LA COSTRUZIONE DEL PIANO COME PROCESSO COLLABORATIVO 1. PRINCIPALI RIFERIMENTI IN LETTERATURA 2. UN APPROCCIO RADICALE: DALL’ADVOCACY PLANNING ALLA PIANIFICAZIONE COME PROCESSO DI MOBILITAZIONE SOCIALE 3. UN APPROCCIO ISTITUZIONALE: LA PIANIFICAZIONE COLLABORATIVA COME FORMA DI PERSUASIONE, RICERCA DEL CONSENSO E MARKETING TERRITORIALE. FORMA DI CONTRATTAZIONE E NEGOZIAZIONE DI INTERESSI DIFFERENTI 4. LA PIANIFICAZIONE COLLABORATIVA E INTERATTIVA PER UNA SOCIETA’ IN RETE 1. PRINCIPALI RIFERIMENTI IN LETTERATURA Una lettura comparata della bibliografia e dei casi osservati, rivela interpretazioni variegate e diversificate di un approccio al piano di tipo collaborativo e/o partecipativo. Le aggettivazioni del termine “pianificazione” utilizzate per contraddistinguere particolari sfumature di approcci sostanzialmente simili, sono molteplici, per lo più di origine anglosassone. - “pianificazione di parte” (advocacy planning) proposta da Paul Davidoff (1965), antesignana di questo approccio; - “pianificazione equitaria”, come sperimentata nell’esperienza fondamentale di Cleveland negli USA nella prima metà degli anni ’70 (Krumholz and Forester, 1992); - “pianificazione transattiva” (Friedmann, 1973); - “pianificazione partecipativa” (Friedmann, 1993); - “pianificazione radicale” (Grabow and Allen, 1973; Friedmann, 1993) più critica nei confronti delle moderne modalità di attuazione disciplinare; - “pianificazione comunicativa” (Forester, 1989; Sager, 1994; Innes, 1995) che si collega anche nel nome alle teorie Habermasiane (Habermas, 1981), che costituiscono la base concettuale comune a tutto questo ambito disciplinare; - “pianificazione deliberativa” (Forester, 1999); - “pianificazione multiculturale” (Sandercock, 1998), più attenta agli aspetti pluralistici nella volontà esplicita di porre attenzione alle esigenze dei nuovi abitanti delle “cosmopoli” occidentali; - “pianificazione per le comunità” (Becker, Kelly, So, 2000; Wates, 2000); - “pianificazione consensuale” (Ashworth, Voogd, 1990; Woltjer, 2000) dove maggiore è l’attenzione posta agli aspetti negoziali del piano e alla ricerca del consenso, come presupposto alla base dell’approccio che ha trovato numerose applicazioni nei programmi di rigenerazione urbana promossi dalla Unione Europea; - “pianificazione collaborativa” (Haley, 1997), che può ritenersi la più idonea ad esplicitare in modo immediatamente comprensibile gli aspetti principali delle sfumature di approccio qui evidenziate. La maggior parte delle interpretazioni di questo approccio al piano si possono ricondurre, soprattutto per comodità espositiva, essenzialmente a due tipologie: 1. un approccio di tipo radicale 2. un approccio di tipo istituzionale. Di queste due sfumature, si cercherà di enucleare gli elementi fondamentali, che diverranno i cardini teorici utili per guidare l’individuazione e la strutturazione di metodi e strumenti di supporto alla pianificazione collaborativa, di cui entrambi sono parte integrante nei loro aspetti principali. 2. UN APPROCCIO RADICALE: DALL’ADVOCACY PLANNING ALLA PIANIFICAZIONE COME PROCESSO DI MOBILITAZIONE SOCIALE 2.1 Dall’advocacy planning alla pianificazione comunicativa 2.1.1 Advocacy planning Una delle più note esperienze di pianificazione partecipata si ritrova nell’ambito delle pratiche statunitensi degli anni ’60, sviluppate per far fronte alla povertà in ambito urbano (Crosta, 1976). Per l’implementazione dei programmi si adottò la formula dell’Advocacy Planning proposta da Davidoff, che prevedeva la partecipazione diretta del “povero” al processo di pianificazione, coadiuvata dall’azione di “difesa” di un professionista, in analogia a quanto avviene in un procedimento giudiziario (secondo la tradizione statunitense). Il pianificatore, oltre agli aspetti prettamente tecnici, si premurava di predisporre differenti ipotesi di piano, da confrontare con ulteriori alternative messe a punto da altri gruppi portatori d’interesse. L’idea alla base della pianificazione “di parte”, era che tutti coloro i quali non erano rappresentati lo sarebbero stati attraverso la figura dell’advocacy planner, che avrebbe portato le necessità e i bisogni dei quartieri emarginati, periferici sul tavolo decisionale degli attori istituzionali (Sandercock, 1998). Il tecnico e la sua correttezza professionale, diventano la garanzia dello svolgimento di una funzione utile alla società, investendo l’urbanistica di una missione sociale in cui mettere a fuoco le molteplici esigenze dei “senza voce” del processo di piano. Ad esempio, una delle necessità maggiormente sentite era rendere facilmente accessibili a tutti i cittadini le informazioni relative al processo di piano, togliendo il privilegio ai soli esperti (Morris, Rein, 1976), mentre nello stesso tempo, la crescente attenzione, almeno a livello di intenzioni, verso una società intesa pluralista, conduceva all’elaborazione di una preventiva “analisi del cliente” cui il processo si rivolgeva. 2.1.2 Equity planning Un caso rappresentativo del nuovo ruolo assunto dal planner si ha nella nota esperienza di “equity planning” realizzata a Cleveland durante gli anni ’60, all’interno di un’agenzia pubblica di pianificazione comunale. L’individuazione esplicita di obiettivi come “equità e giustizia redistributiva”, trova rispondenza nella figura di un pianificatore che rivendica “speciali capacità nell’influenzare gli esiti delle decisioni pubbliche”, in base alla propria personale determinazione nel perseguire obiettivi ritenuti equi (Kaufman, 1982). Cleveland ed altre esperienze analoghe, se sono state capaci di conferire visibilità e concretezza a temi fino ad allora di carattere per lo più teorico, non si sono dimostrate particolarmente efficaci nel perseguire l’obiettivo di un reale rinnovamento della disciplina pianificatoria, in modo aderente alle necessità degli utenti più “deboli”. L’eccessiva enfasi fornita al ruolo del pianificatore e alle nuove competenze di cui si doveva dotare, non spostavano gran che i limiti entro i quali si muoveva la pianificazione razional-comprensiva, che costituiva il paradigma disciplinare dominante. L’esperienza dell’advocacy planning ha, in ogni caso, costituito il punto di partenza per molti pianificatori, che nel seguito della loro carriera accademica e professionale sono giunti a conclusioni differenti, spesso più radicali, come descritto dalla Sandercock (1998) nella sua storia della pianificazione multiculturale. L’esperienza dell’advocacy planning o dell’equity planning, ha portato alcuni di questi pianificatori ad approfondire il ruolo della conoscenza locale e delle abitudini e tradizioni presenti sul territorio nella pianificazione. 2.1.3 Pianificazione transattiva Nel noto testo del 1973 Retracking America, John Friedmann, descrisse i conflitti emergenti nei processi di piano nelle periferie urbane e nei programmi di assistenza allo sviluppo condotti in America Latina, tra conoscenza esperta frutto di studi e pratiche specifiche e conoscenza personale derivante dall’esperienza dei luoghi. Egli descrisse la crescente distanza tra i cosiddetti esperti e i loro clienti, distanza esacerbata dall’inaccessibilità del linguaggio con il quale i professionisti abitualmente formulavano i problemi, ritenendo che le due forme di conoscenza dovessero essere integrate in sviluppando un processo di mutuo apprendimento, relazioni personali tra clienti ed esperti, attraverso l’adozione di ciò che definì uno stile transattivo di pianificazione (Friedmann, 1993; Sandercock, 1998). 2.1.4 Pianificazione comunicativa Le problematiche legate al linguaggio, alla sua strutturazione, ed al suo utilizzo nel processo di piano, furono successivamente affrontate e messe al centro del dibattito disciplinare negli anni ’80 da un gruppo di pianificatori statunitensi ispirati principalmente dal lavoro di John Forester, Planning in the face of power (1989). Partendo da una critica della razionalità funzionalista che caratterizzava la pianificazione di quegli anni e basandosi sulle teorie di una razionalità comunicativa come enunciate da Jurgen Habermas (1981) (che, per far fronte alla crisi di legittimità delle democrazie contemporanee, prospettava un ruolo dialogico delle istituzioni nei meccanismi di formazione del consenso), Forester ha sviluppato quella che è definita pianificazione comunicativa, capace di influenzare quasi tutte le attuali teorie e pratiche di pianificazione. La pianificazione comunicativa risulta più attenta alle indagini di tipo qualitativo, alle interpretazioni che gli abitanti forniscono del territorio in cui vivono, anziché fermarsi alle sole analisi quantitative fornite dagli esperti. Per Forester la pianificazione è principalmente una forma di ascolto critico, di osservazione di comportamenti e modi di utilizzo del territorio rivolti direttamente agli utenti finali del piano attraverso questionari. Le modalità di intervento sono basate sull’ascolto e sulle domande e incontri. Il pianificatore deve, tra le altre competenze, acquisire la capacità di “costruire un dialogo informato” tra i partecipanti al processo. Gran parte delle idee contenute nel pensiero di Forester sono ormai divenute parte integrante degli attuali stili di pianificazione. 2.2 La pianificazione come processo di mobilitazione sociale 2.2.1 La pianificazione come processo di empowerment Ai temi normalmente al centro dei dibattiti disciplinari dei planners progressisti degli anni ’60 in special modo negli USA, si aggiungono e si intrecciano negli anni seguenti quelli relativi alla “questione ambientale”, causata dal forte sviluppo industriale generatosi nei paesi occidentali in quello stesso periodo, con i conseguenti innalzamenti del livello d’inquinamento e di sfruttamento di risorse scarse o non rinnovabili. Nel discusso articolo con cui Grabow ed Heskin (1973) formalizzarono per la prima volta una concezione radicale della pianificazione, si propone l’implementazione di un nuovo paradigma. Sperimentate le disuguaglianze esistenti nella gestione e nella distribuzione del potere, delle opportunità e delle risorse, i pianificatori radicali lavorano per una trasformazione strutturale di queste disuguaglianze e per rafforzare (da qui la definizione di empowerment utilizzata per questo tipo di dinamiche) coloro che sono sistematicamente privi di capacità contrattuale e negoziale (Peattie, 1994; Sandercock, 1998). Il suo fondamento, come descritto da uno dei suoi più noti teorici, è la necessità di ottenere la progressiva “emancipazione dell’umanità dall’oppressione sociale” e pur assumendo diverse forme, “la pratica radicale procede sperimentalmente attraverso un percorso di apprendimento sociale” (Friedmann, 1993). Ad una pianificazione incentrata sulle esigenze del “cliente”, si sostituisce una pianificazione focalizzata su una “causa”. Il tecnico è motivato da una profonda convinzione ideologica e si batte per la soluzione di un problema sociale ed economico, cercando l’appoggio politico da parte della comunità (Friedmann, 1992; Peattie, 1994). I percorsi personali e originali di questi pianificatori sono diversi: alcuni traggono origine dalle analisi di classe derivate dalle teorie marxiste (David Harvey e Manuel Castells), altri dalle lotte antirazziste degli USA anni ’50 e ’60, altri dalle necessità di emancipazione femminile (Jacqueline Leavitt). La questione centrale, però, di tutti questi apporti alla pianificazione rimane sempre la stessa: cosa può fare il pianificatore per affrontare queste disuguaglianze? La maggior parte è arrivata ad asserire la necessità di un approccio capace di rafforzare dall’interno i gruppi per i quali si schieravano (empowerment) e che tutto ciò andava praticato al di fuori della burocrazia ufficiale (Peattie 1987, 1994), connotando la pianificazione in questi contesti come processo di mobilitazione sociale. 2.2.2 La pianificazione come mobilitazione sociale Le diverse forme di mobilitazione sociale assegnano un ruolo primario alle pratiche partecipative, sviluppando un modello nel quale l’interazione tra popolazione locale e organi di pianificazione, connotata da un presunto rafforzamento dell’identità collettiva e dall’autodeterminazione politica e sociale dei soggetti coinvolti, assume la forma dell’opposizione e della rivendicazione delle proprie capacità progettuali e di “autogestione”. Sembrano appartenere a questo nuovo modello d’intervento, le (ormai non più tanto) recenti teorie di sviluppo per i paesi in via di sviluppo elaborate in programmi di sostegno finanziati dall’ONU, fondate sulla produzione di soluzioni “dal basso” e sull’incentivo di attività di auto-costruzione e di self-help da parte delle popolazioni locali (Sachs, 1988). 2.2.3 La pianificazione radicale Per concludere, l’obiettivo della pianificazione “radicale”, specie nelle sue forme più recenti, è ristabilire un controllo sociale sulla tecnica a favore delle minoranze emarginate, dando voce alle diverse identità razziali, culturali, di genere sessuale, fornendo nuova importanza al concetto di “differenza”, elemento cardine di un nuovo ideale di pianificazione (Sandercock, 1998). L’identificazione delle modalità con cui riuscire a valorizzare le differenze nei processi di piano, rimane una delle grandi sfide per il prossimo millennio. Questo approccio al Piano ha avuto il grande merito di portare all’attenzione della disciplina le problematiche delle differenziazioni sociali, in un’epoca (definita da alcuni “delle grandi migrazioni”) in cui la presenza crescente di immigrati di varie culture e razze nelle metropoli occidentali materializza sempre più certe esigenze. Infine, va notato come, nonostante l’importanza data nelle principali opere di questi autori alla pratica, rimane, però, piuttosto esiguo il numero delle concrete applicazioni di tale approccio, anche se si può valutare rilevante il valore di “orizzonte” auspicabile, che questo modello detiene nella disciplina pianificatoria. 3. UN APPROCCIO ISTITUZIONALE: LA PIANIFICAZIONE COLLABORATIVA COME FORMA DI PERSUASIONE, RICERCA DEL CONSENSO E MARKETING TERRITORIALE. FORMA DI CONTRATTAZIONE E NEGOZIAZIONE DI INTERESSI DIFFERENTI 3.1 La pianificazione collaborativa come forma di persuasione, propaganda e marketing territoriale (qui considerata secondo una accezione piuttosto negativa) La prospettiva in cui la pianificazione si basa su “fatti” indiscutibili, è stata ormai ampiamente accantonata, mentre è sempre più condivisa l’idea del piano come processo politico e sociale (Throgmorton, 1993), i cui presupposti sono l’esito di tale processo. 3.1.1 La pianificazione come forma di persuasione Throgmorton evidenza il ruolo della pianificazione come lo sforzo di persuadere una certa “audience” in specifici contesti, ad accettare le spiegazioni proposte dai pianificatori, ad abbracciarne i modelli concettuali ispiratori e a seguirne le azioni proposte. Secondo l’autore la retorica è una proprietà intrinseca della pianificazione, pertanto, i pianificatori devono cercare di “creare delle arene in cui facilitare ed incoraggiare i discorsi pubblici capaci di persuadere” il cliente (Throgmorton, 1993). 3.1.2 La pianificazione come propaganda L’attività partecipativa, in quanto coinvolgimento in un’azione di pianificazione dei destinatari e dei potenziali utenti, può anche configurare un uso manipolativo e demagogico della partecipazione da parte di coloro che la promuovono. E’ questo il caso, in taluni esempi, di partecipazione “istituzionalizzata” (Innes, 1995), promossa dalle organizzazioni politiche e amministrative con un atteggiamento di tipo “paternalistico” (Susskind, Eliot, 1983), al fine di legittimare le proprie azioni di governo attraverso una costruzione anticipata del consenso su decisioni costruite in “pochi” e senza l’apporto di chi poi dovrà subirle. In questi casi il conseguimento del consenso tramite l’uso di tecniche di mediazione si porrebbe, quindi, come un artificio retorico predisposto dagli apparati governativi, al fine di dissimulare la propria necessità di legittimazione, con la propaganda di aspetti innovativi che si vorrebbero portatori di un miglioramento della funzione di efficacia della pianificazione. E’ questo il caso di alcuni esempi di utilizzo di modalità partecipative per attuare un coinvolgimento degli abitanti in scelte politicamente già effettuate come in alcuni esempi di localizzazione di attività “indesiderate” (Bobbio, Zeppetella, 1999). 3.1.3 La pianificazione come marketing territoriale Se le scelte relative agli indirizzi programmatici e alle modalità di attuazione di tali indirizzi sono già state effettuate, approcci partecipativi possono essere utilizzati per “vendere” le decisioni delle amministrazioni pubbliche con obiettivi e modalità di azione analoghi a quelli del marketing. Se, infatti, si assumono la figura del planner e dello staff politico-amministrativo come i “produttori” del piano o del progetto (prodotto), gli abitanti sul cui territorio si attuano le scelte come consumatori e il processo di costruzione del piano come un processo di “produzione”, si può assistere a ciò che nella letteratura sul marketing è definito market-oriented thinking. L’enfasi data alla promozione di un’idea, piuttosto che alla descrizione delle opzioni possibili, si traduce spesso nella notevole rilevanza data alla comunicazione nei processi di piano, fornendo ai cittadini documenti in cui sono identificate le idee principali, le strategie, ma più difficilmente le zonizzazioni o la localizzazione delle attività maggiormente inquinanti o quelle che normalmente sono considerate “indesiderate” dagli abitanti e che potrebbero scatenare forme incontrollate di sindrome NIMBY (Not In My Back Yard; non nel mio cortile). E’ questo il caso dell’odierno indirizzo politico assunto dal governo centrale nella produzione energetica attraverso il nucleare (anche se oggi sospeso dopo il recente terremoto del Giappone). 3.2 La pianificazione collaborativa come forma di contrattazione e negoziazione di interessi differenti (secondo una accezione più positiva). In questa forma dell’approccio collaborativo, l’attenzione è posta sul processo decisionale visto come attività di competenza degli organi istituzionali, governativi, che non impongono le proprie politiche ma cercano di costruirle in modo consensuale con la partecipazione di tutti gli attori coinvolti, da quelli istituzionali alle associazioni di volontariato e rappresentative del terzo settore (Woltjer, 2000), in special modo nelle prime fasi del processo quando bisogna definire le linee strategiche, di indirizzo. Esempi evidenti di questo tipo di pianificazione ancora fortemente legato al concetto di democrazia rappresentativa, si ritrovano ad esempio (almeno nelle prime esperienze) nella letteratura olandese sull’argomento, al punto che, secondo Lijphart (1984), questa si può considerare la forma dominante di pianificazione in Olanda. In questo caso i processi che riescono a coinvolgere ampi e rappresentativi gruppi di partecipanti in ambito decisionale sono considerati positivamente ed il ruolo del planner è quello di “facilitatore” e mediatore dei diversi interessi in gioco. Tra i suoi compiti principali vi è quello di contribuire alla risoluzione dei conflitti, di contribuire alla più ampia diffusione delle informazioni tra i diversi attori, mantenendo la sua tradizionale capacità di fornire un adeguato supporto tecnico. In questo contesto sono le istituzioni che si occupano di pianificazione e che cercano di coinvolgere gruppi rappresentativi di abitanti nel processo al di là delle tradizionali forme di consultazione basate su quelle che in Italia si chiamano osservazioni e/o opposizioni al piano, per “utilizzare” la partecipazione nella fase di costruzione delle strategie e di valutazione dell’implementazione sul territorio. Si tratta di praticare una attività che Forester (1989) definisce “costruzione di senso insieme”. 3.2.1 Governance Le istituzioni pubbliche riconoscono una certa autonomia ai diversi attori coinvolti. Alle forme autoritarie e conformative di regolazione si sostituiscono così quelle concertative, cooperative e negoziali tendenzialmente performative (Salone, 1999). Nei rapporti interistituzionali e nel rapporto pubblico-privato si afferma la governance, definita da alcuni come "processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, di istituzioni per il raggiungimento di obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in ambienti frammentati e incerti" (Bagnasco e Le Galès, 1997). Altri definiscono la governance come l’insieme delle “nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica” (Marcou Gérard, Rangeon Francois e Thiebault Jean-Louis). La Commission on global governance, costituita nel 1992 ad opera di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come “la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e di aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali”. Il passaggio dalla concertazione, tipica modalità di gestione dei conflitti degli anni ’70, alla governance, segna il passaggio da una visione in cui gli attori non istituzionali venivano ascoltati a valle del processo decisionale ed il loro ruolo era essenzialmente confinato ad una difesa di interessi di parte che potevano eventualmente essere danneggiati da politiche, programmi e piani costruiti dalle istituzioni, ad una visione in cui i soggetti esterni alle istituzioni sono parte attiva del processo fin dai suoi primi passi. 4. LA PIANIFICAZIONE COLLABORATIVA E INTERATTIVA PER UNA SOCIETA’ IN RETE Entrambe le posizioni di pianificazione partecipata su esposte contribuiscono a delineare gli aspetti principali di quella che Patsy Healey ha definito pianificazione collaborativa che nella interpretazione qui di seguito esposta, si propone di integrare le attenzioni dei pianificatori radicali rivolte alla capacità del piano di “accogliere le differenze”, con l’enfasi, presente nelle esperienze concrete di pianificazione partecipata svolte in un’ottica di “dialettica inclusiva” con le istituzioni (Healey), verso gli aspetti negoziali e comunicativi. In questa prospettiva, quindi, il pianificatore si muove all’interno di quei processi decisionali che hanno come scopo la definizione di strategie, politiche, programmi, piani, progetti, visti sempre più come il risultato di processi collaborativi plurali, multiagente e multi-attore (Barbanente, Borri, 2000; Selicato, 2001; Laurini, 2001). Si tratta di processi che necessitano di larghe forme di consenso sulle scelte da implementare ed esaltano il ruolo della negoziazione come metodo di soluzione dei conflitti insorgenti tra interessi differenti. In questo tipo di cultura della prassi pianificatoria, i processi collaborativi, nel campo della pianificazione territoriale, possono fermarsi ai livelli istituzionali, allargarsi agli esponenti più rappresentativi del mondo sociale ed economico (industriali, rappresentanti sindacali, rappresentanti delle organizzazioni professionali, ecc.), coinvolgere direttamente gli abitanti del territorio al quale la pianificazione si rivolge e in alcuni casi partire da questi ultimi per promuovere azioni nuove o per modificare processi istituzionali non condivisi . Se tra le tipologie su indicate, le prime sono ormai da considerarsi abituali all’interno delle normali dinamiche pianificatorie promosse dalle istituzioni competenti, le ultime segnano la reale novità di questi anni e trovano nell’attuazione delle nuove forme di piano, delineate nei programmi complessi, finanziati attraverso i fondi strutturali dell’Unione Europea, una prima concreta possibilità d’applicazione. Ci si riferisce alle ormai note esperienze dei programmi Urban, dei Progetti Pilota Urbani, delle strategie messe a punto all’interno dell’Agenda 21, implementate a vari livelli territoriali (dal regionale al comunale) e alle diverse forme di programmazione complessa (fra cui: i Programmi Integrati di Intervento, i Programmi di Riqualificazione Urbana, i Programmi di Recupero Urbano, i Contratti di Quartiere, i Programmi di Riqualificazione Urbana e per lo Sviluppo Sostenibile del Territorio, i Progetti Integrati Territoriali, i Progetti Integrati Settoriali, ecc.). A questo tipo di esperienze in cui sono le istituzioni a cercare la partecipazione e il consenso degli abitanti per la definizione di programmi e piani, si affiancano, si integrano e a volte si sovrappongono, le esperienze di pianificazione partecipata “dal basso”, promosse da gruppi di abitanti che, coagulati da interessi e/o tradizioni e/o modi di vivere e abitare comuni, provano a costruire un progetto di territorio aderente alle loro necessità, realizzando anche con il coinvolgimento delle istituzioni un reale processo di empowerment. In questo ultimo caso sembrano essere maggiormente proficue all’efficacia, fra le azioni promosse dagli abitanti, quelle più capaci di integrare al proprio interno le istituzioni o parti di esse come membri della “stessa squadra”, in quello che la Healey chiama dialogo inclusivo (1998), muovendosi in quella che già negli anni ’70 è stata denominata progettazione partecipata negoziale (Sclavi et alii, 2002), che opera nell’interfaccia tra approcci istituzionali e radicali e si propone di trasformare i conflitti in occasioni di innovazione istituzionale e sociale. 4.1 L’approccio istituzionalista 4.1.1 Comunicazione e dialogo L’approccio istituzionalista alla Healey si basa su alcuni presupposti di base. In primo luogo la collaborazione è vista da parte delle istituzioni come una forma di distribuzione del potere, realizzata attraverso la comunicazione e il dialogo. Seguendo le argomentazioni di Habermas (1981) e di Forester (1989, 1999), si assume che i conflitti tipici della pianificazione affrontati con le armi strategiche dell’apprendimento sociale si risolvano meglio e con una effettiva condivisione dei risultati che se si affrontassero con gli strumenti tipici delle grandi battaglie ideologiche. 4.1.2 Conoscenza tecnica e conoscenza pragmatica In secondo luogo, come negli altri approcci alla partecipazione, si enfatizza la rilevanza della conoscenza pragmatica riveniente dalla prassi e dalla conoscenza locale e giornaliera dei luoghi, equiparata alla conoscenza riveniente dagli esperti dei diversi settori disciplinari che lavorano normalmente sul territorio. La conoscenza tecnica e quella locale sono viste come un bagaglio da acquisire nella sua interezza, evitando distorsioni delle diverse prospettive che da esse rivengono, attraverso un uso corretto della comunicazione riprendendo, in questo modo alcune delle posizioni di Shon (1983). 4.1.3 Fiducia e comprensione delle differenze In terzo luogo, la costruzione del consenso è il frutto di un accresciuto livello di informazione, di fiducia negli attori coinvolti nel processo e di una maggiore comprensione delle relazioni esistenti tra i partecipanti, che rappresentano il vero capitale sociale e politico costruito in questi sforzi collaborativi. Inoltre, integrando in una dialettica inclusiva i diversi modi di vivere il territorio dei molteplici attori che lo abitano, portatori di differenti culture, queste pratiche di costruzione del consenso modificano le stesse visioni di territorio, trasformandone le relazioni costitutive e diventando in questo modo potenti forme di mobilitazione sociale. 4.1.3 Etica comunicativa Infine, nella gestione dei conflitti assume un ruolo predominante l’etica comunicativa delineata nei lavori di Habermas, i cui aspetti peculiari rinviano al carattere di trasparenza, sincerità e fiducia attraverso cui si possono instaurare concrete relazioni dialogiche nel processo di piano (tra politici e pianificatori; tra politici, pianificatori e forze sociali ed economiche; tra politici, pianificatori, forze sociali ed economiche e abitanti nelle loro differenti forme associative). Un supporto importante per soddisfare le necessità di comunicazione nei processi decisionali multiagente, migliorando l’accesso e il livello informativo e, quindi, la conoscenza delle questioni rilevanti e delle dinamiche processuali, può essere fornito dalle nuove modalità di utilizzo delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT). Le possibilità crescenti di interazione offerte dalle ICT sembrano fornire gli strumenti per la concreta realizzazione di questo approccio (Shiffer, 1999). Oltre che nel favorire la comunicazione, questi strumenti sembrano poter offrire un rilevante apporto alla costruzione e divulgazione delle informazioni attraverso l’uso aperto delle basi di dati alfanumeriche e/o geografiche, che costituiscono ormai gli elementi cognitivi su cui fondare le ipotesi progettuali di un Piano.