VALE LA PENA CREDERE?
Don Carlo Molari *
Sala ‘Don Stella’ – 14 ottobre 2011
Intervento per la Gioventù
* Don Carlo Molari è un sacerdote della Diocesi di Cesena dove è ritornato ad
abitare solo da quest’anno, perché prima viveva a Roma. Ha insegnato Teologia
Dogmatica all’Università Urbaniana di Propaganda Fide e all’Università
Lateranense di Roma. Ora è in pensione ed è chiamato a guidare Corsi di Esercizi e
Settimane di Spiritualità per religiosi e laici.
Buona sera,
vi propongo alcuni stimoli di riflessione, così poi potremo fare un dialogo,
perché il mio compito non è solamente quello di insegnare qualcosa, ma piuttosto
di proporre delle sollecitazioni per potere in seguito conversare insieme su questo
argomento. Questo è un tema molto importante, soprattutto per voi giovani che
alla vostra età dovete impostare il vostro cammino.
Vale la pena credere in funzione di che.
“Vale la pena credere”, vi siete chiesti, vi siete fatti questa domanda. Ma in
ordine a che cosa? Vale la pena in funzione di che, perché questo è l’interrogativo
che soggiace alla domanda che avete fatto. Vale la pena per avere successo, per
guadagnare molto, per riuscire nelle proprie attività, vale la pena in ordine a che
cosa? Perché finché non si risponde a questo non si può neppure rispondere se
valga la pena o meno.
Allora per capire qual’é l’interrogativo che soggiace è necessario ricordare
qual’é la nostra condizione di creature in cui ci troviamo, cioè di esseri
dipendenti. Questo è il primo dato da tenere presente: noi dipendiamo
continuamente nella nostra esistenza e nel nostro divenire. Questo è un dato
acquisito dalla cultura attuale soprattutto quella segnata dalle acquisizioni
scientifiche: noi stiamo diventando, siamo in un processo per cui diventiamo
quello che ancora non siamo. Questo è il primo elemento da tenere presente per
rispondere poi alla domanda se vale la pena credere. Noi stiamo diventando, non
è che abbiamo già tutti gli elementi della nostra identità.
Quando noi siamo nati ci sono state offerte molte identità, proprio dal
punto di vista genetico, dal punto di vista potenziale, psichico, spirituale e così
via. Quando siamo venuti al mondo non avevamo una sola identità, ma tante
altre possibili (ovviamente non infinite, perché ci sono dei limiti ben precisi, ci
sono dei dati oltre i quali non possiamo andare). Però entro quegli ambiti c’erano
diverse identità possibili. Quale di queste identità verrà attuata? Perché sarà una
sola poi, alla fine. Da che cosa dipende quella realizzazione, quell’identità che
acquisiamo alla fine del processo? Dipende dalle singole scelte che compiamo
giorno dopo giorno, e attraverso le quali noi scartiamo, eliminiamo diverse
possibilità per realizzarne una, perché non possiamo realizzare tutte quelle che ci
sono offerte.
Ma vediamo concretamente proprio questo, perché uno può dire “ci sono dei
momenti particolari in cui si fanno delle scelte definitive, come quando uno sceglie
la professione, sceglie la facoltà universitaria per lo studio, sceglie di vivere una
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determinata esperienza, sceglie di vivere determinate relazioni…”. Sì, ci sono
questi momenti, ma noi diventiamo attraverso tutte le singole scelte di ogni giorno.
Per esempio ogni pensiero che noi alimentiamo, ogni desiderio che
coltiviamo ci fanno diventare, proprio anche fisicamente. Il nostro cervello viene
modificato fisicamente, cioè le connessioni cerebrali vengono stabilite, rafforzate
giorno per giorno. Quando veniamo al mondo il nostro cervello ha pochissime
connessioni cerebrali, ci sono sì miliardi di miliardi di neuroni, ma ci sono
pochissime connessioni cerebrali. Poi pian piano esse si stabiliscono, ed in
seguito ad ogni esperienza che compiamo si consolidano, noi diventiamo già.
Ad esempio l’essere inseriti in una cultura, avere di fatto cominciato a
parlare italiano, questo ha modificato il vostro cervello fisicamente, ha segnato la
vostra identità. Capisco che voi potreste dire: “ma perché allora ci hanno
insegnato a parlare italiano, potevano insegnarci un’altra lingua”, oppure
“dovevate aspettare, per insegnarci la lingua, che noi fossimo stati grandi e così in
grado di decidere in quale cultura inserirci”. Ma in questo modo voi avreste
impedito il vostro corretto sviluppo perché a dieci-dodici anni vi sarebbe stato
molto più difficile imparare, il cervello si sarebbe già strutturato in un modo
diverso senza quella determinata cultura, per cui quella è stata un’offerta
necessaria, utile per voi. Poi è chiaro che potete completare quella cultura,
imparare altre lingue, e prima le imparate meglio è. Ma non potete aspettare di
decidere voi perché la vostra realizzazione diventerebbe sempre più difficile.
Questo è un dato che dovete tenere presente perché dovete poi scoprire
quali siano sono le ricchezze, le offerte che i vostri genitori, l’ambiente, la cultura
in cui siete inseriti vi hanno donato, hanno inserito nella vostra vita. Tenete
presente questo dato, che state diventando, per cui non potete dire “va bene,
adesso faccio questa esperienza, poi quello che capita lo vedrò”. Questo perché
mentre fate quella esperienza voi fate delle scelte che determinano la vostra
identità futura. Ci sono delle situazioni da cui non si può tornare indietro.
Ricordo un piccolo esempio di molti anni fa, di un ragazzo di ventisette
anni, tossico-dipendente e malato di Aids. Aveva iniziato da ragazzo ad assumere
la droga, così per gioco. In seguito era diventato tossico-dipendente, era entrato in
una di quelle prime comunità di recupero ed è morto poi dopo cinque anni,
pacificato con sé e con gli altri, con gli amici. Quando è entrato in comunità aveva
una rabbia dentro che traspariva anche dal volto e diceva: “come mai non mi
hanno avvertito che non potevo tornare indietro?”, e questo lo ripeteva proprio
come un ritornello angosciante. Dopo, stando nella comunità e con gli amici,
aveva trovato pace ed aveva poi organizzato il proprio funerale, decidendo i canti e
le musiche che avrebbero dovuto essere eseguiti nell’occasione, ma la rabbia che
aveva all’inizio del suo cammino si può condensare con quella frase “come mai
nessuno mi ha detto che non potevo tornare indietro”. Ormai si era stabilita una
connessione che non poteva più essere modificata.
Certo che questo è un esempio estremo però dovete tenere presente che
ogni pensiero che coltiviamo, ogni desiderio che alimentiamo, ogni esperienza che
facciamo ci modifica, il cervello viene fisicamente cambiato da ciò che noi
operiamo, perché si stabiliscono connessioni, se ne rafforzano altre, e quindi è
necessario il senso della responsabilità per il proprio futuro. Indubbiamente non
tutte le esperienze sono di questo tipo, nel senso che non si possono poi
recuperare attraverso un lavoro notevole, di tipo anche psicologico, però è
importante che siate consapevoli di questo fatto.
Quindi quando diciamo “vale la pena credere”, e ci chiediamo “in ordine a
che cosa”, la risposta è sicuramente “in ordine al nostro divenire”, al diventare
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persone, perché questo è il punto: raggiungere la nostra identità. E l’identità non è
già prefigurata, non è già determinata. Non pensate che questo sia un destino,
che ciascuno ha un progetto. Anche nella prospettiva di fede non è esatto dire che
c’è già un progetto. Ci sono mille progetti possibili, mille offerte possibili, proprio
perché la forza della vita è molto ricca, contiene molte possibilità. Occorre quindi
un discernimento, cercare di capire quali sono le possibilità che pian piano la vita
ci offre.
Alcune a volte possono essere inimmaginabili, stando al dato genetico che
abbiamo o alle esperienze che abbiamo fatto nel passato, perché ci sono delle
componenti di invenzione della vita, a volte anche casuali, che richiedono una
particolare attenzione. Questa era la prima riflessione che volevo fare perché vi
rendiate conto dell’importanza dell’interrogativo che vi siete posti, e
dell’interrogativo che soggiace alla vostra domanda: chi volete diventare, chi
potete diventare, quali possibilità tra le tante volete scegliere?
Può darsi che non sappiate ancor rispondere a questa domanda.
Benissimo! Però siate consapevoli che voi, senza saperlo, senza rendervene conto,
già rispondete a questa domanda, perché ogni scelta che fate preclude, limita
tante altre possibilità.
Esclusioni delle possibilità offerte dalla vita
Vorrei illustrare questo secondo punto brevemente, richiamandomi ad
alcune esperienze che fate, proprio per fare capire che una esperienza esclude
tante altre possibilità, per cui certe scelte importanti che fate sono anticipazioni
dell’esperienza di morte.
Questo sembrerà strano, ma riflettete un momento. Facendo alcune scelte
importanti voi escludete tante altre possibilità. Che cosa vuol dire ? Vuol dire che
uccidete, scusate il termine letterale, ma uccidete tante vostre identità possibili.
Se scegliete ad esempio una facoltà di medicina, voi non studiate ingegneria.
Potreste anche diventare ingegnere, certo ci sono dei limiti in tutto questo. Però ci
sono possibilità gravi, per cui facendo una scelta voi escludete il resto. Questo
vuol dire che eliminate vostre possibili identità, per cui la scelta ha delle
componenti drammatiche, è una esperienza di morte, che è però legittima,
doverosa, perché occorre imparare a morire, e quindi è una esperienza reale di
morte.
Voglio portarvi un altro piccolo esempio. Ero giovane, quindi pensate molti
anni fa. Ero assistente a un gruppo di universitari a Roma e c’era una coppia di
fidanzati che avevano già fatto il loro cammino ed avevano deciso di sposarsi dopo
sei mesi. Venne la ragazza, tutta perplessa, era in crisi. Io stetti ad ascoltare un
po’ poi dissi “Ma dimmi un po’, qual è la causa di questa crisi?” Lei stette a
pensare un po’ poi mi disse: “Va bene, io sposo Marco, ma e tutti gli altri?” Era
vero, c’erano tante altre possibilità, e lei era consapevole che sposando Marco
eliminava tante altre possibilità ed era entrata in crisi. Poi si sono sposati, e le
cose sono andate avanti bene, sono ancora viventi, hanno dei figli. Ma la ragazza
percepiva che facendo quella scelta realizzava una sua identità che ne escludeva
tante altre, per cui uccideva, chiudeva tante altre strade possibili. Certo, perché
la relazione ci fa diventare, anche i rapporti di amicizia ci fanno diventare, cioè
costruiscono la nostra identità.
Questo vuol dire che dobbiamo essere consapevoli delle relazioni che
viviamo, ed avvertire proprio anche la natura della situazione in cui ci troviamo.
Noi spesso pensiamo che siano tutte della stessa natura ed invece ci sono
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funzioni diverse a seconda dello stato in cui ci troviamo, secondo la situazione in
cui siamo. Ma quello che è importante è che noi abbiamo questa consapevolezza:
sto diventando, per cui il pensiero che coltivo, la fantasia a cui io do spazio, il
desiderio che alimento, lo stato d’animo di invidia, di gelosia, o il senso di
frustrazione, tutto questo mi fa diventare. Questo modifica il mio cervello
fisicamente, per cui devo essere consapevole di che cosa voglio diventare, o
almeno di quello che in questo momento sto diventando. Chiariti i primi due
punti veniamo alla domanda fondante di questa sera.
“Vale la pena credere?”
Prima ci fermiamo su questo verbo credere, perché, di per sé, è un termine
ambiguo. Credere che cosa vuol dire? Credere determinare verità? Questo, vedete,
è molto poco, perché le verità in cui crediamo man mano che procediamo nella
vita cambiano profondamente. Verità di qualsiasi tipo, della visione del mondo,
dell’interpretazione dell’esperienza religiosa. Non sono dati definitivi, perché
anche ad esempio l’immagine di Dio che voi avete, che io ho, sono tutte immagini
provvisorie, funzionali ad un cammino, sono strumenti. Non possiamo dire che la
nostra immagine di Dio è perfetta. Già S. Agostino, nel secolo quinto, diceva
“Ricordati che la tua immagine di Dio non è Dio”, è la tua immagine di Dio. Questo
è fondamentale.
Allora cosa vuol dire credere? Vuol dire accettare determinate dottrine? No.
Non vuole dire questo. Vuol dire qualcosa di più, vuol dire assumere
quell’atteggiamento di fiducia, quell’atteggiamento positivo nei confronti delle
offerte di vita, che consentono di accogliere tutti i doni che ci vengono offerti, cioè
di vivere pienamente la nostra esistenza: proprio di diventare noi stessi. Quindi la
domanda è in ordine al nostro divenire.
Allora è importante individuare quali sono le leggi della vita, diciamolo cosi,
cioè le dinamiche di fondo attraverso le quali noi diventiamo viventi, cioè
raggiungiamo la nostra identità, che lo stiamo diventando, abbiamo visto prima.
Ora è importante determinare: quali siano le leggi, le dinamiche attraverso le
quali noi diventiamo? A chi devo dare fiducia? A chi devo credere? Allora vi
rendete conto dei significati che il verbo credere può avere.
Ora necessariamente so che c’è un orientamento attraverso il quale io
cresco, e c’è un altro orientamento attraverso il quale io non cresco, anzi disperdo
i doni di vita. Allora qual’é, a chi devo dare fiducia? Capite che questo vuol dire
che vale la pena credere. Ma a chi? Perché dare fiducia, assumere un
atteggiamento di fiducia è necessario. Non è che posso dire: “io mi metto a sedere,
aspetto qui, che la vita proceda, che vada avanti…”. No! Devi inserirti nel flusso,
devi vivere rapporti, devi assumere responsabilità, devi prendere decisioni. Non
puoi rinunciare a vivere, se vuoi diventare! Per cui la domanda che avete posto
“Vale la pena credere” deve essere tradotta in un altro modo, dopo avere esposto
quello di prima: “a chi devo dare fiducia, a chi devo credere?”, potete anche
esprimervi così, ma nel senso profondo, non nel senso di quali verità devo
accettare. Ma quali dinamiche di vita devo assecondare e quali invece non debbo
assumere per diventare, in modo che anche a noi non capiti di dire “perché
nessuno mi ha detto che non potevo tornare indietro”?
Allora questo è il punto da analizzare, quali sono le reali dinamiche di vita,
quali sono le dinamiche che fanno crescere nella dimensione personale, mi fanno
diventare me stesso? Sono le dinamiche di gratuità o di egoismo, le dinamiche di
servizio o di dominio degli altri, le dinamiche di amore o le dinamiche di odio?
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Devo scegliere le dinamiche nella completezza: se faccio una scelta di dinamiche di
amore che conducono alla vita allora io debbo essere in grado di controllare ogni
sentimento di avversione, di disprezzo, di gelosia, di odio, perché queste ultime
non consentono alla vita di fluire in me, non posso diventare con quella pienezza
che invece in quella situazione mi è consentita. Questo è il problema
fondamentale.
E come risolverlo? Analizzando i frutti di vita, analizzando le dinamiche
storiche, analizzando a quali frutti può condurre una determinata scelta. Quindi
è un cammino di continuo confronto, di continua ricerca, partendo dalla
situazione in cui uno si trova, e quindi dalle esperienze che mi sono offerte.
Quindi cogliere le dinamiche fondamentali che consentono alla vita di svilupparsi
e quindi ci consentono di pervenire alla nostra identità. In questo ambito gioca
molto inizialmente la testimonianza degli altri, soprattutto la testimonianza che
viene offerta nell’ambito delle relazioni famigliari, delle relazioni di amicizia, delle
relazioni che sono la “rete” entro la quale il flusso della vita ci perviene. Non è che
dobbiamo dire che queste sono assolute, ma sono gli strumenti che abbiamo per
percorrere il nostro cammino.
Oggi, come sapete, in questo senso avviene un allargamento notevole
dell’orizzonte delle relazioni proprio perché in questo voi giovani siete favoriti,
perché gli strumenti attuali di comunicazione consentono una dovizie notevole,
esagerata per certi versi, di informazioni, di comunicazioni. Per questo motivo sono
importanti anche i criteri, già da maturare ben presto, per discernere ciò che fa
crescere e ciò che disperde la vita (cosa che per noi non era così urgente ma per
voi è importante).
Credo che allora comprendiate l’importanza dell’interrogativo che vi siete
posti ma anche proprio della necessità di mettervi in un atteggiamento di ascolto,
di confronto, approfittando appunto delle occasioni e delle offerte che vi vengono
fatte partendo, sapendo che partite per un cammino, e che nessuno può
prevedere quale sarà il traguardo del vostro cammino. Ma voi sapete che nella
responsabilità delle vostre scelte l’identità sarà poi pian piano formata e definita
per raggiungere quel traguardo che la vita vi propone, che voi stessi avvertite
come possibilità profonda, che dovete pian piano realizzare attraverso le scelte di
ogni giorno.
Credo che come premessa per un nostro dialogo quanto abbiamo
detto possa essere sufficiente. Vedremo poi, in base alle vostre domande,
di meglio precisare questo punto.
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Quali possono essere i motivi per credere in Cristo?
Adesso scendiamo più nel particolare. Io prima ho fatto l’impianto generale
della riflessione soprattutto per mettere in luce la responsabilità della scelta.
Sinora io non ho parlato né della fede in Dio né della funzione di Cristo.
Precisiamo quindi questi due punti, dato che il sacerdote che ha parlato adesso vi
ha sostituito nel porre la domanda, ed anche perché, non essendo egli più
giovane come siete voi, lui rispetto a voi si trova in una situazione un po’ diversa
dalla vostra. Cosa vuol dire la fede in Dio? Sono due gli elementi fondamentali.
Il primo elemento è la consapevolezza, la convinzione che esiste un bene
grande, più grande di noi, che è in gioco, in azione nella nostra vita. C’è una forza
più grande di quella che finora riesce ad esprimersi, che è molto di più. Cioè
esiste già un bene grande che rende possibile il nostro amore, c’è una verità piena
che rende possibile la nostra ricerca. Altrimenti uno dovrebbe interrogarsi: “ma è
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possibile conoscere la verità, ma c’è la verità?” Certo non puoi rispondere finché
ricercandola non scopri che esiste una verità più grande di te, più grande di
quella che pensi. Allora credere in Dio significa ritenere che esiste già un bene
immenso che in noi, nella creazione, sulla terra, nel piccolo frammento della
nostra casa, si può esprimere e diventare un amore nuovo. Ma questo, vedete,
non è semplicemente a livello personale, che noi possiamo crescere e raggiungere
forme nuove di amore più generose ed oblative, ma anche a livello di specie
umana, perché questo è il fatto, perché se esiste già un bene grande, e che noi
non abbiamo potuto accogliere completamente perché siamo nel tempo (noi infatti
accogliamo la vita solo a piccoli frammenti in una successione e quindi ci richiede
tempo) anche la specie umana non ha ancora sviluppato tutte le sue potenzialità.
La vostra generazione è in grado di pervenire, se rimane nella linea della vita, se
fa le scelte corrette, dicevo è in grado di pervenire ad una forma di amore molto
più ricca e profonda di quella che le generazioni precedenti hanno saputo
esprimere. Quindi credere in Dio vuol dire che esiste già una forza più grande,
che esiste già un bene grande, che esiste già una verità piena, che esiste già una
vita senza riserve che può diventare in noi qualità nuova.
Il secondo elemento, (perché questa consapevolezza può restare là in alto) è
che se noi assumiamo un atteggiamento di accoglienza quella che è una verità
può diventare in noi conoscenza, quello che è il bene può diventare in noi amore,
quello che è giustizia può diventare in noi progetto, può diventare in noi forza di
vita da comunicare agli altri, e così via. Solo che questo è da verificare. E come si
verifica? Vivendolo ! Uno non può immaginare che sia prima, deve sperimentare.
Allora, vedete, il partecipare a gruppi, a comunità che si esercitano nella fede in
Dio, significa precisamente verificare questa possibilità, che c’è un bene più
grande che può diventare in me perfezione nuova.
Questo significa Fede in Dio, cioè il “credere” in Dio, se volete usare il
termine che avete utilizzato per il tema della serata, e non semplicemente credere
che Lui esiste, ma credere nel senso che noi possiamo accogliere, sperimentare la
forza di vita che viene, in termini cristiani diciamo crescere come figli suoi, cioè
per raggiungere la nostra identità umana.
Abbiamo detto credere in Dio, ma cosa vuol dire credere in Cristo? Per
prima cosa significa ritenere che l’esperienza che Gesù ha fatto, l’esperienza che
Gesù ha vissuto, l’insegnamento che ha introdotto nella storia sono cose
autentiche, cioè riflettono dinamiche reali di vita. Quando ha detto di perdonare i
fratelli, di amare i nemici, non ha indicato dei traguardi utopici, ha indicato una
linea di comportamento, che non può essere realizzata subito in un istante, ma
che conduce alla vita piena. Per cui il “dare fiducia” significa verificare che
realmente, seguendo quelle indicazioni, si perviene a maturità, si perviene
all’identità definitiva di vita, o si sviluppa quella dimensione spirituale che
conduce poi ad attraversare la morte come viventi. A un certo momento viene la
necessità di fare una scelta e di verificare poi che cosa ne risulta. Sono diverse le
scelte che la storia dell’umanità presenta, ma quello che è importante è che è
necessario rendersi conto di questo e fare una scelta di vita.
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Perché scegliere Cristo?
Appunto ! Perché nella storia la tradizione sorta da Lui ha manifestato una
quantità enorme di traguardi di maturità a cui l’uomo è pervenuto, persone
umane che sono cresciute, hanno segnato la storia dell’umanità proprio per la
fedeltà all’indicazione data da Gesù nel Vangelo. È la storia che diventa un
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criterio di scelta per scegliere Cristo. Poi ci possono essere persone che trovano
più corrispondenza in scelte di altro tipo, purché siano conformi a queste
dinamiche fondamentali di vita, perché è questo che è essenziale. Perché
altrimenti si blocca il flusso, si blocca il processo, l’umanità si distrugge. Non è
semplicemente per diventare noi viventi, ma proprio per consentire il cammino
della storia umana. E la storia ha già dato risposte notevoli in questo senso.
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A proposito di quello che Lei diceva adesso, non è che anche Cristo sia
diventato Figlio di Dio in un divenire?
Certo, questo è pacifico, anche Lui cresceva in sapienza, età e grazia come
dice il vangelo di Luca 2,52. Paolo dice che ha raggiunto la sua identità di Figlio
nella risurrezione, Romani 1,4: “costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo
Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti”. Quindi è certo, non c’è
difficoltà. Credere a Cristo non vuol dire che Cristo non sia un uomo vissuto,
giunto a maturità attraverso la fedeltà ai princìpi che gli sono stati insegnati, alle
tradizioni in cui era inserito. Maria e Giuseppe gli hanno insegnato a leggere le
Scritture, gli hanno insegnato a pregare, a pregare Dio. Quindi ha fatto un
percorso, ha fatto un cammino. A dodici anni, quando ha fatto il Bar Mitzvah, la
cerimonia che corrisponde pressappoco alla nostra Cresima, cerimonia che fanno
tuttora i ragazzi ebrei quando a dodici anni entrano a pieno diritto nella comunità
religiosa, Gesù aveva dei problemi religiosi da approfondire. Per questo è rimasto
a Gerusalemme e lo hanno trovato mentre stava ascoltando e facendo domande.
Cioè ascoltava e interrogava proprio perché voleva approfondire per crescere in
sapienza, età e grazia. Non ci sono dubbi su questo, è chiarissimo! Ma è cresciuto
con una fedeltà tale da diventare una indicazione di cammino per l’umanità
intera. Difatti le proposte che Gesù ha fatto, l’insegnamento che ha dato, le
esperienze che ha vissuto sono state un inizio per la storia umana. Non ci sono
dubbi su questo. Il problema è che continui ancora questo cammino.
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Quando noi preghiamo il “Padre nostro”? noi diciamo “sia fatta la Tua
volontà”, ma alla luce di quello che lei ha detto la sua volontà la facciamo
noi con le nostre scelte, tesi a diventare persone libere. Ma nel disegno di
Dio, che vuole che noi siamo liberi, che noi siamo felici, quale è la sua
volontà?
Dio vuole che noi diventiamo figli, che noi raggiungiamo la nostra identità
di persone: questo è il traguardo. Quando diciamo “si compia la Tua volontà”
noi ci riferiamo alle situazioni nella loro materialità. Per esempio adesso uscite
fuori, passa una macchina che vi investe e vi trovate all’ospedale. Ovviamente
non vi auguro questo, ma dico: facciamo il caso che accada. Se vi trovate
all’ospedale voi non potete dire che questa è la volontà di Dio perché non è
vero ! Le tante cose che accadono nel mondo non corrispondono al volere di
Dio. Quando diciamo “sia fatta la Tua volontà” noi diciamo “che io possa vivere
tutte le situazioni in modo da riconoscere il tuo amore, accoglierlo, tradurlo nella
mia vita e donare vita ai fratelli, cioè, secondo il modello che Gesù ci ha
insegnato, che io possa diventare rivelazione del tuo amore anche quando mi
trovo all’ospedale a causa dell’insensatezza di uno che guidava la macchina”.
Non è quindi essere all’ospedale la volontà di Dio, ma l’amore che io esercito lì,
il dono di vita che faccio alle persone che incontro, quelle che mi sono vicine di
letto. Quella è la volontà di Dio. Cioè diffondere vita, rivelare l’amore, tradurre
la forza e comunicarla ai fratelli per vivere. Per cui quando noi diciamo “sia
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fatta la Tua volontà” intendiamo “che io riesca ad essere così in comunione, in
sintonia con la Tua forza di vita, con l’amore che mi avvolge, da tradurlo nei
gesti, nelle parole, nel rapporto che vivo”.
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…e quando Gesù nel Getsemani dice “sia fatta la tua volontà…”?
Quale era la volontà di Dio in rapporto a quella situazione? Gesù avrebbe
potuto dire “Ma chi me lo fa fare di andare ancora avanti, annunciare il Regno di
Dio, quando questi non vogliono accettarlo? Io mi ritiro, torno a casa.” Se avesse
scelto questo avrebbe bloccato quel processo che aveva iniziato, quello che poi è
continuato nonostante la morte.
Allora, qual’era la volontà del Padre? Non era certo la morte. La morte in
croce era contro il volere di Dio, la morte in croce di Gesù è decisa dagli uomini
perché hanno rifiutato la sua proposta. La sua proposta era quella di una
conversione profonda, in quella condizione, per iniziare la fase nuova
dell’alleanza. Per cui diceva nei primi giorni, quando ha cominciato a predicare “il
Regno di Dio è vicino, la relazione di Dio può esprimersi oggi in un modo nuovo,
convertitevi, credete al Vangelo, il tempo è venuto”. Questo è quello che Gesù
percepiva come volontà di Dio. Si è trovato nella condizione in cui, per continuare
a fare questo, doveva accettare la situazione, non resistere alla violenza,
perdonare coloro che gli volevano fare del male. Certo che si trovava in una
situazione difficile da sostenere.
Poteva porsi la domanda “ma sarà possibile amare in questa situazione,
sarà possibile perdonare?” perché certo la domanda si sposta. “Ebbene io mi fido,
mi abbandono, si compia il tuo volere, sarò in grado di amare, di esprimere il tuo
volere…”. E lì Gesù ha continuato il cammino, e tutto è ricominciato, la storia ha
continuato proprio secondo quella indicazione, e c’è stato tutto lo sviluppo della
tradizione che ha suscitato uomini straordinari. Noi siamo chiamati a continuare,
ovviamente chi lo desidera, chi lo vuole fare, perché nessuno è obbligato a farlo, a
continuare questa tradizione di fedeltà.
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Desidererei che lei parlasse della lettera di S. Paolo ai Corinzi dove è
detto “Se cristo non è risorto la nostra fede è vana”.
Cosa vuol dire la risurrezione? Non vuole dire che il corpo, le molecole del
corpo di Gesù sono state portate altrove, o in cielo, o al di sopra delle nubi.
Quella è una visione insensata perché oggi sappiamo che la terra è un pulviscolo
con le sue leggi. Cosa vuol dire risurrezione? Vuol dire pervenire alla forma
definitiva di vita attraverso l’esperienza che noi compiamo, il corpo che abbiamo,
ma non che le nostre molecole sono portate altrove. Oggi sappiamo che la materia
è un condensato di energia. L’energia può assumere una forma nuova, una
modalità diversa. La dimensione spirituale che cresce mentre noi ci sviluppiamo,
acquista ad un certo momento una sua autonomia, una sua identità, e perviene
alla forma definitiva. È un’altra modalità di esistenza. Questo Paolo poteva
tradurlo così “se non c’è una vita definitiva, e Cristo non ci ha dato la possibilità di
pervenirvi, che serve avere la fede in Lui, perché curare la dimensione spirituale, se
tutto finisce qui?”. Certo, già sarebbe un beneficio, perché vivere secondo le
indicazioni del Vangelo conduce a una pace profonda, a una pace interiore.
Questo è pacifico, ed è la verifica che è nella linea della vita ! Però ci sono certe
situazioni dove uno dice “beh, non vale la pena vivere, se tutto finisce qui che
serve?”!
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Noi abbiamo, come tradizione, delle formule e delle regole. Essere
cristiani per noi vuol dire “preghiere” e “comandamenti”. Ci può chiarire
meglio?
Dobbiamo distinguere due cose. Altro è la preghiera a livello di vita
personale, altro è la preghiera a livello di vita comunitaria, del trovarsi insieme.
A livello personale che cosa vuol dire pregare? Vuol dire vivere
consapevolmente la presenza di Dio che ci avvolge, quella forza di vita che ci fa
crescere così da potere assorbire la vita e trasmetterla, da potere interiorizzare la
forza, l’energia che ci consente di vivere. Perché noi dipendiamo continuamente
da tutto, dalle quattro forze fondamentali: l’energia elettromagnetica, la forza
gravitazionale, la forza nucleare forte, la forza nucleare debole, che ci sostengono
continuamente. Questo a livello fisico. A livello biologico siamo pure
continuamente dipendenti, dobbiamo respirare. A livello psichico c’è l’amore degli
altri che ci sostiene continuamente. A livello spirituale dobbiamo alimentare la
nostra dimensione interiore, e pregare vuol dire restare appunto nella lunghezza
d’onda dell’azione di Dio, vivere consapevolmente questa presenza, questa energia
che ci avvolge, così da crescere nella dimensione interiore. A livello personale
occorre avere dei momenti di silenzio interiore, anche se non si dicono formule.
Perché, vedete, non è il dire delle formule. Anzi spesso, quando noi impariamo
delle formule, vuol dire che poi dopo preghiamo senza pensarci. Invece quando ci
mettiamo nel silenzio e ci lasciamo penetrare dalla presenza arcana, da quella
forza che conduce alla nostra identità, allora diventiamo capaci di
concentrazione, capaci di attenzione agli altri, di ascolto. Perché, vedete, noi
siamo legati alla nostra corporeità, alle nostre dinamiche psichiche, alla nostra
capacità di prendere il controllo. Per questo la preghiera è fondamentale. Quindi
abbiate ogni giorno un piccolo momento di interiorità, in cui vi raccogliete e vi
lasciate attraversare dalla forza della vita, vi mettete alla presenza di Dio,
chiamatelo come volete, ma proprio per vivere consapevolmente la dipendenza,
essere attraversati dall’azione di Dio.
A livello invece comunitario il discorso è leggermente diverso. È importante
pregare insieme, proprio perché così si esprime meglio il legame che esiste tra di
noi, perché noi cresciamo attraverso le relazioni. Inizialmente relazioni famigliari,
poi pian piano si allarga l’orizzonte, per cui la crisi dell’adolescente è una crisi
vitale, proprio per allargare l’orizzonte, poi dopo l’adolescente riscoprirà
l’importanza dei suoi genitori, proprio perché l’amore resta sempre come fondo,
solo che occorre allargare gli orizzonti e cambiare qualità di relazione. Così la
qualità diventa più profonda, più consapevole. Non è più interessata, diventa più
gratuita. Non possiamo fermarci molto su questo, però capite l’importanza delle
relazioni e quindi anche della preghiera comunitaria, anche della famiglia, o della
parrocchia, insomma della comunità, del gruppo a cui apparteniamo. Perché ci si
scambiano doni di vita, si costituisce una struttura di flusso vitale più ampia che
consente una ricchezza maggiore. La preghiera comunitaria è molto più efficace
della preghiera individuale e richiede di coinvolgere la propria individualità. Allora
certo che lì c’è bisogno di formule, ma anche la preghiera comunitaria silenziosa
crea un clima molto più intenso. All’inizio occorre allenarsi un po’ per questo, ma
è molto importante avere dei momenti di silenzio insieme ad altri perché si crea
una tensione interiore, un circolo, una comunicazione profonda. Quando si crea
una comunicazione attraverso l’interiorità si va più in profondità delle parole.
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Sono una ragazza e la mia è una domanda sulla confessione. Quando c’è
un rapporto intimo e personale con Dio, la confessione è così necessaria?
Bene. Questo vale per tutti gli aspetti sacramentali e liturgici. Quando noi
facciamo scelte negative, puoi chiamarlo peccato ma sono scelte negative, a volte
abbastanza superficiali, abbastanza semplici, noi non facciamo solo male a noi
stessi, ma anche attorno a noi, noi trasmettiamo continuamente, secondo ciò che
siamo. Quindi quando noi vogliamo ricuperare il passato noi dovremmo metterci
in connessione con gli altri, però è difficile farlo in gruppo. I primi cristiani hanno
cominciato a fare questo in gruppo, cioè quando si incontravano per l’Eucaristia,
si mettevano con gli altri a chiedere perdono, ciascuno perdonava i peccati degli
altri. Perché tutti abbiamo il compito di perdonare, tutti i discepoli di Gesù.
Gesù, quando si è presentato dopo la risurrezione la prima volta, la prima
cosa che ha detto è stato “Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati
saranno rimessi, a chi non li rimetterete resteranno non rimessi”. Questo vuol dire:
se tu non trasmetti vita a uno che l’ha perduta, l’ha dispersa, l’ha diminuita,
quello non è in grado di darsela da solo. Devi comunicargliela, questo è quello che
Paolo chiama il Ministero della Riconciliazione.
Noi dovremmo educarci. Quando noi, voi, ci incontriamo, dovremmo
abituarci ad alimentare gli uni la vita degli altri, tenendo presenti gli errori
commessi. Quando incontrate uno che sbaglia non emarginatelo, non
condannatelo, cioè non disprezzatelo, non parlatene male. Quando incontrate
uno che fa una scelta egoista investitelo di gratuità, di amore, così gli date la
forza per uscire dal suo male. Questo è perdonare !
Allora il sacramento è precisamente il gesto comunitario con cui la
comunità trasmette vita, perché è la comunità che la trasmette. Come il
Battesimo. Pensate al Battesimo, perché è proprio un Sacramento di questo tipo.
Il Battesimo cos’è? È l’impegno che una comunità prende di essere testimone di
fede per trasmettere vita al nuovo nato, al nuovo convertito. Perché è solo con il
flusso di vita degli altri che noi cresciamo. Allora che questo avvenga presto è
fondamentale proprio perché ci troviamo come nel caso già esaminato di imparare
la lingua, in quanto il cervello si struttura subito. Se aspetti qualche anno diventa
più difficile imparare. Allora così, se la comunità, gli altri, si impegnano ad
esprimere il loro amore e lo fanno con i gesti, con l’attenzione, con la visita, allora
questo è l’impegno. Non è l’impegno del piccolo, del convertito. Sono gli altri che
si impegnano a farlo crescere con il loro amore e con la loro vicinanza e ogni volta
che si radunano la domenica rinnovano il loro impegno che hanno assunto nel
Battesimo nei confronti degli altri. Così è per il Sacramento della Riconciliazione.
È proprio questa volontà di assorbire la potenza della vita che gli altri vogliono
trasmettere. Solo che per fare questo occorre essere coinvolti interiormente e
molte volte si riduce proprio solo ad un gesto esteriore che vale solo come
tradizione o come stimolo a fare il bene. Un po’ di significato ce l’ha lo stesso,
però viene ridotto notevolmente.
Bene ! Grazie a tutti voi per la vostra presenza, ma ora si è fatto tardi e
devo proprio andare, altrimenti domani mattina alla conferenza di Torino mi
mancherà la necessaria concentrazione. Buona notte a tutti !
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VALE LA PENA CREDERE