Gaetano Chiurazzi Modalità ed esistenza Dalla critica della ragion pura alla critica della ragione ermeneutica: Kant, Husserl, Heidegger Copyright © MMIX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 a/b 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–2505–5 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione Trauben: 2001 I edizione Aracne: aprile 2009 Indice 11 Introduzione 15 Capitolo I La modalità tra logica e ontologia 1.1. Etimologia e uso del termine “modalità”, p. 15 – 1.2. La struttura degli enunciati modali: predicati e modalità, p. 20 – 1.3. Le modalità come operatori sincategorematici, p. 27 – 1.4. Il rapporto modale come rapporto prepositivo, p. 30 – 1.5. L’ircocervo e la chimera della logica: equivocità e consignificatio della copula, p. 36 – 1.6. Modalità e intenzione: il significato operazionale delle modalità, p. 44 – 1.7. I contesti modali come contesti “opachi”: identità e sostituzione, p. 51 – 1.8. Una logica senza esistenza?, p. 61 – 1.9. Logica, ontologia, grammatica, p. 66 69 Capitolo II L’a priori sincategorematico 2.1. Dal rapporto di inerenza al rapporto trascendentale: la “rivoluzione copernicana” come rivoluzione modale, p. 69 – 2.2. La logica trascendentale come grammatica trasformazionale, p. 78 – 2.3. Il concetto kantiano di modalità, p. 81 – 2.4. La nozione kantiana di “oggetto possibile”, p. 86 – 2.5. Reinterpretazione della nozione di oggetto: interpretazione logica, grammaticale e fisico-matematica, p. 98 – 2.6. I modi intelligendi del rapporto all’oggetto: le categorie, p. 102 – 2.7. La deduzione delle categorie, p. 111 – 2.8. La cosa in sé, o l’identità dei discernibili, p. 138 – 2.9. I dispositivi deittici dell’intuizione: tempo e spazio, p. 146 – 2.10. Modificazione soggettiva e modificazione oggettiva: sensazione, affezione, schema, p. 151 – 2.11. “Essere non è un predicato reale”: la funzione sincategorematica dell’essere e il carattere posizionalmente eccentrico dell’esistenza, p. 157 – 2.12. Il senso dell’a priori, ovvero l’a priori del senso, p. 167 9 10 Indice 175 Capitolo III La grammatica del senso 3.1. Estensionalità soggettiva e intensionalità assoluta, p. 175 – 3.2. Il fenomeno come spazio di gioco delle varietà significanti, p. 183 – 3.3. L’oggettività come entimema, p. 188 – 3.4. Categoremi e sincategoremi: inapparenza del senso, incompletezza del significato, p. 198 – 3.5. Lo statuto specificamente modale del senso, p. 207 – 3.6. Tempo e fenomeno, p. 218 223 Capitolo IV Comprensione ed esistenza 4.1. Considerazioni preliminari: la svolta aristotelica della fenomenologia, p. 223 – 4.2. Sostanzialità e deissi: dalla coscienza fenomenologica all’Esserci effettivo, p. 226 – 4.3. L’analitica esistenziale come ontologia dinamico-materiale, p. 234 – 4.4. Il sovrastare della possibilità: l’Esserci come “soggetto mancante”, p. 240 – 4.5. Il problema del giudizio: la consignificatio temporis della copula come consignificatio existentiae, p. 248 – 4.6. “Entity without identity”: l’insostituibilità dell’Esserci e il carattere sottrattivo dell’angoscia, p. 257 – 4.7. La dialettica della ragione ermeneutica: morte, totalità e senso, p. 270 – 4.8. Dall’aoristo al perfetto: la perfettività dell’esistenza dal punto di vista pratica, p. 283 – 4.9. Schematizzare senza percetto: la comprensione come momento non-ideale della verità, p. 291 305 Capitolo V Convenienza e obliquità del senso 5.1. L’essere kat¦ sumbebhkÒj: la sintesi a priori come correlazione fattuale, p. 305 – 5.2. Convenienza, sopravvenienza, olismo, p. 315 – 5.3. La diagonale: il senso della ratio, p. 319 323 Bibliografia 1. Aristotele, p. 323 – 2. I. Kant, p. 324 – 3. G.W.F. Hegel, p. 325 – 4. E. Husserl, p. 325 – 5. M. Heidegger, p. 327 – 6. Altri testi, p. 330 – 7. Enciclopedie e dizionari, p. 346 Capitolo I La modalità tra logica e ontologia 1.1. Etimologia e uso del termine “modalità” Il termine “modalità” è, come termine tecnico del linguaggio filosofico, relativamente recente. Il suo uso subisce una consacrazione definitiva a partire da Kant, il quale, nell’Analitica trascendentale, parla di «categorie della modalità» (Kategorien der Modalität), espressione che non fu esente da critiche già da parte dei primi lettori della Critica della ragion pura, come per esempio F. Schlegel1: con tale espressione Kant intendeva le cosiddette categorie della possibilità, effettività (Wirklichkeit) e necessità. Kant non è stato l’iniziatore di un tale uso, avendo probabilmente mutuato il termine da Crusius che, nel Weg zur Gewißheit und Zuverlässlichkeit der menschlischen Erkenntnis (1747) parla di “modalità” (Modalität) a proposito dei gradi di subordinazione o contrarietà dei concetti2. Come termine tecnico “modalità” compare dunque piuttosto tardi nel lessico filosofico, dove però il sostantivo modus e il corrispondente aggettivo modalis sono attestati sin dal Medioevo. “Modus” significa “misura”, “limite”, “ritmo” (e dunque “numero” e “tempo”), “metodo”, “modo”, “voce verbale”. La forma avverbiale modo indica l’opportunità del momento, la giustezza o il limite dell’adesso, l’essere recente, appena passaCfr. Schlegel, Kritische Ausgabe, XIII, p. 267. Cfr. Crusius, Weg zur Gewißheit und Zuverlässlichkeit der menschlischen Erkenntnis, §§163 e 164. 1 2 15 16 Capitolo I to3. Questo insieme di significati sembra solo in parte giustificare l’uso del termine “modus” per tradurre il greco trÒpoj, con cui Aristotele, soprattutto nel De interpretatione e negli Analitici Primi , designa le figure del sillogismo, nonché i modi della possibilità, necessità e contingenza4. Chiaramente associato a un certo tipo di enunciato, il termine trÒpoj si ritrova per la prima volta in Ammonio, che usa l’espressione ¢pof¦nseij (o prot¦seij) met¦ trÒpou, corrispondente al latino enunciationes modales5. L’ambito semantico del sostantivo trÒpoj è quello del verbo tršpein, che significa “svoltare”, “cambiare direzione, verso”, “prendere un’altra via”: trÒpoj vuol dire perciò innanzitutto “deviazione”, “cambiamento di direzione”, “svolta”. Quest’idea del cambiamento di senso giustifica evidentemente quella confluenza di due termini greci, trÒpoj, appunto, ed œgklisij, che significa “declinazione”, nel latino modus, che è stata notata da Trendelenburg nei suoi Elementa Logices Aristoteleae: Nelle esposizioni filosofiche si è ora soliti comprendere questi tre tipi di enunciato [assertorio, apodittico e problematico] sotto il nome comune di modalità. Vocabolo che non è tratto dallo stesso Aristotele, ma dai suoi commentatori. [...] Quel che i commentari greci di Aristotele chiamavano trÒpoj è detto dai Latini e già in Boezio modus. [...] Infatti i modi grammaticali del verbo non sono poi così distanti da quelli logici. Quel che presso i Greci era detto œgklisij si era trasformato, già in Quintiliano (Inst. Or. I, 5), nel sostantivo “modo” : “per genera, tempora, personas, modos sive cui status eos dici seu qualitates placet”; e in Prisciano, libro ottavo: “Modi sunt diversae inclinationes animi varios eius affectus demonstrantes”. Il significato di modalità viene dunque tratto e confermato dall’uso dei commentatori di Aristotele e dei grammatici.6 L’uso grammaticale riguarda, come si vede dall’esempio di Prisciano, le diverse modalità dell’animo: il modo indica uno status, una condizione, un’inclinazione o un affetto. L’inclinazione (o Cfr. l’Oxford Latin Dictionary. Aristoteles latinus, II 1-2. Commentaria in Aristotelem graeca, vol. IV, parte VI, p. 38. 6 Trendelenburg, Elementa Logices Aristoteleae, pp. 66-67. 3 4 5 La modalità tra logica e ontologia 17 l’affezione) non è però il mero cambiamento di una res, ma della sua relazione in rapporto ad altro, e cioè piuttosto il modo del suo esser dato. È quel che grammaticalmente corrisponde al campo della flessione e della sintassi7. I logici medievali distingueranno infatti una modalità de re (concernente le possibili variazioni predicative) e una modalità de dicto (concernente le possibili variazioni enunciative, del nesso soggetto-predicato). L’affezione, la variazione di senso, può essere intesa come una modalità de re solo a condizione che le “inclinazioni” dell’animo o lo status cui si riferiscono le definizioni di Quintiliano e di Prisciano vengano compresi come modificazioni o flessioni di una sostanza8, e non di un rapporto. Nel significato logico si allude a una risistemazione o riconfigurazione sintattica, a una diversa disposizione, a una trasformazione formale: l’uso medievale del termine “modus” per indicare le diverse configurazioni delle tre principali figure del sillogismo è dovuto al fatto che i modi sono variazioni (dispositiones) ulteriori di queste figure fondamentali in base alla qualità (affermativa, negativa) e alla quantità (universale, particolare, singolare) della compositio, cioè del giudizio “A è B”.9 L’affermazione, la negazione, la quantificazione, sono dunque operatori trasformazionali responsabili della diversificazione modale di una figura. Sia il significato logico sia quello grammaticale alludono quindi a una variazione sintattica che comporta una variazione semantica. Un contesto modale è però un contesto in cui sintassi e semantica non sono separabili, ma strettamente interdipenCfr. Lyons, Introduction to Theoretical Linguistic, tr. it. p. 171. Secondo la classificazione più comune nel Medioevo, la grammatica si occupava del senso, e cioè del recte loqui, la correttezza sintattica i cui momenti sono la constructio, la congruitas e la perfectio, mentre la logica si occupava della verità, del vere loqui. Il loro studio, insieme a quello della retorica, costituiva un tutto compreso sotto il nome di sermocinalis scientia (cfr. Bocheński, Formale Logik, p. 182). Il “modo”, come vedremo, si colloca all’intersezione tra sintassi e semantica, costituendo il principio di una variazione sintattica che determina una variazione semantica. 8 Cfr. ad esempio Spinoza: «Per modum intelligo substantiae affectiones, sive id, quod in alio est, per quod etiam concipitur». Spinoza, Ethica, Pars prima, “Definitiones”, VI 9 Cfr. W. of Sherwood, Introductiones in logicam, III 94 sgg. 7 18 Capitolo I denti. È il caso, come vedremo (§2.2.), della logica trascendentale, a proposito della quale J. Simon scrive: «le categorie possono essere concepite come termini di collegamento tra sintassi e semantica»10. Si delinea quindi un carattere peculiare dei contesti modali: il fatto che in essi ogni produzione di verità non sia indipendente dalla strutturazione sintattica, cioè dalla particolare dispositio, o dal contesto. Un’anticipazione, a titolo introduttivo, delle conseguenze teoriche cui vogliamo alludere, si può rintracciare in un esempio che ci è suggerito proprio dalle definizioni grammaticali di Quintiliano e Prisciano, in cui ricorrono termini come status, inclinationes, animus e affectus: appunto l’Estetica kantiana. In apertura dell’Estetica trascendentale, al §1, e più avanti, nei paragrafi posti a corollario delle esposizioni dei concetti di spazio e tempo, Kant scrive infatti: La capacità (recettività) di ricevere rappresentazioni pel modo in cui siamo modificati (afficirt) dagli oggetti, si chiama sensibilità. [...] L’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne siamo affetti, è sensazione. (§1) Lo spazio non è altro se non la forma di tutti i fenomeni dei sensi esterni [...] [come] [...] attitudine recettiva del soggetto ad essere modificato dagli oggetti [...]. (§3) Il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. (§6)11 In queste definizioni la terminologia di Quintiliano e di Prisciano compare praticamente in maniera letterale. Non è del resto un caso che Kant chiami lo spazio e il tempo modi dell’intuizione, in quanto modificazioni del nostro rapporto con le rappresentazioni date, o anche sensi, e ancor più definisca l’intera nostra facoltà di intuire intuitus derivativus: si tratta di un insieme di definizioni che, al di là della mera presa d’atto di un eventuale uso equivoco del termine “modo” in Kant12, non sono 10 Simon, Phenomena and Noumena: On the Use and Meaning of the Categories, p. 524-25. 11 Ak III-IV A 19, 26, 33/B 33, 42, 49; tr. it. pp. 65, 71-72 e 77. 12 Pape, notando l’uso equivoco del termine modus in Kant, non sembra prendere in considerazione, come qui si sta cercando di fare, le ragioni di un tale uso, e ciò evidentemente allo scopo di restringerne l’ambito esattamente a quello delle categorie tradizio- La modalità tra logica e ontologia 19 invece affatto estranee né al significato del termine trÒpoj né a quello di œgklisij. L’originaria derivatività dell’intuizione - definita attraverso quelle dispositiones che sono lo spazio e il tempo - implica per Kant una concezione disposizionale del rapporto tra il soggetto extra-apofantico e l’oggetto: essa non può quindi essere assimilata alla relazione intercorrente tra il soggetto logico e il suo predicato. Il ruolo delle categorie della modalità nei postulati del pensiero empirico in generale - il quadro “sintattico” generale dell’esperienza - e la loro connessione con il tempo nello schematismo - che detta le condizioni “semantiche” generali dell’esperienza - significano per Kant che ogni oggetto acquista per noi senso solo all’interno di un quadro disposizionale disegnato dalle forme a priori (spazio, tempo e categorie), le quali precedono l’oggetto, ovvero qualsiasi tipo di enunciato: tali condizioni o premesse dell’esperienza modalizzano l’oggetto sotto forma di una “modalità esterna”13. Questa definizione disposizionale della modalità spinge a guardare, al di là della classificazione storicamente determinata impostasi a Kant, verso quelli che Russell ha chiamato “atteggiamenti proposizionali” (propositional attitudes) - come “sapere che...”, “temere che...”, “volere o desiderare che...” -, accostamento che potrà sembrare indebito, ma che non è privo di fondamento. Come infatti scrive G. J. Mattey, Kant «riconobbe un’affinità tra quelle che oggi sono chiamate logica dossica e logica epistemica, oltre che con la logica del giudizio, fatto che non ha una precisa controparte nel pensiero contemporaneo», al punto da poter essere considerato «il fondatore delle moderne branche, dossica ed epistemica, della logica modale».14 Tanto le modalità aletiche quanto gli atteggiamenti proposizionali si definiscono infatti come modalità “esterne”, relazioni “soggettive”, che in Kant includono persino quelle forme di modalizzanali della modalità. Cfr. Pape, Tradition und Transformation der Modalität, p. 14. 13 “Modalità esterna” è quella che determina un intero enunciato, e non una sua parte predicativa, come accade nel caso della “modalità interna”. Tale distinzione corrisponde a quella tra modalità de dicto e modalità de re. Cfr. Maierù, Terminologia logica della tarda scolastica, p. 325. 14 Mattey, Kant’s Theory of Propositional Attitudes, pp. 423 e 440. 20 Capitolo I zione indessicale proprie dell’Estetica trascendentale, lo spazio e il tempo. Anche in questi casi parleremo quindi in senso ampio di “modalità”. Quel che insomma si vuol mettere in luce è la possibilità di una convergenza tra il concetto di “modo” e quello di “senso”: nelle lingue contemporanee, infatti, il termine “modo” è praticamente interscambiabile con la parola “senso”. Si osservino ad esempio le traduzioni della seguente espressione di Aristotele: tÕ ™ndšcesqai kat¦ dÚo lšgetai trÒpouj (An. pr. A 13, 32b5) tradotta come: 1) “contingere” duobus modis dicitur (Boezio) ; 2) contingere secundum duos dicitur modos (Anonimo); 3) «“essere possibile” si dice in due sensi» (tr. Mignucci); 4) «“to be possible” has two meanings» (tr. Smith); 5) «“to be possible” is used in two ways» (tr. Barnes); 6) «der Ausdruck kontingent [...] in zweifacher Weise gebraucht wird» (tr. Rolfes); 7) «contingent a deux significations» (tr. Bathélemy Saint-Hilaire). Una prima considerazione porterebbe a rilevare come nell’uso fregeano “senso” indichi appunto una diversa modalità di riferirsi a un oggetto, una modalità indiretta, obliqua, simile a quella dei casi grammaticali e dei modi derivati del giudizio. Questa definizione, tuttavia, ci sembra insufficiente: le discussioni che seguiranno – di cui in questo paragrafo introduttivo si è già data un’anticipazione - cercheranno infatti di mostrare come il modo, e con esso il senso, si definisca infatti piuttosto come un “ambito”, ovvero come la definizione di un limite entro il quale determinati significati sono possibili, punto di intersezione tra sintassi e semantica, costituendo così il “punto di volta” della rivoluzione trascendentale kantiana. 1.2. La struttura degli enunciati modali: predicati e modalità Con Aristotele si può cominciare a parlare di “logica modale”. La teoria della modalità costituisce infatti il tratto più originale della metafisica e della logica aristoteliche, dal momento che una logica categorica, chiaramente estensionale - basata La modalità tra logica e ontologia 21 cioè su rapporti di inclusione o di appartenenza fra concetti - si adegua molto meglio a un contesto platonico che non alla concezione metafisica di Aristotele15. La concezione aristotelica della modalità è specificabile da due punti di vista: in quanto trattazione delle modalità dell’essere, di cui è parte la dottrina della potenza e dell’atto (in particolare nel Libro Q della Metafisica), e come modalità logica, ovvero come dottrina dei sillogismi della possibilità, necessità, contingenza (sviluppata in particolare nei capitoli 12 e 13 del De interpretatione e nei capitoli 3 e 8-22 degli Analitici Primi). Il primo tipo di modalità, che potremmo dire ontologica, si fonda su principi reali, costitutivi della realtà, quali sono per Aristotele la potenza (dÚnamij, possibile reale) e l’atto (™nšrgeia), mentre il secondo si riferisce a principi logici, soprattutto quello di non contraddizione (possibile logicum)16. Lo statuto delle modalità è da distinguere, innanzitutto, dall’ambito del categoriale. Quasi a sottolineare tale diversità di ambito storicamente “obliata” (e questo oblio ha per Heidegger tutto il significato che egli attribuisce all’epocale “oblio dell’essere”) tra modalità e categorialità, Heidegger osserva giustamente in Aristotele, Metafisica Q 1-3: Soprattutto per Kant e a partire da Kant, infatti, la “possibilità” e la “effettività” (Wirklichkeit) insieme alla “necessità”, fanno parte delle categorie; costituiscono il gruppo delle categorie della “modalità”; come si dice in breve, sono la modalità. Ma in nessuna delle enumerazioni fornite da Aristotele delle categorie si trovano dÚnamij e ™nšrgeia. Per Aristotele la domanda su dÚnamij e ™nšrgeia, su possibilità ed effettività, non riguarda la domanda sulle categorie. Su questo punto, nonostante tutti i tentativi di darne l’interpretazione opposta, non ci devono essere esitazioni.17 Heidegger coglie qui molto lucidamente l’incongruenza con tutte le conseguenze filosofiche che ne derivano - dovuta 15 Cfr. Bocheński, Formale Logik, p. 50. Nella elaborazione di una logica modale Bocheński vede anzi il criterio per una classificazione anche cronologica dei testi aristotelici, essendo quelli in cui essa compare (in particolare i capitoli 8-22 del libro A degli Analitici primi) i più tardi (ibid., pp. 50-51). 16 Cfr. Seel, Die aristotelische Modaltheorie, pp. 191-92. 17 GA 33, p. 9; tr. it. pp. 12-13 (modificata). 22 Capitolo I alla considerazione della modalità come categoria (sebbene una tale accusa nei confronti di Kant sia suscettibile di una delimitazione tenendo conto del concetto kantiano di categoria; cfr. infra, §2.3.): le categorie sono infatti per Aristotele ciò che si predica di o inerisce a una sostanza, la quale è la prima categoria. Esse sono, da un punto di vista grammaticale, ciò che può dirsi kat¦ mhdem…an sumplok»n, senza connessione18, ciò che ha un significato autonomo, indipendente, e perciò può fungere, in un enunciato, da soggetto o predicato: i sostantivi e i verbi19. In Aristotele comunque la distinzione tra modalità e categorialità non è ancora del tutto chiara, e ciò è probabilmente una conseguenza della preponderanza che, in sede logica come in sede ontologica, vi assume la dottrina della sostanza, che comporta un primato della funzione nominale. La funzione primaria che nomi e verbi hanno nella onto-logica aristotelica fa allora sì che anche i “predicati” modali vi compaiano, in maniera peraltro non del tutto esplicita, come mere determinazioni aggiuntive del soggetto o del predicato. Il luogo che giustifica una tale interpretazione è un passo molto discusso degli Analitici Primi (A 13, 32b 26-32), in cui si tratta della struttura degli enunciati modali: secondo J. M. Bocheński Aristotele sembra sostenere qui che un enunciato della forma “è possibile che p” debba essere inteso come “ad A è possibile B”, e cioè che A ha la capacità di essere B, A è in potenza B. Le modalità riguarderebbero, insomma, non l’intero enunciato, ma l’una o l’altra delle parti componenti l’enunciato, il soggetto o il predicato20. “Possibile”, “necessario” e “contingente” sarebbero così riferibili, non a una relazione (il nesso tra il soggetto e il predicato che costituisce un dictum), ma direttamente al soggetto o al predicato, come una “capacità” (una potenza) o una “effettività” (atto), una determinazione metafisica, reale. Una tale interpretazione è confermata dal fatto che già nell’antichità Alessandro di Afrodisia Cat. 4, 1b 25-28. Cfr. Benveniste, Catégories de pensée et catégories de langue, in Problèmes de linguistique générale; tr. it. pp. 79-92. L’interpretazione grammaticale era stata avanzata già da Trendelenburg nel suo studio sulle Categorie di Aristotele. 20 Cfr. Bocheński, Formale Logik, p. 96. 18 19 La modalità tra logica e ontologia 23 considerava la dottrina aristotelica della modalità come contraria a quella degli scolari di Aristotele, Eudemo e Teofrasto, i quali sostenevano esplicitamente che le modalità riguardano l’intero enunciato21. Questa tesi troverà una sistematizzazione definitiva solo nella Scolastica. Si deve infatti soprattutto ai logici del tardo Medioevo il tentativo di elaborare una complessa dottrina della modalità, che porterà alla chiarificazione della struttura degli enunciati modali. L’interesse per questo problema venne alimentato, tra l’inizio del XII e la metà del XIII secolo, dalla rimessa in circolazione dei libri logici di Aristotele come i Topici, gli Elenchi sofistici e soprattutto gli Analitici Primi e Secondi, corpus raggruppato sotto il nome di Logica nova, in contrapposizione alla Logica vetus, comprendente le Categorie, il De interpretatione, le Isagoge di Porfirio e i Commentari di Boezio. Oltre a un approfondimento della sillogistica modale, in Aristotele ancora non completamente sviluppata, i logici della prima e tarda Scolastica si concentrano sulla struttura degli enunciati modali, con una riflessione originale intrapresa non più solo come commento ai testi aristotelici, ma come linea di ricerca autonoma. Così Guglielmo di Sherwood definisce gli enunciati modali rispetto a quelli semplicemente categorici (del tipo “A è B”) nel suo Introductiones in logicam: Consideriamo allora l’enunciato secondo questa divisione: de inesse e modalis. È de inesse quello che significa semplicemente l’inerenza del predicato al soggetto: e ciò senza determinare in qual maniera vi inerisca. Modalis invece è quello che determina l’inerenza del predicato al soggetto, che cioè dice come il predicato inerisca al soggetto.22 21 Cfr. Graeser, Die logische Fragmente des Theophrast, p. 79; cfr. Kneale, Modalities de dicto and de re, pp. 623. L’interpretazione de re della dottrina modale aristotelica degli Analitici Primi, in contrapposizione peraltro a quella metapredicativa del De interpretatione, è sostenuta, con convincenti argomenti, da Sainati, Logica e filosofia, pp. 177-88. 22 W. of Sherwood, Introductiones in logicam, I 402-407. Sulla dottrina modale di W. of Sherwood cfr. Jacobi, Die Modalbegriffe.... 24 Capitolo I Una proposizione modale, a differenza di quella meramente categorica, dice il modo in cui un predicato inerisce a un certo soggetto: ciò può avvenire per compositionem o per divisionem (Abelardo), a modo compositionis o a modo rei (Alberto Magno), de dicto o de re (Pietro Ispano, Tommaso d’Aquino), sensu composito o sensu diviso (Ockham), cioè nella forma, rispettivamente, della modalità esterna o della modalità interna. Mentre la modalità de re indica il modo d’essere di una cosa (il soggetto o il predicato), la modalità de dicto esprime il modo d’essere della relazione fra il soggetto e il predicato23: nel primo caso (interna) riguarda i termini costitutivi dell’enunciato, mentre nel secondo (esterna) riguarda l’intera loro compositio. Guglielmo di Sherwood si oppone così alla dottrina aristotelica che concepiva le modalità come appositiones, cioè predicati, poiché i predicati si riferiscono a un soggetto, ne costituiscono le determinazioni categoriali, laddove invece un “predicato” modale non si riferisce a un soggetto, ma a un dictum. Questa differenza di riferimento sottintende una differenza funzionale. Nel caso di una frase come “Socrate corre contingentemente”, ad esempio, l’avverbio può riferirsi o al predicato, e allora la frase significa che “il correre contingente” inerisce a Socrate, o al nesso tra il soggetto e il predicato, e allora essa significa che “è contingente che Socrate corra”: l’enunciato modale, in quanto modalizzazione di un enunciato subordinato, è un discorso indiretto, un’oratio obliqua. Nella chiarificazione della struttura delle proposizioni modali è dunque centrale la distinzione dei possibili riferimenti del modus presente nell’enunciato: esso può indicare, o la variazione di una res (una sostanza: tutte le categorie sono per Aristotele in senso lato sostanze), o la variazione di un nesso, della sumplok». La differenza sensu diviso-sensu composito significa che nel primo caso è in gioco una categoria, un nome (che per Aristotele è “senza connessione”), mentre nel secondo un enunciato, una composizione tra categorie. Tale è difatti la chiarificazione che del termine “modus” dà Tommaso d’Aquino, in quelCfr. Prior, Modality de dicto and modality de re; Kneale, Modalities de dicto and de re; Liske, Modalitas de dicto und de re. 23 La modalità tra logica e ontologia 25 la che è considerata una sua “opera giovanile”, De propositionibus modalibus, di cui si ritiene autentica almeno la prima parte24: un modo è una determinazione che può avvenire, o tramite un aggettivo nominale riferito a un sostantivo, come in “un uomo bianco”, o tramite un avverbio relativo a un verbo, come in “un uomo corre bene”, o ancora tramite un aggettivo o un avverbio che si riferiscono al nesso tra il predicato e il soggetto, e cioè all’intera compositio (come in “è impossibile che Socrate corra”). Questo terzo caso costituisce una modalità de dicto, ovvero un enunciato modale in senso stretto, mentre i primi due sono esempi di una modalità de re25. La definizione rinvenibile già in Teofrasto trova quindi con la Scolastica una precisa convalida: un enunciato modale assume la forma grammaticale di un dictum non indipendente completato da quello che appare come un predicato, del tipo “è necessario che”, “è possibile che”, “è impossibile che”, “è contingente che”. Sia Guglielmo di Sherwood sia Tommaso d’Aquino (come del resto Abelardo) sono concordi nell’enumerare accanto a questi quattro modi, così come aveva fatto Aristotele 26, anche “è vero che”, e il suo contrario “è falso che”. Essi negano però che in tali casi si abbia a che fare con autentici enunciati modali, perché equivalenti ai corrispondenti enunciati categorici: “è vero che Socrate corre” non implica affatto una modalizzazione della compositio, ma è del tutto equivalente a “Socrate corre”27. Ma proprio la chiarificazione della struttura formale degli enunciati modali porterà i logici della tarda Scolastica a un ampliamento del loro numero: dal momento che un enunciato è modale se trasformabile in un “che-enunciato”, non c’è motivo, 24 Cfr. Bocheński, Sancti Tomae Aquinatis “De modalibus” opusculum et doctrina, pp. 180-218; Idem, Formale Logik, p. 211. 25 Tommaso d’Aquino, De propositionibus modalibus, in: Opera omnia, vol 6, pp. 579-80. esattamente opposta è la concezione di Abelardo, per il quale la modalità genuina è quella de re. Sulle difficoltà della distinzione de dicto e de re cfr. Kneale, Modalities de dicto and de re. 26 Cfr. De int. 12, 22a 12-13. Ma cfr. anche 13, 22a 24-31, dove il termine ¢lhqšj è lasciato cadere. 27 Cfr. Tommaso d’Aquino, De propositionibus modalibus, in: Opera omnia, vol 6, p. 580; W. of Sherwood, Introductiones in logicam, pp. 32-33. 26 Capitolo I osserva infatti Guglielmo d’Ockham, per restringerne la tipologia alle quattro classi tradizionali. Nella Summa logicae egli scrive infatti: A tal proposito bisogna notare che una proposizione si dice modale a causa del modo che viene aggiunto nella proposizione. Tuttavia, non un qualunque modo è sufficiente per fare una proposizione modale, ma è necessario che esso si predichi di tutta la proposizione: parliamo infatti propriamente di “modo di una proposizione”, come se riguardasse la proposizione stessa. [...] Ma tali modi sono più dei quattro che abbiamo dianzi ricordato: infatti così come una proposizione è necessaria, o impossibile, o possibile, o contingente, allo stesso modo un’altra è vera, o falsa, o saputa, ignota, proferita, scritta, concepita, creduta, opinata, dubitata, e così via.28 Un dictum, scrive dunque Ockham, può venir modalizzato in molti modi: proposizioni modali non sono quindi semplicemente quelle del possibile, impossibile, necessario e contingente, ma anche (contrariamente a quanto affermavano Guglielmo di Sherwood e Tommaso d’Aquino) quelle concernenti l’essere vero, l’essere falso, e poi l’essere conosciuto o non conosciuto, proferito, scritto, concepito, creduto, opinato, dubitato. I modi che rendono modale una proposizione sono anzi innumerevoli.29 Per quanto riguarda il silenzio che Aristotele ha tenuto su questa moltitudine di proposizioni modali, Ockham sostiene che è stato dovuto unicamente a ragioni “di brevità”, potendosi facilmente dedurre, una tale moltitudine, dalla struttura stessa dell’enunciato modale. Questa liberalizzazione della tradizionale classificazione della modalità fa di Ockham un antesignano della logica modale contemporanea, che distingue ormai vari tipi di modalità: aletiche (necessario, effettuale, possibile), epistemiche (riguardanti la conoscenza, come sapere, credere, opinare ecc.), temporali (che comportano determinazioni di tempo), bulomaiche (dal greco boÚlomai, che significa desiderare, e che riguardano tra 28 G. d’Ockham, Summa logicae, in: Opera Philosophica et Theologica, vol. I, p. 243. G. Ockham, Tractatus minor logicae, in: Opera Philosophica et Theologica, vol. VII, pp. 79-80. 29 La modalità tra logica e ontologia 27 l’altro il temere, lo sperare, ecc.), deontiche (concernenti il dovere e il divieto), valutative (tipo “è bene che” o “è bello che”), causali (riguardanti la causalità fisica)30. Tutte queste forme di modalità implicano il riferirsi a un dictum e non a una res, per cui la logica modale è intrinsecamente una logica non predicativa. Per quanto risulti intrattabile dal punto di vista della logica classica, essa costituisce un ambito di senso che investe praticamente la gran parte del linguaggio quotidiano, all’interno del quale gli enunciati formulabili nella logica classica non-modale costituiscono, in fondo, una parte minima. 1.3. Le modalità come operatori sincategorematici Con la chiarificazione della struttura degli enunciati modali la dottrina scolastica della modalità consegue un risultato di grande rilievo. La distinzione tra modalità de dicto e modalità de re finisce però con l’implicare una differenza tra i predicati che si applicano a una res (le categorie) e quelli che si applicano a un dictum. Che cos’è, insomma, che rende modale un enunciato? Nei logici medievali l’interesse per la modalità non a caso va di pari passo con l’interesse per i sincategoremi, cioè per quelle parti del discorso che esprimono diverse “modalità di relazione”, ovvero modi diversi della sumplok». La mancanza di una trattazione esplicita dell’ambito sincategorematico in Aristotele, e in particolare delle congiunzioni e delle preposizioni, era già stata notata da Abelardo nel suo commento al Peri Hermeneias31. Nella Poetica la congiunzione (sÚndesmoj) e l’articolazione o preposizione (¥rqron) sono chiamate da Aristotele fwn¾ ¥shmoj, in opposizione al nome e al verbo, fwn¾ shmantik»32, su cui si concentra la sua attenzione. Ma, per 30 Cfr. voce “Modallogik”, Historisches Wörterbuch der Philosophie, Band VI; voce “Modalité”, Encyclopédie philosophique universelle, II, vol. 2. 31 Abelardo, Logica “Ingredientibus”, in: Philosophische Schriften, I-3 (Super Perihermeneias), p. 336(27)-340(18). 32 Poet. 20, 1456 (39) e 1457 (6 sgg.). L’autenticità del capitolo 20 della Poetica è stata messa in dubbio da Maier, per rilievi di carattere soprattutto formale: egli comun- 28 Capitolo I quanto siano parti “non significative”, esse sono comunque essenziali - necessarie -, poiché per Aristotele senza articolazione non c’è, propriamente, linguaggio. Il problema della funzione delle parti non categorematiche del discorso assume nella logica medievale un’importanza decisiva, poiché proprio da esse dipende alfine l’interpretazione degli enunciati modali. Abelardo lo pone in maniera esplicita, e la sua formulazione costituisce la base delle successive discussioni. Dei sincategoremi si tratta, non soltanto nelle varie Summae, ma persino in trattati specifici, come quelli di Pietro Ispano, Syncategoreumata, e quello di Guglielmo di Sherwood, Syncategoremata, al quale in particolare ci riferiremo nelle discussioni che seguono. Guglielmo di Sherwood spiega così la funzione dei sincategoremi, riprendendo una definizione di Prisciano: «Questo nome si dice [...] “sincategorema” da “syn”, cioè “con”, e “categoreuma”, ovvero “significativo” o “predicativo”, per cui lo diremo “compredicativo”; infatti nel discorso è sempre congiunto con altro»33. Il termine greco - introdotto da Prisciano nel suo Institutionum grammaticorum libri XVIII34, testo considerato fondamentale negli studi logici della Scolastica - lascia intendere che i sincategoremi sono elementi che si accompagnano ai categoremi, ai predicati, non essendo dotati di una funzione indipendente; hanno un loro senso (significatio), che è identico però alla loro funzione35, ovvero alla particolare sintesi che attuano tra gli elementi predicativi dotati di un significato autonomo, i nomi e i verbi. Tra i sincategoremi, che sono elementi secondari del discorso, Guglielmo di Sherwood enumera gli aggettivi, gli avverbi, le congiunzioni e le preposizioni36. Si tratta - tranne che per gli aggettivi, i quali però nella loro funzione sincategorematica assumono una forma non declinata, neutra - di parti invariaque ne considera certamente aristotelico il contenuto, derivante direttamente dal De interpretatione (cfr. Maier, Die Echtheit der aristotelischen Hermeneutik). 33 Syncategoremata magistri Guillelmi di Shireswode, p. 48, 16 sgg. Cfr. anche P. Ispano, Syncategoreumata, Introductio, 2. 34 Prisciano, Institutionum grammaticorum libri XVIII, II, 54, 5. 35 Jacobi, Die Modalbegriffe..., p. 219; Boehner, Medieval Logic, pp. 19-26. 36 Syncategoremata magistri Guillelmi di Shireswode, p. 48. La modalità tra logica e ontologia 29 bili del discorso. La loro funzione può essere riferita a un nome (sostantivo o verbo, categoreuma), nel qual caso è de re, o all’intero enunciato, nel qual caso è de dicto. Ad esempio, in “uomo bianco” (homo albus), l’aggettivo “bianco” è una determinazione di secondo grado del categorema “uomo”, mentre “ogni” in “ogni uomo corre” (omnis homo currit) è una determinazione di secondo grado dell’enunciato quantitativamente indeterminato “homo currit”.37 Nel primo caso si ha una variazione predicativa, nel secondo una variazione di senso. Tra i restanti elementi secondari dell’enunciato - oltre agli aggettivi e agli avverbi - che Guglielmo di Sherwood annovera tra i sincategoremi troviamo la negazione (non), operatori della quantificazione (ogni, qualche, nessuno), operatori modali nel senso tradizionale (necessario, possibile ecc.) e giuntori (e, o, se...allora, se e solo se). Si tratta di operatori o costanti la cui funzione è formalmente distinta da quella delle variabili predicative38; a ognuno di essi corrisponde perciò un simbolo specifico, diverso da quello predicativo del tipo Fx, e precisamente: ¬ ∀ □ ∧ → ↔ negazione ogni necessario congiunzione “e” (anche “⊃” o “⇒”) ( anche “⊇” o “⇔”) ∃ almeno uno ◊ possibile ∨ disgiunzione “o” se...allora, implicazione se e solo se..., equivalenza. 37 Ibid, 7-15. Che qui si tratti di determinazioni di secondo grado, è sostenuto da K. Jacobi, in contrapposizione all’interpretazione di Bocheński e di Kretzmann (cfr. Bocheński, Formale Logik, p. 180; W. of. Sherwood, Treatise on Syncategorematic Words, p. 14 sgg.). Cfr. Jacobi, Die Modalbegriffe..., pp. 221-24. 38 Così Jacobi sottolinea l’importanza di una tale distinzione: «Un nome modale deve essere strettamente distinto da un nome predicativo. Le analisi [dei logici scolastici] si avvicinano sotto molti aspetti all’idea che i concetti modali sono operatori logici; tuttavia, poiché essi non dispongono né di termini generali come “funtore” o “operatore”, né di simboli per i funtori logici, quest’idea deve essere sempre nuovamente riconquistata nelle analisi di enunciati modali determinati.» (Jacobi, Die Modalbegriffe..., p. 131). 30 Capitolo I La presenza di uno di questi funtori o operatori 39 implica dunque una modalizzazione: il senso di p è diverso da quello di ¬p, malgrado il loro contenuto resti identico. Ad essi non corrisponde infatti nulla in realtà, non hanno alcun riferimento determinabile; hanno un certo significato, ma che resta indefinito finché non è associato a un categorema o a un dictum. Il loro prosshma…nein, “significare in riferimento a”, è anche un susshma…nein, un “significare con”40. Essi contribuiscono alla formazione e alla variazione di un senso. Il senso è risultato, non di una funzione predicativa, ma di un’operazione sincategorematica: implica l’intervento di un funtore che dispone in un certo modo la compositio soggetto-predicato (nelle Summae Metenses, così come in Guglielmo di Sherwood, Ruggero Bacone e in Ockham, tutti i sincategoremi sono detti anche “termini officiabili”, ovvero preposti a un officium.). Nel parlare, rispettando un uso ormai invalso e in certa misura fuorviante, di modalità de dicto, assumeremo quindi che vi si tratti della modalizzazione della copula, della compositio, e non del semplice soggetto o predicato. È però la stessa distinzione de dicto/de re che è priva di fondamento: modi si danno solo, in generale, di una sintesi41. 1.4. Il rapporto modale come rapporto prepositivo Tra gli elementi sincategorematici che contribuiscono alla formazione degli enunciati modali, Guglielmo di Sherwood include, come abbiamo visto, oltre agli operatori e ai giuntori lo39 Bocheński include tra i funtori, oltre a quelli qui elencati, anche i simboli dei predicati, come “F” in Fx (Bocheński, Formale Logik, pp. 24-25). Non così il Wörterbuch der Logik (voce “Funktor”) e Urchs (in Klassiche Logik, p. 49), che considera il termine “Funktor” come includente giuntori e operatori. Noi ci atterremo preferibilmente all’uso di Church, che definisce operatori i termini sincategorematici (Introduction to Mathematical Logic, § 06). 40 Tali sono le funzioni dei sincategoremi nei commentatori neoplatonici di Aristotele. Cfr. Pinborg, Die Entwiklung der Sprachtheorie im Mittelalter, pp. 30-31. 41 W. Kneale afferma che tale distinzione non ha ragion d’essere: al massimo la modalità de re è un caso speciale, e per di più poco interessante, della modalità de dicto, il cui nome è per di più inappropriato (Modalities de dicto and de re, pp. 630-31). La modalità tra logica e ontologia 31 gici, agli aggettivi e agli avverbi, anche un elemento che sembra essere specifico della grammatica di un linguaggio naturale non formalizzato - e in particolare del linguaggio in cui è maturata la metafisica occidentale -, ovvero la preposizione42. Essa sembra assommare in sé tutti i caratteri specifici del rapporto modale (la sua parentela con l’avverbio era stata sottolineata già da Prisciano)43, al punto che, come vedremo, la modalità può essere intesa in senso ampio come una funzione prepositiva. La preposizione è indubbiamente un elemento sincategorematico: rientra infatti nel gruppo dei connettivi o giuntori, insieme alla congiunzione “e”. Anzi, secondo la classificazione di Prisciano, la stessa congiunzione è una preposizione. La preposizione esplica una funzione modalizzante, in quanto stabilisce un nesso tra due termini, diverso a seconda del tipo di preposizione: in ciò essa svolge un ruolo analogo a quello della flessione. Per quanto non abbia esplicitamente parlato di congiunzioni e preposizioni, come osservava Abelardo, Aristotele ha però dedicato alcune considerazioni alla flessione. Nel De interpretatione il rapporto flessivo è chiamato paronimico, ed è proprio di ciò che non è né nome né verbo44, che non è cioè categoria. La flessione (ptîsij) è una sorta di “caduta”, un caso, una œgklisij, con cui sia i nomi sia i verbi acquistano modalità non categoriali, cioè si discostano dalla forma normale (l’unica possibile per il soggetto) del nominativo e da quella verbale del presente indicativo, che è propriamente apofantica45. Casi obliqui e tempi diversi dal presente sono dunque ascritti al rapporto paronimico, poiché in essi intervengono parti declinate che non hanno un significato proprio, ma consignificano delle relazioni prepositive o temporali. C’è dunque una certa associazione tra la paronimia e il tempo, che li accomuna in uno stesso rapporto flessivo ri42 Considerando che la funzione delle preposizioni è analoga a quella della flessione, Lyons scrive: «La categoria di caso era, per così dire, la più intrinsecamente grammaticale di tutte le categorie tradizionali della flessione, perché non aveva un corrispondente nelle scienze sorelle della logica, dell’epistemologia e della metafisica.» (Lyons, Introduction to Theoretical Linguistic, tr. it. p. 379). 43 Prisciano, Institutionum grammaticorum libri XVIII, XVI.31. 44 De int., 2, 16b 1-2. 45 Sulla nozione di ptîsij, cfr. Delamarre, La notion de ptîsij chez Aristote et les Stoïciens. 32 Capitolo I spetto al nome e al presente, al punto che, come osserva J. Pinborg, il concetto di consignificatio, inizialmente usato per distinguere il nome dal verbo, passò poi a indicare ogni modificazione della significatio provocata dalla flessione o dalle forme derivate, e anzi divenne funzione specifica dei sincategoremi 46. Tramite il rapporto flessivo il soggetto è significato obliquamente (per aliud)47: questa significazione indiretta o consignificativa del soggetto è, come vedremo, il fondamento dell’intera interpretazione kantiana e heideggeriana del giudizio. Guglielmo di Sherwood sottolinea il nesso tra preposizione e paronimia nei termini seguenti: la preposizione significa, in maniera definita, un certo status o relazione (habitudinem), che il caso significa in maniera indefinita48. Vi si tratta dunque di una habitudo o un habitus. Il verbo “habere” è un verbo di stato che, a differenza del verbo “essere”, implica una connessione non sostanziale, suscettibile di alternative. Si è precedentemente accennato al nesso possibile tra la modalità e la semantica dell’“avere” quando si è detto che gli “atteggiamenti proposizionali” implicano modalità di rapporto, espressi come habitus, modi di relazione (cfr. §1.1.). Si tratta di un concetto che qui non possiamo ulteriormente sviluppare, ma su cui attiriamo l’attenzione in vista di successivi sviluppi (cfr. infra, §2.7.a. e 4.4.). Come fa notare K. Jacobi nella sua traduzione, il rapporto prepositivo è un rapporto declinativo, flessivo49, che indica un nesso accidentale tra due termini e perciò suscettibile di diffeCfr. Pinborg, Logik und Semantik im Mittelalter, §3.2.3. Pietro Ispano sostiene che il nome ha al nominativo una significazione diretta, come il verbo nella forma presente, mentre negli altri casi la sua significazione è indiretta (Syncategoreumata, I, 3-8). Già Varrone aveva definito i casi indiretti obliqui o casuali (Varrone, De lingua latina, VIII, 1-2, 16, 49). Cfr. anche W. of Sherwood, Introductiones in logicam, I 56-90. 48 «Praepositio inventa est ut dicat definite habitudinem quam significat casuale aliquod indefinite» (Syncategoremata magistri Guillelmi di Shireswode, p. 79, 7 sgg.). Cfr. la successiva n. 49. 49 «Die Präposition ist dazu erfunden, ein Verhältnis auf bestimmte Weise zu benennen, welches ein Fall (ein dekliniertes Substantiv) auf unbestimmte Weise bezeichnet» (Jacobi, Die Modalbegriffe..., 307). Kretzmann traduce invece: «A preposition is devised to indicate definitely a state by means of which it signifies indefinitely something fortuitous» (W. of Sherwood, Treatise on Syncategorematic Words, p. 11617). 46 47 La modalità tra logica e ontologia 33 renti configurazioni. La sua specificità è valutabile in rapporto agli altri elementi connettivi che svolgono una funzione analoga, “se”, “e” e “o”. Ognuno di questi giuntori esprime una diversa modalità di connessione: “se” introduce un nesso di implicazione, e quindi tendenzialmente necessario; la congiunzione “e” stabilisce invece un rapporto tra due termini, il cui fondamento non è né l’uno né l’altro, potendo essi sussistere in forma del tutto irrelata50; la disgiunzione “o” esprime un rapporto di alternatività. Rispetto ad essi, la preposizione, come si è detto, contribuisce alla formazione di un rapporto casuale, che non è né univoco, come il rapporto di implicazione (potenzialmente sinonimico), né equivoco, come il rapporto connettivo o disgiuntivo; si tratta di un rapporto né necessario né del tutto immotivato, un rapporto sub conditione, coniugativo, sub jugo: «Si dicono “coniugati” quei termini che stanno sotto lo stesso significato quasi sotto un giogo, come il denominativo o attributivo o concreto e il significato principale o astratto, come albus - albedo, iustus - iustitia»51. L’esempio con cui qui Guglielmo di Sherwood illustra il rapporto coniugativo è di tipo paronimico: si tratta di un rapporto condizionato (sub jugo), ma non necessario, che associa cioè due termini restando comunque indiretto. Non è perciò né equivoco né univoco. Queste considerazioni ci consentono di operare una sorta di “estensione” del ruolo della preposizione, eleggendola a rappresentante di ogni tipo di rapporto modale: un rapporto modale è, in generale, un rapporto di tipo prepositivo. Lo stesso termine “preposizione” potrebbe essere sinonimo di sincategorema: se alla categoria è demandata una funzione ponente, tetica, ai sincategoremi è invece assegnata una funzione pre-positiva che dispone i termini secondo una certa relazione: il sincategorema in generale non è perciò esso stesso un termine 52. La nozione di “preposizione”, il cui nome, come nota Guglielmo di Sherwood, Cfr. Jacobi, Die Modalbegriffe..., p. 307. W. of Sherwood, Introductiones in logicam, I 587-89. 52 Maierù, Terminologia logica della tarda scolastica, p. 227. 50 51 34 Capitolo I deriva dalla sua stessa funzione53, esprime peraltro una certa precedenza in cui è possibile intravedere il senso stesso dell’a priori come a priori del senso (cfr. infra, §2.12). Più esplicitamente che in altre parti sincategorematiche del discorso, nel concetto di “preposizione” emerge dunque il nesso tra sintassi e senso che è proprio della modalità. Una differenziazione prepositiva consiste infatti in una differenziazione posizionale dei termini: preposizioni come “in”, “di”, “con” “tra” ecc. non significano nulla di per sé, ma significano una differenza posizionale tra i termini correlati, una diversa disposizione che produce un senso diverso. Il nesso tra modo, sincategorema e dispositio è ricorrente nei trattati logici e grammaticali della prima metà del XIII secolo. Nell’Introductiones in logicam, ad esempio, Guglielmo di Sherwood definisce tutte le parti consignificative del discorso “dispositiones alterius”54, vale a dire anche habitus, e nelle anonime Summae Metenses la dispositio è intesa come quella particolare determinazione che può riguardare il soggetto, il predicato o la loro compositio: essa è quindi praticamente un sinonimo di modus. Tale funzione dispositiva è ancora più esplicita nella definizione di modus di Alberto Magno: «Si dice modo della compositio quello che dispone (disponens) in un determinato modo e pone in forma speciale la compositio55». Il modo costituisce insomma un principio di differenziazione posizionale della compositio in base a un operatore preposizionale. Così K. Jacobi sottolinea d’altronde il nesso tra disposizioni e funzione sincategorematica: Ci sono altre disposizioni, che dispongono la compositio stessa, e cioè quelle che indicano il modo in cui il predicato inerisce al soggetto (modum inhaerendi praedicatum cum subjecto). La differenza tra funtori logici o operatori, in quanto determinazioni formali dell’enunciato, da un lato, e determinazioni del contenuto materiale dall’altro è qui 53 Syncategoremata magistri Guillelmi di Shireswode, p. 79, 10. Graficamente è solo meno usuale che i funtori modali di cui si è detto al §1.3. non siano anteposti agli enunciati: si può in verità scrivere, tanto p∧q quanto ∧(p, q), tanto p ⊃ q quanto ⊃ (p, q), così come accade nel sistema di Łukasiewicz. 54 W. of Sherwood, Introductiones in logicam, 32, 16 sgg. 55 Alberto Magno, Perihermeneias, in: Opera Omnia (vol. 1), Libro II, cap. II, 1. La modalità tra logica e ontologia 35 già vista del tutto chiaramente; esattamente questa differenza è terminologicamente afferrata come differenza tra determinazioni sincategorematiche e determinazioni categorematiche.56 Che la dispositio sia funzione specifica dei sincategoremi è una tesi ripresa anche nella scuola modista tra il XIII e il XIV secolo, a cui G. L. Bursill-Hall attribuisce un deciso avanzamento nella descrizione della preposizione57. Sigieri di Courtrai sostiene infatti che il suo modus significandi essentialis generalis consiste, come per altre parti indeclinabili del discorso che non esprimono né la permanenza (sostanzialità = nomi e pronomi) né il divenire (l’azione = verbi e participi), nella disposizione, ovvero nel riferimento puramente sintattico ad altre partes orationis: funzione consignificatrice e funzione sintattica - con cui una pars orationis si connette con altre in un discorso - vengono perciò a identificarsi58. Questa funzione dispositiva dell’elemento sincategorematico - che d’ora in poi chiameremo anche prepositivo -, trova un’interessante conferma nel paragone tra la funzione sincategorematica e il numero zero che Ockham istituisce nella Summa logicae: Invece i termini sincategorematici [...] non hanno un significato completo e certo, né significano alcunché di distinto dalle cose significate dai categoremi; come nel calcolo lo zero per sé non significa nulla, ma aggiunto ad un’altra cifra la fa significare, così il sincategorema, propriamente parlando, non significa nulla, ma aggiunto in più a qualcos’altro, lo fa significare o supporre in questo o quel modo determinato o esercita nei confronti del categorema una qualche altra funzione59. La funzione dello zero è quella di consignificare, cioè di contribuire alla definizione di un numero: per se posita, tale cifra non significa nulla. Dovremmo quindi distinguere, anche per lo zero, una doppia funzione: se “aggiunto” a un’altra cifra, le conferisce un altro significato; se assoluto, non significa nulla. Queste due funzioni, come cercheremo di mostrare, corrisponJacobi, Die Modalbegriffe..., p. 70. Cfr. Bursill-Hall, Speculative Grammars of the Middle Ages, pp. 36 e 280. Cfr. ivi, pp. 71 e 85. 59 G. d’Ockham, Summa logicae, in: Opera Philosophica et Theologica, vol. 1, p. 15. 56 57 58 36 Capitolo I dono alla distinzione tra significato e senso, e ci consentono di istituire un parallelo tra la funzione sincategorematica, lo zero e l’esistenza su cui ci soffermeremo in seguito (cfr. infra, §4.6.). L’esistenza è propriamente un nulla consignificante; la morte è il semplice nulla insignificante. La funzione sincategorematica dello zero è dovuta al ruolo che esso assume all’interno di un sistema di numerazione posizionale, sconosciuto al mondo greco. Stando a certe ipotesi sulla sua origine, probabilmente indiana, esso indicherebbe il luogo vuoto, forse il centro della ruota in cui confluiscono i raggi60. Come lo zero è il termine di riferimento operazionale di un sistema numerico, allo stesso modo il sincategorema è il fulcro di una dispositio, ciò per cui un enunciato è posto, ed è posto così e così. Non è difficile - sarà il compito che ci impegnerà nel prossimo capitolo - vedere in questa funzione modalizzatrice della sintesi la stessa funzione del soggetto trascendentale in Kant. 1.5. L’ircocervo e la chimera della logica: equivocità e consignificatio della copula A ragione Kant scrive nella Critica della ragion pura di non essersi mai potuto accontentare della concezione tradizionale del giudizio come «rappresentazione di un rapporto fra due concetti»61. La deduzione trascendentale non è che la risposta all’esigenza di trovare in un termine esterno al giudizio il fondamento della sintesi copulativa, il che comporta il passaggio dal piano puramente logico, in cui si tratta del rapporto fra soggetto logico e predicato, a quello trascendentale, in cui si tratta del rapporto tra soggetto trascendentale e oggetto (cfr. infra, §2.1.). L’Io penso è infatti una ursprungliche Verbindung, un connettivo, un sincategorema: non, quindi, sostanza. Il giudizio è la scena in cui si svolge la gigantomacˆa per… tÁj Ñus…aj, cioè la lotta sull’interpretazione del senso dell’es60 61 Cfr. Boyer, A History of Matematics, tr. it. p. 251; Odifreddi, Il computer di Dio, p. 19. Ak III B 140-41; tr. it. p. 138. La modalità tra logica e ontologia 37 sere. Aristotele distingueva due usi del verbo essere: uno copulativo, o «secondo un certo modo» (pÍ), e uno «assoluto» (¡plîj)62. Una tale differenza sintattica e semantica fa del verbo “essere” un verbo del tutto particolare, una specie di ircocervo, in cui apparentemente coesistono due usi equivoci e inconciliabili. Sull’uso copulativo viene spesso fondato il primato della categorialità sulla modalità, al punto che in senso predicativo viene interpretata anche la frase che costituisce la pietra miliare dell’ontologia aristotelica, tÕ Ôn lšgetai pollacîj, l’essere si dice in molti modi63. Secondo P. Aubenque, ad esempio, le significazioni dell’essere non sono altro che le figure della predicazione: I differenti sensi dell’essere, in conclusione, si riducono ai diversi modi della predicazione [...]: la distinzione tra atto e potenza come tra essere per sé ed essere per accidente esprimeva la possibilità di una molteplicità di significati, più che costituire una prima esposizione di queste significazioni. [...] Si può dunque ricondurre la teoria dei significati dell’essere alla teoria delle categorie e definire le categorie come i significati dell’essere in quanto si costituiscono nel discorso predicativo.64 Eppure, nel dire che “l’essere si dice in molti modi”, Aristotele non intendeva alludere semplicemente alla molteplicità dei predicati possibili dell’oÙs…a, bensì, come scrive nel libro E della Metafisica, anche a modi ulteriori (il che giustifica l’osservazione di Heidegger di cui si è detto al §1.2.): L’essere, inteso in generale, ha molteplici significati: uno di questi [...] è l’essere accidentale; un secondo è l’essere come vero e il non essere come falso; inoltre, ci sono le figure (sc»mata) delle categorie (per esempio l’essenza, la qualità, la quantità, il dove, il quando, e tutte le De Soph. El. 5, 167a 1-7. Met. Z 1, 1028 a 10. 64 Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, p. 170. Lo stesso Aubenque osserva però che, nel caso dell’“essere”, non si tratta di un “che cosa” ma di un come (cfr. p. 184), e precisamente di come le categorie si rapportano tra di loro. 62 63 38 Capitolo I restanti); e, ancora, oltre a tutti questi, c’è l’essere come potenza e atto.65 Si è visto come la logica medievale avesse praticamente classificato l’accidentale, il possibile, il necessario e - in alcuni casi - anche l’essere vero e l’essere falso, in un ambito distinto da quello dei categoremata, ovvero quello della modalità: i modi non sono modi dell’oÙs…a (cioè del soggetto), bensì del tÕ Ôn, che, come è stato rilevato, indica in Aristotele il verbo “essere”, o addirittura la copula stessa tÕ ›sti66. La molteplicità dei significati dell’essere non riguarda quindi ciò di cui si dice che è, l’oÙs…a, ma l’“è” stesso. Il dirsi secondo le categorie è perciò solo uno dei modi possibili dell’essere (quello delle determinazioni possibili dell’oÙs…a), cosicché la logica predicativa è solo uno dei modi possibili all’interno di una più vasta “logica modale”, in cui la copula gioca un ruolo fondamentale. Il rapporto tra i due ambiti può essere invertito solo intendendo ogni modo come un predicato inerente a un soggetto, il che implica, in maniera solidale sul piano logico e metafisico, la fondamentalità della dottrina della sostanza. Accanto all’uso copulativo, l’uso assoluto del verbo “essere” sembra comportare un significato autonomo - quello esistenziale -, e perciò il verbo “è” potrebbe essere assunto come un predicato nel senso pieno della parola, un predicato reale, inerente a una res. La logica medievale ha spesso affrontato il problema dei significati copulativo ed esistenziale del verbo “essere” all’interno della discussione sugli elementi sincategorematici del discorso, oscillando tra un’interpretazione categorematica e una sincategorematica, distinte sintatticamente come secundum e tertium adiacens. Abelardo separa nettamente questi due usi del verbo “essere”: pur ritenendo in un certo senso ineliminabile l’implicazione esistenziale della copula, egli si pronuncia a favore di una Met. E 2 1026 a 33 b2. Cfr. Met. Z 4, 1030a 21; H 2, 1042b 25. Cfr. Buchanan, Aristotle’s Theory of Being, p. 64. 65 66 La modalità tra logica e ontologia 39 radicale equivocità del verbo “essere”67, il quale ha quindi un doppio senso, sincategorematico e categorematico, tesi, questa, condivisa nel XV secolo dal Burleigh68. Ciò al fine di evitare i paralogismi che una tale equivocità potrebbe determinare: se infatti il significato esistenziale si introducesse anche nella copula, non sarebbe possibile dire senza contraddizione “la chimera è un non-esistente”, dal momento che l’enunciato “la chimera è” è chiaramente falso. Diversamente dalla concezione equivoca di Abelardo, Guglielmo di Sherwood sostiene che il significato esistenziale del verbo “essere” è presente anche nell’uso copulativo: un’espressione della forma “S è P” significa che “S esiste ed è P”. Una frase il cui soggetto non esiste è perciò semplicemente falsa, poiché direbbe qualcosa di qualcosa che non è, e nessun predicato sussiste senza un soggetto. La funzione copulativa del verbo “essere”, presente del resto in ogni verbo, è secondo Guglielmo di Sherwood meramente accessoria: ogni verbo, a differenza dei sostantivi, consignifica infatti già la connessione col soggetto. Come copula, “est” è da considerare perciò parte integrante del predicato69: ad essa compete una funzione modalizzante secondo le diverse flessioni temporali. Questa funzione sincategorematica è però secondaria: “essere” è innanzitutto un predicato, e significa “esistere”. Tommaso d’Aquino esplicita così tale tesi nel suo commento al De Interpretatione: «Si dice anche che il verbo “è” consignifica la compositio, perché non la significa principalmente, ma per conseguenza; infatti in primo luogo significa ciò che cade nell’intelletto nel modo dell’attualità assoluta: detto semplicemente, “è” significa “essere in atto”»70. Il significato sincategorematico del verbo “essere” appare invece prevalente in Alberto Magno, il quale considera il verbo “est” come la parte consignificante la congiunzione in ogni altro 67 Cfr. Jacobi, Peter Abelard’s Investigations into the Meaning and Functions of the Speech Sign “est”, in: Knuuttila e Hintikka (eds.), The Logic of Being, pp. 145-80. 68 Maierù, Terminologia logica della tarda scolastica, p. 213. 69 W. of Sherwood, Treatise on Syncategorematic Words, pp. 90-92. 70 Cfr. Tommaso d’Aquino, In libros Perihermeneias, in: Opera Omnia, vol. 4, p. 331. 40 Capitolo I verbo dotato di significato autonomo; preso per sé, “est”, invece, non significa nulla (cfr. Aristotele, De int. 3, 16b 24): Se infatti un verbo significa di per sé qualcosa che appartiene al significato del verbo, allora è massimamente chiaro che quel verbo [sc. “essere”] preso per sé significa ciò che è pensato in ogni verbo, vale a dire il verbo “è”: ma, detto puro e semplice, questo verbo “è” non è nulla e non ha un significato definito.71 La funzione sincategorematica del verbo “essere” è in questa citazione di Alberto Magno fortemente sottolineata: per sé, “essere” non significa nulla di determinato, non ha un significato “completo” (finitum). La sua funzione è quindi del tutto simile a quella dello zero. Questa possibilità di intendere in generale il verbo “essere” come un sincategorema - sia nella sua funzione copulativa sia in quella esistenziale -, ci sembra la più percorribile, in vista sia della sua funzione consignificativa, e quindi modalizzante, sia del suo carattere non predicativo: “essere” non è infatti, come scrive Kant, non solo un predicato reale, ma per niente affatto un predicato (cfr. infra, §2.11.). Non è un caso che l’esistenza (il presunto significato categorematico del verbo “essere”) sia sempre stata inscritta sotto il titolo della modalità, cioè delle disposizioni dell’oggetto in rapporto, come dice Kant, «alla facoltà conoscitiva»: la funzione consignificatrice del verbo essere non è nulla di diverso dalla sua funzione esistenziale. Se “essere” fosse un predicato reale sarebbe un verbo. Per Aristotele il verbo (`rÁma) si distingue dal nome (Ônoma) perché in più significa (prosshma…nein) il tempo72. La consignificatio temporis è però, non funzione del verbo in se stesso, ma della copula che esso “incorpora”. Il che è evidente nella trasformazione possibile di ogni predicazione nella forma copulativa (“Socrate cammina = Socrate è camminante”), dove si attua una chiara separazione tra ciò che nel predicato ha un valore esclusivamente categoriale (il suo senso proprio, che resta un predicato Alberto Magno, Perihermeneias, in: Opera Omnia, vol. 1, Libro I, Tract. II, Cap. III. Cfr. De int. 3, 16b 6-19. Sui rapporti tra tempo e giudizio in Aristotele cfr. Seel, Die aristotelische Modaltheorie, p. 193 sgg. 71 72 La modalità tra logica e ontologia 41 nominale) e ciò che invece ha un valore modalizzante, come consignificazione sintetica e temporale, di cui si fa carico la copula (cfr. la precedente citazione di Alberto Magno). L’essere infatti, di per sé, scrive Aristotele, «non è nulla, ma significa in più (prosshma…nei) una certa congiunzione (sÚnqes…n tina), che senza ciò che è composto non è possibile pensare»73. La copula realizza quindi la scissione tra la funzione “consignificativa” e quella “significativa” del verbo: il significato del verbo come predicato viene staccato dalla funzione sintetica e temporalmente modalizzante, che viene invece assunta in toto dalla copula74. Funzione copulativa (consignificatio compositionis) e consignificazione temporale (consignificatio temporis) sono dunque un’identica funzione, quella per cui la sintesi esprime un modo del tempo: esso è nella forma canonica del giudizio apofantico il “presente” (parÒnta) o l’“adesso” (nàn). Questa modalizzazione temporale non è un modo del predicato bensì della compositio. Essa cioè non sta a significare che il soggetto dell’enunciato è ora così e così, ma che il dictum è disposto in un certo modo rispetto al soggetto dell’enunciazione. La forma flessiva della copula è riferita al momento dell’enunciazione, cioè al punto del tempo rispetto al quale una frase come “Socrate camminava” è temporalmente “disposta”. Il nàn consignificato riguarda dunque in primo luogo, non il soggetto dell’enunciato, ma il soggetto dell’enunciazione, rispetto al quale si attua la flessione temporale: (Qualcuno ora dice che) “Socrate camminava”. Scrive a tal proposito J. Hintikka: [...] gli enunciati a cui pensa Aristotele sono temporalmente indefiniti; essi dipendono dal tempo della loro enunciazione. Si può dire che sono relativi al momento in cui sono pronunciati. Questa relazione può essere implicita, ma può anche essere resa esplicita attraverso talune espressioni “riflessive” come “adesso” o “al momento presente” nell’enunciato in questione. (Tra esse dobbiamo contare anche espressioni come “ieri” o “domani”, laddove un altro momento o periodo di tempo fosse specificato col riferimento al momento presente).75 De Int. 3, 16b 24. Cfr. Sainati, Storia dell’Organon aristotelico, vol. I, pp. 217-18; Kahn, On the Theory of the Verb “To Be”, in Munitz (ed.), Logic and Ontology, pp. 10-12. 73 74 42 Capitolo I La flessione temporale interna all’enunciato (con avverbi quali “ieri” o “domani”) è comprensibile dunque solo in riferimento al momento dell’enunciazione: la copula dice questo riferimento. I significati logico (disposizione), grammaticale (caso, flessione) e temporale del termine modus corrispondono quindi a quella pluralità di funzioni di cui è investito il verbo ™st…, quella cioè di una variazione sintattica (tertium e secundum adiacens) che è indice di una variazione semantica (attribuzione predicativa ed esistenza come “essere ora”). Consignificando il legame col soggetto, l’essere in generale esprime la temporalità della compositio, determina la disposizione, non delle singole parti del discorso, ma dell’intero contenuto enunciativo rispetto a un punto del tempo, il momento della sua enunciazione. Si tratta qui di una “rivoluzione copernicana” che mette fuori gioco le interpretazioni estensionali della consignificazione esistenziale della copula, poiché essa esprime un rapporto temporale (e quindi esistenziale) in riferimento, non al soggetto dell’enunciato, ma al soggetto dell’enunciazione (di cui quindi innanzitutto è possibile dire che “è”). Questa consignificatio temporis - celata nella funzione copulativa di ogni altro verbo, ed espressa dalla sua flessione temporale - fa così di ogni giudizio categorico un giudizio già modalizzato, in cui il riferimento al tempo (all’“adesso”) è implicito, ellittico. Ogni giudizio categorico non farebbe quindi che dire in forma ellittica e indiretta il proprio riferimento temporale. Un giudizio puro non è che una chimera, la chimera della logica, perché sarebbe un giudizio senza tempo, che esclude la copula per escludere il tempo: non è quindi della forma “A è B”, ma della forma “AB”, vale a dire, come nella logica formale, Fx. L’eliminazione della copula - e quindi della sua consignificazione temporale - ha nella logica formale lo scopo di rendere indipen75 Hintikka, Time, Truth and Knowledge in Aristotle and Other Greek Philosopers, in: Time & Necessity, pp. 64. Hintikka ha ipotizzato che i presupposti di questa concezione della consignificatio temporis in Aristotele siano da rintracciare nel prevalente riferimento all’oralità proprio della cultura greca (p. 88 sgg.). Si può però escludere tale presupposto nel caso del testo scritto? Esso, cioè, può fare a meno di ogni riferimento temporale? La modalità tra logica e ontologia 43 dente la verità da riferimenti temporali. Essa allora non fa che assumere come stato “normale” dell’enunciato la frase nominale. Come scrive E. Benveniste, la frase nominale è sempre legata al discorso diretto, serve per asserzioni di carattere generale, sentenziose o proverbiali, al di là di ogni riferimento temporale, mentre la frase con copula viene usata per indicare una dimensione temporale: [In una frase nominale] l’elemento assertivo, essendo nominale, non è suscettibile delle determinazioni proprie della forma verbale: modalità temporali, personali, e così via. L’asserzione avrà la caratteristica di essere atemporale, impersonale, non modale, in breve di poggiare su un termine ridotto al suo esclusivo contenuto semantico. [...] La frase nominale in indoeuropeo asserisce che al soggetto dell’enunciato appartiene una certa «qualità» (nel senso più generale), ma al di fuori di ogni determinazione temporale o d’altro genere e al di fuori di ogni rapporto con il parlante. [...] Un’asserzione nominale, in sé completa, pone l’enunciato fuori da ogni localizzazione temporale o modale e al di fuori della soggettività del parlante. Un’asserzione verbale, dove *esti è sullo stesso piano di *esmi o *essi o qualsiasi altra forma temporale dello stesso verbo, introduce nell’enunciato tutte le determinazioni verbali e lo situa in rapporto al parlante.76 Una tale epoché del riferimento al tempo - e cioè al soggetto - dell’enunciazione, quale si realizza nella frase nominale, appare però come una chimera, e non tanto perché risultato di una composizione indebita, ma perché residuo astratto di una riduzione logica. È interessante osservare come la considerazione del carattere irrilevante della connotazione temporale del verbo (e in particolare della copula, che assume questa funzione connotativa quando il verbo è trasformato in participio) vada di pari passo, nella logica medievale, con la necessità di esprimere linguisticamente verità di fede: ciò che ci è apparso come una chimera - l’esistenza di un giudizio puro -, non è forse, dunque, che un atto di fede. Viceversa, il tentativo di rapportare anche le verità di fede ai modi umani di comprensione (modi intelligenCfr. Benveniste, La phrase nominale, in: Problèmes de linguistique générale, pp. 158 e 160; tr. it. pp. 187 e 189. 76 44 Capitolo I di) e ai loro particolari modi di esprimersi (modi significandi), ripropose ai logici medievali il problema della connotazione temporale dell’enunciato: «Il tempo del verbo è solidale dunque con tutto l’enunciato, il quale è composto di termini che rispondono a loro volta a precisi modi significandi. Il logico, se vuole stabilire la verità o la falsità di una proposizione, non può prescindere dalla connotazione temporale»77. In Boezio l’espressione modi significandi indicava, in senso non tecnico, la consignificazione temporale del verbo78. Essa è intrinseca al modo umano di rapportarsi alla verità, anche quella divina. Come osserva M. D. Chenu, a proposito delle discussioni sui modi significandi nel XII secolo: Detto altrimenti, le leggi della verità, nel nostro spirito, non si stabiliscono unicamente a partire dalla realtà e dalle diverse realtà; esse si stabiliscono anche, e necessariamente, a partire dallo spirito stesso e dalle sue modalità psicologiche (modi intelligendi), tra cui le più radicali e più cariche di conseguenze sono, nella composizione e nella divisione, il procedimento astrattivo e la temporalità del giudizio.79 Come modo della compositio, della sintesi, la consignificazione temporale della copula - forse la sua vera consignificazione fondamentale, quella che comunque ogni logica formale elude - traccia così una linea che da Aristotele va fino a Kant (che nel tempo vede appunto il modo fondamentale della sintesi) e, da qui, a Heidegger. 77 Maierù, Terminologia logica della tarda scolastica, pp. 142-43. Anche nella Dialectica Monacensis la verità di un enunciato è fatta dipendere dalla copula, cioè dal modo del tempo consignificato. Cfr. Jacobi, Die Modalbegriffe..., pp. 184-85. 78 Osservazione di Pinborg in Die Entwicklung der Sprachtheorie im Mittelalter, p. 30. In nota, Pinborg rimanda all’uso aristotelico del termine trÒpoj. 79 Chenu, La Théologie au douzième siècle, p. 100.