LETTERA SULLA GERIATRIA Le origini Questa è una lunga storia che inizia negli anni ‘50, quando il professor Enrico Greppi, Clinico Medico di Firenze, per primo si rende conto del progressivo invecchiamento della popolazione e delle conseguenti problematiche sanitarie e sociali relative a questo trend demografico. Fonda così la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG), di cui assume la presidenza, che manterrà fino al 1969. In questo lungo periodo si adopera per imporre la nuova disciplina all’attenzione delle autorità sanitarie ed accademiche, inserendosi con prestigio anche nel contesto geriatrico internazionale. Non per sminuire l’opera dell’illustre Clinico, ma va subito detto che nulla Egli avrebbe potuto, se alle sue spalle non ci fosse stato un allievo di eccezionale valore, il professor Francesco Mario Antonini. Per Lui il Greppi fa istituire ex-novo, nel 1956, la Libera Docenza in Gerontologia e Geriatria, ed a Lui affida l’insegnamento della neonata disciplina e la direzione dell’Unità Operativa di Geriatria presso il Policlinico di Careggi, di cui l’Antonini diventa titolare a pieno titolo nel 1962 come Professore Ordinario. La Scuola Medica fiorentina viveva in quegli anni una felice ed irrepetibile stagione, illustrata dal luminoso ingegno di Antonio Lunedei e di Federigo Sicuteri, le cui intuizioni, rispettivamente nel campo dell’endocrinologia e delle cefalee, aprirono nuovi orizzonti alla scienza. Antonini non era da meno. Uomo di sterminata cultura, di folgorante fantasia, di affascinante oratoria, e di indubbio carisma, attivò presso la sua divisione una Unità di Cura Intensiva Coronarica (prima in Firenze), convinto, allora, che la intensività fosse un’arma vincente; al tempo stesso era però consapevole delle problematiche cliniche della cronicità, e degli aspetti sociali e psicologici della vecchiaia, ed assieme al suo allievo Fumagalli, prematuramente scomparso, diede alle stampe un Trattato, in cui si trova già tutto quel che sarebbe accaduto negli anni avvenire. Nella sua Scuola di Specializzazione si formarono i primi specialisti, che disseminarono la nuova cultura nel resto del paese. Va quindi a suo merito se in quegli anni, in un momento di incredibile espansione delle strutture sanitarie, si ebbe la creazione di molteplici reparti di geriatria negli ospedali italiani. Le circostanze erano molto favorevoli: il chiaro trend demografico, il dissolversi della famiglia patriarcale che privava i vecchi del sostegno dei figli, il felice momento di crescita economica del paese, erano tutti elementi che giustificavano l’apertura di questi nuovi reparti. A ciò si aggiunga (e non è cosa da poco) il favore dei vecchi primari ospedalieri: essendo la geriatria una appendice della medicina interna, essi videro in questa operazione una duplice opportunità, la prima di decongestionare i loro reparti dei “vecchi catorci”, che cominciavano ad affollarle, la seconda di “liberarsi” di “indesiderati vecchi aiuti” o di “giovani rampanti”. A Bologna, ad esempio, nel 1970, venne creato il Polo Geriatrico dell’Ospedale Malpighi, una imponente struttura con molteplici divisioni generali e specialistiche, in cui trovò sbocco un numero incredibile di assistenti (di ruolo e soprattutto volontari) della Clinica Medica, che venne a svuotarsi di larga parte del suo organico. Anche al sottoscritto fu offerto un posto di assistente, posto che rifiutai in quanto già “in pectore” si profilava un mio ingresso nei ruoli universitari. Quello del Malpighi sarebbe diventato il polo geriatrico più importante d’Europa, se i medici, ancorchè molto bravi, avessero avuto la vista lunga e si fossero dedicati allo studio ed alla cura degli anziani, invece di utilizzare le strutture come classici reparti di medicina generale. L’Ospedale Malpighi crebbe così senza una specifica caratterizzazione, salvo poi ad acquisirla, ma solo in parte, in epoca più tardiva, grazie all’apporto di veri geriatri, come Francesco Cavazzuti (medico, alpinista, cattolico fervente, grande studioso della Sacra Sindone), che per primo intuì che senza infermieri preparati non era possibile fare geriatria. Insomma, la geriatria ospedaliera in Italia nacque ancor prima che ci fossero i geriatri, geriatri convinti, geriatri abituati a pensare con una mentalità nuova. L’università seguì il vento. Subito dopo Firenze, in molte sedi furono istituite cattedre di geriatria, considerate come la piccola stanza d’ingresso della casa della grande madre, la medicina interna, da cui transitare, per passaggi graduali (Semeiotica, Patologia), al salotto buono della Clinica Medica. In altre parole, la Geriatria veniva considerata una disciplina di rango inferiore, senza particolare specificità, e del tutto ancillare alla medicina interna. Come del resto dimostrò puntualmente il passaggio dei geriatri “della prima ora” a cattedre internistiche “di livello superiore”, fino alla agognata Clinica Medica. Ed anche in questo caso si replicò il paradigma ospedaliero: i nuovi cattedratici di geriatria continuarono a dedicarsi dal punto di vista culturale e professionale a quello che avevano fatto da sempre, la cardiologia, l’endocrinologia, il metabolismo e simili. Tornando alla SIGG, era inconcepibile che il professor Antonini se ne potesse occupare. L’uomo era troppo al di sopra degli altri, un Gulliver nel paese dei lillipuziani, volava troppo alto per impegnarsi nella gestione di una società scientifica od in beghe accademiche. Alternava, peraltro, periodi di esaltazione creativa a lunghe fasi di riflessione interiore, in cui si isolava dal mondo a coltivar la vigna ed a produrre del buon vino sulle colline fiorentine. Era quindi fatale che la SIGG venisse progressivamente colonizzata da una rappresentanza di esponenti della medicina interna e discipline derivate od affini., composta (ieri come oggi) da scienziati veri (rarissimi), mezzi-scienziati (rari), scienziaticchi (la grande maggioranza), faccendieri accademici (chi più, chi meno) e clinici a tempo perso (qualcuno buono, qualche altro meno buono, ma che almeno, all’epoca, in corsia ci andavano). La mia storia In quegli anni, ero agli esordi della mia carriera. Della Geriatria non sapevo nulla; amavo molto Firenze, tanto da andarci a spalare il fango nell’alluvione del ’66. Dapprima Assistente Volontario della Clinica Medica, divenni poi Assistente Universitario di ruolo in Patologia Medica, stimato e considerato dal mio Maestro. A Gottinga, in Abruzzo Citeriore, per volere di un potente politico, l’onorevole Remo Gaspari, si stava costituendo la Libera Facoltà di medicina ed era in fase di espansione il vecchio nosocomio provinciale, che ambiva a diventare un policlinico universitario. Il vecchio primario medico, che l’accademia aveva neutralizzato, assorbendolo nei suoi ranghi con l’affidamento della cattedra e della Unità Operativa di Geriatria, si era gravemente ammalato ed era prevedibile che presto avrebbe lasciato libero il suo ruolo. Il preside della facoltà, di origini bolognesi e che ambiva a rientrare presto nella madre patria, pensò di farne omaggio al mio maestro, che in quell’anno era stato eletto a sua volta preside a Bologna, e che quindi gli sarebbe certamente tornato utile per concretizzare il suo disegno. Malignamente, oggi posso anche supporre che per quel posto non gli fossero pervenute altre richieste, tanto poco esso era appetibile. Fui io il prescelto, non so se per stima, o perché nessun altro della scuola volle andarci. Fatto è che, nel 1978, quando il mio predecessore passò a miglior vita, fui chiamato a Gottinga sulla Cattedra di Geriatria e Gerontologia, con annessa Unità Operativa. Il primo impatto con il “mio istituto” fu dirompente, ed ancor oggi ne serbo viva memoria. L’autorevole direttore sanitario, che in pubblico tutti chiamavano “signor direttore”, ma che in privato era identificato come “l’uovo di pasqua”, per via del suo morfotipo e di uno sgargiante farfallino, mi accompagnò a visitare il reparto. Commise un grave errore: non si premurò di preavvisare il personale del suo arrivo. Sicchè, ciò che io vidi mi diede l’esatta misura di quanto mi toccava in sorte. Il reparto era ubicato all’estremità del piano sopraelevato del vecchio ospedale (un convento riconvertito) e si articolava in quattro grandi stanze di degenza buie e fatiscenti e qualche altra stanzetta accessoria. Erano circa le 11 del mattino. Oltre l’ampia vetrata, udimmo un confuso vociare, una donna che cantava a squarciagola “Oi Marì” ed i lamenti di una vecchia demente che chiedeva aiuto. Quando aprirono, il pavimento del corridoio era tutto pieno di acqua saponata, con il carrello della biancheria sporca in bella vista. Il direttore sospirò: “Che vuoi – mi disse. Questi sono senza primario da alcuni mesi, e quando non c’è il gatto i topi ballano. Adesso ci penserai tu a mettere le cose a posto”. Ed aggiunse: “Devi capirli, molti infermieri ed inservienti vengono dalla campagna”. Sarebbe stata un impresa titanica rimettere ordine in quel reparto, definito pomposamente di Clinica Geriatrica. Altro che Clinica. Era la pattumiera dell’ospedale, in cui buttar dentro, oltre ai vecchi catorci, anche tutti i moribondi che provenivano dagli altri reparti, e dove allocare gli infermieri peggiori, tra cui anche qualche avanzo di galera, o qualche fanciulla di costumi tutt’altro che castigati. Ma non vado oltre, poiché il protagonista di questa lettera non sono io, bensì la geriatria italiana. Devo comunque dire che, pieno di entusiasmo come si può essere a 37 anni, mi misi a lavorare di buzzo buono ed a calarmi nella nuova realtà culturale, a cui mi introdusse il compianto professor Giampaolo Vecchi. E tra i miei ricordi di quel tempo, c’è quello di un congresso nazionale, che ebbe luogo a Catania, con una serata di gala al Castello Ursino, che definire gattopardesca è dir poco. L’asse Padova-Perugia Nell’ambito della SIGG, nel frattempo, era in corso una lotta intestina: da un lato la triade Torino-ModenaCatania, dall’altra l’asse Padova-Perugia. Una contrapposizione in apparenza ideologica, ma in realtà di potere, tra le opposte “anime” della geriatria, la prima più ideologizzata e proiettata sul sociale, tendente ad uscire dall’alveo della Medicina Interna, la seconda più tradizionalista, che degli aspetti sociali se ne fregava e considerava la disciplina come “satellite e figlia minore della grande madre”. La sfida all’OK Corral ebbe luogo nel 1985, in occasione di uno storico congresso della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, che ebbe luogo a Perugia, ed il cui esito finale, appunto per la scelta della sede, era assolutamente prevedibile. In quello stesso periodo era in corso di svolgimento il Concorso per Ordinario, a cui partecipavo assieme a molti altri colleghi, che poi sarebbero stati chiamati su cattedre di geriatria. In commissione c’erano il padovano ed il perugino, ed erano in maggioranza. Pensate voi da che parte fossi obbligato a stare. Tra l’altro, fui inserito nel cartello elettorale, probabilmente perché appartenente ad un’area geografica scoperta, che comprendeva, oltre all’Abruzzo, anche le Marche ed il Molise. Ed anche perché, essendo universitario e già responsabile di struttura, ero, tra i nuovi, almeno al momento, il più titolato. Ne fui ovviamente molto contento, perché così mi sentivo al sicuro, sostenuto, com’era logico che fosse, dal mio maestro ed in più considerato benevolmente dai due baroni. Ebbe così inizio un periodo prospero per la Società di Geriatria. Fu chiamato alla presidenza un gran signore, il Clinico Medico di Palermo, che dava garanzia di offrire all’esterno una buona immagine, anche se il potere in concreto era nelle salde mani del duo che operava dietro le quinte: il perugino, burbero ed autorevole, dotato di capacità gestionali e di ancor maggiori abilità amministrative, il padovano assai bene introdotto sia in ambito politico che accademico, di buon livello culturale, con precedenti soggiorni all’estero e quindi anche con entrature internazionali. I due si completavano a vicenda: il primo era maestro nello spremere l’industria farmaceutica e nel gestire al meglio le finanze societarie, il secondo si occupava degli aspetti culturali e scientifici del sodalizio. Insomma, una coppia di ferro. La stagione dell’entusiasmo Fino ad allora, a parte le idee visionarie e precorritrici di Antonini, la geriatria, intesa come movimento culturale, era stata poco innovativa. Si era limitata, infatti, a definire quali caratteristiche avessero nel vecchio tutte le patologie tipiche dell’adulto, le broncopolmoniti, lo scompenso, l’osteoporosi, e così enumerando. Anch’io, all’inizio, caddi in quell’errore, pubblicando qualcosa di cardiologico in chiave geriatrica, tra cui una monografia “Patologia e Terapia cardiovascolare in età senile”, che ebbe un discreto successo di vendite. I geriatri, a dire il vero, iniziavano ad occuparsi, seppur timidamente, anche della malattia di Alzheimer, sotto la spinta delle ditte farmaceutiche, che premevano per il lancio di illusori prodotti, che avrebbero dovuto ridare il senno ai dementi, ma che in realtà non erano più efficaci dell’acqua fresca. Tali molecole erano destinate alla pattumiera, ma solo perchè erano già pronti altri prodotti altrettanto inefficaci, ma meglio retribuiti dal Servizio Sanitario Nazionale. Ed infatti, allora, il SSN pagava le industrie “a piè di lista”, un tanto al pezzo, e quindi c’era la corsa a vendere ed a consumare farmaci quanto più possibile. I Congressi delle società scientifiche erano (come del resto ancor oggi) le luccicanti vetrine di Big Pharma, che faceva presentare i suoi prodotti ai cosidetti “opinion leader”, nell’ambito di Tavole Rotonde, in cui di prassi una o due relazioni esponevano il problema clinico, la terza illustrava le basi fisiopatologiche che giustificavano l’impiego di una certa molecola e la quarta diceva mirabilia del farmaco della ditta sponsorizzante. Ma torniamo a noi. Un gruppetto di neogeriatri freschi di ordinariato erano entrati nella SIGG, e tra essi, alcuni avevano sposato la nuova disciplina con particolare entusiasmo, certi che il progressivo invecchiamento della popolazione le avrebbe dato importanza e lustro. La coppia di ferro lasciava fare, in ben altre faccende affaccendata. Il più bravo della nuova generazione fu senz’altro PierUgo C., neocattedratico al Policlinico Gemelli. Forte di un gruppo di giovani allievi con esperienze internazionali, sapeva benissimo che nei paesi più avanzati dell’occidente il problema dell’assistenza agli anziani era stato affrontato con modelli innovativi. Con l’autorevole supporto di un boiardo di stato, il cui figliolo non a caso era il suo erede designato, godendo del prestigio della sede nonché dell’ala protettrice di Santa Madre Chiesa, il nostro organizzò un Congresso Internazionale, che segnò un punto di svolta per la geriatria in Italia. Egli, infatti, non ebbe soltanto il merito di far conoscere il modello organizzativo in vigore nei paesi anglosassoni, ma riuscì ad imporlo anche come legge dello stato nel Piano Sanitario Nazionale. Assistenza Domiciliare Integrata, Residenze Sanitarie Assistenziali, Valutazione Multidimensionale, Unità Valutative Geriatriche ecc. divennero termini di uso comune tra gli addetti ai lavori. Per una sorta di nemesi storica, i fondamenti della nuova impostazione erano gli stessi che avevano ispirato il gruppo perdente di Perugia. Ma tant’è: eliminati gli uomini, le idee potevano tranquillamente rientrare. Iniziò così una felice stagione. Il gruppo della Cattolica attivò un importante studio multicentrico di Farmacovigilanza Geriatrica, che ebbe il merito di coinvolgere in una impresa collettiva moltissime unità italiane di geriatria. Sul piano pratico, tale studio consentì la creazione di una imponente banca dati, che produsse molte pubblicazioni scientifiche, e rappresentò un punto di attrazione per l’industria farmaceutica, che trattò Pierugo ( e di riflesso anche la SIGG) con un occhio di riguardo. Ma, ancor più importante, fu il cosiddetto Progetto Obiettivo Anziani, che destinava fondi ad iniziative pilota, intese a dimostrare l’efficacia del nuovo modello anche sul nostro territorio nazionale. Si avviarono diverse esperienze di confronto tra i nuovi modelli di Assistenza Domiciliare e l’assistenza tradizionale. Anch’io ne trassi beneficio, presentando un progetto che, grazie a Pierugo, venne approvato. Riuscii così ad avviare una sperimentazione di durata biennale, istituendo una Unità di Valutazione Geriatrica, che utilizzava come braccio operativo una Cooperativa di Infermieri, costituitasi all’uopo. Nonostante il palese ostracismo dei medici di famiglia, i risultati furono ampiamente favorevoli al nuovo modello organizzativo, così come del resto quelli di altre analoghe sperimentazioni che ebbero luogo in altre città d’Italia. Né poteva essere altrimenti, considerando che i geriatri avevano organizzato le cose con ogni cura, ed avevano adoperato tutto il puntiglio necessario a che l’ADI funzionasse al meglio. Il nostro gruppo “degli entusiasti” si diede da fare per diffondere il verbo. Oltre al sottoscritto, ed al già citato Pierugo, ne facevano parte Umberto S., allievo del perugino, Franco R. di scuola napoletana, Giulio M., subentrato ad Antonini sulla cattedra di geriatria di Firenze, e Gianfranco S. che aveva nel frattempo preso a Modena il posto di Vecchi, prematuramente scomparso. La nostra somigliava un po’ ad una compagnia di teatranti, che portavano in giro il loro spettacolo su tutte le piazze, invitati dal geriatra locale, che organizzava un convegno per mettersi in mostra davanti ai politici per migliorare il proprio servizio. La risposta era in genere modesta: i politici talvolta si presentavano, altre volte no, e quando venivano ripetevano i soliti slogan triti e ritriti nel tessere l’elogio del convegno, degli illustri relatori di levatura nazionale ed internazionale, della importanza dei temi, e nel parlare dei doveri della società nei confronti dei vecchi, che tanto hanno lavorato e fatto per noi, depositari di saggezza, bla bla bla… Ma era bello comunque. Si vedevano tante nuove città. Si coltivavano relazioni amicali analoghe a quelle di un club per pochi intimi, di stile conviviale-cultural-sociale. Ognuno, a casa propria, cercava di fare del suo meglio. Studiavamo. Cercavamo di diventare, da autodidatti, “geriatri veri”, con competenze che, partendo dalla medicina interna, ora dovevano estendersi ad altri campi, alla neurologia, alla psichiatria, alla riabilitazione: una impresa non da poco, per gente tra i quaranta ed i cinquanta anni, quella di “ricostruirsi” da un punto di vista professionale e culturale. Allo stesso tempo cercavamo di dare alla nostra attività assistenziale una decisa impronta geriatrica, attivando ambulatori di psicogeriatria, introducendo la Valutazione Multidimensionale, dando operatività alla riabilitazione ed alla riattivazione funzionale, cercando di introdurre, anche attraverso i nostri allievi, che mandavamo fuori ad imparare, competenze geriatriche nella pratica di tutti i giorni. Anch’io, pur lavorando in un ambiente come quello di Gottinga in Abruzzo Citeriore, riuscii a fare qualcosa di buono, ottenendo il trasferimento della mia Unità Operativa in una nuova sede, che di inconvenienti ne aveva molti, ma che almeno godeva di spazio e di luce. La presenza di giovani specializzandi e l’evidenza dell’entusiasmo nel mio operare aveva contagiato anche parte del personale, che adesso, ancorchè grezzo, era più educato e ligio al dovere. In questo sforzo di crescita e di rinnovamento si affiancarono a noi universitari alcuni validissimi colleghi, primari ospedalieri, che credevano anch’essi nel futuro della disciplina, e che con il loro impegno erano riusciti a trasformare i loro reparti. Tra essi, mi piace ricordare Marco C., con cui condivisi a Londra una indimenticabile settimana di studio dei servizi geriatrici di quel paese, che era stato culla mondiale della disciplina, e che mi fu caro amico e gradevolissimo compagno di tanti viaggi in giro per il mondo. Provavamo anche a fare ricerca, stimolati dagli studi di base, che individuavano sempre meglio i complessi e misteriosi meccanismi dell’invecchiamento, e dalle indagini epidemiologiche, che anche in Italia avevano eccellenti cultori. Per onestà, bisogna dire che i nostri risultati, così come quelli della ricerca geriatrica internazionale in ambito clinico, erano modesti. Frequenti le scoperte dell’acqua calda: la dimostrazione, ad esempio, con complesse “analisi multivariate”, che gli anziani con molte malattie o immobilizzati a letto morivano più degli altri, o che i vedovi e soli erano più depressi degli ammogliati con una bella e numerosa famiglia. Si producevano scale, scalette e sistemi valutativi, che trovavano modesta applicazione (per mancanza di personale, di tempo, di voglia, e perché non servivano a niente), e soprattutto trovavamo difficoltà a trasferire nella pratica quanto proveniva dalle innovazioni in altri campi specialistici. La nostra rimaneva una disciplina piuttosto statica sul piano operativo. Se oggi ad un lettore ignaro venissero sotto gli occhi gli atti di un convegno, egli certamente farebbe fatica a datarli nel 1980 o nel 2010; oppure, se un altrettanto ignaro ascoltatore si addormentasse durante una riunione geriatrica del 1990, e poi si risvegliasse per sortilegio dopo venti anni, sentirebbe ripetere stancamente sempre le stesse litanie. In ambito accademico, il nostro gruppetto di entusiasti, si batteva per conquistare autonomia didattica o per aver più spazio nei confronti della medicina interna. E, per quanto riguarda le scuole di specializzazione, ci impegnavamo a creare percorsi didattici adeguati, per la formazione di specialisti “a tutto tondo”, che fossero capaci di gestire autonomamente, sia dal punto di vista organizzativo che clinico, servizi e strutture geriatriche anche complesse. A corollario di tanto impegno, cercavamo di delineare una precisa “identità della geriatria”, disegnando un profilo culturale che differenziasse nettamente la nostra disciplina dalla medicina interna, e cioè anche a fini eminentemente pratici e cioè per conquistare una autonomia in sede concorsuale. La geriatria, in quegli anni, era una gallina dalle uova d’oro, per il favorevole momento che premiava l’industria del farmaco e per l’indubbia capacità dell’asse Padova-Perugia, che riusciva a convogliare notevoli risorse nelle casse societarie. Si susseguivano le “sperimentazioni cliniche”, con il loro inevitabile corollario di convegni, viaggi all’estero, soggiorni al Danieli o a Villa d’Este, cene da Cipriani all’Harris Bar, o da Sabatini, a Firenze, dove non era infrequente che uno dei capi, ritenendosi un fine intenditore, facesse portare in tavola, naturalmente a spese della ditta, bottiglie di vini pregiatissimi da 300, 500 ed anche 700 mila lire. I nostri Congressi Nazionali erano strabilianti: Palazzo dei Congressi e cena sociale in una splendida villa settecentesca sulle colline fiorentine. Era quindi naturale che la Società di Geriatria fosse molto frequentata anche da parte di quelli che erano geriatri di nome, ma non di fatto, e da altri provenienti dalle discipline più varie. Si sa bene che le mosche vanno dove c’è il miele. L’identità della geriatria Così, accanto a quelli che si davano da fare, c’erano molti altri che non facevano alcuno sforzo per cambiare ed anzi rimanevano legati con determinazione al precedente e specifico ambito culturale. Accanto a noi, “geriatri convinti”, ce ne erano molti altri che convinti non erano: per loro l’impegno geriatrico era esclusivamente formale, in quanto, nella pratica, essi continuavano a svolgere attività specialistiche che con la geriatria non avevano nulla a che vedere. In ambito universitario, molte Unità Operative, ancorchè formalmente etichettate come geriatriche, mantenevano precipue caratterizzazioni specialistiche (in genere cardiologiche o metaboliche), o rimanevano generici reparti di medicina generale. Assai scarso era l’impegno in ambito didattico sia nel corso di laurea che nelle scuole di specializzazione. In molte sedi, i giovani iscritti a geriatria apprendevano altri mestieri, come ad esempio la gastroenterologia, in un ateneo di gloriosa tradizione. Negli ospedali, le cose non andavano diversamente: la disomogeneità era sovrana. Alcuni reparti erano rimasti di medicina interna, taluni con caratterizzazioni specialistiche, altri erano stati degradati a lungodegenze o, nella ipotesi peggiore, a miserabili cronicari, ed infine solo alcuni erano diventati “veri” reparti di geriatria: questi ultimi, o per il sovrumano impegno di chi ci credeva, o per l’apertura mentale degli amministratori, che in qualche città erano poco ladri e capaci di far politica sociale (come ad esempio in Emilia Romagna o nel Veneto), o per la forza personale del geriatra, che aveva entrature in alto loco. Della “identità della geriatria” si discusse e si scrisse a lungo, senza costrutto e senza giungere a conclusioni condivise. Del resto, come poteva esser definita una disciplina, che si presentava con vesti così diverse, con voci tanto dissonanti, alla stregua di un essere chimerico ? Non credo che diabetologi, epatologi o cardiologi perdessero tempo a discutere animatamente di questo argomento. Il tramonto dei sogni Credemmo a lungo di “essere ad un passo dalla vittoria”, per adoperare una frase con cui un caro amico (Massimo P.) per molti anni cercò di galvanizzare le platee. E lì, ad un passo, ci saremmo fermati. Non sarebbe passato molto tempo e ci saremmo accorti che si trattava di una vittoria di Pirro e che sarebbero stati ben altri a goderne i dividendi. Non noi, che ci accostavamo al problema con animo puro, senza intendimenti di lucro, ma con l’unico desiderio di far qualcosa utile per la gente. Al tavolo dei vincitori non fummo noi a sederci, ma altri, interessati spettatori che non avevano mosso un dito, ma che poi, in virtù della loro forza politica, ci misero da parte per godere dei profitti del nuovo business, che si prospettava interessante. A trarne profitto, senza particolare attenzione al pessimo servizio che veniva reso agli anziani che dovevano esserne i principali beneficiari, furono gli organizzatori di fantomatiche cooperative sociali, che retribuivano con paghette irrisorie giovani infermieri appena usciti dalla scuola, ed a seguire i medici di medicina generale, e soprattutto i privati gestori delle Residenze Sanitarie Assistenziali. I medici di famiglia, rivendicando con forza la loro esclusività su tutte le attività mediche del territorio, in breve si appropriarono dell’assistenza domiciliare, naturalmente a fronte di extra-guadagni ad ogni “accesso”. Il risultato finale fu che le cose non cambiarono di molto, a casa gli anziani vennero curati poco e male e quindi il tasso di ospedalizzazione, che l’ADI avrebbe dovuto abbattere, restò alto come prima. Ne parlo con cognizione di causa almeno per la sede di Gottinga, in cui quei rompipalle dei geriatri, che avevano me come capofila, furono fatti fuori e l’Unità di Valutazione Geriatrica venne denominata Unità di Valutazione Multidimensionale. Anche i gestori di residenze andarono a nozze. A fronte delle laute diarie, erogate dal Servizio Sanitario Nazionale, offrivano pessimi servizi, senza controllo alcuno, tranne che (almeno in parte) in quelle regioni già citate, dove era più forte il senso civico ed il rispetto delle leggi dello stato; in tali regioni l’accreditamento era soggetto all’osservanza di alcuni indicatori di efficacia e di efficienza, che altrove vennero aprioristicamente ignorati dal connubbio dei privati con la politica. Se avessero dovuto provvedere le istituzioni, adesso saremmo certamente nel pieno di quel dramma sociale che un demografo, Antonio Golini, aveva preconizzato molti anni fa, il dramma dei vecchi “abbandonati”. Per nostra fortuna, e per altrui disgrazia, avvenne il crollo del muro di Berlino, il disastro delle economie dei paesi dell’Est, ed un esercito di badanti, di povere donne obbligate dalla miseria ad abbandonare la loro famiglia e ad affrontare la tristezza di una sorta di “carcere bianco nelle nostre case”, venne a compensare le manchevolezze del nostro sistema. Le diaspore Che la geriatria fosse una disciplina dalla incerta identità e soprattutto che i geriatri fossero gli uni diversi dagli altri fu reso evidente dalla nascita di numerose Società Scientifiche, che andarono ad affiancarsi a quella che era stata la casa madre, la prima ed indiscussa capofila della disciplina. Si comprende bene: nelle Società scientifiche non convergono soltanto interessi culturali, scientifici ed accademici ma anche commerciali ed economici, che per alcuni hanno preminente importanza: interessi che possono essere ottimamente gestiti grazie alle segreterie centrali, arcigne custodi dei libri contabili, la cui visione è consentita soltanto a pochissimi eletti. Alla costituzione delle nuove società di stampo geriatrico di certo contribuì anche la leadership accentratrice ed autoritaria della Società di Geriatria, che aveva escluso molti colleghi, non ammessi a corte perché ritenuti di livello culturale non adeguato, o semplicemente perché antipatici, o perché non avevano la stoffa degli “yes-men”. Lo spirito mercantile ed il desiderio di autogestione portarono così ad una diaspora, che tuttora si perpetua, anche se stancamente, nel contesto nazionale. Il grande scialo non sarebbe durato a lungo. Era il 1994 quando l’onnipotente funzionario del Ministero della Sanità, dallo sguardo obliquo e dal profilo rapace, che per anni ed anni aveva fatto il bello ed il cattivo tempo, ossequiato da industriali dell’industria del farmaco, da manager ed amministratori, nonché dai clinici e cattedratici più illustri del paese, fu beccato con le mani nel sacco. Assieme alla sua signora, la famigerata lady Pierr De Maria. La Guardia di Finanza scoprì nel suo lussuoso appartamento romano un caveau, in cui venivano custoditi quadri d’autore, lingotti d’oro, vasellame pregiato, monete antiche ed altri preziosi. Il contante la socia in affari lo teneva invece a portata di mano, nascosto dentro ai puff che stavano sul divano del salotto buono. Incriminato per corruzione e concussione, e per nulla disposto ad essere tradotto nelle patrie galere da solo, il Poggiolini cominciò a vuotare il sacco, incriminando a sua volta questo e quello, con accuse più o meno pesanti, a seconda della caratura del personaggio e della sua personale simpatia. L’opinione pubblica venne così ad apprendere i meccanismi della gigantesca truffa: la famigerata CUF (Commissione Unica del Farmaco) giudicava, sulla base di approssimative documentazioni, la accettazione dei nuovi prodotti nel Prontuario Nazionale ed il CIP (Comitato Interministeriale Prezzi) stabiliva il costo di ciascun prodotto, che poteva esser quindi liberamente prescritto dai medici di medicina generale, con successivo rimborso dei pezzi utilizzati alle ditte produttrici da parte dello stato. Facile capire quale fiume di denaro bagnasse quei prati. La magistratura agì con metodo scientifico. I giudici, certamente, avevano le prove che quasi tutti si erano sporcate le dita con la marmellata. Avrebbero potuto arrestare chiunque e, caso limite, avrebbero potuto azzerare l’establishment accademico italiano. Ma si trattava di una operazione politicamente improponibile, destabilizzante per il paese, per cui scelsero la strada, egualmente perfida, di sbattere in galera i personaggi più in vista, quelli che più a lungo sarebbero rimasti sulle prime pagine dei giornali. D’un tratto scoprimmo di che pasta fossero fatti molti illustri clinici, fino al giorno prima temutissimi boss del mondo accademico. Su uno dei maggiori si favoleggiò che la Guardia di Finanza l’avesse beccato mentre si nascondeva dentro ad un grande cesto di vimini pieno di biancheria sporca. Se il fatto fosse vero, lo spettacolo del grande clinico che emerge dalle mutande sarebbe davvero degno di una comica di Ridolini. Di un altro si disse che si trovava all’estero, quando gli comunicarono che stava arrivando un avviso di garanzia. La paura fu tanta, da fargli venire un attacco di cuore con conseguente ricovero d’urgenza in Unità Coronarica. Questi eventi, se da un lato segnarono il tramonto del potere baronale, quello vero di una volta, dall’altro misero, anche se solo temporaneamente, fine ad un periodo di illeciti guadagni e di sperpero indiscriminato del pubblico denaro. Perché la geriatria ha perso Con Gaber possiamo dire “la nostra generazione ha perso”. Abbiamo perso perché ci siamo scontrati con altri che avevano molta più forza di noi : con i Medici di Medicina Generale, che considerano il “Territorio” come loro esclusivo terreno di caccia e che quindi si sono impossessati dell’assistenza geriatrica a domicilio e nelle residenze, per gestirla come meglio hanno creduto e voluto: abbastanza bene talvolta, quando sono stati sottoposti a controllo, come in genere nelle regioni settentrionali, ed in particolare nelle regioni rosse, male dove i controlli non c’erano o, peggio ancora, c’era collusione con la classe dirigente con gli internisti, che hanno fatto presto a rivendicare come specifici della loro disciplina i principi che siamo stati i primi a diffondere, e cioè quelli della visione olistica della medicina, la visione dell’uomo nella sua complessità fisiopatologica-clinica-funzionale-psicologica-socio-economicoculturale ( e......chi più ne ha più ne metta) con gli specialisti che, dopo un periodo di iniziale disattenzione, in cui ritenevano “poco interessanti” le patologie senili, si sono riappropriati di una serie di condizioni morbose, che, all’inizio, noi pensavamo fossero specifico appannaggio della geriatria. E lo hanno fatto con innegabile successo, potendo vantare più specifici background culturali e disponendo di metodologie diagnostiche e terapeutiche più valide: ad esempio la cardiologia, per quanto riguarda aritmie e scompenso, la neurologia, per ictus, demenza e parkinson, la psichiatria per la stessa demenza, la depressione e i disturbi comportamentali, la riabilitazione per quanto riguarda il recupero funzionale, e così via enumerando con i privati che hanno visto nell’assistenza geriatrica una nuova ed interessante fonte di lucro, e che hanno sempre impedito efficaci controlli, al fine di gestire “al risparmio” ogni attività, come periodici scandali sulla scarsa cura, sull’abbandono e sui maltrattamenti dei vecchi stanno a dimostrare perchè il nostro era un messaggio di umana solidarietà, che un’Italia berlusconeggiante ed ageistica non avrebbe mai potuto interiorizzare, condividere, né tanto meno accettare in conclusione perché a decidere per i vecchi non è stata la scienza ma sono state la politica e la morale edonistica e materialistica dei tempi moderni. Ma abbiamo perso anche per nostre colpe: perché siamo troppo diversi. Come disse Sergio S. ci sono i geriatri non medici, i medici non geriatri, i geriatri di laboratorio, i geriatri di biblioteca…..ed altre tipologie ancora perché un vero geriatra deve tutti i giorni “sporcarsi le mani” con i vecchi, ascoltarli, ascoltare anche le parole perdute dei dementi e sorridere carezzandoli, sentire l’odore dei pannoloni sporchi, mettere le dita nelle piaghe da decubito. Deve abituarsi a quotidiane sconfitte. E, ciò malgrado, “tener duro”, non scoraggiarsi, resistere al “burn-out” che è in agguato. Ed invece, abbiamo accettato tra noi gente che le mani non se le sporcava affatto, troppo impegnata a disostruire le coronarie, od a curare il diabete o far perdere peso alle signore in vista della prova bikini perché al tempo delle “vacche grasse” avremmo dovuto indirizzare meglio le nostre risorse, formando “concretamente”, sul campo, professionisti capaci di fare vera geriatria perché una disciplina povera e solidaristica come la nostra, che esige per essere credibile comportamenti francescani e rigore morale, non poteva permettersi esibizioni e lussi perché non abbiamo emarginato troppi “falsi profeti”, che parlavano parlavano parlavano, scrivevano scrivevano, scrivevano…….di demografia, di problemi sociali, di emarginazione, di solitudine, di cronicità, di non autosufficienza……mentre facevano un altro mestiere, o forse soltanto quello, di scrivere e di parlare. Scritti e discorsi trasudanti di retorica e di false parole. Quale poteva essere agli occhi della gente la loro credibilità? Mi si passi l’ardito paragone: analoga a quella di un Berlusconi, che parli alla Conferenza Episcopale Italiana di castità o di sacralità della famiglia perché molti di noi (ed io tra questi) si sono arresi dopo aver remato contro corrente per lunghi anni, dopo aver sbattuto ripetutamente la testa contro l’imperforabile muro di gomma dei politici e degli amministratori, che a parole facevano promesse, salvo a dimenticarle un secondo dopo, quando qualcuno disposto a sganciare la mazzetta entrava nella loro stanza. Forse avremmo dovuto impegnarci di più, ma allora non saremmo stati uomini, ma santi ed eroi. Gianfranco S., in un “sfogo” comparso sul Giornale di Gerontologia dal titolo “Quando il geriatra compie 65 anni” affermava che “l’inefficacia del nostro messaggio è da attribuire anche alla retorica ripetitività delle nostre tante riunioni in cui alle parole raramente sono seguiti fatti e concretezza operativa; è mancato un sicuro e condiviso modello di riferimento. Gli argomenti, con evidenze inconfutabili, non sono stati trasferiti alla realtà dagli stessi medici geriatri con la complicità dei protagonisti dell’assistenza e delle cure alle persone anziane: sono stati veramente poco innovativi”. Giustissima affermazione del buon Gianfranco, che “vox clamantis in deserto” continua instancabilmente a diffondere il verbo. Ma perché è venuta a mancare la concretezza operativa ? Torniamo a quanto detto prima. Diciamo innanzitutto che il geriatra da solo è inerme. Non basta la conoscenza dei problemi, la capacità di saper diagnosticare e prescrivere una adeguata terapia, se intorno, in ospedale, o in RSA, non c’è una schiera, nutrita e motivata, di infermieri, di fisioterapisti, di assistenti sociali, di personale in genere che sia capace di mettere in pratica tutte le prescrizioni del geriatra; non basta, quando l’anziano torna sul territorio, una buona valutazione multidimensionale, e un dettagliato piano di assistenza, se poi non ci sono famiglie in grado di collaborare o servizi di assistenza domiciliare efficienti. Allora bisogna concludere che, per fare una buona geriatria, non bastano i geriatri: ci vuole soprattutto il convinto e concreto appoggio della classe politica ed amministrativa, che deve mettere a disposizione adeguate risorse. E, come ho detto, molti geriatri che avevano voglia di fare, non hanno trovato corrispondenze in questo senso. Abbiamo perso, infine, perché troppo spesso siamo stati “presuntuosi”, pensando di essere gli unici depositari di una certa cultura. Abbiamo dimenticato che ci sono medici bravi, preparati, coscienziosi, che hanno interiorizzato i principi della medicina olistica. Molti “geriatri con l’etichetta” non lo hanno fatto. Personalmente sono convinto che un cardiologo clinico con una cultura internistica (non un aritmologo esperto di termo-ablazione) sia in grado di curare molto bene uno scompenso cardiaco, tenendo conto di tutte le polipatologie ed interazioni farmacologiche di questo mondo e di tutte le ricadute sul piano funzionale, dell’autosufficienza e psicologico; o che, in un buon reparto di medicina interna, il vecchio fragile possa essere curato anche meglio che in tanti reparti di geriatria; o che un buon medico di famiglia, generalista, sia capace di curare i vecchi problematici, con un approccio di tipo empatico, come e meglio di tanti geriatri che sono sulla piazza. Una maggiore modesta ci avrebbe messo in miglior luce. Ci saremmo fatti meno nemici, evitando affermazioni del tipo “i geriatri sono i medici più bravi del mondo”, mentre gli altri sono capaci di guardare solo ai risultati del laboratorio ed ai referti delle macchine. Perché questo non è vero ed in ogni caso suscita astiosi risentimenti. La geriatria ha perso, ma alcuni di noi possono dire, a loro giustificazione, e con una punta d’orgoglio, che almeno ci hanno provato, e che era impossibile vincere contro forze così preponderanti. La sorte dei vecchi, in una società come la nostra, in cui in tanti si riconoscono in un uomo spregevole, che fa del giovanilismo la sua bandiera, era segnata in partenza. Tuttavia avremmo potuto perdere con maggiore dignità se fossimo stati più coerenti con i principi che enunciavamo ed avessimo estromesso i mercanti dal tempio ed emarginato i falsi profeti. Questa è la nostra maggiore colpa, questo è ciò che dobbiamo rimproverarci.