1 Giuseppe Langella LA TEORIA DEI COLORI COMPLEMENTARI E LA STRATEGIA NARRATIVA DELLA «COSCIENZA DI ZENO» In fondo alla Coscienza di Zeno, nel diario steso dal protagonista dopo l’interruzione della psico-analisi viene riportato, a un certo punto, un piccolo episodio, in sé circoscritto e apparentemente marginale, senza importanza alcuna – o così sembra – nell’economia complessiva del racconto: seduto di fronte alla finestra a godersi un bel tramonto, Zeno compie un’osservazione scientifica riguardante la formazione dei colori fisiologici sulla rètina. In effetti, collocata nel bel mezzo della rievocazione delle ultime fasi della cura e della crescente insofferenza per quel «bestione» del dottor S. e la sua «ciarlataneria»1, questa pagina ha tutta l’aria di un’oziosa divagazione, caduta quasi fuori posto; tant’è che neppure i commentatori più scrupolosi le hanno riservato la dovuta attenzione, limitandosi a segnalare, in genere, le opere di Goethe e di Schopenhauer cui il testo sveviano fa riferimento. E invece è opinione di chi scrive che proprio nel resoconto di quell’esperimento visivo si annidi addirittura la chiave di accesso alla verità ontologica del personaggio e alla strategia narrativa adottata da Svevo nel terzo romanzo. Altro che divagazione curiosa, dunque: si tratterebbe piuttosto di un messaggio in codice. Mentre preannuncia la convinzione cui presto giungerà Zeno di essere perfettamente guarito dalle mille malattie immaginarie da cui per tanti anni si era sentito assediato, questa pagina sui colori, lasciata cadere con perfetta nonchalance nel vivo di una requisitoria contro la scienza dell’inconscio e la pratica terapeutica introdotte da Freud, fornisce la mappa del tesoro, svela il dispositivo che presiede al racconto della Coscienza. Non si perdano d’occhio, infatti, gli immediati dintorni della pagina in questione, perché la situano in una zona cruciale per l’interpretazione dello stato di salute del protagonista: lo psicanalista, diagnosticato a Zeno il più classico complesso d’Edipo, I. Svevo, La coscienza di Zeno, edizione rivista sull’originale a stampa a cura di G. Palmieri, Giunti, Firenze 1994, pp. 389 e 392. 1 2 riconduce «alla sua grande, nuova teoria»2 tutte le altre vicende biografiche del suo paziente, diligentemente annotate, dietro suo consiglio, nei quaderni tematici la cui pubblicazione occupa il corpo centrale del romanzo, dal III al VII capitolo3: CMegli asseriva ch’io avessi odiato anche il vecchio Malfenti che avevo messo al posto di mio padre. Tanti a questo mondo credono di non saper vivere senza un dato affetto; io, invece, secondo lui, perdevo l’equilibrio se mi mancava un dato odio. Ne sposai una o l’altra delle figliuole ed era indifferente quale perché si trattava di mettere il loro padre ad un posto dove il mio odio potesse raggiungerlo. Eppoi sfregiai la casa che avevo fatta mia come meglio seppi. Tradii mia moglie ed è evidente che se mi fosse riuscito avrei sedotta Ada ed anche Alberta. […] Mi fu anche difficile di sopportare quello ch’egli credette di poter dire dei miei rapporti con Guido. Dal mio stesso racconto egli aveva appreso dell’antipatia che aveva accompagnato l’inizio della mia relazione con lui. Tale antipatia non cessò mai secondo lui e Ada avrebbe avuto ragione di vederne l’ultima manifestazione nella mia assenza dal suo funerale4.CM L’osservazione scientifica di Zeno cade, dunque, nel bel mezzo della dimostrazione di un teorema clinico, mentre il dottor S., cioè, convinto di aver trovato nel complesso di Edipo la causa originaria dei disturbi relazionali accusati dal suo paziente, è impegnato a farne persuaso il signor Cosini, per poterne proclamare l’avvenuta guarigione. Zeno, dal canto suo, anche di recente aveva dato esca ulteriore alla diagnosi dello psicanalista, inventandosi ad arte un sogno perfettamente intonato alla situazione edipica: CMParlai come se fossi ritornato alla donna della gabbia e l’avessi indotta a porgermi per un buco improvvisamente prodottosi nella parete dello stanzino un suo piede da succhiare e mangiare. «Il sinistro, il sinistro!» mormorai mettendo nella visione un particolare curioso che potesse farla somigliare meglio ai sogni precedenti. Dimostravo così anche di aver capito perfettamente la malattia che il dottore esigeva da me. Edipo infantile era fatto proprio così: succhiava il piede sinistro della madre per lasciare il destro al padre5.CM «Simulazione» a parte, il problema che si affaccia in queste pagine diaristiche della Coscienza, sollecitato dalle teorie freudiane e in conflitto con esse, concerne il 2 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 379. La progressione tematica della narrazione non toglie peraltro, come ha ottimamente dimostrato S. Carrai, la «sostanziale linearità» di «un testo ricco di connessioni interne» e di «effetti di ‘legato’», che dimostrano la genesi «unitaria e attentamente meditata» del romanzo: cfr. Come nacque «La coscienza di Zeno», in «Studi Novecenteschi», XXV, 1998, 56, pp. 239-256. 4 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 390. 5 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 387. 3 3 senso autentico e profondo della vita, al di là delle sue possibili interpretazioni. Zeno, qui senza dubbio portavoce fedele delle idee dell’autore6, comincia a discutere quella edipica, svolgendo con felicissima ironia una requisitoria in grande stile contro la psico-analisi, di cui viene smontata senza remissione sia la dottrina della libido, sia l’efficacia terapeutica, sia infine il metodo della «sincerità» e dell’«abbandono»7. Accostandosi alla psico-analisi, del resto, Zeno non aveva mai inseguito il miraggio di una guarigione, attratto piuttosto dalla promessa di riassaporare i giorni lontani della giovinezza, di «ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido» un «presente» fattosi, anche per via della guerra, forzatamente vuoto e «uggioso»8. Lo dice chiaramente, con insistenza, a più riprese: CMIo avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d’innocenza e d’ingenuità. Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m’animò. Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di più della mia vita. Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine9.CM «Già io non miravo mica ad una cura!»10 – ribadisce. Quella che Zeno compie con l’ausilio della psico-analisi, disteso sul famoso lettino, ha i contorni, insomma, di una personale recherche du temps perdu, non affidata alle circostanze fortuite della ‘memoria involontaria’, come in Proust, ma indotta dalle procedure escogitate da Freud e dai suoi primi discepoli, in qualche modo, dunque, messa in moto, programmata. Senonché il contesto psicanalitico in cui questo esercizio della memoria viene attivato condiziona in partenza l’interpretazione dei ricordi, convogliandoli invaria- 6 Cosa pensasse della psico-analisi, anche alla luce del trattamento infruttuoso cui si era sottoposto il cognato Bruno Veneziani, in cura a Vienna presso lo stesso Freud, Svevo chiarì in Soggiorno londinese, nel Profilo autobiografico e nel carteggio privato con Valerio Jahier: cfr. rispettivamente in I. Svevo, Racconti, Saggi, Pagine sparse, Dall’Oglio, Milano 1968, pp. 685-698 e 797-810; e in I. Svevo, Epistolario, Dall’Oglio, Milano 1966, pp. 856-860 e 862-865. Su queste dichiarazioni, imprescindibili per una lettura corretta della Coscienza di Zeno, ho indugiato in G. Langella, Italo Svevo, Morano, Napoli 1992, pp. 138-142. 7 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 378. 8 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 378. 9 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 380. 10 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 388. 4 bilmente dentro un orizzonte edipico. Zeno, probabilmente, avrebbe preferito servirsi della psico-analisi solo in quanto tecnica evocativa, mentre deve fare i conti con una scienza, benché giovane, armata di tutto punto, che attira la varia casistica dei vissuti e il guazzabuglio delle loro tracce psichiche nell’orbita a senso unico di una fenomenologia ricorrente, riconducibile a una scena primaria destinata a infinite repliche: «il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre»11. In questa prospettiva, il dottor S. si sente autorizzato a restituire a Zeno, filtrati in una luce edipica, i dati esistenziali da questi fornitigli, il patto terapeutico prevedendo che l’anamnesi del paziente gli torni indietro opportunamente decantata, trasformata in diagnosi. La psicoanalisi, per sua natura, è infatti una scienza dell’uomo che, seguendo un percorso semeiotico-indiziario, deve fare necessariamente appello alle capacità ermeneutiche del medico curante: con tutti i rischi che una simile interpretazione comporta, puntualmente stigmatizzati da Zeno in questa zona del suo diario, opponendo all’estrema aleatorietà di una diagnosi fondata sull’arte divinatoria dello psico-terapeuta l’assoluta certezza sperimentale della reazione chimica posta al servizio di una scienza esatta: CMIl Paoli analizzò la mia orina in mia presenza. Il miscuglio si colorì in nero e il Paoli si fece pensieroso. Ecco finalmente una vera analisi e non più una psico-analisi. Mi ricordai con simpatia e commozione del mio passato lontano di chimico e di analisi vere: Io, un tubetto e un reagente! L’altro, l’analizzato, dorme finché il reagente imperiosamente non lo desti. La resistenza nel tubetto non c’è o cede alla minima elevazione della temperatura e la simulazione manca del tutto. In quel tubetto non avveniva nulla che potesse ricordare il mio comportamento quando per far piacere al dottor S. inventavo nuovi particolari della mia infanzia che dovevano confermare la diagnosi di Sofocle. Qui, invece, tutto era verità. La cosa da analizzarsi era imprigionata nel provino e, sempre uguale a se stessa, aspettava il reagente. Quand’esso arrivava essa diceva sempre la stessa la12.CM Nell’esaminare la digressione sui colori complementari, non bisogna perdere di vista, quindi, la cornice problematica in cui essa viene inserita, concernente la ricostruzione interpretata della vita, la deduzione a posteriori di un senso a partire da una teoria. Che poi questa interpretazione, a qualunque strumento si appoggi, culmini 11 12 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 386. Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 392. 5 fondamentalmente in un verdetto di salute o di malattia (si tratti di diabete 13 piuttosto che del complesso di Edipo), non può fare meraviglia in un romanzo leggibile tanto alla stregua di una documentata e aggiornatissima enciclopedia medicofarmacologica, quanto come grande apologo ironico della sostanziale impotenza della scienza medica di fronte all’esito sempre esiziale della vita, cui non aveva da opporre se non momentanei e inefficaci palliativi14: «A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure». «Romanzo di una psico-analisi»15, si capisce, peraltro, che l’anamnesi principale offerta dalla Coscienza ricostruisca la vita di Zeno all’insegna di un Edipo irrisolto, causa remota di tutti i conflitti relazionali con le figure maschili e dell’irresistibile attrattiva esercitata sul paziente da tutte le degne rappresentanti del gentil sesso. È appunto, in particolar modo, con questa diagnosi e con questa interpretazione della vicenda del protagonista, che s’intreccia la scena, laterale rispetto alla cura, del tramonto accompagnato dallo studio sulla formazione dei colori fisiologici. Il sottile legame tra questo episodio e la biografia di Zeno rivisitata in chiave psicanalitica viene suggerito dall’aggancio narrativo che introduce la digressione scientifica: siccome «accanto al dottore» le «care immagini» della sua «gioventù, autentiche o meno» che fossero, non volevano più venire, Zeno tenta «di evocarle lontano da lui»; senza successo, a dire il vero, ma in compenso – annota nel diario – «invece delle immagini venne qualche cosa che per qualche tempo le sostituì. Semplicemente credetti di aver fatta un’importante scoperta scientifica. Mi credetti chiamato a completare tutta la teoria dei colori fisiologici. I miei predecessori, Goethe e Schopenhauer, non avevano mai immaginato dove si potesse arrivare maneggiando abilmente i colori complementari»16. Segue il resoconto dell’esperimento. La «teoria dei colori fisiologici», su cui è tempo ormai di concentrare l’attenzione, salta fuori, dunque, in luogo delle «immagini» del passato, come loro 13 Sulle implicazioni di questa ipotesi diagnostica cfr. G. Langella, La dolce malattia. Intorno a una pagina di Svevo, in «Lettere Italiane», XLVII, 1995, 2, pp. 271-289. 14 Per una trattazione esauriente di questo aspetto si rimanda a G.A. Camerino, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa, IPL, Milano 1996 15 Secondo la nota definizione di J. Pouillon, «La conscience de Zeno»: roman d’une psychanalyse, in «Les Temps modernes», X, 1954, 106, pp. 555-562. 16 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 388. 6 surrogato. Cercando invano di rivivere la sua «gioventù», l’io narrante della Coscienza s’imbatte a sorpresa in qualcosa di diverso ma perfettamente in tema: invece di episodi, veri o presunti, dei suoi anni lontani, gli si affaccia una scoperta che ha a che fare col sentimento stesso della vita, vale a dire con il formarsi nel soggetto che la contempla di un punto di vista riassuntivo, che tutta la raccoglie sotto una luce o, per l’appunto, un ‘colore’ dominante. L’osservazione compiuta da Zeno in materia di colori complementari si riverbera, perciò, sull’interpretazione edipica della sua vita, chiarendone la genesi e il significato. Egli aveva scritto la sua autobiografia – non si dimentichi – su consiglio del dottor S., in vista della cura e previa consultazione, «solo per facilitargli il compito», di un «trattato di psicoanalisi»17. In che conto si debba tenere quell’autobiografia sarà proprio la teoria dei colori complementari a svelarcelo. Conviene quindi, senza ulteriori preamboli, rileggere l’intero episodio: CMBisogna sapere ch’io passavo il mio tempo gettato sul sofà di faccia alla finestra del mio studio donde vedevo un pezzo di mare e d’orizzonte. Ora una sera dal tramonto colorito nel cielo frastagliato di nubi, m’indugiai lungamente ad ammirare su un lembo limpido, un colore magnifico, verde, puro e mite. Nel cielo c’era anche molto color rosso gettato sui margini delle nubi a ponente, ma era un rosso ancora pallido, sbiaccato dai diretti, bianchi raggi del sole. Abbacinato, dopo un certo intervallo di tempo, chiusi gli occhi e si vide che al verde era stata rivolta la mia attenzione, il mio affetto, perché sulla mia rètina si produsse il suo colore complementare, un rosso smagliante che non aveva nulla da fare col rosso luminoso, ma pallido nel cielo. Guardai, accarezzai quel colore fabbricato da me. La grande sorpresa la ebbi quando una volta aperti gli occhi, vidi quel rosso fiammeggiante invadere tutto il cielo e coprire anche il verde smeraldo che per lungo tempo non ritrovai più. Ma io, dunque, avevo scoperto il modo di tingere la natura! Naturalmente l’esperimento fu da me ripetuto più volte. Il bello si è che v’era anche del movimento in quella colorazione. Quando riaprivo gli occhi, il cielo non accettava subito il colore dalla mia rètina. V’era anzi un istante di esitazione nel quale arrivavo ancora a rivedere il verde smeraldo che aveva figliato quel rosso da cui sarebbe stato distrutto. Questo sorgeva dal fondo, inaspettato e si dilatava come un incendio spaventoso18.CM Cominciamo a dire, per dare a Cesare quel che è di Cesare, che l’osservazione compiuta da Zeno cade nel solco delle conclusioni cui erano pervenuti, al termine di ben altrimenti copiosi e sistematici esperimenti scientifici, tanto il Goethe della Farbenlehre quanto lo Schopenhauer suo continuatore di Über das Sehen und die Far17 18 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 5. Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 388. 7 ben19. Svevo fa tesoro delle due trattazioni e ne assume anche le parole-chiave: proprio a Goethe si deve, infatti, l’introduzione nel vocabolario dei fenomeni cromatici della nozione di colore ‘fisiologico’, onde distinguere quello che si genera all’interno dell’occhio, per reazione a uno stimolo esterno, da quelli di ordine ‘fisico’ o ‘chimico’, rispettivamente prodotti dall’impatto di una sorgente luminosa con un corpo più o meno torbido o trasparente, o «appartenenti agli oggetti» medesimi20. Goethe aveva poi messo perfettamente a fuoco il funzionamento per contrasto della rètina: un po’ come avviene nella pellicola di una macchina fotografica quando scattiamo una fotografia, dove l’immagine del soggetto posto davanti all’obiettivo viene impressionata al negativo, quando l’occhio viene intensamente colpito dalla luce o da un colore, rimanda il loro rovescio, l’ombra o il colore inverso, quello che nel cerchio cromatico illustrato da Goethe occupa la posizione speculare, agli antipodi. A queste tinte «opposte», «antitetiche»21, Schopenhauer aveva poi dato il nome di «colori complementari»22, termine – come s’è visto – adottato anche da Svevo. Non è inverosimile, inoltre, che lo stesso sfondo crepuscolare prescelto dallo scrittore triestino come cornice dell’episodio provenga da un’almeno duplice suggestione goethiana. Ce ne rende ancor più persuasi la competizione che in entrambi i casi si accende proprio tra il rosso e il verde. Si legge, infatti, al par. 59 della Farbenlehre: «Quando le nuvole della sera gettarono sul selciato di un cortile lastricato di pietre calcaree grigie, frammiste con erba, un chiarore rossiccio appena percettibile, quest’ultima apparve di un verde infinitamente bello»23; e soprattutto, al par. 75: «Ma quando finalmente il sole si avvicinò al tramonto, e i suoi raggi filtrati dalle dense foschie ricoprirono l’intero mondo che mi circondava con il più bel porpora mai visto, il colore delle ombre si tramutò in un verde che poteva essere paragonato, per traspa19 J.W. Goethe, Zur Farbenlehre, Cotta, Tübingen 1810; ma si cita per comodità dalla traduzione italiana, a cura di R. Troncon, La teoria dei colori, Introduzione di G.C. Argan, Il Saggiatore, Milano 2008. A. Schopenhauer, Über das Sehen und die Farben, J.F. Hartknoch, Leipzig 1816, 18542; anche in questo caso si adotta come edizione di riferimento la traduzione italiana, a cura di M. Montinari, La vista e i colori, Boringhieri, Torino 1959. 20 Cfr. Goethe, La teoria dei colori cit., p. 16 e passim. 21 Goethe, La teoria dei colori cit., pp. 30, 33 e passim. 22 Cfr. Schopenhauer, La vista e i colori cit., pp. 63, 66, 69, 83, 85-86, 111, 120 ecc. 23 Goethe, La teoria dei colori cit., p. 37. 8 renza, a un verde mare e, per bellezza, al verde di uno smeraldo»24. C’era, del resto, una ragione fisiologica per prediligere il tramonto quale ora topica per gli esperimenti ottici: aveva già sottolineato Goethe che «il crepuscolo», con la sua luminosità addolcita, non più offensiva per l’occhio, produce le condizioni migliori perché esso sia «rilassato e recettivo»25, e dunque più sensibile agli stimoli cromatici. Due particolari, però, dell’osservazione di Zeno attirano la nostra curiosità, perché non hanno riscontro nelle fonti, anzi si pongono in parziale contrasto con la teoria e gli accertamenti sperimentali dei maestri Goethe e Schopenhauer. Confesso di non essermi mai preso la briga di controllare, ripetendo la prova, se quanto asserito dal personaggio sveviano risponda o meno a verità; ma sono convinto che, in quanto si scosta dalle conclusioni cui erano pervenuti i due illustri predecessori di Svevo, suffragate peraltro da una quantità inoppugnabile di verifiche oggettive, alla descrizione del fenomeno fornita nella Coscienza siano imputabili aggiustamenti indebiti dell’esperienza, introdotti dall’autore per esigenze squisitamente letterarie. Svevo insinuerebbe, cioè, nel meccanismo dei colori complementari delle ‘licenze’ tanto gratuite sul piano scientifico quanto funzionali allo svelamento della chiave dell’opera di cui dicevamo all’inizio. Più che «completare tutta la teoria dei colori fisiologici», qui allo scrittore triestino premerebbe insomma svelarci con quale filtro siano stati scritti da Zeno i quaderni autobiografici, seguendo il suggerimento del dottor S., nella speranza che potessero costituire «un buon preludio alla psico-analisi»26, e determinare, di conseguenza, in che rapporto essi si trovino con la vera identità del personaggio. Ma procediamo con ordine: la prima anomalia nella descrizione del fenomeno visivo da parte di Zeno si verifica quando egli riapre gli occhi. A suo dire, il «rosso smagliante» formatosi sulla rètina come complementare rispetto al «verde smeraldo» su cui egli aveva posato in precedenza lo sguardo, avrebbe invaso tutta la scena, tin24 Goethe, La teoria dei colori cit., p. 41. Goethe, La teoria dei colori cit., p. 35. 26 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 4. Sui precedenti storici di questa tecnica della «rievocazione» autobiografica, indubbiamente eterodossa rispetto al metodo canonico delle sedute analitiche, ma in effetti già praticata, cfr. G. Palmieri, Schmitz, Svevo, Zeno. Storia di due ‘biblioteche’, Bompiani, Milano 1994, pp. 1320. 25 9 gendo di sé l’intero campo visivo, compreso il «lembo» verde del paesaggio da cui era stato generato. Ma se così fosse, ne uscirebbe gravemente compromesso il fondamento stesso della teoria della formazione dei colori fisiologici. Schopenhauer aveva spiegato, infatti, che CMlo spettro fisiologico si presenta anche su ogni superficie colorata; certamente qui si ha un conflitto del suo colore con quello fisiologico: conformemente a ciò se, avendo nell’occhio uno spettro giallo eccitato dal colore violetto fissato a lungo, si guarda un foglio di carta azzurro, si ha il verde che nasce dall’unione dell’azzurro e del giallo. Ciò dimostra inconfutabilmente che lo spettro fisiologico aggiunge qualche cosa allo sfondo su cui cade e non gli toglie niente27.CM In altri termini, il colore prodotto dalla rètina non si impone su quello dove l’occhio, riaperto, si posa, fino a sovrastarlo, ma si limita a interferire con esso, dando luogo a un terzo colore che sarà la risultante della loro combinazione. Ora, nel caso concreto della pagina sveviana, il «rosso fiammeggiante» che si sprigiona dalla rètina può bensì «invadere tutto il cielo», andando a sovrapporsi senza particolari deviazioni cromatiche, nel tramonto «frastagliato di nubi», a «un rosso ancora pallido, sbiaccato dai diretti, bianchi raggi del sole», ma non certo «coprire anche il verde smeraldo» del «lembo» d’«orizzonte», cui invece dovrebbe sommarsi. Stando alla legge dello ‘spettro fisiologico’, dall’incrocio tra il «verde smeraldo» e il «rosso smagliante» su questa porzione di paesaggio dovrebbe scaturire addirittura il bianco, il colore, cioè, della «piena attività della retina». Parola di Schopenhauer: quando le due tinte complementari sono «nel loro pieno vigore» e quindi «l’attività della retina» è «indivisa senza residuo», CMsecondo la nostra teoria, che considera due colori opposti come reciproci complementi della piena attività della retina, dalla cui divisione essi sono nati, senza dubbio l’unione di quei colori ristabilirà la piena attività della retina e produrrà quindi l’impressione della luce piena, cioè del bianco. […] Se per esempio si contempla un rosso vivido, seguirà uno spettro verde; se si contempla un verde, seguirà uno spettro rosso; ma se, dopo aver guardato il rosso, si guarda immediatamente e con lo stesso luogo della retina e per la stessa durata un verde autentico, i due spettri no28.CM 27 28 Schopenhauer, La vista e i colori cit., p. 34. Schopenhauer, La vista e i colori cit., pp. 84-85. 10 Per Zeno, invece, lo spettro rosso inghiottirebbe anche il «lembo» verde di paesaggio da cui è stato originato, assorbendolo in un unico «incendio spaventoso» con tutto il cielo. A voler credere alla sua testimonianza, bisognerebbe porre in discussione il principio della totalità che presiede al funzionamento della rètina e alla teoria dei colori complementari. In realtà, se Svevo, a costo di sovvertire questo principio, suscita l’immagine monocromatica di una visione totalmente assoggettata a una tinta dominante, vuol dire evidentemente che non gli preme tanto ‘completare’, da scienziato, la teoria ottica elaborata dai suoi precursori, quanto suggerire, da letterato, che la vita del suo personaggio è stata retrospettivamente narrata, da Zeno stesso, e spiegata, dal dottor S., a partire da un filtro, da una chiave interpretativa, a senso unico. Al medesimo scopo mira la seconda licenza che Svevo si concede, in deroga alle trattazioni di Goethe e Schopenhauer: l’«istante di esitazione», prima del trionfo schiacciante del rosso infuocato, in cui l’originario «verde smeraldo» resiste all’invasione del suo colore complementare. Anche per questo aspetto non si saprebbe proprio come far rientrare l’osservazione di Zeno all’interno della teoria dei colori fisiologici: Goethe aveva parlato, semmai, della persistenza dello spettro complementare sulla rètina, e quindi del tempo più o meno lungo necessario a ristabilire una corretta percezione cromatica dell’oggetto contemplato. La riemersione, pur momentanea, del colore di partenza, in competizione con quello generato, è invece, ancora una volta, un’invenzione che reca il marchio esclusivo di Svevo, tanto geniale sul piano allusivo quanto inattendibile sotto il profilo strettamente scientifico. Se la nostra interpretazione del messaggio sveviano in bottiglia è esatta, la resistenza, ancorché effimera, opposta dal verde alla marcia trionfale del rosso dilagante sull’intero campo visivo suggerisce una visione della vita antitetica rispetto a quella che poi s’imporrà. Il temporaneo conflitto tra i due colori complementari lascia intendere, insomma, che la visione uscita vincente dallo scontro non era l’unica possibile e che anzi il personaggio, prima di risolversi per essa a scapito dell’altra, ha avuto un attimo di incertezza. 11 Ma assodata l’incompatibilità tra le due visioni, va da sé che solo una è da considerarsi autentica, centrata, rivelatrice del segreto del personaggio, mentre l’altra non rappresenta che il suo rovescio, lo spettro al negativo. L’invenzione sveviana toglie ogni dubbio al riguardo: la visione della vita rispondente al vero non può essere che quella contrassegnata dal medesimo colore del ‘lembo’ di natura cui Zeno ha rivolto, all’inizio, il suo sguardo estasiato, cioè quel «verde smeraldo», «puro e mite», che egli ricorda come «un colore magnifico». In quanto appartiene alla natura, esso è vero per definizione, mentre il suo spettro fisiologico, il «rosso smagliante» che brucia tutto il paesaggio in un «incendio spaventoso», chiama in causa l’attività soggettiva della rètina, contemplando ipso facto la possibilità dell’abbaglio, dell’allucinazione, dell’errore. Colore complementare rispetto a quello autentico, riscontrato in natura, questo rosso pretenderebbe anzi di avallare una visione capovolta della verità del personaggio, traducendola sistematicamente in chiave negativa. Siamo a un passaggio cruciale della nostra interpretazione dell’episodio, dove torna nuovamente prezioso il ricorso ai due maestri di Svevo. Era stato proprio Goethe, infatti, in urto frontale con la concezione newtoniana del colore come scomposizione della luce, a sottolineare la centralità dell’occhio e quindi «l’assoluta soggettività della percezione». Con lui la formazione dei colori diventava essenzialmente «un processo della mente»29. Non per nulla, nella sua Farbenlehre egli aveva preso le mosse dal fenomeno delle «illusioni ottiche», da una serie, cioè, di palesi aberrazioni percettive, in cui «qualcosa sembra che sia così e così, mentre sappiamo che tale non è»30. In particolare i colori fisiologici, in quanto esistono solo nell’occhio, dipendono totalmente dal soggetto. Essi costituiscono altrettante elaborazioni secondarie, suscitate bensì dall’osservazione di un oggetto esterno, ma devianti rispetto alla sua coloritura effettiva, trasformata dall’attività polarizzante della rètina nel suo spettro, nel suo colore complementare. 29 30 G.C. Argan, Introduzione, in Goethe, La teoria dei colori cit., p. XI. R. Troncon, Goethe e la filosofia del colore, in Goethe, La teoria dei colori cit., pp. 242-243. 12 Schopenhauer, dal canto suo, aveva speculato da filosofo su queste osservazioni di Goethe, facendo precedere il suo trattatello sui colori da un’esposizione del processo conoscitivo che trasforma i «dati» sensoriali in «intuizione del mondo»31. Prerogativa dell’intelletto, che l’uomo condivide con tutte le specie animali, questa intuizione consiste nell’attribuire una causa alla percezione registrata dai sensi. Non diversamente dalla ragione, soggetta all’«errore», anche l’intelletto può sbagliare, tratto in «inganno» dalla «parvenza» del fenomeno, attribuendo un effetto a una causa presunta senza fondamento reale. Così, ad esempio, «la bacchetta immersa nell’acqua sembra spezzata» (causa presunta, intuita dall’intelletto), mentre sappiamo che la sua deviazione (dato sensoriale), peraltro solo apparente (parvenza), dipende dalla cosiddetta rifrazione (causa effettiva). L’inganno in cui cade l’intelletto è perciò comprensibile, perché la parvenza con cui si presenta un dato fenomeno induce l’intelletto ad assimilarlo ad altri fenomeni apparentemente equivalenti, estendendo a questo la causa stabilita per quelli. Ciò non toglie che in simili casi la parvenza porti fuori strada, determinando un’intuizione del mondo, una conoscenza delle cose, «opposta alla realtà». Ebbene – ora possiamo dirlo – anche Zeno, disorientato dalla parvenza della propria e universale malattia, è rimasto vittima di questo abbaglio dell’intelletto, tingendo l’intuizione retrospettiva della sua vita del colore complementare a quello che ne avrebbe restituito in pienezza e verità il senso ultimo dell’esperienza e la consapevolezza di un destino tanto fortunato da metterlo quasi in imbarazzo, consigliandogli di attenuarlo per non incorrere nell’«ira degli dei»32. La pagina di cui ci stiamo occupando insiste sul carattere soggettivo e manipolatorio dell’attività della rètina. Riferendosi al «rosso smagliante» prodotto per contrasto dal «verde smeraldo» del pae31 Cfr. Schopenhauer, La vista e i colori cit., pp. 34-53. Cfr. Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 403. Vale forse la pena di rileggere l’intero passaggio: «Cammino per le vie della nostra misera città, sentendo di essere un privilegiato che non va alla guerra e che trova ogni giorno quello che gli occorre per mangiare. In confronto a tutti mi sento tanto felice […] che mi sembrerebbe di provocare l’ira degli dei se stessi anche perfettamente bene». Parlando appunto della ‘fortuna’ di Zeno come «azione del caso» che finisce per caricarsi di un «senso» di «destino», G. Savelli ha messo giustamente in evidenza come essa «si sottragga alla malattia», la quale, in quanto «convinzione», è «tutto meno che un accidente»: cfr. L’ambiguità necessaria. Zeno e il suo lettore, Franco Angeli, Milano 1998, pp.80-90. 32 13 saggio, Zeno annota, per cominciare: «Guardai, accarezzai quel colore fabbricato da me»; e poco oltre ribadisce: «Ma io, dunque, avevo scoperto il modo di tingere la natura!». Questo stravolgimento del colore originario, autentico, della realtà, questa rappresentazione in controluce, a rovescio, della vita, è appunto esattamente ciò che Zeno ha fatto ripercorrendola, nell’autobiografia scritta per il dottor S., su basi psicanalitiche. Il rosso è il colore patologico dell’Edipo irrisolto, della passione e della lotta, del desiderio e della rivalità, dell’incesto e del parricidio, degli atti mancati e delle somatizzazioni, dei divieti e del vizio, del senso di colpa e del complesso d’inferiorità, come il verde è il colore oggettivo della salute e della serenità, del benessere e dell’equilibrio, dell’ottimismo e del completo appagamento. Ma se la psico-analisi offre all’anamnesi del personaggio sveviano il supporto di una teoria intrigante, capace di filtrare tutti i casi della vita dentro i colori dell’eros, come immagini secondarie della libido, la ‘parvenza’ generale di malattia che Zeno dà alla scrittura del proprio passato non dipende soltanto dal dottor S., né si spiega semplicemente con la volontà del futuro paziente di assecondarne le aspettative. Svevo, chiusosi astutamente in cabina di regia, da dietro le quinte può prendersi gioco, bensì, dello psicanalista come del lettore fin dalla prima pagina del romanzo, sapendo in partenza che esso si risolverà nella più clamorosa sconfessione della dottrina freudiana33, nel quadro, peraltro, di una complessiva, ironica, antipostivistica, svalutazione della scienza medica e delle sue vantate virtù terapeutiche; ma Zeno arriverà alla ‘coscienza’ di sé e della vita solo al termine di un lungo percorso esperienziale, dopo aver appurato di non essere affetto da altra malattia se non da quella ‘metafisica’ legata al ciclo vitale e alla sua appartenenza al genere umano34. Incarnazione perfetta del tipo del malato immaginario in un microcosmo gremito di malati reali, Zeno fin dal capitolo sul Fumo ci mette sull’avviso che «la malattia è una convinzione» e che 33 Sulla strategia narrativa prescelta da Svevo per la Coscienza mi sono soffermato nel saggio su Zeno, o della simulazione disonesta, nel vol. collettaneo «Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori». Poema e romanzo: la narrativa lunga in Italia, a cura di F. Bruni, Marsilio, Venezia 2001, pp. 341-359, cui rimando. 34 Su questa nozione di malattia cfr. le considerazioni di G. Stellardi, Dialettica salute/malattia e suggestioni ecologiche nella «Coscienza di Zeno», in «Otto/Novecento», XXIV, 2000, 3, pp. 75-104, specialmente pp. 81-87. 14 lui «con quella convinzione» è nato35. La malattia, in questo senso, non è un ‘dato’ reale, oggettivamente riscontrabile, traducibile in una diagnosi, ma una ‘parvenza’, un’intuizione ingannevole dell’intelletto che attribuisce, per errore, ad essa la genesi dell’inquietudine esistenziale provata dal soggetto, la causa prima dei sui sintomi di malessere. Per ‘guarire’ da questa ‘convinzione’ sbagliata, Zeno dovrà maturare una duplice consapevolezza: l’inefficacia su di sé di ogni cura tentata, perché medici e medicine possono bensì contrastare un gran numero di patologie a carico dell’organismo o della psiche, ma si rivelano poi del tutto impotenti a sradicare dall’animo umano un male di vivere che è per sua natura metafisico; e l’esperienza darwiniana della vitalità e del successo commerciale nel frangente più rischioso dell’economia di guerra36: «Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e soprattutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia»37. Così, al terapeuta che, riparato in Svizzera, lo aveva pregato di «mandargli quanto avesse ancora annotato» nei suoi quaderni, Zeno ora può «dire il fatto suo» non solo in ordine alla «sciocca illusione» della psico-analisi, ma più in generale sul suo stato di salute: CMIntanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza innoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensì di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole38.CM 35 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 16. Sul contesto bellico in cui Zeno perviene alla coscienza della propria salute ha svolto considerazioni assai interessanti, muovendo dal saggio freudiano su Psicologia delle masse e analisi dell’Io, S. Buglione: cfr. Malattia individuale e malattia sociale nel finale della «Coscienza di Zeno». Considerazioni di Svevo e di Freud sulla malattia, in «Aghios», 2002, 3, pp. 63-68. 37 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 416. 38 Svevo, La coscienza di Zeno cit., pp. 415-416. 36 15 Zeno ha preso finalmente coscienza di sé e della vita, ha corretto la sua precedente visione distorta, ha ricondotto la sua storia personale nell’alveo delle giuste cause; ha compreso, in altri termini, che il suo credersi malato era stato il frutto di un abbaglio, di un inganno delle apparenze. È in grado, quindi, di rimettere i colori al loro posto, di chiamare verde il verde, senza più attribuirgli una ‘parvenza’ di rosso. Ma questa matura capacità di guardare oggettivamente alla sua vita, ripensandola dall’alto della salute recentemente scoperta e goduta con un sentimento nuovo di appagamento e di felicità, gli solleva immediatamente il problema della sostanziale inattendibilità di quanto egli era venuto scrivendo, in odore di malattia, in passato39, avallando sua sponte, preventivamente, la diagnosi edipica dello psicanalista: «Il dottore, quando avrà ricevuta quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso!»40. Ecco: stesa nell’orizzonte della scienza freudiana, l’autobiografia che si snoda dal III al VII capitolo del romanzo, aveva dipinto la vita di Zeno sotto la dominante della malattia41; ma l’«incendio spaventoso» che aveva finito per divorare tutto il quadro, senza risparmiare nessun «lembo», gli appare adesso, col senno di poi, l’esito estremo di un’interpretazione sbagliata, volta in peggio sotto l’effetto di una polarizzazione oggettivamente immotivata. Di qui l’esigenza avvertita dal personaggio di riscrivere la vita all’insegna della salute, ripristinando la sua tinta originaria, il «verde smeraldo» a torto offuscato dal suo colore complementare. Si sarebbe trattato, in tal caso, di dare semplicemente maggiore rilievo a una serie di dettagli, sintomi evidenti di superiorità e di vittoria del personaggio narratore sul piano dell’amore e degli affa39 Sul «narratore inattendibile» della Coscienza ha insistito più volte M. Lavagetto: cfr. in particolare Confessarsi è mentire, nel suo La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, Torino 1992, pp. 179199. 40 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 417. 41 Anzi, E. Saccone nel suo Commento a «Zeno», Il Mulino, Bologna 1973, p. 66, è stato ancora più drastico nella sua definizione delle memorie vergate dal personaggio: «Zeno, è bene chiarirlo una volta per tutte, non scrive la sua autobiografia: narra invece della sua malattia. È questo, e questo soltanto, l’argomento della sua storia». 16 ri non meno che della salute42. Lo Zeno inetto e malato immaginario dei quaderni autobiografici non aveva mancato, a dire il vero, di seminare queste tracce lungo il racconto, ma né lui né il dottor S. né il lettore ci avevano badato, perché avvolte e soffocate da una quantità esorbitante di elementi e soprattutto di interpretazioni di segno contrario. Svevo ci spiega a posteriori anche questo, quando impone al suo personaggio la seconda osservazione anomala che abbiamo registrato: vale a dire l’«istante di esitazione nel quale» Zeno rivede ancora «il verde smeraldo che aveva figliato quel rosso da cui sarebbe stato distrutto». Il «cielo», l’orizzonte, lo sfondo su cui si proietta l’intuizione della vita da parte di Zeno, «non accetta subito il colore» della malattia partorito dalla sua rètina. L’anamnesi in negativo del proprio passato – non c’è dubbio – fraintende la realtà, la capovolge, la legge a rovescio. Bisogna ripristinare il colore autentico della salute. La coscienza di Zeno è uno di quei romanzi che andrebbero letti due volte: la prima non basta, perché cadiamo fatalmente in trappola, ingannati dalle troppe parvenze di malattia su cui indugia la rievocazione; ne serve una seconda, per rimettere le cose a posto, per recuperare il «movimento» cromatico, per scoprire il colore della salute che punteggia sorprendentemente il racconto43. Accenno a un solo esempio, ma di portata cruciale in ordine alle pulsioni edipiche: il rapporto col padre quale emerge specialmente nel quarto capitolo. La scena culminante dello schiaffo (se di schiaffo si può parlare), lasciato cadere dall’alto dal vecchio Cosini in limine mortis, e i sensi di colpa e di giusta, solenne punizione che ne promanano, fanno perdere di vista il dato essenziale di tutta la vicenda, facilmente ricavabile dagli episodi precedenti: nel rapporto tra padre e figlio è Zeno che rappresenta la forza, la sapienza e la sicurezza, tanto da potersi permettere il lusso, in più occasioni, di prendersi gioco del padre, di deriderlo e di inibirlo 44. Come del resto, a Mi sono già premurato, in questo senso, di ricostruire a posteriori l’«oroscopo di Zeno»: cfr. Langella, Italo Svevo cit., pp. 155-161. 43 Sulla funzione attiva richiesta al lettore della Coscienza di fronte all’ambiguità del testo, si veda Savelli, L’ambiguità necessaria cit. 44 Per un approfondimento della questione rinvio a Langella, Italo Svevo cit., pp. 147-151. 42 17 ben guardare, egli esce trionfatore, alla distanza, da ogni confronto con le altre figure maschili, si tratti di Giovanni Malfenti o di Guido Speier, di Copler o dell’Olivi. Tocca al lettore avvertito, a questo punto, compiere il lavoro di riconversione del testo sulla direttrice della salute, cui Zeno avrebbe volentieri posto mano, nell’ultimo atto della finzione narrativa, se il dottor S., invece di pubblicarglielo tale e quale «per vendetta»45, avesse acconsentito a restituirgli il manoscritto. Pur essendo ancora all’oscuro di tutto, il lettore, testimone implicito del contenzioso tuttora aperto tra lo psicanalista e il suo ex-paziente, viene invitato fin dalla Prefazione ad assumere un atteggiamento critico nei confronti di una scrittura autobiografica dov’erano state «accumulate» tante «verità» quante «bugie»46. Quel che il dottor S., però, non ha capito, condizionato com’è dalla «sua grande, nuova teoria», è dove cercare le une e le altre. Il lettore, invece, che non vorrà fermarsi alle parvenze, non avrà che applicare retrospettivamente la teoria dei colori complementari, dando il volto della salute a quelle che erano sembrate le prove della malattia. 45 46 Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 4. Svevo, La coscienza di Zeno cit., p. 4.