THE ITALIAN THINKTANK Pesaro, 13 Giugno 2011 Festival della felicità LA RICERCA DELLA FELICITÀ – VISION SUSTAINABILITY INDEX POSSIAMO CHIEDERE ALLE IMPRESE DI “SALVARE IL MONDO”?1 Limiti e meriti dell’idea di una responsabilità sociale delle imprese e l’idea di Vision per definire priorità tra diverse strategie di sostenibilità 1 Il paper preparato in occasione del festival della felicità di Urbino e Pesaro costituisce un aggiornamento della ricerca di Vision su “The paradox of Corporate Social Responsibility” (accessibile a http://www.visionwebsite.eu/vision/progetti_2.php?progetto=25 ) e costituisce un contributo al progetto “Politica ed economia della felicità” (disponibile a http://www.visionwebsite.eu/vision/progetti_2.php?progetto=31 ). Missione di Vision è contribuire alla disseminazione di idee. Tuttavia si rammenta che l'utilizzazione non autorizzata di documenti coperti da copyright Vision è perseguita penalmente in tutti gli Stati. Vision Think-Tank 1 THE ITALIAN THINKTANK Quale il ruolo delle imprese se decidessimo – come le organizzazioni internazionali sembrano intenzionate a fare – che oltre al Prodotto Interno Lordo dovessimo misurare il benessere in termini di felicità? È legittimo aspettarsi dalle imprese di fornire risultati non solo economici ai propri azionisti, ma anche sociali alle comunità di cui fanno parte e ambientali alle generazioni future2? È possibile misurare tutte e tre le dimensioni e come faccio a scegliere se emergesse una contraddizione tra un obiettivo ed un altro? Quale è stato il contributo di anni di investimento in Corporate Social Responsibility sull’impatto che le imprese hanno sulla società nel suo complesso? E come cambiano tutte queste considerazioni nel momento in cui facessimo un bilancio di una crisi epocale che per molti ha segnato anche la fine di un modello di sviluppo economico che per molti era diventato, appunto, irresponsabile e, cioè, più precisamente non più in grado di fornire quel valore che ha legittimato per decenni un sistema economico che pure aveva non pochi difetti? Questo paper prova a fornire qualche elemento di riflessione sulla base di alcuni elementi che emergono e un metodo che può essere utile per ulteriori ricerche ed iniziative che possano fornire risposte alle domande – riteniamo fondamentali – che governi, società civile e imprese da anni si pongono nel tentativo di rifondare il proprio rapporto. 2 È la logica del “triple bottom line” appunto in termini non solo di ritorno all’azionista, ma anche impatto sociale e ambientale che definisce l’idea stessa di “corporate social responsibility”. Missione di Vision è contribuire alla disseminazione di idee. Tuttavia si rammenta che l'utilizzazione non autorizzata di documenti coperti da copyright Vision è perseguita penalmente in tutti gli Stati. Vision Think-Tank 2 THE ITALIAN THINKTANK Il paradosso della responsabilità sociale d’impresa Beyond Petroleum. È probabilmente il più imbarazzante fallimento di una trasformazione di una ottima idea, la “Corporate Social Responsibility”, in pubblicità che alla fine si è rilevata controproducente per la stessa multinazionale che aveva deciso di affidarci la propria immagine. Era il duemila e la British Petroleum, acquisendo l’americana Amoco, diventava non solo la più grande impresa energetica del mondo ma anche la seconda più grande multinazionale. E, tuttavia, c’era ancora per BP un enorme problema: il mondo occidentale si stava rendendo conto che un’economia, anzi un modello di sviluppo interamente dipendente da una risorsa in via di esaurimento e concentrata in pochi paesi esportatori regolarmente (con l’eccezione della Norvegia) governati da regimi autoritari (anzi come racconta la teoria del rentier state dittatoriali proprio perché in possesso di risorse naturali), non era più sostenibile. Né dal punto di vista delle bilance dei pagamenti, né da quello dell’impatto su inquinamento e cambiamenti climatici e neppure da quello degli equilibri geopolitici (e, dunque, delle spese militari necessarie per mantenere tali equilibri). Fu allora che qualcuno ebbe l’idea di fare un rebranding, rinominare quella grandissima multinazionale. Il colore dominante del sito, del logo, delle comunicazioni sociali, persino dei bilanci diventò ovviamente il verde. E l’azienda decise di consacrare nel nome la sua nuova missione: Beyond Petroleum, Oltre il Petrolio. In effetti, l’idea appartiene alle mosse che nella strategia della comunicazione di impresa si chiamano pre‐emptive: anticipo i tempi, mi schiero con il mio potenziale avversario per limitarne l’impatto. Ed in effetti per anni BP si era decisamente schierata contro chi sosteneva che il consumo di energia fossile stava attraverso le emissioni di CO2 cambiando, persino, il clima, finanziando Università3 e centri di ricerca che avevano tentato di screditare le tesi ufficialmente supportate dalle Nazioni Unite4. Da quel momento la British Petroleum è stata per diversi anni la multinazionale che più di qualsiasi altra ha investito in Responsabilità Sociale. Fino alla sera del 20 Aprile 2010 quando un’esplosione degli impianti di una piattaforma petrolifera a 90 KM dalla costa della Luisiana non ha cambiato – e per decenni – la storia delle popolazioni che vivono lungo 500 km di costa del golfo del Messico, ma anche della BP che ha perso il cinquanta per cento della propria capitalizzazione nei 3 4 Tra le quail l’University of East Anglia E dall’Intergovernmental Panel on Climate Change Vision Think-Tank 3 THE ITALIAN THINKTANK tre mesi di fuga di petrolio dal pozzo saltato per aria. E, tuttavia, quella strategia comunicativa avrebbe rilevato i suoi limiti anche prima dei giorni del più grande disastro ambientale della storia5. Nonostante l’intenzione di andare “oltre il petrolio” l’investimento in energie rinnovabili di BP era prima dell’esplosione di Deepwater Horizon pari a 1 miliardo di dollari all’anno: una cifra consistente senza dubbio è tuttavia assolutamente irrisoria rispetto a circa 300 miliardi di dollari che il bilancio di BP mostra nella sua parte attiva. Ed è, forse, proprio dal confronto tra i numeri dell’investimento in attività di “impatto sociale” e quelli delle grandi multinazionali che gareggiano per filantropia che può cominciare un ragionamento sulla interpretazione che – fino alla grande crisi – le grandi (e medie) imprese hanno dato al termine “responsabilità sociale”. In effetti, nella classifica dei più grandi investitori in CSR pubblicata da FORBES nel 2007, subito prima del collasso della Lehman Brothers, troviamo cinque multinazionali americane. Ed i numeri dimostrano in maniera chiara quale è il peso di spese anche consistenti rispetto alla dimensione complessiva di quei colossi. Tabella 1: Confronto tra donazioni, ricavi e profitti; in milioni di dollari; 2007 ‐ 2010 Wal Mart Bank of America Exxon Citigroup J&J Donations 301 211 173 146 127 Revenues 408200 134194 383221 86601 61587 Net income 14300 2238 30460 10602 13334 Don./ Rev. 0,074% 0,157% 0,045% 0,169% 0,206% Fonte: Vision su dati Forbes e Fortune 500 Il valore della spesa in filantropia dei cinque più generosi donatori è nell’ordine – sicuramente grande – dei centinaia di milioni di dollari. E, tuttavia, se confrontiamo tali valori a quelli dei ricavi che sono, invece, nell’ordine dei centinaia di miliardi di dollari è evidente che per nessuna delle grandi multinazionali l’investimento in “responsabilità sociale”, seppur fortemente visibile, supera il due per mille. Anche rispetto nel confronto rispetto ai profitti, il peso degli investimenti in obiettivi non aziendali dimostra di essere piccolo. Soprattutto, tuttavia, va segnalato che è l’intero discorso sulla “responsabilità sociale” che rileva di essere lontano dal core delle strategie aziendali. Del resto le contraddizioni tra comportamenti concreti di ciascuna di queste multinazionali e pretesa di essere responsabili sono non minori di quelle che si rilevano parlando di BP. 5 Venti volte più grave della seconda più estesa perdita di petrolio della Exxon Valdez nel 1989. Vision Think-Tank 4 THE ITALIAN THINKTANK La Wall Mart è, del resto, l’impresa che solo un anno fa è stata giudicata responsabile di aver cercato di ostacolare l’elezione dell’attuale presidente degli Stati Uniti per ostacolare l’adozione della legge6 che avrebbe portato il sindacato in caso nella azienda che è stata più fortemente criticata per il trattamento dei propri dipendenti. Sulla immagine della Exxon pesano procedimenti penali (e, persino, film7) relativi al supporto fornito a regimi dittatoriali8 e persino a spietate persecuzioni 9. Mentre per ciò che concerne la Johnson & Johnson, la cosa più curiosa è ricordare che il fatto di essere una delle imprese che maggiormente spende in filantropia, non le ha evitato di essere protagonista della più lunga disputa legale della storia relativa all’utilizzo di un marchio: quello della J&J – una croce rossa – è infatti conteso alla più antica delle NGO del mondo. Per ciò che concerne, invece, le due banche, le due più sensibili del mondo alla responsabilità sociale nel 2007, basta dire che esse sono anche quelle che sono costate, nel 2008, più di qualsiasi altra istituzione finanziaria al tesoro e dunque al contribuente americano che le ha salvate dal fallimento con l’istituzione di un fondo di 700 miliardi di dollari: una cifra migliaia di volte superiore a quella delle donazioni effettuate un anno prima della crisi che le stava per travolgere10. È evidente che le storie che raccontiamo sono condizionate dalla natura delle imprese che stiamo considerando: multinazionali – alcune delle quali come Wal Mart danno lavoro a più di due milioni di persone e altre come Exxon che hanno fatturati complessivi pari a paesi grandi come il Belgio – la cui stessa dimensione non può che rendere irrisorio qualsiasi investimento in filantropia. Multinazionali la cui complessità non può, inoltre, che rendere inevitabile affrontare incidenti anche gravi. E, tuttavia, in senso più complessivo non si può negare che la CSR non è riuscita né a raggiungere i propri obiettivi iniziali di trasformare le imprese in soggetti attenti all’impatto sociale tanto quanto all’andamento delle quotazioni, e neppure – il che è, ancora, più grave – di incidere, minimamente, su una crisi epocale che è, ad avviso di molti, soprattutto la conseguenza di una crescente capacità delle imprese più grandi di produrre incrementi di benessere per l’ambiente al quale appartengono. Al centro delle ragioni di tale almeno parziale fallimento c’è, senza dubbio, l’incapacità della “responsabilità sociale” di diventare centrale nelle strategie delle imprese. Il fatto di essere stata 6 Employee Freedom Choice Act Syriana ispirato al rapporto tra Exxon e il presidente del Kazakistan 8 In Sudan, ad esempio. 9 Quelle di Aceh in Indonesia 10 Per ciò che riguarda Bank Of America c’è anche da ricordare il più volte annunciato attacco di Wikileaks che dovrebbe dimostrare l’abitudine della banca di aumentare i tassi d’interesse sui prestiti senza chiedere consenso né dare informazione ai clienti. 7 Vision Think-Tank 5 THE ITALIAN THINKTANK assimilata spesso ad una attività da appaltare alle unità organizzative che si occupano di comunicazione, di relazioni istituzionali, ancora peggio di pubblicità. O addirittura da affidare ad uno specialista di CSR. Ed, invece, come faceva notare Ian Davis, managing director di McKinsey in una lezione alla London School of Economics, l’idea di dover migliorare il proprio impatto, anche quello non immediatamente misurabile dai valori economici nel breve termine, sarebbe dovuto diventare una preoccupazione dello stesso Amministratore Delegato. Centrale per il futuro dell’impresa. Perché centrale per la sua capacità di generazione di valore in un periodo medio – lungo. In pratica, l’errore dei manuali di CSR è stato proprio quello di ipotizzare una triplicazione degli obiettivi aziendali. Proprio quello di aver immaginato che accanto ai profitti per gli azionisti potesse essere possibile affiancare una misurazione indipendente di ben due altri parametri: l’impatto sociale sulla propria comunità e, dunque, sui lavoratori, clienti, fornitori, ma anche più in generale i cittadini delle città e dei paesi nei quali le imprese operano; e quello ambientale e, dunque, sul benessere di chi – le generazioni future – non ha ancora la possibilità di far sentire la sua voce. È evidentemente cruciale che come società avanzate riusciamo ad indirizzare le attività delle imprese verso l’incremento del benessere di tutti e a minimizzare i costi che qualsiasi attività produttiva inevitabilmente comporta. È chiaro che ciò sia indispensabile sia per le comunità che ospitano le imprese che per le imprese. Ed, infine, è evidente che ciò sia ancora più importante dopo una crisi che è stata, soprattutto, crisi dei meccanismi di mercato che dovrebbero assicurare la selezione delle aziende migliori. Tuttavia, immaginare che esistono tre obiettivi a livelli diversi comporta grandi problemi. Anche sul piano concettuale: 1. implica che a quelle per le quali i managers vengono selezionati, formati e pagati si aggiungano responsabilità e competenze del tutto estranee alla loro professionalità; 2. produce una serie di contraddizioni tra obiettivi di natura diversa11 rispetto alle quali mancherà un metro di giudizio unico al quale far ricorso per decidere. A tali problemi consegue la trasformazione di un’idea importante in una funzione aziendale. Ed, invece, una “responsabilità sociale” capace di riconquistarsi il centro delle strategie aziendali, dovrebbe essere capace di ripartire dalla dimostrazione che, effettivamente, aziende maggiormente sostenibili sono 11 Non solo tra obiettivi economici, da una parte, e sociali o ambientali, dall’altra, ma anche tra obiettivi sociali ed ambientali (cosa scelgo tra un investimento che inquina e la possibilità di non effettuarlo che ha, però, un costo in termini di mancata occupazione), nonché all’interno della stessa categoria di obiettivi sociali nonché di quelli ambientali. Vision Think-Tank 6 THE ITALIAN THINKTANK capaci di rispondere meglio anche al proprio obiettivo principale che rimane quello di produrre un ritorno per i propri azionisti. Ed, invece, l’andamento dei mercati dice che, finora, così non è stato. Grafico 1: Confronto tra indicatori di capitalizzazione – FTSE 100, FTS All World, FTSE 4 Good Global 100 – 100 = 2006 Fonte: Vision su dati FT La tavola precedente confronta, infatti, due degli indicatori finanziari più importanti – il Financial Times 100 e il Financial Times globale – con l’andamento delle quotazione delle imprese che lo stesso giornale inglese ritiene essere socialmente responsabili. E tale confronto avviene proprio negli anni della crisi. È evidente che, non soltanto, le imprese che hanno un vantaggio “etico” non sono riuscite, per questo motivo, a evitare la crisi, ma che, addirittura, fanno ancora più fatica delle altre a recuperare i livelli precedenti alla grande crisi. Come mai? Probabilmente il problema è quello della definizione stessa di “socialmente responsabile” e nell’approccio alla questione. Il prossimo paragrafo delinea una proposta metodologica diversa. Elementi per lo sviluppo di un metodo nuovo: dalla “triple bottom line” al valore sostenibile Come fare, dunque, a riportare al centro del dibattito e delle misure concrete la questione della capacità delle imprese di generare valore in termini economici ma anche di benessere (e, probabilmente, felicità) per tutti? Vision Think-Tank 7 THE ITALIAN THINKTANK Le considerazioni sinora svolte rendono chiaro che il problema è stato tutto per intero dovuto all’idea che esistesse una scorciatoia. Che fosse possibile appaltare a qualcuno la ripulitura delle grandi imprese lasciando il business e la strategia assolutamente intatte. Lo schema non ha funzionato e, tuttavia, esiste, sembra esistere un modo per riconciliare la necessità di generare valore e l’idea di dover essere “socialmente responsabili”: spostarsi nel medio e nel lungo periodo, su una prospettiva temporale nella quale valore per gli azionisti e per i cittadini coincidono; una prospettiva nella quale sono soprattutto gli interessi di azionisti come gli investitori istituzionali (fondi pensione) e quelli di cittadini giovani a coincidere. In questa ottica si riesce ad allineare persino etica e impresa, un’idea classica e, insieme, moderna che è poi quella che troviamo nel mondo di piccole imprese e perfetta competizione di Adamo Smith dove utile e aumento della ricchezza di una nazione (wealth of nation) sono necessariamente convergenti. Competizione leale: è questa la prima priorità che dovrebbe essere chiesta ad imprese sostenibili ed è questo il criterio attraverso il quale Vision definisce un possibile metodo per stabilire priorità indispensabili per giudicare l’efficacia di diversi approcci che diverse imprese possono adottare per diventare “socialmente responsabili”. La tavola Figura 1. Dalla “triple bottom up” alla generazione di valore. Fonte: Vision Intanto c’è da dire che una definizione di priorità in termini di possibili comportamenti che aumentino la sostenibilità delle imprese nel tempo, è tanto più efficace quanto più è vicina ai processi aziendali e alla strategia. Nello specifico riteniamo che: Vision Think-Tank 8 THE ITALIAN THINKTANK 1. prima di tutto le imprese debbano rispettare le regole che ci sono nei propri paesi di origine (dove sono generalmente maggiormente regolate), estendere le regole migliori agli altri paesi dove operano, adottare unilateralmente e promuovere regole anche ancora di più tutelino la competizione e proteggano l’ambiente dalla esternalità che le imprese stesse generano; le regole vanno privilegiate perché – per definizione – hanno un’applicazione su tutta l’attività di impresa e per un periodo di tempo lungo e,dunque, sanciscono l’adozione di comportamento che modificano strutturalmente le azioni delle aziende; 2. ad un livello più basso, ma, comunque, elevato di priorità ci sono le attività che non hanno a che fare con le regole ma con la fornitura di benefici diretti alla società; ai fini di questa seconda categorizzazione andranno effettuati ulteriori distinguo perché sarà preferibile che l’impresa trasferisca all’esterno sue competenze e tecnologie distintive (spill overs, laddove essi possono essere capacità di verifica del credito per grandi banche che vogliano promuovere il micro credito quartieri caratterizzati da povertà o piattaforme tecnologiche che abilitino servizi di telemedicina per società hi tech che vogliano supportare paesi in via di sviluppo) rispetto alla mera donazione; ed, infine, poi, andranno definite priorità in termini di segmenti serviti laddove è presumibile che fornire valore alle generazioni future (bambini, studenti, ..) e alla comunità di chi opera in stretto contatto con l’impresa (dipendenti, fornitori, ..) sia da preferire all’aiuto che va indistintamente ad una data comunità. Come la tavola suggerisce, sulla base di tali criteri può essere dato un punteggio diverso a diversi investimenti in sostenibilità e impostata in maniera più efficace la selezione delle imprese ai fini della creazione di fondi e indici sostenibili. Essa andrà fatta non più sulla base dell’assenza di elementi negativi e in vista di una accettazione o meno nel paniere di un dato titolo, ma anche e soprattutto sulla base della presenza di fattori positivi (innovazione o promozione di regole che promuovono la competizione, ad esempio) sulla base dei quali alle imprese verrà attribuito un rating su una certa scala. Peraltro a ciò consegue che gli indici da adottare saranno differenziati per settore produttivo perché giudicheremo una banca in maniera molto diversa rispetto ad un operatore telefonico o una multinazionale dell’energia: per ciascun settore esistono criticità diverse e diverse conquiste di benessere (energie rinnovabili per le imprese energetiche, capacità di finanziare l’innovazione per le banche, etc) che è lecito aspettarsi dal punto di vista degli impatti più larghi e più lunghi. Una selezione di questo tipo avrebbe come obiettivo specifico la selezione di imprese sostenibili in maniera differenziata per settore produttivo. L’effetto sarebbe, non solo, quello di identificare il gruppo di imprese che per industria hanno maggiori probabilità di coniugare redditività e valore sociale, ma anche di costruire modelli produttivi ed organizzativi in grado di fornire una risposta ad una crisi che non è ancora finita. Vision Think-Tank 9