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Anno XI n.9 - 22 maggio 2015
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Job-ict Osservatorio sulle competenze digitali
Professioni del futuro
«Sarà un nuovo welfare hi-tech
a sconfiggere la jobless growth»
Dario Banfi
Carlo Carboni è professore ordinario di Sociologia economica presso la Facoltà di Economia
dell’Università Politecnica delle Marche dove
insegna anche Filosofia politica. Ha presentato
di recente all’Accademia Nazionale dei Lincei il
progetto di ricerca "Cercare lavoro nel futuro:
sarà degli uomini o dei robots? Scenari europei a
destini divergenti".
Professore quale relazione esiste tra tecnologia e occupazione?
In campo scientifico la relazione è sempre
stata vista in maniera mediata, in rapporto alla
crescita. Il progresso tecnologico, per oltre un
secolo, ha portato benefici sia alla crescita sia alla
produttività, che hanno sempre permesso un
aumento dell’occupazione. Nell’ultimo scorcio di
secolo c’è stata una grande accelerazione, ma con
gli anni Duemila le cose sono cambiate. Diversi
studi, per esempio quello di due professori del
Mit, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, autori
di “Race Against The Machine”, sostengono che si
sia fermata la crescita lineare e parallela, avvenuta
fino a fine secolo, di produttività e occupazione.
E in Europa?
Noi europei abbiamo sofferto ancora di più,
poiché non siamo stati protagonisti della rivoluzione tecnologica, ma l’abbiamo in parte solo
lambita. Abbiamo applicato un technological
change ai settori preesistenti, dall’industria
alla logistica all’intermediazione finanziaria e
commerciale, dove c’è stata una sistematica riduzione di lavori routinari, sostituiti da soluzioni
tecnologiche.
Siamo cioè in competizione con le macchine?
Due professori di Oxford, Carl Benedikt Frey e
Michael A. Osbornee, nel 2013, con il saggio “The
Future of Employment”, hanno calcolato che
negli Usa nei prossimi 15 anni è a rischio di computerizzazione il 47% dei posti di lavoro, per un
totale per 700 tipologie di lavoro. La fondazione
Bruegel sostiene che in Europa si arriva, addirittura, al 50%. Che le tecnologie possano tagliare
posti di lavoro nei settori tradizionali è evidente.
Il problema è la gestione di questo processo.
Cioè?
È necessario trovare una terza via che superi
il dibattito tra i cosiddetti “apocalittici” e gli
“integrati”. Da una parte c’è il timore di perdere
il lavoro: riguarda tutti, senza eccezioni, anche
professioni tradizionali come quelle di docenti
universitari, che saranno sostituiti dall’e-lear-
Carboni, sociologo dell'economia:
«Serve investire in nuove politiche
educative per colmare il digital
gap e riuscire a prevenire e battere
la perdita di posti di lavoro»
Carlo
Carboni
Professore
di Sociologia
economica
all'Università
Politecnica
delle Marche
ning, dei giornalisti della carta stampata superati
da Internet, dei commercialisti, superflui se le
dichiarazioni precompilate funzionano, perfino dei medici, surclassati dalle diagnosi fatte
con apparecchiature elettroniche. Dalla parte
opposta ci sono gli ottimisti: sostengono che si
perdono oggi molti lavori, ma se ne creeranno
nuovi, come sempre si è fatto, per esempio con la
rivoluzione industriale.
La terza via è una nuova rivoluzione industriale?
No. È una forte presa di coscienza del fenomeno. Che la nostra industria possa generare nuova
occupazione appare difficile: bisogna puntare su
nuovi settori e, realisticamente, sul’apertura di
quella fase che già Schumpeter prevedeva sostenendo che dopo l’innovazione e l’invenzione c’è
la diffusione e l’imitazione. Ecco, noi italiani siamo abbastanza forti in queste ultime. La speranza
è che la rivoluzione informatica, che finora ci ha
visto abbastanza passivi, metta in moto anche da
noi ricerca e sviluppo.
Eppure, come dice Enrico Moretti nella
“Geografia del Lavoro”, ogni posto nell’hi-tech
genera un indotto di quattro posti di lavoro.
Cosa dobbiamo temere?
È vero, Eurostat conferma questi dati. Più cavalchiamo la rivoluzione tecnologica e maggiori
possibilità abbiamo. Il problema è che il settore
hi-tech in Europa conta pochissimo. Rispetto a
un Pil europeo di 13mila miliardi, oggi produce
solo 7,5 miliardi di euro. Nel 2018 arriveremo a
63 miliardi, ma resta una porzione limitata. Per
altro la forza lavoro considerata “super skilled” è
soltanto il 10%. Dobbiamo, in altre parole, temere
la crescita senza occupazione.
Quali conseguenze avrà?
La jobless growth è come attraversare un
deserto. Può essere un periodo più o meno lungo,
ma genera una forte assenza di posti di lavoro e
una segmentazione pesantissima sul mercato del
lavoro. Da una parte lavoratori “super skilled”,
dall’altra chi esegue lavori routinari e sottoccupati. La ricchezza prodotta aumenterà il divario tra
ricchi e classi meno agiate, che vedranno minori
benefici e retribuzioni più basse.
Chi deve occuparsi del problema?
Le classi dirigenti italiane: occorre rimodulare
il nostro welfare state. Serve un nuovo welfare
tecnologico-culturale, che parta dall’educazione.
Occorre investire in politiche educative e di competenza, per offrire le stesse opportunità all’interno di una democrazia di mercato, salvaguardando almeno alcuni punti di equità. È opportuno
valutare nuove ipotesi come l’estensione del
welfare al lavoro autonomo o la sperimentazione
di nuove forme di reddito di cittadinanza.
Come mai cita il lavoro autonomo?
Perché queste dinamiche spingono la crescita
del self-employment. La tecnologia consente
di produrre con maggiore precisione, velocità e
flessibilità. Offre nuove opportunità di neoartigianato e ricuce lo strappo tra work e brain.
Nella rivoluzione industriale, molta energia spesa
riguardava la fatica fisica, che ha prevalso su quella mentale. Ora siamo in un’epoca che restituisce
brain power e concilia il lavoro con la mente. In
questo il lavoro autonomo è favorito dalle nuove
tecnologie.
A quale mercato del lavoro darà forma la
tecnologia?
Credo che in futuro, tra i lavoratori, ci sarà un
fronte molto compatto e competente sui temi
delle tecnologie, che potrà arrivare a coprire il
15%-20% della forza lavoro. A seguire un mare
magnum di professioni più o meno svalutate, che
comprenderà molto più lavoro autonomo e molto più spirito imprenditoriale. Il concetto di imprenditorialità sarà più diffuso, non indebolito.
L’impresa resterà, comunque, il traino principale,
a partire, speriamo, dalle nuove startup.
Quale rischio vede in questo assetto?
Il pericolo è che il mercato si “mummifichi”,
ponendo, da una parte, un mono-blocco di
lavoratori super-specializzati, dall’altra il resto
della società. Il rischio più alto lo corre il ceto
medio, in piena crisi. Negli Usa economisti come
Paul Krugman hanno evidenziato la difficoltà di
questo segmento: la tecnologia ha picchiato duro
su blue collar e white collar allo stesso modo. In
Italia le cose non molto sono diverse, soltanto
leggermente in ritardo.
Come vincere the race against the machine?
Brynjolfsson e McAfee dicono che tutto sommato la corsa non è contro la macchina, ma con
la macchina: l’uomo non rinuncerà al proprio
primato e le macchine dipenderanno sempre
dall’uomo. In altre parole l’innovazione tecnologica dovrà essere concepita a misura di uomo,
non come una corsa per generare robot con
l’unico fine di sostituire l’uomo.
E la competizione tra Paesi?
Qui il livello di complessità è maggiore: è
chiaro che l’Europa parte svantaggiata. Stare
nella “seconda velocità” europea peggiora poi le
cose: i problemi strategici vengono posti sempre
dietro altri più pressanti, come, per esempio, il
debito pubblico. Come Paese abbiamo bisogno di
maggiore produttività: il gap principale riguarda
i servizi. La nostra industria, in particolare quella
media, tutto sommato funziona bene. Esistono
molte eccellenze, più di quante immaginiamo,
che hanno buoni imprenditori. Sono “scientificoriented”, con mentalità da ingegneri. Guardano
al profitto, ma anche al risultato. Uniscono il
gusto per la conoscenza con quello della realizzazione. Questo c’è anche in Italia anche se quasi
non ce ne accorgiamo. Dovremmo ripartire da
questi casi di studio.
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