In copertina
Il capitalismo
John Lanchester, London Review of Books,
Regno Unito. Foto di Ian Teh
opo la moratoria russostatunitense sui test nucleari del 1992, Washington fu costretta a
usare le simulazioni al
computer per calcolare
quanto tempo impiegavano le armi esistenti a invecchiare. Per questo nel 1996 il governo degli Stati Uniti avviò l’Accelerated
strategic computing initiative (Asci), che
aveva l’obiettivo di sostituire i test nucleari
nel sottosuolo con simulazioni svolte dai
supercomputer. Ma per la sua attività, l’Asci
aveva bisogno di una potenza informatica
che nessun computer all’epoca poteva garantirgli. Così fu commissionata una macchina chiamata Asci Red, che avrebbe dovuto essere il primo supercomputer in grado di elaborare più di un teralops. La velocità di un processore può essere espressa in
lops (loating point operations per second,
operazioni in virgola mobile al secondo), un
tipo di calcolo molto più complesso di quello binario. Un teralops equivale a mille miliardi di queste operazioni. Nel 1997, quando fu completato e messo in funzione, il
Red era un esemplare unico: elaborava 1,8
teralops, cioè 18 seguito da undici zeri. E
sarebbe rimasto il computer più potente del
mondo ino alla ine del 2000.
Anch’io uso un supercomputer Red.
Cioè, non esattamente, uso una macchina
in grado di elaborare 1,8 teralops. Si chiama PlayStation3 ed è stata lanciata dalla
Sony nel 2005. Il Red era poco più piccolo di
un campo da tennis, consumava l’elettricità
di 800 abitazioni e costava 55 milioni di dollari. La Ps3 si può inilare sotto un televiso-
D
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re, si attacca a una normale presa di corrente e nel Regno Unito costa meno di duecento sterline (280 euro). Nel giro di dieci anni
un computer che poteva essere fabbricato
solo dal governo del paese più ricco del
mondo, per scopi al limite delle possibilità
di calcolo, è diventato un oggetto che qualsiasi adolescente potrebbe trovare sotto
l’albero di Natale.
Tutto questo lo dobbiamo a un principio
noto come legge di Moore. In realtà non è
proprio una legge, ma piuttosto l’estrapolazione di un’osservazione fatta da Gordon
Moore, uno dei fondatori della Intel, l’azienda produttrice di microchip. Nel 1965 Moore aveva notato che da qualche anno la potenza dei processori al silicio cresceva a un
ritmo costante rispetto al prezzo e pubblicò
un saggio nel quale prevedeva che sarebbe
stato così “per almeno altri dieci anni”. Non
sembra un’afermazione sconcertante ma
in efetti, come fanno notare Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee nel loro afascinante
saggio The second machine age (La seconda
era delle macchine), era piuttosto audace,
perché implicava che nel 1975 i processori
sarebbero stati 500 volte più potenti senza
costare di più. “I circuiti integrati”, diceva
Moore, avrebbero prodotto “meraviglie come i computer domestici, o almeno terminali collegati a un computer centrale, controlli automatici per le automobili e strumenti di comunicazione personale portatili”. Aveva ragione su tutto. Semmai era stato
troppo prudente. La legge di Moore, che oggi corrisponde al principio secondo il quale
la potenza dei processori raddoppia (o il loro prezzo si dimezza) ogni 18 mesi, è ancora
VU/PhoToMASI
L’automazione dei processi produttivi minaccia
l’occupazione nelle fabbriche e negli uici.
E potrebbe far nascere un mondo in cui la
ricchezza è nelle mani di chi controlla le macchine,
mentre la vita di tutti gli altri diventa più precaria
valida a mezzo secolo di distanza. È a questo che dobbiamo miracoli come il passaggio dal Red alla Ps3. Nella storia dell’umanità non è mai esistita un’invenzione che sia
migliorata a questa velocità per un periodo
di tempo così lungo. Mentre la potenza dei
computer aumentava a livello esponenziale
e le macchine diventavano sempre più eco-
o dei robot
Ayutthaya, Thailandia. Macchine che selezionano il riso del marchio Royal Umbrella
nomiche, gli esseri umani hanno anche imparato a programmare meglio. La prova
lampante l’abbiamo avuta nel 2011, con il
trionfo del supercomputer Watson
dell’Ibm. L’idea alla base del progetto era
costruire un computer capace di comprendere abbastanza bene una lingua umana e
vincere il famoso quiz televisivo statuniten-
se Jeopardy!. Il computer non si sarebbe
scontrato con dei concorrenti qualsiasi, ma
con due campioni storici della trasmissione. Sarebbe stata, come dicono Brynjolfsson e McAfee, “la prova più diicile per veriicare la capacità di un computer di trovare
corrispondenze e usare abilità comunicative complesse”, e quindi molto più impegna-
tiva di quella sostenuta da Deep Blue, il
computer dell’Ibm che nel 1997 aveva battuto il campione mondiale di scacchi Gary
Kasparov. Una partita a scacchi si può vincere con la forza bruta dei calcoli: sul mio
smartphone c’è un programma in grado di
battere facilmente i migliori giocatori del
mondo. Per i quiz di cultura generale, in
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VU/PHOTOMaSI
Rayong, Thailandia. Nell’impianto della Ford
particolare quelli come Jeopardy!, che hanno una componente colloquiale e allusiva,
la semplice potenza di calcolo non è suiciente. Il risultato di quello scontro è diventato ormai un classico per chiunque si occupi d’informatica, robotica o futurologia, e
ne parlano a lungo sia John Kelly e Steve
Hamm nel loro saggio Smart machines
(Macchine intelligenti) sia Tyler Cowen in
Average is over (La media è inita). Watson
vinse con facilità. Non azzeccò tutte le risposte (pensava che Toronto fosse negli
Stati Uniti) e quando dovette trovare una
parola che signiicava “eleganza o gruppo
di studenti che frequentano lo stesso anno”, rispose “chic” invece di “classe”. Tuttavia, il montepremi accumulato alla ine
di due giorni di gara era tre volte quello dei
due migliori avversari umani. “Partecipare
ai quiz sarà il primo lavoro che Watson toglierà agli esseri umani”, commentò uno
degli sconitti, “ma sono sicuro che non
sarà l’ultimo”.
Il successo di Watson è un segno dei
progressi che ha fatto l’apprendimento automatico, il processo grazie al quale gli algoritmi di un computer migliorano da soli
la propria capacità di analisi e previsione. Il
metodo è essenzialmente di tipo statistico:
la macchina impara per tentativi ed errori
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quale risposta è più probabile che sia corretta. Sembra una cosa normale, ma, dato che
come prevede la legge di Moore i computer
sono diventati sorprendentemente potenti,
la capacità di fare tentativi e correggere gli
errori è così alta che la macchina migliora
molto rapidamente. Ne è la prova il traduttore di Google, in cui si può scrivere un testo
e vederlo tradotto in una serie di lingue. Nel
2006, quando il programma fu lanciato,
sembrava uno scherzo: sia per il fatto stesso
che potesse esistere, sia perché le traduzioni erano molto imprecise e con una sintassi
ingarbugliata. Se ci avessimo rinunciato allora, ci saremmo persi una serie di sviluppi.
La sua ultima versione è un’app per smartphone in cui si può non solo scrivere ma
anche parlare, e non solo leggere la risposta
ma anche sentirla pronunciare. L’app può
perino scansionare un testo con la fotocamera del telefono e poi tradurlo. Per le lingue che conosciamo, e soprattutto per i testi
di una certa lunghezza, il risultato è ancora
imbarazzante, ma il programma è comunque utile se non ci ricordiamo come si dice
in tedesco “obbligazione” o “emorroidi”.
Per le lingue che non conosciamo può essere prezioso, e vale la pena rilettere su quanto sia meraviglioso poter installare sul telefono un programma in grado di tradurre
gratuitamente dal malese al nigeriano o
dall’ungherese al giapponese.
Il traduttore di Google non è migliorato
perché centinaia di specialisti sottopagati
hanno passato anni a copiare liste di vocaboli. No, i suoi progressi sono il trionfo
dell’apprendimento automatico. Il programma confronta in parallelo testi in varie
lingue e il suo processo di apprendimento
consiste nel trovare quale testo è statisticamente più probabile che corrisponda a
quello in un’altra lingua. Ormai nel suo database ha una enorme quantità di testi corrispondenti. Una fonte particolarmente
fertile, a quanto sembra, sono le pubblicazioni dell’Unione europea tradotte in tutte
le lingue dei suoi paesi. Qualche anno fa c’è
stato un momento in cui, dopo aver fatto
qualche progresso, il software ha smesso di
migliorare, perché la sua raccolta di testi ha
cominciato a contenerne molti che erano
stati tradotti dal programma stesso. Non so
come, ma devono aver risolto il problema,
perché ora sta migliorando di nuovo. Qualcuno potrebbe sostenere che non si tratta di
vero “apprendimento”, e probabilmente in
termini umani non lo è. Tuttavia, a livello
pratico, il risultato è simile a quello che si
ottiene quando si migliora nello svolgimento di un compito speciico. Se mettiamo in-
sieme tutte queste cose, possiamo cominciare a capire perché molte persone pensano che sia in arrivo un grande cambiamento
basato sull’inluenza dell’informatica e della tecnologia nella nostra vita quotidiana. I
computer sono diventati molto più potenti
e ormai costano così poco da essere praticamente onnipresenti. E la stessa cosa si può
dire dei sensori usati per monitorare il mondo fisico. Anche nel campo del software
sono stati fatti grandi progressi. Secondo
Brynjolfsson e McAfee, siamo alla vigilia di
una nuova rivoluzione industriale il cui impatto sul mondo sarà pari a quello della prima. La potenza dei computer, e in particolare l’uso dei robot, modiicheranno interi
campi dell’attività umana.
Capacità motorie
Per molti anni il problema dei robot è stato
che i computer sono bravissimi a fare le cose per noi diicili, ma lo sono molto meno
con quelle che per noi sono facili. Per esempio sono eccezionali nel gioco degli scacchi,
ma delle frane in abilità cognitive che diamo per scontate. Una delle più importanti è
quella che gli scienziati chiamano Slam (simultaneous localization and mapping), cioè
la capacità di guardare uno spazio, sapere
subito come ci si muove al suo interno e ricordarselo. In questa e in altre attività essenziali per la robotica avanzata i computer
sono un disastro. Un robot che gioca a scacchi può stracciare il campione del mondo,
ma non può (o non potrebbe) avere le capacità motorie e percettive di un bambino di
un anno. Una famosa dimostrazione l’abbiamo avuta nel 2006, quando gli scienziati della Honda hanno presentato Asimo, il
loro nuovo robot infermiere. Era piccolo
(solo un metro e 30 centimetri) e bianco,
aveva una maschera nera e portava uno zaino di metallo sulle spalle. Somigliava a un
minuscolo astronauta. Nel ilmato il robot
avanza verso una rampa di scale e comincia
a salire. Fa due scalini e poi cade, provocando scoppi di risate. Evidentemente l’alba
della nuova era della robotica doveva ancora arrivare.
Questo succedeva nove anni fa, ma nel
frattempo la legge di Moore e l’apprendimento automatico sono andati avanti. La
nuova generazione di robot non è più così
ridicola. Date un’occhiata su internet ai Kiva che Amazon usa nei suoi magazzini per
preparare e spedire i pacchi. Questi robot
sono piccoli e lenti, ma possono sollevare
150 chili alla volta e trasportare un’intera
pila di scafali. Telecomandati lungo percorsi prestabiliti, volteggiano e danzano gli
uni intorno agli altri con sorprendente ele-
ganza e raccolgono i pacchi seguendo le
istruzioni stampate sui codici a barre, che
scansionano automaticamente. Non fanno
cose straordinarie, ma sono inesorabili, e
sono lì per restarci: il loro lavoro non sarà
mai più svolto da un essere umano. Sembra
il futuro anticipato dal premio Nobel per
l’economia Wassily Leontief, quando nel
1983 dichiarò che “l’importanza degli esseri umani come fattore di produzione è destinata a diminuire come quella dei cavalli
nell’agricoltura, che sono stati eliminati con
l’introduzione dei trattori”.
Molti tipi di lavoro, soprattutto quelli
meccanici e ripetitivi, sono già stati automatizzati, ma i ricercatori si stanno occupando anche di altre categorie di mestieri.
Brynjolfsson e McAfee scrivono: “Rodney
Brooks, il cofondatore di iRobot, ha notato
La perdita di posti
di lavoro non riguarda
solo i paesi più
sviluppati
anche un’altra cosa nelle fabbriche moderne altamente automatizzate: le persone
sono poche, ma non del tutto assenti. E
molto del lavoro che fanno è ripetitivo e noioso. In una catena di montaggio che riempie i vasetti di marmellata le macchine ne
spruzzano una quantità precisa in ogni barattolo, avvitano il tappo e incollano l’etichetta, ma c’è una persona che mette i barattoli vuoti sul nastro trasportatore per dare il via al processo.
Perché questo passaggio non è
stato automatizzato? Perché i vasetti arrivano alla catena di montaggio dodici alla volta in scatole
di cartone nelle quali non stanno fermi.
Questa piccola imprecisione non è un problema per una persona (che li vede, li prende e li posa sul nastro), ma per un robot è
molto diicile prendere qualcosa che non è
sempre esattamente nello stesso posto”.
È questo problema, insieme ad altri simili, che secondo molti osservatori i robot
stanno cominciando a risolvere. E la perdita
di posti di lavoro non riguarda solo i paesi
più sviluppati. L’azienda taiwanese Foxconn è la più grande produttrice al mondo
di elettronica di consumo. Se state leggendo questo articolo su un dispositivo elettronico, ci sono buone probabilità che venga
da una delle fabbriche della Foxconn, dato
che l’azienda produce iPhone, iPad, iPod,
Kindle, componenti dei prodotti Dell e telefoni per Nokia, Motorola e Microsoft. La
Foxconn ha 1,2 milioni di dipendenti in tutto il mondo, molti dei quali in Cina. Almeno
questo è il loro numero al momento, ma il
fondatore dell’azienda, Terry Gou, ha detto
che un giorno spera di usare nelle sue fabbriche un milione di robot. Non sta ancora
succedendo, ma esiste un progetto.
Il fenomeno non riguarda solo i lavori
manuali. Prendiamo questa notizia difusa
dall’Associated Press: “Cupertino, California. Martedì la Apple Inc. ha annunciato un
utile netto di 18,2 miliardi di dollari nel primo trimestre di quest’anno, pari a 3,6 dollari per azione. Questo risultato ha superato
tutte le previsioni di Wall street. Nello stesso periodo l’azienda produttrice di iPhone,
iPad e di altri dispositivi elettronici ha registrato un fatturato di 74,6 miliardi, mentre
gli analisti ne avevano previsti 67,38. Per il
trimestre attuale, che si concluderà alla ine
di marzo, la Apple prevede ricavi dai 52 ai 55
miliardi di dollari, mentre gli analisti ne
avevano previsti 53,65. Dall’inizio di
quest’anno il valore delle azioni della Apple
è diminuito dell’1 per cento, mentre l’Indice Standard & Poor’s 500 è sceso di poco
più dell’1 per cento. Poco prima della chiusura della contrattazioni le azioni sono arrivate a 109,14 dollari, aumentando del 39
per cento rispetto agli ultimi dodici mesi”.
Torneremo più avanti sul contenuto di
questa notizia. Per ora ci interessa il fatto
che non è stata scritta da un essere umano.
È diicile rendersi conto che ormai le notizie generate dai computer sono una realtà.
Il software che ha scritto la notizia dell’Associated Press è stato sviluppato
da l l’Au to m ate d I n si g h t s ,
un’azienda specializzata nella generazione di rapporti automatici
sui guadagni delle imprese. La
prosa non è all’altezza di quella di
John Updike, ma è meglio di quella di E.L.
James, e comunque raggiunge lo scopo, dato che il suo compito è molto speciico: comunicare a chi legge i risultati della Apple.
Il fatto è che esistono molti altri lavori d’uficio altrettanto meccanici e stereotipati.
Siamo già abituati all’idea che il compito
degli operai alla catena di montaggio di una
fabbrica prima o poi sarà completamente
automatizzato, ma siamo meno abituati a
pensare che il lavoro degli impiegati, degli
avvocati, degli analisti economici, dei giornalisti o dei bibliotecari possa essere svolto
da un automa. In realtà è possibile, e in molti casi sta già succedendo. Average is over di
Tyler Cowen descrive un futuro in cui tutti i
guadagni iniranno nelle tasche di chi rientra nella fascia più alta della distribuzione
del reddito, soprattutto chi è bravo a interaInternazionale 1095 | 27 marzo 2015
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gire con le macchine intelligenti.
E ora cosa succederà? La risposta dipende da cosa pensiamo della storia. Pensiamo
che le lezioni della storia siano utili per
l’economia? Agli autori dei libri che ho citato interessano queste lezioni, ma non tutti
gli economisti sono come loro. Anzi, molti
diidano fortemente della storia. Secondo
me perché vorrebbero essere considerati
scienziati. Se l’economia è una scienza, le
lezioni della storia “fanno già parte
dell’equazione”, sono incorporate nei modelli matematici. Non credo sia una sciocchezza dire che la riluttanza a imparare
dalla storia è uno dei motivi per cui l’economia non riesce a prevedere il futuro.
Secondo qualcuno, e l’opinione è storicamente fondata, la nuova rivoluzione industriale è già avvenuta. I computer non
sono un’invenzione recente, tuttavia il loro
inlusso sulla crescita economica si è manifestato lentamente. Bob Solow, un altro
premio Nobel citato da Brynjolfsson e McAfee, già nel 1987 osservava: “Vediamo l’era
dei computer dovunque, tranne che nelle
statistiche sulla produttività”. La versione
più completa e ragionata di questa tesi la
troviamo negli studi di Robert Gordon, un
economista statunitense che nel 2012 ha
pubblicato un saggio provocatorio e afascinante intitolato Is our economic growth over?
(La nostra crescita economica è inita?). Nel
libro Gordon confronta l’impatto dei computer e dell’informatica con gli efetti della seconda
rivoluzione industriale, che avvenne tra il 1875 e il 1900 e alla
quale dobbiamo le centrali elettriche, le lampadine, il motore a combustione interna, il telefono, la radio, la musica
registrata e il cinema. Come ha fatto notare
in un suo editoriale uscito sul Wall Street
Journal, quella rivoluzione portò anche
“l’acqua corrente nelle case, il più grande
evento nella storia della liberazione femminile, grazie al quale le donne smisero di trasportare letteralmente tonnellate di acqua
ogni anno” (chi non fa l’economista potrebbe avere la tentazione di chiedere perché
erano proprio le donne a portare l’acqua).
Secondo Gordon, abbiamo tirato avanti con
le conseguenze e gli strascichi di queste invenzioni ino agli anni settanta, quando “è
arrivata la rivoluzione dei computer, che ha
permesso all’economia di crescere regolarmente del 2 per cento all’anno. I computer
hanno sostituito il lavoro umano e contribuito alla produttività, ma il grosso dei beneici è arrivato all’inizio dell’era elettronica. Negli anni sessanta i grandi computer
hanno cominciato a sfornare resoconti ban-
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cari e bollette telefoniche, facendo diminuire il lavoro d’uicio. Negli anni settanta le
macchine da scrivere dotate di memoria
hanno sostituito eserciti di impiegati che
dovevano riscrivere sempre le stesse cose.
Negli anni ottanta sono arrivati i computer
dotati di sistemi di scrittura, i bancomat
hanno rimpiazzato i cassieri delle banche e
gli scanner dei codici a barre hanno sostituito un buon numero di commessi”.
Questi sono stati cambiamenti reali e
importanti, che ci hanno liberato da tante
attività noiose e meccaniche. Ma quello che
è successo dopo, con la legge di Moore e la
Negli anni ottanta i
bancomat hanno
rimpiazzato i cassieri
delle banche
miniaturizzazione, è stato un po’ diverso:
“L’iPod ha sostituito il lettore di cd portatile, gli smartphone hanno rimpiazzato i cellulari, l’iPad ha fatto concorrenza ai portatili tradizionali. Queste innovazioni sono
state accolte con entusiasmo, ma costituiscono solo ulteriori opportunità di consumo, al lavoro e nel tempo libero, più che essere una continuazione della tradizione
storica che aveva sostituito il lavoro umano
con le macchine”.
In altre parole la produttività ha
goduto dei veri beneici della rivoluzione informatica qualche decina di anni fa. Ora abbiamo più gadget divertenti, ma per la maggior
parte si limitano a intrattenerci e a distrarci.
Non contribuiscono alla produttività e potrebbero anche ridurla. La lampadina elettrica ha cambiato il mondo, Facebook è solo
un modo per permettere alle persone di
cliccare “mi piace” sotto foto di gatti che
somigliano al colonnello Gheddai. Da questo punto di vista la legge di Moore ha provocato soprattutto un’esplosione di attività
digitale inutile. Un cambiamento importante sarebbe riuscire a potenziare di dieci
o cento volte le batterie, ma questo richiederebbe un progresso della chimica molto
più diicile di quello che permette di inilare più circuiti in un processore.
L’analisi di Gordon è in linea con la vecchia teoria della “disoccupazione tecnologica”. Questo termine fu coniato da John
Maynard Keynes per deinire il fatto che “la
scoperta dei mezzi per ridurre l’uso di manodopera procede più rapidamente della
scoperta di nuovi usi per la manodopera”. È
un tipo di progresso che fa sparire posti di
lavoro grazie alla semplice rapidità dei suoi
efetti. Uno degli assiomi fondanti dell’economia è che i processi economici si basano
sui bisogni degli individui; e dato che i bisogni umani sono ininiti, anche il processo di
soddisfarli è ininito. L’economia non si fermerà inché non spariranno i bisogni. E dato che questo non succederà mai, ci sarà
sempre lavoro suiciente per tutti, con l’eccezione di qualche occasionale periodo di
recessione, di depressione o di crisi.
La lezione rassicurante della storia sembra confermarlo: in teoria è possibile che
una nuova invenzione faccia sparire un tipo
di lavoro così rapidamente da non consentire a un altro di sostituirlo, ma in pratica
questo non è ancora successo. L’innovazione fa sparire certi lavori e li sostituisce con
altri. In parole povere sono sempre gli individui a perdere il lavoro, mai le economie.
Un lavoro perso in un posto è sostituito da
un altro, magari in un posto diverso. Nel
1810 il 90 per cento della forza lavoro statunitense era impiegata nell’agricoltura. Un
secolo dopo, quella quota era scesa al 30 per
cento e oggi è meno del 2 per cento. Sembra
la formula del caos e della disoccupazione
endemica, ma l’economia degli Stati Uniti
ha gestito bene questa transizione, in buona
parte grazie alle tecnologie citate da Robert
Gordon (più la ferrovia). Quindi, per estensione e per analogia, forse non dovremmo
preoccuparci della disoccupazione tecnologica neanche questa volta.
La macchina a vapore
Brynjolfsson, McAfee e Cowen non la pensano così. Sulla rivoluzione della tecnologia
informatica i due schieramenti non sono
d’accordo: Gordon ritiene che sia già avvenuta, gli altri che sia in arrivo. Però tutti ci
tengono a sottolineare, sempre per estensione e analogia, che gli efetti più importanti della rivoluzione industriale arrivarono dopo molto tempo. Watt migliorò l’eicienza della macchina a vapore del 300 per
cento tra il 1765 e il 1776, ma poi ci vollero
decenni prima che quel cambiamento inluisse sull’economia, visto che le ferrovie
furono pienamente sviluppate solo verso la
ine dell’ottocento. Secondo Gordon ci vollero 150 anni per vedere “tutti gli efetti”
della rivoluzione industriale, ma la rivoluzione della tecnologia informatica segue
una traiettoria diversa. E se si sbagliasse?
Forse la nuova rivoluzione industriale è cominciata già da qualche decennio e stiamo
vivendo un periodo equivalente agli anni
ottanta del settecento, pochi decenni dopo
l’invenzione della macchina a vapore
(1712), ma qualche decennio prima dei treni
VU/PhOTOMASI
Ayutthaya, Thailandia. Nella fabbrica di riso Royal Umbrella
commerciali a vapore (1804). Se fossimo a
questo punto? Se avessero ragione gli economisti e i futurologi quando dicono che “i
robot stanno per rubarci tutti i posti di lavoro”? Uno studio approfondito, ponderato e
sconcertante è stato condotto da due economisti di Oxford, Carl Benedikt Frey e
Michael Osborne, e presentato in un saggio
del 2013 intitolato “Il futuro della disoccupazione. Quanto sono minacciati i posti di
lavoro dalla computerizzazione?”. I due
studiosi hanno usato alcune nuove tecniche
matematiche e statistiche per calcolare il
probabile efetto dell’innovazione tecnologica su un’ampia gamma di occupazioni,
702 in tutto, che vanno dal podologo alla
guida turistica, dall’addestratore di animali al consulente inanziario e al lucidatore di
pavimenti. Li elencano tutti, dal numero 1
(non c’è problema) al 702 (meglio avere
pronto il curriculum). In caso ve lo steste
chiedendo, questi sono i primi cinque:
1. Terapeuti ricreativi
2. Supervisori di operai meccanici, installatori e riparatori
3. Dirigenti di servizi d’emergenza
4. Operatori sociali che si occupano di
salute mentale e dipendenze
5. Audiologi
Questi sono gli ultimi cinque:
698. Assicuratori
699. Tecnici matematici
700. Sarti
701. Esaminatori di titoli di proprietà
702. Operatori dei call center
La conclusione è chiara: i lavori che si
basano sui rapporti interpersonali e richiedono una capacità di giudizio resteranno,
quelli meccanici sono destinati a sparire.
Alcune valutazioni di Frey e Osborne sembrano bizzarre: è mai possibile che i coreograi siano al tredicesimo posto, prima dei
medici e dei chirurghi, che sono al quindicesimo, e molto prima degli antropologi e
degli archeologi, che sono al trentanovesimo? E che dire degli scrittori e degli editor,
rispettivamente al posto 123 e 140? Comunque la metodologia usata è seria e il saggio
ci fa capire chiaramente quali saranno le
conseguenze dei cambiamenti tecnologici
sia per i colletti bianchi sia per le tute blu. I
software, per esempio, stanno inluendo
notevolmente sulla professione legale:
scansionare e confrontare documenti costa
molto meno se lo fanno le macchine. La
stessa cosa sta succedendo nel campo dei
servizi inanziari e della raccolta di dati clinici. Per la maggior parte di noi sapere che
“la media è inita”, come recita il titolo del
saggio di Owen, è una brutta notizia, perché
la maggior parte di noi è, per deinizione,
nella media.
La conclusione di Frey e Osborne è brutale. Nel giro di una ventina d’anni il 47 per
cento dei posti di lavoro rientrerà nella “categoria ad alto rischio”, cioè sarà potenzialmente automatizzabile. La cosa interessante, anche se non particolarmente confortante, è che i più a rischio sono i lavori meno
pagati. Negli ultimi decenni il mercato del
lavoro si è polarizzato, ci sono sempre più
posti nella fascia superiore e inferiore della
distribuzione salariale e meno in quella intermedia. “Invece di ridurre i posti di lavoro
di livello medio, com’è successo negli ultimi decenni, il nostro modello prevede che
in futuro la computerizzazione sostituirà
soprattutto i lavori meno specializzati e a
basso salario. Quelli più specializzati e ad
alto salario, invece, rischiano meno di sparire”. Quindi i poveri saranno i più colpiti, la
classe media se la caverà leggermente meglio di ora e i ricchi – sorpresa, sorpresa –
non avranno problemi.
In questo mondo del futuro, inoltre, la
produttività aumenterà notevolmente. La
produttività è calcolata in base a quanto
produce un lavoratore in un’ora. È il dato
più importante per capire se un paese sta
diventando più ricco o più povero. Spesso si
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guarda di più al pil (la ricchezza prodotta sul
territorio nazionale), ma può essere fuorviante, perché basta un aumento della popolazione per far crescere il pil. Però se aumenta solo la popolazione, si può avere una
crescita del pil e allo stesso tempo un abbassamento del tenore di vita. Per questo la
produttività è un metro più preciso per misurare l’andamento degli standard di vita.
Dal 1979 il reddito del lavoratore statunitense medio non è quasi aumentato (anzi,
dal 1999 è diminuito), mentre la produttività ha continuato a salire abbastanza regolarmente. Questo vuol dire che la quantità
di lavoro svolta in un’ora è aumentata, ma il
salario no. Quindi è il capitale che ha tratto
maggior proitto dalla produttività, non la
forza lavoro. Non è chiaro di chi sia la colpa,
ma Brynjolfsson e McAfee sostengono, in
modo convincente, che la principale responsabile sia l’automazione.
È una tendenza preoccupante. Immaginate un’economia nella quale lo 0,1 per cento della popolazione possiede le macchine,
lo 0,9 per cento le gestisce e il restante 99
per cento fa il poco lavoro non automatizzabile o resta disoccupato. Questo è il mondo
che ci possiamo aspettare dagli sviluppi
della produttività e dell’automazione. È il
mondo del Capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty, in cui i
capitalisti hanno sempre la meglio sulla forza lavoro. Si vede già chiaramente dall’articolo sui proitti della Apple compilato dal
mio collega robot. In un trimestre la Apple
ha guadagnato più di qualsiasi altra azienda
della storia: 74,6 miliardi di dollari di fatturato e 18 miliardi di proitti. Il suo amministratore delegato, Tim Cook, ha dichiarato
che queste cifre sono “diicili da comprendere”.
Ha ragione. È diicile immaginare che
l’azienda abbia venduto 34mila iPhone
all’ora per tre mesi. Ma dovremmo anche
rilettere sulle implicazioni di questo dato.
Se i proitti crescono a questo ritmo per tutto l’anno, in dodici mesi potrebbero raggiungere quota 88,9 miliardi di euro. Nel
1960 l’azienda più redditizia della principale economia mondiale era la General Motors. Fatte le debite proporzioni, quell’anno
la casa automobilistica statunitense avrebbe guadagnato 7,6 miliardi di dollari. Ma la
General Motors dava lavoro a 600mila persone, mentre l’azienda più redditizia di oggi
ne impiega solo 92.600. Se allora 600mila
dipendenti generavano 7,6 miliardi di proitti e ora 92.600 ne generano 88,9, signiica
che la redditività per dipendente è aumentata di 76,65 volte. Il capitale non sta semplicemente trionfando sul lavoro, oggi non
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c’è proprio storia. Se fosse un incontro di
boxe, l’arbitro lo interromperebbe.
Considerato l’attuale ordinamento politico ed economico, l’automazione non può
che rafforzare queste tendenze. Pensate
all’automobile senza conducente che Google sta sviluppando. È un’invenzione miracolosa (nel senso che funziona sul serio),
ma limitata, perché ci sono tanti aspetti della guida che non riesce a gestire: per esempio non può sorpassare né “inserirsi” nel
lusso del traico. Ma immaginate per un
momento che tutti questi problemi tecnici
siano risolti e che l’auto senza conducente
diventi una realtà. Sarebbe stupefacente,
soprattutto quando e se fosse combinata
con fonti di energia pulita. La nostra macchina potrebbe accompagnare i bambini a
È il capitale che ha
tratto maggior proitto
dalla produttività,
non la forza lavoro
scuola, tornare a casa per portarci al lavoro
mentre controlliamo la posta elettronica,
andare a parcheggiarsi da qualche parte per
poi venirci a prendere alla ine della giornata, portarci a cena e riportarci a casa mentre
smaltiamo quella tequila di troppo. A questo punto non è neanche detto che debba
essere la nostra macchina: basterebbe un
veicolo che possiamo usare quando ci serve. L’unico problema è che tutti i soldi andrebbero a Google e un’intera categoria di
autisti sparirebbe. Solo nel Regno Unito ci
sono 231mila tra taxi e auto a noleggio con
conducente, e moltissime persone il cui lavoro consiste nel guidare un mezzo di trasporto. Ho il sospetto che si arrivi facilmen-
Da sapere
Robot operai
Installazioni di robot industriali nel mondo,
migliaia. Fonte: The Wall Street Journal
(Stime)
300
200
100
0
1995
2005
2015
te a qualche milione di posti di lavoro. Sparirebbero tutti o, cosa altrettanto grave,
perderebbero valore. Supponiamo che una
persona sia pagata per 40 ore di lavoro alla
settimana, metà delle quali consistono nel
guidare e l’altra metà nel caricare e scaricare merci, riempire moduli di consegna e
così via. La prima metà non varrebbe più
niente. Per 20 ore il datore di lavoro non pagherebbe la stessa cifra che pagava per 40,
perché in quelle ore la persona se ne starebbe seduta in macchina senza fare niente.
Sempre supponendo che non sia automatizzata anche l’altra metà del lavoro. Un
mondo di auto senza guidatore sarebbe
meraviglioso, ma sarebbe anche un mondo
in cui le persone che possiedono i veicoli o li
gestiscono vivrebbero molto meglio di
quelle che non hanno nessun controllo sui
trasporti. Somiglierebbe al mondo di oggi,
ma in peggio.
Due delazioni
Probabilmente sarebbe un mondo con un
livello di delazione molto alto. Se i posti di
lavoro scompaiono, la maggior parte delle
persone ha meno soldi in tasca, e quando
questo succede, i prezzi scendono. Non sarebbe esattamente il tipo di delazione che
stiamo cominciando a vedere oggi nel mondo sviluppato: in questo caso la delazione è
legata al crollo del prezzo del petrolio combinato con la stagnazione delle economie e
la perdita di iducia dei consumatori. Ma le
due delazioni potrebbero sovrapporsi. Il
fondatore e amministratore delegato di
Google, Larry Page, è ottimista. Di recente
ha dichiarato al Financial Times che dobbiamo anche tener conto dell’efetto della
tecnologia sul prezzo di molti beni e servizi.
È in arrivo un grave periodo di delazione,
“ma anche se molti posti di lavoro andranno in fumo, nel giro di poco tempo questa
perdita sarà compensata dal calo dei prezzi
dei prodotti di cui abbiamo bisogno, cosa
che ritengo importante ma di cui nessuno
parla”. Le nuove tecnologie renderanno le
imprese più eicienti non del 10 per cento,
ma di dieci volte, ha detto Page al Financial
Times. E questo farà abbassare i prezzi e “le
cose che ci servono per vivere comodamente diventeranno molto meno care”.
A molte persone, continuava il quotidiano britannico, l’idea di uno sconvolgimento
simile nella propria economia personale
può sembrare assurda e senza dubbio inquietante. Non vedono come una prospettiva ideale la possibilità che milioni di lavori
diventino obsoleti e che il prezzo dei prodotti di consumo quotidiano precipiti nella
spirale della delazione. Ma in un sistema
Vu/PhOtOMASI
Rayong, Thailandia. Nella fabbrica della Ford
capitalistico, afermava Page nell’intervista, l’eliminazione delle inefficienze con
l’aiuto della tecnologia dev’essere portata
alla sua logica conclusione.
Nella Silicon valley e nelle fasce più alte
della società molti condividono questa visione agghiacciante del futuro. Lo dicono
con un tono di inevitabilità, di determinismo e trionfalismo. È inutile rattristarsi, è
quello che succederà. Certo, i robot ruberanno molti posti di lavoro, o comunque
quelli dei più poveri. Ma c’è un tassello
mancante in questo ragionamento. Molti
economisti moderni ritengono che l’unica
cosa che conta siano le forze economiche.
Anche i politici hanno cominciato a pensarla così, almeno nel mondo occidentale: le
teorie economiche sono diventate verità
indiscutibili. L’idea che un cambiamento
economico sia così distruttivo per l’ordine
sociale da spingere la comunità a ribellarsi
sembra scomparsa dall’universo del possibile. Ma la perdita del 47 per cento dei posti
di lavoro in vent’anni (come prevedono
Frey e Osborne) dev’essere al limite di quello che una società può sopportare, non tanto per il 47 per cento, quanto per l’arco di
tempo. È successo molte volte che i posti di
lavoro diminuissero. Ma che scompaiano
con questa velocità è una cosa nuova, e la
ricerca di precedenti storici non ci porta
molto lontano. Cosa produrrà questa perdita così rapida dei posti di lavoro combinata
con la delazione? La verità è che non lo sa
nessuno. In mancanza di un modello o di un
precedente, l’idea che il processo economico proceda come un carro armato senza incontrare l’opposizione di nessuna forza sociale o politica è azzardata. I robot ruberanno tutti i posti di lavoro solo se noi glielo
permetteremo.
Vale anche la pena di accennare a quello
che nessuno dice a proposito di questo futuro robotizzato. Lo scenario che ci presentano, e che ci fanno vedere come inevitabile,
è quello di una distopia ipercapitalistica.
C’è il capitale, che se la cava meglio del solito, ci sono i robot, che fanno tutto il lavoro,
e c’è la grande massa dell’umanità, che non
fa quasi niente, ma si diverte a giocare con i
suoi gadget (anche se, in mancanza di lavoro, c’è da chiedersi chi si potrà permettere
di comprarli). Ma esiste anche un’alternativa nella quale la proprietà e il controllo delle
macchine sono separati dal capitale nella
sua forma attuale. I robot liberano buona
parte dell’umanità dal lavoro e tutti ne traggono vantaggio. Gli uomini non devono più
andare in fabbrica, scendere nelle miniere,
pulire i gabinetti o guidare i camion per mi-
gliaia di chilometri, ma possono ideare coreograie, disegnare tessuti, curare giardini,
raccontare storie, inventare cose e creare
un nuovo universo di bisogni. Questo sarebbe il mondo dei bisogni illimitati di cui
parla l’economia, ma distinguerebbe tra i
bisogni soddisfatti dagli esseri umani e
quelli delegati alle macchine.
A me sembra che l’unico modo in cui
quel mondo può funzionare è con forme
alternative di proprietà. L’unico motivo per
pensare che questo mondo migliore si possa realizzare è che forse il futuro distopico
del capitalismo combinato con i robot è
troppo deprimente per essere politicamente proponibile. Questo futuro alternativo
sarebbe il mondo sognato da William Morris, pieno di esseri umani impegnati in attività gratiicanti e ragionevolmente remunerate. Solo con l’aggiunta dei robot. Il fatto
di avere davanti un futuro che potrebbe somigliare a una distopia ipercapitalistica o a
un paradiso socialista, e che nessuno parli
della seconda possibilità, la dice lunga sul
momento che stiamo vivendo. u bt
L’AUTORE
John Lanchester è un saggista e scrittore
britannico. Il suo ultimo libro uscito in Italia
è Capitale. Pepys Road (Mondadori 2014).
Internazionale 1095 | 27 marzo 2015
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Il capitalismo dei robot