Supplemento al n. 4/2005 di Ospedale In
Trimestrale di informazione e divulgazione dell’A.S.O.
Santa Croce Carle di Cuneo
Direttore Responsabile: Laura Mondino
A cura di: Ufficio Qualità Ure Urp
Tel. 0171 642032 - Fax. 0171 699545
Email: [email protected]
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Presentazione
Con piacere presento questo supplemento alla rivista aziendale
«Ospedale In», dedicato alla comunicazione fra medico e paziente. Mi pare una buona occasione per ripensare tutti insieme,
Amministratori e Professionisti, ad alcuni aspetti del Servizio
Sanitario che rischiano di essere travolti da mode o da necessità
contingenti: mode quali l’eccesso di fiducia dei pazienti, e forse dei
medici, nelle tecnologie; necessità quali la quadratura di bilanci
sempre più insidiati da un’inadeguata disponibilità di risorse.
Quanto spazio ha, nella ricerca e nell’applicazione di terapie
che si desiderano sempre più efficaci, la relazione umana?
Dove si trova, per un Ospedale come il nostro, il punto di
equilibrio fra produttività, efficienza e il prendersi cura di tutti i
bisogni del paziente?
Ripensare non significa fare critiche superficiali sull’operato
della supposta controparte, medici contro amministratori e viceversa. Un’Azienda Sanitaria è viva e cresce se esiste, fra le varie funzioni e responsabilità, una dialettica vivace e leale. La Direzione
aziendale non può e non deve, pena l’assoluta impossibilità di
investire in nuove tecnologie, in risorse umane e know how, rinunciare al suo preciso mandato di ricercare anche l’equilibrio di
bilancio. I medici non possono e non devono rinunciare a chiedere, anche insistentemente, le risorse perché sia assicurata e svolta
correttamente ogni prestazione appropriata alla cura dei propri
pazienti: il tempo, prima di tutto, risorsa insostituibile e non recuperabile quando usata male o sprecata.
Sta forse qui, e credo che i professionisti di Cuneo ne siano
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all’altezza, una delle sfide della medicina di oggi: riuscire a concentrare, nel poco tempo che non soltanto la ricerca di efficienza ma
anche tutto il modo di vivere attuale riservano alle relazioni
umane, l’essenzialità di un contatto fra chi chiede assistenza e chi
si prende cura.
Credo si possa raccogliere e vincere la sfida, trovando insieme le
modalità gestionali e organizzative, i percorsi formativi, le competenze professionali a questo necessarie.
Da parte mia, tutto l’appoggio possibile a che la Direzione aziendale faccia la sua parte.
Fulvio Moirano
Direttore Generale
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Introduzione
Tutto è
iniziato con un incontro casuale sulle scale
dell’Ospedale.
Era la primavera del 2001.
O meglio, come sempre accade negli eventi che sembrano
nascere per caso, quell’incontro ha semplicemente acceso il fuoco
che da qualche tempo covava sotto la cenere: il Direttore Generale
aveva chiesto all’Ufficio Qualità, dove già da tempo esisteva un
gruppo di lavoro dedicato, di studiare iniziative di miglioramento
dell’informazione al paziente sul suo stato di salute; gli Oncologi
chiedevano di dividere con altri colleghi la fatica di comunicare cattive notizie ai pazienti; Oncologia ed Ematologia stavano
organizzando Seminari di aggiornamento, fra i quali uno sul tema
della comunicazione, condotto da una Psicologa.
Ero andato a quel Seminario ed ero rimasto colpito: sarebbe stato
bello dare spessore culturale, con competenze specialistiche (ma la
Psicologa sarebbe stata disponibile?), al lavoro richiesto dal
Direttore generale all’Ufficio Qualità.
Qualche giorno dopo, l’incontro. Proprio con un collega
dell’Oncologia: “…facciamo qualcosa insieme?”
Poi richieste ufficiali e desideri di miglioramento, interessi culturali e passione per la propria professione, si erano rapidamente
concretizzati in uno…, due…, tre progetti: in un crescendo di informazione, formazione, condivisione di riflessioni, cammino comune
di esperienze professionali e umane.
E in un crescendo di interrogativi, all’apparenza sempre più
grandi e difficili:
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- quale può essere un modello di comunicazione che non faccia
violenza al malato e che, senza essere falsamente semplificativo,
risulti adeguato alle sue caratteristiche psichiche ed alle sue esigenze del momento?
- come contenere l’ingerenza dei familiari, che a volte vanifica il
desiderio e la necessità del malato di un rapporto fiducioso, perché sincero, con il proprio medico?
- quali comportamenti mettere in atto nei confronti di colleghi
medici che non condividono o addirittura contrastano l’impostazione diagnostica, terapeutica e comunicativa attuata verso un
dato paziente?
- come tollerare e rispettare le oscillazioni del paziente fra le
medicine alternative e quella tradizionale, senza abbandonarlo a
possibili inganni dannosi per la sua salute e senza perdere la propria credibilità e dignità professionale?
L’ascolto degli esperti, il confronto di idee ed esperienze erano
stati in grado di rispondere, in buona parte, ai problemi più grandi.
Così, anche per rendere conto del tanto lavoro fatto, i partecipanti
alla parte più impegnativa del percorso formativo avevano stilato e
sottoscritto un documento riassuntivo di quanto appreso, e già trasformato in un impegno di comportamento.
Per non lasciarlo chiuso in un cassetto, perché diventi spunto di
riflessione per tanti, perché sia approfondito e compreso bene, perché sia migliorato nel tempo con il contributo di altri professionisti,
è nata la pubblicazione che avete in mano: un supplemento alla
rivista dell’ASO Santa Croce Carle.
Un contributo alla riflessione sul tema della comunicazione fra
medico e paziente. Tema eterno, fondante di ogni cura, ineliminabile in qualsiasi tipo di Sistema sanitario possa comparire nella storia delle società umane.
All’inizio, trovate il documento originale, “raccomandazioni
per un percorso di comunicazione” e i nomi dei medici che lo
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hanno sottoscritto. Le “raccomandazioni”, scritte in grassetto, non
hanno un grading di “forza” (non siamo in presenza di una Linea
Guida o di una Revisione sistematica di trials clinici randomizzati),
ma non sono soltanto “opinioni”: la loro fonte è costituita da letteratura autorevole e da precise norme di legge, che trovate citate
in nota e in appendice. Come tutte le raccomandazioni di comportamento rivolte a professionisti, non sono “verità” alle quali
adeguarsi passivamente, ma possono essere un buon punto di riferimento, un traguardo, alto ma raggiungibile, per fare della comunicazione con il paziente un momento di terapia, simile per scopi
e modalità fra tutti i medici del Santa Croce Carle.
Nella seconda parte, quasi ogni punto del documento è stato sviluppato con un’introduzione e con testimonianze di medici e
pazienti. Al termine di ogni punto, sono ripetute in grassetto alcune “raccomandazioni” del documento originale. Anche se è presente una certa sequenza logica, ogni punto può essere letto indipendentemente dagli altri. Qua e là compaiono citazioni di frasi, in
larga parte “rubate” a colloqui reali fra medici e pazienti: molte di
queste rivelano un alto grado di empatia, a testimonianza di quanto i medici del S. Croce siano in grado di prendersi cura dei malati.
A questo punto, non mi resta che suggerire a quanti troveranno
utile questo libretto, per la professione o per la vita, i nomi delle
persone alle quali indirizzare un grazie mentale o, meglio ancora, verbale.
Per primo consentitemi di indicare Guido Cento, il Direttore
dell’Ufficio Qualità, senza il cui entusiasmo “sopra le righe” questa
pubblicazione non sarebbe nata.
Subito dopo, chi ha consentito e approvato che si impegnassero
risorse economiche ed umane dell’Azienda per tutte le iniziative
che, negli anni, si sono sviluppate sul tema della comunicazione: il
dr. Fulvio Moirano, Direttore Generale e la dr.ssa Elide Azzan,
Responsabile dell’OSRU.
Poi: tutti i medici che hanno dato il loro contributo durante il
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percorso di formazione, per la stesura del documento di raccomandazioni o con una delle testimonianze raccolte in questa pubblicazione, i disegnatori Gianfranco Conforti e Marco Merlano e
l’Associazione Donna per Donna.
Ancora, chi ha fatto il lavoro un po’ più nascosto ma assolutamente indispensabile: Laura Mondino, Direttore Responsabile di
“Ospedale In”, che si è sobbarcata la non piccola fatica del coordinamento editoriale.
Infine (ma per ultimo c’è sempre il nome più importante) la
dr.ssa Maura Anfossi, la Psicologa sulle cui spalle si è appoggiata la
realizzazione dei progetti sulla comunicazione medico-paziente,
l’esperta autorevole ed efficace di numerosissimi seminari, incontri, supervisioni, senza la cui competenza anche questa pubblicazione non sarebbe risultata diversa da una semplice conversazione
fra colleghi.
Buona lettura, a tutti.
Lorenzo Dardanelli
Ufficio Qualità
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Raccomandazioni per un percorso
di comunicazione
Documento conclusivo del corso di formazione:
settembre 2004
La relazione con il paziente oncologico
1. La principale funzione
della comunicazione è di tipo terapeutico
Il patrimonio tradizionale della professione medica ha da sempre
considerato la relazione con il malato come parte essenziale della
cura; questo scopo della comunicazione è stato in parte oscurato
nel momento in cui è prevalso l’eccessivo utilizzo della tecnologia
e sono comparse le conflittualità legali.
Tuttavia, anche la giusta tutela legale per il professionista viene
acquisita soltanto come conseguenza di una comunicazione corretta, completa e comprensibile
è opportuno recuperare il concetto e la pratica della comunicazione come prestazione professionale vera e propria,
volta unicamente a favorire il successo delle terapie e a sostituirle quando queste abbiano esaurito le loro possibilità
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2. La comunicazione è un processo e non un evento1
Nello stesso modo in cui nessuna prestazione terapeutica si esaurisce in un gesto isolato, la comunicazione, soprattutto se di “cattive
notizie”, non può raggiungere i suoi scopi se limitata ad uno o
pochi incontri frettolosi e non collegati fra loro
è opportuno elaborare e seguire un percorso comunicativo,
prevedendone responsabilità, modi e tempi, così come viene
fatto per la diagnosi e per la terapia
3. Il modello di comunicazione da mettere in atto
è quello personalizzato sul paziente2
Punti irrinunciabili della comunicazione sono: l’ascolto attivo dei
suoi bisogni e l’empatia verso le sue emozioni di quel momento.3
Ogni persona ha proprio modo di affrontare e vivere la malattia, di
chiedere aiuto e relazionarsi
• è opportuno che il medico conosca le principali modalità
relazionali dei pazienti, e le conseguenti richieste ed attese
• è necessario che il primo atteggiamento del medico sia di
ascolto attivo (dare spazio alle parole ed alle emozioni del
paziente) e di empatia (condivisione controllata delle emozioni) ascolto ed empatia non sono atteggiamenti facili, ma
si possono apprendere
• è opportuno che il medico conosca le aree sulle quali fatica ad essere empatico, per mettere in atto la necessaria
prudenza quando queste vengono richiamate dal paziente
• è necessario che il medico non affronti una comunicazione
di “cattive notizie” senza avere creato spazio mentale e di
tempo e senza strategie comunicative
1)
2)
3)
Girgis A., Sanson-Fisher R. W., Breaking Bad News: Consensus Guidelines for
Medical Pratictioners, JCO, 13, n°9, 1995, p. 2449-56
Brewin T.B., Three Ways of giving bad news, The Lancet, 1991, 337,p. 1207-09
Korones D. N., Taking Time, JCO, 21, n° 17, 2003, p. 3366-67; Anfossi M., Numico
G., Empathy in Doctor Patient Relationship, JCO, 22, n° 11, 2004, p.2258-59
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4. La comunicazione ha le sue tecniche di attuazione 4
Ogni professionista sanitario considera ovvio dover conoscere le
tecniche di effettuazione di un intervento prima di metterlo in atto,
ma pochi medici conoscono e mettono in atto le tecniche necessarie a comunicare efficacemente con il paziente
è necessario che il medico apprenda e sia in grado di mettere in atto le principali tecniche di comunicazione, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento e la gestione delle
emozioni proprie e del paziente, in occasione della trasmissione di “cattive notizie”
5. Il paziente, e non altri,
è il centro della comunicazione e della cura
L’atteggiamento di iperprotezione o addirittura di sostituzione
messo in atto dai parenti di un malato grave è spesso più di danno
che di vantaggio per il malato stesso, che si vede privato di un rapporto basato sulla sincerità, e che quindi, a dispetto delle apparenze, viene lasciato solo di fronte alla malattia e alla morte
• è necessario, anche perché norma di legge, che sia il
paziente a decidere se e chi può partecipare alla relazione con il medico
• è necessario che il medico non si presti a comunicare notizie false, se non come fase transitoria e breve di un percorso che tenda alla verità
4)
Baile W.F. et al., SPIKES_ A Six-Step Protocol for Delivering Bad News, The
Oncologist, 5, 2000, p. 302-311
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6. La persona malata, e non la malattia,
è il centro della comunicazione e della cura
La malattia ha diversi e numerosi aspetti, che necessitano ciascuno
di competenze specifiche; ma il malato è uno solo e ha bisogno e
diritto di avere una figura unitaria di riferimento, per tutta la durata
della malattia
• è necessario che il gruppo di specialisti che concorda il
piano di diagnosi e cura predisponga e condivida un analogo piano per quanto riguarda la comunicazione
• è opportuno che, per quanto possibile organizzativamente, il medico che ha preso in cura un paziente per lungo
tempo o per interventi importanti sia disponibile ad
accompagnarlo anche durante la permanenza in altri
reparti
“M.me Hebuterne”
Modigliani
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7. Il paziente non ha diritto di tradire la fiducia
del medico che si prende cura di lui,
ma ha quello di scegliere altri curanti ed altre terapie,
e anche quello di non curarsi
Una certa tentazione di onnipotenza, la consapevolezza del grado
di validità e di fatica delle proprie prestazioni, la difesa della propria dignità ed identità professionale ed umana sono spesso concause di forte irritazione per il medico che constata la scelta attuata dal
paziente, di altri professionisti, di terapie alternative o di rifiuto delle
cure in nome di una fede religiosa o di una particolare filosofia
di vita
• è opportuno che il medico sia consapevole della propria
fragilità emotiva di fronte a situazioni di conflitto con altri
attori del processo di cura, per non mettere in atto atteggiamenti aggressivi o di abbandono nei confronti del
paziente
• è necessario che il medico, senza sostituirsi al paziente
nelle sue scelte, si accerti che questi ne abbia ben compreso le conseguenze
• è opportuno che il medico dichiari pacatamente, con sincerità e con chiarezza, il proprio disaccordo con le scelte
alternative del paziente, se queste contrastano effettivamente con la sua salute
8. Il medico chiamato a curare malattie gravi
viene inevitabilmente coinvolto
dalle dinamiche emotive suscitate dalle attese
e dalle richieste del paziente
Lo specifico del ruolo sanitario è occuparsi di salute/corpo, bisogni
primari per ogni persona e intimamente connessi alla dimensione
vita-morte. Il paziente investe quindi il medico di aspettative e
richieste di salvezza e, nello stesso tempo, di timori di rovina pro13
prio per opera degli interventi e delle terapie. Da dinamiche emotive così importanti il medico si protegge in vario modo, attivando
meccanismi che vanno dall’ipercoinvolgimento all’assoluto distacco, a seconda anche della personalità e della storia individuale. Lo
stress che tale difesa comunque comporta, può trasformarsi in burnout (sensazione di fatica eccessiva, apatia, assoluta inutilità, fino
all’impossibilità di svolgere il proprio lavoro)
• è necessario che il medico riconosca di essere inevitabilmente toccato dalle emozioni del malato e che sappia individuare che cosa trasferisce, dei suoi problemi personali,
nella relazione con il paziente
• è opportuno che il medico metta in atto alcune strategie per
contrastare i rischi di burn-out:
- sostegno al malato con delicatezza ed empatia, ma senza
una eccessiva identificazione con la sua situazione
- equilibrio fra lavoro e quotidianità non professionale
- frequenti momenti di confronto con i colleghi, per condividere pesi e responsabilità
- eventuali spazi di supervisione con un esperto
9. I timori sulla propria morte
e la sensazione di impotenza suscitati
nel medico dalla morte del paziente,
possono essere affrontati e gestiti
La morte del paziente, già avvenuta o prossima, richiama al medico l’inevitabilità della propria morte e mette in crisi il desiderio di
onnipotenza insito nell’idealizzazione della professione sanitaria.
Tale desiderio, quando esasperato, si esprime nella tendenza all’accanimento diagnostico e terapeutico oppure nell’abbandono del
paziente che non risponde più alle terapie
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• è opportuno che il medico, riconoscendo che l’esperienza
del morire è comune a sé e al malato, cerchi di spostare lo
scopo della propria professione dal “guarire” al “prendersi
cura”
• è opportuno che il medico dia al malato che non risponde
più alle terapie, l’unica speranza ragionevole (che è una
vera speranza): quella di essere assistito fino alla fine da un
“tu” che non mente, che non scappa e che continua ad
essere aperto e disponibile al dialogo e alla comunicazione.5
Firmato in originale dai partecipanti al Corso
Alloisio Antonella
Bramardi Fabio
Cardellicchio Adele
Cento Guido
Dardanelli Lorenzo
Di Costanzo Gianna
Favata Ermanno
Favilla Bruno
Ghezzo Luigi
Granetto Cristina
Lauro Corrado
Marchetti Giuseppe
Mocellini Cristina
Pistone M. Angela
Pulitano’ Raffaella
Russi Elvio
Tomarchio Salvatore
Toselli Luciana
Vassallo Giuseppe
Vettorazzi Lucia Anna
5)
Cfr. Larson D. G., Tobin D. R., End-of-Life Conversation, Evolving Practice and
Theory, JAMA, 284, n° 12 (2000), p. 1573-78
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1. la principale funzione della
comunicazione è di tipo terapeutico
salasso e pere cotte
di Lorenzo Dardanelli
“…la pressione è troppo alta! Domani ritorno per farle un salasso, stia leggera e … niente pere cotte, che sono indigeste!”
Così diceva il medico a mia nonna, golosissima di frutta cotta,
poco più di 50 anni fa.
Io, bambino, e tutta la famiglia, prendevamo atto di quel consiglio, forse con un filo di dubbio che un po’ di frutta cotta avrebbe
potuto vanificare il risultato del salasso, ma senza la più pallida
intenzione di fare diverso da quanto consigliato dal medico.
Il giorno dopo la nonna affrontava il salasso fiduciosa che sarebbe servito, anche perché si era preparata nei minimi particolari
rinunciando persino alle amate pere cotte; e non la turbava il fatto
che il salasso non fosse certo il primo della sua storia clinica di ipertesa, che vedeva le proprie condizioni di salute peggiorare abbastanza velocemente.
Su cosa poggiava la fiducia incondizionata di mia nonna e di
innumerevoli altre nonne e nonni e padri e zie e sorelle, nel proprio
medico? Non certo sui soli successi delle cure, così incostanti e parziali; neanche sulla razionalità dei consigli (non era stato poi così
difficile venire a sapere che il medico odiava la frutta cotta).
Fra paziente e medico sicuramente c’era un enorme squilibrio di
conoscenza, posizione sociale e potere. Ma questo non impediva,
il più delle volte, una relazione di fondo che consentiva di comunicare con facilità. Il medico spesso non disponeva di molte risorse
terapeutiche e, forse neanche sempre consapevolmente, suppliva
con la parola e con il convincimento, dando così forza a rimedi di
incerta utilità.
Nostalgia di una situazione idilliaca? Assolutamente no!!
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Quanti errori e non sempre innocenti come “niente pere cotte
prima di un salasso”, si celavano dietro l’assoluta incontestabilità
delle affermazioni del medico! E quanta ipocrita accondiscendenza a prescrizioni di fatto poi non seguite, era nascosta nella sottomissione del paziente al “dottore”, collocato a volte addirittura più
in alto del prete nella scala gerarchica con al vertice Dio.
Ma…
Qualcosa, in questi cinquant’anni, si è perso. Qualcosa che
riguarda il contatto fra le persone, la comunicazione fra due soggetti, titolari ciascuno di intelligenza, emozioni, desideri, volontà… in una parola, di una “vita”; e non soltanto possessori di un
corpo/macchina da riparare o delle competenze per farlo.
All’interno di quel rapporto così asimmetrico, insieme ad errori ed
assurdità, passava molto spesso la forza per tirare avanti, per combattere la malattia, o addirittura il “male”, nasceva il coraggio per
incontrare la morte con una certa serenità.
Qualcosa, però, si è anche guadagnato, e non poco. Il cittadino
in genere, quindi anche il cittadino malato, è diventato adulto. Si
è reso conto di poter rivendicare più attenzione ai propri desideri e
alle proprie scelte da parte di qualunque “professionista” sia chiamato ad interferire con decisioni vitali. Il rispetto della dignità di
ogni persona ha pervaso, almeno come traguardo a cui tendere,
ogni relazione sociale, compresa quella sanitaria.
Quindi, un bilancio sostanzialmente positivo per l’ultimo mezzo
secolo di rapporti medico-paziente?
Forse non ha senso esprimere un giudizio, provare a dire se era
meglio prima o adesso.
Sta di fatto che oggi, medico e paziente si confrontano su un terreno abbastanza pianeggiante, che consente cioè di stare entrambi alla stessa altezza, ma ingombro di alcuni grossi massi che ostacolano una comunicazione efficace. Il medico che dispone di molte
più risorse tecnologiche rispetto al collega di cinquant’anni fa, è
tentato di credere che queste rendano inutile il colloquio e sfugge
volentieri alla fatica della comunicazione. Il paziente, che non si
sente più succube, è tentato di accampare più diritti di quanti gli
competano e si illude di recuperare con azioni legali quanto gli è
stato sottratto da una mancata comunicazione.
E’ possibile allora fare chiarezza, per suggerire a quanti oggi si
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affacciano alla professione sanitaria, e che quindi non possono
confrontarsi con altri passati scenari, un comportamento professionalmente corretto?
I riferimenti, gli scritti, i documenti (con linguaggio consueto,
anche se inesatto in questo contesto, si potrebbe dire: le Linee
guida) esistono e sono sufficientemente chiari e univoci.
Le Istituzioni hanno formalmente riconosciuto diritti e doveri,
hanno individuato i principi e definito i comportamenti coerenti
con essi.
La Costituzione della Repubblica italiana, la legge 833 di
Riforma sanitaria del ’78, i Decreti legislativi del ’92 e del ’99 di
ulteriori Riforme sanitarie, la Convenzione di Oviedo del Consiglio
d’Europa del ’97, hanno riconosciuto al cittadino il diritto non soltanto alla protezione e alla cura, ma anche e soprattutto all’autodeterminazione e alla consapevole partecipazione al processo terapeutico.
E’ ovvio che a questi diritti corrispondano precisi doveri del professionista sanitario.
Il Codice italiano di Deontologia Medica è particolarmente
chiaro.
Titolo III Rapporti con il cittadino
Art 18 competenza professionale “…nel rilasciare le prescrizioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative il medico deve fornire,
in termini comprensibili e documentati, tutte le idonee informazioni e verificarne, per quanto possibile, la corretta esecuzione…”
Art 30 informazione al cittadino “…il medico, nell’informare il
paziente, dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione,
al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche…”
L’informazione al paziente acquisisce prima di tutto dignità pari
a quella di ogni altra prestazione professionale; ma soprattutto
perde le semplici e formali caratteristiche di “atto dovuto”, quasi
fosse un semplice segnale stradale di pericolo, per acquistare quelle di una comunicazione efficace, che contribuisca all’unico scopo
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della professione sanitaria: la cura e, ove possibile, la guarigione
del paziente.
Comunicare non è un compito facile per il medico di oggi, continuamente pressato da pazienti, familiari, magistrati, produttori di
farmaci e apparecchiature: tutti o quasi con richieste di fare, fare,
fare comunque sempre qualcosa…
E non basta che lo dica il Codice di deontologia, bisogna crederci. Ma chi vuole ritagliarsi uno spazio di riflessione sul “che
cosa ci sto a fare io qui, come medico?” si accorge che, senza una
reale comunicazione con il paziente, senza un contatto fra due soggetti, fra due “vite”, la professione stessa rischia di perdere dignità
e credibilità anche se, ma non è detto, le terapie prescritte risultassero ugualmente efficaci nel recuperare salute e nel migliorare la
qualità di vita.
è opportuno recuperare il concetto e la pratica della
comunicazione come prestazione professionale vera e propria, volta unicamente a favorire il successo delle terapie e a
sostituirle quando queste abbiano esaurito le loro possibilità
Secondo me…
La scuola, il diploma, il lavoro, il compagno della vita, i figli, il
capoufficio, il fine settimana, …... la vita, la vita che scorre, ti trascina e tu… che ti lasci trascinare: tu pedina non necessaria di un
sistema omnicomprensivo esposto alla nullificazione dei tuoi progetti, essere nell’essere senza coscienza della tua… singolarità.
«Quando mi è stato detto che avevo un tumore e dovevo essere
operata e poi fare la chemioterapia e la radioterapia mi sono ribellata, ho pianto, avevo voglia di gridare per lo scempio che sarebbe
successo al mio povero corpo» (Dina 54 anni).
In questo eterno fluire, un giorno il futuro viene messo in discus20
sione.. in forse: si prende
coscienza della propria singolarità. «Camminavo lungo
una strada con due amici,
quando il sole tramontò. Il
cielo si tinse all’improvviso
di rosso sangue e lingue di
fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io
tremavo ancora di terrore.
Sentivo che un grande urlo
infinito pervadeva la natura»
(E. Munch, artista dell’immagine
pittorica
dell’”Urlo”).
Si impone una riflessione
sulla propria situazione nel
mondo da cui nasce una
crisi di identità che genera
“L’urlo” - E. Munch
emozioni dolorose: ansia e
paura per la precarietà; preoccupazione per le scelte e l’iter terapeutico; rabbia per senso di ingiustizia; disperazione per la perdita
immaginata di speranza; angoscia per la morte e la solitudine.
«Sono la prima di una fila che ha scoperto di essere in un vicolo
cieco, i miei cari sono rimasti indietro e non mi capiscono; vedo un
muro alto davanti a me contro cui mi sto spiaccicando... No!… c’è
una porta, una via di fuga, devo imboccarla… ma che succede, sull’uscio di questa porta vedo un tipo in camice bianco. Mi chiede
cosa desidero e dopo 8 secondi mi interrompe, mi parla, mi spiega, ma che cosa vuole spiegarmi! Io sono in pericolo, voglio attraversare quella porta, sento un urlo dentro e non riesco a capire cosa
dice. Signore per favore, non voglio ascoltarla, ma voglio essere
ascoltata! Ho bisogno di sfogare la mia paura, la mia rabbia, ho
troppo rumore dentro… Le sue parole mi arrivano frammentarie…
non le capisco! Cosa? Radioterapia!? Cosa? Chemioterapia!? Cosa?
Perdita di capelli, bruciore… Fermatevi un attimo, datemi 3 minuti
per ascoltarmi… un po’ di pausa per capire dove sono. Sì, grazie!
Finalmente mi ascolta e mentre sfogo, piango, mi rendo conto di
21
non essere sola. Guarda! Non sono in un vicolo cieco. Guarda!
Intorno a me ci sono i parenti, finalmente mi hanno raggiunto nella
mia fuga in avanti… E questo signore in camice bianco? Mi ascolta! Ci sono, esisto ed ho un testimone della mia vita! Signore, mi
dica, come sono finita qui, in questo vicolo?
Un sorriso, mi comprende, mi rassicura toccandomi il polso: che
sollievo! Signore, come posso tirarmi fuori da questa condizione?
Mi spiega, stacca il telefono per dedicarsi a me: si preoccupa per la
mia vita, devo ascoltarlo!
Grazie dottore, il mio urlo si è placato….dica pure, ora l’ascolto, la comprendo.”
Elvio Russi, radioterapista
ndo velocesubito dopo disse, parla
Il medico mi visitò e
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2. La comunicazione è un processo
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In viaggio con il paziente
di Maura Anfossi
La comunicazione con il paziente non si può effettuare in un
unico momento, solenne e drammatico al tempo stesso; come nessuna prestazione terapeutica si esaurisce in un gesto isolato, altrettanto vale per la comunicazione, soprattutto se di “cattive notizie”.
Informare il paziente costituisce infatti un compito impegnativo
e delicato cui è necessario dedicare tempo, attenzione, impegno
mentale, partecipazione umana e disponibilità emotiva per incontrare l’altro come persona malata e non come semplice caso clinico o peggio come “occupante” un letto di degenza, una poltrona di
day hospital o un numero in coda per un esame diagnostico.
Per raggiungere adeguatamente i suoi obiettivi la comunicazione dello stato di salute, e soprattutto la comunicazione dell’insorgenza di una malattia, non si può realizzare in un singolo incontro
e neppure in alcuni frammenti di tempo, frettolosi e abbandonati
all’imprevedibilità del caso.
Da anni ormai la multi-disciplinarietà e la condivisione di intenti sono un elemento cruciale in un iter diagnostico-terapeutico di
qualità; se è all’ordine del giorno concordare la gestione degli atti
medici tra le diverse unità operative, perché non immaginare una
analoga partecipazione per affrontare la comunicazione con il
paziente? Sarebbe auspicabile infatti che gli specialisti si confrontassero tra loro e concordassero un percorso comunicativo coerente e
organico, adeguato al singolo paziente e rispettoso del suo modo di
essere e vivere la malattia.
Una comunicazione efficace è paragonabile ad un viaggio,
magari lungo, tortuoso e faticoso ma sicuro. Due fattori concorrono
nel rendere il viaggio più sicuro per il malato: la chiarezza della
meta, che deve necessariamente essere la verità sulla sua condizio23
ne medica e la presenza di affidabili compagni di viaggio. Il paziente e la sua famiglia non dovrebbero mai trovarsi soli in un territorio
ignoto e minaccioso: accanto a loro dovrebbe sempre esserci una
guida, esperta del luogo impervio da attraversare, una guida capace di ascoltare i loro dubbi e fornire spiegazioni chiare, semplici e
veritiere.
Ovviamente data la complessità di alcune patologie, come la
malattia tumorale, la guida non può essere sempre la stessa dall’inizio alla fine del tragitto. Ogni specialista è come una guida che
accompagna il paziente nel tratto di strada che conosce e lo traghetta fino ad una tappa successiva; là dovrebbe affidarlo alle cure,
mediche ed informative di un altro collega che, con coerenza e
medesima disponibilità e maestria del precedente, si occuperà di
fargli continuare il viaggio e così fino alla fine del percorso. Fine che
può essere la guarigione e il follow up oppure la conclusione
della vita.
E’ comune l’affermazione che, in assenza di diagnosi comprovata, il paziente non deve condividere con l’équipe curante il sospetto diagnostico. Ne consegue che spesso il malato attraversa la lunga
fase dell’iter diagnostico rimanendo all’oscuro fin quando, a diagnosi raggiunta, in un solo istante il verdetto si abbatte implacabile
e definitivo su di lui. La delega ad altri e il continuo procrastinare
della propria responsabilità di comunicare rende più difficile la
comprensione del malato e più complicata l’informazione nelle fasi
successive.
Ogni specialista, dal radiologo che effettua i primi esami e formula un sospetto di patologia, al chirurgo che interviene sulla
malattia fino all’internista e all’oncologo che si occupano della fase
acuta o di quella finale, è chiamato a partecipare e dare il suo contributo (nella misura che gli compete), al percorso comunicativo. La
condivisione di un compito delicato e prezioso da parte di più figure ed in più momenti, collegati tra loro e omogenei nell’intento,
costituisce un vantaggio per entrambi i partner del viaggio. Per il
malato la gradualità della comunicazione costituisce un importante
aiuto per avvicinarsi alla crudezza di una diagnosi pesante, come
quella di un tumore, che sconvolge la quotidianità e ferisce la progettualità e le aspettative di vita. Ricevere in un solo momento tante
informazioni può stordire e attivare una reazione emozionale ecces24
siva e disfunzionale, che allaga il paziente e può rallentare il processo di reazione di fronte alla malattia. In queste condizioni davvero la comunicazione può diventare un evento che traumatizza la
persona e aggiunge angoscia alla già sofferta e dolorosa situazione
fisica.
Al contrario l’essere informati gradualmente del sospetto di una
malattia seria, poi dell’avvenuto accertamento della patologia e in
seguito delle proposte terapeutiche da valutare e infine dell’esito
delle stesse, lascia una possibilità che la realtà sia meno grave della
previsione fatta.
Inoltre rappresenta una preziosa occasione di preparazione della
propria vita personale e di relazione ad affrontare una tappa impegnativa e dolorosa della propria esistenza.
Tale gradualità dell’informazione dà infine al malato e alla famiglia, la sensazione del lavoro che viene compiuto per lui, momento per momento: niente più dell’ignoranza circa le motivazioni di
un esame o di una lunga, inspiegata attesa rendono la persona insicura, ansiosa. In molti casi è proprio l’assenza di un costante sforzo
comunicativo a determinare la spinta, interiore o esterna, a rivolgersi altrove nella speranza di ottenere risposte più rassicuranti.
Uno degli effetti più devastanti e disorientanti della malattia è
proprio l’imprevedibilità con la quale ci colpisce: una pugnalata
alle spalle, uno scherzo cinico della dea bendata, una tegola sulla
testa sono le metafore più frequenti che chi ci è passato usa per
descrivere il tumore.
Una comunicazione graduale, onesta e ben calibrata può in
parte controbilanciare il senso di disorientamento ridando al
paziente una nuova, anche se ridimensionata, possibilità di conoscere e prevedere gli eventi che lo attendono.
La multidisciplinarietà nel percorso comunicativo avvantaggia
anche l’altro partner del viaggio: il medico (Morasso G.,
Tomamichel M., 2005)6, che non si ritrova solo di fronte ad un compito così arduo e spesso indesiderato, vissuto spesso nel ruolo di chi
è responsabile della sventura altrui, con tutte le ricadute psicologiche su cui ci si soffermerà più avanti. Sentirsi in cordata con altri
6)
Morasso G., Tomamichel M., La sofferenza psichica in oncologia. Modalità di intervento, Carocci Faber, 2005
25
colleghi, che precedono e seguono, aiuta a mettere il proprio anello alla catena con maggior competenza, disponibilità e senza un
eccessivo senso di responsabilità. Inoltre la condivisione tra specialisti del compito informativo evita che questo ricada soltanto su chi
sta a valle del percorso, rendendo il suo compito meno impervio e
gravoso.
è opportuno elaborare e seguire un percorso comunicativo,
prevedendone responsabilità, modi e tempi, così come viene
fatto per la diagnosi e per la terapia
IL PARERE DELLO PSICOLOGO
Maura Anfossi
La verità è più economica psicologicamente
E’ importante ricordare che in ogni momento è utile dare le
informazioni disponibili a quel punto del percorso: oltre alle normative deontologiche e ai vincoli legislativi la verità è più “economica” e vantaggiosa anche dal punto di vista psicologico.
La verità infatti:
• Riduce la sensazione di incertezza e confusione in cui il
paziente si trova: durante un complesso iter diagnostico, soprattutto se per una situazione di malessere che si è protratta nel
tempo, qualunque essere umano inizia ad avanzare ipotesi su
quale e quanto grave sia la malattia che lo affligge. L’essere messo
al corrente delle ipotesi più probabili, che i medici stanno sondando, ed in seguito sapere il nome della patologia che lo ha
colpito è più rassicurante che perdersi in angoscianti fantasie
catastrofiche. A volte la nostra mente crea scenari apocalittici ben
più terrificanti della realtà; la sospensione e l’attesa di fronte
all’ignoto acuiscono l’ansia e la sensazione di impotenza, che
possono invece essere contrastate da un’informazione tempesti26
va e comprensibile sulla propria malattia e sulle possibilità terapeutiche.
• Sostiene la collaborazione alle terapie: se il paziente è
consapevole di essere affetto da una patologia seria, di cui conosce l’evoluzione e la cura, è più motivato nel sostenere terapie
impegnative, che possono modificare l’integrità corporea (interventi chirurgici demolitivi con inserimento di stomie) e alterare
transitoriamente la qualità di vita (chemioterapia e radioterapia).
La responsabilità della cura viene condivisa tra medico e
paziente.
• Diminuisce la solitudine e l’isolamento del malato: sente di
avere accanto professionisti esperti e competenti su cui può
contare, a cui può chiedere chiarimenti e da cui riceve informazioni realistiche e veritiere. La distorsione della verità al contrario
isola il paziente, che percepisce una dissonanza tra quanto viene
verbalizzato e quanto gli viene comunicato da altri segnali, quali
la preoccupazione dei famigliari o la reticenza dei medici. Di
fronte ad informazioni che percepisce menzognere, la persona
tende a chiudersi e a diffidare degli altri, “i sani”, che teme
vogliano ingannarlo attraverso false rassicurazioni ed inutili
consolazioni.
• Evita tragiche finzioni: laddove si può parlare onestamente e chiaramente con il paziente è più facile instaurare un rapporto trasparente e collaborativo, che dà sicurezza al malato e allevia medico e famigliari da tragiche e dolorose finzioni, in cui alla
fine tutti sanno, pur facendo finta di non sapere.
27
Secondo me…
Molti anni fa lessi un libro dal titolo a dir poco contraddittorio:
«Ammalarsi fa bene» di G. Abraham e C. Pellegrini.
Durante la mia pratica giornaliera ho pensato molte volte al contenuto di quello scritto e sono sempre più convinta che è vero anche
il contrario, “l’ammalato fa molto bene al medico che lo ascolta”.
Mi piace molto la professione che svolgo, anche con tutte le difficoltà che comporta, soprattutto in questi ultimi anni.
Spesso mi trovo a desiderare di essere una brava caratterista per
poter trasferire sulla carta tutte quelle vite che in questi anni ho
incontrato, per poter dipingere tutte quelle emozioni che l’incontro
ha generato.
Più che una “comunicazione medico-paziente”, preferisco vivere un incontro di due vite, dove i ruoli curante – curato possono
anche “segretamente” capovolgersi.
Il paziente, “l’ammalato” che mi sta di fronte è una strada lunga
una vita che spesso ha solo voglia di dipanarsi di fronte a me. E se
ci pensiamo bene, quante volte lungo questo dipanarsi si sono ricostruiti tratti della nostra stessa strada, aspetti delle nostre stesse
paure e gioie?
Quante volte ci siamo fermati di fronte ad un malato ormai
“umanamente stravolto” nella sua dignità psicofisica, e ci siamo
domandati chi è stato? Cosa ha pensato? Quali desideri, speranze…
ha coltivato? Non è forse velatamente nascosta, in queste domande,
l’incognita del nostro futuro?
Se crediamo in questo incontro di due vite, la comunicazione
medico - paziente diventa una porta aperta verso l’avventura di una
scoperta, e la professionalità del medico la mano tesa al pudore del
paziente.
Flavia Casasso, cardiologa
28
mineo.
12 ottobre. E’ stato ful
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tati un’infiammazione
mio male, si sono inven
gnosi…
se, e ho ignorato la dia
Mi hanno ingannato for
una vita.
adisole: il coraggio di
Milena Belliardo, Fogli
, 2005
Gli specchi di Marsilio
29
disegni di
Laura Bongioanni
30
Secondo me…
In tempi ormai lontani la medicina era circondata da una notevole considerazione al punto che da alcuni veniva considerata “un’arte”. Coloro che vi si dedicavano, erano persone di cultura tendenzialmente orientate alla solidarietà nei confronti del paziente sofferente. Gli strumenti e le risorse disponibili erano poche ed il medico svolgeva prevalentemente un ruolo che definirei al limite magico, come colui che di fronte alle pene della malattia ti sostiene, ti
accompagna, in sostanza ti prende in cura senza veri strumenti
scientifici a disposizione.
La situazione sociale, culturale e scientifica è totalmente cambiata negli ultimi decenni, di conseguenza si sono modificati compiti e
ruoli. La medicina quale scienza sperimentale basa la sua conoscenza attraverso gli strumenti e la tecnologia e si avvale dell’organizzazione quale mezzo per raggiungere l’obiettivo di curare il malato.
Non è più il singolo medico che si confronta con il proprio paziente, ma è un gruppo di specialisti che collaborano ognuno con il proprio compito. Questo modo sicuramente efficiente, non tiene conto
talora dell’assenza di una persona di riferimento il cui compito è
l’ascolto attivo dei bisogni e l’empatia verso le sue emozioni spesso
paurose ed orribili. Tale ascolto sottintende l’attesa di una risposta.
Oggi si sente sempre meno presente l’uomo che comunica con il
suo simile ed all’inverso si celebra il trionfo della tecnica con le sue
meravigliose scoperte che, tuttavia, non risolvono totalmente i bisogni necessari ad affrontare consapevolmente ed in modo equilibrato la propria malattia. E’ sempre più frequente informare il paziente
sull’esito dell’esame strumentale fatto dichiarandolo negativo o
positivo, ma è sempre più raro chiedere per primo al paziente come
sta, come si sente, come ha riposato.
Molto rapidamente la scienza metterà a disposizione altri strumenti che, mi auguro, miglioreranno ancora le possibilità terapeutiche. Tuttavia solo la profonda convinzione che l’uomo ha bisogno
di avere a fianco il proprio simile che combatte con lui potrà migliorare il rapporto oggi parzialmente deteriorato tra medico e paziente.
Enzo Grasso, neurologo
31
alla schiena.
da un dolore fortissimo
Nel sonno sono colto
Lara. Penso
ei movimenti svegliano
Mi giro nel letto e i mi
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riportare il suo sguardo
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Parla di testicolo, ren
si ferma.
pausa, di cancro. Tutto
ncro che io
ie d’elefante ovvero il ca
Lorenzo Purini, Orecch
99
10). Torchio Orafo, 19
ho sconfitto. (pag. 8 –
32
3. Il Modello di comunicazione
più efficace è quello centrato sul paziente,
non sul medico!!!
Vuoi fidarti di me?
di Maura Anfossi
«Il dottor Tizio? Mi dice sempre stia tranquillo, ma non mi spiega niente...»
«Il dottor Caio? Un cane, tanto è cinico quando parla...»
«Il dottor Sempronio? Nato per fare il medico, tanto è umano e
competente»
Che cosa differenzia Tizio, Caio e Sempronio? Perché Caio è
tanto inviso e Sempronio tanto amato dalle due signore che cercano di far passare il tempo mentre aspettano che le porte dell’ascensore si aprano? Ovviamente intervengono una molteplicità di fattori, ma se isoliamo la dimensione comunicativa ci sono certamente
stili e modalità differenti, alcuni più efficaci altri decisamente meno.
Ogni medico fa storia a sé, così come ogni paziente è unico, per
cui ogni incontro tra loro è segnato dalla loro peculiarità e dal
momento contingente in cui avviene. Nonostante questo è possibile individuare elementi ricorrenti.
Una disamina della letteratura (Girgis, Sanson-Fisher 1995) evidenzia come per la trasmissione di notizie negative siano individuabili tre modelli comunicativi: non disclosure, full disclosure e person centered. Il termine inglese “bad news” viene utilizzato per tutte
quelle notizie mediche che colpiscono in modo severo l’immagine
del futuro della persona: sono informazioni mediche negative e
dolorose perchè incidono sulla qualità di vita e soprattutto sulla
sopravvivenza.
L’atteggiamento relazionale che il medico tiene verso il paziente
è condizionato dal clima culturale, dalla politica sanitaria e dall’evoluzione dei codici etico-deontologici, pertanto anche gli stili e
33
gli obiettivi informativi ritenuti di competenza del medico sono
cambiati nel tempo ed infatti i tre modelli comunicativi si sono sviluppati in successione cronologica.
“Non si preoccupi, ci penso io”
NON DISCLOSURE (non disvelamento della verità): è il modello comunicativo che storicamente è prevalso e corrisponde all’occultamento della verità al malato. E’ andato di pari passo con l’idea
del medico come detentore del potere sulla salute dei cittadini, di
cui dal punto di vista sanitario può disporre liberamente, ovviamente in scienza e coscienza. “Non si preoccupi, ci penso io” è il ritornello che più frequentemente accompagnava e metteva a tacere le
timide domande del paziente.
Merlano
34
E’ un modello paternalistico che si basa su tre ipotesi di fondo:
1. il medico sa valutare cosa è bene che il paziente sappia e decide quali informazioni dare e quali notizie occultare
2. i pazienti non vogliono ricevere notizie dolorose
3. pertanto devono essere protetti dalla verità
Questa modalità comunicativa, che in passato rispondeva bene
alle esigenze di una popolazione totalmente disinformata in ambito
medico e pertanto bisognosa e desiderosa di affidarsi ciecamente
nelle mani dell’esperto, è andata in crisi nel momento in cui è stata
valorizzata (anche nelle norme deontologiche e dal legislatore), la
libertà di scelta circa la propria salute. Una comunicazione gestita
dall’alto, che priva il cittadino della possibilità di sapere e quindi di
decidere, rappresenta una violazione dei diritti umani e ad oggi è
parimenti una violazione del Codice deontologico dei medici e
della Costituzione stessa.
Oltre alla dimensione etica e normativa, questo modello comunicativo, che possiamo definire paternalistico e autoritario, nel
senso che un qualcuno, il medico, può decidere per qualcun’altro,
il paziente, ha altre controindicazioni. La letteratura evidenzia
come i presupposti su cui si fonda non sono scientificamente provati, anzi spesso sono risultati fallaci. Gli studi (Girgis Sanson – Fisher
1995, Benbassat, Pilpel, Tidhar 1998, Baile e al., 2000)7 dimostrano
che solo raramente i medici sono abili nel prevedere i desideri informativi del malato e capaci di interpretare la loro volontà in ambito
conoscitivo e terapeutico, anzi sottostimano il bisogno di informazioni del malato. Il 71% di pazienti intervistati in uno studio (Young
Ho Yun e al. 2004)8 sulle attitudini verso l’informazione in caso di
malattia avanzata afferma che avrebbe voluto essere informato tempestivamente sulla diagnosi ed anche sulle condizioni di terminalità, contraddicendo l’ipotesi che ai pazienti debbano essere risparmiate le “bad news”.
Anche dal punto di vista psicologico, come sintetizzato a pagina
7)
8)
Benbassat J., Pilpel D., Tidhar M., Patients’ preferences for participation in clinical
decision-making, Behav Med 1998,24, 81-88
Young Ho Yun et al., The attitudes of cancer patients and their families toward the
discolosure of terminal illness, JCO vol. 22, 2, 2004, 307-14
35
26 (il parere dello psicologo, n.d.r.), è più economica e vantaggiosa
per il paziente, ma anche per il medico, un’informazione chiara,
tempestiva e veritiera. L’occultamento “verbale” della verità crea un
aumento dello stress e delle reazioni emotive disfunzionali perché
pone la persona in una condizione di incoerenza di dati, fonte di
tensione e insicurezza. Abbiamo appositamente qualificato l’occultamento della verità con l’aggettivo “verbale” perché se a parole
l’informazione può essere distorta, addolcita, sottratta, non altrettanto si può fare con gli altri elementi che intervengono nella relazione tra esseri umani. Spesso infatti una frase volutamente, ma falsamente rassicurante è accompagnata da un tono di voce esitante,
dall’impossibilità di guardare negli occhi l’interlocutore o dal bisogno di sorvolare su domande e perplessità del paziente. A ciò si
aggiungono altri due fattori “confondenti” e disorientanti: la presenza nei famigliari di ansia, preoccupazione ed altre emozioni intense, assolutamente discordi con mendaci informazioni tranquillizzanti e la necessità di terapie pesanti che paiono non sortire effetto alcuno. Al di là del livello cognitivo, ogni essere umano ha una
conoscenza emozionale e organica circa il proprio stato di salute:
come credere e dare fiducia a chi ci dice che tutto va bene quando
il nostro corpo, attraverso dolore, debolezza ed alti sintomi, grida
un messaggio opposto?
L’evoluzione culturale e normativa (vedi cap. 1), che ha portato
alla valorizzazione del malato come cittadino con libero arbitrio e
quindi degno di rispetto e capacità decisionale e, in parallelo le
riflessioni sui limiti del modello della “non disclosure”, hanno portato, soprattutto nel mondo anglossassone a partire dagli anni ’70‘80, all’affermazione di una modalità comunicativa opposta alla
precedente, definita “full disclosure”. Uno studio americano fatto a
fine anni ’70 (Novack, Plumer, Smith et al., 1979),9 evidenziava
come in quel periodo il 98% degli specialisti intervistati si dichiarasse favorevole alla comunicazione della diagnosi a pazienti oncologici, ribaltando i risultati di un’indagine fatta nel 1961 in cui il
90% dei medici si dichiarava contrario a parlare di tumore ai propri
pazienti, perché ritenuto dannoso e crudele.
9)
Novack DH, Plumer R., Smith RH et al., Changes in physicians’ attitudes toward
telling the cancer patient. JAMA 241:897-900, 1979
36
“Morirà presto e di una morte orribile!”
LA FULL DISCLOSURE è un modello comunicativo che consiste
essenzialmente nel dare tutte le informazioni in modo dettagliato,
appena sono disponibili, a tutti pazienti, con un alto grado di specificità medica e con un linguaggio tecnico. Si basa su ipotesi opposte al modello precedente:
• il diritto all’informazione è inviolabile: per cui ogni cittadino
deve necessariamente e tempestivamente sapere tutto circa la
propria salute per decidere al meglio sulla propria vita
• tutti i pazienti vogliono sempre essere informati in dettaglio sulla
loro condizione medica
• le persone sono tutte uguali, per cui il diritto all’informazione va
declinato in modo equo e omogeneo con tutti i pazienti
Anche se rispettoso dei diritti del cittadino e rispondente alle normative sanitarie in ambito informativo, è ben intuibile come anche
questo modello comunicativo presenti controindicazioni. Seppur di
segno opposto rispetto al precedente modello, il completo disvelamento della verità in modo aprioristico pone vincoli e assunti rigidi, che rischiano di ostacolare la dimensione umana ed emozionale dell’incontro tra medico e paziente o la famiglia (come nell’episodio, realmente accaduto, raffigurato nella vignetta).
Merlano
37
E’ fallace e controintuitivo il presupposto che ci si possa e debba
comportare in modo uguale, dal punto di vista informativo e relazionale, con tutti i pazienti perché ogni persona è diversa ed è portatrice di una sua singolarità in termini di reazione psicologica alla
malattia, di differenti desideri-bisogni conoscitivi e risorse a cui
attingere.
Inoltre l’assunto secondo il quale tutti i pazienti vogliono sapere
tutto sulla propria malattia è contraddetto da quella percentuale di
pazienti che si proteggono da un dolore, per loro insostenibile, utilizzando meccanismi di difesa centrati sulla negazione della malattia (Costantini, Biondi, Grassi, 1995). Ci sono persone che, per la
loro storia, il modo di approcciarsi alla vita, o perché si trovano in
un momento particolarmente critico della loro esistenza, non riescono ad affrontare la malattia, se non negandola. La possibilità di
prendere le distanze dalla realtà della loro patologia, sminuendone
i rischi o addirittura cancellandone l’esistenza con laboriosi stratagemmi mentali, li aiuta a non essere allagati dal dolore. Per queste
persone l’essere obbligati ad ascoltare informazioni che non desiderano e dalle quali deliberatamente decidono di sottrarsi può rappresentare una costrizione; in questi casi quello che dovrebbe essere
un diritto può trasformarsi in uno spiacevole incidente da evitare e
dimenticare al più presto attingendo alle difese dell’oblio.
“Puoi fidarti di me, che cammino accanto a te?”
Per incontrare al meglio i bisogni del singolo paziente rispondendo adeguatamente ai suoi desideri informativi, intesi come quanto,
quando e che cosa desidera sapere circa la sua malattia, il modello
comunicativo più adeguato è quello “PERSON CENTERED”.
Questa modalità comunicativa valorizza e rispetta l’unicità di
ogni persona e il suo modo specifico e singolare di vivere la malattia. Il raggiungimento di questo obiettivo è frutto di una negoziazione collaborativa e continuativa tra medico e paziente, che richiede
fiducia reciproca, tempo e disponibilità mentale.
Si basa sui seguenti assunti:
38
1. Ogni paziente ha tempi e bisogni differenti ed un suo personale
stile di affrontare le situazioni dolorose e stressanti, definito stile
di coping
2. la comunicazione è un processo e non si può esaurire in un singolo evento, perché per comprendere ed elaborare le “bad
news” ci vuole tempo
3. la relazione continuativa con l’equipe curante è fondamentale
nella gestione del percorso comunicativo: è importante che il
paziente conosca e si fidi di chi si occupa di lui e si senta libero
di poter porre domande e dubbi.
Il modello comunicativo centrato sulla persona, in letteratura
(Baile e al. 2000, Girgis Sanson–Fisher 1995, Larson 2000, Lovera
1999) viene indicato come il più adeguato e soddisfacente sia nel
rispondere ai bisogni del paziente, sia nel favorire una relazione più
collaborativa con l’equipe. Creare un ambiente confortevole in cui
dialogare, rispondere ai desideri informativi del paziente, accogliere i suoi vissuti e lasciargli la possibilità di una seconda chance, di
altri momenti informativi quando, in preda all’ansia o allo shock,
non ha compreso le parole del medico, induce un buon livello di
soddisfazione (Ptacek , Ptacek 2001)10 e ha una ricaduta positiva
nell’attivare un atteggiamento accettante e combattivo verso la
malattia. Ma i benefici non sono solo per il paziente, anche il medico può trarre giovamento da un rapporto chiaro, trasparente e leale.
Al contrario menzogna o durezza pongono il medico in una condizione di scacco, difesa o responsabilizzazione eccessiva, in cui si
sta scomodi e da cui il medico alla lunga cerca di proteggersi limitando o evitando il contatto con il malato.
Il modello di comunicazione centrato sul paziente non presenta controindicazioni specifiche, anche se è il più complesso da realizzare perché richiede dispendio di tempo, investimento di energia
e capacità di cogliere le singolarità di ogni malato. Ma come individuare i bisogni di quella particolare persona?
Sono utili sensibilità, competenza e conoscenze specifiche per
decodificare tempestivamente e correttamente i desideri del pazien10)
Ptacek JT, Ptacek JJ, Patients’ perception of receiving bad news about cancer,
JCO, vol 19, N. 21,2001, 4160-64
39
te e per sintonizzarsi con il suo modo di vivere la malattia. L’ascolto
attivo e l’empatia verso le emozioni del paziente sono il centro di
questa terza strategia comunicativa che si fonda:
• sulla fiducia nel paziente come soggetto attivo, capace di operare scelte adeguate per la sua salute e degno di essere preso seriamente in considerazione quando parla dei suoi sintomi in quanto miglior esperto di se stesso (Zucconi, Howell 2003).
Significativi i dati di uno studio (Beckman 1994)11 dal quale
emerge come purtroppo il medico tende a interrompere il
paziente dopo appena 18 secondi in quanto teme che la persona divaghi e gli faccia perder tempo; in realtà lo stesso studio
dimostra come, se la persona è libera di parlare dà molte informazioni significative e mediamente non parla più di 1 minuto e
mai più di 3 consecutivi.
• sulla capacità del medico di cogliere il punto di vista del paziente, i suoi bisogni informativi, di riconoscere e dare un nome ai
suoi vissuti, di accettare la persona come tale e di legittimare il
senso soggettivo e unico che egli dà alla sua esperienza.
Ovviamente se manca la capacità di comprendere e verificare le
aspettative del paziente, questo modello rischia a sua volta di diventare paternalistico e da modello centrato sui bisogni del paziente si
trasforma in un modello centrato sulle interpretazioni e presupposizioni del medico!
• è necessario che il primo atteggiamento del medico sia di
ascolto attivo (dare spazio alle parole ed alle emozioni del
paziente) e di empatia (condivisione controllata delle emozioni) ascolto ed empatia non sono atteggiamenti facili, ma
si possono apprendere
• è opportuno che il medico conosca le aree sulle quali fatica ad essere empatico, per mettere in atto la necessaria
prudenza quando queste vengono richiamate dal paziente
• è necessario che il medico non affronti una comunicazione
di “cattive notizie” senza avere creato spazio mentale e di
tempo e senza strategie comunicative
11)
Beckman HB, Markakis KM, Suchman AL, The doctor-patient relation-ship and
Malpractice, Arch. Intern. Med 1994, 272, 1365-70
40
IL PARERE DELLO PSICOLOGO
Maura Anfossi
La laurea di Cecy ovvero dell’empatia
David Korones12), oncologo pediatra, viene invitato alla laurea di Cecy, giovane paziente seguita per anni per il suo tumore
e le successive recidive. Lacerato tra il desiderio di entrare anche
solo per un giorno nella vita reale di questa giovane donna, così
coraggiosa nel combattere la malattia, e gli impegni della vita
famigliare già dolorosamente relegata nei fine settimana decide
che la laurea di Cecy non è un evento qualunque, pertanto non
può mancare. Quella diventa un’occasione preziosa per riflettere ed ecco le sue considerazione al ritorno dalla trasferta:
“…Non posso partecipare ad ogni evento significativo di
ogni paziente. Ma Cecy mi ha ricordato che ciò che dobbiamo
fare è condividere le loro gioie e i trionfi.Tutto ciò che dobbiamo fare è afferrare gli indizi che ci sono offerti nei nostri sterili
ambulatori. Tutto ciò che dobbiamo fare è prenderci il tempo
per chiedere ai nostri pazienti che cosa stanno leggendo, quali
CD ascoltano, che cosa fanno nei week-end, quali shows televisivi guardano: prenderci il tempo di guardare i loro dipinti da
dilettanti e chiedere loro cosa faranno dopo (la visita da noi).
Dovremmo condividere i trionfi dei nostri pazienti. Non è
necessario che sia un diploma di laurea. Qualche volta è il riuscire nuovamente a camminare. Qualche volta è riuscire finalmente
a tornare a scuola. Qualche volta è solo il vivere un giorno in più.
Per ciascun paziente di cui ci occupiamo quel trionfo è un unico
dono condiviso e impacchettato in modo speciale per noi. E
persino se siamo troppo occupati e siamo preoccupati che questo ci sottragga troppo del nostro tempo, una parte del nostro
essere medici dei nostri pazienti è di aprire il regalo offertoci e
di assaporarne il magico contenuto.”
12) Korones D., Taking time, JCO, vol. 21, n. 17, 2003, pp. 3366-3367
41
Non credo si riescano a trovare parole più efficaci per descrivere
ed esemplificare la nozione di empatia e la modalità con cui si può
attuare nella relazione medico paziente. È a partire da questa disposizione attenta alla soggettività altrui in tutte le sue sfumature, che si
può articolare una comunicazione efficace, davvero centrata sul
paziente e rispondente ai bisogni di ogni singola persona.
L’empatia, che viene definita come la capacità di mettersi nei
panni dell’altro e di vedere le cose dal suo punto di vista, è stata a
lungo studiata nelle scienze umane. In Psicologia i primi studi sull’empatia sono stati effettuati, in ambito educativo e clinico, da Carl
Rogers che nel 1957 pubblica il 1° saggio che sintetizza i risultati
delle sue ricerche in cui emerge come l’empatia sia una delle condizioni necessarie per instaurare una relazione di aiuto funzionale. A
partire dalle prime osservazioni e studi di Rogers, cui sono seguite in
ambito psicoanalitico le riflessioni di Kohut (1978), il concetto di
empatia ha assunto un ruolo sempre maggiore nella teorizzazione e
nella sperimentazione psicologica e psicoterapeutica.
In ambito Psiconcologico è stato pubblicato da poco, lo studio
di Razavi et al. (2003) che conferma come la caratteristica peculiare
delle comunicazioni medico-paziente efficaci, sia l’alta frequenza di
frasi empatiche. Uno dei protocolli di comunicazioni di notizie
negative più conosciuto, Spikes (cfr cap 4), individua nell’empatia
uno dei sei passaggi fondamentali.
Empatia è lasciar vibrare le emozioni dell’altro dentro di sé “come
se” fossero proprie, ma mantenendo chiara la percezione del “come
se”. Empatia non è perdersi nel mondo interno dell’altro e neanche
farsi carico dei suoi vissuti e dei suoi problemi; empatia è accoglierlo nella sua esperienza soggettiva senza giudicarlo; empatia è riconoscere e dare un nome a tutte le sfumature del mondo emozionale
dell’altro, dalla rabbia alla gioia, dal dolore alla soddisfazione, dalla
paura all’angoscia.
Per questo è così difficile essere empatici perché a volte cozza
con alcune nostre altre naturali tendenze: a dare giudizi, ad assimilare l’esperienza altrui alla nostra, a rassicurare o al contrario a perderci e farsi carico eccessivamente del mondo emozionale ed esperienziale dell’altro. Ma ciò che serve non è prendere il suo posto o vive42
re al suo posto, ma capire il modo soggettivo con il quale il paziente decodifica gli eventi e quali significati attribuisce a ciò che vive, in
particolare la sua malattia ed è questo che aiuta ad essere più efficaci nell’ascoltarlo e aiutarlo.
Impegnarsi nell’ascolto del paziente è possibile anche quando si
è oberati di lavoro perché l’empatia non sottrae tempo alla routine,
non è un qualcosa in più da fare, ma semplicemente la disposizione
interiore con la quale ci si avvicina al paziente. È un’abilità che si può
apprendere con appositi training formativi.
Alcuni suggerimenti concreti per tradurre nella comunicazione una disposizione empatica e di ascolto attivo:
• dare spazio al malato, interrompendolo solo quando necessario
• incoraggiarlo ad esprimere dubbi, pensieri, ma anche timori, ed emozioni circa la malattia e i trattamenti
• cercare insieme di cogliere l’emozione più intensa e provare a capirne la causa; es: che cosa la spaventa di più?
Perché?
• tollerare brevi pause di silenzio
• fare domande aperte
• focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti e aiutare il paziente
a scegliere le sue priorità anche nel momento contingente di
dialogo con il medico
• evitare false rassicurazioni e inutili drammatizzazioni
• evitare di svalutare o sminuire l’intensità delle emozioni del
paziente
• evitare spiegazioni troppo teoriche o incoraggiamenti
eccessivi sull’utilità di reagire alla malattia
43
COSI?
Paziente: Sono completamente spiazzato, anche data la
mia età
Medico: Nessuno può considerarsi a priori disponibile ad
affrontare un intervento chirurgico, ma ricordi che lei nella sfortuna è fortunato
Paziente: Subirò delle alterazioni della mia qualità di vita?
Medico: Si, ma mica tutti siamo destinati ad essere Mennea
Paziente: Ho paura che sia un tumore
Medico: E una neoplasia, un tumore, questo potrebbe spaventarla, ma non c’è motivo
Paziente: Sono spaventata
Medico: Le consiglio di avere fiducia
Lei deve vedere un passo alla volta
Paziente: Ci sono dei rischi?
Medico: Ma quale pratica in medicina è esente da rischi?
La certezza in medicina non esiste, macroscopicamente è
limitato
La certezza mica la posso dare a nessuno
Paziente: Una stomia? E’ disgustoso
Medico: Non, non è disgustoso, è pieno di gente in giro che
ha questo problema e lei neanche lo immagina, le notizie catastrofiche sono altre
44
OPPURE È MEGLIO COSÌ?
Paziente: Io non voglio questa menomazione
Medico: Capisco la sua reazione
Paziente: Mi sta dicendo che è un tumore?
Medico: Mi dispiace darle questa notizia così brutalmente,
ma credo sia importante che lei sia informato
Paziente: Sono spiazzato e disorientato
Medico: Chiunque si sente dare questa notizia reagisce
come lei, per questo le consiglio di valutare con serietà e fiducia la proposta terapeutica e di prendersi il suo tempo per
decidere.
È naturale e capisco quanto la situazione sia pesante
Paziente: mi vengono tutta una serie di turbamenti…
Medico: è una situazione che comprendiamo benissimo
45
Secondo me…
Non posso dimenticarmi un’affermazione di un amico che ad
una riunione di medici ed infermieri, alcuni anni fa, con una certa
veemenza affermò che la famosa regola del “cliente” valeva anche
per il paziente13. Era un periodo in cui riflettevo proprio su questo:
si può pensare che il paziente abbia sempre ragione? Quelle parole
mi hanno in qualche modo chiarito e risposto, positivamente.
Giorgio Nova, internista
13)
Mi piace riportare quelle parole perché ebbero in me una grossa risonanza:
“… non si è ancora capito che per me il paziente ha sempre ragione? Tutto il mio
comportamento è stato sempre in questa direzione ed ispirato da questo criterio…”. Posso garantire e chiunque lo conosca lo sa, che questo è vero e non era
assolutamente un vanto.
46
Secondo me…
Quello del medico è un bel mestiere.
Anche oggi, pur rischiando di esser soffocato dall’informatica,
dalle alte tecnologie e dalla medicina difensiva, conserva tutta la
sua profonda carica di umanità e vive coi, dei e nei sentimenti.
Gioia, disperazione, trepidazione, paura, angoscia, gratitudine,
incertezza, fragilità, senso di inadeguatezza, dubbio tormentato,
disponibilità, rabbia, speranza….
Ho provato a rileggere i miei 30 anni di professione per riorganizzare le idee e poter scrivere queste righe ed ho cercato di guardarmi dentro.
Tanti anni fa, ho iniziato con le certezze di chi, profondamente
inesperto, con un pezzo di carta in mano si riteneva autorizzato a
47
doversi sentire capace di sapere cosa fosse bene per l’altro, il suo
paziente, perché il mandato era di agire “secondo scienza e
coscienza”.
L’educazione ricevuta da adolescente ed il vestitino da crociato
mi hanno guidato per diversi anni..
Crescendo, palestrato dalla vita in Condotta e dagli anni di corsia, sono passato alla fase del portare sulle spalle gli zaini degli altri,
spesso caricandomi della loro sofferenza e sostituendomi a loro fino
a decidere per e non con loro.
Pochi i successi (qualche cuore in arresto che decide di ripartire
e qualche nefropatico trapiantato) e tanti insuccessi.
Ma la morte è un insuccesso o è, anche se ultimo atto, parte della
vita stessa come la nascita, primo atto?
Oggi il peso degli anni che passano, mi rende cosciente dell’esiguità del mio sapere, saper fare e soprattutto saper essere. Per questo “tifo” per l’ascolto attivo e personalizzato che è parte sostanziale della prestazione medica.
L’aver provato la condizione di paziente non è indispensabile a
comprendere il concetto di empatia: «se fossi al suo posto, come mi
piacerebbe essere trattato»?, ma potrebbe essere utile per migliorare l’attenzione e la voglia di capire senza tentare di sostituirsi all’altro.
Se “aver cultura significa trascendere la propria particolarità per
diventare capaci di pensare i punti di vista dell’altro” (F.W. Hegel),
prendersi cura potrebbe significare saper dare all’altro la certezza di
sentirsi capito ed accettato nel profondo cambiamento che la malattia potrebbe aver determinato nel suo essere, facendolo passare
attraverso fasi diverse e contrastanti (rabbia, ribellione, rassegnazione che non necessariamente diventa accettazione della nuova condizione)..
L’ascolto può essere superficiale, a tratti o empatico.
Quello empatico fa sentire all’altro, che non è solo.
Guido Cento, nefrologo, Uff. Qualità
48
broadecola massa sul seno “fi
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e
Ciò ch
.
come e con chi curarmi
Ho scelto di guarire.
Ibis Donatella Bargis,
MIR Edizioni, 2003
49
4. La comunicazione
ha le sue tecniche di attuazione
metafore belliche
di Maura Anfossi
Ogni professionista sanitario considera ovvio dover conoscere le
tecniche di effettuazione di un intervento prima di metterlo in atto,
ma pochi medici conoscono e mettono in atto le tecniche necessarie a comunicare efficacemente con il paziente. Nella nostra
Azienda su un campione di 119 specialisti, intervistati in occasione
di un percorso formativo nelle unità operative chirurgiche e internistiche, soltanto il 19% dichiara di aver ricevuto una formazione specifica sulle tecniche di comunicazione, mentre il 37% dichiara di
conoscere delle tecniche per comunicare notizie negative, ma
senza una strategia globale.
La maggior parte di loro (88%) dichiara che riterrebbe importante una formazione specifica, che come si sa non è generalmente
prevista nei percorsi universitari e di specializzazione, per conoscere le tecniche della comunicazione da applicare nella trasmissione
di notizie negative.
Comunicare notizie che minacciano le aspettative del paziente e
colpiscono la sua progettualità sul futuro viene universalmente percepito come stressante, impegnativo e doloroso, tant’è che a volte i
medici tendono a sottrarsi. Assolvere il compito di informare il
paziente su una diagnosi di cancro o di un'altra malattia con esito
severo, sulla presenza di una recidiva o sulla sospensione delle
cure, viene frequentemente descritto con metafore belliche: “accendere una miccia”, “far esplodere una bomba”, “dare una botta in
testa”. Metafore che evidenziano la dimensione di sofferenza e di
responsabilità che lo specialista si sente addosso nel momento in
cui si assume tale impegno.
E’ naturale che a forza di dare notizie negative il medico venga
assalito da emozioni allaganti, che cerca di gestire come può, a
50
volte divenendo vittima del burn out, la cosiddetta sindrome dell’operatore sanitario “scoppiato”, esaurito o al contrario barricandosi nel congelamento e nell’evitamento del paziente o trovando altri
modi, come l’oblio, per far fronte alla fatica professionale quotidiana. Non esiste una panacea per tutti questi mali e neppure una ricetta magica per guarire le ferite che questo tipo di comunicazione
produce, ma ci sono suggerimenti e condizioni che possono favorire maggior serenità, altri invece che ne acuiscono la dimensione
stressante.
Avere una strategia mentale e conoscere delle tecniche di comunicazione è una delle risorse che può alleggerire il medico nell’assolvere questo compito14: come in ogni ambito la competenza è un
fattore che controbilancia e in parte protegge dallo stress; banalmente ciò che so fare con maestria mi stressa di meno e mi dà più
soddisfazione. Se questa logica vale per un intervento chirurgico,
per un esame universitario e per una partita di calcio o di scacchi
perché non dovrebbe valere anche per la comunicazione? Se il
medico si sente a disagio, incapace e inadeguato tende ad evitare
questa parte della sua attività professionale oppure la realizza in
modo insoddisfacente e inadeguato.
La comunicazione efficace ha le sue regole e queste regole si
possono imparare (Maguire 1990)15!
Sono stati sviluppati appositi programmi formativi per medici
che prevedono, accanto a una parte di input teorico per trasmettere le informazioni di base su una comunicazione efficace, attività di
laboratorio, simulazione, discussione di casi clinici per implementare le proprie capacità relazionali e per riconoscere i propri errori
di comunicazione (Tomamichel 199816, Razavi e al. 200317). I partecipanti mostrano a fine corso, e nei momenti di verifica successi-
14)
15)
16)
17)
Baile W.F. et al., SPIKES A Six-Step Protocol for Delivering Bad News, The
Oncologist, 5, 2000, p. 302-311
Maguire GP., Can communication skills be taught? Br J Hosp Med 1990, 43,
215-6
Tomamichel M., La formazione alla relazione con il paziente in fase avanzata di
malattia. In Morasso G. (a cura di), Cancro: curare i bisogni del malato, Il pensiero Scientifico editore, Roma 1998
Razavi D., Merckaert I., Marchal S., et al. How to optimize physicians’ communication skills in cancer care: results of a randomized study assessing the usefulness of post training consolidation workshops. J Clin Oncol 2003, 21: 3141-3149
51
vi, a distanza di mesi, di aver notevolmente migliorato la propria
performance comunicativa e dichiarano di sentirsi più comodi e
meno stressati nel parlare con pazienti e famigliari, e quindi più
disponibili ed efficaci.
SPIKES: UNA SCALA A SEI GRADINI
Le linee guida e gli studi pubblicati in ambito oncologico convergono nel ritenere essenziali questi obiettivi di fondo in una
comunicazione efficace:
• tutelare la privacy e la comodità del paziente
• parlare con onestà, chiarezza e semplicità
• facilitare l’espressione delle emozioni suscitate dalle notizie ricevute ed empatizzare con i vissuti del paziente
• coinvolgere il malato a partecipare al processo comunicativo,
incoraggiandolo ad esprimere i suoi dubbi
Per realizzare questi obiettivi ci sono alcuni accorgimenti e tecniche che sono stati sintetizzati in una metodologia, definita SPIKES
(Baile e al. 2000)18, l’acronimo che riprende l’iniziale del termine
inglese che definisce ogni fase (Setting, Perception, Invitation,
Knowledge, Emotion/Empathy, Strategy/Summary).
Proviamo a ripercorrere in sintesi uno ad uno questi scalini, che
sono generalmente consequenziali anche se, come per ogni tecnica
che ha a che fare con lo “psico”, nulla è rigido e immodificabile,
ma tutto va letto e assimilato con buon senso e integrato con il proprio stile personale.
1. SETTING: creare l’ambiente spazio-temporale e mentale idoneo per assolvere ad un compito complesso e impegnativo. Per questo alcuni suggerimenti sono utili:
• dedicare un tempo adeguato e prestabilito, non improvvisato
• cercare uno spazio possibilmente accogliente, idoneo per il dialogo: meglio un ambulatorio o un altro luogo raccolto in cui
18)
Baile WF, Buckman R., Lenzi R., et al: SPIKES – A six – step protocol for delivering bad news: application to the patients with cancer. The Oncologist 2000; 5:
302-311
52
•
•
•
•
•
sedersi uno di fronte all’altro piuttosto della stanza di degenza,
dove spesso vi sono altri malati e vi è un continuo andirivieni di
parenti
garantire la riservatezza, evitando o riducendo le interruzioni
esterne e le telefonate
preparare uno spazio mentale: come prima di un intervento chirurgico o di un qualunque compito impegnativo ci vuole un attimo di concentrazione e calma, così prima di accingersi a comunicare informazioni dolorose ci vuole un momento, anche solo
pochi secondi, per prepararsi interiormente ripercorrendo un
piano mentale da seguire e per ricordare che quanto si sta per
dire avrà un impatto notevole su chi ci ascolterà
se possibile sedersi uno di fronte all’altro, evitando situazioni di
forte asimmetria o imbarazzo: il medico in piedi con il camice
aperto che lascia intravedere un’elegante cravatta con il logo di
un prestigioso stilista e, come segnala la canzone “Scusi dottore”, “la donna senza biancheria” sul lettino ginecologico
presentarsi, in modo
sobrio, conciso, ma
chiaro
rivolgersi sempre al
paziente come interlocutore primo e privilegiato della comunicazione e chiedergli se
desidera essere solo o
se preferisce che un
famigliare o un'altra
persona di riferimento
sia presente insieme a
lui, al dialogo con il
medico.
53
COSI’?
Medico: Sono il dottor Pinco Pallino, ho visto la situazione
ed è venuto fuori che ci sono cellule maligne, tumorali per cui
dovrò farla vedere subito dai chirurghi…
Apertura troppo brusca, senza mettere il paziente a suo
agio e senza creare un minimo di clima
OPPURE E’ MEGLIO COSI’?
Medico: Piacere, si accomodi pure qui, così possiamo
vederci in faccia, sono il dottor Tal dei Tali, radioterapista, sono
stato contattato dai colleghi radiologi, ho visto la sua TAC ed
ora ne parliamo insieme
“Nudo blu”
Matisse
54
2. PERCEPTION (COGLIERE LA PERCEZIONE DEL PAZIENTE): è
fondamentale prima di iniziare la vera e propria trasmissione di
informazioni:
• mettere il paziente a proprio agio, avviando con lui una relazione collaborativa e fiduciosa
• cercare di capire quali informazioni gli sono già state date, quale
idea si sia finora fatto della malattia
• individuare sospetti e fantasie irrealistiche circa il suo malessere
e cercare di ricondurle alla realtà
COSI’?
Medico: Per quale motivo viene qui?
Paziente: Per capire la mia situazione
Medico: Ah, non le hanno ancora detto niente?
Paziente: E se venivo prima?
Medico: Sarebbe stato molto meglio, soprattutto se non
avesse fumato, lei è certamente colpevole del suo male
Inutile colpevolizzazione
OPPURE E’ MEGLIO COSI’?
Medico: Proviamo insieme a tracciare il percorso che l’ha
portata fin qui. Ho visto che ha fatto questi e questi altri esami,
cosa le è stato detto finora della sua situazione?
Buona l’esposizione dell’obiettivo e la verifica della percezione del paziente
55
Paziente: E se venivo prima?
Medico: A parte quel che è stato, pensiamo ora a come
affrontare il problema
Paziente: Se è un tumore a cosa è dovuto?
Medico: A tante possibili cause, ma ora vale la pena focalizzarci su quel che possiamo fare in senso terapeutico.
Buona gestione delle fantasie negative e delle percezioni
distorte
3. INVITATION (INVITARE IL PAZIENTE A COLLABORARE):
dicevamo che una buona comunicazione è un viaggio a due, pertanto è utile coinvolgere il paziente nel processo informativo:
• invitandolo ad essere parte attiva, a fare domande, ad esprimere
dubbi, a chiedere chiarimenti
• per incontrare al meglio i bisogni conoscitivi del paziente è utile
che sia lui a scegliere quanto, quando e quali informazioni desidera: se vuole essere informato in generale sulla malattia o in
dettaglio, se preferisce soffermarsi sulle proposte terapeutiche o
sull’esito degli esami diagnostici.
COSI’?
Medico: Quali informazioni di medicina ha?
Domanda inutile e confondente
Medico: Adesso le dico tutto sulla sua malattia e lei si concentri e cerchi di capire bene
56
OPPURE E’ MEGLIO COSI’?
Medico: le dirò cosa emerge dagli esami. A questo punto
possiamo dare una valutazione iniziale, ma si senta libero di
farmi domande e di dirmi se preferisce che mi soffermi sui singoli particolari o se preferisce parlare subito delle ipotesi terapeutiche
4. KNOWLEDGE (TRASMISSIONE DI INFORMAZIONI): è il
momento centrale, il passaggio vero e proprio di informazioni; perché sia efficace deve essere stato preparato dai passaggi precedenti
e deve rispettare alcune indicazioni:
• anticipare con delicatezza e partecipazione
umana che le notizie da
dare non sono positive
• essere sobri, chiari, onesti: è indicato un linguaggio semplice, non tecnico
ma corretto
• evitare eufemismi o giri di
parole: uno studio19 evidenzia come i pazienti
preferiscono la parola
cancro o tumore piuttosto
che circonvoluzioni che
risultano più angoscianti,
imprecise e spesso richiamo fantasmi ben peggiori
della realtà, per quanto
cruda possa essere
“L’Absinthe” - E. Degas
19)
Dunn S.M., Patterson P. U., Butow P. W., et al: cancer by another name: a randomized trial of the effects of euphemism and uncertainty in comunicating with cancer patients, J Clin oncol 4: 989-996, 1993.
57
COSI?
Medico: C’è una crescita anormale di cellule atipiche che
per ora sono ferme e curabili
Medico: Si è riscontrata una nodularità poi sottoposta ad
esami strumentali
Medico: E’ stata trovata una lesione occupante spazio, da
trattare
Paziente: Cosa vuol dire?
Medico: Tipo un cavolfiore con cellule non tanto simpatiche
Medico: Un addensamento non di natura infiammatoria, ma
con trasformazioni di cellule sospette, infatti dagli esami si è
visto che queste cellule atipiche presentano trasformazioni nel
loro DNA, che noi certo le dobbiamo collocare sotto il nome
di tumore, ma questo non vuol dire niente, cioè solo che sono
diverse dalle altre…
Sono frasi incomprensibili ed enigmatiche
MEGLIO COSI’?
Medico: Purtroppo si tratta di un tumore.
Medico: Dagli esami è stata trovata una macchia, alla quale
è stato necessario dare una definizione, un nome e un cognome; e cosa è emerso dalle analisi? Che si tratta di cellule tumorali
Medico: Le indagini fatte per definire la terapia adeguata per
i suoi disturbi hanno portato alla conclusione che ci troviamo
di fronte ad una neoplasia, cioé un tumore
Medico: Come forse avrà sospettato dagli accertamenti ripetuti che ha dovuto fare non si tratta purtroppo di un’infiammazione, ma di un tumore
58
• Seguire una modalità “a gradini”: un passo alla volta; introdurre
un’informazione e lasciare una breve pausa di assimilazione al
paziente e poi, se la persona risulta attenta e disponibile, proseguire con il passaggio seguente
• Verificare la comprensione del paziente,chiedendogli apertamente che cosa ha capito di quanto è stato detto
• Cercare di gestire e sdrammatizzare le fantasie catastrofiche e
darne una lettura realistica
• Evitare di enfatizzare la notizia con toni drammatici o particolarmente crudi
COSI?
Medico: Ha un brutto processo tumorale in atto, un carcinoma maligno
Medico: La sua è una situazione brutta e seria
OPPURE E’ MEGLIO COSI’?
Medico: E’ utile non perdere tempo, la situazione va trattata a breve
• Lasciare sempre uno spiraglio di speranza, purché realistica (!).
In ogni fase della malattia, anche nei momenti più critici, come
la comparsa di una recidiva, la sospensione delle cure, l’avvicinarsi della morte, è possibile offrire una speranza: difficilmente
sarà la presenza di farmaci miracolosi, ma a volte ci sarà la possibilità di garantire il controllo del dolore e sempre assicurare la
propria presenza e disponibilità (Links , Kramer, 1994)20
20)
Links M., Kramer J., Breaking bad news: realistic versus unrealistic hopes, SCC
(1994), 2: 91-3
59
5. EMOTION-EMPATHY (EMPATIA VERSO LE EMOZIONI):
dopo aver dato le informazioni salienti è necessario lasciare uno
spazio affinchè la persona esprima i vissuti di quel preciso momento. Spesso il paziente è visibilmente scosso, a volte piange, altre dà
segni di sconcerto o di rabbia: è fondamentale saperli riconoscere e
semplicemente nominarli. Accogliere le emozioni del paziente ed
essere empatici con la sua sofferenza è sicuramente il compito più
impegnativo nella trasmissione di bad news: il 67% dei medici
intervistati in questa Azienda dichiara di sentirsi a disagio nell’affrontare le emozioni del paziente ed è su questo che ritiene necessario essere formato. E’ proprio sull’empatia che si gioca gran parte
della differenza tra una comunicazione vissuta dal paziente come
efficace ed umana, ed una vissuta come distanziante e a volte crudele. Come concretizzare la propria empatia?
• osservare attentamente e con delicatezza e discrezione l’atteggiamento, verbale e non, del paziente
• chiedergli come si sente
• Provare insieme a nominare le emozioni più intense: dare un
nome al dolore, alla paura, alla rabbia, spesso permette di allentare la tensione emozionale e di alleviare un po’ i momenti più
angoscianti, inoltre fa sentire il medico come essere umano partecipe e non come freddo e distaccato arbitro della propria sorte
• legittimare espressioni di dolore: rassicurare sul fatto che sia
assolutamente normale soffrire, e manifestare il proprio dolore,
di fronte ad eventi negativi sortirà un effetto tranquillizzante.
Spesso il malato grave teme che le sue reazioni di rabbia o di
pianto o di disperazione siano patologiche per cui arriva a pensare “oltre ad essermi ammalato, sono anche diventato matto”,
vissuto ben difficile da tollerare che acuisce lo stress, aggiungendo fatica a fatica, in un circolo vizioso difficile da interrompere.
COSI’?
Paziente: sono disperato e angosciato
Medico: non bisogna mai fermarsi e andare sempre avanti
Disconferma e giudica immotivata ed eccessiva la percezione e la reazione del paziente
60
OPPURE E’ MEGLIO COSI’?
Paziente: sono disperato e angosciato
Medico: capisco, è comprensibile essere presi dallo conforto in un momento critico
Legittima il dolore e ne sottolinea l’aspetto fisiologico e
non patologico
• esprimere il proprio dispiacere per la situazione, ricordandogli
che anche voi avreste desiderato comunicargli notizie meno
pesanti e dolorose
6. STRATEGY-SUMMARY (STRATEGIA TERAPEUTICA E SINTESI): dopo aver dato le informazioni necessarie è utile una buona
conclusione dell’incontro che si può realizzare se:
• si concorda insieme l’approfondimento del percorso diagnostico
o la strategia terapeutica
• si esaminano i pro e i contro delle opzioni proposte
• si lascia al paziente un tempo realistico (qualche giorno) per
riflettere su quanto concordato
• si offre la disponibilità per eventuali altri chiarimenti, dando ad
esempio una fascia oraria e un recapito in cui il medico può
essere contatto (non è necessario essere sempre disponibili, anzi
è importante sia per il paziente, ma anche per il benessere del
medico, che ci siano momenti prestabiliti in luoghi idonei in cui
lo specialista è raggiungibile e disponibile. Inutile e faticoso essere continuamente interrotti da decine di richieste, che portano il
medico a sentirsi “braccato” e gli rendono impossibile lavorare
con serenità e concentrazione; ansiogeno cercare invano di raggiungere un medico introvabile e mendicare un chiarimento da
chiunque ha la sventura di trovarsi casualmente a tiro del
malato
61
• quando il territorio lo offre, informare e dare indicazioni concrete (recapito, numero di telefono, opuscoli, nominativi) circa la
possibilità di un supporto psicologico individuale o di gruppo e
circa l’esistenza di associazioni di ex-pazienti disponibili a condividere la propria esperienza
COSI’?
Medico: “Questo è quanto, arrivederci, tutto il resto lo vedrà
con altri colleghi”
OPPURE E’ MEGLIO COSI’?
Medico: “Per ora avrei terminato, se le va bene come concordato, avviso i colleghi che la chiameranno, d’ora in poi la
seguiranno loro, ma se lo ritiene può contattarmi al n. .........,
alle ore ............, nei giorni etc…;”
Medico: “Rifletta pure con calma a quanto abbiamo detto e
se lo desidera mi trova il ........ alle....... e possiamo riparlare di
suoi eventuali dubbi”
• è necessario che il medico apprenda e sia in grado di mettere in atto le principali tecniche di comunicazione,
soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento e la
gestione delle emozioni proprie e del paziente, in occasione della trasmissione di “cattive notizie”
• è necessario che il medico non affronti una comunicazione di “cattive notizie” senza aver creato uno spazio mentale e di tempo e senza strategie comunicative
62
Secondo me….
Uno dei compiti più difficili per il medico e’ comunicare ad un
paziente una “cattiva notizia”. Per l’oncologo si tratta ad esempio di
dire al paziente che il tumore è ricomparso dopo un periodo di
remissione, o che un certo trattamento, non ha avuto i risultati sperati e si e’ verificata un’ulteriore progressione, o che e’ necessario
abbandonare le terapie attive e passare alla fase palliativa del trattamento. In mancanza di esperienza e di preparazione specifica, si
tratta di occasioni stressanti per il medico, che può viverle come
una sconfitta personale e spesso teme di non saper gestire le reazioni del paziente.
In realtà tale confronto va ritenuto ineludibile, oltre che desiderabile, se si vuole praticare una medicina moderna, rispettosa dell’autonomia del paziente e interessata ad ottenere un reale, e non
solo formale, consenso informato alle cure.
Nella mia esperienza, all’inizio della carriera di oncologo, questa convinzione era già ben radicata ma non si accompagnava ad
alcuna preparazione specifica alla comunicazione con il paziente,
che non era allora contemplata nel training, forse considerandola
una capacità da sviluppare “sul campo”, attraverso tentativi ed errori. Cercai comunque di interessarmi del problema e con il tempo
sviluppai una certa esperienza. Un’opportunità importante per
migliorare le mie capacità, mi venne fornita da un soggiorno di studio in un centro oncologico britannico. Vidi con i miei occhi quanto diverso e più gratificante poteva essere il rapporto con il paziente in un contesto culturale completamente diverso, in cui il paternalismo era assente e dominava la partecipazione e la condivisione
attiva delle decisioni terapeutiche. Trovai quasi scioccante la sincerità con cui i medici riuscivano a parlare con i pazienti di argomenti spiacevoli ed ancora più sorprendente era vedere come ciò risultasse in una riduzione delle angosce e dell’ansia dei pazienti, piuttosto che il contrario.
Mi accorsi che alcuni colleghi seguivano una strategia mentale
precisa nel corso della comunicazione di cattive notizie e che questo li aiutava ad affrontare meglio il confronto con il paziente e
migliorava l’efficacia del processo comunicativo. Seguire protocolli
ed algoritmi decisionali nella pratica diagnostica e terapeutica mi
63
era già consueto e trovai interessante che si potesse applicare lo
stesso procedimento a determinati aspetti della comunicazione con
il paziente.
SPIKES non e’ l’unico fra i protocolli ‘step-by-step’ che aiutano a
ricordare i punti più importanti del processo di comunicazione
delle cattive notizie, ma ha il vantaggio di essere facile da imparare
(prevede solo sei passi) e da insegnare. Il protocollo è illustrato nei
dettagli da pag. 52 e seguenti; la mia personale interpretazione dei
sei steps e’ la seguente.
1. Setting: organizzo mentalmente in anticipo il contenuto dell’incontro con il paziente; mi assicuro che il colloquio possa avvenire in un ambiente tranquillo e con sufficiente privacy; cerco di
facilitare lo scambio di messaggi non verbali sedendomi vicino
al paziente piuttosto che tenerlo al di là di una scrivania.
2. Perception: verifico cosa sa il paziente, chiedendogli un riassunto della situazione fino a quel momento. Qui possono emergere
grossi problemi se chi mi ha preceduto ha tenuto il paziente
all’oscuro di cose importanti o se il paziente ha compreso poco.
3. Invitation: verifico che il paziente sia disponibile a ricevere le
notizie, dopo aver chiarito che potrebbero essere spiacevoli; se
ottengo il permesso ad andare avanti, chiedo quale livello di dettagli il paziente vuole avere. Occasionalmente il colloquio si
conclude (temporaneamente) a questo punto se il paziente (non
i parenti!) non acconsente a ricevere le notizie.
4. Knowledge: fornisco le informazioni vere e proprie, cercando di
essere chiaro e di evitare il gergo medico. Seguo il principio di
non dire mai niente che non sia vero, ma un poco alla volta in
modo da dare tempo al paziente di ‘digerire’ le informazioni, e
di fermarmi se vedo che non e’ più in grado per il momento di
assorbire altro.
5. Emotions/Empathy: il tipo di reazione emotiva del paziente e’
variabile e molti medici temono questa fase credendo di non
essere in grado di gestirla. In realtà il paziente non si aspetta da
noi una seduta di psicoterapia (se necessario, questo puo’ essere
fornito in un secondo tempo da chi lo fa per professione). Basta
di solito mostrarsi partecipi e comprensivi, la mia frase preferita
64
è: «Anch’io avrei voluto che le cose andassero diversamente,
capisco come si sente».
6. Strategy/Summary: chiudo il colloquio con un riassunto di quanto si e’ detto e soprattutto cercando di spostare l’attenzione su
elementi pratici, in modo che il paziente abbia un piano per il
futuro, anche solo nella forma di un nuovo appuntamento in
ambulatorio.
Prima di lasciare Cuneo, ho promosso SPIKES nel corso di incontri di formazione con i colleghi del S. Croce, assieme a Maura
Anfossi e Renzo Dardanelli. Nel mio attuale lavoro a Swansea
(Galles), ne faccio oggetto di lezioni per gli specializzandi.
Soprattutto continuo a trovarlo un valido strumento nella mia pratica clinica quotidiana: come tutti gli strumenti, va utilizzato con
buon senso, ma può aiutare ad affrontare meglio uno degli aspetti
più “spinosi” (spikes significa appunto punte, o spine) del lavoro
dell’oncologo.
Gianfilippo Bertelli, oncologo
University of Wales Swansea
Gran Bretagna
Donna con parasole
C. Monnet
65
Secondo me…
In anni di attività chirurgica ho in più di una occasione avuto
l’obbligo o la necessità, o il dovere di comunicare ai pazienti o ai
familiari, notizie a dir poco tragiche, riguardo le loro condizioni di
salute e del futuro che si poteva loro prospettare.
La nostra è una specialità particolare: capita spesso, infatti, che
pazienti poco sintomatici siano portatori di neoplasie il cui trattamento allungherà i tempi di vita ma può condizionare il peggioramento delle condizioni pre – chirurgiche oppure che il paziente in
condizioni apparentemente eccellenti debba ricevere la notizia che
morirà entro pochi mesi.
La mia capacità a comunicare in modo accettabile queste notizie si è confrontata con diverse tipologie di pazienti: da quando
negli anni ’70 – ’80 nella struttura urbana dove lavoravo comunicavo con persone di un certo livello culturale che comunque spesso
chiedevano la mediazione del “medico di famiglia” ad un rapporto
più sereno con una cultura rurale che paventava comunque l’ambiente ospedaliero espressione da anni di ultimo passaggio in posizione verticale; comunque non mi sento ancora maturo e sereno.
E poi oggi, a complicare le cose, c’è “internet” al quale tutti afferiscono e all’interno del quale si mescolano le peggiori e incomplete informazioni espresse spesso da personaggi di dubbia capacità
che utilizzano questo mezzo per attirare persone non competenti in
materia e traghettarli attraverso costose soluzioni spesso inutili.
Il paziente quindi è più spesso prevenuto, male informato e spesso si propone come interlocutore tecnico discutendo le metodologie diagnostiche proposte e le relative soluzioni chirurgiche ponendosi allo stesso livello di chi non solo ha anni di università alle spalle, ma anche un patrimonio di esperienza difficilmente trasferibile a
chi ha letto sull’argomento, articoli pubblicati su settimanali e rotocalchi più o meno attenti a diffondere notizie corrette.
I medici sono diversi fra loro come carattere, i pazienti sono
disperati, e reagiscono con soggettività.
Credo che una formazione nel contesto comunicativo vada strutturata con preparazione universitaria e nel corso della Specialità,
fino a maturare con confronti ripetuti la consapevolezza dei propri
mezzi e il modo di rapportarsi con l’ammalato.
66
Come sempre i meccanismi di apprendimento dovrebbero prevedere l’informazione, ma anche la ritenzione delle informazioni
che deve avvenire con la meditazione di quanto appreso e la riflessione periodica attraverso confronti sulle tematiche e nel corso di
lunghi periodi di esperienza.
Massimo Medina, neurochirurgo
67
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68
5. Il paziente, e non altri, è il centro
della comunicazione e della cura
“…e adesso, chi glielo dice?”
di Lorenzo Dardanelli
Domanda cruciale, per parenti e medico, di fronte ad una diagnosi grave.
Domanda che, purtroppo, spesso oscura l’altra, molto più
importante: «come glielo diciamo»? Così, d’istinto, senza pensarci
troppo, il medico rischia di rifugiarsi in parole tanto difficili quanto vaghe e i parenti si sforzano di minimizzare, infilandosi tutti nel
vicolo cieco delle negazioni: della verità, del malato come primo
soggetto interessato a sapere e a decidere di se stesso, del rapporto sincero e fiducioso fra malato e medico. I sani si sostituiscono
al malato, che scompare nella fitta rete di complicità che parenti,
amici, colleghi e medici intessono a sua apparente protezione.
Tutto questo non accade sempre, ma abbastanza spesso anche
se in forma e intensità diverse.
Non ne mancano le ragioni. Affrontare e sopportare le emozioni che la malattia e la possibile prossima morte di un parente o
di un amico suscitano, è molto difficile. Il nostro io si ribella e si
difende sempre contro il rischio di annullamento, perdita di se
stesso. Il darsi, il donare se stessi per puro vantaggio dell’altro è
capacità che trascende le sole forze umane. Farsi veramente carico, fino in fondo, della sofferenza e della prossima morte di una
persona cara sfiora l’impossibile. Quindi è istintivo, “normale”
opporre un rifiuto alle fatiche suscitate dal comunicare verità sgradevoli, dal sostenere e condividere le lacrime e la ribellione di
fronte al dolore ed alla morte. E questo rifiuto rischia di tradursi
nella negazione della verità, camuffato da una falsa pietà nei confronti del malato.
Ma quali sono le conseguenze di questo pur comprensibile
atteggiamento?
69
Semplicemente e tragicamente, il malato resta solo. Solo di fronte alla più grande difficoltà della sua vita, che è appunto la morte
che si avvicina. Solo perché nessuno lo aiuta veramente, nessuno
ascolta le sue ansie o le sue angosce, non gli è concesso il pianto: tutti, prima di tutto il malato, che pure sa benissimo di stare
male, devono fingere che il problema non esista.
Il medico a volte è trascinato in questo gioco delle parti, fatica
a mantenere un comportamento lineare, si presta a piccoli inganni, rinuncia alla tensione verso una dolorosa ma forse liberante
verità. Purtroppo, facendo così, perde anche la fiducia e il contatto
vero con il “suo” paziente: che non è la famiglia, che pure soffre,
ma il malato, quella precisa singola persona.
Eppure è nell’interesse prioritario di quella singola persona, che
il medico deve sforzarsi di indirizzare le proprie parole e le proprie decisioni.
Oggi, lo sancisce la legge: nessuno (nessuno, né parenti, né
medico) può sostituirsi ad un paziente, normalmente in grado di
intendere e volere, nelle decisioni circa la sua salute.
Oggi, lo esige la grande variabilità di legami sociali e familiari
che il medico non ha né diritto, né dovere di indagare; ma che ha
sicuramente il dovere di rispettare e di non gravare con ulteriori
pesi proprio quando già siano problematici.
• è necessario, anche perché norma di legge, che sia il
paziente a decidere se e chi può partecipare alla relazione
con il medico
• è necessario che il medico non si presti a comunicare notizie false, se non come fase transitoria e breve di un percorso che tenda alla verità
70
Secondo me…
E’ prassi quotidiana che il clinico incontri un paziente quando
questi ha già alle spalle un percorso diagnostico fatto di esami sempre più sofisticati, manovre invasive, referti... Spesso il medico è più
portato alla valutazione di queste “prove scientifiche” nel determinismo della strategia terapeutica da adottare, che indotto alla visita e alla comunicazione con il paziente stesso.
Così scrive il Prof. Ignazio Marino, Direttore del Centro Trapianti
di Catania, nel libro “Credere e curare” «…ancora oggi, in pieno
boom tecnologico, il paziente desidera che il medico lo tocchi, gli
metta una mano sulla pancia, ascolti il cuore con lo stetoscopio, lo
faccia tossire. Questi semplici gesti, certamente di ridotta utilità diagnostica rispetto ad una TC, servono a creare una particolare intimità tra medico e paziente, a rafforzare la fiducia, a spingere il malato a raccontare i propri timori e non solo i propri sintomi. In questo modo si crea anche un legame tra chi cura e chi viene assistito
e l’empatia tra i due esseri umani non può essere sostituita da nessun esame diagnostico, per quanto perfetto esso sia».
Così, se è vero che il medico è ancora libero di scegliere di dialogare con i propri pazienti e di creare un legame di empatia globale, che va ben al di là delle spiegazioni tecniche appropriate ma
eccessivamente specialistiche, o peggio ancora sbrigative, e anche
vero che le dinamiche aziendali moderne lo allontanano progressivamente dal considerare il rapporto di collaborazione e fiducia con
il malato, ed il tempo investito nel dialogo, come parte integrante
della relazione di cura.
Conclude Ignazio Marino: «il tempo non è denaro, in medicina
il tempo può anche essere una terapia».
Proprio dagli Stati Uniti, che ancora più dell’Unione Europea
hanno conosciuto questo duplice aspetto della “disumanizzazione”
del rapporto medico\ paziente, arrivano i segnali di un cambiamento importante: la prof.ssa Rita Charon, Direttrice del I corso di
Medicina Narrativa alla Columbia University, illustra le caratteristiche di questa nuova disciplina: «durante la prima visita, prego il
malato di raccontarmi di sé, oltre che della sua malattia. In quel
momento comincia il processo terapeutico: il malato si sente al centro della scena e cresce la sua autostima; la narrazione aiuta me a
71
capire molto di lui, della maniera in cui vede la malattia, soprattutto di come questa si colleghi con tutti gli altri aspetti della sua vita.
Ascoltarlo senza interrompere, mette il paziente in grado di controllare il nostro rapporto e questo facilita la formulazione di un diagnosi corretta e di una terapia perseguibile.
Un numero crescente di istituzioni ospedaliere stanno chiedendo ai loro medici di partecipare a seminari di medicina narrativa, e
poiché gli ospedali non spendono se non ne traggono beneficio,
vuol dire che questa nuova disciplina è veramente efficace». Vale a
dire che, oltre al valore etico di questa impostazione, proprio dal
raccontarsi del paziente al medico nella sua globalità, da questo
suo “confidarsi”, spesso scaturiscono elementi anamnestici e quindi diagnostici che neanche la tecnologia più moderna è in grado di
evidenziare, riducendo la possibilità di errore o la necessità di eseguire esami superflui.
La formazione del clinico, di tipo psicologico e analitico, che lo
aiuta a individuare tutte le possibili reazioni del paziente con
patologia oncologica (dall’ansia, alla rimozione, dalla rabbia allo
sconforto, dalla delega assoluta, alle trappole relazionali), diventa
altrettanto importante e necessaria che la formazione clinica - tecnologica, avendo come oggetto l’individuo e non solo la patologia
di cui è affetto.
Il clinico che ha a disposizione entrambe queste risorse può
affrontare non solo con più efficacia ed efficienza, ma anche con
più serenità il problema che gli viene proposto, limitando, in ultimo,
la ricaduta negativa emozionale su se stesso anche degli eventi sfavorevoli inevitabili di questa partita ancora purtroppo apertissima.
Corrado Lauro, chirurgo
72
Secondo me…
Personalmente, dopo uno o più colloqui con il paziente in cui ho
tentato di stabilire un’interazione reciproca, opto, previo consenso,
per un incontro a tre, coinvolgente i familiari. In un ambiente idoneo (tranquillo, sufficientemente luminoso con sedie disposte a cerchio, ma dall’aria professionale) cerco di comunicare la situazione
clinica con rispetto (soprattutto dei “silenzi dolorosi”) e sincerità,
ma puntando in questa occasione, sul mio ruolo professionale,
mentre tendo a lasciare spazio al fiume in piena delle emozioni del
paziente e dei familiari; a mio parere i parenti, pur tra mille difficoltà, possono essere di conforto, creando intorno al malato un
ambiente affettivo domestico.
Vorrei sottolineare, in ultimo, che tanto negli incontri medicopaziente, che in quelli con i familiari, l’attenzione verbale e gestuale va sempre rivolta con discrezione e delicatezza al paziente.
Potenzialmente quindi i parenti possono diventare preziosi alleati nella relazione di
cura, in cui comunque
al centro è il paziente
con la propria malattia
e non il dolore della
famiglia, né i bisogni
del medico.
Antonella Alloisio,
chirurgo toracico
Istituto Tumori
di Genova
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74
6. La persona malata e non la malattia
è il centro della comunicazione
e della cura
uomo o puzzle?
di Lorenzo Dardanelli
Frammentazione. Super specializzazione. Sembrano una necessità assoluta del vivere oggi. Nel lavoro, nello sport, nel tempo
libero.
Il meccanico non tocca la batteria dell’auto, chi si occupa
della batteria non sempre cambia le lampadine. Nessuno di quelli
che corrono i 100 metri è competitivo sui 400, e viceversa.
L’agenzia di viaggi che accompagna fino in Polinesia, difficilmente è in grado di fare visitare Torino.
Anche nelle relazioni umane. Messaggini telefonici, e-mail brevissime, dialoghi fatti di battute fulminee, assenza assoluta di silenzio, di attesa, di argomentazioni pacate.
Anche nella medicina. Richiesta sempre più pressante del super
specialista, le specialità tradizionali non bastano già più. Esiste già
il chirurgo che opera soltanto “fegati” per tutta la vita, l’immunologo che sa tutto del “complemento” ma che forse non riesce ad
alleviare un’orticaria.
Dicono sia un enorme vantaggio per il cliente, che trova (finalmente!?) tecnici competenti, in grado di risolvere qualsiasi problema: che se ne farebbe, il paziente, di un medico superficialmente
“tuttologo”?
Ma sarà davvero così?
Chiunque sia stato paziente per un problema minimamente
serio, sa di aver desiderato ansiosamente il punto di riferimento:
quello, fra i diversi specialisti che lo hanno curato, disponibile a
riassumere i problemi, a ricapitolare il percorso, in una parola a
prendersi cura di lui dall’inizio alla fine, ad assumersi le responsabilità e la fatica di condividere le decisioni complessive, quelle
75
che riguardano la vita e non soltanto un esame o una terapia.
Qualunque specialista ospedaliero che accoglie nel suo Reparto
un malato già preso in cura da altri colleghi, sa quanto spesso il
paziente richieda di non perdere il contatto con il medico di prima.
Chiunque di noi sa o può facilmente immaginare quanto sia
faticoso, fonte di incertezza e ansia, cambiare ambiente e punti di
riferimento, ma soprattutto ricevere informazioni discordanti dalle
precedenti, percepire messaggi contrastanti fra loro.
“…chi avrà ragione? perché mi hanno detto diverso da
prima?...”
E’ una domanda che dovrebbe comparire poche volte nei percorsi di comunicazione che un malato vive. Compito molto difficile per i medici, ma non impossibile. Una professione che è in grado
di salvare da malattie fino a pochi anni fa considerate invincibili,
non può fermarsi di fronte a difficoltà relazionali anche se grandi e
ad ostacoli organizzativi molto spesso banali.
• è necessario che il gruppo di specialisti che concorda il
piano di diagnosi e cura predisponga e condivida un analogo piano per quanto riguarda la comunicazione
• è opportuno che, per quanto possibile organizzativamente, il medico che ha preso in cura un paziente per lungo
tempo o per interventi importanti sia disponibile ad
accompagnarlo anche durante la permanenza in altri
Reparti
76
Secondo me…
Se un giorno sarò malato, vorrei un medico che mi ascoltasse
con pazienza, mi visitasse con competenza e rispetto per il mio
pudore, che mi spiegasse, con parole semplici e a me comprensibili, gli esami che dovrò eseguire e gli esiti degli stessi. Nel caso di
malattia grave, vorrei schiettezza ma non freddezza, comprensione
e accettazione delle mie reazioni e sempre una porta aperta alla
speranza perché, se esistono malattie non guaribili, non esistono
malattie non curabili. Vorrei condividere le scelte terapeutiche, vorrei un medico su cui contare nel tempo, un medico che si confronta con altri colleghi e che non si sentisse tradito se anch’io desidero confrontarmi con altri medici, un medico che valutasse i miei
miglioramenti o peggioramenti non soltanto dai risultati degli esami
ematochimici e strumentali ma che tenesse anche conto delle sensazioni di benessere o malessere mie e dei miei familiari.
Se un giorno sarò un vecchio con molte malattie croniche accumulatesi nel corso degli anni, vorrei un medico che fosse anche saggio e sapiente nel non espormi ad inutili accertamenti, a non sommare ai miei problemi di salute danni da farmaci non necessari, nel
non considerare mai una mia patologia d’organo e la terapia della
stessa isolata dai miei molti altri acciacchi. Se fossi vicino alla morte
vorrei un medico che non si spaventasse e non mi abbandonasse
nel momento in cui ho ancora bisogno di cure e di attenzioni.
Se un giorno sarò malato di demenza, vorrei un medico che fosse
sempre rispettoso di me come persona e del dono della vita che rappresento, che imparasse ad affinare forme di linguaggio non verbale,
poco sfruttate con altri malati ma le uniche che potrei comprendere,
che dedicasse del tempo anche a chi mi assiste spiegando la malattia, incoraggiando, motivando e gratificando l’opera che svolge.
Se un giorno sarò malato vorrei essere l’attore principale della
scena e non sostituito dal nome di una malattia, da un numero di
letto, da un codice di esenzione, da una voce di bilancio da quadrare e vorrei essere circondato da volti sereni, da persone ottimiste
che condividono gli stessi valori e lavorano con unità d’intenti.
Marco Marabotto, geriatra
77
aria seria, mi
penso. Il medico, con
«E’ l’ora della verità»,
prima. Mi dice
ve mi ha visitata poco
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e. Franco Angeli, 2000
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“Caos management n. 1”
Picasso
78
Al mio dottore,
con le medicie sanno curare il corpo
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Il sole è entrato nel mio
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ha detto a noi malati un
Grazie Signore.
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Pierina Bonazza (92 an
79
7. il paziente non ha diritto
di tradire la fiducia del medico
che si prende cura di lui,
ma ha quello di scegliere altri curanti
ed altre terapie,
e anche quello di non curarsi
medicina tradizionale o alternativa?
di Raffaella Pulitanò
Dell’ambito del rapporto medico/paziente, specialmente in
campo oncologico non è inusuale (e sovente avvallato da un crescente interesse da parte dei media) il ricorso a terapie non allopatiche, comunemente conosciute come “alternative”.
Questo atteggiamento è tanto più diffuso quanto più infausta è la
prognosi; si può quasi affermare l’esistenza di una sorta di parallelismo tra scarsità di chances terapeutiche e strategie di cura “non ufficiali”.
E’ fin troppo evidente il background psicologico che sottende a
tale atteggiamento. Ma quale deve essere l’atteggiamento del curante di fronte a questa libera scelta del paziente? In primo luogo è
opportuno ribadire che, accanto al diritto del paziente di operare in
piena autonomia e libertà, esiste anche il dovere di informare il
medico dell’eventuale scelta operata.
Correlativamente rientra tra i doveri del medico il rispetto dell’indirizzo prescelto, ma si impone un distinguo tra opzioni che non
interferiscono con l’iter in corso e quelle che, al contrario, possono,
oltre ad interferire, addirittura essere dannose al paziente.
Nel primo caso la convivenza tra i diversi approcci terapeutici è
fattibile e va rispettata dal curante, anche qualora non la condivida.
Nel secondo caso, quando cioè l’approccio alternativo sia in
aperto contrasto o interferisca con la terapia in corso, va esplicitato
80
il conflitto ed individuato un accordo di “non belligeranza” tra le
due cure; tale “accordo” può concretizzarsi secondo diversi schemi, sinteticamente ma non esaustivamente riassumibili in abbandono o ridimensionamento della terapia alternativa, scelta di approcci simili ma non dannosi, colloquio e collaborazione tra le due figure professionali.
Va previsto, infine, il caso in cui l’accordo sopra indicato non
abbia luogo, in quanto il paziente si fida, gradisce e predilige
l’”altra” cura o l’ “altro” curante.
Non si può negare che, in questo caso, il colpo inferto all’autostima sortisca una certa frustrazione, o fastidio, nel curante, e che
tale sensazione sia tanto maggiore quanto più spiccato è il senso di
efficacia ed adeguatezza delle proprie prestazioni.
D’altro canto non e’ da trascurare il positivo influsso psicologico
dell’effetto placebo della terapia “alternativa”, spesso amplificato
dal senso di autonomia ed indipendenza determinato proprio dalla
scelta fuori dagli schemi codificati, quasi a rimarcare che nel dramma terapeutico il malato ricopre sì il ruolo di attore ma mantiene,
dietro le quinte, una parte da regista.
Tralasciando questi aspetti è indubbio che il medico debba informare il paziente dell’eventuale proprio disaccordo se non addirittura del timore di danno derivante dalla scelta del malato e conseguentemente esplicitare l’ impossibilità nel proseguo della collaborazione. Pur nella consapevolezza che è fondamentale accertare la
piena e totale comprensione da parte del paziente delle conseguenze che la sua scelta comporta, è opportuno sottolineare che, in definitiva, ciò che ha reale importanza è il rispetto del volere del malato, anche qualora tale volere si manifestasse nel gradire di non essere curato affatto.
• è necessario che il medico, senza sostituirsi al paziente
nelle sue scelte, si accerti che questi ne abbia ben compreso le conseguenze
• è opportuno che il medico dichiari pacatamente, con sincerità e con chiarezza, il proprio disaccordo con le scelte
alternative del paziente, se queste contrastano effettivamente con la sua salute
81
Secondo me…
Quante volte succede, soprattutto nelle specialità chirurgiche,
che il nostro paziente, che ha ricevuto da poco la sgradita comunicazione di una patologia grave, e a cui tutti si sono sentiti, oltre a
noi, in dovere di propinare consigli, talvolta non richiesti e non
sempre corretti, ci contesti quelle che per noi sono sacrosante indicazioni diagnostiche e/o terapeutiche.
La nostra reazione è di inevitabile irritazione, nel migliore dei
casi, sfociando talvolta in manifestazioni di assoluto e conclamato
dissenso accompagnato spesso da un atteggiamento di rifiuto nei
confronti del paziente, che viene così da noi abbandonato al suo
destino.
Forse dovremmo soffermarci ogni tanto a riflettere su questi
nostri atteggiamenti.
Siamo veramente certi che la nostra linea diagnostica-terapeutica sia la migliore, siamo altrettanto certi di essere noi, i migliori?
Sovente la risposta purtroppo è negativa.
Quanti episodi ognuno di noi ricorda di malati giudicati non
suscettibili di terapie particolari che rivolgendosi ad altri centri o ad
altri professionisti a queste stesse terapie sono stati sottoposti e
anche con successo?
Non sempre la scelta del professionista a cui affidare la propria
salute è legata solo ad elementi obiettivi di valutazione, che tra l’altro raramente il malato possiede. Entrano in gioco simpatie ed antipatie e anche le famigerate “ raccomandazioni”.
Ricordo il caso di un paziente che, dopo essersi recato da un collega certamente più bravo e preparato di me, che pur concordando
sulla mia linea di trattamento, aveva dimostrato una sensibilità a dir
poco da “elefante in un negozio di porcellana”, ha finito per rifiutare in blocco tutta l’indicazione terapeutica. In altra situazione simile il paziente decideva di rifiutare la mia proposta ed il mio compito più arduo è stato quello di difenderlo dai colleghi che volevano
aggressivamente convincerlo del contrario.
Eppure il malato ha dei diritti:
• quello di una corretta informazione che non significa “io al suo
posto mi farei operare….”.
82
• quello di effettuare delle scelte che differiscono dalle nostre
senza sentirsi rispondere “a questo punto faccia quel che vuole,
ma non venga poi a lamentarsi…”.
Anche il medico ha dei diritti:
• quello di non essere preso in giro, di essere informato dal paziente delle decisioni prese in disaccordo con noi e delle eventuali
scelte di rivolgersi ad altri curanti. Quanti stratagemmi e quante
bugie ci sentiamo raccontare per mascherare queste situazioni.
• E’ inoltre non solo un diritto, ma direi un dovere quello di informare il paziente se riteniamo che stia prendendo una strada sbagliata.
Dobbiamo sempre ricordarci che abbiamo a che fare con un soggetto (paziente e famigliari) “debole” e “fragile” sia dal punto di
vista fisico che emotivo e credo che spesso una maggior umiltà da
parte nostra e una maggior onestà di entrambi possano risolvere
molti problemi e collaborare a formare quel clima di reciproca
stima e fiducia che deve caratterizzare un rapporto di diagnosi
e cura.
Giuseppe Vassallo, chirurgo toracico
83
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Susanna C.
84
8. il medico chiamato
a curare malattie gravi viene
inevitabilmente coinvolto
dalle dinamiche emotive suscitate
dalle attese e dalle richieste del paziente
9. i timori sulla propria morte
e la sensazione di impotenza suscitati
dalla morte del paziente,
possono essere affrontati e gestiti
Chi tocca muore
di Gianmauro Numico
Il contatto con la sofferenza fisica e con la morte dell’uomo, non
lascia indifferenti. Sebbene spontaneamente vengano messi in atto
meccanismi di allontanamento e di protezione dal dolore e dalla
morte, le ferite che questa realtà lascia nel medico sono riconoscibili e non vengono cancellate. Come avviene per il contatto con la
corrente elettrica si potrebbe affermare che “chi tocca muore”: chi
si avvicina, in modo più o meno partecipe, alla morte dell’uomo
non può che esserne profondamente segnato. Di fatto, la contraddizione tra una vita normale, la buona salute, il fisiologico svolgersi
delle relazioni sociali e familiari e la drammaticità di una vita che si
spegne è stridente e non elaborabile con il ricorso a facili consolazioni o semplicistiche razionalizzazioni.
“Perché è toccato a lui e non a me?” è una domanda ricorrente
che, seppur non sempre del tutto consapevole, si ripresenta puntuale ad ogni incontro con la morte e nel tempo può diventare logorante fino a costringere il medico a trovare riparo in difese radicali. La
totale distanza emotiva dal morente, la costruzione di barriere che
85
evitino l’incontro con lui nel momento dell’aggravarsi della malattia, la delega ad altri colleghi o ad altre figure professionali delle più
pregnanti responsabilità di informazione, comunicazione, accompagnamento, sono alcuni tra i tentativi di ripararsi da una fatica
emotiva eccessiva e a tratti insopportabile.
Vi sono alcuni elementi che possono rendere più pesante l’impatto emotivo e il dialogo con la sofferenza della persona in fase
avanzata di malattia:
1. la modalità di gestione della malattia da parte del paziente stesso: l’angoscia, la non accettazione della malattia, a volte la persistenza di sintomi difficili da trattare, oppure un atteggiamento
di completa passività e quindi di delega al medico delle proprie
problematiche di salute o la necessità di rassicurazione continua,
aggravano il peso del confronto con la sofferenza.
2. l’impatto con una particolare aggressività o angoscia dei familiari ad appesantire il compito del medico.
3. la solitudine e il peso della responsabilità eccessiva di cui il
curante si sente caricato: il mancato sostegno culturale ed emotivo da parte degli altri membri dell’equipe, soprattutto in casi di
particolare complessità o segnati da un’angoscia particolare (per
esempio una neoplasia in un giovane, o in corso di gravidanza o
una particolare severità dei sintomi), può determinare un senso
di sopraffazione in chi è lasciato solo a supportare emotivamente il malato e a rispondere alle sue domande.
4. l’inadeguatezza culturale di fronte ad una situazione clinica
complessa (nel caso, per esempio, di un medico giovane e poco
esperto), può essere causa di grande angoscia.
Di fronte alla quotidianamente ripetuta fatica dell’interazione
con la sofferenza è possibile soccombere: è ben presente, nella letteratura scientifica, la segnalazione di una particolare vulnerabilità
dei medici a fenomeni di depressione21. Così come è diffusa la
conoscenza del fenomeno noto come “burn out” consistente in un
vero e proprio esaurimento psico-fisico e ad una reazione di rifiuto
nei confronti di ogni espressione di dolore.
21)
Schernhammer E., Taking Their Own Lives. The high rate of physician suicide. N.
Engl J Med 2005, 352: 2473-2476.
86
A fianco di queste manifestazioni estreme di disagio vi sono stili
di comportamento disfunzionale che possono essere costruiti perché fungano da protezione contro l’intrusione del dolore umano. Il
distanziamento programmato, studiato, calcolato dai pazienti è uno
di questi. E’ comune leggere sulle porte di alcuni reparti o servizi di
diagnostica, messaggi minatori nei confronti di chi osasse anche
solo sporgersi per chiedere una informazione: “E’ assolutamente
vietato entrare. Suonare e attendere. Non appoggiarsi alla maniglia”. Simili messaggi suonano come monito intimidatorio più che
comunicazioni tese a regolare i rapporti con l’utenza ed esprimono
il timore dell’intrusione, della richiesta di aiuto o anche solo di chiarimenti. Un’usanza dal significato simile è l’utilizzo esasperato di
personale di segreteria e a volte persino di segreterie telefoniche per
filtrare le chiamate, scoraggiare l’insistenza dei pazienti, creare
un’aura di preziosità e di lontananza dal paziente. Quasi che la
distanza fisica costituisse una sorta di riparo dal contagio emotivo.
Un analogo significato ha il tentativo di riempire le proprie giornate lavorative di occupazioni burocratiche ridondanti: in alcuni contesti, il succedersi di riunioni organizzative ha lo scopo recondito di
riuscire a prendere le distanze dal contatto con i pazienti.
In queste condizioni interiori il medico rifiuta più o meno deliberatamente di parlare con il paziente, magari trincerandosi dietro
all’idea che per il malato è meglio così, meglio non sapere. In realtà questo omertoso silenzio ben risponde ai bisogni, peraltro comprensibili, del medico, ma un po’ meno a quelli del paziente, che
spesso si trova isolato e vive in solitudine uno dei momenti più
drammatici dell’esistenza umana. Anche in questo caso, come nella
comunicazione delle altre notizie negative, ci sono alcuni accorgimenti che possono rendere meno impraticabile questo compito
facendo sentire i curanti più efficaci e quindi meno impotenti.
Anche se nella nostra cultura è innaturale, parlare della morte si
può. E si possono apprendere modalità e stili comunicativi che agevolino questo compito. Psichiatri, medici e psicologi che si sono
dedicati all’accompagnamento dei malati terminali concordano nel
ritenere possibile e addirittura arricchente non solo per il morente,
ma anche per l’operatore condividere l’intimità di questa esperienza estrema. Come Elisabeth Kubler Ross, Marie de Hennezel, Dale
Larson e molti altri hanno narrato nei loro saggi, dialogare con chi
87
si sta avvicinando alla conclusione della sua vita, condividerne i
dubbi e accoglierne le emozioni può diventare, seppur nel dolore,
un’esperienza trasformativa. A condizione che vi siano il tempo sufficiente, l’ambiente adeguato e il medico non sia sovraccaricato da
altre incombenze urgenti e pressanti. Vi sono inoltre alcuni fattori
che sostengono nel confronto con la morte e il morente: sapere
come affrontare un problema, sapere che altri lo hanno affrontato,
sapere che lo si sta affrontando correttamente, sapere di non essere
soli, dà sicurezza al proprio agire.
Quali sono gli strumenti che possono sostenere il medico nel
gestire la relazione con i pazienti in fase avanzata e le loro famiglie
in modo tale da non esserne invasi ma al tempo stesso mantenendo
la capacità di empatia?
• Imparare a riconoscere le proprie emozioni e ad accettare di non
essere immuni da sentimenti di rabbia, impotenza, sconforto,
desolazione e amarezza. La presa di coscienza dei propri sentimenti può essere liberante e evita il ricorso a strategie di mascheramento
• Mantenere una “giusta distanza” dal paziente evitando distanziamento o ipercoinvolgimento. Infatti, come l’evitamento del malato, anche la completa rinuncia ad ogni tipo di barriera tra sé e
l’utenza è disfunzionale. Se la propria casa diventa come una
stanza di ospedale, il proprio telefono squilla in continuazione e
ogni distinzione tra il pubblico e il privato si perde in un malinterpretato senso della compassione e della pietà, qualcosa non va.
• È utile acquisire la consapevolezza di non essere onnipotenti, né
impotenti. Non si può dare sempre una risposta risolutrice alla
domanda di protezione che viene dai pazienti, neppure d’altro
canto possiamo soccombere insieme a loro. Viviamo in un
mondo in cui pochi individui sono in grado di elaborare e affrontare con dignità l’ora della sofferenza e della morte. Pochi sono
capaci di non scaricare i sentimenti di angoscia o rabbia su chi
viene in qualche modo ritenuto responsabile della propria sofferenza. Il medico, invece, è tenuto a svestirsi di questa responsabilità e a riconoscere che non è suo compito riempire le solitudini dei pazienti; la sua mission si può realizzare mantenendo un
atteggiamento realistico ed empatico di accompagnamento giorno per giorno. Una tale consapevolezza rende più facile la
88
comunicazione di diagnosi infauste o la risposta a domande relative al decorso anche nei momenti critici.
• La condivisione della responsabilità della comunicazione.
Innanzitutto all’interno della propria équipe. Se il malato viene
gestito in modo coerente da più di una persona, se il peso della
comunicazione non viene delegato è più facile comunicare e
nessuno si troverà a sostenere da solo il peso della comunicazione (cfr cap 2).
• Anche la ricerca della competenza, tecnica e informativa, dà
sicurezza. Al contrario la paura di avere compiuto una scelta
errata, la continua incertezza nel proprio operato e il sentirsi scomodi e inadeguati nel rapportarsi all’altro, generano insicurezza
e ansia.
In tal senso possono essere utili alcuni suggerimenti22 sulla
comunicazione con il morente o comunque con chi si sta
avvicinando alla fine della sua vita:
1. parlare lentamente, in modo semplice e giorno dopo
giorno, in modo continuativo
2. mantenere un atteggiamento empatico verso le sue emozioni evitando false rassicurazioni
3. offrire una speranza, realistica e non fasulla, centrata sul
controllo del dolore
4. evitare di dire frasi rinunciatarie del tipo “non so proprio
più cosa fare”, sostituendole con l’affermazione della
disponibilità ad accompagnarlo fino alla fine, non solo
con le terapie ma anche con il dialogo e la presenza
5. porre domande aperte per comprendere quali sono i
timori e le preoccupazioni più intense del paziente in
quel momento
6. aiutare il paziente a individuare eventuali cose pratiche
in sospeso, alle quali riterrebbe importante dare un compimento
7. invitarlo a salutare e congedarsi dalle persone che ama
22)
Larson DG., Tobin DR. End of life. Conversation: evolving practice and theory.
JAMA 2000, 284: 1573 - 1578
89
• è opportuno che il medico metta in atto alcune strategie per
contrastare i rischi di burn-out:
- sostegno al malato con delicatezza ed empatia, ma senza
una eccessiva identificazione con la sua situazione
- equilibrio fra lavoro e quotidianità non professionale
- frequenti momenti di confronto con i colleghi, per
condividere pesi e responsabilità
- eventuali spazi di supervisione con un esperto
• è opportuno che il medico, riconoscendo che l’esperienza
del morire è comune a sé e al malato, cerchi di spostare lo
scopo della propria professione dal “guarire” al “prendersi
cura”
• è opportuno che il medico dia al malato che non risponde
più alle terapie, l’unica speranza ragionevole (che è una
vera speranza): quella di essere assistito fino alla fine da un
“tu” che non mente, che non scappa e che continua ad
essere aperto e disponibile al dialogo e alla comunicazione.
Secondo me…
In trincea part-time
Qualche tempo fa, ad un Congresso, ho rivisto un compagno di
corso dell’Università, con il quale passavamo spesso le serate a
discutere sul senso del nostro percorso di studi e sulla professione a
cui ci stavamo preparando. E’ stato spontaneo e bello riprendere il
filo di quelle riflessioni, ma il tempo a disposizione era troppo
breve per riuscire a raccontarci anni di vita e di lavoro. Qualche
tempo dopo mi ha scritto una bellissima lettera. Gli ho chiesto il
permesso di farla conoscere ad altri: ha consentito alla pubblicazione, purchè restasse anonima.
Gianmauro Numico, oncologo
Carissimo,
se guardo all’anno che è passato vedo la grande fatica legata al
lavoro. In questi ultimi tempi, come già ti dicevo al Congresso, per
la prima volta nella mia vita ho sentito che posso veramente mette90
re in discussione la mia scelta lavorativa. Ed è una sensazione ben
più radicata e disorientante di quando nelle nottate prima degli
esami ci fermavamo a discutere se tanta fatica e quegli studi facevano per noi. Quest’anno ho sentito la fatica come non l’avevo mai
sentita. Ho sentito che potrei non farcela più un giorno a fare quello che sto facendo. E so che quel momento potrebbe arrivare all’improvviso, inaspettato, come un tracollo travolgente e irragionevole.
Ho stentato per la prima volta a trovare motivazioni convincenti a
fare quello che faccio. Non è più bastata la motivazione “esistenziale” del condividere il cammino dell’umanità sofferente, dell’essere
dentro, essere vicino per capire di più, per crescere, per diventare
più uomo. Qualche tempo fa ho capito che per potere andare avanti dovevo ritirarmi un po’, rinunciare sistematicamente alle relazioni troppo coinvolgenti con pazienti e familiari, essere più professionale: in fondo io devo solo mettere a disposizione della gente le
possibilità attuali della medicina moderna. Dopo aver fatto questo
fino in fondo non sta a me condividere la ricerca di altro (delle terapie miracolose, della speranza nel momento del totale fallimento
terapeutico); non sta a me la risoluzione di problemi banali, non
specialistici; non sta a me, soprattutto, accompagnare i pazienti
verso l’elaborazione del lutto: in fondo se si trovano completamente impreparati di fronte all’evento malattia e morte non vedo perché
dovrei supplire io alla loro incapacità di reagire e alle lacune culturali e umane della nostra società. Dovevano pensarci prima. Dovrà
essere qualcun altro a prendersi in spalla questo fardello.
La cosa funziona e non funziona. E’ stata utile per stare meglio
con me stesso, per liberarmi dai sensi di colpa. Ma non è sufficiente. Un certo grado di “empatia” va conservato nel fare il nostro lavoro, occorre concentrazione, disponibilità ad ascoltare, a spendere
tempo, a motivare alla lotta. E’ un “ingrediente” del trattamento.
Spesso, leggendo i biglietti dei familiari dei pazienti deceduti mi
struggo nel vedere che l’oggetto del ringraziamento sono soltanto le
parole, i momenti di disponibilità (non la competenza!). Mi sono
preoccupato molto, recentemente, nel sorprendermi spesso irritato
dalle persone, dai familiari dei pazienti, dalle domande, dall’insistenza, dalla preoccupazione che quotidianamente viene riversata
su di me. E’ segno che c’è qualcosa di grave che non va. E’ segno
che vanno trovate motivazioni, spinte nuove. Oppure è meglio
91
cambiare. Cosa ne pensi? Per me è come vivere nella paradossale
situazione del soldato che alla mattina (spesso dopo sonni tormentati e risvegli improvvisi) si getta nella battaglia. Una battaglia disperata, nella quale vede intorno a se uomini, donne, bambini, famiglie
ingiustamente colpiti a morte, chiedere aiuto, cadere, disperarsi,
morire. E lui corre, rialza qualcuno per un po’, dice una parola ad
un altro, tende mani coraggiose ma sempre più stanche, tutto il giorno. Alla sera (quando non si è reperibili) il sipario improvvisamente
si chiude: via gli abiti di guerra, si ritorna in giacca e cravatta nel
mondo di prima, dei sani, dei sereni, dei ricchi, dei sicuri. Pane e
latte e poi a casa a cenare con la famiglia felice. O magari una
cenetta al ristorante, una pizza con amici. Niente in comune con il
mondo di prima, neanche il ricordo, neanche il racconto (mia figlia
di quattro anni ha già fin troppo interiorizzato il concetto della
malattia e della morte, e poi le storie dei caduti sono sempre tutte
uguali), neanche, se possibile, il pensiero.
Ma come si fa, tutta la vita? Come si fa a vivere in tutti e due questi mondi senza impazzire? Le guerre finiscono. I soldati vanno in
licenza a migliaia di chilometri dai campi di battaglia e quando
tutto è finito possono raccontare ai nipotini ricordi sfumati e ricamati di avventure finite bene, possono dimenticare. La mia, la nostra
guerra non finisce mai. Mi aspetta a 10 minuti a piedi da casa, la
vedo dal balcone quando mangio all'aperto! Come si fa a dimenticare? Sono certo che se l'uomo riesce a vivere una vita normale è
perché gli è concesso quel miracolo fantastico che è l'oblio, la
dimenticanza. Non si ricorda ogni istante che sta per morire, che il
giorno dopo potrà ammalarsi: un dolore al petto, un colpo di tosse,
un dolore alla schiena e tutto finisce. A me questo regalo non è concesso, mai o quasi mai. La lucidità della memoria è compatibile con
la vita? O almeno con una vita sana? Non parliamo poi della compatibilità con la vita familiare.
Non credo più da un po’ che la morte sia integrabile con la vita:
è piuttosto contraddizione assoluta, scandalo degli scandali. E'
come i cavi dell'alta tensione: “chi tocca muore”. Non le si può
stare vicino senza esserne feriti. Non c'è consolazione religiosa né
sostegno psicologico che tenga. Si può solo dimenticare per continuare a vivere, passare oltre, dedicarsi con tutto se stesso alla vita
che continua.
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Secondo me…
La problematicità della morte, salvo sensibilità particolari, risente dei periodi della vita: quando si è giovani, forti e baldanzosi,
poco si pensa al proprio decadimento, all’invalidità, ma col tempo
e, nella nostra realtà, il rapporto con la finitezza dell’uomo (di sé)
diventa sempre più evidente, reale, consistente.23 Quest’interrogativo non è affrontato minimamente dall’offerta mediatica odierna,
anzi accuratamente ripudiato e rimosso, e, per chi vuole, è approfondito solo con percorsi culturali particolari. Eppure l’inciso in
grassetto del documento: “… il medico, riconoscendo che l’esperienza del morire è comune a sé e al malato…” è centrale anche per
intervenire positivamente nella comunicazione24. Insomma riesco a
guardare in faccia il morituro se gradualmente imparo a guardare in
faccia la mia morte (detto così però in termini un po’ troppo perentori da un lato, e troppo “facili” dall’altro). Credo che neppure quelli che lo propugnano credano intimamente che la morte, anche
indipendentemente dalla sofferenza che la precede, sia un momento semplicemente anodino perché tanto “quando ci sono io non c’è
lei e quando c’è lei non si sono più io”, fa un po’ tenerezza Kirillof25
che la paragona ad un enorme masso in bilico di cui non si deve
aver paura perché quando ci cadrà addosso sarà talmente efficace
da essere indolore; penso che questi siano tentativi più o meno utili
per esorcizzare/liquidare il problema. A questo punto l’istinto tende
a limitare il “rapporto” al minimo: più veloce, più indolore possibile. E’ una fuga difensiva ma che, non possiamo permetterci perché,
il rapporto con il paziente è parte essenziale del nostro lavoro.
Giorgio Nova, medico internista
23)
24)
25)
“Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in quest’angolo di quest’immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po’ di tempo che mi è dato da
vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro in tutta l’eternità che mi ha preceduto e in tutta quella che mi seguirà […] tutto quel che so è
che debbo morire” (Pensieri n. 194 Blaise Pascal)
Non mi è possibile non rilevare come, parlando di comunicazione, si eviti la parola “rapporto” che invece è decisamente più coinvolgente, ma apparentemente
dimenticando che il discorso sulla “mia” salute è assolutamente coinvolgente e
pressante almeno per me, se non per il medico che me ne parla.
Infatti Kirillof (I Demoni, di Dostoevskij), per suicidarsi ci mette tutto il romanzo.
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