucrìa:
Fuori è buio. Il silenzio avvolge Marianna sterile
e assoluto. Fra le sue mani un libro d’amore. Le
parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli
occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono
spremuti dal pensiero che gira come una ruota
di mulino e poi, in forma liquida si spargono
e scorrono felici per le vene. E questa la divina
vendemmia della letteratura? Trepidare con i
personaggi che corrono fra le pagine, bere il succo
del pensiero altrui, provare l’ebbrezza rimandata
di un piacere che appartiene ad altri. Esaltare i
propri sensi attraverso lo spettacolo sempre ripetuto
dell’amore in rappresentazione, non è amore anche questo? Che importanza ha che questo amore
non sia mai stato vissuto faccia a faccia direttamente? assistere agli abbracci di corpi estranei,
ma quanto vicini e noti per via di lettura, non
è come viverlo quell’abbraccio, con un privilegio
in più, di rimanere padroni di sé?
Parlavamo dunque di contaminazioni tra
i linguaggi. E allora, accanto al linguaggio
televisivo si segnala quello giornalistico, con la
collaborazione, tra gli altri, al quotidiano “Il
Corriere della sera” e al suo inserto settimanale
“Io donna”, i cui articoli vengono poi ripresi
nella sua produzione saggistica come I giorni
di Antigone. Quaderno di cinque anni, edito
nel 2006 e che ripercorrono (rileggendoli, con
lo sguardo silenzioso ma attento dell’eroina
Antigone) eventi tragici, che attraversano le
nostre vite ma che spesso, non le scalfiscono
neanche: storie che uniscono destini drammatici di donne che abitano terre molto distanti
tra loro e che - grazie alle parole di grande
denuncia civile di altre donne come Dacia
Maraini - lasciano traccia dei loro diritti negati
e pongono le basi della speranza in un futuro
diverso, in un cambiamento possibile.
Non si può dimenticare, infine, la contaminazione letteraria con quella cinematografica,
non solo per lo spunto che alcune sue opere
di narrativa hanno dato a trasposizioni cinematografiche come Storia di Piera o Teresa
la ladra e, ovviamente, Marianna Ucrìa ma
anche, ad esempio, alla collaborazione nella
sceneggiatura del film Il fiore delle mille e una
notte di Pier Paolo Pasolini, a cui l’Autrice è stata legata da un’amicizia profonda, fortificata da
esperienze, viaggi, interessi e ideali comuni.
La storia di ciascuno di noi è intessuta di incontri, di relazioni, con persone, che in un modo
o nell’altro, hanno poi segnato la nostra vita. E
questi incontri compongono come un mosaico
- un bellissimo mosaico - la biografia di una
intellettuale raffinata qual è Dacia Maraini che
proverò, scusandomi in anticipo per qualche
inesattezza, a ripercorrere, contrassegnandola
via via con quei “ciottoli” che ne hanno tracciato il percorso, e cioè i suoi scritti.
Dunque, Dacia Maraini nasce nella seconda
metà degli anni Trenta a Fiesole, dallo scrittore ed etnologo Fosco Maraini e da Topazia,
giovane donna, pittrice, di antica e nobile famiglia siciliana, gli Alliata di Salaparuta. Nella
sua vita, nel suo temperamento, nelle sue
scelte esistenziali (prima fra tutte quella del
viaggiare), sono visibili le tracce biografiche
del padre e della madre ma anche dei nonni
materni e paterni: condivide la passione per
la scrittura oltre che con il padre Fosco, con
la nonna paterna (e i suoi scritti di viaggio),
con il nonno materno (e i suoi scritti filosofici e teosofici) ma, è evidente, il linguaggio
delle sue parole è intriso anche dell’incontro
con il linguaggio della pittura (la madre era
pittrice), quello della scultura (il nonno paterno era scultore) e quello della musica (la
passione negata della nonna materna per la
lirica). Linguaggi, passioni, attitudini e modi
di vita molto diversificati così come diverse e
molteplici sono le provenienze geografiche dei
componenti della sua famiglia: ricordiamo
le origini siciliane della madre ma anche, ad
esempio, quelle inglesi della nonna paterna e
quelle cilene della nonna materna.
Intrecci, ancora intrecci: intrecci anche di
lingue se, come racconta Dacia, il suo amore
per la lingua e la letteratura italiana è nato da
“straniera”: ritornata in Italia dal Giappone
all’età di undici anni, conosceva benissimo
il giapponese, parlava la lingua inglese ma il
suo italiano era stentato.
E dunque continuando in questa veloce
ricostruzione biografica, non si può non fare
riferimento a quel periodo della vita - dei primi anni di vita - trascorso in Giappone, dove
si era recata con il padre e la madre (le due
sorelle - Yuki e Toni - nasceranno entrambe
in Giappone) perché il padre, etnologo, aveva
vinto una borsa di studio per condurre una
ricerca sugli Hainu, una popolazione del nord
del Giappone e anche per fuggire dal fascismo. Sarà sempre a causa dell’antifascismo del
padre e della madre che tutta la famiglia sarà
rinchiusa in un campo di concentramento in
Giappone, la cui esperienza di dolore, di stenti
e di privazioni (non solo materiali ma anche e
soprattutto di privazione della libertà) compare in alcuni suoi scritti, a partire dalla raccolta
di poesie Mangiami pure del 1978.
Un ricordo, quello del Giappone, che a
distanza di anni si colora dei toni dell’affettività - ne La seduzione dell’altrove, il racconto
dedicato a questa terra si intitola “Caro
Giappone”: «Mi sei stato madre e padre, e hai
lasciato tracce incancellabili sul mio destino»,
scrive Dacia - un’affettività che però non dimentica i contrasti, le contraddizioni di una
terra «potente e fragile» nello stesso tempo,
come Lei la definisce.
Tra le tante “appartenenze”, anche quella alla
terra siciliana, dove torna all’indomani della
guerra, al suo ritorno dal Giappone, dove
trascorre gli anni della sua adolescenza nella
villa di Valguarnera, residenza della famiglia
Alliata e dove “ritorna”, adulta, in occasione
della morte della nonna. Questa terra, questi
luoghi, le storie, di un passato più e meno
lontano, ispirano due fra i romanzi più
conosciuti di Dacia Maraini: La lunga vita
di Marianna Ucrìa del 1990 e Bagheria del
1993. Due libri fortemente autobiografici,
come ha scritto la stessa Autrice, attraverso
cui è stato possibile “risolvere” un conflitto
sommerso con la terra siciliana, una «lunga
notte, fatta di dimenticanze volute» (scrive in
un articolo de L’Aquario del 1991) da cui è
stato possibile uscire, passando appunto dalla
lunga notte a un «mattino felice» attraverso
il racconto di questa sua antenata sordomuta
del ‘700 rappresentata in un ritratto trovato
nella villa di Valguarnera. Una storia, quella di
Marianna Ucrìa, che attraverso la ricostruzione romanzata della vita di una donna vissuta
secoli prima le ha consentito di stabilire
quella iniziale distanza dalle proprie memorie,
più intime e personali, che viene poi superata
nel libro Bagheria, un autentico “viaggio” nei
ricordi della propria infanzia vissuta nella
cittadina siciliana ma anche, ancora una volta,
una incursione nella storia, nelle storie, della
villa di famiglia e delle persone che l’avevano
abitata. In questo racconto, peraltro, trovano
spazio i pensieri, le emozioni che la legano
a una delle figure più importanti della sua
vita e che in qualche modo disegnano la sua
biografia e le sue produzioni letterarie: il rapporto con il padre Fosco. Figura complessa,
problematica, ricchissima quella del padre:
etnologo, orientalista, alpinista, fotografo,
scrittore e poeta, sempre presente pur nelle
sue lunghe assenze da casa, presente con i
racconti dei suoi viaggi, con il fascino del
suo vagabondare che riempiva la casa, al suo
ritorno, dei suoni, dei colori, degli odori di
terre lontanissime e sconosciute. Il fascino di
quell’“altrove”, che trascina con sé, contraddittoriamente, la seduzione e la paura verso
altri luoghi e, soprattutto, verso gli “altri”
diversi da noi; il fascino del viaggio che «mi è
amico e che conosco da quando ero bambina»
(scriverà nella Prefazione alla raccolta di poesie
Viaggiando a passo di volpe del 1991); un
fascino che tiene avvinta a sè Dacia a partire,
appunto, dall’esperienza di vita del padre, di
cui racconterà nel libro ll gioco dell’universo.
Dialoghi immaginari tra un padre e una
figlia sul rapporto con il padre del 2007
in cui, in forma romanzata, racconterà della
vita di un intellettuale complesso qual era
suo padre, ricostruendola attraverso i diari e
gli appunti di viaggio di Fosco, commentati
e riletti con l’occhio della “figlia” e della
“scrittrice”.
Allo stesso modo, La nave per Kobe, del
2001, diventa l’occasione per “riannodare”
la propria infanzia con la vita di sua madre
(anche grazie al ritrovamento dei diari della
madre Topazia, che contengono le annotazioni relative agli anni trascorsi in Giappone, a partire dalla traversata in mare fino
al periodo, terribile, trascorso nel campo di
concentramento a Nagoya, ricordi a cui Dacia
rende un amoroso omaggio riportando in
appendice alcune pagine e foto originali dei
diari materni). E’ un annodarsi e riannodarsi - intrecci, sempre intrecci - tra la propria
memoria e quella di sua madre attraverso
i suoi diari, in un andirivieni tra il proprio
passato e il proprio presente e quello delle
persone care di cui solo a distanza di tempo
riconosciamo, con una nostalgia struggente,
il peso che hanno avuto nella nostra vita:
l’amore autorevole, deciso e decisivo nel caso
7
8
della madre Topazia, un amore non sempre
visibile durante l’infanzia perché in parte
occultato dal fascino prepotente della figura
paterna ma infine riconosciuto, in età adulta,
e pienamente legittimato perché riemerso
all’improvviso attraverso la scoperta dei diari
materni. Così scrive nell’incipit del libro La
nave per Kobe:
Mio padre un giorno mi ha regalato questi
quaderni, dicendo “Ti riguardano, prendili”.
Ho cominciato a sfogliarli e mano a mano che
andavo avanti ero acciuffata dalla commozione.
Il passato ha la capacità di saltarti addosso a tradimento attraverso una fotografia, una lettera.
Ti racconta di un tempo che non c’è più e che
pure si fa vivo ai tuoi occhi con una vivacità e
una corposità assolutamente insospettate.
Certo dà le vertigini questo rincorrersi di
storie e di memorie che ci ricorda come
la nostra identità sia intessuta di alterità, a
partire dall’alterità interna a ciascuno di noi
(tra il nostro passato, presente e futuro, tra la
parte consapevole e razionale, quella inconscia
e pulsionale e quella etica e progettuale) per
incrociarsi con le tante altre alterità che incontriamo nel corso della vita: quelle a noi più
vicine dei nostri familiari e quelle dei nostri
amici, quelle delle persone che solo sfioriamo
perché le incrociamo concretamente o perché
le conosciamo attraverso i racconti, reali e immaginari. Persone che fanno anche la nostra
storia, che impregnano le nostre idee e i nostri
sentimenti, per i quali spesso siamo disposti a
mettere in gioco la nostra stessa vita.
Non a caso, per Dacia Maraini, la passione
civile e sociale, la sua adesione alle ragioni
del femminismo, il suo impegno per la salvaguardia dei diritti dei più indifesi (come
i bambini) si intrecciano costantemente
con le vicende, e le persone, della sua vita:
vicende gioiose, come l’incontro con persone
importanti per la sua esistenza quali Alberto
Moravia, e vicende tristi, spesso drammatiche,
come può essere la perdita di un figlio prima
della sua nascita. Relazioni, e sentimenti,
che contraddistinguono la vita della “donna”
Dacia Maraini e che testimoniano questo suo
sentire comune con tante altre donne, delle
quali racconta nella maggior parte delle sue
opere e che rappresentano un vero e proprio
“manifesto” politico e culturale di denuncia,
a difesa di una identità troppo spesso negata,
offesa, umiliata.
Quante donne nelle opere di Dacia Maraini!
E’ impossibile ricordarle tutte. Ognuna di
esse traccia un profilo esistenziale differente,
intrecciandosi con la sua personale storia di
donna e con quella delle tante donne, conosciute e sconosciute, della sua vita. Donne
che, una volta “liberate” dalla sua penna di
scrittrice, con il passare del tempo l’Autrice
fatica a riconoscere: donne come Anna,
l’adolescente timida del suo primo romanzo,
La vacanza, del 1962 o come Enrica, la
protagonista del romanzo L’età del malessere
del 1963, con il quale Dacia si fa conoscere
al grande pubblico ricevendo il prestigioso
Premio internazionale Formentor.
Donne nelle quali la realtà diventa romanzo
come Teresa in Memorie di una ladra del
1973 (da cui trae spunto il film di Carlo
Di Palma interpretato magistralmente da
Monica Vitti) in cui alla storia vera di una
donna si intrecciano quelle delle tante donne
conosciute durante un’inchiesta giornalistica
nelle carceri e nei manicomi italiani. Un’occasione unica per tracciare un ritratto fedele
della società italiana nei primi anni Settanta
in opere letterarie come il romanzo ma anche
in scritti di poesie come Donne mie del 1974,
dove Dacia scrive versi crudamente sinceri
come questi:
Donne mie, illudenti e illuse che frequentate le
università liberali, imparate latino, greco, storia,
matematica, filosofia; nessuno però vi insegna ad
essere orgogliose, sicure, feroci, impavide. A che
vi serve la storia se vi insegna che il soggetto unto
e bisunto dall’olio di Dio è l’uomo e la donna è
l’oggetto passivo di tutti i tempi? A che vi serve il
latino e il greco se poi piantate tutto in asso per
andare a servire quell’unico marito adorato che
ha bisogno di voi come di una mamma?
E poi, ancora, donne nel romanzo epistolare Lettere a Marina del 1981, un lungo
monologo senza risposta con il quale Bianca
scrive a Marina ma nel quale si intrecciano
altre voci, molte delle quali riconducibili
ancora una volta alla biografia dell’Autrice,
al suo rapporto con il padre e con la madre e
dunque un libro di memorie in cui l’universo
femminile viene “scrutato” in tutta la sua
inestricabile complessità.
E poi la vita fatta a pezzi di Isolina, in un
racconto pubblicato nel 1985 e che si ispira
alla vera storia di una giovane donna trovata,
appunto, a pezzi nelle acque dell’Adige agli
inizi del ‘900, metafora di quella violenza
antica e sempre nuova che colpisce le donne,
vittime “più volte” della brutalità maschile:
vittime di quella violenza che genera un
nuovo progetto di vita e poi vittime della violenza che costringe a rinunciarvi, ad abortirlo
appunto, pagando poi con la propria stessa
vita e, infine, dopo morte, ancora vittime di
quella violenza che ne sporca la memoria,
come ancor oggi accade a quelle donne che, in
fondo, “se la sono cercata” . Ciò che colpisce è
la straordinarietà con la quale Dacia Maraini
sa far parlare i suoi personaggi, cogliere le
emozioni, rappresentare un’epoca anche attraverso forme letterarie apparentemente scarne
come quelle utilizzate in questo racconto che,
per ricostruire la storia reale, si avvale dell’uso
del montaggio di stralci di brani dei giornali
dell’epoca che ne avevano riportato appunto
la vicenda e dai quali soprattutto emergeva
il conformismo feroce di quegli anni, di cui
erano vittime soprattutto le donne.
Dopo Isolina, Marianna Ucrìa, la protagonista del romanzo ritenuto il più bello di Dacia
Maraini, la cui bellezza è data proprio dalla
musicalità della parola che, nella Marianna
sordomuta, diventa esaltazione della parola
scritta; dove il silenzio della parola parlata
diventa un gesto di ribellione, anche in questo
caso, a una violenza sessuale subíta da parte di
quello stesso uomo che poi le verrà imposto
come marito ma dalle cui catene, psicologiche
innanzitutto, si libererà con la conquista di
un amore e poi con la conquista della libertà
riacquistata attraverso i viaggi che la portano
a risalire l’Italia, a fermarsi a Napoli e poi definitivamente a Roma. Ma, è evidente, anche
e soprattutto la conquista della libertà vissuta
attraverso la lettura dei tanti libri:
Quante ore ha trascorso in quella biblioteca,
imparando a cavare l’oro dalle pietre, setacciando e pulendo per giorni e giorni, gli occhi
a mollo nelle acque torbide della letteratura.
Che ne ha ricavato? qualche granello di ruvido
bitorzoluto sapere. Da un libro all’altro, da una
pagina all’altra. Centinaia di storie d’amore, di
allegria, di disperazione, di morte, di godimenti,
di assassinii, di incontri, di addii. E lei sempre lì
seduta su quella poltrona dal centrino ricamato
e consunto dietro la testa..... Da quando i figli
sono andati via ha molto più tempo a disposizione. E i libri non le bastano mai.
Questa sete inesauribile di letture, questo
desiderio insopprimibile di scritture contraddistinguono molte altre figure femminili,
innanzitutto la stessa Dacia nel libro di memorie Bagheria e poi Vera, la donna adulta che
dialoga con la bambina Flavia nel libro Dolce
per sé del 1997. Parole che hanno, sempre, il
sapore della denuncia anche quando prendono la forma del romanzo giallo come Voci del
1994, in cui la protagonista - Michela Canova, donna e giornalista radiofonica - racconta
una storia di violenza sulle donne: violenze
spesso efferate, crudeli, che appaiono ancor
più straordinariamente e tragicamente attuali
anche alla luce del moltiplicarsi di episodi di
violenza e di morte a noi più vicini. Donne
che compaiono sulla scena della cronaca
giornalistica e televisiva per alcuni giorni e
che poi scompaiono senza lasciare traccia,
come non lascia tracce di sé Colomba, la protagonista dell’omonimo romanzo del 2004
che nell’intreccio di storie di donne - della
nonna Zaira e della stessa autrice, “la donna
dai capelli corti” - lascia spazio ai tanti miti
che attraversano il romanzo: miti del tempo
(di un tempo arcaico e di un tempo vicino)
e dello spazio (culminante nella mitologia di
un paesaggio meraviglioso qual è l’Abruzzo
montano).
Il racconto della violenza - e la funzione di
aspra denuncia civile - acquista toni ancora
più drammatici quando ad esserne colpiti
sono soprattutto i bambini. Il libro di racconti, Buio, che nel 1999 è vincitore del Premio
Strega, introduce il lettore in un universo
di efferatezze narrate con la delicatezza, mai
sdolcinata, volutamente scarna e con i toni
della “testimonianza”, che meritano le storie
spezzate di alcune giovani vite. Vite spezzate
- prima ancora che dalla violenza fisica come
lo stupro - dalla violenza della solitudine e
dell’abbandono, del pregiudizio e dello stereotipo. Bambini che il più delle volte non
vengono ascoltati, alle cui parole non si presta
attenzione, non si dà credito: come Tano, che
denuncia la violenza familiare ma che non
viene creduto fino a quando la storia non si
conclude con un assassinio; o come il piccolo
Grammofono, detto Gram, bambino di sette
anni, cui non si presta attenzione quando
racconta dell’uomo uccello, un uomo dalla
giacca grigia, luccicante, come fatta di piume
iridescenti, e dalle scarpe gialle, simili a zampe
d’uccello, che lancia sassolini verso il balcone
dal quale il bambino Gram, sempre solo in
casa per tutto la giornata, segue incantato il
volo dei piccioni. Un uomo-piccione che affascina, attrae fino a trascinarlo nell’abisso:
L’uomo ora ha fermato la macchina fra due
cabine dei lavori stradali, sprangate. Non c’è
nessuno in giro fra quei pini. Le mani pennute
si allungano verso il bambino; gli allargano il
collo della maglietta, gli slacciano la cintura dei
pantaloncini. Il bambino prende a scalciare disperato. L’uomo gli torce un braccio fino a fargli
perdere il respiro. Poi arriva un altro schiaffo e
un altro ancora. Il piccolo Grammofono ha gli
occhi velati. Non ce la fa neanche a piangere.
Ma continua a tirare calci. L’uomo ora gli è addosso. Lo tiene stretto. Gli urla nell’orecchio: «se
continui a tirare calci ti ammazzo». Il bambino
gli dà una ginocchiata nel ventre. L’uomo urla
di dolore. Prende il bambino per il collo e stringe
rabbiosamente le dita sulla giugulare.
Intanto un piccione si è posato con leggerezza sul
cofano della Bravo celeste. Ha le piume di un
bellissimo grigio fosforescente e ha il becco giallo,
screziato. Il piccione volge lo sguardo distratto
dentro la macchina mentre si riposa dal volo e
vede un uomo che singhiozza e sussulta mentre,
stretto a sé, tiene un bambino dal capo reclinato
e molle. La mattina dopo lo spazzino trova il
cadavere di un bambino mezzo nudo, con le
scarpe da ginnastica rosse ai piedi nella pineta
sopra la città.
A Buio - libro testimonianza, libro denuncia,
atto d’amore verso i più indifesi e “invisibili”
- vogliamo contrapporre però, come testimonianza di “luce” rispetto al “buio” della
violenza, i libri per bambini scritti da Dacia
Maraini: Storie di cani per una bambina
(Premio Andersen, 1996) che, come scrive
Antonio Faeti nella Prefazione al libro, ci
insegnano a guardare i nostri amici cani con
occhi diversi, con un po’ meno superbia, a
riconoscerli «tragici e strani, sconosciuti e
sorprendenti, inquieti e bizzarri, come se
fossero appena giunti dalla luna». E, ancora,
La pecora Dolly, una raccolta di favole del
2001 attraverso cui Dacia sa parlare ai bambini di temi difficili come i rischi della scienza
(la clonazione), la violenza della caccia, le
ingiustizie.
Ma perché la speranza - speranza come progetto, come proiezione verso il futuro qual
è l’infanzia, autentico “tesoro dell’umanità”,
diremmo con le parole di quella grande donna pedagogista che è Maria Montessori - non
serva a dimenticare il passato, ad occultare la
memoria, vorrei concludere questa laudatio
con le parole con le quali Dacia termina il
suo ultimo libro (La seduzione dell’altrove) nel
racconto dal titolo “Auschwitz: la memoria è
un atto morale”: (...) un dovere storico. E [che]
questi campi dovrebbero essere visitati da tutti,
generazione dopo generazione, per ribadire,
anche attraverso l’esercizio dei sensi, che non ci
si può permettere il lusso di dimenticare.
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Le origini, i miti
di Laura Marchetti
bisogno di conservare e raccogliere non solo piante
ma parole, aggiungendo così altra vita alla propria
vita, moltiplicando la realtà con una vita autocreata
dalla narrazione.
forse i miti catturati da Il ramo d’oro di Frazer, dai
Miti Greci di Graves, da Omero , da Eschilo e da
Euripide; dal padre viene il mito della montagna,
la “montagna come destino di famiglia”.
La voce ha salvato il femminile. Nelle società
patriarcali, dove la violenza del potere imprigiona
le donne mettendone a repentaglio la dignità e
spesso la vita, la voce ha garantito la loro sopravvivenza, come nella storia di Sherazade, l’astuta
narratrice che per mille e una notte incanta il
suo uccisore con la potenza del racconto. La voce
infatti è seduzione, come ci ricorda l’immagine
antichissima delle Sirene, ma è anche memoria,
tradizione, espressione di un sapere ricco, carico di
intuito, di percezione, di capacità di “entrare negli
aspetti più reconditi delle cose”, come fa, nella sua
lunga vita, Marianna Ucrìa, eroina settecentesca
che ha perso la voce bambina, per uno stupro, e la
ritrova da adulta attraverso la “voce corposa” della
scrittura (“amata scrittura”, dal titolo di un testo
della Maraini pensato per proporre una possibile
educabilità alla scrittura).
“Raccontami ma’ ”, dice continuamente in
Colomba la figlia curiosa alla bellissima madre
cantastorie, raccontami così da intrecciare la veglia
e il sogno, il passato e il futuro, così da ritrovare
esistenze negate e tagliate, da allontanare il dolore
e la morte. “Raccontami ma’ ”, per farmi entrare
di nuovo in quel giardino di delizie dove eravamo
all’inizio, un giardino in cui palpita ancora la
letteratura come pratica “del sarchiare, seminare,
far crescere i ricordi”, un giardino che è caldo,
accogliente, sicuro, come il seno, il grembo, il
ventre. “Raccontami ma’ ” e fallo di notte, perché
solo nella notte - nella notte magica, misteriosa,
oscura e intima - può avvenire quello che, ancora
nelle Mille e una Notte, è chiamato il “samar”:
il parlare al profondo, il parlare alle Origini.
Raccontami, perché col gioco narrativo dell’oggi
l’umanità del malessere possa riaccedere agli antichi simboli: l’uccello, il giardino, il bosco, il mare,
la nave. Sottratti alla dura realtà - una realtà fatta
di abusi, di speculazione, di cemento - e riportati
alla purezza dei grandi archetipi collettivi, alle
strutture antropologiche dell’immaginario, come
le chiama Bachelard, insomma ai luoghi primordiali della psiche (istinti, desideri, pulsioni), essi
prendono la forma sublime del mito. Il mito è
infatti la trama di quel ritorno nel tempo e nello
spazio, il mito che traccia una geografia mentale,
anzi, come vien detto nella introduzione a La
ragazza di Via Maqueda, una “geografica della
narrazione” entro la quale l’erranza del narrare si
intreccia all’erranza del viaggio, come nelle Storie
di Erodoto di Alicarnasso.
Il mito della montagna impregna le immagini
dell’Abruzzo. L’Abruzzo montano è un paesaggio
austero, ma anche una terra magica come la Daunia, come la nostra terra. Non a caso l’antropologa
Mara vi entra grazie a Caronte, psicopompo di un
mondo arcaico e sconosciuto, mondo del sacro e
della morte. Mondo selvaggio pieno di orsi, di lupi
e di serpi (Le serpi del Monte Marsicano, come nel
titolo di un altro racconto), dove però, nei boschi
popolati di spiriti e creature fiabesche, permangono le tracce di antiche civiltà, di antiche tradizioni.
Draghi e Folletti, ma soprattutto, di nuovo, le Origini, quelle radici che conficcano l’uomo, come
una pianta, nell’humus della Terra, della natura:
una Natura padre e madre collettiva.
Lontane dagli studi, impossibilitate ad esprimersi con i linguaggi della politica e della vita
pubblica, le donne insomma, tramite la voce,
hanno elaborato e conservato una vera e propria
filosofia: quella “filosofia del filatoio”, come la
chiama la Von Franz, che si tramanda oralmente
nei secoli attraverso balie, mamme e nonne con
la forza viva de “li cunti”, e della fantasia. E’ una
filosofia che si ritrova in Colomba, straordinario
romanzo sul tempo - il tempo che passa e porta
con sé la scomparsa di luoghi, amori, persone, il
tempo che “ferma il suo scorrere idiota” e trova
la sua redenzione celebrando il primo bisogno
dell’uomo, emerso all’alba del genere umano: il
Nel mito Dacia Maraini ripone il suo interesse
attuale (testimoniato dal corso appena concluso
presso l’Università di Zurigo sulla influenza del
mito classico nella letteratura italiana, con uno
sguardo particolare alla divisione di ruolo fra il
maschile e il femminile), ma anche una passione
antica, originale. E’ il segno delle sue personali
radici. Nel mito, e nel viaggio, c’è infatti una
storia biografica, c’è il ricordo di quella figura di
padre amata in maniera struggente, quel padre
antropologo ed esploratore (Fosco Maraini), di cui
si avverte la presenza in quell’andare a piedi lento
di Zaira, esplorando i luoghi ma anche la condizione umana. Dal padre antropologo vengono
Ricercatore in Didattica e Pedagogia speciale
L’intelletto quando agisce da solo e secondo i suoi più
generali principi, distrugge se stesso ...noi ci salviamo
da questo scetticismo totale soltanto per mezzo di
quella singolare e apparentemente volgare proprietà
della fantasia per la quale entriamo con difficoltà
negli aspetti più reconditi delle cose...
La lunga vita di Marianna Ucrìa
Quando smetterò di raccontare sarò morta, si dice
togliendosi il trucco davanti ad uno specchio poco
illuminato che le riempie la faccia di ombre
Colomba
I piedi camminano e “li cunti” li seguono
La ragazza di via Maqueda
L’Abruzzo del mito è una piccola patria, una
terra rifugio, da cui però la narratrice guarda ad
una patria più ampia, ad una “matria”, vorrei
dire con un neologismo. Essa è un luogo politico
ma anche, come nel racconto Europa, un mito:
il mito di quella giovane Ninfa che viaggiò e
vagò per sfuggire a Zeus, il suo stupratore. Ella
è l’emblema di come sarebbe diventata l’Europa
politica vista dal treno Il Treno dell’ultima notte
da cui si dispiega tutto l’afflato civile, un’Europa
violata dall’Olocausto e da Auschwitz, l’Europa
col cuore di tenebra dove si è dispiegato il male
in tutta la sua banalità, e che anche oggi, ridotta
ad una espressione della moneta e delle banche,
appare incapace di contrastare i territori dell’odio,
le non tanto invisibili barriere economiche,
religiose, razziali. Ma è anche l’emblema di una
vivente radice, di una immanente possibilità posta
in quell’antica civiltà greca da cui partì appunto
la ninfa recando con sé intelligenza, equilibrio e
misura. È un’Origine liquida, che viene dal mare,
dalla Grecia, ma anche dalla Sicilia, l’ultimo e
più potente mito della Maraini, mito di un sud
tragico, di nobili arroganti e di miseria senza
requie, ma anche carico di magia, sfavillante di
limoni , di odori di menta, di cibi succulenti, di
estati torride, di cavalli, di boschi di sugheri. Un
sud mediterraneo come Bagheria , l’araba “porta
del vento”, da cui può ripartire un nuovo ethos,
dolce come quello di Marianna Ucrìa, fatto di
sapienza, sensualità, gesto amorevole di padre,
voce e cura di madre.
Conferimento della
Laurea honoris causa
Il rito medievale
Il rito medioevale prevede che il
Rettore pronunciando
le tradizionali formule in latino
ponga sul capo del laureando
il tradizionale “tocco”,
simbolo della funzione dottorale.
A seguire il Rettore
porge al laureando un libro,
prima chiuso e poi aperto.
Il libro scelto per Dacia Maraini è
“Le avventure di Pinocchio. Storia
di un burattino” scritto
da Carlo Collodi nel 1881,
un chiaro richiamo al romanzo
di formazione, la formazione
di una coscienza attraverso
la ricerca di se stessi.
La consegna del libro chiuso
significa che Dacia Maraini
possiede la scienza.
Il libro aperto sta a significare
che Ella può portare nella società
quella conoscenza con le parole
e con le azioni.
A chiusura del rito la consegna
del sigillo dell’Università degli studi
di Foggia, simbolo dell’alleanza
del neo dottore con la scienza.
9
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Lectio Doctoralis
L’esperienza della scrittura
di Dacia Maraini
10
Scrivere in italiano significa fare i conti
con la lingua parlata, la lingua scritta
colta, i dialetti, i gerghi abbondantissimi in questo clima scarso di regole.
La lingua italiana ha una storia piuttosto complicata: è stata una delle
prime a formarsi in Europa, pensiamo
a Dante, a Boccaccio, ai grandi poeti
mistici come Jacopone da Todi e San
Francesco, ma poi, con la Controriforma e con il ritorno del Latino, il Volgare è tornato ad appartenere al popolo,
ai “mestieri” come dice Settembrini,
lasciando la lingua italiana colta ai
letterati e agli scienziati. Si pensi a
Galileo Galilei che nel ‘600, avendo
scritto un testo che si chiamava ‘Delle
cose che galleggiano sull’acqua’, venne
accusato dalla società degli scienziati di
‘lesae humanitatis’ per non avere adoperato il latino. Nelle scuole superiori
si insegnava in latino, nelle università
non c’era che il latino, nei tribunali
si parlava latino, nelle aule di scienza
si scriveva in latino, la stessa messa
che era per tutti, anche i più poveri e
analfabeti, veniva officiata in latino.
Per secoli c’è stata una scissione fra la
lingua colta, quella che aveva anche
una scrittura e la lingua popolare
che era soprattutto parlata. La lingua
popolare era costituita, piu che da dialetti, da vere e proprie lingue regionali
come il lombardo, il veneto, il sardo,
il siciliano, eccetera. Anche Manzoni
che era molto sensibile alle questioni
della lingua, sapeva di scrivere in un
italiano che “non conosceva i mestieri”
e per questo il suo famoso romanzo ‘I
promessi sposi’ è stato riscritto tante
volte, ‘sciacquato in Arno’, come diceva lui e risciacquato piu volte, per
trovare un difficile compromesso fra
la lingua parlata dialettale e la lingua
scritta colta che la maggior parte degli
italiani non praticava.
Solo dopo la seconda guerra mondiale,
negli anni ‘50, dicono i linguisti, con la
diffusione della radio si è cominciato a
parlare capillarmente la lingua italiana.
Inoltre le grandi immigrazioni interne,
dal sud al nord, dalle campagne alle
città, hanno creato il bisogno di una
lingua nazionale che potesse essere
intesa da tutti.
Di questo ritardo hanno fatto le spese
prima di tutto il teatro, che è il luogo
del compromesso fra lingua scritta e
lingua parlata e poi la narrativa, non
quella colta e accademica, ma quella
popolare. Non è un caso che da noi
manchi il grande romanzo popolare
ottocentesco, come c’è stato in Inghilterra o in Francia.
Oggi finalmente possiamo dire di avere
adottato in pieno una lingua nazionale.
Però subito si sono presentati altri problemi: per esempio l’uso smodato del
linguaggio tecnologico: le macchine
parlano inglese e il parlato medio si è
infarcito di termini inglesi di cui spesso
chi li pronuncia non conosce nemmeno
il vero significato. Altro guaio: i gerghi
che servono per economizzare le parole
in un gruppo sociale, ma poi vengono
assorbiti per imitazione da altri gruppi
sociali, soprattutto quando il gergo
proviene da un ceto privilegiato: il gergo
degli avvocati, il gergo dei medici, il
gergo dei politici, il gergo degli psicanalisti, eccetera. Liberarsi dai gerghi
è per uno scrittore un dovere che si
paga a volte salato, perché molti lettori
non si riconoscono in un linguaggio
pulito dalle terminologie più comuni.
I gerghi appesantiscono e opacizzano
la lingua come dei parassiti. A volte
belli da vedersi come gli arrampicanti
che circondano un tronco, ma non c’è
dubbio che alla fine questo bellissimo
viluppo di foglie finisce per soffocare e
uccidere l’albero stesso.
La buona notizia è che oggi nel mondo
l’italiano sta aumentando i suoi estimatori. Ci si innamora dell’italiano,
forse proprio perché non è una lingua
funzionale alla comunicazione come
l’inglese, forse perché non costituisce
un dovere professionale, forse perché è
legato ad un’arte meravigliosa come la
musica: l’opera. Non a caso Mozart ha
scritto i suoi libretti in italiano.
Forse per questo, per la libertà da ogni
costrizione sociale e politica che accompagna lo studio dell’italiano, per la sua
estrema musicalità, per la sua eleganza
e bellezza, la lingua italiana oggi viaggia
per il mondo e si fa amare e studiare
sempre di più.
Amata scrittura
da
perchè, dove, quando della letteratura
Prima edizione BUR, La Scala 2002
La scrittura è davvero amata nel nostro
paese, tanto amata che spesso viene uccisa
sul nascere, soffocata per troppo amore.
Mentre gli occhi pazienti che seguono le
righe e le pagine, languono e appassiscono.
Ma perché, quando e dove si è persa la gioia
della lettura? Sembra che la scrittura sia diventata uno strumento per possedere brutalmente la realtà, quasi un grimaldello per
aprire le porte dell’autorità. I grimaldelli, lo
confesso, mi fanno paura. Preferisco pensare alla scrittura come ad una testimonianza
delicata, un gesto di affetto nei riguardi di
una memoria che se ne va e muore anzitempo. Una esperienza che ti fa cambiare
l’angolo dello sguardo, un arricchimento
di prospettiva. Accompagnata forse da un
infantile desiderio di seduzione. Ma fuori
dei canoni, dentro le allegre invenzioni di
una mente inquieta.
Ho cercato sempre di raccontare la gioia
della lettura e di contagiare gli aspiranti
scrittori che mano mano incontravo con
la fascinazione della scrittura. Ho cercato di riflettere insieme con chi invece la
scrittura la pratica tutti i giorni, sulle spine
del linguaggio. Non so proprio se ci sono
riuscita. La sola cosa certa è che non ho
voluto insegnare nulla, perché non ho nulla
da insegnare.
Leggere
Libri e lettori
Una raccolta di immagini di straordinaria bellezza che raccontano,
emozionando, momenti di intimità autentica vissuti da Dacia Maraini
con personaggi illustri del mondo della cultura, da De Filippo a Moravia,
da Pasolini a Bertolucci, da Turcato ad Antonioni a Piera degli Esposti.
Un breve viaggio nella vita intensa di una grande scrittrice.
Ho sempre pensato che chi legge un libro,
in qualche modo lo riscrive. L’autore porge
delle indicazioni ma poi è il lettore che
deve saper ricostruire con la sua immaginazione e il suo sapere il mondo in cui si
trova a vivere attraverso i corpi estranei dei
personaggi.
Per questo considero la lettura una vera
gioia amorosa, non per i contenuti che
mi offrono i libri ma perché leggere è un
grande esercizio di soggettività. Leggendo
ci si fa soggetto di una storia, di un discorso,
di una riflessione, di una fantasia, di un
sogno. E l’intensità di questo farsi non ha
limiti, non ha censure.
È anche per questo che non si può scrivere
se non si legge. Senza il lettore la scrittura
non esiste e senza la scrittura il lettore non
esiste. Il rapporto tra chi legge e chi scrive,
pur essendo un rapporto fra due corpi, non
è l’incontro naturale di due persone che si
parlano, si capiscono, si riconoscono: la
comunicazione tra i due passa attraverso
una convenzione molto complessa che
è la scrittura. Il lettore deve decifrare un
linguaggio, applicare un codice, compiere
un’operazione che presuppone un grande
lavoro di concentrazione.
Però, quando ci si riesce, si prova un profondo piacere: si scopre di potere vivere
tante vite diverse, di potere viaggiare nel
tempo e nello spazio. Noi siamo chiusi
dentro una vita limitata, prevedibile, spesso
asfittica, e i romanzi danno la possibilità di
attraversare altre esistenze, altri panorami,
calzando altre scarpe, annusando altri odori, in un tempo che non ci appartiene.
Quando si compie questo miracolo è come
se si realizzasse un incontro al di là dello
spazio e del tempo, nel mondo misterioso
del possibile. Il libro è il luogo di questo
incontro.
Leggere per leggere
Leggere è un atto sensuale. Mi viene in
mente un racconto di Calvino in cui un
lettore appassionato finisce per preferire la
lettura di un libro al bacio di una ragazza
forse poco amata. Sulle rocce al mare, il
ragazzo sta leggendo un romanzo appassionante, steso al sole. Arriva una ragazza,
fanno conoscenza e dopo un po’ cominciano a baciarsi, ma l’occhio di lui corre da
solo, anche contro la sua volontà, al libro
aperto di fianco per continuare a seguire
una storia affascinante. L’eccitazione sensuale provocata dal libro prevale su quella
carnale immediata. Naturalmente non è da
proporre come modello ma come esempio
della forza seduttiva della lettura (…)
Leggere per scrivere
Leggere e scrivere sono due attività assolutamente gemelle. Per questo molti aspiranti scrittori falliscono quando partono
da una separazione schizofrenica fra due
occupazioni che si ostinano a considerare
indipendenti, una attiva (la scrittura) e una
passiva (la lettura). Idea convenzionale e
balorda perché, come ho già detto, chi legge
in realtà riscrive il testo, si fa protagonista
di una storia, la reinventa, dà corpo ai
personaggi, li fa muovere sul palcoscenico
della mente, ne cura i dettagli, fa come un
esecutore sapiente che dà misura e forma
alle note. Ma ogni esecuzione è diversa dalle
altre, lo sappiamo. Ogni esecuzione è una
creazione. Per questo la lettura, che consiste nel fare giungere alle orecchie il suono
nascosto delle carte, è una esperienza altrettanto vitale e formativa della scrittura.
Tutto quello che impariamo sullo scrivere
lo apprendiamo dai grandi incontri letterari
della nostra vita. Non esiste un romanziere
che non ami i libri. Non si può scrivere
senza conoscere a fondo la letteratura.
Solo leggendo molto si familiarizza con
le tecniche della narrazione: insomma
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uno che scrive deve stare «a mollo» nella
lettura, come si diceva una volta, «essere
il pesce nella sua acqua». Eppure tanti,
anche aspiranti scrittori, leggono poco e
svogliatamente (…)
A tutti coloro che mi chiedono consigli,
ripeto: non ci sono regole, non ci sono formule, non ci sono canoni. Ci vuole tenacia,
passione, molta lettura e molta pazienza.
Insisto ancora sul leggere. Leggere, leggere,
leggere. È questa la prima e più importante
pratica per chi vuole scrivere (…)
12
Inoltre, per chi ha ambizioni letterarie, è
importante leggere in italiano, autori italiani, per conoscere bene le strutture della
nostra lingua scritta che è diversa dal parlato per quanto possano apparire uguali.
Spesso molti mi dicono: «Leggo solo romanzi stranieri» e poi trovano naturale,
una volta presa la penna in mano, chiamare i loro personaggi con nomi inglesi
o francesi. Ma soprattutto inglesi perché i
romanzi di maggior successo, i cosiddetti
best seller, sono americani. Per chi scrive in
italiano invece è essenziale leggere libri che
sono stati pensati e scritti in italiano. Non
voglio fare del nazionalismo fuori luogo:
credo che sia bello conoscere le lingue e se
uno vuole, sarà bene che impari a scrivere
in inglese - che è la lingua degli scambi internazionali di oggi. Ma se pensa e parla in
italiano dovrà avere ben vive nell’orecchio
la struttura, le trasformazioni, le parole
della propria lingua.
Non basta aver letto quattro romanzi
americani di successo in traduzione per
instaurare un buon rapporto con la scrittura (…)
Scrivere
È proprio come correre da un innamorato e
l’innamorato è il racconto, il romanzo.
vengono forniti suggerimenti sul modo in
cui egli può dominarlo.»
Scrivere e parlare
Traduzioni e trasposizioni
«Io penso, io parlo, quindi io scrivo.» Molti
compiono una identificazione fra lingua
parlata e lingua scritta che è del tutto arbitraria. In realtà le due lingue sono lontanissime, anzi spesso sono in antitesi. Non basta
sapere pensare o sapere parlare per sapere
scrivere: la scrittura è un’arte a sé. Anche
gli scrittori che imitano il parlato fanno
un’operazione letteraria. A comunicare le
nostre idee, le nostre impressioni, i nostri
sentimenti, le nostre emozioni arriviamo
solo attraverso uno stile riconoscibile e
personale (…)
Tradurre è gettare un ponte tra due lingue.
Ogni traduzione è un compromesso tra
l’assoluto dello scrittore e il possibile del
traduttore.
È stato anche detto che la traduzione è «nel
migliore dei casi un eco pallido dello scritto
originale».
Nonostante questo la traduzione è sempre
un esercizio formativo per uno scrittore. Tutti gli scrittori prima o poi hanno tradotto da
una lingua che è loro familiare. Dirò di più,
ci sono degli scrittori che hanno tradotto,
benissimo, da lingue a loro sconosciute o
quasi.
Famoso l’esempio di Pasternak che tradusse
dal georgiano conoscendolo appena o quello
di Gérard de Nerval che tradusse Goethe con
una esperienza minima del tedesco. E sono
traduzioni bellissime sia l’una che l’altra.
Pasolini è stato accusato di essere poco
accurato nelle sue traduzioni dal greco.
Eppure l’Orestiade tradotta da lui e ormai
introvabile, ha una plasticità e una vitalità
che non posseggono molte altre traduzioni
di professori esperti di lingua greca.
La sola cosa che si possa dire è che ogni traduzione è una ricreazione, con tutti i rischi
che questo comporta.
Esiste poi anche una questione che riguarda
la traduzione da un campo d’espressione
all’altro, per esempio dalla letteratura al
cinema. Pasolini si è molto servito della
letteratura per fare il suo cinema. Penso ai
Racconti di Canterbury, al Decamerone, al
Fiore delle Mille e una notte, sceneggiatura
quest’ultima a cui ho collaborato anch’io.
Ecco forse dovremmo ricordarci di questa
qualità simbolica della scrittura. Della sua
qualità di «patto» e « testimonianza». Non
a caso fra gli uomini e gli dei la transazione
passa sempre attraverso un libro, che sia
la Bibbia o il Vangelo, il Corano o altro.
Le leggi morali stanno scritte sulla pietra e
questa scrittura pietrosa si distingue dalla
gassosità della parola «di cui solo il movimento è significativo». Ma il paradosso della
scrittura è che deve apparire naturale anche
quando non lo è. La scrittura mima l’oralità,
come la danza mima i movimenti naturali
del corpo, che sia umano o animale. La
rappresentazione scritta della lingua orale è
comunque una forma di artificio. Si tratta
di valutare il grado degli artifici. Ce ne sono
di più semplici e immediati, quasi diventati
parte della nostra seconda natura, altri più
complessi e ardimentosi. L’oralità diventa
comunque un oggetto di manipolazione
letteraria e come tale ha bisogno di una
competenza.
Ragioni e passioni
Scrivere per
Scrivere vuol dire mettersi in rapporto con
gli altri. Si scrive come si tende una mano.
Se qualcuno non l’afferra, quella mano,
ci rimaniamo male. Ci sentiamo soli ed
esiliati.
Perché si scrive? Per fermare il tempo, per
sfogarsi, per consolarsi, per divertirsi, per
piantare grane, per attirare l’attenzione,
per sentirsi meno soli, per ricordarsi o per
dimenticarsi di qualcuno o di qualcosa?
Certo si scrive per tutte queste ragioni;
ma scrivere vuol dire prima di tutto dare
un nome alle cose. La scrittura ci forza a
scendere nel profondo della realtà per poi
uscirne, attribuendole qualcosa di nostro, di
assolutamente personale. La scrittura nasce
da ragioni umili e semplici, dall’amore per
le parole che, sulla pagina, diventano enigmatiche e misteriose e noi ci accingiamo a
chiarire quel mistero.
Si scrive per soddisfare una necessità, spinti
da un desiderio quasi erotico, perché si è felici di farlo, semplicemente perché non se ne
può fare a meno, e mentre si scrive si prova
un piacere profondissimo. È un piacere e
nello stesso tempo un bisogno: è una cosa
che devi affrontare, nessuno ti può fermare.
Le fiabe
Le fiabe, che sono considerate per antonomasia letture per bambini, sono spesso
crudelissime e violente. Ma nonostante
la ferocia, «la ricchezza d’immagini delle
fiabe» dice Bettelheim nel Mondo incantato, «aiuta i bambini meglio di qualunque
altra cosa nel loro più difficile eppure più
importante e soddisfacente compito: quello
di raggiungere una coscienza più matura
per civilizzare le pressioni caotiche del loro
inconscio».
Chi ha detto che i bambini non pensino
alla morte, alla sofferenza, al futuro del
mondo? Chi ha detto che i bambini non si
pongano gli stessi gravi interrogativi che si
pongono i grandi?
«Coloro che misero al bando le fiabe tradizionali» scrive ancora Bettelheím «decisero
che se c’erano dei mostri in una fiaba narrata
a dei bambini, dovevano tutti essere bonari;
ma trascurarono il mostro che un bambino
conosce meglio e che lo preoccupa di più:
il mostro che sente o teme di essere. [...]
Senza tali fantasie, al bambino non è dato
di conoscere meglio il proprio mostro, né
Scrivere per i bambini
Ci sono dei libri «per bambini» che in realtà
sono stati scritti per gli adulti e poi, come
per castigo, sono stati relegati all’infanzia.
Pensiamo a Robinson Crusoe di Defoe, a
un libro come Pinocchio, che pur avendo
l’andamento di una fiaba, è scritto con un
linguaggio da adulti, di grande bellezza e precisione. Pensiamo ai Viaggi di Gulliver, alle
Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo,
alle novelle trecentesche di Franco Sacchetti,
all’ottocentesco Charles Dickens, al novecentesco Italo Calvino e a tanti altri.
Personalmente non credo che scrivere per i
bambini significhi usare un linguaggio particolare, limitato, addolcito, manierato, limato
apposta per loro. Credo che a un bambino si
possa dire tutto, bisogna però essere molto
chiari, lineari, logici e sinceri (…)
C’è tutta una letteratura per l’infanzia che
è francamente insopportabile, palesemente
finta; che parte dal presupposto di presentare
un mondo in cui il male non esiste, la crudeltà non esiste, la morte non esiste, è tutto
roseo e un poco ovattato. Eppure i bambini
sono spesso ossessionati dall’idea della morte
e dell’abbandono.
Ai bambini bisogna potere parlare di tutto,
quello che non si deve fare è offendere un
bambino nel suo senso della dignità, trattarlo
come un inferiore o un essere senza immaginazione e senza sentimento morale.
La Poesia
Poeti
Leopardi è un poeta che mi è sempre
stato molto vicino. C’è qualcosa che me
lo rende affine, prima di tutto forse il suo
amaro sentimento del nulla. Turgenev lo
chiamerebbe nichilismo. Mi è capitato di
crescere in una famiglia senza certezze, né
religiose, né scientifiche, e con un grande
amore per la libertà, e per la conoscenza.
L’atteggiamento verso la cultura era di tipo
sperimentale. Fin da ragazzina mi leggevo
a voce alta con piacere e struggimento
linguistico A se stesso:
Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Mi sembrava che parlasse per me, che
facesse per conto mio le domande sull’infinito e sul futuro che vedevo vuoto e senza
speranze.
In Leopardi trovavo l’idea dell’interrogarsi
su tutto: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi,
che fai, / silenziosa luna?». Ecco, Il canto
notturno di un pastore errante dell’Asia era
una delle poesie che mi commuoveva di
più. Le sue parole erano le mie: l’universo
cos’è? mi chiedevo quando avevo appena
sette anni... e le stelle in cielo che fanno? e
la luna dove va? e noi chi siamo? Leopardi
non si aspetta che la luna risponda, che le
stelle chiariscano il mistero del cielo, però
ha bisogno di fare quelle domande e questo
atteggiamento di disperata tenera inquietudine lo sentivo molto vicino.
Pascoli me l’ha fatto riscoprire Pier Paolo
Pasolini che lo amava molto. La scuola me
lo aveva reso stucchevole e distante o perlomeno mi aveva proposto di Pascoli l’aspetto
più sentimentale, più manierato. Invece a
conoscerlo meglio si scopre che anche lui è
un grande giocoliere del linguaggio. Grazie
a Pasolini l’ho riletto con uno sguardo
diverso e ho capito la sua grazia e la sua
forza. Mi ha toccato il suo modo di parlare
della natura, come uno che ci sta in mezzo,
che prende in mano il pulcino, chiama la
gallina, tocca il cane. Anche con un certo
gusto minimalista, diremmo oggi. Pascoli
non vuole spiegarti nulla. Pascoli insegue,
osserva con occhio umile e casalingo, da
contadino che conosce la consistenza delle
terre, delle radici, delle piante, il mondo
che gli sta intorno e cerca di dare nome
alle cose più modeste, alle emozioni più
timide, senza mai mettere in evidenza la
sua pur grande abilità verbale.
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Consegna del sigillo dell’Università
Un riconoscimento a due grandi maestri dell’antropologia e della pedagogia
Antonino Buttitta
Ordinario di Antropologia
Università di Palermo
Professore emerito di Antropologia culturale presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Palermo, di cui è stato Preside dal 1979 al 1992.
Ha insegnato Antropologia culturale all’Università
Cattolica di Milano e allo IULM di Milano. È
stato Direttore del Dipartimento di Beni Culturali-Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e
Geografici.
È stato: Presidente del Corso di Laurea in Beni
demoetnoantropologici e della Laurea Magistrale in
Antropologia culturale ed Etnologia della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo; Presidente della “Società Italiana di Studi Semiotici” e
Segretario generale della “International Association
for Semiotic Studies”; Presidente del Centro di
Studi Filologici e Linguistici Siciliani; Presidente
dell’Orchestra Sinfonica Siciliana.
E’ stato, inoltre, deputato al Parlamento Italiano
nell’XI Legislatura.
Attualmente è: Vice Presidente della Società Siciliana per la Storia Patria; Presidente della Scuola Internazionale di Scienze Umane; Direttore didattico
del Centro Sperimentale di Cinematografia - Scuola
Nazionale di Cinema, sede di Palermo.
Legato agli studi del grande poeta Ignazio Buttitta
(padre e maestro) e alle ricerche demologiche di
Pitrè e di Cocchiara, Antonino Buttitta affronta e
sviluppa i suoi interessi di studio lungo un doppio
versante: teorico ed empirico. A livello teorico
approfondisce la discussione epistemologica e metodologica dell’antropologia culturale in quanto
disciplina formale. Autorevoli i suoi interventi sui
nessi antropologia, semiotica, letteratura. A livello
empirico, molto note e di grande rilievo sono le
sue ricerche sulla cultura siciliana. A tal proposito,
occupandosi attivamente di museografia etnoantropologica, ha coordinato il Censimento dei Beni
Etnoantropologici della Sicilia nell’ambito della
legge della Regione Sicilia (l.37/1978), collaborando
all’istituzione di diverse strutture museali tra cui il
Museo Internazionale delle Marionette “Antonio
Pasqualino” di Palermo, il Museo Etnoantropologico della Valle del Belice, di Gibellina (TP), il Museo
della Vita e del Lavoro Contadino di Campobello di
Mazara (TP), il Museo del Sale nella Salina Culcasi
di Paceco (TP).
Ha fondato le riviste “Uomo & Cultura. Rivista di
Studi antropologici”, Palermo, Flaccovio; “Nuove
Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura”, Palermo, Edizioni Guida; “Archivio Antropologico
Mediterraneo”, Palermo, Sellerio, di cui è stato
direttore. Ha fondato e dirige “Thalassa”, Milano,
Bretschneider. Dirige inoltre la rivista “Sicilia”, Palermo, Flaccovio. Per la casa editrice Sellerio dirige
le collane: “Prisma” (oggi: “Nuovo Prisma”), “Tutto
e subito”, “Quaderni di poesia”.
Oltre ai numerosi contributi su riviste nazionali e
internazionali, si segnalano tra le altre, le seguenti
monografie: Cultura figurativa popolare in Sicilia,
Palermo, Flaccovio 1961; Ideologie e Folklore, Palermo,
Flaccovio 1971; La pittura su vetro in Sicilia, Palermo,
Sellerio 1972, 1991 n. ed.; Pasqua in Sicilia, Palermo, Graphindustria 1978; Semiotica e Antropologia,
Palermo, Sellerio 1979; Il Natale. Arte e tradizioni in
Sicilia, Palermo, Edizioni Guida 1985; Percorsi simbolici, Palermo, Flaccovio 1989; L’effimero sfavillio.
Itinerari antropologici, Palermo, Flaccovio 1995;
Dei segni e dei miti.Una introduzione alla antropologia simbolica, Palermo, Sellerio 1996; Del giuoco
o della giustizia. Della vita e della morte, Palermo,
Centro di Studi Filologici e Linguistici 1999; Pasqua in
Sicilia, Palermo, Promolibri 2003; Il mosaico delle
feste, Palermo, Flaccovio 2003.
Sono in corso di pubblicazione, per la casa editrice
Sellerio i volumi: Terra incognita. Viaggio intorno
alle strutture invisibili e Parole e scrittura. Studi di
antropologia della letteratura.
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Franco Frabboni
Ordinario di Pedagogia
Università di Bologna
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Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione
dell’Università degli Studi di Bologna di cui è stato
Preside dal 2000 al 2006.
È stato: Presidente della “Società Italiana di Pedagogia” (SIPED); Presidente dell’ “Istituto Regionale
di Ricerca Educativa” (IRRE) dell’Emilia Romagna;
Direttore del “Centro Interdipartimentale di Ricerca
Educativa” (CIRE) dell’Università degli Studi di
Bologna; Direttore della sede bolognese dell’ “Istituto
Gramsci”; Direttore della “Scuola di Specializzazione
per Insegnanti della Scuola Secondaria” (SSIS) di
Bologna. Attualmente è: Direttore della “Scuola
di Specializzazione per Insegnanti della Scuola
Secondaria” (SSIS) dell’Alto-Adige; Presidente della
“Società di Pedagogia e didattica della Scrittura Graphein”.
È stato, inoltre, membro di diverse Commissioni
ministeriali della Pubblica istruzione tra le quali la
Commissione che ha elaborato i Programmi didattici della scuola elementare (1985), la Commissione
che ha redatto gli Orientamenti programmatici della
scuola materna (1991), la Commissione che ha
redatto il Rapporto nazionale sullo stato della Ricerca
pedagogica in Italia (1991) e la Commissione che ha
elaborato le Indicazioni per il curricolo della scuola di
base (2007).
Scolaro di Giovanni Maria Bertin, Franco Frabboni
aderisce da sempre alle ragioni teoriche (Filosofia
dell’educazione) ed empiriche (Didattica generale) del
razionalismo critico di impostazione problematicista.
La sua ricerca scientifica ha attraversato più campi
dell’educazione e della formazione. Di particolare
rilievo è l’approfondita analisi del rapporto fra la
scuola e la cultura viva delle città e del territorio. Ha
contribuito ad innovare e animare il dibattito sulle
emergenze socioeducative della contemporaneità
fornendo un contributo fondamentale alla riflessione
sulle politiche scolastiche in Italia e in Europa. In
questo senso, ha posto al centro della sua ricerca
scientifica la fondazione epistemologica e progettuale
dei repertori formativi della scuola (scuola dell’infan
zia, scuola primaria e scuola secondaria di primo e di
secondo grado) e dell’extrascuola (famiglia, enti locali, associazionismo giovanile, mondo del lavoro, loisir
di massa) nella prospettiva di un Sistema formativo
integrato e di una Formazione per tutta la vita.
Ha fondato e dirige autorevoli riviste e collane
pedagogiche e didattiche. Tra le riviste, citiamo
“Pedagogia più didattica” (in co-direzione con M.
Baldacci, L. Dozza e F. Pinto Minerva), Trento,
Erickson; “Infanzia” (in co-direzione con Roberto
Farnè); “Albero a Elica” (in co-direzione con Pagliarini 1985-1988) e “Nuovo albero a elica” (in
co-direzione con Pagliarini 1988-1993), Soveria
Mannelli (CZ), Rubbettino editore; “Scuola Se”
Milano, Ethel-Giorgio Mondadori; “Riforma e
didattica”, Reggio Calabria, Falzea. Inoltre è stato
Direttore dell’ultima edizione della rivista storica
della sinistra su scuola e Università “Riforma della
scuola”, nei primi anni Novanta e ne dirige oggi la
nuova versione editoriale, con Davide Ferrari.
Tra le collane pedagogiche e didattiche ricordiamo,
la direzione de “Il mestiere dell’insegnante”, Torino,
Utet-Libreria; “Non solo scuola”, Lecce, Pensa;
“Sestante”, Napoli, Tecnodid; “Scienze dell’educazione” (in co-direzione con L. Guerra), Milano,
Bruno Mondadori; “Professione insegnante” (in
co-direzione con F. Pinto Minerva), Bari, Laterza;
“Fare scuola” (in co-direzione con F. Pinto Minerva
e G. Trebisacce), Bari, Laterza.
Nell’ambito della vasta produzione scientifica diversi
sono i filoni di ricerca approfonditi, tra i quali:
relativamente allo statuto epistemologico della
pedagogia, Fondamenti di pedagogia e di didattica
(in coll. con A. Canevaro, G. Cives, E. Frauenfelder, R. Laporta e F. Pinto Minerva), Roma-Bari,
Laterza 1993; Manuale di pedagogia generale (in
coll. con F. P. Minerva), Roma-Bari, Laterza 2000;
Società della conoscenza e scuola, Trento, Erickson
2005; Le parole della pedagogia. Teorie italiane e
tedesche a confronto, (a cura di, in coll. con G. Wallnofer, N. Belardi e W. Wiater), Torino, Bollati
Boringhieri 2007; La Pedagogia tra sfide e utopie (a
cura di, in coll. con G. Wallnofer), Torino, Bollati
Boringhieri 2009;
relativamente all’istituzione e alla ricerca sul Sistema
formativo, Il primo abecedario: l’ambiente (con A.
Galletti e C. Savorelli), Firenze, La Nuova Italia
1978 (anche tradotto in lingua spagnola); Scuola
e ambiente, Milano, Bruno Mondadori 1980; Il
sistema formativo integrato (a cura di), Teramo, EIT
1989; La città educativa (a cura di, in coll. con L.
Guerra), Bologna, Nicola Milano 1991; Educare
in città, Roma, Editori Riuniti 2006;
relativamente all’impegno nei confronti della scuola
italiana, La scuola dell’infanzia, Firenze, La Nuova
Italia 1974; La scuola elementare, Firenze, La Nuova
Italia 1977; Asilo nido e scuola materna, Firenze,
La Nuova Italia 1980; Scuola primaria (in coll.
con P. Bertolini), Firenze, La Nuova Italia 1981;
Pedagogia e didattica dei nuovi programmi per la
scuola elementare (in coll. con R. Maragliano e
B. Vertecchi), Firenze, La Nuova Italia 1984; Il
pianeta nido (a cura di), Firenze, La Nuova Italia
1985; La Scuola dell’infanzia (in coll. con F. Pinto
Minerva), Roma-Bari, Laterza 2008; Sognando una
scuola normale, Palermo, Sellerio 2009; La scuola
rubata, Milano, FrancoAngeli 2010.
Infine, per l’impegno nella ricerca di uno statuto
scientifico autonomo della didattica, Manuale di
didattica generale, Roma-Bari, Laterza 1993; Le
dieci parole della didattica, Milano Ethel-Giorgio
Mondadori 1994; Didattica generale e didattiche
disciplinari (in coll. con B. D’Amore), Milano,
Franco Angeli 1996; La qualità della didattica
nella scuola che cambia (in coll. con M.Baldacci),
Milano, FrancoAngeli 2001; Il curricolo, RomaBari, Laterza 2002; Laboratorio, Roma-Bari, Laterza
2004; Didattica e apprendimento, Palermo, Sellerio
2006.
con il contributo di
Fondazione Banca del Monte
di Foggia
Lauree
honoris causa
Economia
Antonio Filograna
Giuseppe Marra
William Santorelli
Tommaso Gozzetti
Luca Montrone
Giorgio Nebbia
Antonio Paride De Masi
Lettere e Filosofia
Joseph Tusiani
Mario Verdone
Raffaele Nigro
Renzo Arbore
Giurisprudenza
Luigi Ciotti
Scannerizza il QR code con il tuo cellulare
otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento
direttamente alla pagina Home dove troverai tutte le informazioni
riguardanti la Cerimonia.
Consorzio per l’Università
di Capitanata
LICEO ARTISTICO
PERUGINI
con la collaborazione di
Testi a cura di
Giuliano Volpe
Franca Pinto Minerva
Isabella Loiodice
Laura Marchetti
Dacia Maraini
Ufficio Stampa e Comunicazione
Maria Rosaria Lops
tel. 0881.338426
[email protected]
Staff organizzativo della cerimonia
Maria Rosaria Lops (Coordinatrice)
Veronica Dota
Alessandra Falcone
Maria Concetta Fioretti
Andrea Gammino
Fabio Iascone
Marianna Lamarca
Franco Pedarra
Rosa Russo
Progettazione grafica dell’evento
Paolo Grenzi
Referenze fotografiche
Archivio privato di Dacia Maraini
Foto di copertina
Giuseppe Moretti
Claudio Grenzi Editore
Via Le Maestre, 71 · 71121 Foggia
e-mail: [email protected]
sito: www.claudiogrenzi.it
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con il Patrocinio di
Regione Puglia
Provincia di Foggia
Comune di Foggia
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Cartella stampa - Giuliano Volpe, Rettore dell`Università degli Studi