La fortuna alimentare del pesce risale alla seconda metà del 500 quando, con il Concilio di Trento (1545-1563), il calendario ecclesiastico, per realizzare un’efficace azione moralizzatrice della società, impose tantissimi giorni di “magro” in cui era assolutamente vietato mangiare carne. Astenersi dalla carne, alimento che richiamava nozioni di violenza, di irruenza e di bellicosità, era un segno di umiliazione e di emarginazione dalla società dei forti. L’obbligo dell’alternanza magro-grasso, comune a tutto l’universo cristiano, contribuì a separare le carni e i pesci nelle pratiche di cucina e nelle proposte conviviali e ancora oggi, difficilmente i due alimenti possono coesistere nella preparazione delle vivande e nella composizione del menu . Data la difficoltà di far arrivare pesce fresco dal mare veniva consumato soprattutto pesce di acqua dolce pescato nei corsi d’acqua, nei laghi, negli stagni, quello allevato nelle peschiere presenti in ogni monastero; oppure quello salato ed essiccato. storione Pesci molto apprezzati erano lo storione, la trota, il luccio, la tinca, la lampreda. Anche l’anguilla godette di molta fortuna, soprattutto perché si riusciva a trasportarla su distanze abbastanza lunghe, facendola sopravvivere per diversi giorni fuori dall’acqua, sistemata in cesti pieni d’erba. Per quanto riguarda i crostacei, un tempo i gamberi di fiume erano presenti in quantità enormi in tutte le acque correnti. Oggi sono quasi scomparsi ed è facile dare la colpa all’inquinamento. Tuttavia, per la precisione, tra il 1876 e il 1880, una grande peste di gamberi, dovuta a un fungo microscopico, distrusse la specie in quasi tutta Europa. IL BACCALA’ Il baccalà, una volta era considerato il cibo dei poveri per la facilità di conservazione e la possibilità di farlo viaggiare da molto lontano. E’ un prodotto che arriva dal Mare del nord: i migliori testimonials del merluzzo sono i Vichinghi, i grandi navigatori provenienti dal nord della Norvegia. Dalle loro parti, al largo delle isole Lofoten, di merluzzi ce n’erano a iosa: i Vichinghi li pescavano e li facevano essiccare all’aria aperta: oltre che come cibo, sulle loro navi il baccalà fungeva anche da barometro. Dopo averlo messo sotto sale, lo appendevano a bordo con delle corde. Quando il baccalà cominciava a gocciolare, voleva dire che era in arrivo una tempesta: la maggiore umidità dell’aria faceva infatti sciogliere il sale. Baccalà con uvetta e prugne Ingredienti per 4 persone 800 g di baccalà già ammollato 500 g di passata di pomodoro 20 g di prugne secche snocciolate 60 g d'uva passa 1 cipolla una costa di sedano 8 cucchiai di olio extravergine di oliva sale Preparazione: Tritare cipolla e sedano e porre il trito in un tegame assieme all’olio. Soffriggere le verdure prima di unire il pomodoro passato. Lasciare che si formi un sughetto e unire il baccalà fatto a pezzi, spellato e spinato e cuocere una ventina di minuti. Unire prugne e uvetta e portare a termine la cottura. Frittelle di baccalà Mettere a bagno il baccalà la mattina del giorno precedente. La mattina successiva scolarlo, spinarlo, spellarlo e farne dei filetti. Preparare una pastella o con un uovo oppure senza uovo ma con un pizzico di lievito in polvere per pizze, un bicchiere d'acqua, un pizzico di sale e farina quanto basta. Passare i filetti nella pastella e poi friggerli in abbondante olio. Servire ben caldi. ANGUILLA Ancora oggi, immancabile su ogni tavola natalizia che si rispetti e nel cenone di fine anno, è l'anguilla. Il suo essere simile a un serpente e quindi al demonio, il suo alludere alla sfera sessuale, lo vorrebbe buono per altre circostanze. Ma secondo alcuni antropologi si mangerebbe l'anguilla proprio per esorcizzare il simbolo del diavolo. L'uomo, mangiandolo, lo distrugge, lo assoggetta alla propria volontà. Mangiare l'anguilla sarebbe, insomma, come assoggettare il demonio e sconfiggere il male. Anguilla allo spiedo:innaffiare l'anguilla così preparata con quattro cucchiai di aceto, succo di un limone, mezzo bicchiere di olio d'oliva, pepe, sale; amalgamare e tenere l'anguilla a marinare per circa due ore. infilare l'anguilla pezzo per pezzo allo spiedo, intercalando con foglie d'alloro, arrostire girando alla fiamma e ungere durante la cottura con il sugo che sarà servito per la marinata. poco prima di toglierla dal fuoco, ungere con l'olio, salare e cospargere con il pangrattato. quando l'anguilla avrà preso una bella tinta dorata servirla con spicchi di limone. Anguilla in umido: fate soffriggere in una casseruola un trito di cipolla e prezzemolo; aggiungete uno spicchio d’aglio per un paio di minuti e poi toglietelo quindi versate nel soffritto i pezzi di anguilla, salate e pepate. Fate rosolare a fuoco medio e aggiungete tre bicchieri di vino bianco e lasciatelo evaporare. Aggiungete 250 g di passata di pomodoro, coprite con il coperchio e fate cuocere a fuoco moderato per circa un’ora. Se dovesse asciugarsi troppo, aggiungete un bicchiere d’acqua. Se volete, insieme all’anguilla versate 300 gr di piselli (in questo caso sono da aggiungere anche una noce di burro e un cucchiaino da caffè di zucchero). Anguilla fritta: passate i pezzi di anguilla nella farina, poi nell’uovo sbattuto con un po’ di sale e friggete nell’olio ben caldo; quando avrà assunto il tipico colore dorato togliete dall’olio e servite ben calda. GRANDI ANGUILLE FEMMINE PER I RICCHI ANGUILLE PICCOLE, CIOE’I MASCHI PER I POVERI L’anguilla è un pesce di forma cilindrico-allungata, schiacciato posteriormente, la pelle è abbastanza spessa e grassa, colore verdastro, spesso grigio scuro, ventre bianco o giallastro. Di giorno sta nascosta nel fango del fondo, in mare, in acque salmastre e dolci e nelle falde sotterranee; tollera molto bene gli sbalzi di temperatura e di salinità. Vive nelle acque interne fino a maturità sessuale, poi si dirige in mare dove si riproduce. Le larve, dopo un lungo viaggio ed alcune metamorfosi, raggiungono i fiumi come anguille trasparenti comunemente chiamate "ceche". Crescendo diventano giallastre, mentre nel periodo della riproduzione hanno il dorso nero e il ventre argenteo. Le anguille, al pari dei salmoni, muoiono dopo la riproduzione. La femmina può raggiungere grandi dimensioni e viene chiamata "capitone". Può pesare fino a 6 Kg e raggiungere anche un metro e mezzo di lunghezza ; i maschi sono più piccoli e difficilmente il loro peso supera i 200 grammi. Nel passato i capitoni costituivano un prodotto di lusso da esportare nei ricchi mercati in apposite vasche colme d’acqua dolce, la cucina povera poteva contare solo sul pesce “di scarto”, ossia le anguille piccole, cioè i maschi. IL PESCE NELLA CUCINA POVERA IL PESCE SIMBOLO DI FEDE Il pesce è stato sempre un elemento insostituibile della dieta sia dei ricchi che dei poveri soprattutto dopo l’affermazione in tutta Europa della religione Cristiana. Gesù Cristo provvide alla moltiplicazione dei pani ma anche dei pesci, gli apostoli erano pescatori, e simbolo grafico del cristianesimo era il pesce in quanto il nome ichtys, pesce in greco, era considerato acrostico di Jesus Chistus Theu Yios Soter ( Gesù Cristo, Figlio di Dio Salvatore) . Nei monasteri se ne consumava grandi quantità. Anche se alcuni monaci avevano fatto voto di astinenza dalla carne, il pesce era ammesso da tutte le regole. Nei torrenti vicini ai monasteri di montagna si pescavano: trote, anguille, lasche, barbi, ma in modo particolare gamberi, che vivevano in grande quantità in condizioni di acqua pulita. Nel Medioevo il consumo di pesce era talmente alto che ogni centro abitato aveva almeno un punto di vendita adibito al commercio di questo alimento. Le leggi erano molto severe: il pesce era soggetto al controllo della freschezza per poter essere venduto. I venditori di pesce e d’anguilla dovevano vendere tutto il prodotto nello stesso giorno e non potevano tenerlo in casa. I pescivendoli non si potevano nè sedere nè appoggiare. Il pescivendolo che aveva portato il pesce dal mattino sino alle nove doveva averlo venduto a mezzogiorno perchè dopo il tramonto non lo poteva più vendere. Era severamente proibito vendere pesce “luvato” (cioè intossicato). IL PESCE IN UMBRIA L’Umbria, pur non essendo lambita dal mare, può vantare una consistente ricchezza d’ambienti acquatici sia fluviali che lacustri e fino a poco tempo fa anguille, gamberi, carpe, tinche, barbi, alborelle, trote …. rappresentavano una fetta importante dell’alimentazione locale. Non vi era famiglia che non avesse gli strumenti da pesca necessari e, chi vi si dedicava con passione e risultato, rivendeva il pescato per acquistare pane e alimenti meno pregiati. Nelle case dei pescatori si consumava ogni parte del pesce, ad esempio era usanza diffusa preparare brodo di pesce con le interiora del luccio e la zuppa detta “coi ovi della regina” a base di uova di luccio, persico o carpa reale. coregone tinca alborella BACCALA’ SOLO A NATALE E A PASQUA L’unico pesce di mare ad appartenere alla tradizione umbra, a parte l’aringa, detta saracca, è il baccalà, cucinato solo nelle occasioni più importanti: il primo giorno di Quaresima, la vigilia di Pasqua e la vigilia di Natale. ARINGA "Companatico” della povera gente, emblema della tristezza del periodo quaresimale, era l’umilissima aringa o saracca; arida e secca, ma forte di sapore e di odore, stuzzicante, stringata, economica. Doveva, come dice Bertolt Brecht: “solitamente bastarne una sola per tutta la famiglia, sia che toccasse affumicata o ravvivata ai ferri”. Addirittura nelle case più povere la tenevano appesa penzoloni ai legni del soffitto, ad altezza d'uomo, per sfregarla sopra il pane perchè questo prendesse un pò di sapore. PIATTI TRADIZIONALE DELLA CUCINA UMBRA TROTE Le acque limpide e fresche della nostra regione hanno da sempre ospitato la trota fario assai pregiata anche in tempi antichi, per cui era stato istituito il divieto ai “forestieri”, cioè agli stranieri, di pescarle. Ricetta tipica della cucina tradizionale umbra Mescolare prezzemolo, aglio, pangrattato, olio, sale e pepe. Rigirarci dentro la trota, imbottirne la pancia con quel che rimane, e cuocerla in padella con un po' d'olio ed a fuoco basso. I CARBONARETTI DEL LAGO DI PIEDILUCO I carbonaretti traggono il loro nome dal modo di cucinare e bruciacchiare il persico reale del lago di Piediluco. La ricetta è tipica della colazione dei pescatori locali, che dopo la pesca, ancora oggi, sostano con la loro barca nei propri orti, accendono "la cannucciola" secca e vi cuociono il pesce posto su graticole e senza pulirlo. La fiamma brucia le squame e parte della pelle, facendo cuocere la polpa. Una volta cotti i carbonaretti vanno puliti esternamente dal bruciato e internamente dalle interiora, si toglie la lisca e si condiscono con una salsa di olio extravergine, sale, pepe, aglio (quest'ultimo a piacere) e prezzemolo tritato. Preparazione: Pulire e lavare il pesce, togliere le teste e tagliarlo a pezzi non troppo piccoli. In un grande tegame (possibilmente di coccio) far soffriggere il prezzemolo tritato, l'aglio schiacciato e il peperoncino, unire i pomodori a pezzetti, salare e quindi aggiungere il pesce. Cuocere a fuoco basso scuotendo di tanto in tanto il tegame (non mescolare mai altrimenti il pesce si rompe. Servire ben caldo accompagnato con fette di pane abbrustolito. TEGAMACCIO Ingredienti, dosi per 4 persone: sale: aglio: pomodori pelati: 250 g prezzemolo: pane abbrustolito: affettato peperoncino: pesce misto (anguilla, luccio, tinca, persico) olio di oliva extravergine carpa LE RANE Un tempo le rane, pescate di giorno con una bacchetta di bambù cui era fissato un filo con l'esca (un ranino maschio) e di notte con la lampada, rappresentavano una risorsa gratuita offerta dal territorio alla tavola della povera gente, che vi trovava un apporto proteico difficilmente sostituibile. Così era nei dintorni di Terni (zona Maratta), ad esempio, per l'abbondante presenza di acque irrigue e canali. Oggi le rane sono molto meno numerose che in passato a causa dei diserbanti impiegati in agricoltura, ma soprattutto per il mutamento della configurazione dei terreni coltivati (perfettamente livellati) e della sistemazione razionale (e della cementificazione) delle rive.