In copertina Il capitalismo John Lanchester, London Review of Books, Regno Unito. Foto di Ian Teh opo la moratoria russostatunitense sui test nucleari del 1992, Washington fu costretta a usare le simulazioni al computer per calcolare quanto tempo impiegavano le armi esistenti a invecchiare. Per questo nel 1996 il governo degli Stati Uniti avviò l’Accelerated strategic computing initiative (Asci), che aveva l’obiettivo di sostituire i test nucleari nel sottosuolo con simulazioni svolte dai supercomputer. Ma per la sua attività, l’Asci aveva bisogno di una potenza informatica che nessun computer all’epoca poteva garantirgli. Così fu commissionata una macchina chiamata Asci Red, che avrebbe dovuto essere il primo supercomputer in grado di elaborare più di un teralops. La velocità di un processore può essere espressa in lops (loating point operations per second, operazioni in virgola mobile al secondo), un tipo di calcolo molto più complesso di quello binario. Un teralops equivale a mille miliardi di queste operazioni. Nel 1997, quando fu completato e messo in funzione, il Red era un esemplare unico: elaborava 1,8 teralops, cioè 18 seguito da undici zeri. E sarebbe rimasto il computer più potente del mondo ino alla ine del 2000. Anch’io uso un supercomputer Red. Cioè, non esattamente, uso una macchina in grado di elaborare 1,8 teralops. Si chiama PlayStation3 ed è stata lanciata dalla Sony nel 2005. Il Red era poco più piccolo di un campo da tennis, consumava l’elettricità di 800 abitazioni e costava 55 milioni di dollari. La Ps3 si può inilare sotto un televiso- D 42 Internazionale 1095 | 27 marzo 2015 re, si attacca a una normale presa di corrente e nel Regno Unito costa meno di duecento sterline (280 euro). Nel giro di dieci anni un computer che poteva essere fabbricato solo dal governo del paese più ricco del mondo, per scopi al limite delle possibilità di calcolo, è diventato un oggetto che qualsiasi adolescente potrebbe trovare sotto l’albero di Natale. Tutto questo lo dobbiamo a un principio noto come legge di Moore. In realtà non è proprio una legge, ma piuttosto l’estrapolazione di un’osservazione fatta da Gordon Moore, uno dei fondatori della Intel, l’azienda produttrice di microchip. Nel 1965 Moore aveva notato che da qualche anno la potenza dei processori al silicio cresceva a un ritmo costante rispetto al prezzo e pubblicò un saggio nel quale prevedeva che sarebbe stato così “per almeno altri dieci anni”. Non sembra un’afermazione sconcertante ma in efetti, come fanno notare Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee nel loro afascinante saggio The second machine age (La seconda era delle macchine), era piuttosto audace, perché implicava che nel 1975 i processori sarebbero stati 500 volte più potenti senza costare di più. “I circuiti integrati”, diceva Moore, avrebbero prodotto “meraviglie come i computer domestici, o almeno terminali collegati a un computer centrale, controlli automatici per le automobili e strumenti di comunicazione personale portatili”. Aveva ragione su tutto. Semmai era stato troppo prudente. La legge di Moore, che oggi corrisponde al principio secondo il quale la potenza dei processori raddoppia (o il loro prezzo si dimezza) ogni 18 mesi, è ancora VU/PhoToMASI L’automazione dei processi produttivi minaccia l’occupazione nelle fabbriche e negli uici. E potrebbe far nascere un mondo in cui la ricchezza è nelle mani di chi controlla le macchine, mentre la vita di tutti gli altri diventa più precaria valida a mezzo secolo di distanza. È a questo che dobbiamo miracoli come il passaggio dal Red alla Ps3. Nella storia dell’umanità non è mai esistita un’invenzione che sia migliorata a questa velocità per un periodo di tempo così lungo. Mentre la potenza dei computer aumentava a livello esponenziale e le macchine diventavano sempre più eco- o dei robot Ayutthaya, Thailandia. Macchine che selezionano il riso del marchio Royal Umbrella nomiche, gli esseri umani hanno anche imparato a programmare meglio. La prova lampante l’abbiamo avuta nel 2011, con il trionfo del supercomputer Watson dell’Ibm. L’idea alla base del progetto era costruire un computer capace di comprendere abbastanza bene una lingua umana e vincere il famoso quiz televisivo statuniten- se Jeopardy!. Il computer non si sarebbe scontrato con dei concorrenti qualsiasi, ma con due campioni storici della trasmissione. Sarebbe stata, come dicono Brynjolfsson e McAfee, “la prova più diicile per veriicare la capacità di un computer di trovare corrispondenze e usare abilità comunicative complesse”, e quindi molto più impegna- tiva di quella sostenuta da Deep Blue, il computer dell’Ibm che nel 1997 aveva battuto il campione mondiale di scacchi Gary Kasparov. Una partita a scacchi si può vincere con la forza bruta dei calcoli: sul mio smartphone c’è un programma in grado di battere facilmente i migliori giocatori del mondo. Per i quiz di cultura generale, in Internazionale 1095 | 27 marzo 2015 43 In copertina VU/PHOTOMaSI Rayong, Thailandia. Nell’impianto della Ford particolare quelli come Jeopardy!, che hanno una componente colloquiale e allusiva, la semplice potenza di calcolo non è suiciente. Il risultato di quello scontro è diventato ormai un classico per chiunque si occupi d’informatica, robotica o futurologia, e ne parlano a lungo sia John Kelly e Steve Hamm nel loro saggio Smart machines (Macchine intelligenti) sia Tyler Cowen in Average is over (La media è inita). Watson vinse con facilità. Non azzeccò tutte le risposte (pensava che Toronto fosse negli Stati Uniti) e quando dovette trovare una parola che signiicava “eleganza o gruppo di studenti che frequentano lo stesso anno”, rispose “chic” invece di “classe”. Tuttavia, il montepremi accumulato alla ine di due giorni di gara era tre volte quello dei due migliori avversari umani. “Partecipare ai quiz sarà il primo lavoro che Watson toglierà agli esseri umani”, commentò uno degli sconitti, “ma sono sicuro che non sarà l’ultimo”. Il successo di Watson è un segno dei progressi che ha fatto l’apprendimento automatico, il processo grazie al quale gli algoritmi di un computer migliorano da soli la propria capacità di analisi e previsione. Il metodo è essenzialmente di tipo statistico: la macchina impara per tentativi ed errori 44 Internazionale 1095 | 27 marzo 2015 quale risposta è più probabile che sia corretta. Sembra una cosa normale, ma, dato che come prevede la legge di Moore i computer sono diventati sorprendentemente potenti, la capacità di fare tentativi e correggere gli errori è così alta che la macchina migliora molto rapidamente. Ne è la prova il traduttore di Google, in cui si può scrivere un testo e vederlo tradotto in una serie di lingue. Nel 2006, quando il programma fu lanciato, sembrava uno scherzo: sia per il fatto stesso che potesse esistere, sia perché le traduzioni erano molto imprecise e con una sintassi ingarbugliata. Se ci avessimo rinunciato allora, ci saremmo persi una serie di sviluppi. La sua ultima versione è un’app per smartphone in cui si può non solo scrivere ma anche parlare, e non solo leggere la risposta ma anche sentirla pronunciare. L’app può perino scansionare un testo con la fotocamera del telefono e poi tradurlo. Per le lingue che conosciamo, e soprattutto per i testi di una certa lunghezza, il risultato è ancora imbarazzante, ma il programma è comunque utile se non ci ricordiamo come si dice in tedesco “obbligazione” o “emorroidi”. Per le lingue che non conosciamo può essere prezioso, e vale la pena rilettere su quanto sia meraviglioso poter installare sul telefono un programma in grado di tradurre gratuitamente dal malese al nigeriano o dall’ungherese al giapponese. Il traduttore di Google non è migliorato perché centinaia di specialisti sottopagati hanno passato anni a copiare liste di vocaboli. No, i suoi progressi sono il trionfo dell’apprendimento automatico. Il programma confronta in parallelo testi in varie lingue e il suo processo di apprendimento consiste nel trovare quale testo è statisticamente più probabile che corrisponda a quello in un’altra lingua. Ormai nel suo database ha una enorme quantità di testi corrispondenti. Una fonte particolarmente fertile, a quanto sembra, sono le pubblicazioni dell’Unione europea tradotte in tutte le lingue dei suoi paesi. Qualche anno fa c’è stato un momento in cui, dopo aver fatto qualche progresso, il software ha smesso di migliorare, perché la sua raccolta di testi ha cominciato a contenerne molti che erano stati tradotti dal programma stesso. Non so come, ma devono aver risolto il problema, perché ora sta migliorando di nuovo. Qualcuno potrebbe sostenere che non si tratta di vero “apprendimento”, e probabilmente in termini umani non lo è. Tuttavia, a livello pratico, il risultato è simile a quello che si ottiene quando si migliora nello svolgimento di un compito speciico. Se mettiamo in- sieme tutte queste cose, possiamo cominciare a capire perché molte persone pensano che sia in arrivo un grande cambiamento basato sull’inluenza dell’informatica e della tecnologia nella nostra vita quotidiana. I computer sono diventati molto più potenti e ormai costano così poco da essere praticamente onnipresenti. E la stessa cosa si può dire dei sensori usati per monitorare il mondo fisico. Anche nel campo del software sono stati fatti grandi progressi. Secondo Brynjolfsson e McAfee, siamo alla vigilia di una nuova rivoluzione industriale il cui impatto sul mondo sarà pari a quello della prima. La potenza dei computer, e in particolare l’uso dei robot, modiicheranno interi campi dell’attività umana. Capacità motorie Per molti anni il problema dei robot è stato che i computer sono bravissimi a fare le cose per noi diicili, ma lo sono molto meno con quelle che per noi sono facili. Per esempio sono eccezionali nel gioco degli scacchi, ma delle frane in abilità cognitive che diamo per scontate. Una delle più importanti è quella che gli scienziati chiamano Slam (simultaneous localization and mapping), cioè la capacità di guardare uno spazio, sapere subito come ci si muove al suo interno e ricordarselo. In questa e in altre attività essenziali per la robotica avanzata i computer sono un disastro. Un robot che gioca a scacchi può stracciare il campione del mondo, ma non può (o non potrebbe) avere le capacità motorie e percettive di un bambino di un anno. Una famosa dimostrazione l’abbiamo avuta nel 2006, quando gli scienziati della Honda hanno presentato Asimo, il loro nuovo robot infermiere. Era piccolo (solo un metro e 30 centimetri) e bianco, aveva una maschera nera e portava uno zaino di metallo sulle spalle. Somigliava a un minuscolo astronauta. Nel ilmato il robot avanza verso una rampa di scale e comincia a salire. Fa due scalini e poi cade, provocando scoppi di risate. Evidentemente l’alba della nuova era della robotica doveva ancora arrivare. Questo succedeva nove anni fa, ma nel frattempo la legge di Moore e l’apprendimento automatico sono andati avanti. La nuova generazione di robot non è più così ridicola. Date un’occhiata su internet ai Kiva che Amazon usa nei suoi magazzini per preparare e spedire i pacchi. Questi robot sono piccoli e lenti, ma possono sollevare 150 chili alla volta e trasportare un’intera pila di scafali. Telecomandati lungo percorsi prestabiliti, volteggiano e danzano gli uni intorno agli altri con sorprendente ele- ganza e raccolgono i pacchi seguendo le istruzioni stampate sui codici a barre, che scansionano automaticamente. Non fanno cose straordinarie, ma sono inesorabili, e sono lì per restarci: il loro lavoro non sarà mai più svolto da un essere umano. Sembra il futuro anticipato dal premio Nobel per l’economia Wassily Leontief, quando nel 1983 dichiarò che “l’importanza degli esseri umani come fattore di produzione è destinata a diminuire come quella dei cavalli nell’agricoltura, che sono stati eliminati con l’introduzione dei trattori”. Molti tipi di lavoro, soprattutto quelli meccanici e ripetitivi, sono già stati automatizzati, ma i ricercatori si stanno occupando anche di altre categorie di mestieri. Brynjolfsson e McAfee scrivono: “Rodney Brooks, il cofondatore di iRobot, ha notato La perdita di posti di lavoro non riguarda solo i paesi più sviluppati anche un’altra cosa nelle fabbriche moderne altamente automatizzate: le persone sono poche, ma non del tutto assenti. E molto del lavoro che fanno è ripetitivo e noioso. In una catena di montaggio che riempie i vasetti di marmellata le macchine ne spruzzano una quantità precisa in ogni barattolo, avvitano il tappo e incollano l’etichetta, ma c’è una persona che mette i barattoli vuoti sul nastro trasportatore per dare il via al processo. Perché questo passaggio non è stato automatizzato? Perché i vasetti arrivano alla catena di montaggio dodici alla volta in scatole di cartone nelle quali non stanno fermi. Questa piccola imprecisione non è un problema per una persona (che li vede, li prende e li posa sul nastro), ma per un robot è molto diicile prendere qualcosa che non è sempre esattamente nello stesso posto”. È questo problema, insieme ad altri simili, che secondo molti osservatori i robot stanno cominciando a risolvere. E la perdita di posti di lavoro non riguarda solo i paesi più sviluppati. L’azienda taiwanese Foxconn è la più grande produttrice al mondo di elettronica di consumo. Se state leggendo questo articolo su un dispositivo elettronico, ci sono buone probabilità che venga da una delle fabbriche della Foxconn, dato che l’azienda produce iPhone, iPad, iPod, Kindle, componenti dei prodotti Dell e telefoni per Nokia, Motorola e Microsoft. La Foxconn ha 1,2 milioni di dipendenti in tutto il mondo, molti dei quali in Cina. Almeno questo è il loro numero al momento, ma il fondatore dell’azienda, Terry Gou, ha detto che un giorno spera di usare nelle sue fabbriche un milione di robot. Non sta ancora succedendo, ma esiste un progetto. Il fenomeno non riguarda solo i lavori manuali. Prendiamo questa notizia difusa dall’Associated Press: “Cupertino, California. Martedì la Apple Inc. ha annunciato un utile netto di 18,2 miliardi di dollari nel primo trimestre di quest’anno, pari a 3,6 dollari per azione. Questo risultato ha superato tutte le previsioni di Wall street. Nello stesso periodo l’azienda produttrice di iPhone, iPad e di altri dispositivi elettronici ha registrato un fatturato di 74,6 miliardi, mentre gli analisti ne avevano previsti 67,38. Per il trimestre attuale, che si concluderà alla ine di marzo, la Apple prevede ricavi dai 52 ai 55 miliardi di dollari, mentre gli analisti ne avevano previsti 53,65. Dall’inizio di quest’anno il valore delle azioni della Apple è diminuito dell’1 per cento, mentre l’Indice Standard & Poor’s 500 è sceso di poco più dell’1 per cento. Poco prima della chiusura della contrattazioni le azioni sono arrivate a 109,14 dollari, aumentando del 39 per cento rispetto agli ultimi dodici mesi”. Torneremo più avanti sul contenuto di questa notizia. Per ora ci interessa il fatto che non è stata scritta da un essere umano. È diicile rendersi conto che ormai le notizie generate dai computer sono una realtà. Il software che ha scritto la notizia dell’Associated Press è stato sviluppato da l l’Au to m ate d I n si g h t s , un’azienda specializzata nella generazione di rapporti automatici sui guadagni delle imprese. La prosa non è all’altezza di quella di John Updike, ma è meglio di quella di E.L. James, e comunque raggiunge lo scopo, dato che il suo compito è molto speciico: comunicare a chi legge i risultati della Apple. Il fatto è che esistono molti altri lavori d’uficio altrettanto meccanici e stereotipati. Siamo già abituati all’idea che il compito degli operai alla catena di montaggio di una fabbrica prima o poi sarà completamente automatizzato, ma siamo meno abituati a pensare che il lavoro degli impiegati, degli avvocati, degli analisti economici, dei giornalisti o dei bibliotecari possa essere svolto da un automa. In realtà è possibile, e in molti casi sta già succedendo. Average is over di Tyler Cowen descrive un futuro in cui tutti i guadagni iniranno nelle tasche di chi rientra nella fascia più alta della distribuzione del reddito, soprattutto chi è bravo a interaInternazionale 1095 | 27 marzo 2015 45 In copertina gire con le macchine intelligenti. E ora cosa succederà? La risposta dipende da cosa pensiamo della storia. Pensiamo che le lezioni della storia siano utili per l’economia? Agli autori dei libri che ho citato interessano queste lezioni, ma non tutti gli economisti sono come loro. Anzi, molti diidano fortemente della storia. Secondo me perché vorrebbero essere considerati scienziati. Se l’economia è una scienza, le lezioni della storia “fanno già parte dell’equazione”, sono incorporate nei modelli matematici. Non credo sia una sciocchezza dire che la riluttanza a imparare dalla storia è uno dei motivi per cui l’economia non riesce a prevedere il futuro. Secondo qualcuno, e l’opinione è storicamente fondata, la nuova rivoluzione industriale è già avvenuta. I computer non sono un’invenzione recente, tuttavia il loro inlusso sulla crescita economica si è manifestato lentamente. Bob Solow, un altro premio Nobel citato da Brynjolfsson e McAfee, già nel 1987 osservava: “Vediamo l’era dei computer dovunque, tranne che nelle statistiche sulla produttività”. La versione più completa e ragionata di questa tesi la troviamo negli studi di Robert Gordon, un economista statunitense che nel 2012 ha pubblicato un saggio provocatorio e afascinante intitolato Is our economic growth over? (La nostra crescita economica è inita?). Nel libro Gordon confronta l’impatto dei computer e dell’informatica con gli efetti della seconda rivoluzione industriale, che avvenne tra il 1875 e il 1900 e alla quale dobbiamo le centrali elettriche, le lampadine, il motore a combustione interna, il telefono, la radio, la musica registrata e il cinema. Come ha fatto notare in un suo editoriale uscito sul Wall Street Journal, quella rivoluzione portò anche “l’acqua corrente nelle case, il più grande evento nella storia della liberazione femminile, grazie al quale le donne smisero di trasportare letteralmente tonnellate di acqua ogni anno” (chi non fa l’economista potrebbe avere la tentazione di chiedere perché erano proprio le donne a portare l’acqua). Secondo Gordon, abbiamo tirato avanti con le conseguenze e gli strascichi di queste invenzioni ino agli anni settanta, quando “è arrivata la rivoluzione dei computer, che ha permesso all’economia di crescere regolarmente del 2 per cento all’anno. I computer hanno sostituito il lavoro umano e contribuito alla produttività, ma il grosso dei beneici è arrivato all’inizio dell’era elettronica. Negli anni sessanta i grandi computer hanno cominciato a sfornare resoconti ban- 46 Internazionale 1095 | 27 marzo 2015 cari e bollette telefoniche, facendo diminuire il lavoro d’uicio. Negli anni settanta le macchine da scrivere dotate di memoria hanno sostituito eserciti di impiegati che dovevano riscrivere sempre le stesse cose. Negli anni ottanta sono arrivati i computer dotati di sistemi di scrittura, i bancomat hanno rimpiazzato i cassieri delle banche e gli scanner dei codici a barre hanno sostituito un buon numero di commessi”. Questi sono stati cambiamenti reali e importanti, che ci hanno liberato da tante attività noiose e meccaniche. Ma quello che è successo dopo, con la legge di Moore e la Negli anni ottanta i bancomat hanno rimpiazzato i cassieri delle banche miniaturizzazione, è stato un po’ diverso: “L’iPod ha sostituito il lettore di cd portatile, gli smartphone hanno rimpiazzato i cellulari, l’iPad ha fatto concorrenza ai portatili tradizionali. Queste innovazioni sono state accolte con entusiasmo, ma costituiscono solo ulteriori opportunità di consumo, al lavoro e nel tempo libero, più che essere una continuazione della tradizione storica che aveva sostituito il lavoro umano con le macchine”. In altre parole la produttività ha goduto dei veri beneici della rivoluzione informatica qualche decina di anni fa. Ora abbiamo più gadget divertenti, ma per la maggior parte si limitano a intrattenerci e a distrarci. Non contribuiscono alla produttività e potrebbero anche ridurla. La lampadina elettrica ha cambiato il mondo, Facebook è solo un modo per permettere alle persone di cliccare “mi piace” sotto foto di gatti che somigliano al colonnello Gheddai. Da questo punto di vista la legge di Moore ha provocato soprattutto un’esplosione di attività digitale inutile. Un cambiamento importante sarebbe riuscire a potenziare di dieci o cento volte le batterie, ma questo richiederebbe un progresso della chimica molto più diicile di quello che permette di inilare più circuiti in un processore. L’analisi di Gordon è in linea con la vecchia teoria della “disoccupazione tecnologica”. Questo termine fu coniato da John Maynard Keynes per deinire il fatto che “la scoperta dei mezzi per ridurre l’uso di manodopera procede più rapidamente della scoperta di nuovi usi per la manodopera”. È un tipo di progresso che fa sparire posti di lavoro grazie alla semplice rapidità dei suoi efetti. Uno degli assiomi fondanti dell’economia è che i processi economici si basano sui bisogni degli individui; e dato che i bisogni umani sono ininiti, anche il processo di soddisfarli è ininito. L’economia non si fermerà inché non spariranno i bisogni. E dato che questo non succederà mai, ci sarà sempre lavoro suiciente per tutti, con l’eccezione di qualche occasionale periodo di recessione, di depressione o di crisi. La lezione rassicurante della storia sembra confermarlo: in teoria è possibile che una nuova invenzione faccia sparire un tipo di lavoro così rapidamente da non consentire a un altro di sostituirlo, ma in pratica questo non è ancora successo. L’innovazione fa sparire certi lavori e li sostituisce con altri. In parole povere sono sempre gli individui a perdere il lavoro, mai le economie. Un lavoro perso in un posto è sostituito da un altro, magari in un posto diverso. Nel 1810 il 90 per cento della forza lavoro statunitense era impiegata nell’agricoltura. Un secolo dopo, quella quota era scesa al 30 per cento e oggi è meno del 2 per cento. Sembra la formula del caos e della disoccupazione endemica, ma l’economia degli Stati Uniti ha gestito bene questa transizione, in buona parte grazie alle tecnologie citate da Robert Gordon (più la ferrovia). Quindi, per estensione e per analogia, forse non dovremmo preoccuparci della disoccupazione tecnologica neanche questa volta. La macchina a vapore Brynjolfsson, McAfee e Cowen non la pensano così. Sulla rivoluzione della tecnologia informatica i due schieramenti non sono d’accordo: Gordon ritiene che sia già avvenuta, gli altri che sia in arrivo. Però tutti ci tengono a sottolineare, sempre per estensione e analogia, che gli efetti più importanti della rivoluzione industriale arrivarono dopo molto tempo. Watt migliorò l’eicienza della macchina a vapore del 300 per cento tra il 1765 e il 1776, ma poi ci vollero decenni prima che quel cambiamento inluisse sull’economia, visto che le ferrovie furono pienamente sviluppate solo verso la ine dell’ottocento. Secondo Gordon ci vollero 150 anni per vedere “tutti gli efetti” della rivoluzione industriale, ma la rivoluzione della tecnologia informatica segue una traiettoria diversa. E se si sbagliasse? Forse la nuova rivoluzione industriale è cominciata già da qualche decennio e stiamo vivendo un periodo equivalente agli anni ottanta del settecento, pochi decenni dopo l’invenzione della macchina a vapore (1712), ma qualche decennio prima dei treni VU/PhOTOMASI Ayutthaya, Thailandia. Nella fabbrica di riso Royal Umbrella commerciali a vapore (1804). Se fossimo a questo punto? Se avessero ragione gli economisti e i futurologi quando dicono che “i robot stanno per rubarci tutti i posti di lavoro”? Uno studio approfondito, ponderato e sconcertante è stato condotto da due economisti di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, e presentato in un saggio del 2013 intitolato “Il futuro della disoccupazione. Quanto sono minacciati i posti di lavoro dalla computerizzazione?”. I due studiosi hanno usato alcune nuove tecniche matematiche e statistiche per calcolare il probabile efetto dell’innovazione tecnologica su un’ampia gamma di occupazioni, 702 in tutto, che vanno dal podologo alla guida turistica, dall’addestratore di animali al consulente inanziario e al lucidatore di pavimenti. Li elencano tutti, dal numero 1 (non c’è problema) al 702 (meglio avere pronto il curriculum). In caso ve lo steste chiedendo, questi sono i primi cinque: 1. Terapeuti ricreativi 2. Supervisori di operai meccanici, installatori e riparatori 3. Dirigenti di servizi d’emergenza 4. Operatori sociali che si occupano di salute mentale e dipendenze 5. Audiologi Questi sono gli ultimi cinque: 698. Assicuratori 699. Tecnici matematici 700. Sarti 701. Esaminatori di titoli di proprietà 702. Operatori dei call center La conclusione è chiara: i lavori che si basano sui rapporti interpersonali e richiedono una capacità di giudizio resteranno, quelli meccanici sono destinati a sparire. Alcune valutazioni di Frey e Osborne sembrano bizzarre: è mai possibile che i coreograi siano al tredicesimo posto, prima dei medici e dei chirurghi, che sono al quindicesimo, e molto prima degli antropologi e degli archeologi, che sono al trentanovesimo? E che dire degli scrittori e degli editor, rispettivamente al posto 123 e 140? Comunque la metodologia usata è seria e il saggio ci fa capire chiaramente quali saranno le conseguenze dei cambiamenti tecnologici sia per i colletti bianchi sia per le tute blu. I software, per esempio, stanno inluendo notevolmente sulla professione legale: scansionare e confrontare documenti costa molto meno se lo fanno le macchine. La stessa cosa sta succedendo nel campo dei servizi inanziari e della raccolta di dati clinici. Per la maggior parte di noi sapere che “la media è inita”, come recita il titolo del saggio di Owen, è una brutta notizia, perché la maggior parte di noi è, per deinizione, nella media. La conclusione di Frey e Osborne è brutale. Nel giro di una ventina d’anni il 47 per cento dei posti di lavoro rientrerà nella “categoria ad alto rischio”, cioè sarà potenzialmente automatizzabile. La cosa interessante, anche se non particolarmente confortante, è che i più a rischio sono i lavori meno pagati. Negli ultimi decenni il mercato del lavoro si è polarizzato, ci sono sempre più posti nella fascia superiore e inferiore della distribuzione salariale e meno in quella intermedia. “Invece di ridurre i posti di lavoro di livello medio, com’è successo negli ultimi decenni, il nostro modello prevede che in futuro la computerizzazione sostituirà soprattutto i lavori meno specializzati e a basso salario. Quelli più specializzati e ad alto salario, invece, rischiano meno di sparire”. Quindi i poveri saranno i più colpiti, la classe media se la caverà leggermente meglio di ora e i ricchi – sorpresa, sorpresa – non avranno problemi. In questo mondo del futuro, inoltre, la produttività aumenterà notevolmente. La produttività è calcolata in base a quanto produce un lavoratore in un’ora. È il dato più importante per capire se un paese sta diventando più ricco o più povero. Spesso si Internazionale 1095 | 27 marzo 2015 47 In copertina guarda di più al pil (la ricchezza prodotta sul territorio nazionale), ma può essere fuorviante, perché basta un aumento della popolazione per far crescere il pil. Però se aumenta solo la popolazione, si può avere una crescita del pil e allo stesso tempo un abbassamento del tenore di vita. Per questo la produttività è un metro più preciso per misurare l’andamento degli standard di vita. Dal 1979 il reddito del lavoratore statunitense medio non è quasi aumentato (anzi, dal 1999 è diminuito), mentre la produttività ha continuato a salire abbastanza regolarmente. Questo vuol dire che la quantità di lavoro svolta in un’ora è aumentata, ma il salario no. Quindi è il capitale che ha tratto maggior proitto dalla produttività, non la forza lavoro. Non è chiaro di chi sia la colpa, ma Brynjolfsson e McAfee sostengono, in modo convincente, che la principale responsabile sia l’automazione. È una tendenza preoccupante. Immaginate un’economia nella quale lo 0,1 per cento della popolazione possiede le macchine, lo 0,9 per cento le gestisce e il restante 99 per cento fa il poco lavoro non automatizzabile o resta disoccupato. Questo è il mondo che ci possiamo aspettare dagli sviluppi della produttività e dell’automazione. È il mondo del Capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty, in cui i capitalisti hanno sempre la meglio sulla forza lavoro. Si vede già chiaramente dall’articolo sui proitti della Apple compilato dal mio collega robot. In un trimestre la Apple ha guadagnato più di qualsiasi altra azienda della storia: 74,6 miliardi di dollari di fatturato e 18 miliardi di proitti. Il suo amministratore delegato, Tim Cook, ha dichiarato che queste cifre sono “diicili da comprendere”. Ha ragione. È diicile immaginare che l’azienda abbia venduto 34mila iPhone all’ora per tre mesi. Ma dovremmo anche rilettere sulle implicazioni di questo dato. Se i proitti crescono a questo ritmo per tutto l’anno, in dodici mesi potrebbero raggiungere quota 88,9 miliardi di euro. Nel 1960 l’azienda più redditizia della principale economia mondiale era la General Motors. Fatte le debite proporzioni, quell’anno la casa automobilistica statunitense avrebbe guadagnato 7,6 miliardi di dollari. Ma la General Motors dava lavoro a 600mila persone, mentre l’azienda più redditizia di oggi ne impiega solo 92.600. Se allora 600mila dipendenti generavano 7,6 miliardi di proitti e ora 92.600 ne generano 88,9, signiica che la redditività per dipendente è aumentata di 76,65 volte. Il capitale non sta semplicemente trionfando sul lavoro, oggi non 48 Internazionale 1095 | 27 marzo 2015 c’è proprio storia. Se fosse un incontro di boxe, l’arbitro lo interromperebbe. Considerato l’attuale ordinamento politico ed economico, l’automazione non può che rafforzare queste tendenze. Pensate all’automobile senza conducente che Google sta sviluppando. È un’invenzione miracolosa (nel senso che funziona sul serio), ma limitata, perché ci sono tanti aspetti della guida che non riesce a gestire: per esempio non può sorpassare né “inserirsi” nel lusso del traico. Ma immaginate per un momento che tutti questi problemi tecnici siano risolti e che l’auto senza conducente diventi una realtà. Sarebbe stupefacente, soprattutto quando e se fosse combinata con fonti di energia pulita. La nostra macchina potrebbe accompagnare i bambini a È il capitale che ha tratto maggior proitto dalla produttività, non la forza lavoro scuola, tornare a casa per portarci al lavoro mentre controlliamo la posta elettronica, andare a parcheggiarsi da qualche parte per poi venirci a prendere alla ine della giornata, portarci a cena e riportarci a casa mentre smaltiamo quella tequila di troppo. A questo punto non è neanche detto che debba essere la nostra macchina: basterebbe un veicolo che possiamo usare quando ci serve. L’unico problema è che tutti i soldi andrebbero a Google e un’intera categoria di autisti sparirebbe. Solo nel Regno Unito ci sono 231mila tra taxi e auto a noleggio con conducente, e moltissime persone il cui lavoro consiste nel guidare un mezzo di trasporto. Ho il sospetto che si arrivi facilmen- Da sapere Robot operai Installazioni di robot industriali nel mondo, migliaia. Fonte: The Wall Street Journal (Stime) 300 200 100 0 1995 2005 2015 te a qualche milione di posti di lavoro. Sparirebbero tutti o, cosa altrettanto grave, perderebbero valore. Supponiamo che una persona sia pagata per 40 ore di lavoro alla settimana, metà delle quali consistono nel guidare e l’altra metà nel caricare e scaricare merci, riempire moduli di consegna e così via. La prima metà non varrebbe più niente. Per 20 ore il datore di lavoro non pagherebbe la stessa cifra che pagava per 40, perché in quelle ore la persona se ne starebbe seduta in macchina senza fare niente. Sempre supponendo che non sia automatizzata anche l’altra metà del lavoro. Un mondo di auto senza guidatore sarebbe meraviglioso, ma sarebbe anche un mondo in cui le persone che possiedono i veicoli o li gestiscono vivrebbero molto meglio di quelle che non hanno nessun controllo sui trasporti. Somiglierebbe al mondo di oggi, ma in peggio. Due delazioni Probabilmente sarebbe un mondo con un livello di delazione molto alto. Se i posti di lavoro scompaiono, la maggior parte delle persone ha meno soldi in tasca, e quando questo succede, i prezzi scendono. Non sarebbe esattamente il tipo di delazione che stiamo cominciando a vedere oggi nel mondo sviluppato: in questo caso la delazione è legata al crollo del prezzo del petrolio combinato con la stagnazione delle economie e la perdita di iducia dei consumatori. Ma le due delazioni potrebbero sovrapporsi. Il fondatore e amministratore delegato di Google, Larry Page, è ottimista. Di recente ha dichiarato al Financial Times che dobbiamo anche tener conto dell’efetto della tecnologia sul prezzo di molti beni e servizi. È in arrivo un grave periodo di delazione, “ma anche se molti posti di lavoro andranno in fumo, nel giro di poco tempo questa perdita sarà compensata dal calo dei prezzi dei prodotti di cui abbiamo bisogno, cosa che ritengo importante ma di cui nessuno parla”. Le nuove tecnologie renderanno le imprese più eicienti non del 10 per cento, ma di dieci volte, ha detto Page al Financial Times. E questo farà abbassare i prezzi e “le cose che ci servono per vivere comodamente diventeranno molto meno care”. A molte persone, continuava il quotidiano britannico, l’idea di uno sconvolgimento simile nella propria economia personale può sembrare assurda e senza dubbio inquietante. Non vedono come una prospettiva ideale la possibilità che milioni di lavori diventino obsoleti e che il prezzo dei prodotti di consumo quotidiano precipiti nella spirale della delazione. Ma in un sistema Vu/PhOtOMASI Rayong, Thailandia. Nella fabbrica della Ford capitalistico, afermava Page nell’intervista, l’eliminazione delle inefficienze con l’aiuto della tecnologia dev’essere portata alla sua logica conclusione. Nella Silicon valley e nelle fasce più alte della società molti condividono questa visione agghiacciante del futuro. Lo dicono con un tono di inevitabilità, di determinismo e trionfalismo. È inutile rattristarsi, è quello che succederà. Certo, i robot ruberanno molti posti di lavoro, o comunque quelli dei più poveri. Ma c’è un tassello mancante in questo ragionamento. Molti economisti moderni ritengono che l’unica cosa che conta siano le forze economiche. Anche i politici hanno cominciato a pensarla così, almeno nel mondo occidentale: le teorie economiche sono diventate verità indiscutibili. L’idea che un cambiamento economico sia così distruttivo per l’ordine sociale da spingere la comunità a ribellarsi sembra scomparsa dall’universo del possibile. Ma la perdita del 47 per cento dei posti di lavoro in vent’anni (come prevedono Frey e Osborne) dev’essere al limite di quello che una società può sopportare, non tanto per il 47 per cento, quanto per l’arco di tempo. È successo molte volte che i posti di lavoro diminuissero. Ma che scompaiano con questa velocità è una cosa nuova, e la ricerca di precedenti storici non ci porta molto lontano. Cosa produrrà questa perdita così rapida dei posti di lavoro combinata con la delazione? La verità è che non lo sa nessuno. In mancanza di un modello o di un precedente, l’idea che il processo economico proceda come un carro armato senza incontrare l’opposizione di nessuna forza sociale o politica è azzardata. I robot ruberanno tutti i posti di lavoro solo se noi glielo permetteremo. Vale anche la pena di accennare a quello che nessuno dice a proposito di questo futuro robotizzato. Lo scenario che ci presentano, e che ci fanno vedere come inevitabile, è quello di una distopia ipercapitalistica. C’è il capitale, che se la cava meglio del solito, ci sono i robot, che fanno tutto il lavoro, e c’è la grande massa dell’umanità, che non fa quasi niente, ma si diverte a giocare con i suoi gadget (anche se, in mancanza di lavoro, c’è da chiedersi chi si potrà permettere di comprarli). Ma esiste anche un’alternativa nella quale la proprietà e il controllo delle macchine sono separati dal capitale nella sua forma attuale. I robot liberano buona parte dell’umanità dal lavoro e tutti ne traggono vantaggio. Gli uomini non devono più andare in fabbrica, scendere nelle miniere, pulire i gabinetti o guidare i camion per mi- gliaia di chilometri, ma possono ideare coreograie, disegnare tessuti, curare giardini, raccontare storie, inventare cose e creare un nuovo universo di bisogni. Questo sarebbe il mondo dei bisogni illimitati di cui parla l’economia, ma distinguerebbe tra i bisogni soddisfatti dagli esseri umani e quelli delegati alle macchine. A me sembra che l’unico modo in cui quel mondo può funzionare è con forme alternative di proprietà. L’unico motivo per pensare che questo mondo migliore si possa realizzare è che forse il futuro distopico del capitalismo combinato con i robot è troppo deprimente per essere politicamente proponibile. Questo futuro alternativo sarebbe il mondo sognato da William Morris, pieno di esseri umani impegnati in attività gratiicanti e ragionevolmente remunerate. Solo con l’aggiunta dei robot. Il fatto di avere davanti un futuro che potrebbe somigliare a una distopia ipercapitalistica o a un paradiso socialista, e che nessuno parli della seconda possibilità, la dice lunga sul momento che stiamo vivendo. u bt L’AUTORE John Lanchester è un saggista e scrittore britannico. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Capitale. Pepys Road (Mondadori 2014). Internazionale 1095 | 27 marzo 2015 49