bollettino d’informazione sui farmaci Bif XIII N. 1 19 2006 Alzheimer e inibitori delle colinesterasi: c’è qualcosa di nuovo? Riassunto sional issue, involving not only medical aspects but also social problems related to the patient and to her/his caregiver(s). In Italy the licensed drugs for the treatment of Alzheimers’ disease are the reversible cholinesterase inhibitors donepezil, rivastigmine and galantamine. As shown in several controlled trials, they can temporarily improve cognition and functional abilities in patients with mild to moderate Alzheimers’ disease. Recent studies though, while confirming the mentioned benefits, substantially question their effect on other more relevant outcomes, such as delay in nursing home placement or caregiver burden. This new evidence will have to be considered while tracing health care pathways for people with Alzheimers’ disease and their carers, whose needs and expectations could find effective answers in the Alzheimer’s Evaluation Units as well as in non pharmacological strategies of proven efficacy. This article is aimed at reviewing the most recent literature on cholinesterase inhibitors in the treatment of Alzheimer’s disease, and to clarify if these drugs offer new opportunities of care. Le demenze, nel cui ambito la malattia di Alzheimer è la forma più frequente, rappresentano per il nostro paese una priorità assistenziale destinata ad assumere proporzioni progressivamente maggiori nei prossimi anni. Il deterioramento cognitivo e funzionale associato alla demenza porta a una progressiva perdita dell’autonomia del malato che, nelle fasi avanzate della malattia, diviene totalmente dipendente nelle attività della vita quotidiana. Ciò crea problematiche assistenziali particolarmente complesse che includono bisogni sia strettamente medici, sia socio-assistenziali, riguardanti il paziente e chi lo assiste (caregiver). Gli unici farmaci che in Italia possiedono indicazioni registrate per la terapia del declino cognitivo e funzionale nella malattia di Alzheimer di grado lieve-moderato sono gli inibitori reversibili delle colinesterasi (donepezil, rivastigmina e galantamina) dimostratisi efficaci nel migliorare transitoriamente le performance cognitive e funzionali. Recentemente sono state pubblicate nuove prove che, pur confermando i benefici dimostrati dagli inibitori delle colinesterasi nell’ambito di studi precedenti, ne ridimensionano le ricadute su esiti rilevanti, come ad esempio il ritardo nella istituzionalizzazione del malato o l’entità del carico assistenziale per i caregiver. Costruendo percorsi di cura per i pazienti con demenza, all’interno dei quali le Unità di Valutazione Alzheimer dovrebbero rivestire un ruolo cruciale, si dovrà tenere conto di queste nuove evidenze, considerando anche forme assistenziali non farmacologiche di provata efficacia. Il presente articolo esamina e illustra le recenti pubblicazioni scientifiche nel tentativo di fare il punto sulle reali nuove opportunità di cura con gli inibitori delle colinesterasi. Introduzione a demenza, una delle principali cause di disabilità e di disagio sociale per il mondo occidentale, rappresenta una priorità assistenziale la cui rilevanza, soprattutto in termini di costi sociali, è destinata ad aumentare nei prossimi anni a causa del progressivo invecchiamento della popolazione associato all’aumento dell’aspettativa di vita. Stime di prevalenza indicano che, rispetto al 2001, nei paesi dell’Europa occidentale ci si dovrà aspettare un incremento del 43% del numero di persone affette da demenza entro il 2020, e del 100% entro il 20401. Considerando la malattia di Alzheimer (DA) la più frequente tra le cause di demenza (43%-64%)2,3, il numero stimato di pazienti nella popolazione italiana ultrasessantacinquenne del 2001 è di 492.000 (range 357.000-627.000), con una prevalenza del 3,5% (IC 95% 2,5-4,5)4, mentre la sua incidenza è di 23,8 per 1000 anni/persona (IC 95% 17,3-31,7)5. Gli inibitori reversibili delle acetilcolinesterasi (IACh) sono gli unici farmaci approvati in Italia per il trattamento della DA. Attualmente le mo- L Abstract In Italy, as well as in other industrialized countries, dementia is a health care priority that in the next few years will become more and more relevant as a public health issue. Alzheimers’ disease is the commonest form of dementia. It causes a cognitive and functional impairment that eventually makes the patient totally dependent during the activities of daily living. Therefore health care for these patients becomes a multi-dimen- AIFA - Ministero della Salute 20 Bif XIII N. 1 AGGIORNAMENTI 2006 settimane), mentre utilizzando la sezione cognitiva della scala a 70 punti Alzheimer Disease Assessment Scale (ADAS-Cog) si osserva un miglioramento di 2,0 e 3,1 punti (rispettivamente con 5 e 10 mg/die per 24 settimane)7. Il quadro clinico globale valutato mediante la scala a 7 punti Clinician’s Interview Based Impression of Change (CIBIC plus) migliora di circa 0,5 punti6,8. Gli effetti avversi più frequenti associati all’uso del donepezil sono di tipo colinergico: diarrea (Absolute Risk Increase rispetto al placebo, ARI = 12%) e nausea (ARI = 5%). L’interruzione della terapia a causa di effetti avversi è significativamente maggiore tra i trattati con donepezil rispetto a quelli con placebo (ARI = 6%)9, mentre la frequenza di eventi avversi gravi non differisce significativamente10. lecole presenti in commercio sono donepezil, rivastigmina e galantamina, con indicazione registrata nella DA di grado lieve-moderato, rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale e sottoposti alle limitazioni della nota AIFA n. 85. La premessa su cui si è basata l’introduzione in commercio di questi farmaci era la dimostrazione di una loro efficacia nel ritardare il declino cognitivo e funzionale associato alla DA, a fronte di un buon profilo di tollerabilità. Tali premesse sembrano però non essere confermate dai risultati di recenti revisioni sistematiche e di uno studio controllato di ampie dimensioni. Scopo di questo articolo è di fornire una panoramica della letteratura recentemente pubblicata sull’efficacia degli IAch nella DA, analizzandone le problematiche più rilevanti sotto il profilo clinico e metodologico e le conseguenti possibili ricadute assistenziali nel nostro paese. LO STUDIO AD 2000 Comparso sulla rivista The Lancet nel giugno 2004 e finanziato dal servizio sanitario britannico, lo studio AD 200011-13 merita una considerazione particolare in quanto ha il follow-up più lungo mai realizzato su pazienti affetti da AD in trattamento con IACh (3 anni), ed è l’unico tra gli RCT pubblicati ad avere considerato il rischio di istituzionalizzazione come outcome primario. Dei 565 pazienti affetti da AD di grado lieve-moderato, 282 sono stati assegnati a trattamento con donepezil e 283 a placebo; 292 pazienti sono stati La premessa seguiti per 60 setsu cui si è basata timane e 111 fino a l’introduzione 114 settimane. I risultati mostrano che in commercio di il rischio di istituzioquesti farmaci nalizzazione dei pazienti sottoposti a era la con dodimostrazione di trattamento nepezil non difuna loro efficacia ferisce significativamente da quello nel ritardare il pazienti del declino cognitivo dei gruppo placebo e funzionale (rischio relativo 0,97; IC 95% 0,72associato alla 1,30 p = 0,80). DA, a fronte di Anche combinando il rischio di istituzioun buon profilo nalizzazione e di di tollerabilità progressione della Sintesi delle prove di efficacia Donepezil, rivastigmina e galantamina sono stati confrontati con il placebo in numerosi studi randomizzati controllati (RCT), inclusi in varie revisioni sistematiche. Non vi sono RCT che confrontino le diverse molecole di IACh tra loro. Questa lacuna è determinata dal fatto che per la registrazione di un farmaco è sufficiente un confronto con il placebo, e quindi il reclutamento di un numero più contenuto di pazienti, oltre che tempi più brevi per il completamento dello studio, rispetto a quanto sarebbe necessario nel caso di confronto tra due principi attivi (studio di non inferiorità). La carenza di studi testa-atesta è tuttavia una carenza importante, in quanto dal confronto diretto sarebbe possibile ricavare dati più affidabili sulla efficacia e sulla sicurezza relativa di un farmaco rispetto ad altri della stessa classe. “ Donepezil Recenti revisioni sistematiche hanno sintetizzato i risultati degli RCT che hanno confrontato donepezil e placebo 6,7 . Rispetto al placebo il donepezil somministrato al dosaggio di 5 o 10 mg/die per periodi che vanno da 3 a 12 mesi produce un miglioramento cognitivo statisticamente significativo. Utilizzando il Mini Mental State Examination (MMSE, punteggio massimo 30 punti) la differenza osservata è di 1,8 punti a favore del donepezil (10 mg/die per 52 ” AIFA - Ministero della Salute bollettino d’informazione sui farmaci Bif XIII N. 1 21 2006 Rivastigmina Una revisione sistematica Cochrane 14 aggiornata al 2003 ha analizzato i risultati di 8 RCT (pubblicati e non) sulla rivastigmina. Rispetto al placebo, il farmaco somministrato a dosi di 6-12 mg/die produce, al termine di un follow-up di 26 settimane, un miglioramento cognitivo quantificabile in 2,1 punti alla ADAS-Cog e un miglioramento funzionale pari a 2,2 punti della Progressive Disability Scale (PDS) nell’attività della vita quotidiana. Nausea (ARI = 17%) e vomito (ARI = 14%) sono gli effetti avversi più comunemente associati alla terapia, e causano il 9% in più di sospensioni del trattamento rispetto al placebo8,9. disabilità non sono state osservate differenze significative tra donepezil e placebo (rischio relativo 0,96; IC 95% 0,74-1,24 p = 0,70). Anche per gli altri outcome considerati dallo studio (sintomi comportamentali, psicopatologia dei caregiver, costi assistenziali, tempo non retribuito impiegato dai caregiver per l’assistenza al malato, eventi avversi o decessi, dosi diverse di donepezil) non sono state osservate differenze statisticamente significative rispetto al placebo. I pazienti in trattamento con donepezil hanno mostrato nelle prime 12 settimane un miglioramento medio di 0,9 punti del MMSE e di 1 punto della scala funzionale Bristol Activities of Daily Living (BADLS). Successivamente, entrambi i gruppi (donepezil e placebo) hanno mostrato un ritmo analogo di peggioramento nel tempo. Durante lo studio, 167 pazienti hanno sospeso in cieco il trattamento con donepezil senza mostrare particolari problemi dopo l’interruzione. Gli autori dello studio hanno inoltre effettuato una valutazione economica mostrando che, nell’ambito del servizio sanitario britannico, la terapia con donepezil non produce sostanziali riduzioni dei costi assistenziali per i pazienti con DA. In sostanza lo studio ha confermato i risultati dei precedenti RCT sugli IACh, dimostrando che l’uso di donepezil produce un miglioramento dei punteggi nelle scale cognitive e funzionali, ma ha messo in dubbio la rilevanza clinica di questi outcome e la costo-efficacia del farmaco. La pubblicazione dello studio ha innescato un dibattito sulla utilità clinica del donepezil (e quindi anche degli altri IACh, vista l’assenza di provate differenze in termini di efficacia tra molecole diverse) nella terapia della DA 10,11 . Numerose sono state le critiche su aspetti metodologici relativi al disegno e alla conduzione di questa indagine. In particolare è stato sottolineato che la ridotta numerosità di reclutamento rispetto a quanto programmato (565 pazienti invece di 3000), pur permettendo di raggiungere la potenza necessaria per dimostrare o confutare le ipotesi legate agli outcome primari, ha portato ad avere stime con intervalli di confidenza relativamente ampi (compatibili con circa 30% di riduzione e 30% di aumento del rischio associato alla terapia con donepezil). Secondo alcuni autori inoltre 12,13 , i ripetuti periodi di washout al termine delle varie fasi dello studio potrebbero avere provocato una perdita dei benefici ottenuti mediante terapia con donepezil. Galantamina Una revisione sistematica15 che ha incluso 8 trial, di cui 6 pubblicati, mostra un miglioramento cognitivo (testato mediante la scala ADAS-Cog) e globale (scale CIBIC plus o CGIC) rispetto al placebo a dosi comprese tra 16 e 36 mg/die in soggetti con DA di grado lieve-moderato. L’effetto sulla sfera cognitiva sembra aumentare con la durata del trattamento, che tuttavia negli studi considerati non supera i 6 mesi. Fino al 20% dei pazienti trattati con galantamina presenta effetti avversi di tipo colinergico, che causano più frequentemente del placebo sospensioni della terapia (ARI = 14%)8,9. Le metanalisi sugli IACh Due metanalisi, pubblicate nel 20039 e nel 200516, hanno analizzato in maniera cumulativa i risultati di RCT di confronto tra i vari IACh in commercio e il placebo. Sostanzialmente le conclusioni dei due lavori sono simili: nei pazienti con DA il trattamento con IACh produce benefici statisticamente significativi sia utilizzando strumenti di valutazione globale (scala CIBIC plus o la scala GCI), sia quando si utilizzano scale cognitive (ad es. la ADAS-Cog). L’effetto terapeutico sul quadro clinico globale degli IACh rispetto al placebo è del 9% (IC 95% 6-12), corrispondente a un Number Needed to Treat (NNT) di 12 (IC 95% 9-16). Ciò significa che per ottenere un miglioramento clinico globale di qualsiasi entità in un nuovo paziente è necessario trattare 12 pazienti con IACh. L’analisi dei dati di sicurezza, cioè il calcolo del Number Needed to Harm (NNH), porta a stime analoghe: ogni 12 pazienti trattati con IACh (IC 95% 10-18) si avrà un nuovo paziente con effetti avversi9. Per quanto AIFA - Ministero della Salute 22 Bif XIII N. 1 AGGIORNAMENTI 2006 Implicazioni cliniche dei recenti risultati Italiana del Farmaco e da altre istituzioni estere, come il britannico National Institute for Clinical Excellence (NICE)17 – consiste nel decidere la prosecuzione del trattamento sulla base della risposta clinica a 3 mesi: solo i pazienti che dopo 3 mesi di trattamento non peggiorano o mostrano un miglioramento del punteggio MMSE rispetto alla baseline saranno candidabili a continuare la terapia con IACh. I risultati dello studio osservazionale CRONOS mostrano, infatti, che la presenza di una risposta al trattamento dopo 3 mesi aumenta significativamente la probabilità di mantenere un miglioramento cognitivo anche 9 mesi dopo l’inizio della terapia (OR = 20,6; IC 95% 17,2–24,6)18. Poiché tuttavia si è visto che i miglioramenti cognitivi associati al trattamento con IACh sono di modesta entità, dovendosi basare sulla risposta individuale di singoli pazienti è opportuno chiedersi se il MMSE, unitamente a una valutazione clinica informale e soggettiva, sia un criterio appropriato per decidere la prosecuzione del trattamento con IACh, considerando che: • nessuno dei trial sugli IACh nella DA ha utilizzato il punteggio MMSE come outcome cognitivo primario, che nella maggioranza degli studi è rappresentato dalla scala ADASCog; il MMSE infatti non è ritenuto, dalla maggior parte degli autori, uno strumento adeguato a misurare l’efficacia degli IACh19; • analizzando gli studi in cui il MMSE è stato utilizzato come test cognitivo nella DA risulta che il deterioramento atteso annualmente in pazienti non trattati è di circa 3,3 punti (IC 95% 2,9-3,7)20, e che le differenze osservate tra effetto dei farmaci e placebo (0,68-1,36 punti) sono minori dell’errore medio di stima del MMSE (2,8 punti)21; • i risultati di recenti RCT10 mostrano, confermando precedenti osservazioni22, che il miglioramento osservato al MMSE durante i primi 3-6 mesi di terapia con donepezil non è predittivo della risposta a lungo termine. Tra i pazienti affetti da DA la percentuale attesa di responder alla terapia con IACh, intesi come individui che mostrano un qualsiasi miglioramento accertabile mediante una scala clinica globale, è circa del 10%9. Poiché non vi è modo di individuare in anticipo i pazienti che risponderanno alla terapia, una possibile strategia prescrittiva – adottata dall’Agenzia Pur senza togliere importanza alla scelta di strumenti idonei a monitorare lo stato cognitivo e funzionale, l’aspetto sostanziale da considerare quando si interpretano i risultati degli studi sugli IACh nella DA è tuttavia un altro, e riguarda la rilevanza clinica delle differenze osservate. Tutti gli RCT pubblicati, eccetto lo studio AD 2000, hanno considerato come outcome primario una concerne la sicurezza degli IACh considerati globalmente, la proporzione dei pazienti trattati che interrompe la terapia è maggiore che nel gruppo placebo (ARI = 8%), particolarmente a causa di effetti avversi (ARI = 7%)9. L’apparente “pareggio” tra benefici e rischi, in termini di NNT e NNH, va interpretato considerando l’importanza di un potenziale guadagno in termini di deterioramento clinico in un paziente affetto da DA a fronte della comparsa di effetti avversi che, pur potendo portare in molti casi a una sospensione del trattamento, sono reversibili e non gravi. L’entità del miglioramento clinico globale è tuttavia modesta, e la sua ricaduta su esiti assistenziali rilevanti, quali il carico assistenziale per i caregiver o un ritardo nella istituzionalizzazione del paziente, resta ancora da chiarire. La revisione di Kaduszkiewicz et La al.16 include una vapubblicazione lutazione accurata della qualità metodello studio dologica dei singoli AD 2000 RCT dalla quale ha innescato emergono problemi sostanziali riguarun dibattito sulla danti il disegno deutilità clinica gli studi e l’analisi del donepezil dei dati. Scelte metodologiche inapnella terapia propriate potrebbedella DA ro aver introdotto dei bias che hanno particolarmente enfatizzato i benefici associati all’uso degli IACh (box). La presenza di carenze metodologiche e di modesti vantaggi clinici fa concludere gli autori che “le basi scientifiche per raccomandare gli IACh nel trattamento della DA sono discutibili”16. “ ” AIFA - Ministero della Salute bollettino d’informazione sui farmaci Bif XIII N. 1 Box PROBLEMI METODOLOGICI DEGLI STUDI SUGLI IACH NELLA 23 2006 DA16,23 Mancata analisi “intention-to-treat” L’inclusione nell’analisi di tutti i pazienti randomizzati (principio della “intention-to-treat”) è sempre indispensabile per garantire la validità dei risultati degli studi controllati. Qualora (come succede negli studi sugli IACh) in fase di analisi vengano considerate le differenze medie di punteggio tra il braccio di trattamento e il braccio placebo utilizzando scale cliniche numeriche, il rispetto del principio della “intention-to-treat” diventa particolarmente importante. L’esclusione di pazienti con punteggi molto bassi o molto alti, infatti, può condizionare in modo sostanziale il risultato medio finale. In 15 dei 22 studi individuati dalla revisione sistematica di Kaduszkiewicz et al.16 si rileva l’esclusione di pazienti dall’analisi dopo la randomizzazione. In 4 studi il numero dei partecipanti inclusi nell’analisi al termine dello studio per ognuno dei bracci era specificato solo in parte o per nulla; in merito ai pazienti esclusi non venivano fornite informazioni che potessero permettere una stima dell’effetto dell’esclusione sui risultati. Dropout e periodo di esposizione al trattamento Per quanto riguarda i dropout, cioè i pazienti che interrompono il trattamento prima del termine dello studio (ad esempio a causa di effetti avversi), è importante conoscere il momento in cui avviene l’interruzione e quindi il periodo durante il quale i pazienti sono stati esposti al trattamento, in particolar modo se i dropout vengono analizzati secondo il metodo della “last observation carried forward” (LOCF), cioè considerando l’ultima osservazione come misura di esito. In una malattia cronica progressiva come la DA, infatti, se nel braccio di trattamento vi sono molti dropout e si utilizza il metodo LOCF senza tenere conto del momento di abbandono della terapia, ciò può introdurre un bias simulando una riduzione della progressione di malattia nel braccio di trattamento e amplificando la positività dei risultati a favore del farmaco studiato. In tutti gli studi sugli IACh nella DA il tasso di abbandono per effetti avversi è più alto nel gruppo di trattamento rispetto al gruppo placebo. In 8 di essi è stato utilizzato il metodo LOCF, senza specificare mai per i dropout il momento esatto dell’abbandono. Eventi avversi e cecità La terapia con IACh è associata a eventi avversi evidenti e tipici, che più frequentemente consistono in nausea, vomito, diarrea e calo ponderale. In tutti gli studi sulla galantamina e rivastigmina, e in 4 di 11 sul donepezil, si è osservata una differenza statisticamente significativa tra braccio di trattamento e placebo per almeno due di questi effetti avversi. Il rischio di bias in questo caso è legato alla possibilità che, sulla base degli effetti avversi osservati, i ricercatori potrebbero aver intuito quali pazienti stavano assumendo il farmaco e quali il placebo, riducendo così l’efficienza della cecità. Generalizzabilità dei risultati dei singoli RCT I pazienti reclutati negli studi clinici sono scarsamente rappresentativi di popolazioni non selezionate di pazienti con DA21. In Italia è stato condotto su scala nazionale uno studio osservazionale di “Post Marketing Surveillance” (progetto CRONOS)27, per valutare la trasferibilità nella pratica clinica dei risultati ottenuti negli studi pre-registrativi degli IACh. Analizzando le informazioni raccolte da oltre 5400 pazienti il progetto CRONOS ha mostrato che i pazienti reclutati nei trial registrativi di donepezil, rivastigmina e galatamina non sono rappresentativi della popolazione italiana affetta da DA candidabile al trattamento con IACh. I pazienti affetti da DA seguiti presso le Unità di Valutazione Alzheimer italiane sono infatti più anziani, con una maggiore prevalenza di donne e di soggetti che assumono anche altri farmaci per il sistema nervoso centrale. AIFA - Ministero della Salute 24 Bif XIII N. 1 AGGIORNAMENTI 2006 aspetto che non ha ancora avuto sufficiente attenzione è rappresentato dal gravoso carico assistenziale per i pazienti con DA in fase avanzata che, nel 50% dei casi, si traduce in almeno 46 ore settimanali dedicate all’assistenza, costringendo un familiare su due a ridurre l’orario lavorativo. Ciò si accompagna ad una prevalenza di depressione del 43% durante gli ultimi mesi di vita del malato: una frequenza superiore a quella rilevata in ambiti assistenziali familiari di pazienti con altre malattie terminali, come ad esempio il cancro26,28. La demenza in fase avanzata non viene percepita come una malattia terminale e di conseguenza i malati hanno meno probabilità di ricevere forme di assistenza palliativa dimostratesi efficaci nel ridurre il carico assistenziale dei caregiver di pazienti affetti da altre malattie terminali (ad esempio malati neoplastici). In attesa che la ricerca offra nuove e più efficienti strategie terapeutiche, le Unità di Valutazione Alzheimer (UVA) andrebbero rivalutate non solo come centri di dispensazione controllata di farmaci, ma come fulcro di un’assistenza multidimensionale all’interno della quale la terapia farmacologica riveste per ora un ruolo minore e principalmente sintomatico. Non dimentichiamo che all’epoca della loro approvazione gli IACh furono oggetto di grandi aspettative in una patologia orfana di trattamenti specifici, e una riflessione dopo alcuni anni di uso clinico sul loro ruolo effettivo nella assistenza ai malati di DA può essere molto utile. variazione del punteggio di scale cliniche che consentono quantificazioni formali di deterioramento cognitivo, globale o funzionale. Questa scelta nasce dal fatto che, per ottenere l’approvazione di un farmaco come agente antidemenza, la Food and Drug Administration americana richiede la dimostrazione di una differenza significativa rispetto al placebo, utilizzando una delle suddette scale24. Come già accennato in precedenza, non è tuttavia chiaro se ai miglioramenti rilevati mediante questi outcome surrogati corrisponda un beneficio anche su misure di esito più rilevanti per i pazienti con DA che vivono in comunità, quali un ritardo della istituzionalizzazione, un miglioramento della qualità di vita per il paziente e per chi lo assiste e un risparmio in termini di risorse assistenziali (ricoveri, accessi a visite specialistiche, utilizzo di altri farmaci, ecc.). Problemi connessi alla terapia Gli scarsi vantaggi dimostrati dagli IACh nei confronti del placebo impongono di considerare con attenzione anche altre strategie potenzialmente efficaci su esiti assistenziali rilevanti. È stato dimostrato che interventi mirati sui caregiver sono efficaci nel ridurre lo stress psicologico associato all’assistenza del malato 25 , mentre programmi di supporto e counselling per i familiari conviventi con malati di DA di grado lieve-moderato possono ritardarne significativamente la istituzionalizzazione26,27. Un Conclusioni La valutazione critica delle prove di efficacia che hanno promosso gli IACh all’attuale ruolo nella terapia della DA insieme con le più recenti revisioni sistematiche e studi clinici portano a dover tenere conto che: • rispetto al placebo, nei pazienti affetti da DA, la terapia con IACh produce benefici cognitivi e funzionali di modesta entità; “Le Unità di Valutazione Alzheimer (UVA) andrebbero rivalutate non solo come centri di dispensazione controllata di farmaci, ma come fulcro di un’assistenza multidimensionale all’interno della quale la terapia farmacologica riveste per ora un ruolo minore e principalmente sintomatico”. AIFA - Ministero della Salute bollettino d’informazione sui farmaci Bif XIII N. 1 25 2006 10. Courtney C, Farrell D, Gray R, et al.; AD2000 Collaborative Group. Long-term donepezil treatment in 565 patients with Alzheimer’s disease (AD2000): randomised double-blind trial. Lancet 2004; 363: 2105-15. 11. Schneider L. AD 2000: donepezil in Alzheimer’s disease. Lancet 2004; 363: 2100-1. 12. Holmes C, Burns A, Passmore P, Forsyth D, Wilkinson D. AD2000: design and conclusions. Lancet 2004; 364: 1213-4. 13. Akintade L, Zaiac M, Ieni JR, McRae T. AD2000: design and conclusions. Lancet 2004; 364: 1214. 14. Birks J, Grimley Evans J, Iakovidou V, Tsolaki M. Rivastigmine for Alzheimer’s disease. Cochrane Database Syst Rev 2000; CD001191. 15. Loy C, Schneider L. Galantamine for Alzheimer’s disease. Cochrane Database Syst Rev 2004; CD001747. 16. Kaduszkiewicz H, Zimmermann T, Beck-Bornholdt HP, van den Bussche H. 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Il dibattito suscitato dalla pubblicazione di nuovi dati relativi all’efficacia di questi farmaci nelle terapie della DA pone interrogativi a cui clinici e decisori istituzionali dovranno necessariamente rispondere per una distribuzione efficiente delle risorse. Bibliografia 1. Ferri CP, Prince M, Brayne C, et al.; Alzheimer’s Disease International. Global prevalence of dementia: a Delphi consensus study. Lancet 2006; 366: 2112-7. 2. Benedetti MD, Salviati A, Filipponi S, et al. Prevalence of dementia and apolipoprotein e genotype distribution in the elderly of Buttapietra, Verona province, Italy. Neuroepidemiology 2002; 21: 74-80. 3. Prencipe M, Casini AR, Ferretti C, Lattanzio MT, Fiorelli M, Culasso F. Prevalence of dementia in an elderly rural population: effects of age, sex, and education. J Neurol Neurosurg Psychiatry 1996; 60: 628-33. 4. Vanacore N, Sorrentino C, Caffari B, Ravaioli F, Maggini M, Raschetti R. 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