L’ultima grande opera Correva l’anno 1956, era il primo lunedì del mese di agosto quando Edmondo Fermi vide atterrare all’aeroporto di Roma l’aereo speciale che lo avrebbe portato, assieme ad altri cinquantacinque, nella valle del Kariba Italiani. La Lodigiani, la ditta per cui lavorava aveva vinto, il 16 luglio, l’appalto per la costruzione del più grande impianto idroelettrico fino ad allora concepito, surclassando sotto il punto di vista tecnico ed economico cinque tra le più importanti compagnie specializzate Americane ed Europee, tra cui i favoritissimi Inglesi. Roma Fiumicino, il DC-6B è pronto a portare i primi 56 italiani e i consulenti Rhodesiani fino ad Harare, da li proseguiranno alla volta di Kariba La valle del Kariba era una stretta gola dove il fiume Sanyati si buttava nello Zambesi e quest’ultimo si incanalava in un moto rapido e vorticoso. All’imbocco della gola due enormi massi, alti più di sei metri nella stagione di secca, segnavano il passo, come Scilla e Cariddi ai lati dello stretto di Messina. Per gli indigeni Batonka, il nome Kariba era un sinonimo di pericolo e di morte, ed era un luogo vietato, dove il dio Nyaminyami, l’impersonificazione del fiume, scatenava la sua collera; infatti nessuno osava oltrepassare la gola e inoltrarsi lungo il corso dello Zambesi, se non a spese della sua stessa vita. Uno dei villaggi nei pressi di Kariba nel 1956 Quel manipolo di uomini, guidato dall’ingegner Baldassarini e dal direttor Bergamasco, proveniva dai cantieri di Gerola Alta e di Cancano 2° ed era l’avanguardia di quel gruppo di un migliaio di italiani e circa ottomila africani che nei successivi quattro anni realizzeranno un’impresa ritenuta dai più impossibile. L’ing. Baldassarini, responsabile del progetto, al centro ed Edmondo Fermi a destra Assieme a loro, il cardinal Giovanni Battista Montini inviò un giovane parroco proveniente da Cavareno (Trentino), Don Giuseppe Betta. Egli avrebbe dovuto seguire gli operai italiani, che sarebbero arrivati fino al migliaio di unità, coadiuvando il responsabile locale della diocesi, padre S. J. De Meulder, un gesuita di origine belga ma formatosi in Germania e che diventerà il responsabile della scuola e dell’ospedale che a breve vennero costruiti. La celebrazione della messa nel giorno di Santa Barbara con il cardinale di Salisbury, e alla destra Don Betta e padre De Meulder. Edmondo era partito alla volta dell’Africa lasciando a casa la famiglia tra cui la figlia Angela affetta dal 1945 da epilessia, e la moglie, in attesa del quinto figlio. Il villaggio italiano di Kariba, durante la domenica gli italiani si radunano nella piazza antistante il cinema Tutti gli italiani che partirono il 6 di agosto avevano avuto modo di lavorare in buona parte degli impianti idroelettrici valtellinesi. Fu lì che, durante il rigido inverno del 1955, i responsabili inviati dalla Rhodesia per verificare le capacità tecniche ed ingegneristiche degli Italiani, capirono che sarebbero stati in grado di costruire quanto a loro richiesto, superando le avversità che si sarebbero parate loro di fronte. Nelle valli lombarde al confine con la Svizzera durante l’inverno, a causa delle abbondanti precipitazioni nevose, i lavori si interrompevano per anche tre mesi, e lo stipendio delle persone impiegate ne risentiva notevolmente. La prospettiva di un lavoro importante, remunerato tutto l’anno e con forti premi di produzione, erano un forte incentivo per tutti quegli italiani che, appena dieci anni prima, avevano avuto modo di patire le ristrettezze della guerra; quella guerra che era stata mal dichiarata e mal persa, e che era venuto il momento di riscattare di fronte all’opinione internazionale. Edmondo era un caposquadra, a lui sarebbero state affidate la prima e la seconda squadra che si sarebbe formata a Kariba, essendo lui un esperto metallurgo e profondo conoscitore delle problematiche delle strutture in calcestruzzo. Nei mesi a venire, gli italiani avrebbero avuto a che fare con l’enorme potenza dello Zambesi e di Nyaminyami, che da lì a poco avrebbero espresso la loro forza. I lavori partirono spediti, e il giorno 6 novembre, già durante la cerimonia per la posa della prima pietra, le parole dell’inviato della corona britannica si persero nel fragore delle centinaia di persone e delle macchine operatrici che lavoravano nella valle. I lavori procedettero speditamente fino al alla fine del febbraio del 1957; all’inizio del mese di marzo lo Zambesi dimostrò la sua forza, il fiume poco a poco iniziò a salire e le notizie che giungevano da Livingstone non promettevano niente di buono. Quindici persone erano morte alle cascate Vittoria per l’innalzarsi disordinato e tumultuoso delle acque. Due giorni dopo la piena giunse fino al cantiere e raggiunse un livello che non era mai registrato negli 80 anni precedenti, 20 metri oltre il normale livello di piena, seppellendo il cantiere della prima tura. Però si sa, i nostri compatrioti sono gente testarda, e i “piacentini”, come li chiamavano quasi schernendoli in Valtellina, erano tra i più coriacei di tutti. In breve i lavori ripresero e ben presto la prima tura, le prime fondazioni della diga e i primi scavi per le centrali idroelettriche ai due lati della diga vennero terminate. L’articolo riportato sul Daily News of Salisbury del 24 dicembre 1957, curiosamente i nomi di Lino ed Edmondo sono invertiti nei ruoli. Edmondo però venne presto colpito da una grande preoccupazione. Nel novembre del 1957 dall’Italia giunsero gravi notizie. La figlia Angela venne ricoverata, le crisi di epilessia secondaria che colpivano di quando in quando la sua seconda figlia Angela, aumentarono di intensità e frequenza. La causa di queste crisi era un ictus, che colpì Angela all’età di due anni, a seguito di un’indigestione. Questo fatto era accaduto nell’inverno del 1945, e la piccola Angela si salvò grazie all’intervento di suo zio Giovanni Morelli, che riuscì a trasportarla in una gerla, in mezzo alle strade sepolte dalla neve, per 20 km, fino all’ospedale di Morbegno. L’unica speranza che avevano era un intervento per rimuovere l’ictus che causava le crisi, e la famiglia Lodigiani si offrì di sostenere economicamente la spesa. Era però un intervento disperato. Fino ad allora su trenta interventi tentati in tutto il mondo, solo uno aveva portato ad un esito favorevole! Edmondo, appoggiato dal suo amico Lino Italia, da don Betta e da padre De Meulder, iniziò a costruire una campana come voto, aiutato dai compatrioti. La campana venne pronta per il 4 dicembre, festa di Santa Barbara, patrona dei costruttori di dighe. Subito dopo dall’Italia giunsero ottime notizie. Il miracolo era avvenuto, la piccola Angela aveva superato l’intervento. Il Telegramma giunto il 15 dicembre 1956 che annuncia ad Edmondo la buona riuscita dell’intervento A testimonianza di ciò rimangono oltre alla campana, la lettera che don Betta scrisse ai parenti di Edmondo in Italia, l’articolo riportato sul Daily News of Salisbury ed il santino stampato a Salisbury al principio del 1958. Lavori per la costruzione della campana alla fine del novembre 1957 Là dove venne posata la campana, a natale del 1958, iniziarono i lavori per la costruzione di una chiesa dedicata A Santa Barbara, a perenne ricordo di tutti coloro che perderanno la vita nella costruzione della diga. Posa in opera della prima pietra della chiesa di Santa Barbara I lavori ripresero, con due turni di dodici ore al giorno, per riuscire a terminare la diga nei tempi previsti, ma il fiume aveva in serbo nuove sorprese per gli italiani. Il 7 febbraio del 1958 una piena di sedicimila metri cubi d’acqua al minuto, con un livello di tre metri superiore a quella dell’anno precedente invase il cantiere. Il lavoro si fermò, ma alla fine del mese di marzo, i lavori poterono riprendere. La prima tura sommersa dalla piena del febbraio e marzo 1958 Durante il rallentamento dei lavori alla diga, Edmondo venne però rimandato in Italia, le sue condizioni di salute non erano ottimali e servivano delle analisi che in Africa non era possibile fare. Appena giunse in Italia però le notizie furono terribili: tumore al fegato. Nyaminyami, il crudele Dio che stava dando filo da torcere agli italiani impegnati nella costruzione della diga e che aveva portato decine di lutti, pretendeva un'altra vittima. La famiglia Lodigiani si impegnò nuovamente, dopo l’operazione della giovane Angela, e si offrì di pagare le spese per la guarigione del suo caposquadra. I lavori della diga verso la fine del 1958 Presso l’ospedale di Ginevra in quegli anni si sperimentava la radioterapia a base di cobalto per la cura dei tumori, a cui Edmondo venne sottoposto. Purtroppo, come si comprese solo qualche anno dopo, questo tipo di cure era troppo devastante ed il miracolo non si ripeté. La diga di Kariba, 50 anni dopo la sua costruzione stupisce ancora il visitatore per la sua imponenza Edmondo morì il 17 luglio del 1958, senza essere riuscito e vedere terminata la sua ultima grande opera, ma presso Kariba lui e tutti gli Italiani che costruirono la diga sono perennemente ricordati. Nel 1959 il fiume venne domato, e la diga, da cui dipende ancora oggi la metà dell’energia prodotta in Zambia ed in Zimbabwe, ha dato vita ad un lago lungo trecento km e largo fino a trenta che fornisce, tramite la pesca ed il turismo, sostentamento economico per centinaia di migliaia di persone. Sull’altura dove la campana è stata posta per la prima volta nel 1957, sorge la chiesa di Santa Barbara, dove si ricordano tutti coloro che lavorarono e morirono in Africa durante la costruzione della grande opera. La chiesa di Santa Barbara, eretta dagli italiani durante i lavori per la costruzione della diga, disegnata da Igor Leto e consacrata il 4 dicembre 1958. Venne affidata nel 1960 alle Suore di Maria Bambina dal Cardinal Montini. A perenne ricordo di tutti coloro che lavorarono e morirono in Africa per la costruzione della diga di Kariba