Giovanni Pascoli:
Poeta della natura
GIOVANNI PASCOLI
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MYRICAE
arbusta iuvant humilesque myricae
PREFAZIONE
Rimangano rimangano questi canti su la
tomba di mio padre!... Sono frulli
d’uccelli, stormire di cipressi, lontano
cantare di campane: non disdicono a un
camposanto. Di qualche lagrima, di
qualche singulto, spero trovar perdono,
poichè qui meno che altrove il lettore
potrà o vorrà dire: Che me ne importa
del dolor tuo?
Uomo che leggi, furono uomini che
apersero quella tomba. E in quella finì
tutta una fiorente famiglia. E la tomba
(ricordo un’usanza africana) non spicca
nel deserto per i candidi sassi della
vendetta: è greggia, tetra, nera.
Ma l’uomo che da quel nero ha oscurata
la vita, ti chiama a benedire la vita, che
è bella, tutta bella; cioè, sarebbe; se noi
non la guastassimo a noi e a gli altri.
Bella sarebbe; anche nel pianto che fosse
però rugiada di sereno, non scroscio di
tempesta;
anche nel momento ultimo, quando gli
occhi stanchi di contemplare si
chiudono come a raccogliere e riporre
nell’anima la visione, per sempre. Ma
gli uomini amarono più le tenebre che
la luce, e più il male altrui che il
proprio bene. E del male volontario
dànno, a torto, biasimo alla natura,
madre dolcissima, che anche nello
spengerci sembra che ci culli e
addormenti. Oh! lasciamo fare a lei,
che sa quello che fa, e ci vuol bene.
Questa è la parola che dico ora con
voce non anco ben sicura e chiara, e
che ripeterò meglio col tempo: le dia
ora qualche soavità il pensiero che
questa parola potrebbe essere di odio,
e è d’amore.
Livorno, marzo del 1894.
Il titolo di questa prima raccolta
pascoliana, che ricorda le umili
tamerici, arbusti della macchia
mediterranea, viene scelto proprio per
indicare la modestia e la semplicità di
un mondo poetico. Pascoli dichiara di
prediligere una poesia semplice e
fatta di piccole cose per cui questi fiori
così comuni diventano il simbolo di
una precisa scelta tematica che,
attraverso quadretti campestri, lascia
filtrare una riflessione profonda e
dolorosa sul senso della vita. Il
paesaggio dunque non è mai fine a se
stesso e la descrizione realistica è
spunto per una considerazione più
ampia che dall’osservazione dell’umile
mondo dei campi si apre a significati
universali.
I dati quotidiani si caricano allora
di un senso più profondo rinviando
ad un significato che va al di là dei
sensi, al di là dell’apparenza.
Per questo modo di osservare la
natura e la vita, Pascoli si
inserisce in una corrente culturale
presente in quegli anni a livello
europeo, il simbolismo, che,
partendo dal principio che la
realtà sensibile nasconda verità di
ordine spirituale, si spinge a
cercare segrete corrispondenze fra
le cose fino al punto da ritenere
che gli elementi della realtà siano
dei simboli, cioè nascondano un
significato diverso da quello che
percepiamo attraverso i sensi.
I puffini dell’Adriatico
Tra cielo e mare (un rigo di carmino
recide intorno l’acque marezzate)
parlano. È un’alba cerula d’estate:
non una randa in tutto quel turchino.
Pur voci reca il soffio del garbino
con ozïose e tremule risate.
Sono i puffini: su le mute ondate
pende quel chiacchiericcio mattutino.
Sembra un vociare, per la calma, fioco
di marinai, ch’ad ora ad ora giunga
tra ’l fievole sciacquìo della risacca;
quando, stagliate dentro l’oro e il fuoco,
le paranzelle in una riga lunga
dondolano sul mar liscio di lacca.
Alba
Temporale
Odoravano i fior di vitalba
per via, le ginestre nel greto;
alïavano prima dell’alba
le rondini nell’uliveto.
Un bubbolìo lontano...
Alïavano mute con volo
nero, agile, di pipistrello;
e tuttora gemea l’assïolo,
che già spincionava il fringuello.
Tra i pinastri era l’alba che i rivi
mirava discendere giù:
guizzò un raggio, soffiò su gli ulivi;
virb... disse una rondine; e fu
giorno: un giorno di pace e lavoro,
che l’uomo mieteva il suo grano,
e per tutto nel cielo sonoro
saliva un cantare lontano.
Rosseggia l’orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un’ala di gabbiano.
Il nido
La siepe
Dal selvaggio rosaio scheletrito
penzola un nido. Come, a primavera,
ne prorompeva empiendo la riviera
il cinguettìo del garrulo convito!
Qualche bacca sui nudi ramicelli
del biancospino trema nel viale
gelido: il suol rintrona, andando, quale
per tardi passi il marmo degli avelli.
Or v’è sola una piuma, che all’invito
del vento esita, palpita leggiera;
qual sogno antico in anima severa,
fuggente sempre e non ancor fuggito:
Le pasce il piccol re, re degli uccelli,
ed altra gente piccola e vocale.
S’odono a sera lievi frulli d’ale,
via, quando giunge un volo di monelli.
e già l’occhio dal cielo ora si toglie;
dal cielo dove un ultimo concento
salì raggiando e dileguò nell’aria;
Anch’io; ricordo, ma passò stagione;
quelle bacche a gli uccelli della frasca
invidïavo, e le purpuree more;
e si figge alla terra, in cui le foglie
putride stanno, mentre a onde il vento
piange nella campagna solitaria.
e l’ala, i cieli, i boschi, la canzone:
i boschi antichi, ove una foglia casca,
muta, per ogni battito di cuore.
Nel cuore umano
Non ammirare, se in un cuor non basso,
cui tu rivolga a prova, un pungiglione
senti improvviso: c’è sott’ogni sasso
lo scorpïone.
Non ammirare, se in un cuor concesso
al male, senti a quando a quando un grido
buono, un palpito santo: ogni cipresso
porta il suo nido.
Pianto
Più bello il fiore cui la pioggia estiva
lascia una stilla dove il sol si frange;
più bello il bacio che d’un raggio avviva
occhio che piange.
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Giovanni Pascoli - Primo Circolo Vico