INSEGNAMENTO DI
FILOSOFIA DEL DIRITTO II
LEZIONE IV
“TEORIA RELAZIONALE: A. LEVI E B. CICALA”
PROF. CATERINA BORRAZZO
Filosofia del diritto II
Lezione IV
Indice
1 Teoria relazionale, istituzionalismo, normativismo------------------------------------------------ 3 2 Rapporto giuridico e concetto di norma ------------------------------------------------------------- 4 3 Socialità e giuridicità ------------------------------------------------------------------------------------ 6 4 Derivazione privatistica della teoria relazionale --------------------------------------------------- 8 5 Rapporto tra soggetto e norma: confronto con kelsen ------------------------------------------ 10 6 Esperienza e prassi: confronto tra capograssi e hart -------------------------------------------- 12 7 Obbedienza Esterna E Formale --------------------------------------------------------------------- 16 8 Sovranità e giuridicità --------------------------------------------------------------------------------- 18 9 Sovranità e riconoscimento --------------------------------------------------------------------------- 19 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Teoria relazionale, istituzionalismo,
normativismo
Le teorie generali del diritto, e cioè la teoria relazionale, il normativismo e
l’istituzionalismo, costituiscono un tentativo di definizione del fenomeno giuridico. Esse
rispondono alla domanda
“quid
ius”: secondo il normativismo il diritto è norma, secondo
l’istituzionalismo è istituzione e secondo la teoria del rapporto giuridico, altrimenti detta teoria
relazionale, il diritto è rapporto. Le tre teorie mostrano la loro debolezza in quanto non chiariscono i
termini “norma”, “istituzione” e “rapporto”.
In particolare, la teoria relazionale non si limita a sottolineare il carattere intersoggettivo del
diritto: quest’ultimo, analizzato nella sua essenza, sarebbe appunto rapporto, e non norma o
istituzione. A proposito della teoria del rapporto giuridico del Levi, il Conte giustamente osserva
che la relazionalità non è più una qualità del diritto, bensì l’essenza stessa di esso: il diritto non è
relazionale, ma relazione; non è norma relazionale, ma rapporto intersoggettivo.
E’ normale che nell’ambito della società si instaurino tra gli uomini rapporti e relazioni,
bisogna, però, interrogarsi sulle ragioni per le quali il diritto si interessa a certe relazioni sociali,
mostrandosi, invece, totalmente indifferente rispetto ad altre. E’ proprio questo il punto rilevante: se
il diritto fosse intrinsecamente rapporto sarebbe riconoscibile a prescindere dall’utilizzazione di altri
strumenti e da altre connotazioni, quali norme, qualificazioni, forza, ecc.
Ma, il diritto qualifica come giuridici solo certi rapporti, istituisce certi tipi di rapporti
piuttosto che altri, e questo è incompatibile con la pretesa di risolvere il diritto nel rapporto. Il
diritto, dunque, instaura e costituisce certi rapporti e non si limita a riconoscere rapporti già
esistenti.
L’affermazione del diritto come rapporto implica la distruzione delle caratteristiche di
orientamento e regolamentazione che sono insite nel concetto di norma o di dover essere. Risolvere
il diritto nel rapporto significa risolvere il diritto nel rapporto sociale, nell’essere. Il rapporto sociale
diviene giuridico solo attraverso la qualificazione normativa, allora bisogna capire in che cosa
consista quest’ultima.
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2 Rapporto giuridico e concetto di norma
Una vera e propria teoria generale incentrata sul concetto di rapporto giuridico è stata
sviluppata in Italia da Alessandro Levi; precedentemente, invece, il rapporto giuridico e quello
morale erano stati oggetto dell’interesse di Francesco Bernardino Cicala.
Le teorie in questione presentano, però, alcune difficoltà che spiegano la scarsa fortuna che,
oggi, incontra il tema del rapporto in sede di teoria generale.
Sia nella concezione del Levi che in quella del Cicala il concetto di rapporto giuridico non
riesce a svilupparsi autonomamente dal concetto di norma o qualificazione normativa. In entrambe
il concetto di rapporto appare come sussidiario e dipendente rispetto a quello di norma, mentre,
nell’ambito di una teoria che intenda elevare il concetto di rapporto a cardine dell’intera
concezione, è il concetto di norma a doversi presentare come sussidiario e dipendente rispetto al
concetto di rapporto.
Levi, nonostante riconosca la centralità del concetto di rapporto giuridico nell’ambito della
teoria generale del diritto, dichiara che la norma è un prius logico rispetto al rapporto. Egli, per es.,
afferma che “rapporto giuridico è ogni relazione tra soggetti, considerata in funzione della norma di
diritto…”; e che “…dal concetto di rapporto giuridico siamo necessariamente portati a quello di
norma (diritto soggettivo) che non è certamente uno dei meri elementi empirici del rapporto…”; e,
ancora, afferma che “…il rapporto non è una mera relazione materiale o psicologica tra soggetti (un
contatto, un conflitto, un affetto), ma a dir così, fa corpo con la norma, questa essendo la fonte
ideale di ogni rapporto giuridico dalla quale i comportamenti dei soggetti, attingendo la loro
qualifica, desumono per ciò stesso la loro disciplina”.
In ultima analisi, solo la norma giuridica può, soprattutto attraverso la figura della tutela,
determinare quali rapporti sociali diventano giuridici. Levi così si esprime: “…la tesi che ravvisa
nel diritto oggettivo, o, ciò che è lo stesso, nel lato od aspetto oggettivo dell’ordinamento giuridico,
un prius logico rispetto all’altro suo, secondo noi imprescindibile aspetto, non vuole dire altro che
questo: che non v’è, perché non vi può essere, nessuna situazione giuridica soggettiva, la quale non
abbia nel diritto oggettivo la fonte della propria qualifica e conseguente disciplina giuridica. E non
vi può essere diritto o altra situazione giuridica del soggetto all’infuori del riconoscimento, cioè
della tutela o della sanzione e delle misure dell’una e dell’altra apprestate dal diritto oggettivo,
proprio perché l’intero fenomeno giuridico è un fatto della vita sociale, e l’espressione della volontà
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sociale regolatrice di essa vita, disciplinatrice della proportio fra soggetto e soggetto, si trova nella
norma…”.
Dai passi succitati si evince chiaramente come costante e fondamentale sia in Levi il rinvio
al concetto di norma.
Diversa è la prospettiva del Cicala, il quale ritiene che la specificità del rapporto giuridico
stia nella relazione del soggetto con la norma. Testualmente: “…ogni rapporto giuridico è
logicamente, essenzialmente una relazione: ma, nell’indagine sui termini di questa, i giuristi …si
sono fermati all’aspetto, dirò così, volgare: senza nemmeno domandarsi se esista per caso, una
relazione più profonda che costituisca, appunto, il rapporto giuridico. Tale quesito, avrebbe senza
dubbio condotto a mettere in chiaro una relazione ideale, necessaria e sufficiente, per l’esistenza di
ogni rapporto giuridico: quella cioè tra il soggetto e l’ordinamento giuridico”.
La differente impostazione dei due autori è evidente: mentre per il Levi il rapporto giuridico
è una relazione intersoggettiva, tra soggetti, che diviene giuridica per mezzo della norma giuridica;
per il Cicala il rapporto è tra entità non omologhe, e precisamente, tra il soggetto e la norma: “il
secondo elemento di ogni rapporto giuridico, presupposta l’esistenza di un soggetto naturale o
ideale, è dato dalla norma (o da gruppi di norme) del diritto obiettivo, che, perciò, appare come il
secondo termine, come il termine oggettivo, o l’oggetto della relazione giuridica. Se, quindi, il
soggetto dei rapporti giuridici è, per la massima parte dei casi, un ente corporeo, e se anche i
soggetti ideali hanno pur sempre un sostrato reale, per il quale si collegano al mondo sensibile,
l’oggetto del rapporto giuridico è, invece, in tutti i casi, un principio ideale, stabilito dai consociati
per fini della convivenza e dalla loro stessa volontà, posto al di fuori, anzi al di sopra di sé
medesimi…”.
In Levi si avverte una maggiore attenzione alla intersoggettività o socialità del fenomeno
giuridico; viceversa, Cicala presta maggiore attenzione ad una costruzione più interna al diritto
stesso.
In entrambi gli autori, in realtà, è proprio il concetto di norma ad essere fonte di equivoci.
Infatti, quando Levi sostiene che la norma è un prius logico, intende dire che, come esistono
rapporti sociali che possono diventare giuridici, allo stesso modo esistono norme sociali che
possono diventare norme giuridiche. In termini diversi, i rapporti giuridici appartengono alla più
vasta famiglia dei rapporti sociali e le norme giuridiche alla più vasta famiglia delle norme sociali.
Bisogna, a questo punto, chiedersi se la norma possa sic et simpliciter generare e spiegare la
giuridicità.
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3 Socialità e giuridicità
Levi supera tale obiezione allargando il concetto di diritto positivo, fino a farlo coincidere
con il diritto sociale. L’autore testualmente: “e, pur rimanendo io strettamente fedele alla veduta che
una teoria, non pure scientifica ma filosofica, del diritto, avendo per oggetto l’esperienza giuridica,
non possa riconoscere come diritto valido se non il diritto positivo, devo tuttavia ammettere che,
identificando la giuridicità con la socialità, non posso non allargare notevolmente il concetto di
positività, considerando come norma giuridica ogni norma, da chiunque posta e comunque
osservata, dalla quale discenda una disciplina intersoggettiva dei comportamenti”.
Va detto, però, che tali affermazioni non risolvono assolutamente il problema della
giuridicità: se tutto è giuridico, non si pone affatto il problema di una distinzione tesa a cogliere lo
specifico giuridico.
E’ chiaro che il diritto non si risolve solo nel fenomeno inerente all’attività giudiziaria e
neppure è un’esclusiva emanazione dello Stato, porre, però, l’equivalenza tra diritto e socialità
comporta un allargamento del modello di diritto tale da non consentire più la comprensione della
realtà sociale. Se il diritto non è uno dei sistemi sociali, ma coincide tout court con il sistema
sociale, non serve ricercare una specifica struttura giuridica o specifiche funzioni giuridiche; il
giurista non è più, anche, per certi aspetti, un sociologo giuridico, in quanto egli diviene sic et
simpliciter un sociologo.
In realtà, la giuridicità è avvertita come una qualità specifica: giuridicità e socialità sono
avvertite come distinte, in quanto non tutto il sociale è giuridico. In altri termini, il diritto,
interessandosi solo a certi comportamenti sociali, è solo a questi ultimi che attribuisce la qualifica di
giuridicamente rilevanti. E’ del tutto evidente, dunque, come non sia possibile dilatare la giuridicità
fino a farvi rientrare ogni manifestazione del sociale.
Ritornando ora alla relazione norma-rapporto operata dal Levi, va detto che il ricorso al
concetto di norma come prius logico, vuole spiegare e mettere in luce il carattere orientativo del
diritto. Precisamente, il diritto tende ad orientare i comportamenti, spingendoli verso l’intrecciarsi
di certi rapporti: questo può spiegarsi solo attraverso il ricorso al concetto di norma come dover
essere, che vede il diritto come un’attività che incide sulla e nella realtà sociale, ma rimane al di
sopra di essa.
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Il ricorso al concetto di norma non consente, però, la distinzione tra il mero orientamento,
che è intrinseco al sociale, e l’orientamento specifico, che è proprio del diritto e che consiste in un
vero e proprio condizionamento. E’ per questa ragione che la norma di per sé non può spiegare la
giuridicità, né il concetto di rapporto giuridico può esser chiarito con un semplice richiamo
normativo.
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4 Derivazione privatistica della teoria relazionale
Vediamo ora perché la teoria relazionale è oggi poco accreditata. Bisogna considerare che
guardare al fenomeno giuridico come rapporto significa guardare al diritto attraverso i suoi settori
specifici rientranti nel diritto privato. In concezioni di questo tipo si ricorre alla norma per spiegare
il carattere giuridico vincolante del diritto privato.
Un modello così costruito suggerisce l’idea di un diritto che esiste in rebus, un diritto
spontaneo, che nasce dalla libera volontà delle parti e che ha nel consenso e nella libertà i suoi
cardini essenziali; nella specie, suggerisce l’idea di rapporti sociali di tipo privatistico, che il diritto
dello Stato si limita solo a riconoscere. Osserva giustamente Cotta: “la teoria relazionale cede… il
passo in ultima istanza a quella normativa. Tuttavia si può dire che nella teoria relazionale è più o
meno implicita la idea che sia il rapporto intersoggettivo di obbligo-pretesa a dar vita alla norma,
così come avviene nel contratto. Pertanto, secondo questa dottrina, tanto la norma sia privata che
pubblica, quanto le istituzioni nascono da, o meglio con, questo tipo di rapporto, e quindi, in ultima
analisi, dal consenso (la cui etimologia con-sentire indica appunto un rapporto), dall’accordo di
quelle volontà che si manifestano nel rapporto e anzi lo costituiscono”.
Un modello così costruito è, però, parziale e può suggerire l’idea che il diritto si sviluppi
spontaneamente, con un tipo di conflittualità che sfocia pur sempre in un libero accordo.
E’ necessario, a questo punto, chiedersi se le manifestazioni del “sociale” quali la
conflittualità, la coercizione, la violenza, che sono fortemente connesse con il “giuridico”, possano
essere adeguatamente spiegate da una concezione come quella leviana di derivazione privatistica.
Nonostante il richiamo del Levi alla teoria istituzionale di Romano, quest’ultima aveva come
bersaglio proprio la teoria relazionale, per il suo carattere intrinsecamente privatistico.
Noberto Bobbio, dopo aver sottolineato che la teoria istituzionale del diritto, nata in Italia
con Santi Romano, studioso del diritto pubblico, si contrapponeva alla concezione privatistica del
diritto e, quindi, alla definizione del diritto come rapporto, afferma che considerare il diritto sub
specie relationis significa partire dall’individuo di per sé considerato, il quale, venendo a contatto
con altri individui, è costretto, per sopravvivere, a stabilire con essi dei contatti sociali. Si parte,
dunque, da una considerazione atomistica della società. Viceversa, sostiene Bobbio, considerare il
diritto sub specie istitutionis, significa partire da una considerazione organica della società: la
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società è vista come un tutto organico del quale gli individui sono parti alle quali la società assegna
ruoli determinati.
L’istituzionalismo ha il merito di aver spostato l’attenzione dei giuristi sul cosiddetto diritto
pubblico, o diritto oggettivo. Quella di Santi Romano, che adotta nei confronti del fenomeno
giuridico una metodologia in antitesi a quella privatistica di Levi, è senza dubbio la concezione più
adeguata a spiegare le nuove forme assunte dal diritto nella realtà sociale (ad es. il sindacalismo di
inizio secolo, i movimenti che tendevano ad organizzarsi seguendo modelli pubblicistici).
La teoria relazionale appare, quindi, come poco accreditata in quanto profondamente
invecchiata a fronte delle nuove forme di organizzazione giuridica che il secolo ventesimo ha visto
nascere e svilupparsi.
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5 Rapporto tra soggetto e norma: confronto con
kelsen
Anche la teoria del rapporto giuridico sviluppata da Cicala sembra inadeguata. Va,
innanzitutto, chiarito che la presunta affinità tra essa e la teoria del rapporto giuridico del Kelsen è
solo un equivoco nascente dal fatto che l’autore praghese parla del rapporto giuridico, non come di
un rapporto tra soggetti giuridici, bensì come di un rapporto tra soggetto e ordinamento giuridico.
In realtà, tutto ciò che la teoria di Kelsen e quella di Cicala hanno in comune è solo il rifiuto
della teoria tradizionale, la quale considerava il rapporto giuridico come rapporto tra soggetti. Sono,
invece, notevoli le differenze sussistenti tra le due teorie.
In Cicala predomina l’idea di un rapporto ideale sussistente tra il soggetto, inteso come
individuo, e le norme giuridiche, intese come oggetto del rapporto giuridico. L’autore, infatti,
afferma che “…tutte le volte che l’individuo, volontariamente o involontariamente, entrerà in una
delle condizioni previste dall’ordinamento giuridico, sorgerà un rapporto giuridico, un rapporto cioè
tra l’individuo (termine soggettivo o soggetto) e le norme giuridiche (termine oggettivo o oggetto
del rapporto giuridico), applicabili alla rispettiva fattispecie”.
L’impostazione del Cicala è incompatibile con il rapporto giuridico come concepito dal
Kelsen. Infatti, mentre per il Cicala il rapporto giuridico è rapporto fra il soggetto e le norme, per il
Kelsen il rapporto giuridico è sic et simpliciter rapporto fra norme, venendo il comportamento
dell’individuo in rilievo come comportamento del soggetto solo se e nella misura in cui è previsto
dalle norme giuridiche. Il Kelsen afferma testualmente che “dal punto di vista di una conoscenza
rivolta al diritto cioè alle norme giuridiche, si prendono in considerazione non rapporti tra individui
bensì soltanto rapporti tra norme giuridiche (prodotte o applicate da individui) oppure rapporti tra
fattispecie determinate dalle norme giuridiche stesse: all’interno di queste fattispecie, il
comportamento umano rappresenta pertanto un caso particolare anche se eccezionalmente
significativo”.
E’ pacifico che in Kelsen la norma non è quell’elemento semplice della concezione del
Cicala, nella quale le norme sono intese come applicabili agli individui, e si parla di norme come
imperativi, senza soffermarsi sulla profonda ambiguità della terminologia in questione. Se in Kelsen
i rapporti giuridici si determinano attraverso i rapporti tra norme, il significato dei rapporti giuridici
stessi ha la stessa ardua interpretazione del significato delle norme. In Cicala vi è, invece,
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l’ottimismo di chi poteva credere in una semplice individuazione delle norme in un mondo
giuridico senz’altro più semplice rispetto a quello attuale. Una produzione legislativa spesso
frammentaria e caotica, ma continua, incessante ed abbondante, crea oggi profonde perplessità sulla
costruzione di un rapporto giuridico inteso come relazione ideale fra il soggetto e le norme: quali
sono le norma valide? Per non parlare dei casi in cui, per eccesso o carenza di produzione
legislativa, esiste giurisprudenza oscillante in ordine al significato da attribuire alle norme generali
ed astratte che, forse, sole erano considerate da Cicala.
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6 Esperienza e prassi: confronto tra capograssi e
hart
Giuseppe Capograssi è l’autore che più coerentemente ha sviluppato la concezione
dell’esperienza nell’ambito del “giuridico”.
E’ opportuno prendere spunto da alcuni punti di tale concezione e confrontarla con quanto è
avvenuto nell’ambito di concezioni generali del diritto, come per es. quella di Herbert Hart o quella
di Hans Kelsen.
Da un lato c’è, nel pensiero capograssiano, il tentativo di cogliere l’essenza del diritto
nell’esperienza del singolo che decide, agisce, obbedisce, accetta il diritto, etc.; dall’altro, nel
campo del normativismo, c’è il tentativo di racchiudere il diritto in un mero insieme di norme.
Ebbene, quest’ultimo tentativo, vale a dire quello di comprimere il diritto in una definizione che o
esclude il momento della prassi o lo riconduce a mera condizione, si può considerare
insoddisfacente.
Un confronto più interessante può risultare quello tra Capograssi ed Hart. Ed interessante
potrebbe essere chiarire la concezione hartiana del fondamento dell’ordinamento giuridico alla luce
della dottrina dell’esperienza.
Hart è considerato un esponente del normativismo critico del XX secolo, ma, se ci si
sofferma sulle conclusioni del suo pensiero sul fondamento del diritto, si comprende come esse non
siano affatto normativistiche, bensì di tipo prassistico. Secondo Hart esistono due condizioni
minime necessarie e sufficienti per l’esistenza di un ordinamento giuridico. Egli afferma che “da un
lato devono essere generalmente obbedite le norme di comportamento che sono valide in base ai
criteri definitivi di validità dell’ordinamento, dall’altro devono essere effettivamente accettate come
criteri comuni e pubblici del comportamento ufficiale, da parte dei funzionari dell’ordinamento, le
norme di riconoscimento che stabiliscono i criteri di validità giuridica e le sue norme di mutamento
e di giudizio. La prima condizione è la sola che i cittadini privati devono necessariamente
soddisfare: essi possono obbedire ognuno soltanto per quanto lo riguarda e per qualsiasi motivo; per
quanto in una società sana essi accettino spesso di fatto queste norme come criteri comuni di
comportamento e riconoscano un obbligo di osservarle, o addirittura riducano quest’obbligo ad un
obbligo più generale di rispetto per la costituzione. La seconda condizione è quella che deve,
inoltre, essere soddisfatta dai funzionari: essi devono considerare queste norme come dei criteri
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comuni di comportamento ufficiale e valutare criticamente le deviazioni proprie e di altri come
errori”.
L’una condizione è l’abitudine all’obbedienza, l’altra è il concetto di accettazione effettiva
delle norme di riconoscimento, da parte dei funzionari, consistente in una vera e propria prassi
sociale, un’importate forma di esperienza, un momento in cui il diritto non riesce ad essere norma,
ma è, innanzitutto, uso sociale della norma e, quindi, infine decisione ed azione.
Hart, in polemica con l’ipoteticismo della teoria della norma fondamentale di Kelsen,
sostiene che se i tribunali ed i funzionari dell’ordinamento individuano il diritto in accordo con i
criteri stabiliti dalla costituzione, significa che quest’ultima è accettata ed esiste realmente.
Sarebbe, dunque, una ripetizione, secondo Hart, sostenere l’esistenza di un’ulteriore norma secondo
la quale la costituzione deve essere obbedita.
La concezione capograssiana dell’esperienza può aiutarci a comprendere, appunto, il
problema del fondamento del diritto, sussistendo su tale tema importanti convergenze tra un
normativista quale Hart e un prassista quale Capograssi. Infatti, già nella presentazione dei modi di
operare del diritto nell’ambito di una società che Hart definisce come sana, i consociati diventano
coloro che, capograssianamente, vivono integralmente l’esperienza del diritto. L’assunzione del
punto di vista interno, come punto di vista di coloro che accettano le norme come guida della
propria condotta e valutazione della propria e di quella altrui, non è altro che un momento definito
da Capograssi come centrale e fondamentale.
Per es., in tema di rapporto sussistente tra obbedienza ed ordinamento, Capograssi sostiene
che “…in ogni atto di obbedienza ci sono due motivi, per cui si obbedisce. C’è il motivo dipendente
dalla varia e momentanea psicologia del soggetto: si obbedisce per automatismo, per conformismo,
per disciplina, per interesse, per paura, e così via. Ma, al di sotto di questa immediata e superficiale
situazione psicologica, c’è il profondo motivo, non apparente alla superficie, dell’adesione che il
soggetto dà all’intero ordinamento, all’intero complesso dei principi, delle regole, dei fini su cui
l’ordinamento si fonda: l’atto profondo, vissuto più che consapevolmente in sede riflessa voluto, di
accettazione dell’ordinamento totale e complesso, dal quale nasce il normale comportamento del
soggetto e di soggetti, e in cui in ultima analisi mette le sue radici tutta l’esperienza giuridica nel
suo complesso”.
In questa pagina capograssiana è possibile delineare, da un lato, l’obbedienza passiva,
l’obbedienza, cioè, intesa come abitudine all’obbedienza; dall’altro lato, l’obbedienza attiva, vale a
dire quell’accettazione dell’ordinamento, che in Hart consiste nella diffusione, nell’ambito di una
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società sana, del punto di vista interno da parte dei privati cittadini, in corrispondenza ad una società
di “pecorini” in cui l’accettazione delle norme di riconoscimento, e quindi dell’ordinamento
giuridico, è ristretta ai pubblici funzionari, mentre i privati cittadini osservano le norme, obbedendo
ciascuno per conto suo.
E’ possibile affermare che la distinzione, operata da Hart, tra punto di vista interno e punto
di vista esterno, sia riconducibile all’istanza capograssiana di convertire la scienza del diritto
nell’esperienza del diritto, e quest’ultima in esperienza normativa di tipo comune. Si capisce come,
allorquando il soggetto diventa elemento centrale del giuridico (in Hart i consociati che assumono il
punto di vista interno, in Capograssi colui che, agendo, coglie la vita nel diritto), ebbene,
allorquando la prospettiva è dalla parte dell’azione, cadono le esatte distinzioni tra ciò che è diritto e
ciò che diritto non è, in quanto, il soggetto che esperisce è coinvolto in tutte le suggestioni personali
di tipo sociale, religioso, politico, etc.
In Hart, per es., la distinzione tra obbligo giuridico ed obbligo sociale dipende, in ultima
analisi, dal concetto di pressione sociale o addirittura dalla serietà della pressione sociale. Per il
filosofo inglese le norme sono impositive di obblighi quando la generale richiesta di conformità è
continua e quando importante è la pressione sociale che si fa sentire su chi viola tali norme. Se le
norme impositive di obblighi sono originate dalla mera consuetudine, se non sono previste sanzioni
per i casi di violazione di esse, se la pressione sociale assume, quindi, solo la forma di
manifestazioni verbali di disapprovazione o di richiami al rispetto per la norma violata, senza
arrivare alle sanzioni fisiche, siamo al cospetto di norme tipo morale e gli obblighi da esse derivanti
sono obblighi morali. Se, invece, tra le forme di pressione sono comuni le sanzioni fisiche, le norme
possono esser considerate come una forma primitiva di diritto. Le norme fanno sorgere degli
obblighi, dunque, se è importante e seria la pressione sociale dietro di esse.
Particolarmente significativo è che, nell’ambito del normativismo, pur così lontano dalla
dottrina dell’esperienza, si sviluppi, attraverso il richiamo al concetto di prassi, un tentativo di
risolvere la crisi aperta dall’ipoteticismo kelseniano.
Anche la relativa adesione del Capograssi ad un certo tipo di istituzionalismo lo portava a
considerare il diritto nella sua applicazione, nel suo essere vissuto, applicato ed obbedito. E’ questo
un motivo in più per l’utilizzazione della dottrina dell’esperienza nell’ambito del realismo giuridico
scandinavo ed americano, che con la dottrina dell’esperienza hanno in comune il fatto di cogliere il
diritto nell’azione. Un confronto tra Hart e Capograssi intende solo richiamare l’attenzione sui vari
spunti offerti dalla dottrina capograssiana dell’esperienza, non essendo, ovviamente, possibile la
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ricezione in toto della concezione stessa, in tutte le sue articolazioni, nell’ambito delle suddette
dottrine.
Abbiamo richiamato Hart in quanto i concetti di esperienza e di azione capograssiani non si
risolvono nei luoghi della decisione giudiziaria, cioè nel processo e nella sentenza, bensì pervadono
tutto il mondo del diritto, come quotidianamente vissuto e costruito da parte degli individui. Il
metodo hartiano, volto a cogliere i modi non patologici, ma fisiologici in cui il diritto si origina ed
esprime, è più vicino al concetto di esperienza capograssiana, che non il diritto nell’azione dei
realisti americani.
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7 OBBEDIENZA ESTERNA E FORMALE
Anna Maria Battista, a chiusura del saggio sul Montaigne politico, commentando la formula
del positivismo giuridico “Bisogna obbedire alla legge non già perché essa è giusta ma soltanto
perché è legge”, afferma che tale formula del moralista francese giunge diretta ad Hobbes che
partecipa del medesimo problema politico, consistente nel sottrarre l’obbedienza al vaglio del
giudizio dei singoli ed ai criteri sul giusto e sull’ingiusto. Hobbes, però, diversamente da
Montaigne, ritenendo necessaria la ricostruzione di un nesso tra razionalità e potere, tra etica e
diritto, sostiene che è la legge, come espressione della volontà sovrana, a fondare il valore del
giusto all’interno dello Stato, garantendo, così, la ragione e la morale dell’atto di sottomissione.
Partendo da queste osservazioni, si pone il problema di cosa resti, nell’ambito delle odierne
concezioni giuridiche, della dottrina della sovranità, con la quale si cercava, attraverso i meccanismi
di legittimazione, di trovare consenso e conseguire, quindi, l’obbedienza dei sudditi al potere
costituito. Ma, nel momento in cui, con Montaigne e poi con Hobbes, l’obbedienza viene scissa,
venendo in rilievo solo sotto il profilo del mero comportamento esterno, si ha la convergenza della
legittimità e dell’effettività.
D’altra parte, nel sec. XVII, il conflittualismo sociale imponeva la separazione dell’opinione
dall’azione, della coscienza interna dall’azione esterna; l’obbedienza alle leggi sovrane era possibile
solo se il suddito poteva continuare a separare opinione ed azione, per vivere in armonia con se
stesso, senza preoccuparsi del contenuto delle leggi da osservare.
Con Hobbes nasce il concetto di obbedienza meramente esterna o passiva, che accompagna
la nascita della sovranità dello Stato moderno. E’ questo il punto fondamentale della teoria della
sovranità di Hobbes, non, invece, il problema della decisione come interpretato da Carl Schmitt.
Quest’ultimo, infatti, afferma che per Hobbes tutto il diritto, tutte le norme e le leggi, sono decisioni
del sovrano, e sovrano è colui che decide da sovrano, non un monarca o un organo competente. La
decisione, in luogo del disordine e dell’insicurezza dello stato di natura, instaura l’ordine e la
sicurezza e rende il sovrano che decide, appunto, sovrano. La decisione del sovrano è dittatura
statale, che crea le leggi e l’ordinamento.
E’ evidente come a Schmitt, affascinato dal Chi decide, sfugga, completamente, che, nel
momento in cui il sovrano aggrega i sudditi, che gli trasferiscono tutti i propri diritti, e si limita a
chiedere loro un’obbedienza meramente esterna, in questo stesso momento Chi decide non è colui
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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che può porsi come auctoritas bensì colui che, nell’ambito di contrastanti punti di vista religiosi,
distrugge la materia del contendere ed eleva a valore fondamentale solo l’ordine e la pace sociale,
intese come tendenziale assenza dell’uso della forza.
In realtà, dunque, Hobbes ritiene che sovrano non sia colui che nominalisticamente ha
deciso da sovrano, ma colui che storicamente ha capito che il contenuto della sovranità, cioè
l’obbedienza, doveva essere meramente formale. Dalla separazione tra foro interno ed esterno, tra
opinione ed azione, tra convinzione e comportamento, tra consenso ed obbedienza meramente
esterna nasce la sovranità dello stato moderno in Hobbes.
La Battista, in relazione alla teoria dell’obbedienza meramente passiva ed esterna di
Montaigne e di Hobbes, usa le espressioni “obbedienza a-critica”, “atto di abdicazione passiva” e
“dottrina triste”. Ma questa concezione è l’origine della costituzione dello Stato moderno e della
possibilità della critica al sistema costituito che sarà facoltà del cittadino illuminato del XVIII
secolo.
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8 Sovranità e giuridicità
In origine, la dottrina della sovranità cerca, attraverso i meccanismi di legittimazione, di
procacciare il consenso, quindi, di conseguire e giustificare l’obbedienza da parte dei sudditi al
potere costituito; con Hobbes, l’obbedienza diviene esterna e formale per realizzare l’ordine; nelle
concezioni moderne, nel concetto di diritto è implicito il fenomeno dell’obbedienza.
Quando il diritto si è presentato come ordinamento, come sistema e non come singola
norma, è stato, infatti, automaticamente ed esclusivamente concepito come diritto positivo,
intrinsecamente dotato di effettività, ed è scomparso il problema di convincere all’obbedienza.
Allorquando criterio di legittimità diviene l’effettività, il problema del rapporto tra diritto ed
obbedienza cambia significato: il problema dell’obbedienza al potere costituito diviene quello
dell’individuo che si imbatte in un complesso di norme già intrinsecamente giuridiche ed effettive.
In senso moderno, non è, dunque, concepibile un potere costituito che non faccia riferimento al
fenomeno di un’obbedienza che si è già prodotta. In conclusione, il potere costituito è, per
definizione, il potere i cui precetti sono osservati e l’obbedienza già si presenta come elemento
fenomenico.
Allora, il quia dell’obbedienza è un fenomeno prettamente individuale. Il problema sta nel
conflitto tra quanti si interrogano su specifiche pretese di comportamenti e quanti accettano la
conformità abitudinaria della società.
La teoria della sovranità, che postulava da un lato la norma e dall’altro la decisione
dell’obbedienza alla norma, risulta, oggi, superflua, dal momento che l’obbedienza esterna e
formale delineata da Hobbes è divenuta un elemento della definizione stessa del diritto. Se, infatti,
nel concetto di ordinamento giuridico è implicito l’elemento fenomenologico dell’effettivitàobbedienza, sarebbe superfluo convincere a comportamenti già naturalmente prodotti. Nel mondo
contemporaneo, non si contesta la necessità di un diritto come ordinamento o come Stato, ma,
semmai, si richiede che l’ordinamento abbia certi contenuti piuttosto che altri, richieste queste che
possono essere espresse anche attraverso la disobbedienza civile che, però, non genera guerre civili,
come, per es., quelle religiose del secolo XVIII, che originarono la scissione dell’obbedienza dal
consenso.
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9 Sovranità e riconoscimento
Partendo dall’assunto che nell’ambito delle moderne concezioni del diritto nessuno contesta
il criterio dell’effettività, vediamo se il comportamento dell’uomo può venire in rilievo anche sotto
un profilo più costruttivo.
Partiamo dalla proposizione di Carl Schmitt: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”.
In realtà stato di eccezione e caos, dapprima distinti dal filosofo, finiscono col confondersi; il
rapporto va, dunque, inteso tra la sovranità ed il caos.
L’affermazione per cui “sovrano è colui che pone fine al caos” è del tutto destituita di senso.
Infatti, il concetto di caos (di guerra civile) mette a nudo la pretesa delle fazioni in lotta del
riconoscimento della qualità della sovranità. Tale fenomeno si coglie nel caso eccezionale e limite,
cioè nella patologia dell’ordinamento giuridico: nel caso eccezionale, la decisione sovrana si
esprime nel tentativo di vedere se stessa riconosciuta come regola tra i consociati in lotta, e tale
pretesa di obbedienza verso la decisione sovrana viene avanzata attraverso la norma.
Il sovrano, ponendo se stesso come sovrano, fissa se stesso come modello di comportamento
in cui è implicita una richiesta di conformità. Ma quest’ultima ha un senso solo nell’ambito dei
consociati che decidono di riconoscere come sovrana quella richiesta. Quindi, sovrano non è colui
che pone fine al caos, bensì chi è riconosciuto come tale dai consociati, indipendentemente, però,
dall’accettazione sostanziale del sovrano e del mondo normativo che esprime.
Il riconoscimento è un atto indispensabile per cogliere la dimensione normativa del diritto,
ma il riconoscimento può essere totalmente distaccato dal fenomeno del consenso: anche un ordine
ingiusto o avvertito come tale può essere riconosciuto come giuridico dai consociati, ma, in una
situazione, per es., caratterizzata da un’obbedienza vi et armis, il riconoscimento può essere
all’origine di una decisione di opposizione all’ordine stesso.
Probabilmente la sovranità sta in questi atti di riconoscimento, che spesso si tramutano in
decisioni di opposizione all’ordine costituito anche attraverso le rivoluzioni. In queste situazioni si
ha l’interruzione del diritto, in quanto quest’ultimo, se inteso come diritto positivo, è legato da un
lato al comportamento come effettività, cioè all’obbedienza passiva, dall’altro al comportamento
come azione di riconoscimento, atto di decisione che è all’origine della tramutazione del fatto nella
norma.
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Sovrani sono gli uomini che riconoscono come diritto le decisioni di chi domina, pur
potendo tali decisioni essere prodotte attraverso il terrore o vi et armis. L’ultima possibilità è il
rifiuto del riconoscimento, che già avvia alla decisione di opposizione.
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