acia araini Cerimonia di conferimento della Laurea honoris causa Dacia Maraini La vita, le opere Dacia Maraini nasce a Fiesole il 13 novembre del 1936. La madre, Topazia, è pittrice e appartiene a un’antica famiglia siciliana, gli Alliata di Salaparuta. Il padre, Fosco Maraini, per metà inglese e per metà fiorentino, è un etnologo conosciuto che ha scritto diversi libri sul Tibet e sul Giappone. I primi anni Anni Sessanta Desideroso di lasciare l’Italia fascista, Fosco Maraini partecipa ad un concorso internazionale e vince una borsa di studio per uno studio sugli Hainu nel nord del Giappone, dove andrà a vivere con la sua famiglia, tra il 1938 e il 1947. Gli Hainu sono una popolazione in via di estinzione stanziata nell’Hokkaido. Dal 1943 al 1946, la famiglia Maraini, insieme con altri italiani, è internata in un campo di concentramento, per essersi rifiutata di riconoscere ufficialmente il governo militare giapponese. Questo governo, infatti, nel ‘43 aveva fatto un patto di alleanza con l’Italia e la Germania e chiese ai coniugi Maraini di firmare l’adesione alla repubblica di Salò, cosa che appunto non fecero. Nella sua collezione di poesie “Mangiami pure”, del 1978, la scrittrice racconta proprio delle atroci privazioni e sofferenze, provate in quegli anni, fortunatamente interrotte dall’arrivo degli americani. Rientrata in Italia, la famiglia Maraini si trasferisce in Sicilia, presso i nonni materni, nella Villa di Valguarnera di Bagheria, dove le tre figlie cominciano gli studi. La povertà è una costante di quegli anni di difficile adattamento al nuovo ambiente. Qualche anno dopo la famiglia si divide. Il padre va ad abitare a Roma, la madre resta a Palermo con le tre bambine che frequentano le scuole della città. Quando Dacia Maraini compie i diciotto anni decide di andare a vivere a Roma con il padre. Qui prosegue il liceo, si arrangia per guadagnare, facendo lavori diversi: l’archivista, la segretaria, la giornalista di fortuna. A ventuno anni fonda, insieme con altri giovani, una rivista letteraria, “Tempo di letteratura”, edita da Pironti a Napoli e comincia a collaborare con riviste quali “Paragone”, “Nuovi Argomenti”, “Il Mondo”. Nel corso degli anni Sessanta si sposa con Lucio Pozzi, pittore milanese (dal quale si divide dopo quattro anni di vita in comune) e pubblica i suoi primi romanzi. Nel 1962 presso l’editore Lerici: “La vacanza”. Nel 1963 “L’età del malessere” che ottiene il premio internazionale degli editori “Formentor”. Il terzo romanzo “A memoria” del 1967 è pubblicato da Bompiani. Per la Feltrinelli con il titolo “Crudeltà all’aria aperta” pubblica nel 1966 le sue poesie. Il libro viene recensito con molto favore dallo scrittore Guido Piovene. Nel corso di questi anni Dacia Maraini comincia ad occuparsi anche di teatro fondando, insieme ad altri scrittori, il Teatro del Porcospino, in cui si rappresentano solo novità italiane: Gadda, Moravia, Wilcock, Siciliano, Maraini e Parise. Lei stessa, dalla seconda metà degli anni Sessanta scriverà molti testi teatrali, tra i quali: “Maria Stuarda”, che ottiene un grande successo internazionale (tradotto e rappresentato in ventuno paesi e ancora si continua a rappresentare); “Dialogo di una prostituta con un suo cliente”, pubblicato da Images di Padova, (tradotto e rappresentato negli anni seguenti prima a Bruxelles, poi a Parigi e quindi a Londra e ancora in quattordici paesi diversi); “Stravaganza”; fino ai recenti “Veronica, meretrice e scrittora” e “Camille”. A Roma incontra Alberto Moravia che nel 1962 lascia la moglie e scrittrice Elsa Morante, per lei. Nel 1968 esce un libro di racconti, “Mio marito” edito da Bompiani, due anni dopo Einaudi pubblica il suo libro di teatro “Ricatto a teatro e altre commedie’’. Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina dove troverai i contenuti integrali di questo articolo. Anni Settanta - Ottanta Anni Novanta Anni Duemila Nel 1973 fonda, assieme con Lù Leone, Francesca Pansa, Maricla Boggio e altre, il teatro della Maddalena, gestito e diretto da donne. Il teatro, infatti, è sempre per Dacia Maraini anche un luogo per informare il pubblico riguardo a specifici problemi sociali e politici. Nel 1972 viene pubblicato il romanzo “Memorie di una ladra”, dal quale Monica Vitti ne ricava il film “Teresa la ladra” e nel 1975 esce per Einaudi “Donna in guerra”, pubblicato in sei lingue.Nel 1980 esce “Storia di Piera” scritto in collaborazione con Piera Degli Esposti. Il libro avrà otto edizioni. Marco Ferreri ne ricaverà un film con Marcello Mastroianni, Hanna Shigulla e Isabelle Huppert. Del 1984 è il romanzo “Il treno per Helsinki”, edito da Einaudi. Il libro viene tradotto in cinque lingue. Nel 1985 segue “lsolína” pubblicato da Mondadori (Premio Fregene 1985, ripubblicato da Rizzoli nel 1992; tradotto in cinque paesi). Nel 1990 esce “La lunga vita di Marianna Ucrìa” accolto molto positivamente dalla critica e dal pubblico. Il libro riceve, il premio Supercampiello. Pochi mesi dopo gli sarà assegnato il premio “Libro dell’anno 1990” (tradotto in diciotto paesi), da cui è stato tratto l’omonimo film di Roberto Faenza “Marianna Ucrìa”; oltre i premi: Quadrivio (Rovigo), Apollo (Salerno), “Reggio Calabria”. Nel 1991 esce una raccolta di poesie dal titolo “Viaggiando con passo di volpe”, edizione Rizzoli (Premi: Mediterraneo 1992 e Città di Penne 1992).Ancora nel 1991 viene pubblicato il libro di teatro “Veronica, meretrice e scrittora” che prende il premio “Fondi La Pastora” nel 1992. Nel 1993 esce, presso Rizzoli, il libro “Bagheria” che conosce subito un buon successo di pubblico e di critica. Intanto, il teatro Stabile di Catania rappresenta la versione teatrale di “Marianna Ucrìa” con l’adattamento dell’autrice, la regia di Lamberto Pugelli, la partecipazione di Paola Mannoni e Umberto Ceriani. Nel 1994 viene pubblicato il romanzo “Voci”(Premi: Vitaliano Brancati - Zafferana Etnea 1997; Città di Padova 1997; Internazionale per la Narrativa Flaiano 1997; tradotto in sette paesi). Nel 1996 esce il saggio “Un clandestino a bordo”. Nel 1997 un altro romanzo: “Dolce per sé”, Nel 1998 viene pubblicata l’antologia di poesia “Se amando troppo”. Del 1999 il libro di racconti “Buio” la violenza sull’infanzia e sull’adolescenza raccontata in dodici storie, che riceve il premio Strega. Sempre pubblicati dall’editore Rizzoli seguono “Fare teatro (1966-2000)” che raccoglie quasi tutta l’opera teatrale di Dacia Maraini, “Amata scrittura”, un libro sulla trasmissione televisiva condotta dall’autrice, nel 2000, e nel 2001 “La nave per Kobe” (il viaggio che la famiglia Maraini compì per raggiungere il Giappone, da Brindisi a Kobe). Nello stesso anno Fabbri pubblica il libro di favole “La pecora Dolly”. Nel 2003 scrive “Piera e gli assassini” in collaborazione con Piera degli Esposti.Nel 2004 la scrittrice pubblica con Rizzoli il romanzo “Colomba”, nel quale accompagna i lettori alla scoperta di una storia dai contorni fiabeschi: una ragazza scompare nei boschi del parco nazionale dell’Abruzzo, la sua giovane nonna prende a cercarla. I motivi della ricerca si mescolano con quelli della memoria familiare e della memoria collettiva di una regione che ha conosciuto la povertà, la pastorizia, il brigantaggio, il terremoto, l’emigrazione di massa. Dacia Maraini è oggi una tra le più conosciute scrittrici italiane, e probabilmente la più tradotta nel mondo. La fama della Maraini è dovuta inoltre anche al suo grande talento come critico, poetessa e drammaturgo. Si è dedicata e continua a dedicarsi al teatro, che vede come il miglior luogo per informare il pubblico riguardo a specifici problemi sociali e politici. Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina dove troverai i contenuti integrali di questo articolo. Il saluto del Rettore di Giuliano Volpe 4 Autorità, gentili ospiti, cari colleghi, collaboratori tecnici e amministrativi e studenti, nel porgere il mio più cordiale saluto a tutti Voi, intervenuti così numerosi oggi per rendere omaggio a Dacia Maraini, desidero subito esprimere al nostro illustre ospite, insieme a un caloroso benvenuto, le più vive felicitazioni per la Laurea honoris causa in Progettista e dirigente dei servizi educativi e formativi, onorificenza di cui il nostro Ateneo non è solito abusare e che tra poco gli verrà conferita e, insieme, il ringraziamento per averla accettata. Nella storia di ogni Università, il conferimento di una Laurea honoris causa costituisce sempre un atto di grande rilevanza accademica con il quale si riconosce e si premia il prestigio di una personalità davvero eminente. Sono particolarmente lieto che questo riconoscimento venga proposto e conferito dalla più giovane delle nostre Facoltà, quella di Scienze della Formazione, che, tra mille difficoltà, ma con grande entusiasmo e passione della sua Preside e di tutti i suoi docenti e collaboratori amministrativi, e con il nostro pieno appoggio, si sta affermando e sta crescendo, non solo nell’ambito del polo umanistico della nostra Università, che rappresenta il suo naturale contesto, ma anche con intensi e vitali rapporti con le altre aree scientifiche dell’Ateneo e con collaborazioni con tante realtà accademiche italiane e straniere. È anche grazie a questa vitalità, all’impostazione multidisciplinare, alle aperture ai vari campi della pedagogia, dell’educazione e della formazione, delle scienze sociali e delle arti, che la Facoltà sta riscuotendo tanto successo sia tra gli studenti sia tra gli addetti ai lavori e sta ricevendo grande consenso e attenzione in questo territorio. Sono molto felice che questa sia anche l’occa- sione per consegnare il sigillo d’oro dell’Università a due grandi maestri della pedagogia e dell’antropologia, a due grandi uomini della cultura, dell’università e dell’impegno politico e civile, molto legati al nostro Ateneo: Franco Frabboni e Antonino Buttitta. Sono convinto che la Laurea honoris causa a Dacia Maraini costituisca in questo senso un ulteriore segnale di slancio della Facoltà, di cui la grande scrittrice e donna di cultura diventa da oggi la più autorevole laureata. Le ragioni che hanno suggerito questo conferimento, saranno illustrate ampiamente, tra poco, dalla preside della Facoltà, professoressa Franca Pinto Minerva e dalla collega Isabella Loiodice, leggendo rispettivamente la Motivazione e la Laudatio. Consentitemi tuttavia di sottolineare brevemente alcuni elementi che, in qualche modo, accomunano la nostra ospite alla vita e all’impegno del nostro Ateneo. La figura di Dacia Maraini si segnala in maniera straordinaria nel panorama letterario italiano e internazionale per la sua capacità di rileggere forme e generi della tradizione in modo innovativo. La sua esperienza intellettuale è oggi paradigmatica, in quanto rappresenta una delle punte più avanzate della nostra cultura, proprio per aver operato una riflessione sul ruolo che oggi la letteratura e, più in generale, la scrittura possono recitare, per aver concepito una scrittura radicata nella tradizione, che parla al presente e che sa proiettarsi nel futuro. A dimostrarlo sta senza alcun dubbio la sua vastissima produzione narrativa, una narrativa che rivisita il genere romanzo, a cui viene dato nuovo spessore, coniugando l’indagine storica e la sensibilità di interrogare la storia stessa dal punto di vista delle protagoniste femminili che animano la sua scrittura; ma stanno anche, come accennavo, le acute riflessioni sul ruolo della scrittura nella nostra società, sulla sua capacità di essere spazio di analisi, oltre che di rappresentazione oggettiva e di autoriflessione. Anche la nostra giovane Università si caratterizza per la sua forte volontà di radicamento nel passato, nel patrimonio culturale della Capitanata, e per la sua capacità di progettare il futuro, il suo essere un laboratorio nel quale sperimentare, innovare, produrre nuove idee, favorire la capacità di accumulare e confrontare saperi, di riflettere criticamente, di produrre innovazione, di sviluppare una conoscenza dinamica dei problemi della natura, delle scienze, della società, dell’uomo. Una Università con un piede saldo nel passato e lo sguardo libero aperto sul futuro. Il suo modo peculiare di guardare alla realtà e di rapportarsi con essa con approcci e prospettive diversi, non è dissimile da quello adottato da questa grande scrittrice, che rifugge da una lettura unica e unilaterale del mondo, privilegiando una visione plurale, capace di cogliere la vera essenza proprio attraverso i suoi più disparati e molteplici aspetti, di scavare nel profondo delle persone e delle cose. In secondo luogo, desidero richiamare la grande forza comunicativa di Dacia Maraini, tale da sedurre un pubblico molto ampio ed eterogeneo di lettori anche per lo straordinario equilibrio tra tradizione e modernità, di passato e di futuro, di cui si nutre. Un equilibrio che caratterizza anche l’impostazione dell’Università degli studi di Foggia, fortemente legata alla storia e alle tradizione del suo territorio, la Capitanata, e finestra aperta sul mondo. Dacia Maraini è sicuramente tra gli autori italiani più noti e tradotti al mondo, molto amato dal pubblico e apprezzato dalla critica per la sua attività di scrittrice e di donna da sempre caratterizzata dall’impegno civile, per i diritti delle donne e delle minoranze, per la sensibilità culturale e sociale. Una scrittrice impegnata da sempre nella difesa del ruolo e della dignità delle donne, un ruolo e una dignità sempre più mortificati, come ci dimostrano tristemente anche episodi e dichiarazioni di questi ultimi giorni. Di Dacia Maraini non apprezziamo solo la forza narrativa. Attraverso la sua opera, infatti, lei ci offre da anni stimoli per un’acuta e sincera riflessione civile. La sua presenza ci onora quindi doppiamente perché la stimiamo sia come scrittrice di fama internazionale sia come attenta osservatrice e protagonista della vita culturale e dell’esperienza politica e democratica del nostro Paese. È proprio questo intreccio di sensibilità culturale e civile che ha spinto l’Università di Foggia a conferirle l’onorificenza accademica che tra poco riceverà. Voglio concludere questo mio breve saluto con un’immagine delicata ma efficace, che appartiene alla stessa Maraini - straordinaria narratrice di immagini - e riassume forse il senso di tutta la sua opera: “compito dello scrittore … è di svelare una realtà poco visibile ad occhio nudo, di mostrare il lato nascosto delle persone, delle storie, correndo magari il rischio di sconcertare il lettore”. È per questa sua continua ricerca, è per questo straordinario impegno letterario e civile, che l’Università degli studi di Foggia si onora oggi di conferire a Dacia Maraini la Laurea Specialistica honoris causa in Scienze della Formazione. La motivazione di Franca Pinto Minerva Preside della Facoltà di Scienze della Formazione Il Consiglio della Facoltà di Scienze della Formazione, nella seduta del 14 gennaio 2009 si è così espresso in relazione al conferimento della Laurea honoris causa a Dacia Maraini: “La Preside propone di conferire a Dacia Maraini la laurea ad honorem in Scienze della Formazione - Laurea Specialistica in Progettista e Dirigente dei Servizi Educativi e Formativi per la funzione altamente educativa del suo impegno di donna scrittrice e di cittadina del mondo. Attraverso la ricca e multiforme produzione di opere di narrativa, di poesia, di saggistica, di testi per il teatro, di articoli e interviste per la stampa e la televisione, di racconti per adulti e bambini, Dacia Maraini ha saputo tracciare - utilizzando sapientemente generi letterari e registri linguistici differenziati - il profilo complesso della società di questi ultimi decenni, delle persone che l’hanno abitata, degli eventi che l’hanno connotata, delle problematiche che l’hanno attraversata. Lo ha fatto con lo sguardo attento e critico di una donna che ha saputo varcare, attraverso il medium narrativo, i confini del tempo e dello spazio facendo dialogare tra loro passato e presente, vicino e lontano, uguale e diverso, riunificandoli nel comune sentire di personaggi - in maggioranza figure femminili - che assumono quasi sempre un aspro valore di denuncia. Denuncia contro i conformismi, gli ideologismi, le violenze fisiche e psicologiche che colpiscono quei soggetti “invisibili” in una società dell’apparenza, del consumo e del profitto: i bambini innanzitutto, ma anche le donne e, ancora, gli animali, le piante, l’ambiente. Lo ha fatto utilizzando la parola scritta, una parola che non si è mai lasciata rinchiudere negli spazi circoscritti di una pagina ma che è sempre stata strumento di liberazione del pensiero e delle emozioni, e per ciò stesso occasione di emancipazione e di crescita, intellettuale e valoriale, per i suoi lettori e le sue lettrici. Attraverso le molteplici forme narrative utilizzate (e in particolare attraverso il linguaggio affabulatorio del romanzo), essi hanno potuto sperimentare la dimensione del viaggio, costitutiva della biografia stessa di Dacia Maraini e autentico “filo rosso” delle sue scritture. Un viaggio nei luoghi ma anche nei pensieri e nei sentimenti dei suoi personaggi, investigati con uno sguardo anch’esso nomade, mai definitivo e prescrittivo ma aperto alla originalità delle molteplici versioni del mondo. La sensibilità culturale, lo spessore intellettuale, la valenza politica (nel senso più alto del termine) della sua produzione letteraria e del suo impegno sociale e civile sono saldi punti di riferimento, imprescindibili per la formazione delle giovani generazioni ai valori della responsabilità, della solidarietà e del dialogo (tra le lingue, le fedi e le culture, tra i generi e le generazioni) nel rispetto delle reciproche diversità. La indiscussa rilevanza educativa dell’opera di Dacia Maraini giustifica pienamente il conferimento della Laurea specialistica in Progettista e Dirigente dei Servizi Educativi e Formativi. Il Consiglio approva all’unanimità”. 5 Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina dove troverai i contenuti integrali di questo articolo. Laudatio di Isabella Loiodice Ordinario di Pedagogia generale e sociale 6 Io sono nata viaggiando. I miei primi ricordi sono memorie di viaggio: un mare in tempesta, un orizzonte illuminato da una specie di serpente arrotolato nel suo argento che era la luna piena. (....) ricordo sonni disperati fra le braccia morbide della mia giovane madre mentre fuori dal finestrino i lampioni di una strada si susseguivano con ritmo convulso. (...) Ricordo aspri risvegli e pavimenti instabili (...). Ricordo attese infinite, accucciata nel corridoio di un treno così colmo che non c’era posto sui sedili (...). Ho saputo solo più tardi, da grande, che il viaggio era un male di famiglia. Il viaggio nel sangue, si potrebbe dire, come parte di un Dna segnato dall’inquietudine motoria e dalla curiosità geografica. Una delle poche cose certe è che viaggiando si allunga il tempo. Non c’è cosa che restringa lo spazio vitale come la ripetizione dei gesti, delle abitudini. Il tempo delle abitudini appare eterno, ma nel ricordo ha la durata di un attimo (...). Io non tengo diari quando sto nella mia casa di Roma, appena mi metto a viaggiare sento il bisogno di fermare sulla carta i pensieri che scappano, chiudendoli in quel progetto di memoria che ogni scrittura porta con sé (...). Ecco, ho voluto iniziare questa laudatio offrendo al pubblico - al Magnifico Rettore, ai colleghi e agli studenti, alle autorità civili e religiose, a tutte le persone oggi presenti - uno stralcio dell’ultimo lavoro di Dacia Maraini, questo bel libro appena pubblicato da Rizzoli dal titolo La seduzione dell’altrove, con il quale L’Autrice coinvolge i suoi lettori nel fascino del viaggio: dei viaggi realmente esperiti (fin dall’infanzia e per tutta la vita, nel caso di Dacia Maraini) ma anche dei viaggi che non sono negati a nessuno perché vissuti e ri-vissuti attraverso il racconto di storie, reali e fantastiche. Rivissuti perché la straordinarietà delle storie è proprio quella di intrecciare, in nuove e sorprendenti biografie, le memorie dello scrittore e del lettore, della scrittrice e della lettrice, fondendo vicino e lontano, quotidiano e straordinario, conosciuto e immaginato. Narrare diventa così - nelle mille forme che esso può assumere - il medium, la via attraverso cui, nel corso dei secoli e nei luoghi più lontani della Terra, le persone hanno attribuito significati alle cose, avuto conferma della loro stessa esistenza, costruito il “laboratorio di senso della propria vita”. Ne La fabbrica delle storie Bruner scrive: “Narrare è la nostra capacità di modellare l’esperienza quotidiana, il nostro modo di relazionarci alla realtà, di interrogarci e risponderci sul senso del mondo, degli altri, di noi stessi” (Laterza, Roma - Bari 2002). Diremmo, con Bruner come con Ricoeur, che alla narrazione è affidato il compito della costruzione della nostra stessa identità nel segno della continuità, nel senso cioè di interconnettere passato, presente e futuro, vivendoli e rivivendoli, ri-appropriandoci dell’esperienza vissuta e dandole nuova forma, nuovo spessore, nuova interpretazione: ogni volta diversa, inedita, sempre aperta al possibile dell’interpretazione anche se, nella realtà, già compiuta. Bene. Tutta la lunga e ricca produzione letteraria di Dacia Maraini si muove nel segno della memoria, dell’esistente ma anche del possibile. Una produzione letteraria ricchissima, che si compone di una molteplicità di scritti: dalle opere di narrativa e di poesia alla sua produzione per il cinema e per il teatro, dai racconti (compresi quelli per i bambini) ai saggi, dalle interviste ai testi per la stampa e la televisione. Mi è piaciuta molto e - voglio riportarla - una dichiarazione di Dacia Maraini su Paese sera del 1981 in cui, alla domanda: Quale genere preferisci: Il teatro, il romanzo, la poesia, il giornalismo? così risponde: Scrivere un romanzo per me è come costruire una casa, scrivere una poesia è come navigare su un guscio di noce in mare aperto, fare teatro è come guidare un carretto in mezzo ad un traffico caotico di camion e autobus, fare giornalismo è come camminare sulla sabbia. Ci sono momenti in cui ti va di costruire una casa, ma ci vogliono anni ed è faticosissimo. Ci sono momenti in cui mi va di guidare un carretto; anche se sono abbastanza stufa del teatro povero e di cantina. Camminare sulla sabbia mi stanca e non esalta, ma rende forti le gambe. Una produzione letteraria, dunque, complessa e multiforme, cui non a caso ha da sempre corrisposto un grande successo, di pubblico e di critica. Successo di pubblico, se si considera la diffusione dei suoi scritti in tutto il mondo, evidente anche nella molteplicità di traduzioni che le sue opere hanno avuto, prima fra tutte il conosciutissimo romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa, del 1990, tradotto in diciotto lingue o il romanzo Voci, del 1994, che è stato tradotto in dieci lingue. Successo di critica, se si considera che Dacia Maraini ha ricevuto la gran parte dei premi letterari italiani (dal Premio Formentor del 1962 al SuperCampiello del 1990 al Premio Strega del 1999, solo per citare i più conosciuti). La sue scritture, così ricche e diversificate nel genere e nel contenuto, si sono dunque sempre incrociate con altri linguaggi, in primis con quello teatrale. «Il mio è un innamoramento, io amo il teatro e considero l’atto rituale dell’apertura del sipario un momento di grande emozione». Così scrive Dacia Maraini nel suo Fare Teatro, del 2000, una raccolta in due volumi che comprende la produzione teatrale di più di trent’anni di lavoro, dal 1966 al 2000, in cui trovano posto storie e personaggi soprattutto femminili del passato e del presente. Tra i suoi testi teatrali, uno dei più diffusi, Maria Stuarda, ha avuto decine di rappresentazioni in paesi diversi e altrettanta diffusione ha conosciuto il testo teatrale Dialogo di una prostituta con un suo cliente, scritto nel 1973. Dello stesso romanzo Marianna Ucrìa viene rappresentata a Catania la versione teatrale, con l’adattamento dell’Autrice. L’amore per il teatro, peraltro, è subito evidente non solo nella produzione di testi teatrali ma anche nella costituzione di teatri: già negli anni Sessanta, insieme ad altri scrittori, fonda il Teatro del Porcospino e, negli anni Settanta, il teatro della Maddalena, gestito e diretto da donne e dove vengono rappresentate principalmente storie di donne. Nella sua ricerca di contaminazioni si colloca anche la collaborazione con il medium televisivo: nel 2000 conduce su Rai2 il programma Io scrivo tu scrivi, da cui, non a caso, nasce un libro - Amata scrittura - che è un racconto d’amore (potremmo così definirlo) per la lettura e la scrittura. Un libro in cui Dacia Maraini percorre i sentieri della scrittura disvelandone i segreti attraverso le parole di autori come Isabel Allende, Andrea Camilleri, Rosetta Loy, Mario Luzi, Claudio Magris, chiamati a discutere sulla propria e altrui scrittura. Un amore - quello per la lettura e la scrittura - di cui fa parlare anche i personaggi dei suoi romanzi, a partire da quello più rappresentativo in quanto “scelto” dai suoi lettori che è Marianna Ucrìa: Fuori è buio. Il silenzio avvolge Marianna sterile e assoluto. Fra le sue mani un libro d’amore. Le parole, dice lo scrittore, vengono raccolte dagli occhi come grappoli di una vigna sospesa, vengono spremuti dal pensiero che gira come una ruota di mulino e poi, in forma liquida si spargono e scorrono felici per le vene. E questa la divina vendemmia della letteratura? Trepidare con i personaggi che corrono fra le pagine, bere il succo del pensiero altrui, provare l’ebbrezza rimandata di un piacere che appartiene ad altri. Esaltare i propri sensi attraverso lo spettacolo sempre ripetuto dell’amore in rappresentazione, non è amore anche questo? Che importanza ha che questo amore non sia mai stato vissuto faccia a faccia direttamente? assistere agli abbracci di corpi estranei, ma quanto vicini e noti per via di lettura, non è come viverlo quell’abbraccio, con un privilegio in più, di rimanere padroni di sé? Parlavamo dunque di contaminazioni tra i linguaggi. E allora, accanto al linguaggio televisivo si segnala quello giornalistico, con la collaborazione, tra gli altri, al quotidiano “Il Corriere della sera” e al suo inserto settimanale “Io donna”, i cui articoli vengono poi ripresi nella sua produzione saggistica come I giorni di Antigone. Quaderno di cinque anni, edito nel 2006 e che ripercorrono (rileggendoli, con lo sguardo silenzioso ma attento dell’eroina Antigone) eventi tragici, che attraversano le nostre vite ma che spesso, non le scalfiscono neanche: storie che uniscono destini drammatici di donne che abitano terre molto distanti tra loro e che - grazie alle parole di grande denuncia civile di altre donne come Dacia Maraini - lasciano traccia dei loro diritti negati e pongono le basi della speranza in un futuro diverso, in un cambiamento possibile. Non si può dimenticare, infine, la contaminazione letteraria con quella cinematografica, non solo per lo spunto che alcune sue opere di narrativa hanno dato a trasposizioni cinematografiche come Storia di Piera o Teresa la ladra e, ovviamente, Marianna Ucrìa ma anche, ad esempio, alla collaborazione nella sceneggiatura del film Il fiore delle mille e una notte di Pier Paolo Pasolini, a cui l’Autrice è stata legata da un’amicizia profonda, fortificata da esperienze, viaggi, interessi e ideali comuni. La storia di ciascuno di noi è intessuta di incontri, di relazioni, con persone, che in un modo o nell’altro, hanno poi segnato la nostra vita. E questi incontri compongono come un mosaico - un bellissimo mosaico - la biografia di una intellettuale raffinata qual è Dacia Maraini che proverò, scusandomi in anticipo per qualche inesattezza, a ripercorrere, contrassegnandola via via con quei “ciottoli” che ne hanno tracciato il percorso, e cioè i suoi scritti. Dunque, Dacia Maraini nasce nella seconda metà degli anni Trenta a Fiesole, dallo scrittore ed etnologo Fosco Maraini e da Topazia, giovane donna, pittrice, di antica e nobile famiglia siciliana, gli Alliata di Salaparuta. Nella sua vita, nel suo temperamento, nelle sue scelte esistenziali (prima fra tutte quella del viaggiare), sono visibili le tracce biografiche del padre e della madre ma anche dei nonni materni e paterni: condivide la passione per la scrittura oltre che con il padre Fosco, con la nonna paterna (e i suoi scritti di viaggio), con il nonno materno (e i suoi scritti filosofici e teosofici) ma, è evidente, il linguaggio delle sue parole è intriso anche dell’incontro con il linguaggio della pittura (la madre era pittrice), quello della scultura (il nonno paterno era scultore) e quello della musica (la passione negata della nonna materna per la lirica). Linguaggi, passioni, attitudini e modi di vita molto diversificati così come diverse e molteplici sono le provenienze geografiche dei componenti della sua famiglia: ricordiamo le origini siciliane della madre ma anche, ad esempio, quelle inglesi della nonna paterna e quelle cilene della nonna materna. Intrecci, ancora intrecci: intrecci anche di lingue se, come racconta Dacia, il suo amore per la lingua e la letteratura italiana è nato da “straniera”: ritornata in Italia dal Giappone all’età di undici anni, conosceva benissimo il giapponese, parlava la lingua inglese ma il suo italiano era stentato. E dunque continuando in questa veloce ricostruzione biografica, non si può non fare riferimento a quel periodo della vita - dei primi anni di vita - trascorso in Giappone, dove si era recata con il padre e la madre (le due sorelle - Yuki e Toni - nasceranno entrambe in Giappone) perché il padre, etnologo, aveva vinto una borsa di studio per condurre una ricerca sugli Hainu, una popolazione del nord del Giappone e anche per fuggire dal fascismo. Sarà sempre a causa dell’antifascismo del padre e della madre che tutta la famiglia sarà rinchiusa in un campo di concentramento in Giappone, la cui esperienza di dolore, di stenti e di privazioni (non solo materiali ma anche e soprattutto di privazione della libertà) compare in alcuni suoi scritti, a partire dalla raccolta di poesie Mangiami pure del 1978. Un ricordo, quello del Giappone, che a distanza di anni si colora dei toni dell’affettività - ne La seduzione dell’altrove, il racconto dedicato a questa terra si intitola “Caro Giappone”: «Mi sei stato madre e padre, e hai lasciato tracce incancellabili sul mio destino», scrive Dacia - un’affettività che però non dimentica i contrasti, le contraddizioni di una terra «potente e fragile» nello stesso tempo, come Lei la definisce. Tra le tante “appartenenze”, anche quella alla terra siciliana, dove torna all’indomani della guerra, al suo ritorno dal Giappone, dove trascorre gli anni della sua adolescenza nella villa di Valguarnera, residenza della famiglia Alliata e dove “ritorna”, adulta, in occasione della morte della nonna. Questa terra, questi luoghi, le storie, di un passato più e meno lontano, ispirano due fra i romanzi più conosciuti di Dacia Maraini: La lunga vita di Marianna Ucrìa del 1990 e Bagheria del 1993. Due libri fortemente autobiografici, come ha scritto la stessa Autrice, attraverso cui è stato possibile “risolvere” un conflitto sommerso con la terra siciliana, una «lunga notte, fatta di dimenticanze volute» (scrive in un articolo de L’Aquario del 1991) da cui è stato possibile uscire, passando appunto dalla lunga notte a un «mattino felice» attraverso il racconto di questa sua antenata sordomuta del ‘700 rappresentata in un ritratto trovato nella villa di Valguarnera. Una storia, quella di Marianna Ucrìa, che attraverso la ricostruzione romanzata della vita di una donna vissuta secoli prima le ha consentito di stabilire quella iniziale distanza dalle proprie memorie, più intime e personali, che viene poi superata nel libro Bagheria, un autentico “viaggio” nei ricordi della propria infanzia vissuta nella cittadina siciliana ma anche, ancora una volta, una incursione nella storia, nelle storie, della villa di famiglia e delle persone che l’avevano abitata. In questo racconto, peraltro, trovano spazio i pensieri, le emozioni che la legano a una delle figure più importanti della sua vita e che in qualche modo disegnano la sua biografia e le sue produzioni letterarie: il rapporto con il padre Fosco. Figura complessa, problematica, ricchissima quella del padre: etnologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore e poeta, sempre presente pur nelle sue lunghe assenze da casa, presente con i racconti dei suoi viaggi, con il fascino del suo vagabondare che riempiva la casa, al suo ritorno, dei suoni, dei colori, degli odori di terre lontanissime e sconosciute. Il fascino di quell’“altrove”, che trascina con sé, contraddittoriamente, la seduzione e la paura verso altri luoghi e, soprattutto, verso gli “altri” diversi da noi; il fascino del viaggio che «mi è amico e che conosco da quando ero bambina» (scriverà nella Prefazione alla raccolta di poesie Viaggiando a passo di volpe del 1991); un fascino che tiene avvinta a sè Dacia a partire, appunto, dall’esperienza di vita del padre, di cui racconterà nel libro ll gioco dell’universo. Dialoghi immaginari tra un padre e una figlia sul rapporto con il padre del 2007 in cui, in forma romanzata, racconterà della vita di un intellettuale complesso qual era suo padre, ricostruendola attraverso i diari e gli appunti di viaggio di Fosco, commentati e riletti con l’occhio della “figlia” e della “scrittrice”. Allo stesso modo, La nave per Kobe, del 2001, diventa l’occasione per “riannodare” la propria infanzia con la vita di sua madre (anche grazie al ritrovamento dei diari della madre Topazia, che contengono le annotazioni relative agli anni trascorsi in Giappone, a partire dalla traversata in mare fino al periodo, terribile, trascorso nel campo di concentramento a Nagoya, ricordi a cui Dacia rende un amoroso omaggio riportando in appendice alcune pagine e foto originali dei diari materni). E’ un annodarsi e riannodarsi - intrecci, sempre intrecci - tra la propria memoria e quella di sua madre attraverso i suoi diari, in un andirivieni tra il proprio passato e il proprio presente e quello delle persone care di cui solo a distanza di tempo riconosciamo, con una nostalgia struggente, il peso che hanno avuto nella nostra vita: l’amore autorevole, deciso e decisivo nel caso 7 8 della madre Topazia, un amore non sempre visibile durante l’infanzia perché in parte occultato dal fascino prepotente della figura paterna ma infine riconosciuto, in età adulta, e pienamente legittimato perché riemerso all’improvviso attraverso la scoperta dei diari materni. Così scrive nell’incipit del libro La nave per Kobe: Mio padre un giorno mi ha regalato questi quaderni, dicendo “Ti riguardano, prendili”. Ho cominciato a sfogliarli e mano a mano che andavo avanti ero acciuffata dalla commozione. Il passato ha la capacità di saltarti addosso a tradimento attraverso una fotografia, una lettera. Ti racconta di un tempo che non c’è più e che pure si fa vivo ai tuoi occhi con una vivacità e una corposità assolutamente insospettate. Certo dà le vertigini questo rincorrersi di storie e di memorie che ci ricorda come la nostra identità sia intessuta di alterità, a partire dall’alterità interna a ciascuno di noi (tra il nostro passato, presente e futuro, tra la parte consapevole e razionale, quella inconscia e pulsionale e quella etica e progettuale) per incrociarsi con le tante altre alterità che incontriamo nel corso della vita: quelle a noi più vicine dei nostri familiari e quelle dei nostri amici, quelle delle persone che solo sfioriamo perché le incrociamo concretamente o perché le conosciamo attraverso i racconti, reali e immaginari. Persone che fanno anche la nostra storia, che impregnano le nostre idee e i nostri sentimenti, per i quali spesso siamo disposti a mettere in gioco la nostra stessa vita. Non a caso, per Dacia Maraini, la passione civile e sociale, la sua adesione alle ragioni del femminismo, il suo impegno per la salvaguardia dei diritti dei più indifesi (come i bambini) si intrecciano costantemente con le vicende, e le persone, della sua vita: vicende gioiose, come l’incontro con persone importanti per la sua esistenza quali Alberto Moravia, e vicende tristi, spesso drammatiche, come può essere la perdita di un figlio prima della sua nascita. Relazioni, e sentimenti, che contraddistinguono la vita della “donna” Dacia Maraini e che testimoniano questo suo sentire comune con tante altre donne, delle quali racconta nella maggior parte delle sue opere e che rappresentano un vero e proprio “manifesto” politico e culturale di denuncia, a difesa di una identità troppo spesso negata, offesa, umiliata. Quante donne nelle opere di Dacia Maraini! E’ impossibile ricordarle tutte. Ognuna di esse traccia un profilo esistenziale differente, intrecciandosi con la sua personale storia di donna e con quella delle tante donne, conosciute e sconosciute, della sua vita. Donne che, una volta “liberate” dalla sua penna di scrittrice, con il passare del tempo l’Autrice fatica a riconoscere: donne come Anna, l’adolescente timida del suo primo romanzo, La vacanza, del 1962 o come Enrica, la protagonista del romanzo L’età del malessere del 1963, con il quale Dacia si fa conoscere al grande pubblico ricevendo il prestigioso Premio internazionale Formentor. Donne nelle quali la realtà diventa romanzo come Teresa in Memorie di una ladra del 1973 (da cui trae spunto il film di Carlo Di Palma interpretato magistralmente da Monica Vitti) in cui alla storia vera di una donna si intrecciano quelle delle tante donne conosciute durante un’inchiesta giornalistica nelle carceri e nei manicomi italiani. Un’occasione unica per tracciare un ritratto fedele della società italiana nei primi anni Settanta in opere letterarie come il romanzo ma anche in scritti di poesie come Donne mie del 1974, dove Dacia scrive versi crudamente sinceri come questi: Donne mie, illudenti e illuse che frequentate le università liberali, imparate latino, greco, storia, matematica, filosofia; nessuno però vi insegna ad essere orgogliose, sicure, feroci, impavide. A che vi serve la storia se vi insegna che il soggetto unto e bisunto dall’olio di Dio è l’uomo e la donna è l’oggetto passivo di tutti i tempi? A che vi serve il latino e il greco se poi piantate tutto in asso per andare a servire quell’unico marito adorato che ha bisogno di voi come di una mamma? E poi, ancora, donne nel romanzo epistolare Lettere a Marina del 1981, un lungo monologo senza risposta con il quale Bianca scrive a Marina ma nel quale si intrecciano altre voci, molte delle quali riconducibili ancora una volta alla biografia dell’Autrice, al suo rapporto con il padre e con la madre e dunque un libro di memorie in cui l’universo femminile viene “scrutato” in tutta la sua inestricabile complessità. E poi la vita fatta a pezzi di Isolina, in un racconto pubblicato nel 1985 e che si ispira alla vera storia di una giovane donna trovata, appunto, a pezzi nelle acque dell’Adige agli inizi del ‘900, metafora di quella violenza antica e sempre nuova che colpisce le donne, vittime “più volte” della brutalità maschile: vittime di quella violenza che genera un nuovo progetto di vita e poi vittime della violenza che costringe a rinunciarvi, ad abortirlo appunto, pagando poi con la propria stessa vita e, infine, dopo morte, ancora vittime di quella violenza che ne sporca la memoria, come ancor oggi accade a quelle donne che, in fondo, “se la sono cercata” . Ciò che colpisce è la straordinarietà con la quale Dacia Maraini sa far parlare i suoi personaggi, cogliere le emozioni, rappresentare un’epoca anche attraverso forme letterarie apparentemente scarne come quelle utilizzate in questo racconto che, per ricostruire la storia reale, si avvale dell’uso del montaggio di stralci di brani dei giornali dell’epoca che ne avevano riportato appunto la vicenda e dai quali soprattutto emergeva il conformismo feroce di quegli anni, di cui erano vittime soprattutto le donne. Dopo Isolina, Marianna Ucrìa, la protagonista del romanzo ritenuto il più bello di Dacia Maraini, la cui bellezza è data proprio dalla musicalità della parola che, nella Marianna sordomuta, diventa esaltazione della parola scritta; dove il silenzio della parola parlata diventa un gesto di ribellione, anche in questo caso, a una violenza sessuale subíta da parte di quello stesso uomo che poi le verrà imposto come marito ma dalle cui catene, psicologiche innanzitutto, si libererà con la conquista di un amore e poi con la conquista della libertà riacquistata attraverso i viaggi che la portano a risalire l’Italia, a fermarsi a Napoli e poi definitivamente a Roma. Ma, è evidente, anche e soprattutto la conquista della libertà vissuta attraverso la lettura dei tanti libri: Quante ore ha trascorso in quella biblioteca, imparando a cavare l’oro dalle pietre, setacciando e pulendo per giorni e giorni, gli occhi a mollo nelle acque torbide della letteratura. Che ne ha ricavato? qualche granello di ruvido bitorzoluto sapere. Da un libro all’altro, da una pagina all’altra. Centinaia di storie d’amore, di allegria, di disperazione, di morte, di godimenti, di assassinii, di incontri, di addii. E lei sempre lì seduta su quella poltrona dal centrino ricamato e consunto dietro la testa..... Da quando i figli sono andati via ha molto più tempo a disposizione. E i libri non le bastano mai. Questa sete inesauribile di letture, questo desiderio insopprimibile di scritture contraddistinguono molte altre figure femminili, innanzitutto la stessa Dacia nel libro di memorie Bagheria e poi Vera, la donna adulta che dialoga con la bambina Flavia nel libro Dolce per sé del 1997. Parole che hanno, sempre, il sapore della denuncia anche quando prendono la forma del romanzo giallo come Voci del 1994, in cui la protagonista - Michela Canova, donna e giornalista radiofonica - racconta una storia di violenza sulle donne: violenze spesso efferate, crudeli, che appaiono ancor più straordinariamente e tragicamente attuali anche alla luce del moltiplicarsi di episodi di violenza e di morte a noi più vicini. Donne che compaiono sulla scena della cronaca giornalistica e televisiva per alcuni giorni e che poi scompaiono senza lasciare traccia, come non lascia tracce di sé Colomba, la protagonista dell’omonimo romanzo del 2004 che nell’intreccio di storie di donne - della nonna Zaira e della stessa autrice, “la donna dai capelli corti” - lascia spazio ai tanti miti che attraversano il romanzo: miti del tempo (di un tempo arcaico e di un tempo vicino) e dello spazio (culminante nella mitologia di un paesaggio meraviglioso qual è l’Abruzzo montano). Il racconto della violenza - e la funzione di aspra denuncia civile - acquista toni ancora più drammatici quando ad esserne colpiti sono soprattutto i bambini. Il libro di racconti, Buio, che nel 1999 è vincitore del Premio Strega, introduce il lettore in un universo di efferatezze narrate con la delicatezza, mai sdolcinata, volutamente scarna e con i toni della “testimonianza”, che meritano le storie spezzate di alcune giovani vite. Vite spezzate - prima ancora che dalla violenza fisica come lo stupro - dalla violenza della solitudine e dell’abbandono, del pregiudizio e dello stereotipo. Bambini che il più delle volte non vengono ascoltati, alle cui parole non si presta attenzione, non si dà credito: come Tano, che denuncia la violenza familiare ma che non viene creduto fino a quando la storia non si conclude con un assassinio; o come il piccolo Grammofono, detto Gram, bambino di sette anni, cui non si presta attenzione quando racconta dell’uomo uccello, un uomo dalla giacca grigia, luccicante, come fatta di piume iridescenti, e dalle scarpe gialle, simili a zampe d’uccello, che lancia sassolini verso il balcone dal quale il bambino Gram, sempre solo in casa per tutto la giornata, segue incantato il volo dei piccioni. Un uomo-piccione che affascina, attrae fino a trascinarlo nell’abisso: L’uomo ora ha fermato la macchina fra due cabine dei lavori stradali, sprangate. Non c’è nessuno in giro fra quei pini. Le mani pennute si allungano verso il bambino; gli allargano il collo della maglietta, gli slacciano la cintura dei pantaloncini. Il bambino prende a scalciare disperato. L’uomo gli torce un braccio fino a fargli perdere il respiro. Poi arriva un altro schiaffo e un altro ancora. Il piccolo Grammofono ha gli occhi velati. Non ce la fa neanche a piangere. Ma continua a tirare calci. L’uomo ora gli è addosso. Lo tiene stretto. Gli urla nell’orecchio: «se continui a tirare calci ti ammazzo». Il bambino gli dà una ginocchiata nel ventre. L’uomo urla di dolore. Prende il bambino per il collo e stringe rabbiosamente le dita sulla giugulare. Intanto un piccione si è posato con leggerezza sul cofano della Bravo celeste. Ha le piume di un bellissimo grigio fosforescente e ha il becco giallo, screziato. Il piccione volge lo sguardo distratto dentro la macchina mentre si riposa dal volo e vede un uomo che singhiozza e sussulta mentre, stretto a sé, tiene un bambino dal capo reclinato e molle. La mattina dopo lo spazzino trova il cadavere di un bambino mezzo nudo, con le scarpe da ginnastica rosse ai piedi nella pineta sopra la città. A Buio - libro testimonianza, libro denuncia, atto d’amore verso i più indifesi e “invisibili” - vogliamo contrapporre però, come testimonianza di “luce” rispetto al “buio” della violenza, i libri per bambini scritti da Dacia Maraini: Storie di cani per una bambina (Premio Andersen, 1996) che, come scrive Antonio Faeti nella Prefazione al libro, ci insegnano a guardare i nostri amici cani con occhi diversi, con un po’ meno superbia, a riconoscerli «tragici e strani, sconosciuti e sorprendenti, inquieti e bizzarri, come se fossero appena giunti dalla luna». E, ancora, La pecora Dolly, una raccolta di favole del 2001 attraverso cui Dacia sa parlare ai bambini di temi difficili come i rischi della scienza (la clonazione), la violenza della caccia, le ingiustizie. Ma perché la speranza - speranza come progetto, come proiezione verso il futuro qual è l’infanzia, autentico “tesoro dell’umanità”, diremmo con le parole di quella grande donna pedagogista che è Maria Montessori - non serva a dimenticare il passato, ad occultare la memoria, vorrei concludere questa laudatio con le parole con le quali Dacia termina il suo ultimo libro (La seduzione dell’altrove) nel racconto dal titolo “Auschwitz: la memoria è un atto morale”: (...) un dovere storico. E [che] questi campi dovrebbero essere visitati da tutti, generazione dopo generazione, per ribadire, anche attraverso l’esercizio dei sensi, che non ci si può permettere il lusso di dimenticare. Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina dove troverai i contenuti integrali di questo articolo. Le origini, i miti di Laura Marchetti bisogno di conservare e raccogliere non solo piante ma parole, aggiungendo così altra vita alla propria vita, moltiplicando la realtà con una vita autocreata dalla narrazione. forse i miti catturati da Il ramo d’oro di Frazer, dai Miti Greci di Graves, da Omero , da Eschilo e da Euripide; dal padre viene il mito della montagna, la “montagna come destino di famiglia”. La voce ha salvato il femminile. Nelle società patriarcali, dove la violenza del potere imprigiona le donne mettendone a repentaglio la dignità e spesso la vita, la voce ha garantito la loro sopravvivenza, come nella storia di Sherazade, l’astuta narratrice che per mille e una notte incanta il suo uccisore con la potenza del racconto. La voce infatti è seduzione, come ci ricorda l’immagine antichissima delle Sirene, ma è anche memoria, tradizione, espressione di un sapere ricco, carico di intuito, di percezione, di capacità di “entrare negli aspetti più reconditi delle cose”, come fa, nella sua lunga vita, Marianna Ucrìa, eroina settecentesca che ha perso la voce bambina, per uno stupro, e la ritrova da adulta attraverso la “voce corposa” della scrittura (“amata scrittura”, dal titolo di un testo della Maraini pensato per proporre una possibile educabilità alla scrittura). “Raccontami ma’ ”, dice continuamente in Colomba la figlia curiosa alla bellissima madre cantastorie, raccontami così da intrecciare la veglia e il sogno, il passato e il futuro, così da ritrovare esistenze negate e tagliate, da allontanare il dolore e la morte. “Raccontami ma’ ”, per farmi entrare di nuovo in quel giardino di delizie dove eravamo all’inizio, un giardino in cui palpita ancora la letteratura come pratica “del sarchiare, seminare, far crescere i ricordi”, un giardino che è caldo, accogliente, sicuro, come il seno, il grembo, il ventre. “Raccontami ma’ ” e fallo di notte, perché solo nella notte - nella notte magica, misteriosa, oscura e intima - può avvenire quello che, ancora nelle Mille e una Notte, è chiamato il “samar”: il parlare al profondo, il parlare alle Origini. Raccontami, perché col gioco narrativo dell’oggi l’umanità del malessere possa riaccedere agli antichi simboli: l’uccello, il giardino, il bosco, il mare, la nave. Sottratti alla dura realtà - una realtà fatta di abusi, di speculazione, di cemento - e riportati alla purezza dei grandi archetipi collettivi, alle strutture antropologiche dell’immaginario, come le chiama Bachelard, insomma ai luoghi primordiali della psiche (istinti, desideri, pulsioni), essi prendono la forma sublime del mito. Il mito è infatti la trama di quel ritorno nel tempo e nello spazio, il mito che traccia una geografia mentale, anzi, come vien detto nella introduzione a La ragazza di Via Maqueda, una “geografica della narrazione” entro la quale l’erranza del narrare si intreccia all’erranza del viaggio, come nelle Storie di Erodoto di Alicarnasso. Il mito della montagna impregna le immagini dell’Abruzzo. L’Abruzzo montano è un paesaggio austero, ma anche una terra magica come la Daunia, come la nostra terra. Non a caso l’antropologa Mara vi entra grazie a Caronte, psicopompo di un mondo arcaico e sconosciuto, mondo del sacro e della morte. Mondo selvaggio pieno di orsi, di lupi e di serpi (Le serpi del Monte Marsicano, come nel titolo di un altro racconto), dove però, nei boschi popolati di spiriti e creature fiabesche, permangono le tracce di antiche civiltà, di antiche tradizioni. Draghi e Folletti, ma soprattutto, di nuovo, le Origini, quelle radici che conficcano l’uomo, come una pianta, nell’humus della Terra, della natura: una Natura padre e madre collettiva. Lontane dagli studi, impossibilitate ad esprimersi con i linguaggi della politica e della vita pubblica, le donne insomma, tramite la voce, hanno elaborato e conservato una vera e propria filosofia: quella “filosofia del filatoio”, come la chiama la Von Franz, che si tramanda oralmente nei secoli attraverso balie, mamme e nonne con la forza viva de “li cunti”, e della fantasia. E’ una filosofia che si ritrova in Colomba, straordinario romanzo sul tempo - il tempo che passa e porta con sé la scomparsa di luoghi, amori, persone, il tempo che “ferma il suo scorrere idiota” e trova la sua redenzione celebrando il primo bisogno dell’uomo, emerso all’alba del genere umano: il Nel mito Dacia Maraini ripone il suo interesse attuale (testimoniato dal corso appena concluso presso l’Università di Zurigo sulla influenza del mito classico nella letteratura italiana, con uno sguardo particolare alla divisione di ruolo fra il maschile e il femminile), ma anche una passione antica, originale. E’ il segno delle sue personali radici. Nel mito, e nel viaggio, c’è infatti una storia biografica, c’è il ricordo di quella figura di padre amata in maniera struggente, quel padre antropologo ed esploratore (Fosco Maraini), di cui si avverte la presenza in quell’andare a piedi lento di Zaira, esplorando i luoghi ma anche la condizione umana. Dal padre antropologo vengono Ricercatore in Didattica e Pedagogia speciale L’intelletto quando agisce da solo e secondo i suoi più generali principi, distrugge se stesso ...noi ci salviamo da questo scetticismo totale soltanto per mezzo di quella singolare e apparentemente volgare proprietà della fantasia per la quale entriamo con difficoltà negli aspetti più reconditi delle cose... La lunga vita di Marianna Ucrìa Quando smetterò di raccontare sarò morta, si dice togliendosi il trucco davanti ad uno specchio poco illuminato che le riempie la faccia di ombre Colomba I piedi camminano e “li cunti” li seguono La ragazza di via Maqueda L’Abruzzo del mito è una piccola patria, una terra rifugio, da cui però la narratrice guarda ad una patria più ampia, ad una “matria”, vorrei dire con un neologismo. Essa è un luogo politico ma anche, come nel racconto Europa, un mito: il mito di quella giovane Ninfa che viaggiò e vagò per sfuggire a Zeus, il suo stupratore. Ella è l’emblema di come sarebbe diventata l’Europa politica vista dal treno Il Treno dell’ultima notte da cui si dispiega tutto l’afflato civile, un’Europa violata dall’Olocausto e da Auschwitz, l’Europa col cuore di tenebra dove si è dispiegato il male in tutta la sua banalità, e che anche oggi, ridotta ad una espressione della moneta e delle banche, appare incapace di contrastare i territori dell’odio, le non tanto invisibili barriere economiche, religiose, razziali. Ma è anche l’emblema di una vivente radice, di una immanente possibilità posta in quell’antica civiltà greca da cui partì appunto la ninfa recando con sé intelligenza, equilibrio e misura. È un’Origine liquida, che viene dal mare, dalla Grecia, ma anche dalla Sicilia, l’ultimo e più potente mito della Maraini, mito di un sud tragico, di nobili arroganti e di miseria senza requie, ma anche carico di magia, sfavillante di limoni , di odori di menta, di cibi succulenti, di estati torride, di cavalli, di boschi di sugheri. Un sud mediterraneo come Bagheria , l’araba “porta del vento”, da cui può ripartire un nuovo ethos, dolce come quello di Marianna Ucrìa, fatto di sapienza, sensualità, gesto amorevole di padre, voce e cura di madre. Conferimento della Laurea honoris causa Il rito medievale Il rito medioevale prevede che il Rettore pronunciando le tradizionali formule in latino ponga sul capo del laureando il tradizionale “tocco”, simbolo della funzione dottorale. A seguire il Rettore porge al laureando un libro, prima chiuso e poi aperto. Il libro scelto per Dacia Maraini è “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” scritto da Carlo Collodi nel 1881, un chiaro richiamo al romanzo di formazione, la formazione di una coscienza attraverso la ricerca di se stessi. La consegna del libro chiuso significa che Dacia Maraini possiede la scienza. Il libro aperto sta a significare che Ella può portare nella società quella conoscenza con le parole e con le azioni. A chiusura del rito la consegna del sigillo dell’Università degli studi di Foggia, simbolo dell’alleanza del neo dottore con la scienza. 9 Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina dove troverai i contenuti integrali di questo articolo. Lectio Doctoralis L’esperienza della scrittura di Dacia Maraini 10 Scrivere in italiano significa fare i conti con la lingua parlata, la lingua scritta colta, i dialetti, i gerghi abbondantissimi in questo clima scarso di regole. La lingua italiana ha una storia piuttosto complicata: è stata una delle prime a formarsi in Europa, pensiamo a Dante, a Boccaccio, ai grandi poeti mistici come Jacopone da Todi e San Francesco, ma poi, con la Controriforma e con il ritorno del Latino, il Volgare è tornato ad appartenere al popolo, ai “mestieri” come dice Settembrini, lasciando la lingua italiana colta ai letterati e agli scienziati. Si pensi a Galileo Galilei che nel ‘600, avendo scritto un testo che si chiamava ‘Delle cose che galleggiano sull’acqua’, venne accusato dalla società degli scienziati di ‘lesae humanitatis’ per non avere adoperato il latino. Nelle scuole superiori si insegnava in latino, nelle università non c’era che il latino, nei tribunali si parlava latino, nelle aule di scienza si scriveva in latino, la stessa messa che era per tutti, anche i più poveri e analfabeti, veniva officiata in latino. Per secoli c’è stata una scissione fra la lingua colta, quella che aveva anche una scrittura e la lingua popolare che era soprattutto parlata. La lingua popolare era costituita, piu che da dialetti, da vere e proprie lingue regionali come il lombardo, il veneto, il sardo, il siciliano, eccetera. Anche Manzoni che era molto sensibile alle questioni della lingua, sapeva di scrivere in un italiano che “non conosceva i mestieri” e per questo il suo famoso romanzo ‘I promessi sposi’ è stato riscritto tante volte, ‘sciacquato in Arno’, come diceva lui e risciacquato piu volte, per trovare un difficile compromesso fra la lingua parlata dialettale e la lingua scritta colta che la maggior parte degli italiani non praticava. Solo dopo la seconda guerra mondiale, negli anni ‘50, dicono i linguisti, con la diffusione della radio si è cominciato a parlare capillarmente la lingua italiana. Inoltre le grandi immigrazioni interne, dal sud al nord, dalle campagne alle città, hanno creato il bisogno di una lingua nazionale che potesse essere intesa da tutti. Di questo ritardo hanno fatto le spese prima di tutto il teatro, che è il luogo del compromesso fra lingua scritta e lingua parlata e poi la narrativa, non quella colta e accademica, ma quella popolare. Non è un caso che da noi manchi il grande romanzo popolare ottocentesco, come c’è stato in Inghilterra o in Francia. Oggi finalmente possiamo dire di avere adottato in pieno una lingua nazionale. Però subito si sono presentati altri problemi: per esempio l’uso smodato del linguaggio tecnologico: le macchine parlano inglese e il parlato medio si è infarcito di termini inglesi di cui spesso chi li pronuncia non conosce nemmeno il vero significato. Altro guaio: i gerghi che servono per economizzare le parole in un gruppo sociale, ma poi vengono assorbiti per imitazione da altri gruppi sociali, soprattutto quando il gergo proviene da un ceto privilegiato: il gergo degli avvocati, il gergo dei medici, il gergo dei politici, il gergo degli psicanalisti, eccetera. Liberarsi dai gerghi è per uno scrittore un dovere che si paga a volte salato, perché molti lettori non si riconoscono in un linguaggio pulito dalle terminologie più comuni. I gerghi appesantiscono e opacizzano la lingua come dei parassiti. A volte belli da vedersi come gli arrampicanti che circondano un tronco, ma non c’è dubbio che alla fine questo bellissimo viluppo di foglie finisce per soffocare e uccidere l’albero stesso. La buona notizia è che oggi nel mondo l’italiano sta aumentando i suoi estimatori. Ci si innamora dell’italiano, forse proprio perché non è una lingua funzionale alla comunicazione come l’inglese, forse perché non costituisce un dovere professionale, forse perché è legato ad un’arte meravigliosa come la musica: l’opera. Non a caso Mozart ha scritto i suoi libretti in italiano. Forse per questo, per la libertà da ogni costrizione sociale e politica che accompagna lo studio dell’italiano, per la sua estrema musicalità, per la sua eleganza e bellezza, la lingua italiana oggi viaggia per il mondo e si fa amare e studiare sempre di più. Amata scrittura da perchè, dove, quando della letteratura Prima edizione BUR, La Scala 2002 La scrittura è davvero amata nel nostro paese, tanto amata che spesso viene uccisa sul nascere, soffocata per troppo amore. Mentre gli occhi pazienti che seguono le righe e le pagine, languono e appassiscono. Ma perché, quando e dove si è persa la gioia della lettura? Sembra che la scrittura sia diventata uno strumento per possedere brutalmente la realtà, quasi un grimaldello per aprire le porte dell’autorità. I grimaldelli, lo confesso, mi fanno paura. Preferisco pensare alla scrittura come ad una testimonianza delicata, un gesto di affetto nei riguardi di una memoria che se ne va e muore anzitempo. Una esperienza che ti fa cambiare l’angolo dello sguardo, un arricchimento di prospettiva. Accompagnata forse da un infantile desiderio di seduzione. Ma fuori dei canoni, dentro le allegre invenzioni di una mente inquieta. Ho cercato sempre di raccontare la gioia della lettura e di contagiare gli aspiranti scrittori che mano mano incontravo con la fascinazione della scrittura. Ho cercato di riflettere insieme con chi invece la scrittura la pratica tutti i giorni, sulle spine del linguaggio. Non so proprio se ci sono riuscita. La sola cosa certa è che non ho voluto insegnare nulla, perché non ho nulla da insegnare. Leggere Libri e lettori Una raccolta di immagini di straordinaria bellezza che raccontano, emozionando, momenti di intimità autentica vissuti da Dacia Maraini con personaggi illustri del mondo della cultura, da De Filippo a Moravia, da Pasolini a Bertolucci, da Turcato ad Antonioni a Piera degli Esposti. Un breve viaggio nella vita intensa di una grande scrittrice. Ho sempre pensato che chi legge un libro, in qualche modo lo riscrive. L’autore porge delle indicazioni ma poi è il lettore che deve saper ricostruire con la sua immaginazione e il suo sapere il mondo in cui si trova a vivere attraverso i corpi estranei dei personaggi. Per questo considero la lettura una vera gioia amorosa, non per i contenuti che mi offrono i libri ma perché leggere è un grande esercizio di soggettività. Leggendo ci si fa soggetto di una storia, di un discorso, di una riflessione, di una fantasia, di un sogno. E l’intensità di questo farsi non ha limiti, non ha censure. È anche per questo che non si può scrivere se non si legge. Senza il lettore la scrittura non esiste e senza la scrittura il lettore non esiste. Il rapporto tra chi legge e chi scrive, pur essendo un rapporto fra due corpi, non è l’incontro naturale di due persone che si parlano, si capiscono, si riconoscono: la comunicazione tra i due passa attraverso una convenzione molto complessa che è la scrittura. Il lettore deve decifrare un linguaggio, applicare un codice, compiere un’operazione che presuppone un grande lavoro di concentrazione. Però, quando ci si riesce, si prova un profondo piacere: si scopre di potere vivere tante vite diverse, di potere viaggiare nel tempo e nello spazio. Noi siamo chiusi dentro una vita limitata, prevedibile, spesso asfittica, e i romanzi danno la possibilità di attraversare altre esistenze, altri panorami, calzando altre scarpe, annusando altri odori, in un tempo che non ci appartiene. Quando si compie questo miracolo è come se si realizzasse un incontro al di là dello spazio e del tempo, nel mondo misterioso del possibile. Il libro è il luogo di questo incontro. Leggere per leggere Leggere è un atto sensuale. Mi viene in mente un racconto di Calvino in cui un lettore appassionato finisce per preferire la lettura di un libro al bacio di una ragazza forse poco amata. Sulle rocce al mare, il ragazzo sta leggendo un romanzo appassionante, steso al sole. Arriva una ragazza, fanno conoscenza e dopo un po’ cominciano a baciarsi, ma l’occhio di lui corre da solo, anche contro la sua volontà, al libro aperto di fianco per continuare a seguire una storia affascinante. L’eccitazione sensuale provocata dal libro prevale su quella carnale immediata. Naturalmente non è da proporre come modello ma come esempio della forza seduttiva della lettura (…) Leggere per scrivere Leggere e scrivere sono due attività assolutamente gemelle. Per questo molti aspiranti scrittori falliscono quando partono da una separazione schizofrenica fra due occupazioni che si ostinano a considerare indipendenti, una attiva (la scrittura) e una passiva (la lettura). Idea convenzionale e balorda perché, come ho già detto, chi legge in realtà riscrive il testo, si fa protagonista di una storia, la reinventa, dà corpo ai personaggi, li fa muovere sul palcoscenico della mente, ne cura i dettagli, fa come un esecutore sapiente che dà misura e forma alle note. Ma ogni esecuzione è diversa dalle altre, lo sappiamo. Ogni esecuzione è una creazione. Per questo la lettura, che consiste nel fare giungere alle orecchie il suono nascosto delle carte, è una esperienza altrettanto vitale e formativa della scrittura. Tutto quello che impariamo sullo scrivere lo apprendiamo dai grandi incontri letterari della nostra vita. Non esiste un romanziere che non ami i libri. Non si può scrivere senza conoscere a fondo la letteratura. Solo leggendo molto si familiarizza con le tecniche della narrazione: insomma 11 uno che scrive deve stare «a mollo» nella lettura, come si diceva una volta, «essere il pesce nella sua acqua». Eppure tanti, anche aspiranti scrittori, leggono poco e svogliatamente (…) A tutti coloro che mi chiedono consigli, ripeto: non ci sono regole, non ci sono formule, non ci sono canoni. Ci vuole tenacia, passione, molta lettura e molta pazienza. Insisto ancora sul leggere. Leggere, leggere, leggere. È questa la prima e più importante pratica per chi vuole scrivere (…) 12 Inoltre, per chi ha ambizioni letterarie, è importante leggere in italiano, autori italiani, per conoscere bene le strutture della nostra lingua scritta che è diversa dal parlato per quanto possano apparire uguali. Spesso molti mi dicono: «Leggo solo romanzi stranieri» e poi trovano naturale, una volta presa la penna in mano, chiamare i loro personaggi con nomi inglesi o francesi. Ma soprattutto inglesi perché i romanzi di maggior successo, i cosiddetti best seller, sono americani. Per chi scrive in italiano invece è essenziale leggere libri che sono stati pensati e scritti in italiano. Non voglio fare del nazionalismo fuori luogo: credo che sia bello conoscere le lingue e se uno vuole, sarà bene che impari a scrivere in inglese - che è la lingua degli scambi internazionali di oggi. Ma se pensa e parla in italiano dovrà avere ben vive nell’orecchio la struttura, le trasformazioni, le parole della propria lingua. Non basta aver letto quattro romanzi americani di successo in traduzione per instaurare un buon rapporto con la scrittura (…) Scrivere È proprio come correre da un innamorato e l’innamorato è il racconto, il romanzo. vengono forniti suggerimenti sul modo in cui egli può dominarlo.» Scrivere e parlare Traduzioni e trasposizioni «Io penso, io parlo, quindi io scrivo.» Molti compiono una identificazione fra lingua parlata e lingua scritta che è del tutto arbitraria. In realtà le due lingue sono lontanissime, anzi spesso sono in antitesi. Non basta sapere pensare o sapere parlare per sapere scrivere: la scrittura è un’arte a sé. Anche gli scrittori che imitano il parlato fanno un’operazione letteraria. A comunicare le nostre idee, le nostre impressioni, i nostri sentimenti, le nostre emozioni arriviamo solo attraverso uno stile riconoscibile e personale (…) Tradurre è gettare un ponte tra due lingue. Ogni traduzione è un compromesso tra l’assoluto dello scrittore e il possibile del traduttore. È stato anche detto che la traduzione è «nel migliore dei casi un eco pallido dello scritto originale». Nonostante questo la traduzione è sempre un esercizio formativo per uno scrittore. Tutti gli scrittori prima o poi hanno tradotto da una lingua che è loro familiare. Dirò di più, ci sono degli scrittori che hanno tradotto, benissimo, da lingue a loro sconosciute o quasi. Famoso l’esempio di Pasternak che tradusse dal georgiano conoscendolo appena o quello di Gérard de Nerval che tradusse Goethe con una esperienza minima del tedesco. E sono traduzioni bellissime sia l’una che l’altra. Pasolini è stato accusato di essere poco accurato nelle sue traduzioni dal greco. Eppure l’Orestiade tradotta da lui e ormai introvabile, ha una plasticità e una vitalità che non posseggono molte altre traduzioni di professori esperti di lingua greca. La sola cosa che si possa dire è che ogni traduzione è una ricreazione, con tutti i rischi che questo comporta. Esiste poi anche una questione che riguarda la traduzione da un campo d’espressione all’altro, per esempio dalla letteratura al cinema. Pasolini si è molto servito della letteratura per fare il suo cinema. Penso ai Racconti di Canterbury, al Decamerone, al Fiore delle Mille e una notte, sceneggiatura quest’ultima a cui ho collaborato anch’io. Ecco forse dovremmo ricordarci di questa qualità simbolica della scrittura. Della sua qualità di «patto» e « testimonianza». Non a caso fra gli uomini e gli dei la transazione passa sempre attraverso un libro, che sia la Bibbia o il Vangelo, il Corano o altro. Le leggi morali stanno scritte sulla pietra e questa scrittura pietrosa si distingue dalla gassosità della parola «di cui solo il movimento è significativo». Ma il paradosso della scrittura è che deve apparire naturale anche quando non lo è. La scrittura mima l’oralità, come la danza mima i movimenti naturali del corpo, che sia umano o animale. La rappresentazione scritta della lingua orale è comunque una forma di artificio. Si tratta di valutare il grado degli artifici. Ce ne sono di più semplici e immediati, quasi diventati parte della nostra seconda natura, altri più complessi e ardimentosi. L’oralità diventa comunque un oggetto di manipolazione letteraria e come tale ha bisogno di una competenza. Ragioni e passioni Scrivere per Scrivere vuol dire mettersi in rapporto con gli altri. Si scrive come si tende una mano. Se qualcuno non l’afferra, quella mano, ci rimaniamo male. Ci sentiamo soli ed esiliati. Perché si scrive? Per fermare il tempo, per sfogarsi, per consolarsi, per divertirsi, per piantare grane, per attirare l’attenzione, per sentirsi meno soli, per ricordarsi o per dimenticarsi di qualcuno o di qualcosa? Certo si scrive per tutte queste ragioni; ma scrivere vuol dire prima di tutto dare un nome alle cose. La scrittura ci forza a scendere nel profondo della realtà per poi uscirne, attribuendole qualcosa di nostro, di assolutamente personale. La scrittura nasce da ragioni umili e semplici, dall’amore per le parole che, sulla pagina, diventano enigmatiche e misteriose e noi ci accingiamo a chiarire quel mistero. Si scrive per soddisfare una necessità, spinti da un desiderio quasi erotico, perché si è felici di farlo, semplicemente perché non se ne può fare a meno, e mentre si scrive si prova un piacere profondissimo. È un piacere e nello stesso tempo un bisogno: è una cosa che devi affrontare, nessuno ti può fermare. Le fiabe Le fiabe, che sono considerate per antonomasia letture per bambini, sono spesso crudelissime e violente. Ma nonostante la ferocia, «la ricchezza d’immagini delle fiabe» dice Bettelheim nel Mondo incantato, «aiuta i bambini meglio di qualunque altra cosa nel loro più difficile eppure più importante e soddisfacente compito: quello di raggiungere una coscienza più matura per civilizzare le pressioni caotiche del loro inconscio». Chi ha detto che i bambini non pensino alla morte, alla sofferenza, al futuro del mondo? Chi ha detto che i bambini non si pongano gli stessi gravi interrogativi che si pongono i grandi? «Coloro che misero al bando le fiabe tradizionali» scrive ancora Bettelheím «decisero che se c’erano dei mostri in una fiaba narrata a dei bambini, dovevano tutti essere bonari; ma trascurarono il mostro che un bambino conosce meglio e che lo preoccupa di più: il mostro che sente o teme di essere. [...] Senza tali fantasie, al bambino non è dato di conoscere meglio il proprio mostro, né Scrivere per i bambini Ci sono dei libri «per bambini» che in realtà sono stati scritti per gli adulti e poi, come per castigo, sono stati relegati all’infanzia. Pensiamo a Robinson Crusoe di Defoe, a un libro come Pinocchio, che pur avendo l’andamento di una fiaba, è scritto con un linguaggio da adulti, di grande bellezza e precisione. Pensiamo ai Viaggi di Gulliver, alle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, alle novelle trecentesche di Franco Sacchetti, all’ottocentesco Charles Dickens, al novecentesco Italo Calvino e a tanti altri. Personalmente non credo che scrivere per i bambini significhi usare un linguaggio particolare, limitato, addolcito, manierato, limato apposta per loro. Credo che a un bambino si possa dire tutto, bisogna però essere molto chiari, lineari, logici e sinceri (…) C’è tutta una letteratura per l’infanzia che è francamente insopportabile, palesemente finta; che parte dal presupposto di presentare un mondo in cui il male non esiste, la crudeltà non esiste, la morte non esiste, è tutto roseo e un poco ovattato. Eppure i bambini sono spesso ossessionati dall’idea della morte e dell’abbandono. Ai bambini bisogna potere parlare di tutto, quello che non si deve fare è offendere un bambino nel suo senso della dignità, trattarlo come un inferiore o un essere senza immaginazione e senza sentimento morale. La Poesia Poeti Leopardi è un poeta che mi è sempre stato molto vicino. C’è qualcosa che me lo rende affine, prima di tutto forse il suo amaro sentimento del nulla. Turgenev lo chiamerebbe nichilismo. Mi è capitato di crescere in una famiglia senza certezze, né religiose, né scientifiche, e con un grande amore per la libertà, e per la conoscenza. L’atteggiamento verso la cultura era di tipo sperimentale. Fin da ragazzina mi leggevo a voce alta con piacere e struggimento linguistico A se stesso: Perì l’inganno estremo, ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento. Mi sembrava che parlasse per me, che facesse per conto mio le domande sull’infinito e sul futuro che vedevo vuoto e senza speranze. In Leopardi trovavo l’idea dell’interrogarsi su tutto: «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna?». Ecco, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia era una delle poesie che mi commuoveva di più. Le sue parole erano le mie: l’universo cos’è? mi chiedevo quando avevo appena sette anni... e le stelle in cielo che fanno? e la luna dove va? e noi chi siamo? Leopardi non si aspetta che la luna risponda, che le stelle chiariscano il mistero del cielo, però ha bisogno di fare quelle domande e questo atteggiamento di disperata tenera inquietudine lo sentivo molto vicino. Pascoli me l’ha fatto riscoprire Pier Paolo Pasolini che lo amava molto. La scuola me lo aveva reso stucchevole e distante o perlomeno mi aveva proposto di Pascoli l’aspetto più sentimentale, più manierato. Invece a conoscerlo meglio si scopre che anche lui è un grande giocoliere del linguaggio. Grazie a Pasolini l’ho riletto con uno sguardo diverso e ho capito la sua grazia e la sua forza. Mi ha toccato il suo modo di parlare della natura, come uno che ci sta in mezzo, che prende in mano il pulcino, chiama la gallina, tocca il cane. Anche con un certo gusto minimalista, diremmo oggi. Pascoli non vuole spiegarti nulla. Pascoli insegue, osserva con occhio umile e casalingo, da contadino che conosce la consistenza delle terre, delle radici, delle piante, il mondo che gli sta intorno e cerca di dare nome alle cose più modeste, alle emozioni più timide, senza mai mettere in evidenza la sua pur grande abilità verbale. Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina dove troverai i contenuti integrali di questo articolo. Consegna del sigillo dell’Università Un riconoscimento a due grandi maestri dell’antropologia e della pedagogia Antonino Buttitta Ordinario di Antropologia Università di Palermo Professore emerito di Antropologia culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, di cui è stato Preside dal 1979 al 1992. Ha insegnato Antropologia culturale all’Università Cattolica di Milano e allo IULM di Milano. È stato Direttore del Dipartimento di Beni Culturali-Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e Geografici. È stato: Presidente del Corso di Laurea in Beni demoetnoantropologici e della Laurea Magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo; Presidente della “Società Italiana di Studi Semiotici” e Segretario generale della “International Association for Semiotic Studies”; Presidente del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani; Presidente dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. E’ stato, inoltre, deputato al Parlamento Italiano nell’XI Legislatura. Attualmente è: Vice Presidente della Società Siciliana per la Storia Patria; Presidente della Scuola Internazionale di Scienze Umane; Direttore didattico del Centro Sperimentale di Cinematografia - Scuola Nazionale di Cinema, sede di Palermo. Legato agli studi del grande poeta Ignazio Buttitta (padre e maestro) e alle ricerche demologiche di Pitrè e di Cocchiara, Antonino Buttitta affronta e sviluppa i suoi interessi di studio lungo un doppio versante: teorico ed empirico. A livello teorico approfondisce la discussione epistemologica e metodologica dell’antropologia culturale in quanto disciplina formale. Autorevoli i suoi interventi sui nessi antropologia, semiotica, letteratura. A livello empirico, molto note e di grande rilievo sono le sue ricerche sulla cultura siciliana. A tal proposito, occupandosi attivamente di museografia etnoantropologica, ha coordinato il Censimento dei Beni Etnoantropologici della Sicilia nell’ambito della legge della Regione Sicilia (l.37/1978), collaborando all’istituzione di diverse strutture museali tra cui il Museo Internazionale delle Marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo, il Museo Etnoantropologico della Valle del Belice, di Gibellina (TP), il Museo della Vita e del Lavoro Contadino di Campobello di Mazara (TP), il Museo del Sale nella Salina Culcasi di Paceco (TP). Ha fondato le riviste “Uomo & Cultura. Rivista di Studi antropologici”, Palermo, Flaccovio; “Nuove Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura”, Palermo, Edizioni Guida; “Archivio Antropologico Mediterraneo”, Palermo, Sellerio, di cui è stato direttore. Ha fondato e dirige “Thalassa”, Milano, Bretschneider. Dirige inoltre la rivista “Sicilia”, Palermo, Flaccovio. Per la casa editrice Sellerio dirige le collane: “Prisma” (oggi: “Nuovo Prisma”), “Tutto e subito”, “Quaderni di poesia”. Oltre ai numerosi contributi su riviste nazionali e internazionali, si segnalano tra le altre, le seguenti monografie: Cultura figurativa popolare in Sicilia, Palermo, Flaccovio 1961; Ideologie e Folklore, Palermo, Flaccovio 1971; La pittura su vetro in Sicilia, Palermo, Sellerio 1972, 1991 n. ed.; Pasqua in Sicilia, Palermo, Graphindustria 1978; Semiotica e Antropologia, Palermo, Sellerio 1979; Il Natale. Arte e tradizioni in Sicilia, Palermo, Edizioni Guida 1985; Percorsi simbolici, Palermo, Flaccovio 1989; L’effimero sfavillio. Itinerari antropologici, Palermo, Flaccovio 1995; Dei segni e dei miti.Una introduzione alla antropologia simbolica, Palermo, Sellerio 1996; Del giuoco o della giustizia. Della vita e della morte, Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici 1999; Pasqua in Sicilia, Palermo, Promolibri 2003; Il mosaico delle feste, Palermo, Flaccovio 2003. Sono in corso di pubblicazione, per la casa editrice Sellerio i volumi: Terra incognita. Viaggio intorno alle strutture invisibili e Parole e scrittura. Studi di antropologia della letteratura. 13 Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina dove troverai i contenuti integrali di questo articolo. Franco Frabboni Ordinario di Pedagogia Università di Bologna 14 Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bologna di cui è stato Preside dal 2000 al 2006. È stato: Presidente della “Società Italiana di Pedagogia” (SIPED); Presidente dell’ “Istituto Regionale di Ricerca Educativa” (IRRE) dell’Emilia Romagna; Direttore del “Centro Interdipartimentale di Ricerca Educativa” (CIRE) dell’Università degli Studi di Bologna; Direttore della sede bolognese dell’ “Istituto Gramsci”; Direttore della “Scuola di Specializzazione per Insegnanti della Scuola Secondaria” (SSIS) di Bologna. Attualmente è: Direttore della “Scuola di Specializzazione per Insegnanti della Scuola Secondaria” (SSIS) dell’Alto-Adige; Presidente della “Società di Pedagogia e didattica della Scrittura Graphein”. È stato, inoltre, membro di diverse Commissioni ministeriali della Pubblica istruzione tra le quali la Commissione che ha elaborato i Programmi didattici della scuola elementare (1985), la Commissione che ha redatto gli Orientamenti programmatici della scuola materna (1991), la Commissione che ha redatto il Rapporto nazionale sullo stato della Ricerca pedagogica in Italia (1991) e la Commissione che ha elaborato le Indicazioni per il curricolo della scuola di base (2007). Scolaro di Giovanni Maria Bertin, Franco Frabboni aderisce da sempre alle ragioni teoriche (Filosofia dell’educazione) ed empiriche (Didattica generale) del razionalismo critico di impostazione problematicista. La sua ricerca scientifica ha attraversato più campi dell’educazione e della formazione. Di particolare rilievo è l’approfondita analisi del rapporto fra la scuola e la cultura viva delle città e del territorio. Ha contribuito ad innovare e animare il dibattito sulle emergenze socioeducative della contemporaneità fornendo un contributo fondamentale alla riflessione sulle politiche scolastiche in Italia e in Europa. In questo senso, ha posto al centro della sua ricerca scientifica la fondazione epistemologica e progettuale dei repertori formativi della scuola (scuola dell’infan zia, scuola primaria e scuola secondaria di primo e di secondo grado) e dell’extrascuola (famiglia, enti locali, associazionismo giovanile, mondo del lavoro, loisir di massa) nella prospettiva di un Sistema formativo integrato e di una Formazione per tutta la vita. Ha fondato e dirige autorevoli riviste e collane pedagogiche e didattiche. Tra le riviste, citiamo “Pedagogia più didattica” (in co-direzione con M. Baldacci, L. Dozza e F. Pinto Minerva), Trento, Erickson; “Infanzia” (in co-direzione con Roberto Farnè); “Albero a Elica” (in co-direzione con Pagliarini 1985-1988) e “Nuovo albero a elica” (in co-direzione con Pagliarini 1988-1993), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino editore; “Scuola Se” Milano, Ethel-Giorgio Mondadori; “Riforma e didattica”, Reggio Calabria, Falzea. Inoltre è stato Direttore dell’ultima edizione della rivista storica della sinistra su scuola e Università “Riforma della scuola”, nei primi anni Novanta e ne dirige oggi la nuova versione editoriale, con Davide Ferrari. Tra le collane pedagogiche e didattiche ricordiamo, la direzione de “Il mestiere dell’insegnante”, Torino, Utet-Libreria; “Non solo scuola”, Lecce, Pensa; “Sestante”, Napoli, Tecnodid; “Scienze dell’educazione” (in co-direzione con L. Guerra), Milano, Bruno Mondadori; “Professione insegnante” (in co-direzione con F. Pinto Minerva), Bari, Laterza; “Fare scuola” (in co-direzione con F. Pinto Minerva e G. Trebisacce), Bari, Laterza. Nell’ambito della vasta produzione scientifica diversi sono i filoni di ricerca approfonditi, tra i quali: relativamente allo statuto epistemologico della pedagogia, Fondamenti di pedagogia e di didattica (in coll. con A. Canevaro, G. Cives, E. Frauenfelder, R. Laporta e F. Pinto Minerva), Roma-Bari, Laterza 1993; Manuale di pedagogia generale (in coll. con F. P. Minerva), Roma-Bari, Laterza 2000; Società della conoscenza e scuola, Trento, Erickson 2005; Le parole della pedagogia. Teorie italiane e tedesche a confronto, (a cura di, in coll. con G. Wallnofer, N. Belardi e W. Wiater), Torino, Bollati Boringhieri 2007; La Pedagogia tra sfide e utopie (a cura di, in coll. con G. Wallnofer), Torino, Bollati Boringhieri 2009; relativamente all’istituzione e alla ricerca sul Sistema formativo, Il primo abecedario: l’ambiente (con A. Galletti e C. Savorelli), Firenze, La Nuova Italia 1978 (anche tradotto in lingua spagnola); Scuola e ambiente, Milano, Bruno Mondadori 1980; Il sistema formativo integrato (a cura di), Teramo, EIT 1989; La città educativa (a cura di, in coll. con L. Guerra), Bologna, Nicola Milano 1991; Educare in città, Roma, Editori Riuniti 2006; relativamente all’impegno nei confronti della scuola italiana, La scuola dell’infanzia, Firenze, La Nuova Italia 1974; La scuola elementare, Firenze, La Nuova Italia 1977; Asilo nido e scuola materna, Firenze, La Nuova Italia 1980; Scuola primaria (in coll. con P. Bertolini), Firenze, La Nuova Italia 1981; Pedagogia e didattica dei nuovi programmi per la scuola elementare (in coll. con R. Maragliano e B. Vertecchi), Firenze, La Nuova Italia 1984; Il pianeta nido (a cura di), Firenze, La Nuova Italia 1985; La Scuola dell’infanzia (in coll. con F. Pinto Minerva), Roma-Bari, Laterza 2008; Sognando una scuola normale, Palermo, Sellerio 2009; La scuola rubata, Milano, FrancoAngeli 2010. Infine, per l’impegno nella ricerca di uno statuto scientifico autonomo della didattica, Manuale di didattica generale, Roma-Bari, Laterza 1993; Le dieci parole della didattica, Milano Ethel-Giorgio Mondadori 1994; Didattica generale e didattiche disciplinari (in coll. con B. D’Amore), Milano, Franco Angeli 1996; La qualità della didattica nella scuola che cambia (in coll. con M.Baldacci), Milano, FrancoAngeli 2001; Il curricolo, RomaBari, Laterza 2002; Laboratorio, Roma-Bari, Laterza 2004; Didattica e apprendimento, Palermo, Sellerio 2006. con il contributo di Fondazione Banca del Monte di Foggia Lauree honoris causa Economia Antonio Filograna Giuseppe Marra William Santorelli Tommaso Gozzetti Luca Montrone Giorgio Nebbia Antonio Paride De Masi Lettere e Filosofia Joseph Tusiani Mario Verdone Raffaele Nigro Renzo Arbore Giurisprudenza Luigi Ciotti Scannerizza il QR code con il tuo cellulare otterrai un link che ti permetterà di accedere al sito dedicato all’evento direttamente alla pagina Home dove troverai tutte le informazioni riguardanti la Cerimonia. Consorzio per l’Università di Capitanata LICEO ARTISTICO PERUGINI con la collaborazione di Testi a cura di Giuliano Volpe Franca Pinto Minerva Isabella Loiodice Laura Marchetti Dacia Maraini Ufficio Stampa e Comunicazione Maria Rosaria Lops tel. 0881.338426 [email protected] Staff organizzativo della cerimonia Maria Rosaria Lops (Coordinatrice) Veronica Dota Alessandra Falcone Maria Concetta Fioretti Andrea Gammino Fabio Iascone Marianna Lamarca Franco Pedarra Rosa Russo Progettazione grafica dell’evento Paolo Grenzi Referenze fotografiche Archivio privato di Dacia Maraini Foto di copertina Giuseppe Moretti Claudio Grenzi Editore Via Le Maestre, 71 · 71121 Foggia e-mail: [email protected] sito: www.claudiogrenzi.it 15 con il Patrocinio di Regione Puglia Provincia di Foggia Comune di Foggia