Il Maestro Antonio Di Jorio
Q
uando si parla di uomini illustri atessani risulta naturale il collegamento Atessa - Di Jorio, perché il
Maestro ha dato tanto lustro alla sua terra natia, che è addirittura impossibile scindere il suo nome da
quelli che furono i luoghi della sua genuina ispirazione. «Ho aperto gli occhi alla luce, in Atessa, in una
radiosa mattina del giugno 1890» si legge in una lettera del 1970 indirizzata dal Maestro all’amico Umbertino
De Marco.
Traspaiono da tale frase l’orgoglio di essere atessano e nel contempo quella riverenza e quell’affetto con cui il
figlio si accosta alla materna sua terra.
Di Jorio nasce in Atessa nel 1890 e già dalla primissima infanzia viene attratto dal mondo delle note.
Tale vocazione musicale è da ricercare nell’ambiente atessano di fine secolo XIX e inizio 1900, dove prolificano
le bande di quartiere. In altre parole Atessa non ha un solo complesso bandistico, ma diversi a seconda dei vari
quartieri. Tutti gli atessani (gli artigiani in genere), accanto alla prima attività fonte di vita, coltivano per passione
e per diletto la professione «di lu bandiste» (ossia del musicante) ed anche il piccolo Antonio, a soli 11 anni, trova
la sua strada prima come suonatore di corno e, in un secondo tempo, quale direttore nella banda del Quartiere
di S. Giovanni.
Ed è proprio la banda a permettergli di evadere dall’ambiente paesano e a portarlo ad una lunga tournée artistica
attraverso la Serbia, l’Austria, l’Ungheria, la Russia, Bulgaria, Turchia, etc.
A contatto, sebbene per poco, con tutta questa larga fetta di mondo, si apre nel Maestro una visione più ampia
delle cose e soprattutto della sua dimensione di artista. In fatti egli non può più accontentarsi del ruolo del musicante, ma sente il bisogno di approfondire di più le proprie cognizioni di armonia e contrappunto e quindi si
reca a Napoli, dove a soli 19 anni si diploma presso il Conservatorio S. Pietro a Maiella. Comincia così, accanto
alle esecuzioni pianistiche e alla proficua opera di direttore, quella feconda attività di compositore che lo accom-
pagnerà fino agli ultimi istanti di vita.
A Napoli, la canzone in vernacolo partenopeo contiene ancora tutta quella freschezza che la genuina ispirazione
di artisti quali Tagliaferri, Murolo, Bovio, E. A. Mario, Di Giacomo mantengono ancora inalterata e il Maestro
abruzzese si cimenta in «Primm’ammore», «Giovinezza», «Nun ne sai cchiù» e in tante altre delicate romanze alla
moda.
È anche il periodo questo delle operette «La pecorella smarrita», «Oh, Zozò», «La Traversata dell’Atlantico», che
contribuiscono a rendere popolare il nome di Di Jorio in tutta la Campania e ben presto in tutta Italia, grazie alla
divulgazione della musica dijoriana attraverso il nuovo e miracoloso mezzo del momento: la radio (è del 1933
«La bottega fantastica» diffusa radiofonicamente).
Il successo è enorme, però il Maestro non è del tutto soddisfatto, perché sente di battere delle strade già percorse
da altri e, alla ricerca del nuovo e dell’originale, fa un ritorno alla sua terra, approdando alla Canzone Abruzzese.
È ormai trascorso il tempo della scapigliata vita del Cenacolo napoletano. Anche se conserverà nel cuore il lirismo accorato del Cilea e la melodia penetrante e avvincente del Giordano (soprattutto della «Fedora»), Di Jorio
ritorna alla direzione bandistica e al gusto mai sopito dei colori e dei suoni della terra natia.
Anche F. P. Tosti, dopo il fortunatissimo soggiorno inglese, ritorna in Abruzzo e, accanto alle delicate melodie
rese celebri dall’eccelso Enrico Caruso («Ideale», «Malia», «A vucchella», etc.), compone cori abruzzesi come «Mi
dicon tutti quanti montagnola».
Così pure Di Jorio, con l’omaggio fedele del figlio verso la terra natale, sarà un ricercatore delle antiche usanze
abruzzesi, un descrittore delle vicende e dei sentimenti del la povera gente della regione di Aligi, per tradurli in
note immortali, in melodie toccanti, fresche e zampillanti come le acque pure della nostra regione.
De Titta, Illuminati, Brigiotti e le altre voci della poesia più genuina d’Abruzzo prestano le loro alte espressioni
alla musica dijoriana.
Da tali incontri nascono le prime canzoni abruzzesi e l’idea di una briosa «Maggiolata» ad Ortona a Mare nel
1920, alla quale lega il suo nome anche il M.° Guido Albanese, il noto autore di «Vola, vola vola».
La manifestazione ha un successo tale che altre città abruzzesi imitano l’esempio di Ortona: a Lanciano, nell’aprile del ’22, viene allestita la «Festa delle Canzoni» che però non arriverà mai ai successi ortonesi, anche perché
la commissione frentana, con un giudizio un po’ azzardato, esclude due canzoni di Di Jorio fra le più rinomate
(«Dindò», «A la fonte») e (ironia del caso) il «Vola, vola vola» di Albanese che oggi costituisce un po’ l’inno
nazionale della regione Abruzzo, ma che per i Lancianesi di allora non giungeva «ad affermarsi pienamente nel
carattere popolare…». Grande fortuna invece riscuotono le «Maggiolate atessane», organizzate e concertate dallo
stesso Di Jorio, che, direttore di un lusinghiero complesso vocale, esegue sulla grande Piazza Garibaldi di Atessa
un repertorio ricchissimo di un centinaio di canzoni abruzzesi, fra cui spicca «Paese mè», l’espressione più alta di
amore filiale verso la terra natale.
Tanto per citare qualche canzone: «La serenata di lu ’mbriiche», «Caruline», «Dindò», «La canzone dell’amore»,
«Oilì oilà», «Serenata spassose», «La bbande di zi Nicò», «Scioscia mè», «Luntane cchiù luntane», «Mare nostre»,
etc. Il ragazzo che a 12 anni aveva stupito con le sue composizioni il grande Maestro orsognese Camillo De Nardis, ora è diventato un grosso nome nel campo della musica e, in particolare, nel folklore abruzzese.
«L’Abruzzo non corrotto… eleva il suo bello e accorato canto fra gli svariati canti delle consorelle regioni d’Italia»
attraverso la musica del M.° Di Jorio.
Il successo delle canzoni dijoriane riposa tutto nella semplicità, nella sobrietà del linguaggio musicale, nella ridente fioritura di soavi nenie di sapore pastorale, di sognanti barcarole alternate a briosi saltarelli che presentano
con accorata nostalgia l’Abruzzo bucolico e passionale, la generosa terra dei pastori dannunziani e delle pastorelle
michettiane.
È pur vero che il Maestro ha composto musica dagli aspetti più vari: dall’opera lirica alle marce per banda, dalle
operette ai balletti, dagli inni sacri alle commedie musi cali, dalle canzoni napoletane alla musica sinfonica, ma
per l’Abruzzo e soprattutto per Atessa Di Jorio è il tipico prodotto di casa nostra, che ha dato voce alle piccole
cose, ai sentimenti della gente semplice e laboriosa della terra di Aligi, in altre parole è «il creatore della canzone
abruzzese».
Stabilitosi a Rimini, il Maestro tornerà puntualmente ogni anno nella sua città natia; anzi ogni avvenimento di
grande o di piccola importanza è motivo per vedere giunge re all’improvviso questo venerando signore dai capelli
bianchi a dare luce, calore e note alla sua Atessa.
Io lo ricordo in molte occasioni, quale interprete da lui stesso prescelto per alcune sue composizioni.
Nel 1961, in occasione delle celebrazioni in onore del Convento di Vallaspra di epoca medioevale, Di Jorio
diresse l’operetta «Il frate e i tre montanari»; compose, per la circostanza, la delicata romanza, di reminiscenza
tostiana, «Vallaspra» e altre musiche per cori di sua creazione. Nel ’62 lo si vide tornare a Rimini, mentre il nipote, il compianto M.° Luzietto, ogni settimana partiva da Bologna, per dare ad Atessa il suo valido coro per le
competizioni, a livello regionale, della «Conca d’argento».
Di Jorio, ogni giorno, componeva fiumi di canzoni (ad es. «Lu ’ndindirindì») o riproponeva recenti successi quali
«Nin ci pinzà» o «Mi tè sete» o «Rocc’Antò».
L’ultima fase creatrice del Maestro, famosa con il nome di «periodo romagnolo», è quella della musica ad alto
livello: la lirica («A la fonte», «La Magalda», «L’Inghippo», «La Vergine di Cesarea»).
Ad Atessa, nel 1975, trionfa la Magalda, quadro lirico-pastorale della terra d’Abruzzo, che viene rappresentata
in Piazza Garibaldi unitamente con Cavalleria Rusticana del M.° Mascagni, somma espressione della mentalità e
del cuore siciliano. Due differenti, ma anche parallele, regioni messe a confronto, due concezioni musicali diverse e nel contempo sorelle nel tormentato verismo del Mascagni e nel placido realismo dijoriano.
Le ultime apparizioni del Maestro risalgono alle briose maggiolate atessane rivissute nelle versioni delle «Giovani
Voci Dijoriane» dirette dal Sac. Don Lino De Ritis e, l’ulti ma, in ordine di tempo, in occasione delle celebrazioni dijoriane promosse nel 1980 dall’Amministrazione Comunale di Atessa per il 90° genetliaco del grande
musicista.
Il 12 dicembre 1981, a 91 anni, Di Jorio si allontanava placidamente da questa esistenza terrena, con grande
dolore di quanti lo conobbero personalmente e di tutti quelli che lo apprezzarono e lo amarono attraverso le sue
serene e briose note.
Rimpianto unanime quindi, in quanto Antonio Di Jorio è il cantore non solo di Atessa, ma di un Abruzzo fatto
di montagne ricamate, di prati verdi, di gente semplice ma dotata di grandi sentimenti.
La musica di Di Jorio presenta gli aspetti più vari: è una musica che dà voce ad una tradizione, che parla d’amore, di festa e, il più delle volte, di una gioia malinconica che sa risvegliare quei sentimenti possenti che prima
e sempre sono in noi, ma che riusciamo a scoprire soltanto al suono di quelle note sublimi. La musicalità del
Maestro è già insita in noi e in ogni coro; prima ancora delle parole, è la musica che ti presenta i vecchi e i cari
personaggi della banda atessana di «Zi Nicò» e te li vedi davanti, vivi e palpitanti, Vincenze zi Poppe, Culucce
lu Buffe, ’Ndriucce lu Scicche e gli altri musicanti con gli ottoni in mano, oppure Caruline, la più bella del
quartiere, Giuvi, Concittì… Nelle liriche dijoriane, tu trovi dà una parte la primavera del paesaggio e dall’altra la
primavera delle vita, quella «Giovinezza» che la si vede passare sotto il balcone e la si sente cantare per i mandorli
fioriti. In «Mare Nostre», anche se non riesci a comprendere le parole sommesse, dalla sola musica ti vedi già
davanti l’immensa distesa dell’Adriatico, quell’azzurro orlato di bianca spuma che carezza dolcemente la nostra
ridente terra; in «Dindò» non solo la voce della campana di San Martino, ma di tutte le campane di quel «Paese
mè» tanto caro al Maestro.
L’arte dijoriana sa ritrarre l’ambiente mistico e nel contempo superstizioso d’Abruzzo con la stessa forza drammatica di un D’Annunzio, con la delicata ispirazione di un Tosti e con il cromatismo verista di un Michetti.
Antonio Di Jorio costituisce una tappa obbligata nella storia della musica della nostra regione, perché mai nessuno al pari di lui ha saputo rappresentare i tesori e i suoni della terra d’Abruzzo.
Diego Castronovo
Atessa, 1 luglio 1983
Atessa, 30 maggio 2007
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