Di che cosa parliamo quando parliamo di beni comuni
di Antonio Musella* e Leandro Sgueglia* - Durante l'ultimo secolo di storia, nella definizione
delle forme di vita associata, la parola-concetto “democrazia” è sempre stata affiancata da
un'ulteriore specificazione. Liberale, neoliberale, rappresentativa sono stati gli attributi delle
forme democratiche negli ultimi sessant'anni, almeno in quella fetta di mondo che ha goduto
della maggior parte delle attenzioni analitiche e mediatiche. Diretta, reale, partecipata, sono
state invece le forme futuribili auspicate da chi ha avvertito, in questi medesimi decenni,
l'esigenza di una trasformazione del modo di esercizio del «potere del popolo».
Oggi in molti
parlano di "democrazia dei beni comuni". Lo fa pure chi da dentro le istituzioni pubbliche
ammette, sia in buona che in populistica fede, la fine nel regime democratico di quello che è
stato fino agli anno Ottanta il potenziale coesivo e del baluardo dello spirito statuale e di quello
dei feticci privatistici della proprietà individuale nonché dello scambio deregolamentato.
Tuttavia, solo nei movimenti in difesa dei beni comuni compreso quello intorno al referendum
sull’acqua, si possono riconoscere gli sforzi determinanti per l’affermazione dei commons come
tema intorno a cui sviluppare una nuova idea di società. Una lunga stagione di mobilitazione
(tra il 2005 ed il 2011) segnata da migliaia di attivisti, ricercatori sociali, semplici cittadini che
hanno alimentato conflitti contro il modello di sviluppo vigente, dando luogo alla nascita di tante
comunità resistenti in tutto il paese e trovando nell’esercizio del diritto alla disobbedienza un
elemento fondativo.
Di qui si pone forte l'urgenza di stigmatizzare l'abuso odierno della categoria di beni comuni,
prima di formulare qualsiasi prospettiva su nuove forme democratiche che possano partire dalla
forza costituente di una sua maggiore valorizzazione nell'organizzazione dei rapporti sociali.
Di fatti assistiamo ad un'inflazione concettuale per cui tutto sembra diventato un bene comune.
Lo ascoltiamo anche dalle dichiarazioni che giungono da parti diverse del mondo politico,
associazionistico, sindacale, persino imprenditoriale: è diventato un leitmotiv che dalle parole
del segretario del Partito democratico, lo stesso che sponsorizza poi la TAV (!), arriva fino a
quelle degli amministratori degli enti locali più vicini alle istanze dei movimenti ma che – loro
malgrado – stanno contribuendo comunque alla confusione sulla definizione di commons con
un abuso di riferimenti agli stessi. Il discorso improprio sui beni comuni nel contempo non
risparmia neppure i circuiti politici di movimento. Per questo è fondamentale aprire a vari livelli
un dibattito foriero di critica ed autocritica. Bisogna discernere, specificare, chiarirsi.
Beni comuni e Bene Comune: il peso di una differenza
In primis, c'è da palesare una netta distanza tra il common, singolare di una fascia più larga di
commons, beni comuni, e il Bene Comune inteso in una maniera assoluta e totalizzante che lo
stacca dalla concretezza materiale ed immateriale delle risorse. Un'idea cattolica e
precisamente tomistica (molto diffusa tra l'associazionismo cristiano per esempio) di “bene” che
prefigura una società dove, piuttosto che alla forza costituente della difesa e della produzione
perpetue – talvolta anche conflittuali – dei commons, si fa allusione ad un Bene Comune inteso
come astrattamente riconciliante, bene di tutti all’insegna di un’ideologia teologizzata della
fraternità. In letture di questo tipo, l'assenza di conflitti viene augurata come condizione
ottimale.
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Il bene di tutti in casi come questo rischia però di diventare il bene di nessuno. I commons e
una democrazia che si costituisca a partire da essi, nulla c’entrano con una concezione che
cerca di semplificare le contraddizioni sociali in un'utopica armonia di pacificazione.
Beni comuni e diritti
In evidente continuità col punto precedente, c'è da scongiurare un'ulteriore deleteria
identificazione, quest'altra legata a tutte le culture politiche che siano cattoliche o di sinistra
(anche movimentiste) ma che portano comunque dentro le impronte di una logica politica
rigorosamente binaria. Una tale identificazione si dà quando non si riesce a distinguere tra i
beni comuni, materiali o immateriali che siano, e i diritti sociali. Si tratta di una semplificante
omogeneizzazione tra due domini concettual-politici che si rivela dannosa per entrambi. Per
questo andrebbero distinti bene gli ambiti pur senza separarli e negare il loro effettivo intreccio.
I beni comuni sono materiali ed immateriali, naturali ed artificiali. Essi riguardano l’ambiente, la
salute, le risorse primarie, i suoli. Tuttavia essi comprendono anche la «produzione sociale di
valori d'uso», quella che nasce dalla libera cooperazione, come nel caso del sapere o dell'arte,
e non è mercificabile pena la modificazione coatta del suo statuto. Di fatti esistono mercati per
le conoscenze, per la cultura e per l'arte ma ne modificano percezione e modalità d'uso rispetto
ai saperi e alle forme espressive che restano sociali e socializzate. In un'ultima ma non meno
importante analisi, i beni comuni non sono negoziabili. Se c'è un attentato al loro esserci come
risorse collettive, bisogna difenderli senza compromesso. I beni comuni devono essere sottratti
dalla normativa pubblica così come allo sciacallaggio privato. La produzione di norma in tal
senso non può prescindere dalla natura stessa della difesa dei commons che diviene a sua
volta processo costituente.
I diritti invece non possono che essere il frutto di un patto, peraltro storicamente negoziabile e
combattuto, per quanto ineliminabile. I diritti nascono dalla dicotomia (seppur non irriducibile) tra
il valore negativo della legge e quello pro-positivo della spinta istituente delle popolazioni (cfr:
Deleuze 1955, ed. it. 2002).
Per concretizzare il discorso in esempi molto pratici: se risorse primarie naturali, il sapere, l'arte,
le altre produzioni sociali, i suoli, sono riconoscibili come commons; l'abitare, il lavoro, il reddito
sono diritti sociali, essi sono "sacrosanti" ma restano diritti, non hanno lo statuto per essere beni
comuni e non ha senso politico che lo acquisiscano.
Altra cosa è invece prospettare l'estensione del tipo di lotte che si sono fatte per la difesa dei
beni comuni e delle modalità di governo che si stanno costruendo dal basso per essi, anche a
ciò che deve essere garantito dai diritti conquistati, sottraendone la "competenza" sia alla sfera
pubblica che alla privatizzazione incalzante: così – per guardarla da una prospettiva molto
concreta – assume senso programmare la riscrittura nella forma di enti speciali pure per quelle
che oggi sono le aziende municipalizzate che garantiscono servizi fondamentali come il
trasporto locale e l'assistenza alla persona.
Il comune
Peraltro, è fondamentale evitare abusi concettuali e pratici rispetto ai commons, anche
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rivendicando proprio la loro dimensione caratterizzante. I beni comuni, oltre ad essere "beni",
risorse materiali ed immateriali ma sempre tangibili (contrariamente al Bene assoluto di cui
sopra), sono per l'appunto "comuni".
Il comune non può essere certo esemplificato come ciò che è condiviso. Non può neppure
rimanere assolutamente imbrigliato nel pubblico come se fosse una sua rilettura postmoderna.
Tuttavia non può neanche essere liquidato in chiave prettamente antagonistica come ciò che
"non-è" pubblico o privato ed esiste in quanto vi si oppone, perché non può essere legato al
momento della mera negazione, della contrapposizione. Nel campo dello Stato come entità
omogenea staccata dalle singolarità reali, la dimensione del comune esprime sicuramente
meno peso politico rispetto a quelle del pubblico e del privato. Tuttavia nei processi reali la
dimensione del comune resta l'unico spazio del politico dove sbocciano quelle forme
istituzionali informali che più rispecchiano la base sociale. Per questo il comune, oltre ad essere
fondato sugli elementi della collettività e della condivisione, va definito per il suo radicamento e
quindi per la sua territorialità, dove per territori non si intendono solo luoghi geografici ma tutti
gli ambiti in cui si fa rete tra persone interagendo nel contempo con un ambiente. La
ri-territorializzazione dei beni comuni risulta essere indispensabile per la loro definizione
completa oltre il pubblico.
Necessità di autogoverno
A questo punto emerge prepotente il tema della modalità di organizzazione dell'uso dei beni
comuni nelle trame complicate della società odierna.
Prima di tutto c'è da ammettere che in una società complessa come quella attuale, è quasi
impossibile un accesso ai beni comuni senza un’organizzazione, seppur sempre comune e
conseguentemente ri-territorializzata, che ammortizzi lo squilibrio dei rapporti di forza tra
componenti sociali.
In secondo luogo c'è poi da chiarirsi ulteriormente su una questione terminologica ma che,
come spesso accade sul piano politico, diventa sostanziale. Come ci spiega in maniera chiara
Ugo Mattei, è necessario sicuramente chiamare questa organizzazione «governo dei beni
comuni» ed evitare di parlare di «gestione» (Mattei 2011). L’idea di gestione infatti appartiene a
quelle dimensioni di pubblico e privato, da scalzare a favore di un nuovo commonwealth. Il
pubblico, fondato su una delega alle istituzioni governative tramite i meccanismi più classici di
una democrazia della rappresentanza, tende a de-territorializzare e a centralizzare, oltre che a
perdesi nella macchina partito/buro-cratica con tutti i suoi "vizi" di forma (corruzione, sprechi,
clientelismi etc...). Il privato, fondato sull’estrazione di valore per il profitto di pochi, si appropria
anche dei beni comuni come fa con la forza lavoro. E' evidente quindi che l'unica prospettiva
coerente con lo statuto dei commons è quella dell'autogoverno delle comunità nella loro
tensione più lungimirante di “fare-società”.
Ovviamente non si può ridurre questo principio ad inapplicabili forme anarcoidi ma bisogna
porsi il problema di animare la ricerca di alternative per nuove forme di istituzioni che
prescindano dal duopolio pubblico-privato e da quelle della politica della rappresentanza
istituzionale. Ricercare deve significare uno sforzo di elaborazione critica dal punto di vista
cognitivo ma sapendo indagare direttamente la realtà sociale. Spesso nella vita quotidiana delle
reti informali tra donne e uomini, vengono sperimentate spontaneamente economie altre
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rispetto a quella del grande mercato neocapitalistico, politiche virtuose rispetto a quelle
pubbliche, relazioni solidali irraggiungibili per ogni pensiero della riconciliazione. Ed è lì che
maturano le nuove istituzioni del comune per un'altra democrazia.
Istituzioni pubbliche/Istituzioni del “comune”: una dicotomia ?
Giunti a quanto scritto fino a poco sopra, andrebbe problematizzato però anche il rapporto tra i
laboratori per istituzioni del “comune” che proliferano nei tessuti territoriali e le espressioni
politiche che si stagliano su un terreno che resta “pubblico”. Pure se non è sufficiente è
sicuramente utile che da dentro le istituzioni pubbliche, soprattutto sul livello amministrativo
locale, si lavori per interpretare l'anelito a nuove forme istituzionali diffuso nella società e per
costruire nell'immediato canali di apertura verso la spinta politica che viene da quel 99% di
donne ed uomini che compongono il paese reale a dispetto di quell' 1% che coatta-mente lo
domina. Tuttavia l'efficacia dipende pure dal modo in cui questi canali si aprono. Se
un'amministrazione o parte di essa oppure un pezzo di rappresentanza, vogliono davvero
lavorare oggi dentro le istituzioni pubbliche per aprire spiragli di trasformazione di queste stesse
in nuove forme che si avvicinino a quelle del comune, è necessario che il tutto non si limiti a
forme consultive ma sappia accogliere soprattutto la "presa di parola" che avviene anche
tramite forme tumultuarie. La sperimentazione di nuove orizzonti per un “governo comune dei
beni comuni” deve cominciare, pure per chi la pensa da dentro le istituzioni pubbliche, dalla
valorizzazione delle iniziative in loro difesa intraprese dalle soggettività costrette alla
subalternità nei rapporti di forza sociali ma che hanno palesato negli anni un protagonismo
determinante nel fronteggiare gli attacchi alle risorse collettive. L'istituzione pubblica che vuole
aprirsi alla società per la sua trasformazione, deve necessariamente provocarsi una ferita nel
suo corpo attuale per determinare un'emorragia di sovranità, sovranità da cedere alle moltitudini
di donne ed uomini che vivendo i territori geografici e sociali li animano fattivamente. Oggi più
che mai il fallimento definitivo della democrazia della rappresentanza ad ispirazione neoliberale,
giustifica politicamente una scelta di questo tipo pure dentro l'istituzionalità pubblica.
E' così che si rinnova il senso di un discorso movimentistico che prevede un confronto/scontro
con la politica che vive dentro il pubblico e che si allarga persino a concepire l'attraversamento
del nesso amministrativo da parte di rappresentanze espresse dai movimenti, a condizione che
questi animino davvero la singola/il singolo o i/le più che vengono eletti e soprattutto che non si
consideri lo strumento elettivo come esaustivo.
Il tumulto costituente
La decisiva spinta costituente non può che venire dalla capacità delle medesime moltitudini di
farsi movimento permanente, muovendosi continuamente tra il campo della micropolitica (quello
delle riappropriazioni, delle ri-costituzioni, degli esodi e delle sottrazioni in genere) e quello delle
grandi mobilitazioni, ma imponendo protagonismo senza ridursi mai a mero antagonismo,
facendosi costituente nel conflitto e nella proposta di alternative. La responsabilità di chi si
mette in movimento per il cambiamento è appunto quella di essere costituente sempre. Questo
non significa solo evitare l'anti-istituzionalismo a favore di un alter-istituzionalismo (premessa
comunque necessaria), ma di stare dentro il tempo e gli spazi, assumendosi le contraddizioni
come materiale fondante e fondamentale pure dell'avvenire che si vuole determinare
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autonomamente dal basso. Si tratta banalmente di sporcarsi le mani per costruire. Servono
architetti che sappiano essere nel contempo anche muratori disposti ad imbrattarsi mentre si
progetta, non servono più architetti laccati del pensiero rivoluzionario (!).
Se guardiamo alla lotta per l’acqua di Cochabamba, se guardiamo a quello che è avvenuto in
Argentina a seguito della crisi del 2001 tra le fabbriche a bajo control obrero fino agli esempi di
mercati paralleli, se guardiamo alle lotte territoriali italiane – dalla Val di Susa a Chiaiano e
Terzigno, passando per il Dal Molin, lotte che hanno tutte sperimentato la modalità del presidio
permanente praticando i primi occupy in tempi poco sospetti – guardiamo ad una
fenomenologia che, dalla sua dimensione alternativa rispetto al pubblico, trae proprio la matrice
essenziale, così come nell’esercizio di costruzione di comunità resistenti dentro il conflitto
sociale, il suo modo principale di manifestarsi. In queste esperienze di difesa e proposta rispetto
al dominio dei beni comuni, si ritrovano gli esperimenti più interessanti di modelli per nuove
istituzioni. I meccanismi mutualistici e cooperativi che caratterizzano i comitati territoriali e le
nuove forme reticolari di ricomposizione tra le figure contemporanee di lavoratori, sono
sicuramente i primi elementi da valorizzare come costitutivi di nuove maglie istituzionali del
comune.
Alla luce di una stagione oramai decennale di movimenti per i beni comuni, esiste ora la
necessità di forzare l’orizzonte. Una necessità che nasce innanzitutto dall'evidente impossibilità
di poter racchiudere nell'attuale diritto costituzionale il portato di una fase ri-costituente che,
ancora oggi, è estremamente viva come ci racconta la Valle di Susa.
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